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1 APPUNTI DI FILOSOFIA MORALE ETHOS – abitudine ÈTHOS – luogo di vita abituale, consuetudine, costume, uso, carattere MORES – i costumi, il carattere ( morale ) ETICA Vocabolario della Lingua Italiana Treccani: «Ogni dottrina o riflessione speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo, soprattutto in quanto intenda indicare quale sia il vero bene e quali i mezzi atti a conseguirlo, quali siano i doveri morali verso se stesso e verso gli altri, e quali i criteri per giudicare sulla moralità delle azioni umane». METAETICA – designa il discorso su i discorsi etici, analizza le procedure del linguaggio e dei concetti espressi dal discorso etico. L’etica Definizione : è una parte della filosofia che studia la condotta umana , i moventi che la determinano e le valutazioni morali (bene o male, giusto o sbagliato). Socrate : è lo scopritore della ricerca interiore (conosci te stesso). La sua teoria etica è detta intellettualismo etico in quanto lui riteneva il bene attraente, quindi chi lo conosce non può non praticarlo, invece coloro che commettono il male lo fanno solo per ignoranza . Platone : si giunge alla felicità solo attraverso la conoscenza , la cui forma più elevata è la matematica . Solo il filosofo è veramente felice perché riesce a contemplare le forme e va oltre il mondo sensibile dell’esperienza quotidiana. Aristotele : la morale non è una scienza , non è soggetta a leggi assolute e rigorose, non svaluta l’esperienza (come Platone), anzi applica il metodo induttivo (dal noto e dal particolare ricava la legge generale) anche all’etica. L’etica è inscindibile dalla politica . Egli distingue due tipi di virtù : quelle etiche (sono pratiche, la più alta è la giustizia ) e quelle dianoetiche (prevedono l’uso della ragione, la più alta è la sapienza ). La virtù per Aristotele risiede nel giusto mezzo . Lo stato di natura tra etica e politica Hobbes : prima della creazione dello stato civile e delle leggi, gli uomini vivevano in uno stato di natura, nel quale prevale il diritto all’autoconservazione dei singoli: è lo stato del bellum omnium contra omnes. In questo stato di insicurezza e pericolo subentra la ragione . Gli uomini, emanando un contratto sociale , alienano i propri diritti nella figura di un sovrano in nome della propria sicurezza . Il sovrano ha poteri assoluti , può tutto sui sudditi tranne togliere loro il diritto alla sicurezza . Non stipula nessun contratto, diversamente dai suoi sudditi, quindi non ha nessun dovere nei loro confronti. Locke : lo stato di natura per Locke non è uno stato di guera e violenza, anzi gli uomini manifestano una tendenza alla socialità innata , all’interno di esso già esiste il diritto di proprietà , prima di se stessi, poi dei propri beni che sono l’estensione del corpo umano attraverso il lavoro. L’uscita dallo stato di natura nasce dall’esigenza materiale di poter scambiare ciò che ognuno individualmente produce . Il sovrano firma un contratto con i sudditi, quindi ha diritti e doveri , deve garantire i diritti già esistenti, primo tra tutti il dirtto di proprietà . Se il sovrano non rispetta i propri doveri ed infrange il contratto il popolo è legittimato a ribellarsi. L’etica, utilità e formalità L’etica utilitaristica: l’utilitarismo trova la sua formaulazione compiuta nel pensiero di J. Bentham e più avanti di J. Stuart Mill . L’utilità è la misura della felicità di un essere sensibile. Il bene è ciò che aumenta la felicità. In una dimensione sociale la finalità della giustizia diviene la massimizzazione del benessere del maggior numero di persone.

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APPUNTI DI FILOSOFIA MORALE ETHOS – abitudine ÈTHOS – luogo di vita abituale, consuetudine, costume, uso, carattere MORES – i costumi, il carattere ( morale ) ETICA Vocabolario della Lingua Italiana Treccani: «Ogni dottrina o riflessione speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo, soprattutto in quanto intenda indicare quale sia il vero bene e quali i mezzi atti a conseguirlo, quali siano i doveri morali verso se stesso e verso gli altri, e quali i criteri per giudicare sulla moralità delle azioni umane». METAETICA – designa il discorso su i discorsi etici, analizza le procedure del linguaggio e dei concetti espressi dal discorso etico. L’etica ▶ Definizione: è una parte della filosofia che studia la condotta umana , i moventi che la determinano e le valutazioni morali (bene o male, giusto o sbagliato). ▶ Socrate: è lo scopritore della ricerca interiore (conosci te stesso). La sua teoria etica è detta intellettualismo etico in quanto lui riteneva il bene attraente, quindi chi lo conosce non può non praticarlo, invece coloro che commettono il male lo fanno solo per ignoranza . ▶ Platone: si giunge alla felicità solo attraverso la conoscenza , la cui forma più elevata è la matematica . Solo il filosofo è veramente felice perché riesce a contemplare le forme e va oltre il mondo sensibile dell’esperienza quotidiana. ▶ Aristotele: la morale non è una scienza , non è soggetta a leggi assolute e rigorose, non svaluta l’esperienza (come Platone), anzi applica il metodo induttivo (dal noto e dal particolare ricava la legge generale) anche all’etica. L’etica è inscindibile dalla politica . Egli distingue due tipi di virtù : quelle etiche (sono pratiche, la più alta è la giustizia) e quelle dianoetiche (prevedono l’uso della ragione, la più alta è la sapienza). La virtù per Aristotele risiede nel giusto mezzo . Lo stato di natura tra etica e politica ▶ Hobbes: prima della creazione dello stato civile e delle leggi, gli uomini vivevano in uno stato di natura, nel quale prevale il diritto all’autoconservazione dei singoli: è lo stato del bellum omnium contra omnes. In questo stato di insicurezza e pericolo subentra la ragione . Gli uomini, emanando un contratto sociale , alienano i propri diritti nella figura di un sovrano in nome della propria sicurezza . Il sovrano ha poteri assoluti , può tutto sui sudditi tranne togliere loro il diritto alla sicurezza . Non stipula nessun contratto, diversamente dai suoi sudditi, quindi non ha nessun dovere nei loro confronti. ▶ Locke: lo stato di natura per Locke non è uno stato di guera e violenza, anzi gli uomini manifestano una tendenza alla socialità innata , all’interno di esso già esiste il diritto di proprietà , prima di se stessi, poi dei propri beni che sono l’estensione del corpo umano attraverso il lavoro. L’uscita dallo stato di natura nasce dall’esigenza materiale di poter scambiare ciò che ognuno individualmente produce . Il sovrano firma un contratto con i sudditi, quindi ha diritti e doveri , deve garantire i diritti già esistenti, primo tra tutti il dirtto di proprietà . Se il sovrano non rispetta i propri doveri ed infrange il contratto il popolo è legittimato a ribellarsi. L’etica, utilità e formalità ▶ L’etica util itaristica: l’utilitarismo trova la sua formaulazione compiuta nel pensiero di J. Bentham e più avanti di J. Stuart Mill . • L’util ità è la misura della felicità di un essere sensibile. • I l bene è ciò che aumenta la felicità. • In una dimensione sociale la finalità della giustizia diviene la massimizzazione del benessere del maggior numero di persone.

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▶ L’etica kantiana: è un’etica formale (cioè svincolata dai contenuti), la sua moralità si fonda sull’imperativo categorico : • agisci in modo che la massima della tua azione divenga legge universale; • agisci in modo di trattare l’umanità sempre come fine e mai soltanto come mezzo. È un’etica pura , cioè il suo unico movente è il dovere . Se un uomo deve , allora è l ibero . Chi agisce sencondo la legge è sempre virtuoso, ma non sempre felice, dunque è necessario ammettere l’esistenza di un Dio giusto che garantisce e concilia la felicità con la virtù nel sommo bene . La virtù in questa vita non permette di raggiungere la perfezione morale, dunque è necessario ammettere l ’ immortalità dell’anima perché solo così si avrà la possibilità di raggiungere la santità .

Nelle culture arcaiche, la morale di una determinata comunità sociale è sempre fondata su una teologia basata sul mito e sulla presunta rivelazione. La risposta dell’etica greca consistette nell’identificare il sommo bene con la felicità, anche se la definizione di felicità era varia nei contenuti. Per i Sofisti, la virtù può essere insegnata e si esplica in regole che permettono di vivere in società; essa non è legata al diritto di nascita ma coincide con comportamenti funzionali ai bisogni sociali; c’è una coincidenza tra virtù e osservanza della legge. Per Socrate, la virtù è unica e s’identifica con la conoscenza, l’azione malvagia è il frutto dell’ignoranza; questa posizione non lascia spazio alla volontà dell’azione etica; la conoscenza si esemplifica in una cura costante della propria anima che deve dominare il corpo, in ciò consiste il fine della vita. Per i Cinici, la virtù è vivere secondo i bisogni primari di natura; essa è un esercizio che deve portare a non avere bisogno di nulla e al soddisfacimento dei bisogni elementari. Per Epicuro, la natura è il fondamento della morale, ma la natura non è un ordine necessario; l’agire è legato alle passioni e all’arbitrio e non ai comandi degli dèi o all’ordine cosmico; il movente della condotta morale è la virtù che è privazione di dolore fisico e morale. Per gli Scettici, poiché la realtà non ha un significato assoluto, la felicità è data soltanto dall’apatia e dalla imperturbabilità della condotta; la ragione non va guidata dogmaticamente: i principi non comandano, ma orientano, suggeriscono ciò che è utile e opportuno. Per Platone, le virtù e la giustizia sono funzioni delle parti dell’anima; il bene è «vita mista di piacere e pensiero»; l’etica è la scienza che ha per oggetto il bene, l’idea suprema, raggiungibile con un processo d’elevazione al mondo intelligibile; guardando alle idee si possono individuare dei criteri per distinguere il giusto dall’ingiusto. Per Platone, la fondazione della polis presuppone un’operazione etica: un’intesa linguistica. E’ questo il motivo per cui occorre escludere dalla polis i retori, che muovono la gente tramite gli affetti; i sacerdoti, che parlano ex-autoritate; i poeti, che mentono troppo e lasciano oscillare i significati; sono ammessi invece i filosofi che parlano dopo avere definito cose e regole. Per Aristotele, la legittimazione della morale dipende dalla natura dell’uomo, dalle forze dell’anima; la felicità è il fine della condotta e si conforma alla natura razionale dell’uomo, la sapienza. Per gli Stoici, le regole di condotta vanno dedotte dalla struttura razionale della natura e dalla natura propria dell’uomo; occorre vivere secondo ragione; la loro è una morale che vale per tutta l’umanità e prescinde dagli usi e costumi di una singola polis; questo ideale cosmopolita si traduce nella conformità al dovere; la perfezione della ragione si esplica nella virtù, nell’attenersi aldovere. Per lo stoico imperatore Marco Aurelio, l’uomo è diretto nel suo agire dal divino presente in lui, cioè l’intelletto; egli deve sentirsi partecipe delle sorti dell’intera umanità. Per Plotino: la virtù è purificazione e liberazione dall’esteriorità e progressiva conversione nell’Uno. L’ethos dello Stato deriva dall’autolegislazione dei suoi membri, che può derivare da tre diverse attitudini fondamentali:

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1. I cittadini cedono ogni diritto al sovrano: le norme etiche risultano dal diritto positivo, cioè dalle leggi. 2. I cittadini conservano alcuni diritti inalienabili: alcune delle norme etiche precedono il diritto positivo. 3. Lo Stato non diviene altro che l’espressione della sovranità inalienabile dei cittadini: il diritto positivo discende dalla volontà etica generale. «il mondo moderno vanta almeno due significative origini precedenti l’età dei Lumi: la prima è quella della scoperta e conquista dell’America a partire dal 1492; la seconda è quella dell’asservimento della natura ad opera dell’uomo mediante la scienza e la tecnica» MOLTMANN · L’Umanesimo del XV secolo promuove la presa di coscienza della storia come di una missione tipicamente umana che si esprime attraverso le lettere. · Il Rinascimento del XVI secolo conosce un rinnovamento dello spirito dell’uomo anche per merito della scoperta delle opere degli antichi.16 · La Riforma del XVI secolo ridefinisce il principio dell’autorità, «benché i riformatori, per lo più anticopernicani e poco democratici, restassero ancora per molti aspetti legati a concezioni e modi di comportarsi medievali». · La rivoluzione scientifica dei secoli XVI e XVII muta la visione del mondo: la scienza diviene l’unico sapere oggettivo e l’avvento della tecnica trasforma il modo di vita. · L’Illuminismo del XVIII secolo può considerarsi la realizzazione intellettuale della modernità; la ragione illuminata assurge a criterio assoluto di verità, bellezza, bontà e ordine. · Con le rivoluzioni in America (1776) ed in Francia (1789) l’individuo diviene un reale soggetto politico. l’umanesimo aveva sancito il riconoscimento della centralità della persona umana nell’universo; su tale scia la modernità ha decretato la definizione dell’uomo quale soggetto razionale in un mondo di oggetti da comprendere per mezzo della ragione. BURCKHARDT «Non sorprende che la difesa della ragione liberata abbia solo dato nuova forma alle idee della divina provvidenza, piuttosto che spazzarla via. Un tipo di certezza (legge divina) è stata sostituita da

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un’altra (la certezza dei nostri sensi e dell’osservazione empirica), mentre la divina provvidenza è stata sostituita dal progresso provvidenziale. » Giddens: Eagleton: «Visto generalmente come positivistico, tecnocentrico e razionalistico, il modernismo universale è stato identificato con la fede nel progresso lineare, nelle verità assolute, nella pianificazione razionale di ordini sociali ideali e nella standardizzazione della conoscenza e della produzione.» Eagleton: «A connotare questa età sono stati, dunque, il progresso, la crescita e l’espansione, le utopie e le rivoluzioni nel segno della speranza.» Moltmann 1. J. B. Heller sostiene che la generazione dei postmoderni è la terza fra quelle che si sono succedute nel dopoguerra, quella esistenzialista e quella dell’alienazione che si è esaurita nella sua disillusione nel 1968. 2. Jean F. Lyotard fa iniziare la postmodernità negli anni ’50, che in Europa segnano la fine della ricostruzione. In seguito, però, lo stesso autore fa coincidere la nascita del postmoderno con l’evento di Auschwitz. 3. Gianni Vattimo indica il momento simbolico del passaggio epocale con la distruzione nichilistica che compie Nietzsche in Umano, troppo umano Benjamin, in un celebre frammento, ha descritto il cammino della Storia come una corsa verso il futuro che lascia dietro di sé cumuli di rovine, seppellendo le vittime cadute durante l’avanzata del progresso. «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo

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aspetto. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.» MOLTMANN Significativa è stata l’opera di Simone Weil:«L’illimitatezza, la forza, la distruzione della tradizione, lo sradicamento, temi decisivi per l’analisi del nichilismo insieme alla metamorfosi moderna della potenza, costituiscono infatti il nucleo della sua riflessione.» Per tale autrice, ebrea convertita al cattolicesimo, alla debolezza dell’uomo si affianca quella di Dio, un Dio colto come asintoto e luogo immaginario ed impensabile. La Weil contrappone questa debolezza divina alla forza mondana delle grandi Chiese. In lei è presente il concetto di malheur: la lontananza dal luogo della misura, dell’equilibrio e della riconciliazione, l’infelicità moderna per cui l’essere si allontana sempre senza possibilità di ritorno, ma sempre memore della patria lasciata: «in questo rotolare via, Simone Weil vede la condizione tipica della modernità». «Sembra dunque che il fallimento di Dio per il credente sia andato di pari passo con il fallimento, per il non credente, della ragione, e l’uno e l’altro concorrano a non lasciarci più molte illusioni sull’approssimarsi dell'età del nichilismo... Non abbiamo mai avuto difficoltà ad ammettere che la ragione non è, ma diviene. Ora apprendiamo che non è, ma diviene, anche Dio, proiettato nella Storia... Non si sta affacciando all’orizzonte di una società in angustie

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una sorta di teologia debole, che si viene stranamente affiancando al cosiddetto “debolismo” filosofico?» BOBBIO Per Lyotard83 la modernità ha prodotto delle grandi narrazioni84 (cioè concezioni globali ed ideologiche della storia con forte senso della trama e dell’organizzazione gerarchica) per orientare in modo unitario il corso della storia dell’occidente e per legittimare istituzioni, pratiche sociali e modi di pensare. Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), denunciava come insostenibili: 1. l’idea di un metodo unico (quello ipotetico-deduttivo) per l’analisi delle teorie; 2. l’idea che la scienza fosse avalutativa, cioè non influenzata dai valori. Inoltre, analizzando la storia delle scoperte scientifiche, affermava che: 1. ogni teoria è relativa ad un certo paradigma e vale solo all’interno di quel paradigma; 2. i paradigmi e le teorie conseguenti non sono neutrali, ma coinvolte in motivi psicologico-sociali. Di conseguenza, il passaggio da un paradigma ad un altro non avviene razionalmente, ma per salti fideistici Ne consegue che le diverse teorie scientifiche non sono confrontabili tra loro, in quanto mancano dei criteri oggettivi. Le teorie, sempre più, sono giudicate come interpretazioni:101 infatti, se le procedure cognitive della scienza non obbediscono ad alcun criterio riconoscibile come oggettivo, allora anche nell’ambito scientifico non ci sono più fatti, ma solo interpretazioni, si ha dunque un’ermeneuticizzazione della teoria della scienza, cioè una sua soggettivizzazione. · Il privilegio dell'esperienzale: non si tratta di credere ma di sperimentare. ·Il tentativo di autotrasformarsi grazie a tecniche psicocorporali o psicoesoteriche. · Un carattere progressista della concezione monista del mondo con il rifiuto del postulato dualista della separazione fra l'umano e il divino (concezione olistica del sacro; coscienza planetaria). · Ottimismo, anche se si tratta di un ottimismo moderato. · Primato dell'amore: un comportamento è eticamente giusto quando è ispirato dall'amore. · Esperienza di realtà non ordinarie (con un ritorno dell'interesse per esperienze occulte, psichiche, esoteriche); ricerca di una felicità privata, qui e ora». «...l’incarnazione, e cioè l’abbassamento di Dio a livello dell’uomo... andrà interpretata come segno che il Dio non violento e non assoluto dell’epoca post-metafisica ha come suo tratto distintivo quella

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stessa vocazione all’indebolimento di cui parla la filosofia di ispirazione heideggeriana;118 –ancora parla di– una concezione della secolarizzazione caratteristica della storia dell’Occidente moderno come fatto interno al cristianesimo, legato positivamente al senso del messaggio di Gesù; e una concezione della storia della modernità come indebolimento e dissoluzione dell’essere.» VATTIMO LA VERITA’ Una riflessione sul concetto di verità che sta oggi emergendo deve tenere conto dei seguenti elementi: · Le varie teologie sono la manifestazione di processi di inculturazione in corso. · I credenti, soprattutto oggi, vivono in mezzo ad una pluralità di concezioni razionali del mondo non facilmente sintetizzabili e con una forte coscienza di finitezza. · Nel relativismo contemporaneo, di cui occorre comunque tenere conto, la verità di una tradizione è interpretata come puramente immanente e legata al tempo.139 · L’idea di verità come orizzonte, che concepisce l’eternità come unico luogo della verità, significa che nessun approccio e nessun cammino può presumere di identificarsi con la verità come orizzonte. Questa contesta l’incompatibilità necessaria tra tradizioni diverse; non svuota l’idea di una fede definitiva, ma la concepisce in senso escatologico (al termine di un verso dove…) e la connette con altre verità parziali senza pretese egemoniche. · La verità è infinita e non è mai posseduta da ciò che è finito. Quando Cristo afferma di essere la verità, in realtà si definisce come rivelazione della verità e non cerca di limitarla entro gli ambiti dell’esperienza del suo insegnamento. Scrive Ricca: «Ecco perché è così difficile raggiungere la verità: non solo perché bisogna andare al fondo delle cose, ma perché bisogna andare al fondo di noi stessi. E questo non è solo difficile, è doloroso.»141 · Occorre riconoscere che c’è sempre una distanza tra la Verità e la nostra particolare verità: «Nel momento in cui la coscienza di questa distanza non è più mantenuta, divento arrogante: sappiamo bene quanti delitti sono stati commessi in nome della verità e per affermare la verità.»142 La verità in senso assoluto è più grande di ogni percezione della verità. · La verità si fa strada da sé, non s’impone. I comportamenti s’impongono, non così la fede che è un’esperienza di libertà. · Per Tommaso, «le immagini, mediante le quali la fede percepisce qualcosa, non costituiscono l’oggetto della fede, ma ciò mediante

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cui la fede tende al suo oggetto». · Nei confronti delle altre religioni, i cristiani non sempre hanno tenuto conto del fatto che la rivelazione è un atto d’amore di Dio e hanno mancato di rispetto per la ricerca dello spirito umano. · Ha scritto Kierkegaard che «chi vuole annunziare veramente qualche verità deve guardarsi dalla bramosia… di guadagnare il consenso degli uomini, come se fosse il consenso degli uomini a stabilire ciò che è vero e ciò che è falso». · Occorre anche evitare la confusione tra verità e significato: «il bisogno della ragione non è ispirato dalla ricerca della verità, ma dalla ricerca di significato. E verità e significato non sono la stessa cosa». · Il concetto di verità come asintoto od orizzonte escatologico può aiutare il percorso ecumenico: tale verità è generosa, comunitaria, accogliente, senza l’angoscia del sincretismo (che resta un pericolo), critica con se stessa. · L’integralismo implica un ripiegamento su se stessi, un rifiuto della storia e dei diritti umani fondamentali. · Occorre tenere viva la tensione tra verità e libertà. Da un lato, la libertà mette in discussione la verità della rivelazione cristiana; dall’altro, la verità rivelata mette in discussione critica la libertà storica degli uomini. · Occorre ricordare anche che l’etica è la verità tradotta in prassi, e quindi le attitudini morali dipendono dal modo di intendere la verità. · Sul piano delle convinzioni o verità dottrinali, l’approccio con l’altro dipende molto dall’esistenza o meno di una gerarchia di verità che definisce principi irrinunciabili ed attitudini o convinzioni negoziabili. Bauman: «La società attuale forma i suoi membri al fine primario che essi svolgano il ruolo di consumatori. Ai propri membri la nostra società impone una norma: saper e voler consumare… In una società dei consumi che funzioni correttamente, i consumatori si danno da fare per essere sedotti.» «...lo spirito movens dell’attività del consumatore non è più la gamma misurabile di bisogni articolati, bensì il desiderio, un’entità molto più volatile ed effimera, evasiva e capricciosa, ed avulsa dai bisogni, una forza autoprodotta e autoalimentata

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che non abbisogna di altra giustificazione o causa.» Riassumendo, la postmodernità si caratterizza per quattro grandi tematiche 1. Un modo diverso di intendere la razionalità; da qui la cosiddetta crisi della ragione. 2. La crisi del soggetto; venendo meno la coscienza dell’unità dell’io, tutti i diversi atti che erano considerati espressione del soggetto acquistano un’autonomia che li rende indipendenti gli uni dagli altri disgregando il soggetto stesso. 3. Una ridefinizione della storia e della storicità; c’è una crisi dell’idea di progresso, un galleggiare nel tempo e, talvolta, un ritorno al tempo ciclico. Scrive Vattimo: «Credo che la filosofia non debba né possa insegnare dove si è diretti, ma a vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte.»166 Nella postmodernità, all’uomo non resta che portare la sua frammentarietà temporale, che è la sua storia, al di là di ogni progetto o illusione di progresso. 4. L’esistenza di una molteplicità di punti di vista ha dato origine ad un diffuso pluralismo etico per il quale la differenza dei punti di vista è un fatto molto apprezzabile e la tolleranza è un valore essenziale Rossi ha confrontato moderno e postmoderno in un'interessante sintesi; il moderno, nell’interpretazione postmoderna, appare «1) come l’età di una ragione forte... dominata dall’idea di uno sviluppo storico del pensiero come incessante e progressiva illuminazione; 2) come l’età dell’ordine nomologico della ragione...; 3) come l’età... del pensiero inteso come accesso al fondamento; 4) come l’età dell’autolegittimazione del sapere scientifico e della piena e totale coincidenza fra verità ed emancipazione; 5) come l’età del tempo lineare...; 6) come l’età dominata dalla persuasione della positività dello sviluppo e della crescita tecnologica», per contro, il postmoderno si presenta: «1) come l’età di un indebolimento delle pretese della ragione...; 2) come l’età della plurivocità o della polimorfia o dell’emergere di una pluralità di modelli e paradigmi di razionalità non omogenei... vincolati solo alla specificità del loro rispettivo campo d’applicazione; 3) come l’età di un pensiero senza fondamenti o della decostruzione o di una critica della ragione strumentale che revoca il senso della storia e ne riconosce il carattere enigmatico; 4) come l’età in cui la scienza riconosce il carattere discontinuo e paradossale della sua propria crescita; 5) come l’età della dissoluzione della categoria del nuovo e dell’esperienza della fine della storia; 6) infine come l’età in cui scienza e tecnica appaiono rischiose. Simone Weil (1909-1943) nasce da genitori ebrei non praticanti. A 16 anni vive una forte crisi depressiva, il cui frutto più significativo è la scoperta di una personale vocazione alla verità che non l’abbandonerà più. Insegna filosofia in vari licei, con l'interruzione di due anni in cui lavora in fabbrica. Nel ’37, vive un’esperienza mistica di incontro col Cristo particolarmente intensa che indirizzerà il suo pensiero in termini decisamente spirituali. Da allora preferirà alla cultura platonico-ellenica lo studio dei principali testi sacri esistenti, dal Libro dei Morti Egiziano al Corano, dalla Bibbia alla Bhagavad-Gita. Nel ’40, abbandona Parigi a causa dell’invasione e si rifugia negli USA, da qui passa in Inghilterra dove lavora per l’organizzazione Fran ce libre e muore nel 1943. La Weil subisce dapprima il fascino del marxismo di cui tuttavia rifiuta l’autoritarismo. Si occupa di politica fin dagli anni del liceo, ma non si iscrive mai ad alcun partito. La sua militanza politica iniziale, più anarchica che marxista, trova le sue ragioni in un’ispirazione etica che la guiderà sempre a fianco

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degli oppressi. Aderisce inizialmente allo spiritualismo francese d’inizio secolo, permeato di una forte carica anti-sistematica. Successivamente la Weil svilupperà il suo pensiero che sarà sempre più caratterizzato dalle esperienze interiori. Gli anni della fabbrica danno l’avvio ad una profonda e sofferta riflessione sul senso della propria esistenza, mentre vive l’esperienza operaia come occasione d’esperienza interiore. L’idea della morte attraverserà tutta la sua vita costituendone il vettore di ricerca della verità. Scrive in una lettera: «Ho sempre pensato che l’istante della morte sia la norma, lo scopo della vita. Pensavo che, per coloro che vivono come si conviene, sia l’istante in cui per una frazione infinitesimale di tempo penetra nell’anima la verità pura, nuda, certa, eterna. Posso dire di non aver desiderato per me altro bene.» Abbandona gradualmente l’interesse politico e spinge la sua riflessione in direzione del senso dell’esistere, colto nei suoi risvolti religiosi e mistici, senza rinunciare al tentativo di tradurre il tutto in pensiero, compito che non delegò mai ad alcuna istituzione. E’ un personaggio estremamente significativo per la radicalità con cui ha vissuto la sua visione del mondo attraverso le sue trasformazioni. Come filosofa certamente non fu capita: ci fu sempre un maggior interesse per il suo vissuto. Una caratteristica della sua esistenza fu proprio quel particolare contatto col malheur, la sofferenza come realtà universale, nonché l’accettazione di esserne posseduti senza che ciò porti alla rassegnazione: «Non si tratta di cercare un rimedio contro la sofferenza, ma di farne un uso soprannaturale». Il centro del pensiero di Weil è imperniato sul concetto di decreazione, quale conseguenza diretta della creazione stessa: in merito la Weil rivela una tendenza gnostica: «La creazione è abbandono. Creando ciò che è altro da Lui, Dio l’ha necessariamente abbandonato. La creazione è abdicazione.» E ancora: «Dio si è svuotato della sua divinità e ci ha riempito di una falsa divinità. Svuotiamoci di essa. Questo atto è il fine dell’atto che ci ha creati. In questo stesso momento Dio con la sua volontà creatrice mi mantiene nell’esistenza perchè io vi rinunci. Dio attende con pazienza che io voglia infine acconsentire ad amarlo.» Decreazione, quindi, come atto di spoliazione totale e come unica via per portare a realtà quella scintilla divina presente in noi. Attraverso la Weil si stabilisce un rapporto tra la facoltà naturale dell’intelligenza e quella soprannaturale dell’amore: la prima infatti può cogliere «l’esistenza nell’anima di una facoltà superiore a se stessa, che conduce il pensiero al di sopra di essa». E’ in virtù di tale scoperta e non di alcuna costrizione esterna, che l’intelligenza umana trova in se stessa «un motivo sufficiente che la costringa a subordinarsi all’amore soprannaturale».

Relativismo etico, antidogmatismo e tolleranza

1. Il relativismo etico descrittivo

La tesi del relativismo etico descrittivo è che gli individui, e in particolare gli individui appartenenti a culture diverse, hanno opinioni morali spesso discordanti, tali per cui uno è convinto che X sia buono e un altro che X sia cattivo, uno ritiene che nelle circostanze C si debba fare Y e un altro ritiene invece che nelle circostanze C non si debba fare Y. Questa è una tesi di etica descrittiva, cioè una tesi avanzata allo scopo di riferire ciò che avviene nel mondo dei fatti, e può dunque essere considerata vera o falsa a seconda che i fatti stiano o non stiano nel modo in cui essa li rappresenta.

Per la precisione bisogna dire che questa tesi può in effetti essere proposta in più di una versione. Nella versione più semplice essa è riducibile all'asserzione che individui diversi esprimono (spesso o talvolta) giudizi morali contrastanti, ed appare dunque come un'ovvietà, perché è innegabile che individui diversi esprimano (spesso o talvolta) opinioni morali contrastanti. In altre versioni, invece, appare meno pacifica.

Ad esempio, questa tesi appare meno pacifica nella versione in cui dice che la diversità delle opinioni

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morali espresse dagli individui è determinata, almeno in alcuni casi, dalla diversità dei valori o dei principi da cui tali opinioni dipendono e in base ai quali potrebbero essere giustificate . A questa versione del relativismo etico descrittivo si contrappone infatti la posizione universalista secondo cui tutti gli individui, o meglio tutte le culture, condividono gli stessi valori o principi morali fondamentali, cioè quelli che possono essere richiamati in ultima istanza per la giustificazione dei giudizi morali, e pertanto le divergenze tra i giudizi morali che vengono avanzati dai diversi individui dipendono unicamente da disaccordi sui fatti rilevanti per la formazione e la giustificazione di tali giudizi. Si deve peraltro notare che l'universalismo etico descrittivo non è necessariamente una concezione ottimistica, secondo cui la diffusione e la crescita delle conoscenze scientifiche, producendo accordi sui fatti, è in grado di ridurre progressivamente lo spazio dei conflitti morali. Infatti, il sostenitore dell'universalismo etico descrittivo potrebbe anche ammettere che i disaccordi sui fatti che determinano la diversità delle opinioni morali non possano essere tutti risolti dalla crescita delle conoscenze empiriche, poiché alcuni di questi riguardano l'esistenza di divinità e il contenuto dei loro comandi.

2. Il relativismo metaetico

Dal relativismo etico descrittivo deve essere distinto il cosiddetto relativismo metaetico, cioè la posizione secondo cui la correttezza, validità o verità dei giudizi morali dipende da criteri che possono essere diversi per individui diversi, ovvero per individui che appartengono a culture diverse. Secondo questa posizione, la correttezza, validità o verità dei giudizi morali è non oggettiva o assoluta, ma relativa a un contesto o a un insieme di criteri o coordinate; vi è una pluralità di contesti possibili; non vi sono criteri indipendenti da questi contesti per mostrare la superiorità di uno di questi contesti sugli altri.

Il relativismo metaetico comprende una varietà di posizioni, e qui sarà opportuno precisare che possono essere considerate relativiste teorie metaetiche di diverso tipo: da un lato teorie metaetiche naturaliste, ed oggettiviste per quanto riguarda la verità dei giudizi etici, dall'altro lato teorie metaetiche non naturaliste e non oggettiviste . Le teorie metaetiche naturaliste possono essere considerate relativiste se attribuiscono ai termini etici fondamentali un significato tale per cui giudizi come «È bene fare X» o «È giusto fare X» risultano veri o falsi in relazione a chi li proferisce o li valuta in vista di una possibile accettazione. A questo riguardo, un esempio è costituito dalla teoria secondo cui 'buono' ha un significato tale per cui dire che un'azione X è buona equivale a dire che X è un'azione che non ci piace; un altro esempio è costituito dalla teoria secondo cui 'giusto' ha un significato tale per cui dire che un'azione X è giusta equivale a dire che X è conforme alle consuetudini seguite dal gruppo al quale si appartiene. Una teoria metaetica non naturalista è invece relativista se assume che siano variabili le ragioni ultime, cioè i valori o principi fondamentali, utilizzabili da individui o gruppi diversi per giustificare i propri giudizi morali, e che dunque che siano variabili, da individuo a individuo o da gruppo a gruppo, i criteri di correttezza, validità o verità di questi giudizi.

La diversità tra queste teorie è evidente. Secondo le teorie relativiste naturaliste i giudizi morali sono "oggettivamente" veri o falsi e tuttavia è possibile che individui diversi esprimano giudizi morali veri e divergenti: ad esempio, secondo la teoria per cui dire che un'azione è buona equivale a dire che quell'azione ci piace, è possibile che l'affermazione di Tizio che l'azione X è buona e l'affermazione di Caio che l'azione X non è buona, pur essendo in un certo senso divergenti, siano entrambe "oggettivamente" vere, perché è possibile che effettivamente a Tizio piaccia X ed a Caio non piaccia X. Secondo una teoria relativista non naturalista, invece, la verità dei giudizi morali è non "oggettiva", ma relativa agli insiemi di valori o principi fondamentali in base ai quali i diversi individui giustificano (o giustificherebbero, nel caso in cui fosse loro richiesto) i loro giudizi morali: ad esempio, il giudizio secondo cui l'azione X è buona può essere al tempo stesso vero in relazione all'insieme di valori o principi fondamentali di Tizio e falso in relazione all'insieme di valori o principi fondamentali di Caio.

Le teorie relativiste naturaliste vanno incontro alle consuete obiezioni che possono essere rivolte alle metaetiche naturaliste. A queste teorie si può ad esempio obiettare che appare perfettamente sensato dire «Faccio X non perché mi piace, ma perché è bene agire così», oppure «So che fare X è contrario alle consuetudini della mia comunità, ma farò X perché è giusto agire così» e che, in definitiva, ogni definizione naturalista dei termini etici fondamentali è resa problematica dalla possibilità di negare sensatamente che una qualche azione, pur soddisfacendo le condizioni stabilite dalla definizione, sia buona, giusta o doverosa. Per le difficoltà in cui incorrono e per il fatto di non essere oggi molto diffuse, non terrò conto di queste

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teorie nella discussione che segue.

Più diffuse appaiono le teorie relativiste non naturaliste, delle quali bisogna rilevare la prossimità alle teorie metaetiche scettiche, cioè alle teorie secondo cui i giudizi morali non sono veri né falsi, perché non si riferiscono a fatti e costituiscono semplicemente l'espressione di emozioni o sentimenti individuali. Infatti, l'idea secondo cui i giudizi morali non sono veri né falsi non è troppo diversa dall'idea secondo cui ogni giudizio morale può essere al tempo stesso vero e falso, perché giustificabile sulla base dei valori o principi fondamentali adottati da alcuni individui e non giustificabile sulla base dei valori o principi fondamentali adottati da altri individui.

Si deve comunque notare che il relativismo metaetico sembra talvolta presentarsi, nelle pagine dei suoi sostenitori, anche in una versione che lo rende abbastanza ben distinguibile dallo scetticismo metaetico. La versione in cui non è ben distinguibile dallo scetticismo metaetico è quella per così dire individualista, secondo cui i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli adottati dai singoli individui che esprimono tali giudizi: non sembrano infatti esservi grandi differenze tra l'idea che i giudizi morali non siano veri o falsi e l'idea che la verità dei giudizi morali dipenda da criteri puramente soggettivi. La versione che sembra meglio distinguibile dallo scetticismo metaetico è quella per così dire culturalista, secondo cui i principi o valori fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli propri delle culture alle quali appartengono gli individui che esprimono tali giudizi: questa versione fa infatti dipendere la verità dei giudizi morali da criteri non puramente soggettivi, ma intersoggettivi e pubblici (sebbene contingenti e non universali).

Il problema è però che questa seconda forma di relativismo o è, al di là delle apparenze, riducibile alla prima oppure è difficilmente sostenibile, e per più di una ragione. La versione culturalista è infatti riducibile alla versione individualista se alla tesi di quest'ultima, cioè alla tesi secondo cui i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli adottati dai singoli individui che esprimono tali giudizi, si limita ad aggiungere l'asserzione (vera o falsa a seconda che corrisponda o non corrisponda ai fatti) che individui appartenenti alla stessa cultura condividono in genere gli stessi valori o principi fondamentali. La versione culturalista si distacca invece dalla versione individualista, e risulta effettivamente ben distinguibile dallo scetticismo metaetico, se assume che le culture abbiano una sorta di autorità per quanto concerne i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali, cosicché il giudizio morale di Tizio deve essere considerato vero o falso a seconda che soddisfi o non soddisfi i criteri propri della cultura cui Tizio appartiene e non quelli, eventualmente diversi, che Tizio potrebbe eventualmente adottare. I problemi che comporta questa versione sono però evidenti. Anzitutto non è chiaro se e come sia possibile tracciare precise linee di confine tra le diverse culture, in modo da includere nell'una o nell'altra cultura ogni individuo che esprima giudizi morali. Inoltre non è chiaro se e come sia possibile individuare con sufficiente precisione i valori o i principi morali fondamentali propri di una cultura, visto che in molte culture (comunque queste siano delimitate) sembrano convivere individui provvisti di opinioni morali profondamente diverse. Infine, non è chiaro come sia possibile conferire il valore di criteri di verità ai valori o principi morali propri delle culture e non a quelli adottati dai singoli individui, dato che la questione della verità dei nostri giudizi non sembra concepibile come una questione risolvibile in base a principi di autorità o a regole di maggioranza.

Bisogna dunque concludere che il relativismo metaetico, nella sua variante più persuasiva, è sostanzialmente affine allo scetticismo metaetico. A suo sostegno, così come a sostegno dello scetticismo metaetico, possono essere addotte varie ragioni, e prima tra tutte l'assenza di un mondo di fatti morali che consenta di verificare i giudizi morali nel modo in cui il mondo fisico consente di verificare le asserzioni relative sui fatti. Varie sono però anche le ragioni per cui può essere considerato insoddisfacente.

3. Il relativismo etico normativo

Il relativismo etico normativo consiste in una dottrina morale, o meglio in una famiglia di dottrine morali. Adottare la posizione del relativismo etico normativo significa dunque avere determinate convinzioni o credenze morali, condividere determinati giudizi riguardo al modo in cui è bene, giusto o doveroso agire.

Del relativismo etico normativo bisogna anzitutto distinguere una possibile variante che fa riferimento agli individui e un'altra che fa riferimento a gruppi. Secondo la prima, ognuno deve agire (o è bene o giusto che agisca) in conformità con le proprie idee di come si deve (o è bene o giusto) agire. Secondo l'altra variante,

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ognuno deve agire (o è bene o giusto che agisca) in conformità con le idee di come si deve (o è bene o giusto) agire condivise all'interno del proprio gruppo, comunità o cultura, ovvero seguendo le regole ivi accettate e osservate. Poiché la variante che fa riferimento a gruppi appare più diffusa, qui non terrò conto di quella che fa riferimento a individui.

Della variante che fa riferimento a gruppi sono possibili una pluralità di versioni. In primo luogo, infatti, possono essere caratterizzati diversamente i gruppi alle cui opinioni morali o norme l'individuo deve adeguarsi: questi gruppi possono ad esempio essere identificati con comunità statali oppure con gruppi culturali. E vale la pena di osservare che, se questi gruppi sono identificati con comunità statali, il relativismo normativo finisce col coincidere con il cosiddetto giuspositivismo etico, cioè con la concezione secondo cui in ogni circostanza è giusto o doveroso osservare le norme dall'ordinamento giuridico cui si è soggetti, quale che sia il loro contenuto .

In secondo luogo, bisogna rilevare che il relativismo normativo può presentarsi in una versione elementare (e meno diffusa) e in una versione più complessa, rispettosa dei confini tra comunità o culture. La versione elementare è quella secondo cui gli individui devono agire osservando le norme vigenti nel territorio della comunità o nel gruppo che li accoglie. La versione più complessa è quella secondo cui gli individui devono agire osservando le norme vigenti nel territorio della comunità o nel gruppo che li accoglie solo entro i confini di questo territorio o all'interno di questo gruppo, cioè senza interferire con l'azione di altri individui che in altri territori o all'interno di altri gruppi seguano le norme ivi vigenti. La differenza tra le due versioni è evidente: la prima, diversamente dalla seconda, conferisce validità ad ogni norma vigente in ogni comunità di un certo tipo. Infatti, se nella comunità C vige la norma N secondo cui ci si deve impossessare delle teste degli individui appartenenti ad altre comunità, la prima variante dice che N deve essere osservata da tutti gli appartenenti alla comunità C; la seconda variante dice invece che N non deve essere osservata dagli appartenenti alla comunità C (tranne nel caso, assai improbabile, in cui in altre comunità sia vigente la norma secondo cui ci si deve far tagliare la testa dai membri di C).

Al relativismo etico normativo si contrappone l'universalismo etico normativo. Riguardo a questa contrapposizione, bisogna però chiarire due aspetti: il primo è che anche il relativismo metaetico è in un certo senso una dottrina universalista; il secondo è che anche l'universalismo normativo può imporre obblighi o conferire diritti non a tutti gli individui, ma solo ad alcuni che siano provvisti di determinati caratteri o che si trovino in determinate situazioni.

Il relativismo etico normativo è, in un certo senso, una dottrina universalista, in quanto necessariamente assume che sia valida una norma universale: nella variante elementare, assume che sia valida la norma universale secondo cui tutti gli individui devono osservare le norme vigenti nella propria comunità o nel proprio gruppo; nella variante rispettosa dei confini tra culture o comunità, assume invece che sia valida la norma universale secondo cui ognuno deve osservare le norme vigenti nella propria comunità o nel proprio gruppo unicamente entro il territorio di questa comunità o nei rapporti con i membri di questo gruppo.

L'universalismo normativo non necessariamente impone obblighi o conferisce diritti a tutti gli esseri umani, perché le norme universali che assume come valide non necessariamente impongono obblighi e/o conferiscono diritti incondizionatamente a tutti gli individui: la maggior parte delle dottrine universaliste assumono infatti che siano valide anche norme universali che impongono obblighi e conferiscono diritti (non a tutti incondizionatamente, ma) a tutti a coloro che presentano determinate proprietà, ossia a questi soltanto. Da un lato, è possibile che una dottrina universalista assuma che siano valide norme che impongono obblighi o conferiscono diritti a tutti coloro che hanno generato un figlio, cioè ai soli genitori, o a tutti coloro che siano di sesso femminile, cioè alle sole donne, o a tutti coloro che svolgano un certo lavoro, cioè ad esempio ai soli giornalisti o ai soli avvocati, ecc. E dunque è anche possibile che una dottrina universalista imponga un obbligo solo a coloro che si trovano in società provviste di determinati caratteri, nell'ambito di culture provviste di determinati mezzi tecnici e non di altri, entro comunità stanziate in territori provvisti di determinati beni e non di altri, ecc. Dall'altro lato, è possibile che una dottrina universalista fornisca un fondamento ad alcune forme di potere, ad esempio al potere democratico, e quindi conferisca validità anche alle norme prodotte da queste forme di potere. Tradizionalmente, alcune dottrine di questo genere hanno sostenuto che gli esseri umani devono seguire le norme giuridiche vigenti nel territorio in cui vivono, ma solo fin quando tali norme non siano contrastanti, o non siano eccessivamente contrastanti, con determinati principi morali fondamentali. È peraltro evidente che una dottrina morale universalista non può sostenere, dovendo distinguersi dal relativismo, che debbano essere seguite, a

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prescindere dal loro contenuto, tutte le norme prodotte da qualsiasi forma di potere si sia imposta in un territorio o entro un gruppo culturale.

4. Il bello del relativismo?

Chi si dichiara relativista sembra spesso convinto del fatto che la diffusione di idee relativiste abbia conseguenze apprezzabili sull'azione e sugli atteggiamenti degli individui. Credo che la distinzione dei tre tipi di relativismo etico sia utile per mostrare che questa convinzione dipende probabilmente da equivoci.

È possibile che la tesi del relativismo etico descrittivo, in qualcuna delle sue possibili versioni, sia vera: ad esempio, è possibile che davvero individui diversi adottino valori morali differenti e che dunque i conflitti morali non dipendano solo da disaccordi su determinati fatti rilevanti. Se questa tesi è vera, allora indubbiamente si pongono per la nostra azione problemi diversi da quelli che si porrebbero se la tesi fosse falsa. Però è altrettanto indubbio che da ciò non segue nulla per quanto concerne il modo in cui dobbiamo agire.

Alcuni ritengono che il relativismo metaetico e lo scetticismo metaetico siano posizioni da preferire a quella dell'oggettivismo metaetico. Come ho già detto, una discussione a questo riguardo non è qui possibile; ciò che conta è comunque che neppure da queste posizioni discende una qualche indicazione per la nostra azione. Il relativismo metaetico e lo scetticismo metaetico forniscono infatti una risposta non alla domanda di come si deve agire, ma alla domanda se e in che senso i giudizi morali possano essere considerati veri o falsi.

Evidentemente, il solo tipo di relativismo in grado di orientare la nostra azione è il relativismo etico normativo, cioè una particolare dottrina morale. Ma questa dottrina morale può ritenersi fondata o in qualche modo attraente? Non solo è possibile dubitarne; è anche ragionevole credere che in effetti non siano molti, anche tra coloro che si dichiarano relativisti, quelli che davvero sarebbero disposti ad accettare il relativismo etico normativo in tutte le sue implicazioni.

Abbastanza frequentemente i sostenitori del relativismo sembrano ritenere che il relativismo etico normativo sia una conseguenza necessaria del relativismo etico descrittivo e/o del relativismo metaetico. Sembra cioè che essi ragionino più o meno così: individui diversi, o culture o popoli diversi, hanno credenze morali irriducibilmente diverse; dunque, si deve ritenere che i giudizi morali non siano oggettivamente veri o falsi, ma siano veri o falsi solo in relazione a un insieme di credenze morali fondamentali adottato da un individuo o da una cultura o da un popolo ecc. (oppure, si deve dunque ritenere che i giudizi morali non siano veri né falsi); dunque, ognuno deve seguire le regole della propria cultura o comunità senza interferire nelle attività delle altre culture o comunità. Questo ragionamento è però sbagliato. Dall'osservazione che gli individui hanno opinioni morali contrastanti non segue infatti che i giudizi morali non siano oggettivamente veri o falsi, così come dall'osservazione che gli individui hanno credenze diverse sull'origine dell'universo o sulle cause di alcune malattie non segue che le asserzioni degli astronomi o dei biologi non siano oggettivamente vere o false. E neppure si può asserire che la prescrizione secondo cui gli individui devono osservare le regole della propria cultura o comunità discenda dall'osservazione che gli individui di culture o comunità diverse hanno opinioni morali contrastanti o dall'assunzione secondo cui i giudizi morali non sono oggettivamente veri o falsi. Vi è certamente un legame tra il relativismo etico normativo ed il relativismo etico descrittivo, ma solo in quanto il primo presuppone una qualche forma del secondo, dato che la prescrizione secondo cui ognuno deve osservare le regole della propria cultura o comunità non sarebbe sensata se non vi fossero culture o comunità distinte provviste di regole diverse. Nessuna relazione necessaria può invece essere individuata tra il relativismo etico normativo e le concezioni metaetiche del relativismo e dello scetticismo: si potrebbe semmai sostenere che uno scettico coerente, se davvero ritiene che i giudizi morali costituiscano solo l'espressione di emozioni e sentimenti, dovrebbe esprimere i propri sentimenti ed emozioni senza mascherarli dietro il linguaggio della morale, cioè rinunciare ad avanzare giudizi morali e a dare il proprio sostegno a dottrine morali, siano queste universaliste o relativiste.

Le attrattive del relativismo etico normativo appaiono abbastanza diverse a seconda che prendiamo in considerazione la variante elementare di questa dottrina o la variante complessa, rispettosa dei confini tra comunità o culture. La variante elementare, infatti, nega tutto ciò che siamo soliti ritenere provvisto di valore morale, in quanto conferisce valore a tutto ciò che in ogni possibile cultura o comunità potrebbe essere considerato provvisto di valore: all'imperialismo e al bellicismo così come al pacifismo,

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all'intolleranza così come alla tolleranza, e poi alla diseguaglianza, allo sfruttamento, al razzismo, ecc. La variante complessa, invece, accoglie almeno uno dei nostri valori: una certa forma di tolleranza, consistente nella non interferenza, tra le diverse culture o comunità.

Ma, tutto considerato, anche la variante complessa può difficilmente essere considerata attraente. Essa consente la convivenza pacifica tra le diverse culture o comunità, ma a ciò sacrifica ogni altra cosa. Anch'essa infatti legittima ogni forma di intolleranza, diseguaglianza, sfruttamento e razzismo, purché permanga all'interno della cultura o comunità che la accoglie . Inoltre, essa delegittima ogni tentativo di mutare le regole delle diverse culture, a meno che questi tentativi non siano consentiti da queste stesse regole: cioè condanna ogni aspirazione ad una diversa società che sia condannata dalla società stessa in cui sorge e si manifesta. Come è stato sottolineato più volte, il relativismo etico normativo consiste in una dottrina morale conservatrice e conformista .

Inoltre, il relativismo etico normativo, quale che sia la variante presa in considerazione, o fa riferimento alle regole poste nell'ambito di comunità statali, e come ho già accennato coincide quindi con il giuspositivismo etico, o si basa su una concezione piuttosto dubbia delle culture. Infatti, nel prescrivere a ogni individuo di osservare le tradizioni o le regole della propria cultura, presuppone che sia possibile tracciare confini rigidi e precisi tra le diverse culture, come se queste fossero entità ben distinguibili e non fenomeni caratterizzati da fluidità e da compenetrazione. E sulla base di questo presupposto inevitabilmente assoggetta un gran numero di individui a culture o tradizioni in cui non si riconoscono.

5. Relativismo etico, antidogmatismo, tolleranza, pacifismo

Il relativismo viene talvolta considerato attraente in quanto viene confuso con l'antidogmatismo, cioè con l'atteggiamento di chi non erige le proprie convinzioni a dogmi inattaccabili dalla critica ed è pronto a rivederle alla luce delle convinzioni altrui, mostrandosi così disponibile al dialogo e attento alle ragioni degli altri. A questo riguardo si può rilevare da un lato che appare inopportuno chiamare relativismo l'antidogmatismo e dall'altro lato che l'antidogmatismo, così come il dogmatismo, non è implicato da alcuna delle tre posizioni del relativismo etico che prima ho distinto, né peraltro dalle posizioni che a queste si contrappongono. Chi adotta il relativismo etico descrittivo può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico, così come chi adotta l'universalismo etico descrittivo. Chi adotta il relativismo metaetico può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico allo stesso modo di chi adotta l'oggettivismo metaetico. Infine, anche chi adotta il relativismo etico normativo, cioè chi adotta una dottrina morale relativista, può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico, cioè pronto a mutare la propria dottrina morale, non diversamente da chi adotta una dottrina morale universalista.

Qualcuno sembra però credere che le convinzioni morali degli altri siano più facilmente apprezzabili da chi ritiene che non vi siano verità assolute in etica, e che dunque il relativismo metaetico, anche se non implica l'antidogmatismo, favorisca comunque atteggiamenti antidogmatici meglio dell'oggettivismo metaetico. Anche quest'idea, però, è ragionevolmente sbagliata e si può anzi sostenere che è l'oggettivismo, e non il relativismo metaetico, a rivelarsi più favorevole all'antidogmatismo. Per l'oggettivismo, infatti, la questione se un certo giudizio morale sia vero o falso non è una questione privata di colui che proferisce il giudizio, risolvibile guardando alla coerenza di questo con l'insieme delle credenze morali fondamentali del parlante, ma è una questione in un certo senso pubblica, perché un giudizio vero è un giudizio che deve essere accettato da tutti e che non può che imporsi a tutti per le ragioni che lo fondano. Chi adotti la posizione oggettivista sarà dunque spinto a prendere in considerazione i giudizi morali avanzati dagli altri e le ragioni con cui questi sono giustificati, per valutare se tali giudizi, date le ragioni che li sorreggono, siano migliori candidati alla verità dei propri. Per il relativismo, invece, la questione se un certo giudizio morale sia vero o falso è in un certo senso una questione privata di colui che proferisce il giudizio, poiché questo sarà probabilmente vero per il parlante, cioè sulla base delle credenze morali fondamentali che egli adotta (e presumibilmente falso sulla base di altre credenze morali fondamentali che altri adottano o potrebbero adottare). Chi adotti la posizione relativista, dunque, non ha particolari motivazioni a prendere in considerazione i giudizi morali avanzati dagli altri e le ragioni con cui questi sono giustificati: la questione se questi giudizi, date le ragioni che li sorreggono, siano candidati alla verità migliori dei propri giudizi difficilmente si pone là dove si ritiene che ogni individuo abbia le proprie verità. Ancor meno propenso a valutare i propri giudizi morali confrontandoli con quelli degli altri sarà poi chi adotta la posizione dello scetticismo metaetico: per chi è convinto che i giudizi morali esprimano solo sentimenti ed emozioni,

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ovvero gusti personali, non sembra infatti ragionevole intavolare una discussione al fine di individuare il giudizio morale migliore, cioè sorretto più solidamente da ragioni (come è noto, è inutile disputare intorno ai gusti).

Un'altra attrattiva del relativismo viene talvolta individuata nella tolleranza, poiché ad alcuni sembra che il relativismo, in qualcuna delle sue forme, implichi la tolleranza. A questo riguardo abbiamo già visto che il relativismo etico normativo, in una sua versione, prescrive effettivamente una certa forma di tolleranza, in quanto prescrive ad ogni cultura di non interferire negli affari delle altre culture. Certamente, però, il relativismo normativo non prescrive, in nessuna delle sue forme, la tolleranza alla quale siamo soliti attribuire valore, cioè la non interferenza del potere in determinati ambiti dell'azione umana, come quelli della manifestazione del pensiero o della religione: esso conferisce infatti validità alle regole di ogni possibile cultura, a prescindere dalla questione se queste garantiscano o non garantiscano la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa o qualunque altra libertà.

Un'idea piuttosto diffusa è che il valore della tolleranza presupponga il relativismo metaetico o lo scetticismo metaetico, perché solo dalla convinzione che in etica vi siano molte verità o nessuna verità può seguire l'idea che non vi è alcuna ragione per imporre agli altri le nostre credenze morali o determinati comportamenti che ci appaiono giusti. Anche questo modo di pensare, però, è evidentemente sbagliato: relativismo metaetico e scetticismo metaetico non implicano alcun valore particolare, e dunque neppure il valore della tolleranza .Per contro, chi ritenga che il valore della tolleranza sia provvisto di un fondamento oggettivo, e dunque debba essere adottato da tutti, si porrà inevitabilmente nell'ambito dell'oggettivismo metaetico .

Alcuni sembrano infine ritenere che dal relativismo segua il pacifismo e dal suo opposto la legittimazione della guerra, almeno in alcune circostanze. In particolare vengono addossate responsabilità belliche alle dottrine morali universaliste che fanno proprio il valore della democrazia o l'idea dei diritti umani. Anche questa posizione, però, è evidentemente sbagliata. Da un lato è vero che il relativismo etico normativo assicura la pace tra le diverse culture (mentre ciò non è evidentemente assicurato né dal relativismo etico descrittivo né dal relativismo metaetico). Dall'altro lato, però, è falso che l'universalismo etico normativo legittimi necessariamente la guerra in qualche circostanza. Le dottrine morali universaliste possono infatti essere le più varie quanto al contenuto, e dunque possono essere le più varie anche le posizioni che da esse discendono riguardo alla legittimità della guerra nell'una o nell'altra circostanza.

Neppure si può sostenere che la guerra sia necessariamente legittimata da dottrine universaliste che facciano proprio il valore della democrazia o l'idea dei diritti umani. Se e in quali circostanze la guerra sia legittima dipende, ancora, dal contenuto complessivo di queste dottrine. È certamente probabile che dottrine di questo genere consentano azioni e interventi volti a favorire l'instaurazione di regimi democratici o a garantire la protezione dei diritti umani. Ma questi non saranno necessariamente interventi bellici: sono indubbiamente possibili dottrine universaliste che in ogni circostanza (o in quasi tutte le circostanze) consentano solo forme di intervento che sarebbero giudicate favorevolmente dalla maggior parte dei pacifisti.

La questione del relativismo tra filosofia e dibattito pubblico

1. Il puro e l'impuro

Il relativista a buon mercato è ansioso di tradurre il proprio punto di vista in atteggiamenti pratici, in prese di posizione definite in ambito politico. Ma il relativismo può essere formulato anche in una prospettiva del tutto diversa: cioè, come una tesi concernente la natura delle norme morali che non ci dice di per sé nulla su quali norme debbano o possano essere adottate. Inoltre, si può essere relativisti in etica anche senza respingere in blocco l'idea di una verità oggettiva e assoluta. Il relativista a buon mercato tipicamente ignora questa distinzione; ma c'è invece chi ne tiene conto, sostenendo contemporaneamente l'oggettività dei fatti e la soggettività e relatività dei valori. «La concezione soggettivistica dei valori appare [...], almeno a prima vista, molto più plausibile. La ragione di questa apparente plausibilità è che, nel caso dei valori, sembra che non abbiamo un'analoga distinzione tra il valore intrinseco di qualcosa e la nostra opinione sul suo valore. [...] Le cose sono "là fuori", e sono come sono indipendentemente da quel che ne possiamo pensare noi; i valori, invece, non sono "là fuori" indipendentemente dal fatto che noi li attribuiamo (o, almeno, li riconosciamo). O così ci sembra a prima vista» . Naturalmente, quest'ultima frase suggerisce che in realtà le cose non stanno come ci sembra a prima vista, e che quindi anche i valori sono oggettivi, sono quello che

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sono a prescindere dalle nostre opinioni in proposito. Sebbene capiti di rado che le opinioni etiche, politiche o religiose possano essere giustificate in modo tale da guadagnare ad esse un consenso generalizzato, ciò «non equivale a una dimostrazione che in questi ambiti la conoscenza sia impossibile e la discussione infondata» . Il «soggettivismo nichilistico» o semplicemente «nichilismo». L'idea è che, da un lato, qualcosa sia un valore per un soggetto X solo se X lo riconosce come tale, e che, dall'altro, il riconoscimento da parte di X di qualcosa come un valore sia determinato completamente dalla biologia, dalla psicologia, dalla storia personale di X; sicché in definitiva «è un mero fatto - l'effetto di un processo causale - che qualcosa sia un valore per qualcuno» . Il nichilismo, conferisce al relativismo etico un contenuto abbastanza preciso, ma ne costituisce anche una versione particolarmente problematica: infatti, «l'operazione nichilistica sui valori, in buona sostanza, abolisce la dimensione morale dell'esistenza e svuota il vocabolario dell'etica» . Perché? Perché il nichilismo implica che «non ci sono propriamente valori, ma soltanto preferenze (individuali o collettive) determinate da varie circostanze» e che le opzioni in campo etico sono in definitiva come le scelte dettate dal gusto: « Si scelgono i valori come si scelgono le marche di sigarette o gli abiti da indossare» .

Non è vero - si potrebbe essere tentati di rispondere - che il nichilista sia costretto ad assimilare l'adesione ai valori morali alle mere scelte di gusto, perlomeno se, queste ultime sono concepite come cose di scarsa importanza. Anche l'oggettivista etico più convinto - si potrebbe dire - deve ammettere che le nostre esistenze sono in larga misura plasmate dalla nostra costituzione fisica e psicologica e dalla nostra storia personale: chi negherebbe mai che questi fattori, agendo per via causale, concorrano a determinare non solo dettagli marginali come la predilezione per un tipo di sigarette o un certo hobby, ma il nostro intero stile di vita, le nostre simpatie e antipatie più radicate, i nostri odi e amori più intensi e profondi? Chi negherebbe mai che fattori puramente causali intervengano a costituire il nostro stesso senso di identità personale? Ma allora - si potrebbe concludere - che cosa c'è di così assurdo nell'idea che anche l'adesione a certi valori morali piuttosto che ad altri sia determinata da cause dello stesso tipo?

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Si noti: i "valori" del nichilista non perdono la loro natura di valori perché non siano più in grado di orientare il comportamento di chi li riconosce. Gusti e preferenze possono condizionare il comportamento al massimo grado. [...] I gusti sono in questo senso impegnativi quanto i valori. Non sono, però, impegnativi sul piano specificamente morale .

Presentare una scelta come determinata casualmente da fattori "oggettivi" riduce la nostra responsabilità, e soprattutto dissocia la scelta da ogni giudizio di superiorità sull'oggetto della scelta [...] Una scelta motivata soltanto dai propri gusti non implica alcun giudizio di valore su ciò che viene scelto, né di disvalore su ciò che viene scelto. Allo stesso modo, se una scelta è determinata soltanto da circostanze oggettive - biografiche, ambientali, sociologiche - essa non implica alcun giudizio di valore .

Dunque, sebbene alcuni dei suoi esempi siano da questo riguardo un po' fuorvianti, il contrasto tra valori morali e gusti che, rende assurdo il nichilismo non è costituito da un diverso grado di radicamento nella nostra psiche o di incidenza sui nostri comportamenti; è invece una differenza intrinseca e irriducibile concernente il tipo di giudizi attraverso i quali l'adesione ai valori morali e le preferenze di gusto rispettivamente si esprimono e il tipo di impegni che, tramite la formulazione di questi giudizi, si contraggono.

Una volta chiarito questo, però, c'è ancora spazio per una difesa del nichilismo. Ammettiamo pure che, i giudizi morali - per il nostro modo di intenderli, per il tipo di giustificazioni che ne diamo e le conseguenze che ne traiamo - debbano essere classificati in una categoria nettamente distinta da, e non riducibile a, quella dei giudizi di gusto (o più in generale dei giudizi per mezzo dei quali diamo voce a predilezioni dichiaratamente soggettive). La cosa è plausibile. C'è, intuitivamente, un divario netto tra il dire, da un lato, "Detesto le fragole" o "Mi piace la montagna" e il dire, dall'altro, "Si devono aiutare i più deboli" o "E' male non mantenere la parola data": in particolare, io posso rendere conto esaurientemente delle due prime affermazioni menzionando una mia caratteristica fisica (sono allergico alle fragole) o certi dati autobiografici (quando da bambino mi portavano in vacanza in montagna, mi ci divertivo più che al mare); nel caso dei giudizi morali, considerazioni del genere sarebbero una giustificazione inadeguata e

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rischierebbero anzi di suonare incongrue. Benissimo. Ma da ciò segue forse che il nichilista, per il fatto di sostenere che anche l'adesione ai valori morali è determinata, in fondo, dalla nostra costituzione psico-fisica e dalla nostra storia personale, «abolisce la dimensione morale dell'esistenza e svuota il vocabolario dell'etica»? Non necessariamente. La tesi del nichilista è, in realtà, compatibile con il riconoscimento della specificità e irriducibilità del linguaggio morale e del sistema concettuale che lo sottende.

Per chiarire i termini della questione, torna buono l'esperimento mentale seguente. Immaginiamo una comunità i cui membri siano abituati a fare riferimento a due elenchi - A e B, diciamo - che includono ciascuno cose assai disparate: animali, piante, oggetti, alimenti, luoghi, attività, stati in cui un individuo può occasionalmente trovarsi, ecc. Le cose nell'elenco A sono dette "pure", quelle nell'elenco B "impure". Questa classificazione ha conseguenze importanti per la vita della comunità: essa induce a forme di comportamento anche molto complesse che rispecchiano, parlando in generale, un atteggiamento positivo nei confronti delle cose che figurano nel primo elenco, e un atteggiamento negativo nei confronti di quelle che figurano nel secondo. Peraltro, i membri della comunità non sanno spiegare in modo articolato che cos'è che rende puro ciò che è puro e impuro ciò che è impuro, non sono in grado di fornire, per queste due nozioni, qualcosa che somigli a una definizione. Negherebbero che "puro" e "impuro" significhino rispettivamente attraente e disgustoso, sebbene l'elenco A includa molte cose che i più trovano attraenti e l'elenco B molte cose per le quali i più provano disgusto; negherebbero che significhino rispettivamente salubre e insalubre, sebbene molte cose classificate come pure siano davvero salubri e molte classificate come impure insalubri; negherebbero che significhino rispettivamente consentito e vietato dai libri sacri, sebbene i libri sacri dicano in forma esplicita di molte cose pure che sono consentite e di molte cose impure che sono vietate; ecc. Gli elenchi A e B sono aperti, soggetti ad ampliamento e talvolta a rettifica. Di tanto i tanto i sapienti della comunità si chiedono se sia pura o impura una cosa non ancora classificata o la cui classificazione sia stata messa in dubbio; dal modo in cui affrontano la questione si capisce che si tratta secondo loro di stabilire una verità di fatto, non di prendere una decisione arbitraria; dopo una lunga discussione trovano un accordo ed esprimono un parere; e la loro autorevolezza fa sì che tale parere sia accettato dagli altri.

Di fronte a una quadro come quello descritto, noi, osservatori esterni non partecipi delle credenze della comunità, ci domandiamo quali mai possano essere le proprietà designate dagli aggettivi "puro" e "impuro". Rileviamo alcune regolarità, facciamo alcune ipotesi; ma, nonostante i nostri sforzi, non ne veniamo a capo. Finiamo per concludere che i membri della comunità sono vittime di una illusione: non è vero che, quando usano questi due aggettivi, stiano parlando, come pensano, di due proprietà determinate; non è vero che, quando si interrogano sulla purità o impurità di qualcosa, si pongano una questione che ha un'unica risposta oggettivamente corretta; la progressiva costituzione degli elenchi A e B è determinata in realtà da fattori eterogenei e casuali. Insomma: finiamo per adottare un'analisi nichilistica del puro e dell'impuro. Si dovrà allora dire che questa nostra analisi abolisce quella che è, per i membri della comunità, una «dimensione dell'esistenza» e che ne «svuota il vocabolario»? In un certo senso sì, naturalmente; ma in un altro senso no: non nel senso che l'analisi tradisca la specificità e irriducibilità del modo di pensare e di esprimersi dei membri della comunità quando sono in gioco il puro e l'impuro. Siamo persuasi, poniamo, che i vermi e i cioccolatini sono stati classificati tra le cose impure gli uni perché provocano in molti un'istintiva ripugnanza, gli altri perché una volta un sommo sacerdote ne ha fatto indigestione: non per questo siamo costretti a dire che, nel linguaggio della comunità, "I vermi sono impuri" e "I cioccolatini sono impuri" equivalgono rispettivamente a "I vermi mi ripugnano" e a "Se uno mangia troppi cioccolatini, gli viene il mal di pancia". L'analisi nichilistica è perfettamente compatibile con il riconoscimento del fatto che i membri della comunità concepiscono e usano gli aggettivi "puro" e "impuro" come se designassero due proprietà oggettive non suscettibili di essere caratterizzate in modo compiuto con parole diverse. Inoltre, il nichilista può benissimo descrivere le conseguenze che la classificazione delle cose in pure e impure ha per la vita della comunità; può addirittura avere buone ragioni per sostenere che, sebbene fondata in definitiva su un'illusione, l'abitudine di classificare le cose in questo modo ha, all'interno della comunità, una funzione positiva.

2. Argomenti profani

Le tesi filosofiche hanno di rado implicazioni politiche dirette. Perciò ho cercato di evitare di aver l'aria di voler stabilire chi, tra il relativista e l'antirelativista, è il

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vero amico della democrazia liberale, il vero critico del potere, il vero avversario dell'autoritarismo e del totalitarismo, e al tempo stesso il più sicuro baluardo contro il terrorismo e le altre forme di violenza intollerante. Semplicemente non credo che nessuna di queste posizioni sia una diretta conseguenza di questa o quella forma di relativismo, o di negazione del relativismo .

In una situazione in cui le società e le culture non sono più protette dalla distanza, il confronto è inevitabile: la scelta è soltanto tra un confronto serio, fondato su conoscenze, e la chiacchiera multiculturale, basata su aneddoti, impressioni e pregiudizi .

Qualunque cosa si intenda per "serio", è indiscutibile che il confronto o è serio o non è serio. Personalmente, però, tra le cose non serie farei rientrare anche, oltre la «chiacchiera multiculturale», tutte le nefaste scempiaggini su identità, radici, conflitto tra civiltà, orgoglio dell'Occidente, ecc. per mezzo delle quali si è cercato e si cerca di coonestare scelte di politica internazionale che con la salvaguardia di grandi valori etici e culturali non hanno in realtà nulla a che fare.

«Il valore della tolleranza» è «considerato, non a torto, tipicamente europeo-occidentale» .Secondo Amartya Sen, «la tesi [...] dell'eccezionalismo occidentale in materia di tolleranza» è «frutto solo d'ignoranza». Ne so troppo poco per avere in proposito un'opinione personale (anche se i fatti menzionati da Sen mi colpiscono come significativi). Comunque, trattandosi di una tesi controversa e che per giunta, vera o falsa che sia, si presta a usi capziosi ("siccome noi siamo tolleranti e loro no, bombardiamoli" o, meno ferocemente, "siccome noi siamo tolleranti e loro no, vietiamogli di costruire moschee"), è forse inopportuno asserirla senza addurre evidenza a suo sostegno.

Naturalmente, che ci sia scarso consenso intorno alle giustificazioni che vengono proposte per questa o quella credenza religiosa o etica non abolisce il diritto di ciascuno di presentare quelle credenze come giustificate: si tratterà di vedere caso per caso, come sempre, se le giustificazioni proposte siano accettabili. [...] Nel dibattito pubblico non si accredita una tesi presentandola come oggetto di fede, né la si scredita in nome della laicità. Chi rifiutasse di dar ragione delle proprie tesi meriterebbe davvero il titolo di 'dogmatico', che invece non spetta automaticamente a chi, semplicemente, propone tesi minoritarie che sono, mettiamo, parte integrante di una visione religiosa delle cose. Le autorità religiose o anche i semplici credenti, che intervengono nel dibattito pubblico proponendo tesi coerenti con la loro visione religiosa ma sostenendole con argomenti «profani» sono spesso sospettati di mistificazione: in realtà, si dice, sostengono quelle tesi perché le fanno derivare dalla loro fede, e i loro argomenti sono un puro orpello retorico:

Si crea spesso l'equivoco per cui gli esponenti della religione-di-Chiesa dichiarano di voler difendere posizioni secondo "ragione" puramente umana e laica, mentre in realtà la forza del loro argomentare poggia (in modo non detto) su postulati religiosi o di dottrina teologica o metafisica, che sono di fatto sottratti alla discussione pubblica corrente e alla presunta incompetenza dei laici. Le obiezioni di questo genere, a me pare, sono irrilevanti. Le argomentazioni vanno sempre prese al loro valore facciale: se sono cattive argomentazioni, vanno respinte perché sono cattive; se sono buone, vanno accolte quali che siano le ragioni profonde e nascoste che hanno indotto a metterle in campo. [...] Processi alle intenzioni e denunce di secondi fini sono scorciatoie che lasciano il tempo che trovano [...], e tendono a spostare il confronto dal piano della discussione a quello dell'insulto .

Tre punti a mo' di commento.

Primo. Direi anch'io che ciascuno ha il diritto di «presentare [le proprie] credenze come giustificate»; anzi, direi semplicemente che ciascuno ha il diritto di presentare le proprie credenze. Marconi afferma: «nel dibattito pubblico non si accredita una tesi presentandola come oggetto di fede». Non mi è chiaro che cosa

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significhi "accreditare nel dibattito pubblico"; comunque, se qualcuno dichiara pubblicamente di credere qualcosa per fede, io non mi scandalizzo: magari lo sto persino a sentire e magari trovo quello che dice interessante.

Secondo. «Le argomentazioni vanno sempre prese al loro valore facciale: se sono cattive argomentazioni, vanno respinte perché sono cattive; se sono buone, vanno accolte». Sottoscrivo. E nel caso specifico delle argomentazioni addotte dalle autorità cattoliche a sostegno dei loro decreti in campo etico - perché di questo appunto si sta parlando -, ritengo che siano perlopiù argomentazioni cattive, anzi pessime: sovente «meri orpelli retorici». Quando si deve valutare la bontà di una (presunta) argomentazione, il dire che si tratta di un mero orpello retorico non è affatto un'«obiezione irrilevante»; al contrario, è un'obiezione sostanziale.

Terzo. Un conto sono le argomentazioni, un altro l'argomentare e il discutere. Dovendo decidere se impegnarmi in una discussione, o se perseverare in una discussione già avviata, non posso non tenere conto dell'atteggiamento e dei fini dei miei interlocutori. Le ragioni (profonde e nascoste o magari alla luce del sole) che inducono qualcuno a mettere in campo certe argomentazioni non hanno il potere di trasformare un'argomentazione buona in una cattiva o viceversa, ma rendono più o meno sensato, a seconda dei casi, il mio discutere con lui.

Fermiamoci su questo punto. «Chi rifiutasse di dar ragione delle proprie tesi meriterebbe davvero il titolo di 'dogmatico', che invece non spetta automaticamente a chi propone tesi minoritarie che sono parte di una visione religiosa delle cose». In realtà, l'essere o no dogmatici non ha molto a che fare con il dare o non dare ragione delle proprie tesi, almeno se per "dare ragione" si intende il sostenere per mezzo di argomentazioni. Da un lato, al livello delle scelte etiche fondamentali la possibilità di argomentare è in generale assai più ridotta per usare le semplici parole di Hume, «la morale è più sentita che giudicata». Dall'altro, si può essere dispostissimi a dare ragione delle proprie tesi ed essere ciò nonostante dei dogmatici. Dogmatico è colui il quale - indipendentemente dal fatto che possa e voglia sostenere il proprio punto di vista con argomentazioni esplicite e articolate - esclude a priori la possibilità di riconoscersi in errore, di cambiare idea, di uscire mai da una discussione ammettendo che chi la pensava diversamente da lui lo ha convinto. Inutile aggiungere che questo è l'atteggiamento tipico delle autorità ecclesiastiche quando emettono i loro pronunciamenti in campo etico. Molti di noi credono di sapere un sacco di cose su come è fatto il mondo; al tempo stesso, si rendono conto che l'errore è sempre in agguato e che la fiducia nella propria capacità di distinguere il vero dal falso è tanto più fondata quanto più si è pronti a sottoporre i propri convincimenti alla prova della logica e dell'esperienza, modificandoli se necessario. Analogamente, possiamo accettare certi principi morali e, al tempo stesso, essere aperti a una loro revisione, se a ciò dovesse indurci qualche argomentazione persuasiva o, più verosimilmente, qualche esperienza personale o magari l'esposizione a condizioni, forme di vita, mentalità diverse dalle nostre. Ma un atteggiamento aperto di questo genere è, ovviamente, quanto di più remoto si possa immaginare dalla rigidezza dottrinale - dogmatica, appunto - propria della gerarchia della Chiesa cattolica.

Ho detto sopra che discutere con qualcuno è più o meno sensato a seconda del suo atteggiamento e dei suoi fini. Ha senso una discussione con il dogmatico? Perché no? Per esempio, può avere il senso di una pubblica tenzone: so che il mio interlocutore non ammetterà mai di avere torto, ma chi assiste al nostro confronto potrà giudicare liberamente se sono migliori le sue argomentazioni o le mie. Nel caso della discussione relativa ai temi etici su cui insiste la Chiesa, però, ci sono varie complicazioni, tra cui quelle derivanti dal fatto che la Chiesa pretende spesso di far valere i suoi decreti anche per chi non li condivide, chiedendo che le leggi dello Stato si conformino a essi. Nel tentativo di legittimare una tale pretesa, la Chiesa ricorre a ciò che Marconi chiama «argomenti profani». E' la famosa storia della "morale naturale": per giustificare questa o quella norma etica - si sostiene - è sufficiente ricorrere a principi che

(i) sono accessibili anche all'intelligenza non illuminata dalla fede e

(ii) sono vincolanti per tutti, credenti e non credenti. Il laico che, senza mettere in questione una siffatta impostazione, si impegni a discutere gli argomenti della Chiesa relativi a un qualche tema specifico, rischia di trovarsi irretito in una situazione dialettica ambigua.

L'idea che ci siano principi etici che soddisfano le condizioni (i) e (ii) - principi che possono essere conosciuti senza bisogno di dedurli da qualche presunta verità di fede e che hanno validità universale - è un'idea in sé rispettabile e, per così dire, innocua. Il problema sta in un paio di assunzioni ulteriori che conferiscono alla nozione di morale naturale come la Chiesa l'intende un carattere tutto speciale. Dicendo

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che ci sono principi etici la cui conoscibilità non dipende dalla previa accettazione di una qualche "verità rivelata", si suggerisce che all'identificazione di tali principi possano concorrere tutti tramite il libero confronto delle rispettive opinioni e che nessuno abbia a priori più autorità di chiunque altro in materia. Può perciò sorgere l'illusione che la Chiesa, menzionando principi di cui afferma che soddisfano la condizione (i), attenui il proprio dogmatismo e accondiscenda a dialogare con il non credente su un piede di parità. In realtà, si tratta appunto di un'illusione. Per la Chiesa, i principi della morale naturale non hanno bisogno di essere dedotti da verità di fede; ma solo la luce della fede consente di discernerli in modo chiaro e certo; e quindi, poiché le gerarchie ecclesiastiche si considerano depositarie e uniche interpreti autorizzate della rivelazione, ritengono che anche i loro verdetti nel campo della morale naturale debbano essere accolti come definitivi e insindacabili («il papa è voce della ragione etica dell'umanità» . Questa è la prima assunzione. La seconda riguarda l'interpretazione della condizione (ii). Dire che una norma etica vale per tutti senza eccezioni non significa necessariamente che si debba costringere a rispettarla anche chi non vuole. Supponiamo, per esempio, che sia sempre e comunque immorale suicidarsi; non ne segue affatto che tu debba impedire a un malato terminale di porre fine alle sue sofferenze togliendosi la vita; magari c'è un'altra norma, perfettamente compatibile con la precedente e altrettanto fondamentale, che in un caso del genere ti obbliga a lasciare agire un individuo in conformità alla sua libera scelta, aiutandolo anzi a farlo con dignità. Per la Chiesa, invece, l'attribuzione a una norma etica del carattere di validità universale autorizza proprio a imporne l'osservanza anche a chi non la riconosce. E' solo in virtù di queste assunzioni ulteriori - che, ripeto, non sono affatto conseguenze necessarie di (i) e (ii) - che la nozione di morale naturale può essere invocata dalla Chiesa per cercare di giustificare la propria intromissione nelle scelte dei non cattolici. Il sillogismo delle autorità ecclesiastiche è, in sintesi, il seguente: siccome i principi della morale naturale valgono per tutti indistintamente, bisogna costringere tutti a conformarvisi; ma siamo noi a sapere quali sono i principi della morale naturale; dunque, tutti devono conformarsi a ciò che diciamo noi.

Spero sia chiaro, a questo punto, in che senso rischia di trovarsi in una situazione dialettica ambigua il laico che controbatta gli «argomenti profani» della Chiesa a proposito di questa o quella questione specifica, senza però contestare ciò che la Chiesa, più o meno tacitamente, presuppone e che costituisce lo sfondo su cui il dibattito si svolge. In una discussione, ciò che è presupposto dal mio interlocutore e non è da me esplicitamente respinto, conta come se fosse da me accettato. Il laico dovrebbe quindi avere, in cima alla sua agenda, non la questione della fecondazione assistita o dell'aborto o delle coppie di fatto o qualsiasi altra questione particolare, ma piuttosto la rivendicazione di questi due principi: nel campo della morale non ci sono autorità assolute; qualora, su materie del tipo di quelle di cui si sta parlando, non ci sia unanimità, ciascuno è libero di comportarsi come meglio crede. «Processi alle intenzioni e denunce di secondi fini - sono scorciatoie che lasciano il tempo che trovano, e tendono a spostare il confronto dal piano della discussione a quello dell'insulto». In realtà, è spesso la discussione a lasciare il tempo che trova: e quando questo accade, quando la discussione lascia ognuno della propria opinione, l'unica alternativa alla tolleranza reciproca è non già l'insulto, che sarebbe poco male, ma il reciproco tentativo di sopraffazione.

L'idea che il tentativo della gerarchia ecclesiastica di influenzare il processo legislativo in materia di etica della convivenza e della procreazione costituisca una inammissibile interferenza viene giustificata - appellandosi al principio generale secondo cui «ciascuno è libero di praticare le proprie convinzioni morali e anche di propagandarle, ma non dovrebbe volerle imporre ad altri per legge» .

Lo Stato italiano ha leggi che rispecchiano convinzioni morali largamente diffuse ma non unanimi: si pensi, ad esempio, alle norme sulla tutela del paesaggio. Si dirà che il paesaggio è ovviamente un bene collettivo, e quindi spetta alla collettività normare il suo uso mentre, ad esempio, il corpo di ciascuno è soltanto suo e quindi ciascuno ne fa quello che vuole. Tuttavia, non è così in tutti i casi: il nostro Codice Civile proibisce ad esempio l'automutilazione [...]. Oppure, si pensi alle norme contro la crudeltà sugli animali: in questo caso sono state [....] imposte a tutti certe convinzioni morali che, almeno nel nostro paese, non sono certo unanimi; eppure gli animali non sono un bene collettivo, nella maggior parte dei casi sono proprietà privata di qualcuno .

Il mero fatto che lo Stato italiano abbia certe leggi non significa assolutamente nulla in un contesto in cui la questione è come debbano essere le leggi. Ma non insisterò su questo punto perché il punto cruciale è un altro. Sarebbe certo difficile negare che possano essere accettabili «leggi che rispecchiano convinzioni morali largamente diffuse ma non unanimi»: siccome l'unanimità piena è rara, chi negasse una cosa del

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genere sarebbe costretto a sostenere che non si ha quasi mai il diritto di legiferare. Per conto mio, auspico leggi che, prima ancora di tutelare il paesaggio o vietare l'automutilazione, rispecchino certi ideali di uguaglianza e solidarietà che, appunto, sono largamente diffusi ma non unanimemente condivisi. Al tempo stesso, però, tutti coloro che non sono fautori del totalitarismo - ammettono che c'è una sfera di libertà individuali che le leggi non devono violare. Il problema è allora semplicemente se a questa sfera appartenga un'ampia gamma di comportamenti rispetto ai quali la gerarchia ecclesiastica manifesta invece una ossessiva volontà di controllo. Io credo di sì.

Da un punto di vista laico, i vescovi sono cittadini italiani come gli altri [...] e hanno diritto di costituire una lobby che si propone di influenzare l'opinione pubblica e il processo legislativo, tanto quanto hanno il diritto di farlo gli industriali del tabacco e del petrolio. I vescovi italiani si comportano, di fatto, proprio come una lobby, cercando di influenzare i parlamentari di cui sono in grado di condizionare l'elezione. Che questo possa non piacere a un cattolico, si capisce; ma un cittadino qualsiasi non dovrebbe avere in questo caso particolare, obiezioni diverse da quelle che può avere all'azione delle lobby in generale. [...] Le lobby possono non piacere, ma, a quanto pare, sono un aspetto inevitabile dei sistemi di democrazia parlamentare; e questi sistemi, si sa, sono i peggiori eccettuati tutti gli altri .

In realtà, grazie al Concordato, i vescovi sono cittadini italiani un po' diversi non solo da me, ma persino dagli industriali del tabacco e del petrolio. E in un paese come il nostro, in cui l'invadenza proterva della Chiesa si estende a tutti i settori della vita civile e politica, parlare di lobby dei vescovi ha quasi il sapore dell'eufemismo. La democrazia si dà per gradi. Sebbene una democrazia perfetta sia un ideale irrealizzabile, chi apprezza la democrazia e ritiene che abbia ancora senso perseguirla non può non guardare con inquietudine a tutti quei casi - li si chiami casi di lobbismo o come si vuole - in cui un gruppo cerca di imporre certe scelte alla collettività agendo al di fuori dei canali attraverso i quali i cittadini possono normalmente esprimere la loro volontà ed esercitare il loro controllo: ogni situazione del genere, infatti, corrisponde a un meno di democrazia. Non è che le lobby possono non piacere; a chi crede davvero nella democrazia, non possono piacere. E chi crede davvero nella democrazia vorrà che il fenomeno sia contenuto e regolato il più possibile. Per ciò che riguarda specificamente l'influenza sul potere politico dalla gerarchia ecclesiastica, si può osservare che in altri paesi a democrazia parlamentare - anche paesi con una forte tradizione cattolica - essa è molto minore che da noi: quindi, sia vero o falso in generale che «le lobby sono un aspetto inevitabile dei sistemi di democrazia parlamentare», non c'è motivo di ritenere che le intrusioni indebite della Chiesa debbano essere subite come una necessità storica ineluttabile.

Verità, pluralismo e realismo Una modesta difesa del relativismo

Le dicotomie - tra verità e giustificazione e tra conoscenza e certezza - che sono all'origine di un certo numero di fraintendimenti nella discussione accademica non meno che nel discorso pubblico. Che l'uso del predicato "vero" appaia governato da un'ipoteca realista, soprattutto quando in gioco sono asserzioni intorno al mondo esterno, è una tesi generalmente accettata anche da coloro che non accolgono una concezione realista della verità: quando diciamo che un enunciato che descrive il mondo esterno è vero, assumiamo tacitamente che esso ci riporti 'le cose come stanno', in definitiva, che esso corrisponda alla realtà. Quella della corrispondenza è un'intuizione comune - Crispin Wright parla a questo proposito di "Platitude" - che nessun teorico serio si sognerebbe di negare. Il problema è che una cosa è l'intuizione della corrispondenza, un'altra una teoria compiuta che chiarisca in che senso un'asserzione può corrispondere a uno stato di cose nel mondo. Infatti, all'atto pratico, la teoria della corrispondenza, per quanto venerabile, non ha convinto tutti, proprio per la difficoltà di chiarire in cosa esattamente la supposta corrispondenza consista. Da qui l'emersione di teorie alternative: coerentiste, pragmatiste, deflazioniste, pluraliste, ecc. Non che queste ulteriori teorie non abbiano i loro problemi: anzi, un problema evidente per le teorie epistemiche della verità, vale a dire per quelle teorie che cercano di ricostruire la nozione di verità a partire da quelle pratiche - in primo luogo l'attività di fornire giustificazioni per le proprie credenze - con le quali identifichiamo alcune asserzioni come vere, è rappresentato proprio dalla distinzione tra verità e giustificazione. Infatti, nella misura in cui la nozione di giustificazione è autonoma - anche se non intelligibile separatamente - dal concetto di verità, le teorie epistemiche della verità sembrano destinate al fallimento.

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Ciò non implica che A sia vera per X ma non per Y; a meno di non aderire a una concezione epistemica della verità, che identifica verità e giustificatezza. Ma abbiamo visto che ci sono buone ragioni per ritenere che verità e giustificatezza siano concetti diversi e distinti anche nell'estensione.

Sembra, a giudicare da queste righe, che le teorie epistemiche della verità si riducano all'equazione tra verità e giustificatezza e siano pertanto definitivamente confutate dagli argomenti che dimostrano che verità e giustificazione sono cose distinte. Ma questa conclusione è, come minimo, affrettata. Intanto, la stessa terminologia "teorie epistemiche della verità" merita qualche chiarimento. Con questa etichetta ci si riferisce generalmente alle teorie pragmatiste della verità, sviluppate da Peirce nel diciannovesimo secolo e da Putnam alla fine del secolo scorso. Secondo tali teorie - ci sono ovviamente differenze tra la versione di Peirce e quella di Putnam, ma in questa sede non sono rilevanti - la verità corrisponde a una versione idealizzata dell'asseribilità: sono vere quelle proposizioni che una comunità che operasse in condizioni epistemiche ideali riterrebbe giustificate. È chiaro, anche solo da questa definizione, che la semplice distinzione tra verità e giustificazione non basta a minacciare le teorie dell'asseribilità idealizzata, proprio perché tali teorie chiamano in causa una forma ideale di giustificazione. Nella nostra pratica quotidiana - potrebbe replicare il teorico pragmatista - verità e giustificatezza sono chiaramente distinte, ma ciò non mi impedisce di identificare la verità con l'asseribilità, cioè con la giustificatezza, in condizioni epistemiche ideali - che, per definizione, non incontreremo mai. Vero è che le teorie pragmatiste della verità incontrano comunque difficoltà notevoli: uno degli autori che più ha contribuito a esporre questi problemi è il già citato Crispin Wright. Wright ha sviluppato una batteria di argomenti - che non è possibile riportare in questa sede - che rendono quantomeno molto dubbie le teorie pragmatiste. Tali argomenti vanno ben oltre la distinzione tra verità e giustificazione e non possono dirsi, comunque, definitivi. Ma l'aspetto più rilevante per la discussione attuale è che in ogni caso Wright non ne trae la conclusione che l'unica concezione accettabile di verità è quella realista. Tutt'altro: Wright critica l'antirealismo di Putnam per sostituire a esso una diversa e più sofisticata forma di antirealismo, incentrata sul concetto di superasseribilità e capace di rendere conto, sia della distinzione tra verità e giustificazione che dell'intuizione comune della verità come corrispondenza.

L'esempio di Wright è indicativo della piega assunta dal dibattito corrente intorno alla verità. Mi sembra che si possa convenire che la posizione realista intorno alla verità appare oggi largamente minoritaria. D'altra parte, non si può dire che l'obbiettivo principale della riflessione di Marconi sia quello di difendere una concezione realista della verità. Il primo capitolo di Per la verità si limita a ribadire la centralità di alcune intuizioni realiste riguardo agli enunciati che descrivono il mondo esterno, lasciando in sospeso se queste intuizioni valgono anche in domini del discorso diversi come gli enunciati matematici o quelli che riguardano il gusto o la morale

Per il relativismo epistemico le conoscenze dipendono da criteri di accettabilità che variano presso diverse comunità umane. Inoltre, non esistono metacriteri capaci di individuare i criteri di accettabilità corretti. Il relativismo epistemico rappresenta, una posizione filosofica ragionevole. Non implica, però, il relativismo sulla verità, perché dal fatto che una proposizione p sia giustificata per X ma non per Y non segue che p sia vero per X e non vero per Y, a meno di non aderire a una concezione epistemica della verità . Ciò significa che, secondo Marconi, il relativista epistemico potrebbe sostenere che X e Y hanno credenze diverse relativamente alla accettabilità di p, che il loro dissenso non è risolvibile, perché essi incorporano criteri di giustificazione diversi, nessuno dei quali è superiore all'altro, ma che, nondimeno, p è oggettivamente vera o falsa. Questa conclusione mi sembra insostenibile, poiché implica che un enunciato può essere oggettivamente vero anche se i criteri in base ai quali viene giudicato non accettabile sono non criticabili. Di conseguenza, sancisce l'indipendenza tra verità e giustificazione: la verità non si identifica con la giustificatezza poiché un enunciato può essere giustificato senza essere vero; tuttavia, in quest'ultimo caso, l'intuizione comune ci dice che qualcosa è andato storto nel processo attraverso il quale abbiamo acquisito la giustificazione per esso o nei criteri di giustificazione impiegati. Adesso, la conclusione secondo la quale un enunciato può essere giustificato e falso, senza che i criteri in base ai quali si è giudicato della sua verità siano criticabili e senza alcun altro cognitive shortcoming, rompe un nesso implicito tra verità e giustificazione - l'idea, cioè che la giustificazione sia preordinata alla verità - che anche Marconi, nel primo capitolo, sembra accettare. Nessuna meraviglia, dunque, che i sostenitori del relativismo epistemico rigettino la concezione realista della verità, come fa Wittgenstein.) Meno male, allora, che le concezioni epistemiche non sono così poco plausibili come Marconi sembra ritenere, altrimenti il relativismo epistemico perderebbe molta della sua efficacia.

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Un problema analogo si presenta in rapporto al relativismo concettuale. Si tratta di quelle posizioni che relativizzano l'ontologia al sistema di riferimento concettuale proprio di un'epoca o di una determinata cultura. Se il sale non era cloruro di sodio prima dell'invenzione della chimica allora che cos'era? Era solo una sostanza presente nel mare e in certe formazioni rocciose usata per insaporire e conservare i cibi? E qual era la composizione delle sue molecole? Oppure, non era composta da molecole? Posto di fronte a queste domande - sostiene Marconi -, il relativista concettuale non possiede risposte chiare e convincenti. Per questo motivo risulta più semplice tenere ferma la verità dell'enunciato 'il sale è cloruro di sodio', relativizzando non il valore di verità delle asserzioni ma la loro accessibilità. Secondo quest'ultimo punto di vista, un greco dell'epoca omerica non aveva accesso alla proposizione che il sale è cloruro di sodio, perché il suo schema concettuale non disponeva delle risorse necessarie per afferrarla. La proposizione in sé, però, era vera ottocento anni prima della nascita di Cristo, come lo è adesso.. Il problema principale è che questo modo di porre il problema rappresenta una petizione di principio contro il relativista. Posso assumere che l'enunciato 'il sale è cloruro di sodio' sia vero anche prima dell'invenzione della chimica solo se non prendo sul serio il relativismo ontologico: ritenere che l'enunciato 'il sale è cloruro di sodio' fosse vero anche tremila anni fa significa assumere che la 'vera ontologia', quella rispetto alla quale si calcola il valore di verità degli enunciati che descrivono il mondo esterno, contempli, fra i suoi costituenti, quelle molecole che rendono vera l'asserzione che il sale è cloruro di sodio. Questo approccio rinuncia all'idea che un enunciato come 'il sale è cloruro di sodio' rappresenti un modo peculiare, in mezzo a molti altri, di parlare del sale. Secondo questo punto di vista l'enunciato 'il sale è cloruro di sodio' rappresenta piuttosto un tentativo di identificazione dell'essenza del sale. In altre parole, ritenere che gli enunciati che descrivono il mondo mantengano inalterato il loro valore di verità significa adottare un atteggiamento ontologico incompatibile con l'idea relativista secondo la quale non esiste un'ontologia privilegiata, ma ogni sistema di riferimento concettuale elabora la propria ontologia, che non è migliore né peggiore - in termini assoluti - di qualsiasi altra. Si rivela, in questo modo, quella che mi sembra essere l'assunzione di sfondo del realismo di Marconi. Il realismo sulla verità sottende un corrispondente realismo metafisico. Esista un insieme di proposizioni assolutamente e oggettivamente vere che definisce la struttura immutabile del mondo esterno, perciò aderisce a una variante della dottrina nota come "realismo metafisico". E se non è completamente chiaro cosa il realismo metafisico implichi veramente, è sicuro che si tratti di una posizione incompatibile con il relativismo concettuale.

Secondo Putnam il realismo metafisico consiste della congiunzione delle seguenti tre tesi:

i. il mondo consiste di un insieme di oggetti indipendenti dalla nostra mente; ii. esiste esattamente una sola descrizione vera e completa del mondo;

iii. la verità comporta una relazione di corrispondenza tra le parole, o i segni del pensiero da un lato, e gli insiemi di cose esterne dall'altro.

Che il realismo metafisico, sia incompatibile con il relativismo concettuale dovrebbe essere abbastanza chiaro. Del resto, dalla tesi dell'esistenza di una descrizione ideale e vera - anche se non completa - del mondo segue che il mondo è articolato in oggetti - generi naturali -, proprio quanto il relativista concettuale nega espressamente. È importante sottolineare come una delle motivazioni principali del relativismo concettuale sia quella di reagire alle strettoie del realismo metafisico. Il realismo metafisico è non solo una posizione problematica. È anche fortemente controintuitivo. Principalmente perché il realismo metafisico sembra inseparabile da una forma di essenzialismo. L'idea di una descrizione ideale che coglie oggettivamente un aspetto del mondo richiede che le cose nel mondo possano essere suddivise in generi naturali corredati di proprietà essenziali e che gli uni e le altre risultino cognitivamente accessibili: ammettere la possibilità di una rappresentazione vera in senso corrispondentistico implica non solo la credenza in una predeterminazione dell'articolazione naturale della realtà - dal momento che la verità di una descrizione viene intesa come corrispondenza dei predicati che entrano in quella descrizione con articolazioni del mondo e proprietà oggettivamente esistenti - ma anche l'ulteriore convinzione che questa predeterminazione sia, in un certo modo, trasparente rispetto alla nostra osservazione. Tuttavia, questa tesi appare discutibile, se non altro per la sua componente antropocentrica. Il problema non consiste tanto nell'ammettere o meno che il mondo noumenico possieda una sorta di organizzazione indipendente dall'attività della nostra mente: che la realtà sia in qualche modo 'strutturata' appare del resto difficilmente negabile, alla luce

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della relativa regolarità delle nostre esperienze; inoltre, ritenere che le nostre ipotesi ontologiche trovino una base nell'organizzazione noumenica del mondo non introduce il tipo di oggettività - oggettività come corrispondenza di articolazioni concettuali e metafisiche - che è richiesto dalla tesi realista. Il problema consiste piuttosto nel fatto che l'essenzialismo presupposto dal realismo metafisico richiede di postulare una sorta di omogeneità tra il 'formato' dell'organizzazione metafisica del mondo e quello dei generi naturali elaborati dalla nostra mente. In questo senso, l'idea che il mondo sia intrinsecamente razionale, che l'essenza della sua struttura profonda sia un'articolazione concettualmente e linguisticamente rappresentabile da parte della mente umana, sembra piuttosto difficile da accettare, quasi il residuo di una forma di razionalismo e di antropocentrismo tipicamente premoderni.

Per questi motivi, credo che il relativismo vada difeso dagli argomenti fanno leva sul carattere oggettivo della verità. A questo punto, però, il compito si complica. Perché, come viene riconosciuto almeno da Platone in poi, il relativismo rappresenta una posizione contraddittoria. Come è noto, infatti, sin dal Teeteto il relativismo è stato criticato perché autoconfutante. Nella sua forma più semplice questo tipo di argomento si rivolge contro le tesi relativiste che sostengono che la verità dei nostri enunciati è relativa rispetto a qualche fattore differenziante (prospettive, schemi concettuali, 'sensazioni' nel caso di Protagora criticato da Socrate/Platone). Il relativista - così si svolge la prova di contraddittorietà - nel momento in cui sostiene che la verità è relativa, automaticamente si contraddice, perché si vincola all'affermazione assoluta dell'enunciato 'la verità è relativa'. Dunque, siccome per poter affermare il relativismo è necessario che il relativismo sia falso, secondo la legge della consequentia mirabilis, il relativismo va respinto. A questa accusa il relativista potrebbe replicare sostenendo che anche la tesi relativista è vera solo relativamente, dunque la sua enunciazione non comporta una contraddizione esplicita. Ma questa mossa innesca un regresso all'infinito, perché se l'enunciato 'la verità è relativa' è vero solo relativamente, dunque, diciamo, vero per il relativista e falso per il suo oppositore, si genera un nuovo enunciato, "l'enunciato 'la verità è relativa' è vero per il relativista e falso per il suo oppositore", appunto, che a sua volta deve essere considerato vero solo relativamente; e così via, in una fuga inarrestabile di metarelativismi. Argomenti analoghi possono essere agevolmente sviluppati a partire da altre concezioni relativistiche. Data una definizione sufficientemente generale di relativismo, non è difficile nemmeno elaborare una corrispondente versione dell'argomento del regresso all'infinito. Ciò che gli argomenti sul regresso all'infinito ci mostrano è il "carattere abissale dell'interpretazione" (p. 72). Personalmente, infatti, ritengo che questo modo di prospettare il carattere problematico delle concezioni relativiste ne illumini, al contempo, i punti di forza rispetto alle dottrine realiste alle quali si oppongono. Per esplorare più da vicino questa possibilità cerchiamo di calarci in un contesto più concreto. A questo scopo immaginiamo uno scienziato sociale, un antropologo oppure un sociologo dei processi culturali. Il suo intento è quello di sostenere che le culture non esistono 'realmente' ma rappresentano una sorta di costruzione che riproduce certi assetti di potere politico ed economico. L'idea del nostro scienziato sociale può essere ben motivata: egli può sostenere che l'opzione per una concezione non reificata delle culture si giustifica a partire da certe considerazioni intorno al carattere flessibile, intrinsecamente mutevole, aperto di quegli aggregati di simboli, tradizioni, schemi di comportamento che chiamiamo culture. Che la nozione tradizionale di cultura sembra implicare la possibilità, totalmente irrealistica, di una partizione dei soggetti in insiemi disgiunti. Che il concetto di cultura, infine, ha spesso avuto una genesi coloniale o postcoloniale. È chiaro altresì che questo tentativo di spiegazione sia etichettabile come tipicamente antirealista. La manovra dello scienziato sociale che aspira a 'decostruire' la nozione di cultura per metterne in luce l'origine segnata da influenze eterogenee è facilmente inscrivibile nel contesto di una strategia complessiva di relativizzazione dei nostri tentativi di descrizione a un certo quadro concettuale di sfondo.

Tuttavia, l'idea, di per sé pienamente intelligibile, deve fare i conti con una conseguenza spiacevole. Si tratta del fatto che sostenere che la costruzione delle culture riproduce certe strutture di potere preesistenti sembra implicare, in luogo della reificazione delle culture che si vuole screditare, una corrispondente reificazione delle strutture di potere, cui la differenza culturale viene relativizzata. E chiaramente decostruire le culture per sostituire al loro posto una presunta realtà di assetti di potere politico-economico non sembra un esito accettabile. Resta aperta anche in questo caso la possibilità di iterare la strategia già seguita, relativizzando le strutture di potere a qualche fattore ulteriore, ma evidentemente questa manovra non fa che spostare il problema. In conclusione, sembra quindi che anche in questo caso una pregevole e, a prima vista, condivisibile intuizione rischi di arenarsi contro la barriera di un inevitabile regresso all'infinito.

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A questo punto si aprono, credo, due strade: una consiste nell'immaginare qualche tipo di circolarità all'interno della catena dei fattori relativizzanti. Non c'è niente in via di principio che possa impedirci di riconoscere la validità di uno schema esplicativo che ammetta la presenza di qualche forma di circolarità. Per esempio, si potrebbe immaginare che il tentativo di decostruzione del concetto di cultura abbozzato in precedenza proseguisse con il riconoscimento che le strutture di potere politico ed economico che determinano la costruzione della differenza culturale, costituiscono una proiezione, a loro volta, di certe assunzioni antropologiche di base, che d'altra parte si possono ragionevolmente ritenere plasmate da un preciso background storico-culturale. Un resoconto di questo tipo non cessa di essere esplicativo per il fatto di essere circolare. Può sembrare tuttavia che una spiegazione che presenti questo tipo di circolarità violi qualche principio implicito di carattere formale, come nel caso di una dimostrazione che impiegasse l'assunto da provare nel corso dell'argomento stesso. A questa osservazione si può rispondere agevolmente osservando che in questo caso la circolarità è di un genere completamente diverso. Per individuarlo con più precisione può essere utile riprodurre graficamente le relazioni che sono state utilizzate nel ragionamento precedente.

Il grafo in fig. 1 riproduce schematicamente il percorso dell'ipotesi argomentativa discussa in precedenza. Al livello più basso si collocano le (due, per comodità di rappresentazione) forme culturali, C1 e C2 di cui il nostro scienziato sociale vuol sostenere la derivazione da un certo assetto di potere, simboleggiato da S1. Ma siccome anche le strutture di potere sono relativizzate ad un fattore sovrastante, diciamo un certo insieme di assunzioni antropologiche, ecco che il nodo S1 è connesso con un nodo superiore, A1, dal quale si dirama anche la possibilità di immaginare una struttura di potere differente, S2. Infine, dato che abbiamo assunto che le assunzioni antropologiche siano in qualche modo influenzate dal contesto culturale, ecco che A1 è direttamente connesso con C1.

Dalla rappresentazione grafica è evidente quale tipo di circolarità sia introdotta dal nostro discorso. Se facciamo corrispondere le frecce nel grafo alla relazione di appartenenza insiemistica, diventa immediatamente possibile tradurre il grafo precedente in un sistema di insiemi che possiede una caratteristica particolare: A1: {S1, S2}, S1: {C1, C2}, C1: {A1}. La caratteristica che distingue l'insieme A1 è quella di possedere un membro, S1, che ha propria volta ha come elemento un insieme, C1, che contiene A1 stesso. In teoria degli insiemi un insieme di questo tipo viene detto un insieme "non ben fondato". Ora, gli insiemi non ben fondati violano una tradizionale assioma della teoria degli insiemi, l'assioma di fondazione appunto. Tuttavia, la loro esistenza non è in nessun modo contraddittoria: si è compreso infatti, soprattutto dopo il lavoro di Peter Aczel, che la rimozione dell'assioma di fondazione dà luogo a una teoria degli insiemi alternativa a quella tradizionale ma perfettamente coerente. E d'altra parte non mancano gli studi che tentano di utilizzare insiemi di questo tipo per studiare certi fenomeni caratterizzati dalla presenza di forme di circolarità. Dunque, dalla rilevazione dell'esistenza di una circolarità di questo tipo non dovrebbe essere possibile passare all'affermazione dell'inammissibilità del modello esplicativo che a essa faceva ricorso.

D'altra parte, se l'introduzione di insiemi non ben fondati sembra rendere più tollerabile la situazione che si definisce a partire dalla relativizzazione delle descrizioni del mondo alle concettualizzazioni, è anche vero che per un altro verso questo passaggio non segna una vittoria del principio antirealista su quello realista. In effetti, sostenere che la professione di antirealismo è resa accettabile dal fatto di immaginare la struttura delle nostre concettualizzazioni come un sistema di insiemi non ben fondati, ci forza a riconoscere implicitamente che esiste dopo tutto una rappresentazione oggettiva della struttura che il nostro sistema di concettualizzazioni configura. Quindi, se per un verso l'approccio antirealista sembra risultare legittimato dal ricorso agli insiemi non ben fondati, su un altro piano è il presupposto realista che ancora una volta appare governare la possibilità di immaginare forme di antirealismo.

La seconda soluzione entra in gioco proprio per reagire a questa nuova impasse. Essa consiste, banalmente,

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nell'accettazione del carattere abissale, irriducibile dell'interpretazione. È una prerogativa dell'attività razionale che, dato un qualunque discorso, sia possibile guardare dall'esterno ai presupposti ontologici da cui esso muove (si tratta grossomodo di quella che Quine chiamava "ascesa semantica"). Il meccanismo di messa in distanza delle nostre rappresentazioni e di interrogazione riguardo ai loro presupposti ontologici mette capo a un regresso che non ha mai termine. Questo meccanismo fonda la possibilità di relativizzare le nostre descrizioni del mondo alla ricerca di sempre nuove ontologie di sfondo. Se si postula, come fa il realista metafisico, l'esistenza di un livello di discorso privilegiato, entro il quale è possibile rappresentare oggettivamente stati di cose nel mondo, possiamo immaginare che ci siano alcune descrizioni linguistiche che non possono essere relativizzate. Viceversa, se si rifiuta questa possibilità, come fa il relativista, ci ritroviamo con un'esplosione potenzialmente infinita dei nostri discorsi, dato che ciascuna rappresentazione della 'realtà' non attinge un livello più fondamentale di qualunque altra e, di conseguenza, può essere messa in discussione per rivelarne le assunzioni implicite.

È chiaro, d'altra parte, che ciascun discorso conserva, nonostante la propria infondatezza, un'aspirazione all'oggettività. Sembra una caratteristica inevitabile della nostra attività di rappresentazione imperfetta del mondo che i prodotti di questo agire si propongano come descrizioni obbiettive di 'ciò che vi è'. Questa caratteristica è stata analizzata come accostamento implicito della conoscenza a un vedere spersonalizzato e oggettivo . A questa prerogativa non si sottrae, ovviamente, neppure il discorso con il quale si asserisce la relatività delle nostre rappresentazioni del mondo, quindi, da questo punto di vista, si ritrova il vizio di incoerenza di cui il relativismo viene tradizionalmente fatto segno. Ma si tratta, vorrei sostenere, di un'incoerenza più tollerabile dell'implausibilità complessiva di una posizione per il resto coerente come il realismo metafisico. Questo non significa, però, riabilitare la tesi relativista in una forma generale che proponga una nuova identificazione di un insieme di fattori relativizzanti - del genere di quella operata, per esempio, dal relativismo concettuale con la categoria di schema concettuale -, in quanto il fatto di riconoscere che la negazione relativista dell'oggettività delle rappresentazioni è incoerente nella misura in cui contesta un codice espressivo realista, non legittima comunque ad assumere una tesi più forte della negazione del realismo metafisico. In altre parole: se si riconosce che il problema del relativismo è un problema inerente alla possibilità di negare il carattere oggettivo delle nostre rappresentazioni, allora dalla constatazione dell'implausibilità del realismo metafisico si può dedurre unicamente la legittimità della negazione del realismo metafisico. Ne segue che l'unica forma di relativismo sostenibile coincide con una forma di relativismo minimalmente oggettivo equivalente alla negazione del realismo metafisico. Nuovamente, ciò non vuol dire assumere che il mondo sia una specie di 'blob' completamente indeterminato, ma più semplicemente - e più modestamente - immaginare che la 'struttura' del mondo non sia cognitivamente accessibile o quantomeno non si rifletta nelle categorie che usiamo abitualmente nelle nostre rappresentazioni.

In che modo il rifiuto relativista del realismo metafisico e l'assunzione del carattere abissale dell'interpretazione si riflettono sul pluralismo specificamente sociale e politico? In un modo abbastanza diretto Permane un altro tipo di collegamento tra pluralismo e relativismo . Cerco di spiegarmi. L'obbiettivo di Marconi è discutere il pluralismo come proiezione del relativismo morale, cioè di una posizione che assume l'indifferenza fra le opzioni di valore. Criticare questo genere di relativismo è sin troppo semplice e Marconi ha buon gioco nel mostrare l'implausibilità di quei generi di pluralismo che, come il pluralismo dell'equivalenza, si alimentano all'idea secondo la quale le opzioni di valore si collocano tutte su uno stesso piano. L'aspirazione dei valori all'oggettività costituisce solo un aspetto dei valori stessi. Perché anche i valori, prima di essere messi a confronto, devono essere ricostruiti e interpretati. Ed ecco che da questo versante si affaccia il collegamento tra relativismo e pluralismo. Mi riferisco al fatto che se si riabilita il carattere irrimediabilmente relativo delle rappresentazioni del mondo, emerge un problema non facilmente risolvibile attinente alla possibilità di presupporre che i 'nostri' valori siano intelligibili da parte dei nostri interlocutori.

Questa difficoltà rappresenta, a mio avviso, 'il' problema centrale del pluralismo contemporaneo. Non tanto quanto o quale pluralismo è accettabile ma: dove comincia il pluralismo? Dove finiscono i nostri valori e inizia la contrapposizione con i valori degli altri? Anche in questo caso un esempio può forse contribuire a rendere tutta la discussione meno astratta. Nessuno dubita che i diritti umani costituiscano un valore riconosciuto all'interno dei nostri ordinamenti - se non all'interno delle nostre società. L'art. 2 della Costituzione italiana si apre al riconoscimento di diritti iscritti in documenti ulteriori rispetto al testo costituzionale stesso. La Dichiarazione universale del 1948, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e i

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Patti Onu sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali - in mezzo a molti altri trattati e convenzioni su temi più specifici - definiscono i confini di dei diritti che hanno cittadinanza nel nostro ordinamento. Eppure, questi diritti, per produrre effetti concreti di natura giuridica o politica, richiedono di essere interpretati. Attraverso l'interpretazione si apre un campo di ridefinizione del contenuto dei diritti stessi che può condurre dall'estremo della contrapposizione, del muro contro muro, a quello della parziale riconciliazione fra tradizioni giuridiche e politiche diverse. L'interpretazione, nel caso dei diritti, dovrebbe attivare in primo luogo un'interrogazione retrospettiva intorno al contenuto che certe categorie giuridiche assumevano nel contesto dell'Europa premoderna: questa interrogazione, svelando che il moderno individualismo dei diritti poggia su un'originaria concezione comunitaria dei diritti stessi, potrebbe evidenziare punti di contatto fra il linguaggio contemporaneo dei diritti e le manifestazioni di ethos comunitario che caratterizzano ancora le culture extraeuropee. Più ancora: non solo l'operazione di ridefinizione della propria identità assiologica è importante per noi, nella misura in cui ci consente di presentare un profilo più aperto e tollerante ai nostri interlocutori; è importante anche perché promette di innescare un processo analogo nei nostri interlocutori, che conduca a una conciliazione più soddisfacente e più effettiva fra tradizioni e sensibilità normative diverse.

Prendiamo, per esempio, il caso dell'escissione femminile. Da una parte, il confronto realista tra valori, invocando il diritto a non subire lesioni della propria integrità fisica, esigerebbe forse che queste tradizioni fossero represse, anche attraverso l'applicazione delle norme del diritto penale e la punizione esemplare dei responsabili. Il rischio implicito in questo atteggiamento è quello di contemplare in un'ottica unilateralmente assimilazionista le identità culturali dei soggetti, attivi e passivi, di queste pratiche. In questa prospettiva, le donne sono viste come assoggettate a una logica di dominio maschile che si esprime anche attraverso il segno sui corpi. Probabilmente, questa lettura non coglie la specificità simbolica di questo genere di mutilazioni e la portata di integrazione sociale connessa al perpetuarsi dei rituali. Da questo punto di vista, una riflessione più pacata potrebbe forse procedere dalla constatazione che forme di sottomissione analoghe - anche se meno cruente - non sono estranee neppure al passato recente delle società occidentali, per suggerire poi che il rigore dei diritti, in un contesto premoderno, troverebbe un valido bilanciamento nell'attribuzione di significato a un certo insieme di pratiche. Con questo, non si vuole proporre una completa rimozione della sofferenza ingiustificata inflitta alle giovanissime destinatarie di questi comportamenti. Si tratta, più modestamente, di operare in direzione di una 'fusione di orizzonti', per riprendere il lessico gadameriano, cercando di innescare un processo di comprensione reciproca e di autocomprensione, al termine del quale le contrapposizioni di valori e la repressione penale vengono sostituite da qualcosa d'altro. Mi sono soffermato brevemente sul problema dell'escissione femminile perché mi sembra emblematico del genere di questioni che l'attuale pluralismo delle società contemporanee ci presenta. Si tratta di un insieme di problematiche attinenti, non tanto a quali valori possiamo tollerare ma a come dobbiamo operare nella definizione dei profili assiologici e identitari, a come dobbiamo gestire il rapporto con le nostre identità passate e con i valori che ci vengono proposti dalle tradizioni. Nell'affrontare e nel tematizzare questi problemi non è possibile attenersi a un rigida osservanza delle intuizioni realiste e a una ricerca diretta della verità. Risulta più produttivo, forse, seguire il percorso inverso: immaginare possibili scenari dell'alterità e, sulla base di quegli scenari, costruire narratives persuasivi di realtà e di verità.

Relativismo, verità e ragioni morali

La questione del relativismo ha assunto negli ultimi anni una grande rilevanza nel dibattito pubblico. Molti fattori concorrono a generare questo rilievo, soprattutto sul piano culturale. Fra questi fattori vi sono: la diffusa tesi postmodernista secondo cui il mondo contemporaneo non dispone più di criteri oggettivi e universali a causa dell'autoconfutazione di tutti i tentativi, antichi e moderni, di individuare tali criteri; l'effetto di spaesamento generato dalle ondate migratorie e dalla compresenza di culture profondamente diverse in società complesse e multiculturali; la percezione di una proliferazione incontrollata dei punti di vista considerati non confutabili ma reciprocamente incompatibili, non solo nel mondo culturale ma anche in quello scientifico (geometrie non euclidee, teorema di Gödel, fisica quantistica ecc.); infine, ma non meno importante, il ripetuto richiamo da parte di autorità religiose e politiche circa i pericoli morali e sociali del relativismo, il quale viene spesso considerato una perniciosa deriva della modernità.

Anche nel dibattito filosofico la questione teorica del relativismo risente di questi fattori, in particolare sul terreno della morale e della politica. La filosofia approfondisce alcuni aspetti di un generale interesse per il

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valore della verità, che è evidentemente percepito come messo in discussione. Il tempo presente non si vive certamente come un tempo di certezze, se non proprio per reazione a un diffuso clima di incertezza sul sapere, sulla prassi e soprattutto sui valori. Si comprende, quindi, che il relativismo goda di un certo favore: esso è considerato da molti come un riflesso dell'esperienza quotidiana e, al tempo stesso, come un salutare antidoto alla fuga verso dogmatismi di varia natura. Questo tuttavia non significa che si tratti di una posizione teoricamente più solida del dogmatismo, né che si tratti di un rimedio efficace ai rischi generati da quello che potremmo chiamare «il bisogno di certezze nelle attuali condizioni di incertezza».

Anche il relativismo è una posizione afflitta da problemi teorici non facilmente superabili. Soprattutto, il relativismo non è, come invece molti ritengono, la necessaria premessa di un atteggiamento tollerante e democratico, bensì è una potenziale anticamera di pratiche di prevaricazione sistematica e di intolleranza. «il relativismo morale non è soltanto una posizione teorica difficilmente difendibile, ma è moralmente riprovevole» .

Probabilmente, la ragione per cui il relativismo, specialmente in campo morale, appare a molti così attraente è che, concettualmente, esso sembra costituire l'alternativa naturale all'assolutismo. L'opposto di relativo è infatti assoluto, così come l'opposto di universale è particolare, l'oggettivo si contrappone al soggettivo, il collettivo all'individuale e così via. Per molte persone, «chi crede che ci siano valori assoluti, impegnativi per tutti è un pericoloso dogmatico o, come si usa dire oggi, un 'fondamentalista': il suo diritto di parola dev'essere quanto meno contemperato con la sua oggettiva pericolosità» (pp. 83-84).

L'apprezzamento della pluralità dei valori non esige affatto l'ammissione della loro relatività o equivalenza.

Non c'è dubbio che l'assolutismo morale abbia una pessima fama e che in effetti non sia una concezione molto appetibile. Possiamo definirlo come la tesi secondo cui esiste un solo stile di vita accettabile, che tutti dovrebbero seguire e le deviazioni dal quale devono essere biasimate o addirittura impedite. Qualunque persona di spirito liberale e democratico non può che ritenere questa tesi difficilmente accettabile. Essa è infatti incompatibile con una pacifica convivenza civile, a meno di trovarsi in una società fortemente omogenea sotto il profilo morale. Anche in questo caso, per altro, affinché l'assolutismo morale appaia compatibile con la convivenza occorre che la società in questione sia costituita da niente meno che il mondo intero. Diversamente, infatti, l'assolutista morale si trova a constatare che altre società vivono altrimenti, cioè in modo sbagliato, e questo non può che essergli intollerabile, soprattutto se egli ha a cuore le sorti morali dell'umanità. Così ragionano i fondamentalisti, o più precisamente gli integralisti, cioè i sostenitori di una concezione «integrale» della verità, la quale è completamente nota a coloro che sanno e riguarda integralmente ogni aspetto della vita di tutte le persone. Costoro, però, non sono semplici sostenitori teorici dell'assolutismo morale: essi non si limitano a constatare che gli altri vivono immoralmente, ma si fanno carico di un ampio grado di proselitismo e non esitano a impiegare la forza per convertire gli immorali a migliori costumi. Il passo dall'assolutismo teorico all'integralismo pratico è comunque piuttosto breve. Dal momento, però, che non riesce affatto facile convincere chi ha costumi diversi dell'assoluta validità di uno stile di vita differente, appare chiaro che l'assolutismo rende realmente molto difficile la convivenza civile, a meno di accettare un elevatissimo livello di coercizione, controllo e repressione. Non sorprende quindi che gli individui democratici si tengano lontano da questa concezione.

Tuttavia, siamo certi che la reale alternativa a questo poco attraente modo di ragionare e agire sia abbracciare il relativismo? I relativisti, al fine di opporsi all'assolutismo morale, ritengono di dover rinunciare del tutto alla nozione di verità e questo significa gettare il bambino con l'acqua sporca. Sotto il profilo pratico, l'errore consiste più precisamente nel ritenere che affermare l'esistenza della verità implichi necessariamente il pensiero che questa debba essere imposta a tutti con le buone o con le cattive. È evidente a chiunque che questo è un non sequitur. Per la prospettiva morale, questo è già sufficiente per squalificare la presunta implicazione fra pluralismo e relativismo: l'esistenza della verità non è di per sé un buon motivo per imporla ad altri. In altri termini, il paternalismo moralistico non è affatto un'implicazione logica del realismo circa la verità. Vi è però nel relativismo, sostiene Marconi, anche un errore teorico, che risiede nella confusione che questo comporta fra verità e certezza e, soprattutto, fra verità e giustificazione. Gli argomenti in proposito sono convincenti, ma il problema del rapporto fra verità e giustificazione, sul piano etico-politico, appare più complesso che sul piano teorico e su questo tornerò nell'ultima parte di questo intervento.

Precisiamo però prima che cosa comporti in etica sostenere che vi sono principi «assoluti» o «assolutamente validi». Nell'ambito pratico, l'assolutezza di una regola d'azione significa che essa non è radicalmente

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relativa alle circostanze o all'agente, ma vale ceteris paribus per chiunque si trovi ad agire in condizioni simili. Per questo, l'assolutezza morale di una regola coincide con l'assenza di eccezioni. Questa ineccepibilità della regola va però intesa con attenzione: non si tratta, come si potrebbe affrettatamente ritenere, di stabilire che un certo comportamento debba essere seguito uniformemente da tutti gli agenti in ogni circostanza. Si tratta di riconoscere che la regola vale per tutti gli agenti in circostanze simili per gli aspetti rilevanti. Il comportamento concreto che realizza la regola può essere piuttosto diverso a seconda dei dettagli della situazione e, soprattutto, la differenza nelle circostanze può rendere la regola inapplicabile. Sostenere che mentire sia di principio sbagliato non comporta affatto ritenere che Aldo Moro avesse il dovere morale di rivelare alle Brigate Rosse i segreti di Stato di cui era a conoscenza. Il fatto che i suoi carcerieri avessero rapito lui e ferocemente ucciso gli uomini della sua scorta e che intendessero sovvertire l'ordine democratico lo autorizzava a non ritenere giustificata la loro richiesta di verità.

L'assolutezza dei principi morali è però intesa per lo più nel senso della loro universale validità: chiunque dovrebbe riconoscerli e applicarli. Ora, il dibattito sugli «assoluti morali» ha una lunga storia ed è da sempre molto vivace. Tuttavia, da un rapido sguardo a questo dibattito si evince con chiarezza che ritenere che vi siano principi morali che, almeno ad un certo livello, possono essere ritenuti come «assolutamente validi» non comporta che si sostenga l'assolutismo morale come è stato definito più sopra. Così come, dal fatto che si affermi l'esistenza della verità non segue che si condivida una posizione dogmatica. Infatti, anche se non si tratta precisamente della stessa cosa (su questo tornerò più avanti), possiamo dire che la validità di un principio morale corrisponde alla sua verità.

Va ricordato che la tesi per cui alcuni principi morali siano autoevidenti e perciò non solo veri ma addirittura certi non è affatto appannaggio di etiche a fondamento metafisico o religioso. Certamente, il tomismo nelle sue differenti versioni ha sempre sostenuto l'esistenza di «assoluti morali», ovvero di principi etici la cui verità, essendo fondata sulla legge naturale, non è soggetta a variazioni né in base alle circostanze storiche né in base alle opinioni dell'agente (fatta però salva l'importante eccezione della «coscienza invincibilmente erronea», cui lo stesso Tommaso d'Aquino riconosceva la priorità sul piano dell'onestà morale). Tuttavia, anche teorie morali non sospettabili di connivenze metafisiche hanno sostenuto la validità assoluta di qualche principio morale. Ad esempio, Jeremy Bentham e John Stuart Mill ritenevano in sostanza che la validità del principio di utilità fosse immediatamente evidente a chiunque riflettesse sulla natura umana. Inoltre, è noto che l'utilitarismo, almeno nella versione nota come «utilitarismo dell'atto», riconosce validità al solo principio di utilità e che quindi quest'ultimo ha un valore assoluto: non ammette eccezioni, risolve tutti i conflitti e tutte le altre regole morali derivano da esso.

Un'altra tradizione che ha avuto un'ampia influenza nel dibattito del Novecento, vale a dire l'intuizionismo normativo, ritiene che vi siano un certo numero di principi morali la cui validità sia autoevidente. Così George Edward Moore, William David Ross e gli autori che oggi propongono una riedizione dell'intuizionismo normativo (Philip Stratton-Lake, Robert Audi e altri) ritengono che vi siano alcuni principi morali che chiunque può riconoscere come veri perché autoevidenti. Vi sono più principi di questo tipo, perciò questa teoria morale, a differenza dell'utilitarismo, sostiene il pluralismo normativo . Vi è però in questa tradizione anche uno dei più influenti, ragionevoli e bistrattati tentativi di rendere conto della validità senza eccezione di una pluralità di principi generali senza tuttavia precludere la possibilità che nelle circostanze concrete un principio prevalga sull'altro, pur senza cancellarlo. Si tratta dell'idea di doveri prima facie, cioè di doveri (o principi) la cui validità è assoluta finché si applicano da soli a una certa situazione, ma che non godono di una priorità gerarchica sistematica su altri principi nelle situazioni concrete. Il dovere di veridicità mi impone prima facie di dire la verità, tuttavia se questo dovere entra in conflitto con il dovere prima facie di non fare del male (come può capitare con una verità detta alla persona sbagliata o nel modo sbagliato o nel momento sbagliato) non esiste una regola a priori per stabilire quale dei due doveri debba prevalere. Ciò dipende dalle circostanze e, dice Ross, dal giudizio che si può dare nella situazione. Da questa tesi deriva, oggi, la posizione di coloro che, come Jonathan Dancy (5), professano il particolarismo morale, ovvero la tesi per cui non esistono principi morali generali (qualcosa cui invece Ross credeva ancora), bensì soltanto giudizi particolari, dettati dalla situazione e dalle sue caratteristiche moralmente salienti. Ora, come ripetutamente afferma Dancy, il particolarismo non è una teoria etica relativistica. Infatti, anche se i giudizi morali validi sono diversi per ogni circostanza, la loro validità è secondo i particolaristi assolutamente oggettiva: non dipende dalle opinioni del soggetto che il suo giudizio particolare sia o non sia corretto, ma dai caratteri della situazione in se stessa. Un giudizio morale particolare, secondo questa tesi, può applicarsi solo alla situazione in questione ma la sua validità o verità è assoluta.

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Tanto per i particolaristi quanto per Ross l'obiettivo non è di favorire il relativismo quanto di mettere in chiaro che le circostanze possono giustificare oggettivamente giudizi morali diversi. Considerato che per Ross l'idea di doveri prima facie doveva garantire questo risultato pur mantenendo l'assoluta validità generale di alcuni doveri (per esempio: non mentire, mantenere le promesse, mostrare gratitudine, non fare il male, agire con giustizia), appare strano che alcuni oggi si appellino all'idea di principi prima facie per sostenere una forma di «relativismo morale» che consiste soprattutto nella critica alla valenza «assoluta» dei principi in questione. È evidente che non di relativismo si tratta, bensì di un richiamo alla valenza soltanto generale di principi la cui validità si ritiene però assoluta, certa e autoevidente. L'obiettivo è qui piuttosto quello di riconoscere la complessità della vita etica e la necessità di esercitare un costante discernimento nel cercare di agire con giustizia e per il bene, senza affatto negare a queste nozioni una valenza universale.

Come si vede, dunque, il relativismo non è né l'approccio proprio di chi non intende fondare l'etica sulla metafisica né la strategia obbligata di chi vuole riconoscere la complessità della vita morale. Anzi, queste due prospettive sono compatibili con una tesi assolutista circa la verità di alcuni principi o giudizi morali (qualunque cosa si pensi di tali principi o del modo di metterli in relazione fra di loro).

Non è però necessario ricorrere all'assolutezza di principi morali determinati come quelli elencati da Ross per garantire l'esistenza di un criterio di validazione delle massime morali che sia sottratto all'arbitrio e alla completa relatività. Anzi, secondo una tradizione che risale almeno a Kant, si può rintracciare un criterio di validità assoluta del volere che ha una valenza esclusivamente formale, come il principio di non contraddizione in logica. Si tratta del il principio di non contraddizione del volere, che per Kant si formula come imperativo categorico. Esso garantisce che i principi morali che si fanno valere non dipendano dall'arbitrio degli agenti mentre, al tempo stesso, la sua formalità lascia ampio spazio a una varietà di contenuti determinati. Questa tradizione kantiana può essere interpretata in chiave proceduralista, quindi con una premessa antirealista, come notoriamente fa John Rawls in quello che lui e i suoi allievi chiamano «costruttivismo etico» . In questa prospettiva, il criterio di validità dei principi morali (o almeno dei principi di giustizia, stante la limitazione politica che Rawls assegna alla sua teoria) è la conformità del procedimento che li determina alla regola dell'equilibrio riflessivo fra giudizi ponderati e principi generali. I principi così stabiliti secondo Rawls sono assoluti per qualunque società i cui membri abbiano come scopo la convivenza cooperativa. La teoria (morale o esclusivamente politica qui non importa) che si basa su criteri procedurali e formali si presenta come oggettiva e capace di includere tutti gli agenti interessati, in forza del suo appellarsi a un criterio, quello dell'approvazione razionale dei principi medesimi, valido per qualunque agente razionale. Si tratta quindi, anche nel caso della più nota e influente versione contemporanea della teoria liberale, di una posizione non relativista.

È quindi chiaro che la questione del pluralismo, è trattata in questo dibattito in modo da includere già il rifiuto dell'assolutismo morale senza ricorrere a nessuna forma di relativismo. Il relativismo morale è una posizione estrema e sostenuta da ben pochi teorici della morale e della politica. Lo stesso Bernard Williams, non sostiene in realtà il relativismo, bensì sottolinea la difficoltà di confutare in via definitiva le obiezioni scettiche circa la commensurabilità delle teorie morali. La tesi di Williams è che, data una distanza spaziale o temporale molto grande fra tradizioni e gruppi morali diversi, può essere teoricamente impossibile tradurre i valori di un gruppo in quelli di un altro e quindi accedere al significato appropriato che quei valori hanno in quella tradizione. In mancanza di questa comprensione non è legittimo giudicare negativamente i costumi altrui o tentare di modificarli per ragioni morali. Questo è quello che Williams chiama «relativismo della distanza» . Questa distanza però si riduce quando i gruppi vengono a contatto ed è evidente che essa è proporzionale alla possibilità di tradurre la lingua di un gruppo nella lingua dell'altro: aumentando la comprensione reciproca aumenta la possibilità di riconoscere l'accordo e il disaccordo morale e conseguentemente di ricercare una mediazione. Finché sono possibili le traduzioni, sono possibili anche gli accordi morali e non si è ancora verificato il caso che una lingua risultasse assolutamente e completamente intraducibile in un'altra. Mi pare che questo, di per sé, costituisca un potente argomento contro il relativismo circa la verità non meno che circa la morale.

Tuttavia, vi è un aspetto per cui la questione della verità, in etica, è meno rilevante e drammatica di quanto siamo abituati a pensare. È infatti vero che i «drammatizzatori della verità», come li chiama Marconi, hanno spesso come punto di riferimento i conflitti sociali e politici causati dalla pretesa di verità delle morali. Questo però deriva da una distorsione pervicace e antica (la cui origine sospetto si trovi in Platone) circa il rapporto del bene e del giusto con la verità. Cerco di esprimere questa idea molto sinteticamente: quando si tratta di agire, noi non intendiamo rispecchiare uno stato di cose. Piuttosto, miriamo a realizzare uno stato di

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cose che ci sembra giusto o buono. Ora, il criterio di validità di questa azione non ci deriva dall'osservazione del mondo così com'è. Quest'ultimo è certamente segnato da una forte presenza di ciò che ci appare come male, imperfezione, negatività. Pur tenendo conto dei limiti reali del nostro agire (per non essere degli illusi o delle anime belle), ciò che chiamiamo a giustificazione delle nostre azioni deriva più dall'idea di ciò che ci sembra giustificato fare che dall'idea di ciò che è vero. È vero che gli uomini sono spesso crudeli e per lo più poco virtuosi, ma questo non ci sembra una ragione che giustifichi la crudeltà e il vizio (tranne che per il poco nobile argomento per cui «così fan tutti»).

Inoltre, quando si discute di questioni morali raramente si accusa l'altro di sostenere una tesi falsa (se non su dati di fatto che si citano a sostegno della propria tesi morale): più spesso si dice che ciò l'altro intende fare è ingiusto o inaccettabile (nel senso che nessun agente potrebbe accettare quel comportamento). La «verità pratica», ammesso che - con Aristotele - si ritenga di poter dare un senso a questa espressione, non consiste nella descrizione di fatti, bensì nell'intenzione di realizzare un bene nei fatti. Ora, questa direzione di adeguazione della verità pratica (mondo-a-mente e non mente-a-mondo, come ricordava Elisabeth Anscombe) ci dice che il criterio di validità di cui possiamo disporre nell'ambito dell'agire sta più nella capacità di giustificare le nostre scelte che nella verità dei nostri enunciati. Possiamo non sapere quale sia la verità ultima sul bene e sul male, ma poiché dobbiamo agire avremo agito giustamente nella misura in cui avremo saputo basare la nostra decisione su buone ragioni, cioè ragioni in grado di giustificare le nostre azioni di fronte a qualunque agente razionale. Questo può non coincidere con la verità morale assoluta in merito al da farsi in quella circostanza, ma è tutto ciò che possiamo fare per agire in modo sensato. È vero che questo presuppone l'esistenza di una verità pratica e la sua distinzione dalla giustificazione, ma in termini pratici questa differenza autorizza solo non a imporre una verità morale a tutti bensì a richiedere adeguate giustificazioni per una presunta verità morale cui qualcuno si appella per i propri comportamenti. In assenza di una giustificazione comprensibile e tale da generare accordo fra gli agenti ragionevoli, si è autorizzati a pensare che la presunta verità morale non debba necessariamente essere seguita da tutti. Anzi, qualora quella presunta verità morale comporti la violazione di un'altra presunta verità morale sulle cui ragioni giustificative vi è un accordo fra agenti ragionevoli, non è ingiustificato vietarne o limitarne significativamente l'accettabilità. Per esempio, la pratica dell'infibulazione si basa su ragioni (la sottomissione della donna all'uomo e la convinzione che questa passi attraverso l'escissione degli organi sessuali) che violano ragioni morali ampiamente condivise (l'eguale dignità morale di uomini e donne, il diritto all'integrità fisica) che hanno mostrato di reggere a numerose critiche. Si può discutere sul fatto che quest'ultime siano ragioni indubitabilmente vere, ma si può concordare sul fatto che si tratti di ragioni in grado di giustificare il rifiuto di tale pratica.

In altri termini, sul piano dell'etica, e in particolare dell'etica pubblica, un criterio di accettazione delle posizioni morali individuali può essere quello per cui le posizioni ragionevoli, cioè giustificate2 nella terminologia di Marconi, sono accettabili anche se possono non essere vere. Questo livello di giustificazione può essere sufficiente per prendere una (fallibile) decisione morale e politica. La giustificazione come possibilità che una ragione sia «derivata in modo convincente da premesse plausibili» è tutto ciò che si può esigere in una discussione morale. Non si può invece esigere che il senso di giustificazione necessario per accedere al dibattito pubblico sia la nozione di giustificazione3, cioè l'identità assoluta e sistematica di giustificato e vero, dal momento che questa nozione presuppone l'accessibilità universale di criteri assoluti di verità che non appaiono egualmente disponibili a tutti gli agenti. Perciò, anche se è plausibile ritenere che ogni concetto di giustificazione sia tributario del concetto di verità , ragion per cui non si può fare a meno di quest'ultimo, non è l'assoluta verità delle opinioni che si richiede in etica e politica, bensì la giustificatezza almeno nell'accezione di giustificato2, ovvero nell'accezione suggerita da Williams per cui c'è ragione di pensare che sia vera. Va da sé, per altro, che la certezza soggettiva di queste opinioni non costituisce da sola una prova della loro ragionevolezza. E che la loro incertezza oggettiva non costituisce una ragione sufficiente per assumere una posizione scettica. La fiducia che questa giustificatezza, che possiamo chiamare morale e politica, non sia un'illusione riposa sull'intuizione realista circa la verità, anche se non si pone sullo stesso livello di quest'ultima.

ELEMENTI DI BIOETICA

Etica medica – processo di Norimberga 1945/46 Bioetica – parola coniata dall’oncologo Potter nel 1970 Bioetica – 1978 viene definita come una metodologia multidisciplinare che studia la vita e la salute alla luce

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dei valori morali 1997 – pecora Dolly – primo mammifero clonato Cognitivisti – i giudizi morali si fondano su basi oggettive e razionali Non cognitivisti – le norme morali danno luogo a giudizi prescrittivi non dimostrabili ( alla base c’è la teoria di Hume della divisione fra fatti naturali e morali Modello sociologico-naturalistico Propone un’etica descrittiva, non è possibile stabilire un sistema di valori universali Modello soggettivista – liberal radicale Nasce con la Rivoluzione francese – alla base della morale può esserci soltanto una scelta soggettiva, l’unico limite è posto dal non invadere la sfera della libertà altrui. Modello pragmatico – utilitarista Soggettivismo della maggioranza Piacevole – spiacevole Costi – benefici 1 – massimizzare il piacere 2 – minimizzare il dolore 3 – ampliare la sfera delle libertà personali Modello personalista Si basa sul concetto di persona – uomo Sacralità della vita

ETICA E TECNOLOGIA a) L’etica cristiana. È un’etica che si limita a considerare la correttezza della coscienza e la sua buona

intenzione, per cui se le mie azioni hanno conseguenze disastrose, se non avevo coscienza o intenzione, non ho fatto nulla che mi sia moralmente imputabile. Esattamente come capitò un giorno a coloro che hanno messo in croce Gesù Cristo e che da Lui sono stati perdonati: «Perché non sanno quello che fanno» (Luca, 23, 24). È evidente che, anche se su questa etica è stato costruito l’ordine giuridico europeo che distingue, per esempio, tra un delitto intenzionale, non intenzionale, preterintenzionale, in un mondo dove agiscono le tecno-scienze, una morale di questo genere, che guarda solo alle intenzioni e non agli effetti delle azioni, è improponibile, perché, nell’età della tecnica, gli effetti potrebbero essere catastrofici e in molti casi addirittura irreversibili.

b) L’etica laica. Dopo aver messo sullo sfondo Dio, Kant formulò quel principio secondo cui: «L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo». È questo un principio che ancora attende di essere attuato, se è vero che oggi le merci e i beni hanno una possibilità di circolazione ben superiore a quella degli uomini, e gli uomini sono accolti nei vari paesi solo se produttori di servizi, di beni e di merci. Ma anche se così non fosse e ogni uomo davvero fosse trattato come un fine, nelle società complesse e tecnologicamente avanzate questo principio già rivela tutta la sua insufficienza. Davvero nell’età della tecnica, a eccezione dell’uomo da trattare sempre come un fine, tutti gli enti di natura sono da considerare un semplice mezzo che noi possiamo utilizzare a piacimento? E qui il pensiero va alle piante, agli animali, alle foreste, all’aria, all’acqua, all’atmosfera. Non sono questi, nell’età della tecnica, altrettanti fini da salvaguardare, e non semplici mezzi da usare e da usurare? Sia l’etica cristiana sia l’etica laica sembra che si siano limitate a regolare i rapporti tra gli uomini, senza mettere a disposizione alcuno strumento, né teorico né pratico, per farci assumere una qualche responsabilità nei confronti degli enti di natura, su cui oggi intervengono, per esempio, la fisica nucleare, la genetica e le biotecnologie. c) L’etica della responsabilità. È stata formulata all’inizio del nostro secolo da Max Weber e recentemente riproposta da Hans Jonas. Secondo Weber chi agisce non può ritenersi responsabile solo delle sue intenzioni, ma anche delle conseguenze delle sue azioni. Se non che, subito dopo, Weber aggiunge opportunamente: «Fin dove le conseguenze sono prevedibili». Quest’ultima considerazione, peraltro corretta, relativa alla prevedibilità, ci riporta a capo della questione, perché è proprio della fisica nucleare, della genetica e delle biotecnologie avviare ricerche e promuovere azioni i cui esiti finali non sono prevedibili. E di fronte all’imprevedibilità non c’è responsabilità che tenga. Lo scenario dell’imprevedibile, dischiuso dalla tecno-scienza, non è infatti imputabile, come nell’antichità, a un difetto di conoscenza dei fenomeni naturali, ma a un eccesso del nostro potere di fare enormemente maggiore al nostro potere di prevedere e quindi di valutare e giudicare. L’imprevedibilità delle

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conseguenze che possono scaturire dai processi nucleari o biotecnologici rende quindi non solo l’etica dell’intenzione (il cristianesimo e Kant) ma anche l’etica della responsabilità (Weber e Jonas) assolutamente inefficaci, perché la loro capacità di ordinamento è enormemente inferiore all’ordine di grandezza di ciò che si vorrebbe ordinare. L’etica del viandante Oggi che la tecnica non ci consente di pensare la storia iscritta in un fine, l’unica etica possibile è quella che si fa carico della pura processualità, che, come il percorso del viandante, non ha in vista una meta. L’imperativo etico non può essere dedotto da una normatività ideale, come è sempre stato dai tempi di Platone alle soglie dell’età della tecnica, ma da quella incessante e sempre rinnovantesi fattualità che sono gli effetti del fare tecnico. Non più il «dovere» che prescrive il «fare», ma il «dovere» che deve inseguire e fare i conti con gli effetti già prodotti dal «fare». Ancora una volta è l’etica a dover rincorrere la tecnica, e a doversi confrontare con la propria impotenza prescrittiva. Il fatto che la tecnica non sia ancora totalitaria, il fatto che quattro quinti dell’umanità viva di prodotti tecnici, ma non ancora di mentalità tecnica, non deve confortarci, perché il passo decisivo verso l’«assoluto tecnico», verso la «macchina mondiale» l’abbiamo già fatto, anche se la nostra condizione psicologica non ha ancora interiorizzato questo fatto, quindi non ne è all’altezza. Quel che è certo è che l’universo tecnico, cancellando ogni meta e quindi ogni visualizzazione del mondo a partire da un senso ultimo, non sta al gioco della stabilità e delle definitività, e perciò libera il mondo come assoluta e continua novità, perché non c’è evento già iscritto in una trama di sensatezza che ne pregiudichi l’immotivato accadere. Dal disincanto del mondo e dall’instabilità di tutti quanti i princìpi che prima lo definivano, nasce un paesaggio insolito, simile allo spaesamento, in cui si annuncia una libertà diversa, non più quella del sovrano che domina il suo regno, ma quella del viandante che al limite non domina neppure la sua via. Gli anni che stiamo vivendo hanno visto, infatti, lo sfaldarsi di un dominio, e insieme hanno accennato a quel processo migratorio che confonderà i confini dei territori su cui si orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contaminano e, se «etica» vuol dire «costume», è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche, fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine, a favore di un’etica che, dissolvendo recinti e certezze, va configurandosi come «etica del viandante» che non si appella al diritto, ma all’esperienza. Infatti, a differenza dell’uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell’esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nel «cielo stellato» e nella «legge morale», che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione. Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo, che non siano punti occasionali, il viandante, con la sua etica, può essere il punto di riferimento dell’umanità a venire, se appena la storia accelera i processi di recente avviati, che sono nel segno della de-territorializzazione. Fine dell’uomo giuridico a cui la legge fornisce gli argini della sua intrinseca debolezza, e nascita dell’uomo sempre meno soggetto alle leggi del paese e sempre più costretto a fare appello ai valori che trascendono la garanzia del legalismo. Il prossimo, sempre meno specchio di me e sempre più «altro», obbligherà tutti a fare i conti con la differenza, come un giorno, ormai lontano nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la proprietà. La diversità sarà il terreno sui cui far crescere le decisioni etiche, mentre le leggi del territorio si attorciglieranno come i rami secchi di un albero inaridito. Fine del legalismo e quindi dell’uomo come l’abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà, del confine e della legge, e nascita dell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno spazio che non è garantito neppure dall’aristotelico «cielo delle stelle fisse», perché anche questo cielo è tramontato per noi. Diventa allora quanto mai indispensabile una ripresa della virtù antica che invitava l’uomo a non oltrepassare il limite. Certo ai Greci non possiamo tornare, ma l’invito che essi rivolgevano all’uomo di dare una misura a se stesso (katàmétron) oggi diventa non solo attuale, ma addirittura urgente. Si tratta di una misura che non va cercata nei princìpi formulati quando la natura era immodificabile, ma in quell’indicazione aristotelica che, in assenza di princìpi generali, consente di prendere decisioni esaminando caso per caso. Aristotele chiama questa capacità phrónesis, che noi siamo soliti tradurre con «saggezza», «prudenza», e la eleva a principio regolativo della prassi dove: Non si ha a che fare con ciò che accade sempre (aei), come nella matematica o nella geometria, ma con ciò che accade per lo più (hos epí tò polú), con ciò che fa la sua comparsa di volta in volta, in modo imprevisto

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e in tutti quei casi in cui non è chiaro come andranno a finire le cose, e quelli in cui la conclusione è del tutto indeterminata. Una sorta di etica del «viandante » che, non disponendo di mappe, affronta le difficoltà del percorso per come di volta in volta esse si presentano e con i mezzi al momento a sua disposizione. Questo è il nostro limite, e in questo limite dobbiamo decidere. Per quanto drammatica possa sembrare la scelta, non dimentichiamo che la decisione etica è una decisione che fonda, senza possedere altro fondamento al di fuori di sé. In questo senso è evento assoluto e quindi realtà tragica. Non è l’assoluto pacificato dell’idea, ma l’assoluto della scelta in ordine agli eventi che si presentano. In caso diverso sarebbe inutile la discussione tra gli uomini, sarebbe sufficiente la deduzione dai princìpi. L’etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da pensare. Ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e inconsaputa dimora.

MODERNITA’ – POSTMODERNITA’ – MORALE

Max Weber Weber rifiuta l’assolutismo etico e si muove all’interno di una filosofia dei valori i cui presupposti sono la distinzione tra essere e dover essere e il riconoscimento di una pluralità di sfere dei valori. Il politeismo dei valori si declina nell’etica sotto forma del dualismo tra l’etica dei principi, anche detta etica delle intenzioni o delle convinzioni, e l’etica della responsabilità. «Ogni agire in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte, può essere cioè orientato secondo l’etica dell’intenzione oppure secondo l’etica della responsabilità. Non che l’etica dell’intenzione coincida con la mancanza di responsabilità, e l’etica della responsabilità coincida con la mancanza di buone intenzioni. Non si vuol certo dire questo. Ma c’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica dell’intenzione, la quale – in termini religiosi – suona: “Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio” e agire secondo la massima dell'etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni».WEBER

«Lo Stato moderno… si sforzò di conquistare un rigido controllo di tutti quegli aspetti della vita umana che i poteri del passato avevano lasciato alla discrezione delle comunità locali. Reclamò il diritto di interferire – e studiò i mezzi per farlo – in aree dalle quali i poteri passati, per quanto oppressivi e sfruttatori, si tenevano alla larga. In particolare si adoperò per smantellare les pouvoirs intermédiaires, vale a dire tutte le forme di autonomia locale, autoaffermazione comunitaria e autogoverno.»BAUMAN

Nella prospettiva postmoderna, i fondamentali contrassegni della condizione morale sono: 1. L’affermazione dell’ambivalenza morale degli uomini. Non sono corrette né l’idea della bontà intrinseca dell’uomo, né quella della sua insuperabile malvagità. Ne consegue che la condotta morale non può essere garantita né da una migliore progettazione dei contesti per l’agire umano, né da una migliore formulazione dei suoi motivi; occorre imparare a vivere in un quadro di frammentazione, flessibilità e precarietà.

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2. L’idea che i fenomeni morali siano intrinsecamente non razionali. La postmodernità concepisce i fenomeni morali come non prevedibili e non esauribili in un codice etico. L’etica moderna aveva seguito essenzialmente il modello della legge: si prefiggeva di offrire definizioni esaurienti, senza zone grigie di molteplice interpretazione; essa agiva in base al presupposto che in ogni situazione di vita esiste una sola scelta positiva che si separa nettamente dalle opzioni cattive. Per la postmodernità, invece, questo quadro ignora ciò che è propriamente morale: sposta i fenomeni morali dalla sfera dell’autonomia personale all’eteronomia, sostituisce la conoscenza delle regole all’io morale, costituito dalla responsabilità. La morale, per la sensibilità postmoderna è destinata a restare irrazionale. L’autonomia dell’io morale è vista, dalla tradizione moderna, come un pericolo dal punto di vita del controllo sociale; gli impulsi morali sono certamente colti anche nei loro aspetti positivi ma devono essere controllati, anche se non banditi. La gestione sociale della morale è un’operazione complessa che produce spesso più ambivalenza di quanta non riesca ad eliminare. La realtà umana è, dunque, ambigua e le decisioni morali sarebbero, diversamente dai principi etici astratti. 3. L’idea che la morale è essenzialmente aporetica. La maggior parte delle scelte morali è compiuta tra impulsi contraddittori; l’io morale si muove, sente e agisce nel contesto dell’ambivalenza ed è lacerato dall’incertezza, una situazione morale priva di ambiguità esiste unicamente come utopia, come stimolo. 4. L’idea che la morale non è universalizzabile, cioè che l’etica non possa esprimere principi e norme valide per ogni luogo, o cultura, o popolo, o situazione. 5. L’idea che i fenomeni morali, nella prospettiva postmoderna, non comportano necessariamente un relativismo morale a causa della possibile implicazione piena dell’umanità dell’uomo nel fatto morale. In altre parole, il serio coinvolgimento del singolo nella situazione morale costituisce una garanzia, anche se parziale, della serietà della soluzione che non è più assicurata da un codice eteronomo che la precede.

«...essere morali significa sapere che le cose possono essere buone o cattive. Ma non significa sapere, né tanto meno sapere per certo, quali cose siano buone e quali cattive. Essere morali significa essere destinati a fare delle scelte in condizioni di profonda e dolorosa incertezza.»BAUMAN «... un’azione, per essere detta “morale”, non deve ridursi a un atto o ad una serie di atti conformi a una regola, a una legge, o a un valore. Ogni azione morale –è vero– implica un rapporto con la realtà nella quale si effettua, e un rapporto con il codice cui si riferisce; ma implica un certo rapporto con se stesso: il che non significa soltanto “coscienza di sé”, ma costituzione di sé come “soggetto morale”, in cui l’individuo circoscrive la parte di se stesso che costituisce l’oggetto di quella pratica morale, definisce la sua posizione in rapporto al precetto che segue, si prefigge un certo modo di essere che gli servirà come compimento morale di se stesso; e, per far questo, agisce su se stesso, comincia a conoscersi, si controlla, si mette alla prova, si perfeziona, si trasforma. Non c’è azione morale specifica che non si riferisca all’unità di una condotta morale;

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non c’è condotta morale che non chiami in causa la costituzione di se stesso come soggetto morale.» FOUCAULT «Nietzsche, infatti, concepisce l’uomo moderno e il suo tempo come una fine, la fine del movimento morale e spirituale di più di duemila anni, la fine della metafisica e del cristianesimo, la fine di ogni giudizio di valore… Per Nietzsche l’epoca finisce perché non crede più in ciò che l’aveva promossa e per secoli animata.»GALIMBERTI «Poiché la nozione di verità non sussiste più, e il fondamento non funziona più, dato che non è alcun fondamento per credere al fondamento, e cioè al fatto che il pensiero debba “fondare”, dalla modernità non si uscirà mediante un superamento critico, che sarebbe un passo ancora tutto interno alla modernità stessa... E’ questo il momento che si può chiamare la nascita della postmodernità in filosofia.»VATTIMO Il principio religioso. Difficilmente il principio religioso può essere considerato atto a fondare un’etica; questa, infatti, nella sua essenza, non è religiosa perché si ordina secondo ragione. Il fondamento dell’etica non dovrebbe dunque essere religioso. · Il principio della forza affermativa. Tale principio designa una fonte di potenza, una facoltà attiva, dinamica, creatrice, un’affermazione della vita. Abbiamo qui la sensibilità etica di Spinoza. La forza vitale ed il desiderio producono la gioia, un sentimento sostanziale e attivo. Nietzsche parla della volontà di potenza come di una facoltà creatrice capace di riempire l’anima e di colmarne il vuoto. · Il principio di realtà. La coscienza che il desiderio e la gioia sono sempre in pericolo e contigui al dolore ed alla precarietà tende a estirpare ogni ingenua credenza nella felicità. Qui interviene quello che chiameremo il principio di realtà, fondato su ciò che esiste effettivamente, sulle condizioni stesse della vita e dell’esistenza. Occorre capire il reale ed accettarlo. Arthur Schopenhauer (1788- 1860) è stato il maestro di questo realismo. · Il principio di responsabilità. Sentire responsabilità significa rispondere dei propri atti. E’ un principio che governa l’etica classica e che si ritrova oggi trasformato, esso, infatti, non riguarda più soltanto il presente o il futuro immediato ma, soprattutto con Jonas, si estende e si radica in un futuro lontano. · Il principio di libertà. Nella sensibilità contemporanea non si enfatizza la libertà metafisica, ma quella del poter agire, di esprimersi liberamente, di godere dei propri beni sotto la protezione delle leggi e senza subire costrizioni altrui. · Il principio di differenza. Consiste nell’idea secondo cui è necessario

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accettare le disuguaglianze sociali ed economiche a condizione che esse siano regolate a beneficio dei più svantaggiati e che assicurino a questi una condizione di vita soddisfacente; le disuguaglianze saranno distribuite nell’interesse di ognuno. · Il principio della coltivazione estetica del sé. E’ un’eredità dell'antica civiltà ellenica che ispirava la morale greca, che faceva coincidere etica ed estetica. In questo quadro la bella forma è promessa di moralità, il bello annuncia il buono. L’idea di applicare i valori estetici alla vita, pressoché assente nel Medio Evo, si ritrova nel Rinascimento da cui parte una linea che si protrae, espandendosi, fino a oggi. Foucault pone il principio della coltivazione estetica di sé come uno dei fondamenti dell’etica postmoderna. · I principi dell’autodeterminazione e del rispetto per la vita. Sono i fondamenti della moderna bioetica che devono forzatamente trovare nuove formulazioni linguistiche e di merito di fronte alle acquisizioni della scienza applicata alla vita umana. · Il principio dell’attività comunicativa. Grazie soprattutto a Habermas, troviamo un principio, basato sul concetto di comunicazione. Secondo diversi studiosi,la stessa parabola storica dell’umanità può essere suddivisa in

fasi corrispondenti ai principali mezzi comunicativi. LEVINAS «Il povero, lo straniero si presenta come eguale… La sua uguaglianza in questa povertà essenziale consiste nel riferirsi al terzo. Così presente all’incontro e che, nella sua miseria, è già servito da Altri… Egli si unisce a me… Ogni relazione sociale, al pari di una derivata, risale alla presentazione dell’Altro al Medesimo, senza nessuna mediazione di immagini o di segni… Il fatto che gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza, né da una causa comune di cui sarebbero l’effetto come succede per le medaglie che rinviano allo stesso conio che le ha battute… La paternità non si riconduce ad una causalità cui gli individui parteciperebbero misteriosamente e che determinerebbe, in base ad un effetto non meno misterioso, un fenomeno di solidarietà… Il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come assolutamente estraneo. E l’epifania del volto coincide con questi due momenti. O l’uguaglianza si produce laddove l’Altro comanda il Medesimo e gli si rivela nella responsabilità, o l’uguaglianza non è che un’idea astratta e una parola.» JONAS «la comunità umana si trova a dover fronteggiare una situazione in cui il potenziale distruttivo equivaleva alle possibilità di raggiungere nuovi livelli di creatività e di dignità umana. La strada da seguire sarebbe stata decisa dalle generazioni a venire. In ultima analisi, la scelta non sarebbe stata determinata né dall’intervento divino, né dalle forze arbitrarie della natura. E quella decisione avrebbe avuto un effetto duraturo, ben al di là dell’arco di vita di coloro che erano destinati ad assumerla. In effetti avrebbe determinato quali forme di vita avrebbero continuato a sopravvivere.»PAWLIKOWSKI

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«Prima sia il sapere, sia il potere erano troppo limitati perché si includesse nelle previsioni anche il futuro più lontano e nella coscienza della propria causalità tutta la terra. Solo la tecnica moderna con la ricchezza senza confronti delle sue imprese apre questi orizzonti nello spazio e nel tempo.»JONAS «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra... Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita... Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra... Includi nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà.»JONAS «...Jonas offre tuttavia un’interpretazione troppo cauta del ruolo e della funzione della responsabilità. Per lui ogni intervento di qualche magnitudine sulla società e sulla natura è pericoloso e destabilizzante... Facendo prevalere la paura e minimizzando i rischi, Jonas invita al contrario a inibire la propensione al possibile, in quanto fondata, a suo avviso, su pretese esorbitanti e su desideri immodesti.»BODEI FOUCAULT «l’uomo è allora un insieme di strutture, che egli è, certo, in grado di pensare e di descrivere, ma di cui non è il soggetto sovrano. Di conseguenza, anche la morale viene svincolata dall’uomo e ridotta alla politica, che a sua volta riesce a determinare il funzionamento ottimale della società senza avere bisogno di richiamarsi all’uomo, essendole sufficiente il riferirsi a determinati rapporti che legano fra loro l’aumento della popolazione, il consumo, la libertà individuale e la possibilità della felicità per tutti.»FOUCAULT RAWLS Due sono i principi di giustizia cui attenersi: 1. il primo esige una pari attribuzione dei diritti e dei doveri di base; ogni persona ha lo stesso diritto di godere delle libertà fondamentali; 2. il secondo riconosce che le disuguaglianze socio-economiche sono giuste se producono dei vantaggi per ciascuno e, in particolare, se favoriscono gli individui meno fortunati. Tra tali principi esiste un ordine gerarchico, il primo prevale sul secondo: non si può barattare la libertà con miglioramenti materiali. ARENDT «…la politica, liberata dalla tirannia della filosofia e della teoria, non sarebbe più una necessità di ordine negativo, ma la risposta umana più elevata al fatto che “non l’Uomo, ma gli uomini” al plurale nascono, vivono, abitano il mondo e muoiono. Natalità e mortalità costituirebbero, allora, la duplice fonte dell’azione politica», e ancora:

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«Il fatto decisivo che determina l’uomo come essere consapevolmente rammemorante è la nascita o natalità, il fatto che siamo entrati nel mondo attraverso la nascita; mentre il fatto decisivo che determina l’uomo come essere deliberante è la morte o mortalità, il fatto che abbandoneremo il mondo con la morte…» Per la Arendt,Il modello per eccellenza è quello della polis greca, in cui lo spazio pubblico è occupato dalla parola, che rappresenta lo stare insieme; per i greci, la famiglia costituiva lo spazio privato, dominato dalla necessità, mentre la polis costituiva quello pubblico, dominio della libertà. Nella modernità l’uomo laborans ha soppiantato l’homo faber, facendo dell’attività lavorativa continua e ripetuta l’espressione massima del suo essere. MOLTMANN «...se Il fine del progresso e della globalizzazione del potere umano non consiste nel dominare e possedere la terra bensì nell’abitarla, dovremo abbandonare il “complesso di Dio” tipico dell’uomo moderno, occidentale, convinto… di essere padrone e possessore della natura, La terra può vivere senza il genere umano, come del resto è vissuta per milioni di anni. L’umanità, invece, non può esistere senza la terra, da cui essa proviene.» «Soltanto gli stranieri saccheggiano la natura, disboscano le foreste, svuotano i mari e poi, come nomadi, trasmigrano altrove. Chi invece abita sul posto, dove intende continuare a starci, è interessato a conservare le stesse condizioni di vita e a non compromettere la vitalità della natura che lo circonda. Egli risponderà ad ogni attacco sferrato contro la natura e farà di tutto per ristabilire gli equilibri compromessi… Il potenziale scientifico e tecnologico di cui l’umanità dispone e che attende di essere sviluppato non va impiegato nella lotta distruttiva per l’acquisizione di potere, ma per rendere sempre più abitabile questo nostro pianeta.»

RIFLESSIONI ETICHE

«La metafisica non ci lascia completamente orfani: la sua dissoluzione (se si vuole, la morte di Dio di cui parlava Nietzsche) si mostra come un processo dotato di una propria logica a cui si possono attingere anche elementi per una ricostruzione. (Sto parlando di ciò che Nietzsche chiamava nichilismo: che non è solo il nichilismo della dissoluzione di tutti i principi e valori, ma è anche, come nichilismo “attivo”, la chance di iniziare una storia diversa).»VATTIMO «Il sentimento morale non ha la sua sede nella ragione, non ci arriva dal cielo inviato da chissà chi, non c’è bisogno di riferirlo ad un Dio come non è necessario un diavolo per spiegare l’amore di sé. Si tratta in entrambi i casi di un istinto, istinto potentissimo che è quello di sopravvivere.»SCALFARI «Il progresso è concepito come un’immensa marea il cui flusso ineluttabile lascia indietro vestigia commoventi... Tutto in questa ipotesi

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viene a confermare l’ingenua speranza dell’uomo bianco. Il negro è un “grande bambino”, ricordo dei balbettii dell’umanità; il rosso è anch’egli un bimbo avido di ‘acqua di fuoco’, di cianfrusaglie e di lunghe carabine; il giallo è un vecchio addormentato dall’oppio, perduto nei sogni del passato.»SERVIER «...lo scopo della globalizzazione, economicamente e culturalmente, è la replicazione di se stessa… L’antropologia implicita era che l’essere umano era al servizio della globalizzazione come produttore e consumatore; gli esseri umani dovevano alimentare il motore della mostruosa macchina della globalizzazione.»SCHREITER «“Sono pronto a morire per l’Altro” è un’affermazione morale. “Lui dovrebbe essere pronto a morire per me” palesemente non lo è... La disponibilità al sacrificio per il bene dell’altro mi investe di una responsabilità che è morale precisamente perché accetto che il comando di compiere un sacrificio sia diretto a me e a me soltanto... Essere una persona morale significa che io sono il custode di mio fratello… sia che mio fratello abbia o no la consapevolezza dei suoi doveri fraterni così come l’ho io.»BAUMAN «Ciò che è accarezzato non è semplicemente toccato. La carezza non ricerca la vellutatezza o la tiepidezza nel contatto con una certa mano. E’ questa ricerca della carezza che ne costituisce l’essenza, per il fatto che la carezza non sa quello che cerca. Questo non sapere, questo disordine fondamentale ne è l’essenziale… La carezza è l’attesa di questo avvenire puro senza contenuto.»LEVINAS «La tenerezza rifiuta sia il narcisismo (che riduce a sé l’alterità) sia la violenza (che distrugge il sé dell’alterità); essa dà senso umano al desiderio e orienta all’incontro con l’altro/a, come dono, distanza, trascendenza… La sessualità appartiene infatti all’essere relazionale della persona; come tale, essa manifesta un’insopprimibile richiamo all’altro da sé e, in ultima analisi, all’Infinito».ROCCHETTA «Noi non possiamo obbligarci ad amare qualcuno... La nostra ragione, invece, è capace di concepire, come necessario, il dovere. Se manca la spontaneità dello slancio d’amore, la morale resta ancora possibile, perché c’è il dovere. Il dovere subentra, per così dire, al vuoto lasciato dall’amore... Poiché non posso contare sull’amore, che è un sentimento spontaneo, prenderò il suo equivalente volontario, ciò che ha le stesse conseguenze pratiche. La morale ci impone di agire come se amassimo. Il dovere è un “come se” dell’amore.»ALBERONI-VECA «L’amore punta sempre all’irrevocabilità, ma nel momento del trionfo subisce la sua sconfitta definitiva. L’amore si sforza costantemente di eliminare la proprie fonti di precarietà e apprensione, ma qualora ci riesca inizia rapidamente ad avvizzire, e svanisce… Fusione o sopraffazione appaiono le uniche cure per il tormento che ne consegue. E non c’è che un tenue confine, fin troppo facile da dimenticare, tra una morbida e gentile carezza e una morsa

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d’acciaio inesorabile. Eros non può essere fedele a se stesso senza dispensare l’una, ma non può farlo senza rischiare di infliggere l’altra. Eros tende una mano verso l’altra, ma la stessa mano che accarezza può anche stringere e stritolare… Finché dura, l’amore è in bilico sull’orlo della sconfitta.»BAUMAN «I suoi intenti sono modesti… Chiedi di meno, ti accontenti di meno, e quindi l’ipoteca da pagare è minore e anche la sua durata atterrisce di meno… La convivenza è a causa di, non al fine di… Convivere può significare condividere la barca, il desco e le cuccette. Può significare navigare insieme e condividere le gioie e le fatiche del viaggio. Ma non comporta il passaggio da una sponda all’altra.»BAUMAN «L’estraneità degli stranieri significa esattamente la nostra sensazione di smarrimento, il non sapere che cosa fare e che cosa aspettarci, e la conseguente non disponibilità ad impegnarci. Evitare il contatto è la sola salvezza, ma anche evitarlo completamente, se ciò fosse possibile, non ci salverebbe da un certo grado di ansia e di disagio provocati da una situazione che presenta sempre il pericolo di passi falsi ed errori gravidi di conseguenze.»BAUMAN «La tecnologia non avanza mai in direzione di qualcosa se non perché viene spinta da dietro. I tecnici non conoscono il motivo per cui lavorano, e generalmente non se ne preoccupano. Essi lavorano perché dispongono degli strumenti che consentono loro di eseguire un certo compito, di condurre a termine con successo una nuova operazione... Non c’è alcuna aspirazione a uno scopo; c’è la spinta di un motore collocato alle proprie spalle e che non ammette alcuna sosta delle macchine... Dato che possiamo sbarcare sulla luna, che cosa potremo fare lì e a quale scopo?... Quando i tecnici hanno raggiunto un certo livello di competenza nel settore delle comunicazioni, dell’energia, dei materiali, dell’elettronica, della cibernetica, ecc., tutti questi elementi si sono combinati e hanno mostrato che avremmo potuto esplorare il cosmo ecc. Ciò è stato fatto perché poteva essere fatto. E questo è tutto.»ELLUL «...la nostra epoca ha visto così l’anima umana rimanere come paralizzata, e mancarle le forze successivamente in tre campi. Il primo è stato quello della tecnica. Inventata per servire all’uomo che lavora, è finita per asservirlo. Le macchine non sono più, come l’utensile, un prolungamento del braccio umano: l’uomo è diventato un prolungamento di quelle, un’articolazione meccanica periferica che apporta e porta via.»BUBER «… la vera novità è che un numero sempre crescente di persone, per un motivo o per l’altro, vive una vita nomade. Ci sono, ad esempio, i nuovi nomadi ricchi… che, per piacere o per lavoro, viaggiano dappertutto sul pianeta bardati di cellulari, carte di credito e computer portatili. All’estremo opposto, due o tre miliardi di persone si muovono di continuo per sopravvivere… Tra questi due estremi,

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c’è poi una vasta categoria di persone che, sebbene siano ancora sedentarie, vivono tutte le forme del nomadismo virtuale attraverso la televisione, i videogiochi, le nuove tecnologie. Senza dimenticare, inoltre, che la mondializzazione spinge verso nuove forme di nomadismo economico: tutto si muove, il lavoro come il capitale »ATTALI «Dall’affermazione del carattere particolare dei sistemi di valori alla rinuncia all’idea dell’unità del mondo, dell’umanità e della storia il passo è breve. Si arriva così a sostenere la tesi secondo cui il mondo è diviso in culture, l’umanità in popoli e la storia in storie, e che perciò non esistono norme e valori universali. Basandosi sul presupposto della pluralità delle norme, ogni tentativo di dichiarare universali determinate norme o determinati valori è etichettato come etnocentrico... Tuttavia, dietro il congedo giocoso dai valori universali si nasconde un valore che a sua volta è presentato come universale, cioè quello dell’individualità. Gli altri sistemi di valori e le altre forme sociali devono essere riconosciuti in base al valore superiore dell’autorealizzazione individuale... Considerando la libertà dell’individuo il bene supremo e universale, si pone tuttavia un problema: è pensabile una convivenza fra individui liberi che non degeneri in concorrenza e in conflitto?»ROHLS «Per l’ebreo che vede nell’al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore della storia e quindi “Auschwitz”, per il credente, rimette in questione il concetto stesso di Dio che la tradizione ha tramandato. Auschwitz rappresenta quindi per l’esperienza ebraica della storia una realtà assolutamente nuova e inedita, che non può essere compresa e pensata con le categorie teologiche tradizionali. Quindi che non intende rinunciare sic et simpliciter al concetto di Dio deve pensare questo concetto in modo del tutto nuovo e cercare una nuova risposta all’antico interrogativo di Giobbe. Ove decidesse di farlo, dovrebbe anche lasciar cadere l’antica concezione di Dio signore della storia: perciò, quale Dio ha permesso che ciò accadesse?»JONAS

RIFLESSIONI SUL FUTURO “Sempre più viviamo in ambienti tecnobioculturali strutturati dalle nuove forme di scienza e tecnologia, che sono pertanto diventate aree cruciali per la creazione culturale del mondo attuale.” Eleonora Fiorani, La nuova condizione di vita, Lupetti, 2003 “… la continua mutevolezza, il cambiamento di forma, la leggerezza e l’assenza di peso, reale o immaginario che esso sia, la relazione con il tempo invece che con lo spazio: ciò che conta è il flusso temporale” Eleonora Fiorani, La nuova condizione di vita, Lupetti, 2003 “La rivoluzione informatica e della New Economy ha investito anche la Old Economy, l’economia tradizionale, che utilizza le stesse tecniche informatiche ed elettroniche per rinnovare i processi aziendali: dal codice a barre, che identifica le merci, al computer che guida le attività.” Eleonora Fiorani, La nuova condizione di vita, Lupetti, 2003 “Noi disponiamo ora di plastici informatici che sono, in realtà, molto più malleabili e manipolativi di quelli del passato in quanto consentono una interazione più ricca e più controllare tra utente e modello.” Tomàs Maldonado, Reale e Virtuale Feltrinelli, 2007

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“Il cyber corpo è un sistema aperto, in transizione, che si pone oltre l’individuo, pronto ad accogliere l’alterità animale o tecnologica, a metamorfosarsi in qualcosa d’altro. Ospitare ed essere ospitato nell’alterità diviene il campo di dialogo tra questo corpo e il mondo esterno. Stelark, a sua volta, evoca la figura del corpo cavo, aperto a ricevere nuovi organi artificiali.” Eleonora Fiorani, La nuova condizione di vita, Lupetti, 2003 “Con il virtuale il mondo sta sperimentando un atteggiamento diverso rispetto alla materia, al corpo delle cose e dell’uomo. Il virtuale rende il corpo un elemento sempre più esterno alla sua natura di forma fisica. E assume i corpi come oggetto di manipolazioni e progettazioni multiple, a cominciare dall’ampliamento e dall’artificializzazione delle sensorialità per giungere alla loro riconfigurazione fisica.” Eleonora Fiorani, La nuova condizione di vita, Lupetti, 2003 “Semplicità significa sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo.” John Maeda, Le leggi della semplicità, Bruno Mondadori, 2006 “Semplicità = serenità La tecnologia ha reso le nostre vite più piene, ma allo stesso tempo siamo diventati spiacevolmente pieni.” John Maeda, Le leggi della semplicità, Bruno Mondadori, 2006

ETICA RELIGIOSA E ETICA LAICA Possiamo definire come morale religiosa quell’insieme di norme di giudizio e di comportamento che s’ispirano al credo di una tradizione religiosa; la morale laica tende, al contrario, a fondarsi soltanto sui dati della ragione. La storia dell’etica moderna è un tentativo di fondare un’etica oggettiva, razionale, empirica, cioè laica 1. Il giusnaturalismo moderno fondato da Grozio, secondo cui la natura dell’uomo è la ragione. Dalla natura deriva ogni legge; un’azione è morale se si accorda con la natura razionale dell’uomo. Le leggi positive devono regolare i comportamenti. Il limite più evidente di tale visione sta nel fatto che resta da dimostrare che tutto ciò che è naturale sia buono. Ci si basa sull’idea che la natura sia l’emanazione di una volontà buona, ma così si reintroduce un argomento teologico e fideistico. 2. L’etica induttiva il cui argomento fondamentale per dare oggettività ai giudizi di valore è il consensus umani generis, cioè la constatazione che una certa regola di condotta è comune a tutte le genti. Due obiezioni appaiono però significative: vi sono realmente leggi universali? Inoltre vi sono leggi che sono state in vigore per secoli senza che per questo possano essere serenamente accettate come morali. 3. La teoria kantiana 4. L’utilitarismo. Il dato oggettivo su cui si fonda sono le sensazioni di dolore e di piacere; da cui la tesi per cui il criterio per distinguere il bene dal male è rispettivamente la quantità di piacere e di dolore che un’azione procura. Le difficoltà sono diverse e ciò ha spinto verso il cosiddetto utilitarismo della regola secondo cui il problema non è più quale azione ma quale norma sia più utile. Nessuna delle più comuni teorie della morale laica, fondata sulla ragione, è esente da critiche; di fronte a questo, si sono presentate ultimamente tre possibili soluzioni: 1. L’appello all’evidenza (o intuizionismo etico). Scavalca la ragione (ultrarazionale). 2. Il relativismo assoluto secondo cui i giudizi di valore sono espressioni di emozioni, sentimenti, preferenze, opzioni, tra loro equivalenti. Deprime la ragione (infrarazionale). 3. L’affermazione che la sfera dei giudizi morali sia quella del non

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razionale, ma del ragionevole in cui valgono gli argomenti propri della retorica, o arte del persuadere, distinta dalla logica, o arte della dimostrazione. Limita la ragione (quasi-razionale). L’etica religiosa si sviluppa lungo due direzioni opposte: · Il volontarismo teologico, secondo cui è giusto ciò che è comandato da Dio ed ingiusto quello che è da Lui proibito. · La tesi secondo cui Dio comanda ciò che è giusto e quindi il criterio morale non è la volontà di Dio, ma la sua natura che essendo buona non può comandare azioni ingiuste L’etica laica «nel corso del XX secolo si è andata sviluppando una linea di pensiero secondo cui non solo non è vero che senza Dio non può darsi l’etica, ma anzi è solo mettendo da parte Dio che si può realmente avere una vita morale. Solo colui che è agnostico o ateo può effettivamente porre al centro della sua esistenza le richieste dell’etica… l’ateismo è la cornice concettuale più favorevole all’affermarsi di una moralità.» LECALDANO «...l’orizzonte per le nostre decisioni etiche dovranno essere i sentimenti, le reali esigenze degli altri esseri umani… il non credente non ha bisogno di risalire a Dio, né sperare in un’altra vita in cui la sua condotta morale trovi il giusto premio. Egli può far ricorso semplicemente alle proprie emozioni, ai propri sentimenti, alla ragione e alle pratiche riflessive che gli sono abituali. Il premio per la sua condotta morale deriverà principalmente dalla consapevolezza di avere fatto ciò che è bene, giusto e doveroso.» LECALDANO L’etica religiosa «Il mondo ne ha avuto esperienza evidente e recente: gli orrori del secolo appena terminato sono stati perpetrati da una dittatura pagana come il nazismo ed atea come il comunismo. Questo non vuole dire ovviamente che in nome di Dio non siano state commesse delle mostruosità: è lunga la lista dei credenti che si sono macchiati di infamie. Tuttavia l’assenza programmatica di un Dio, o quanto meno l’illusione di combatterne la presenza, porta sistematicamente all’orrore.» WIESEL «...solo i credenti sarebbero capaci di “senso della vita". La vita eterna promessa da Dio ai suoi fedeli dà un significato alla loro vita mortale. Se tutto si consuma quaggiù, senza premi e punizioni lassù, allora una cosa vale l’altra… Ecco allora il relativismo, l’indifferentismo, l’egoismo, il puro calcolo di utilità, la sopraffazione, la disperazione, il non-senso della vita: in breve, l’impossibilità di una morale esistenziale e, dunque, di una vita rivolta al bene piuttosto che al male.» ZEGREBELSKY «...se la certezza e l’assolutezza di tali valori discendono direttamente da Dio e dalla natura, allora diventa ovvio per coloro che sostengono questa idea richiedere con forza e senza tregua che non solo la vita privata delle persone sia ispirata a tali valori discrezionalmente, ma che siano le leggi dello Stato a imporli a tutti i cittadini. » LECALDANO «...non ha difficoltà a convincersi che tutto ciò che ne fa parte deve essere imposto a tutti, anche a coloro che non credono nel suo Dio o in generale in Dio… l’atteggiamento di chi crede che la propria

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morale derivi da Dio non può che essere impositivo e intollerante e numerose sono le situazioni del passato che documentano la ricaduta pubblica di tale concezione.» LECALDANO «...per ragioni storiche e di memoria comune, laici e cristiani dovrebbero invece tentare insieme nuove aperture e insieme inventare “vie di senso”, dando spazio –per usare un’espressione di Paul Ricoeur– alla “ospitalità delle convizioni”. Sì, uomini di “buona volontà” (come si diceva nell’ora del Concilio), “uomini pensosi” (come si preferisce dire oggi), credenti e laici devono insieme cercare cosa significa essere responsabili del mondo, della terra, della storia; devono sapersi interrogare reciprocamente, restando esigenti gli uni verso gli altri contro l’irrazionalità, la superstizione, la magia e i sincretismi melliflui; devono insieme smascherare quelle saggezze esotiche che vorrebbero salvare l’uomo dissolvendolo, e insieme denunciare ogni voracità religiosa e quel fondamentalismo di cui a volte è tentata di rivestirsi la “parola forte” che trascende l’uomo; devono praticare la vita interiore come approfondimento dell’uomo e come mezzo per leggere la propria e l’altrui esistenza; devono insieme cercare la giustizia e la pace e “saper ascoltare il grido di tanti popoli poveri del mondo”…» BIANCHI «l’etica laica, che è tale proprio perché non si fida molto della provvidenza di Dio, dovrebbe farsi carico anche di quei problemi che l’etica religiosa affida alla provvidenza e non abdicare» GALIMBERTI

IL CONFLITTO FRA STATO E CHIESA «...siamo di fronte ad un modo di essere della Chiesa che si presenta e si organizza in forme ritenute necessarie per salvaguardare valori che lo Stato non sarebbe più in grado di garantire. La contrapposizione è frontale, la strategia è quella propria di un soggetto politico.» RODOTA’ Comunemente si intende come legge di natura quella che viene scoperta dalla ragione umana; per i credenti, la ragione per giungere a tale scopo deve essere illuminata da Dio. «forse la struttura mentale originaria, che condiziona il rapporto tra noi e il mondo, è la contrapposizione tra ciò che è naturale e sta fuori di noi, e ciò che è artificiale e procede da dentro di noi». Zagrebelsky Per un certo periodo l’idea di legge naturale è caduta in disuso, oggi la Chiesa cattolica l’ha fortemente recuperata e la propone come grande rassicuratrice atta a dispensare forti certezze etiche. «...il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il bisogno di sicurezza. Di fronte a veri o presunti arbitrii e, perfino, ai veri e propri delitti compiuti con l’avallo della legge fatta dagli uomini, che cosa è più rassicurante di una legge obbiettiva, sempre uguale e valida per tutti, la legge della natura appunto, che gli uomini non possono alterare e corrompere a loro piacimento?» ZEGREBELSKY Il diritto naturale in realtà non appare come un luogo di consenso universale, al contrario appare un terreno di conflitti, prima di tutto perché non c’è un accordo su cosa sia la natura «Ecco come la natura può diventare una maschera della sopraffazione: che è privo di fede e grazia sarà considerato un errante, un reprobo, un contro-natura o, nella migliore delle ipotesi, uno da convertire con l’aiuto di Dio misericordioso; in ogni caso, non uno al quale si possa riconoscere un valore da prendere in considerazione. » ZEGREBELSKY

ETICA E GENERE

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Gli studi di genere (Gender Studies) ▶ Gli studi di genere nascono in Nord America a cavallo tra gli anni ’70 e ‘80 nell’ambito degli studi culturali. Si sviluppano a partire dalla riflessione femminista, gay e lesbica, e si nutrono di alcune fondamentali posizioni del poststrutturalismo di Derrida e Foucault. ▶ I Gender Studies non focalizzano la loro attenzione esclusivamente sulla storia delle donne bensì sulla costruzione sociale e culturale di entrambi i generi, femminile e maschile, e sulle relazioni che intercorrono tra loro. ▶ La ricerca di genere è interdisciplinare, abbraccia vari campi del sapere e, trasversalmente, ha contaminato ed arricchito la riflessione contemporanea dall’etica alla politica, dalla scienza alla filosofia, dalla psicologia alla sociologia agli studi sul linguaggio. ▶ Il contributo più importante è quello di aver posto l’attenzione sulla corporeità, non solo come dato biologico, ma come differenza di genere, carica, in modo cosciente e consapevole, di tutte le sue implicazioni dal punto di vista sociale, storico, scientifico, culturale ecc. Il pensiero della differenza ▶ Movimento di pensiero affermatosi a partire dalla fine dalla fine degli anni ’60 del ‘900, caratterizzato da una specifica riflessione sulle tematiche della donna ad opera delle donne stesse. ▶ Il pensiero della differenza non considera la differenza sessuale in negativo o in termini puramente emancipazionisti (per rivendicare un’uguaglianza tra uomo e donna), ma positivamente, come una differenza da valorizzare, da cui ripartire per affermare la specificita’ e l’autonomia della donna. ▶ Le prime autrici a cui si fa riferimento sono Luce Irigaray (Speculum, l’altra donna, 1974), Helene Cixous e Julia Kristeva che partirono dalla riflessione sul linguaggio per smascherare il predominio della cultura maschilista al di sotto di una presunta neutralità ed universalità linguistica. Sesso e genere Gli studi di genere propongono un’importante puntualizzazione su quelli che, secondo la loro ottica, sono due diversi e separati aspetti dell’identità: ▶ Sex: il sesso riguardo tutto ciò che di un individuo è connesso alla biologia, al corredo genetico che manifesta le differenze anatomiche e fisiologiche tra uomo e donna. ▶ Gender: rappresenta una costruzione culturale, cioè il sesso calato nella società con tutto quello che ne consegue in termini di sovrastrutture e divisioni di ruolo. Sesso e genere non costituiscono due posizioni contrapposte, ma interdipendenti: sul sesso si innesta il genere, il genere è un carattere appreso, il sesso è innato. Maschi e femmine si nasce, uomini e donne si diventa. Sfondo teorico del pensiero della differenza: ▶ M. Heidegger: il filosofo tedesco lega l’essere (che da sempre la tradizone filosofica occidentale aveva reso atemporale, immobile, eterno, incorrutibile) al tempo. L’essere è l’orizzonte nel quale l’uomo ritaglia porzioni per dare definizioni. L’esistenza è un progetto, un essere lanciato verso l’avvenire, l’uomo stesso non è tutto in sé, ma si trascende continuamente (identità e differenza). ▶ E. Levinas: per il filosofo lituano il riconoscimento della frattura tra sé e l’altro porta alla separazione che è il primo principio dell’etica della differenza.

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L’esistente acquista significato solo nel riconoscimento dell’altro che non è riconducibile a sé, ma rimane un mistero. Il femminile rappresenta l’origine del concetto di alterità che non si lascia neutralizzare nella relazione, la differenza di sesso non è dualità di due termini complementari.

Il post strutturalismo Il post strutturalismo, nella seconda metà del ‘900, mette in discussione il potere e l'unitarietà del soggetto. ▶ Per Foucault la critica al potere si esplica nella critica al linguaggio e al discorso di cui il potere si serve. Soggetto, follia, sessualità, si rivelano tra le costruzioni discorsive più potenti, messe a punto dal potere (dalla sua microfisica), in un preciso momento della nostra storia, per disciplinare e controllare in senso economico e produttivo il corpo sociale. Egli afferma che ”è possibile pensare soltanto entro il vuoto dell'uomo scomparso". ▶ Deleuze affermava che ”è necessario dire qualcosa di nuovo per creare qualcosa di nuovo", la ricerca filosofica si presenta come liberazione del pensiero dalle strettoie logico-linguistiche che impediscono il movimento dei concetti e dei corpi, diviene individuazione di modi di vivere e di pensare un essere che dà spazio ad un'infinità pluralità di differenze. ▶ Derrida interroga la tradizione filosofica attraverso il metodo della decostruzione che permette di evidenziare il carattere dinamico della differenza: l’identità non è qualcosa di dato, si determina in relazione ad altro, nel differire da sé, non esiste identità (quindi presenza) se non nella differenza. L’etica femminista ▶ L’etica femminsta si propone di decostruire i valori di fatto esistenti e costruire criticamente nuovi valori condivisi in cui la differenza di genere sia il punto di partenza. ▶ Vi è una costante critica nei confronti dell’etica di stampo kantiano o utilitaristico perché entrambe propongono un soggetto astratto (né uomo, né donna), come pure nei confronti delle etiche individualistiche (si rivolgono ai singoli e non considerano l’interpersonalità dell’agire etico). ▶ Un soggetto etico femminile non è né neutro, né universale, è differente dal soggetto maschile. L’etica della cura (1) ▶ Gli studi di Carol Gilligan, esposti nel suo libro In a different voice (1982), si incentrano sulla nascita del pensiero morale nei soggetti maschili e femminili. La psicologa femminista americana arriva ad affermare che essi propongono due diversi approcci all’agire morale: i primi parlano di equità, diritti, libertà (l’etica della giustizia); le donne invece parlano di responsabilità, relazione, affetti, risposte ai bisogni (l’etica della cura). ▶ Interessante è la posizione di Catharine MacKinnon per la quale il diritto è strumento di oppressione maschile sulle donne. Il femminismo deve spostare l’attenzione dalla differenza all’oppressione. La sessualità induce relazioni di potere e di subordinazione del femminile. ▶ In deontologia professionale, soprattuto quella medica, per quanto riguarda l’etica della cura si profilano due posizioni: la prima richiede un distacco tra chi cura e chi è curato per garantire il primo da implicazioni emotive; la seconda sviluppa invece empatia e parte dal presupposto che entrambi siano implicati nella relazione di cura. L’etica della cura (2) ▶ Joan Tronto: si propone di liberare l'etica della cura dal suo tradizionale nesso con la moralità femminile, doppiamente controproducente sia perché induce a trattare natalità, mortalità e cura come questioni “da donne” (quindi secondarie),

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secondarie), sia perché incatena le donne alla funzione materna. Nel suo libro, Confini morali, critica la posizione della Gilligan, colpevole di adottare la strategia della different voice tipica delle donne. Tale posizione è conservatrice, in quanto mantiene i ruoli di genere e le frontiere morali fra giustizia e cura, senza rendersi conto che la differenza fra giustizia e cura non descrive solo il divario fra uomini e donne, ma in generale quello fra privilegiati e marginali. Mettere in discussione i confini fra giustizia e cura

significa riconoscere che, se la filosofia morale riguarda il bene della vita umana, allora la cura deve avere un ruolo importante. Per questo, essa deve essere liberata dall'associazione con la femminilità e la naturalità (materna) e valorizzata nel giusto contesto politico, come motore di cambiamento strutturale. ▶ Susan Moller Okin: fa un’analisi della giustizia a partire dal contributo del femminismo di avere reso “politico il privato”. La sua critica parte dalla considerazione che la famiglia non deve essere considerata come “privato”; fino a che la famiglia sarà esclusa dalle trattazioni sulla giustizia permarrà una dicotomia tra pubblico e privato responsabile di una distribuzione dei ruoli non equa tra uomo e donna. Dall’etica alla politica Il problema della giustizia ▶ posizione di J. Rawls: la società si fonda, non sul bene, ma sulla giustizia che deve garantire unʼequa distribuzione dei beni, ma spartizioni diseguali ed ineguaglianze economiche sono ammissibili per il beneficio dei meno avvantaggiati (principio di riparazione e principio della differenza). ▶ posizione di R. Nozick: in polemica con Rawls, Nozick parte dalla difesa dei diritti individuali anche contro lo Stato, anzi lui ipotizza una minimizzazione della Stato (lo Stato minimo, una sorta di “guardiano notturno”). La centralità è del mercato capitalistico (liberismo libertario), ma questo deve sempre difendere i diritti individuali, anche quelli degli omosessuali e delle minoranze. ▶ posizione di A. Sen: il filosofo bengalese si interroga su liberalismo e giustizia sociale. La libertà deve essere messa in relazione con lʼuguaglianza. Parte dalla constatazione che gli individui sono diseguali. Lʼuguaglianza in una società dipende dal suo grado di idoneità a garantire la capacità (capability) di star bene (functioning). Corpi che contano. I contributi degli studi di genere nell’etica e nella politica ▶ Gli studi di genere hanno messo in rilievo che il soggetto dell’etica e della politica non è universale e astratto, ma è posizionato e situato, è capace di sentire dolore ed è il risultato di una determinata società. Tali studi propongono una dimensione etica e politica che fa perno su una concezione di giustizia capace di farsi carico delle differenze e di accettare anche “spartizioni diseguali”. ▶ Il femminismo pone l’accento sulla ricerca creativa di valori condivisi non su un astratto universalismo. La riflessione normativa nasce quando si ode un grido di dolore o disagio, o quando si prova uno stato di dolore o disagio. (Marion Young) Prospettive multiple. I contributi degli studi di genere nell’epistemologia ▶ La differenza porta ai saperi situati e locali. La scienza, per i tanti e forti interessi che coinvolge in molti campi, è sempre stata la roccaforte dell’universalismo, dell’obiettività, dell’astrazione e del pensiero maschilista. Il contributo dell’epistemologia femminista alla teoria della conoscenza è stato quello di aver sottolineato che “la neutralità non accresce l’obiettività” (Harding) e che l’obiettività non sempre è un valore sopra ogni cosa.

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▶ Con la teoria del posizionamento l’epistemologia femminista rivaluta la positiva parzialità del punto di vista ed introduce nella scienza il bisogno di “una rete di rapporti che copra il mondo, ed includa l’abilità di tradurre parzialmente conoscenze tra comunità molto differenti e differenziate in termini di poteri. Abbiamo bisogno del potere delle moderne teorie critiche su come i significati ed i corpi vengono costruiti, non a scopo di negare significati e corpi, ma per costruire significati e corpi che abbiano un futuro.” (Haraway). Essere coscienti della propria parzialità conduce al soggetto nomade (Braidotti), un soggetto che occupa uno spazio fluttuante e marginale che per questa sua natura apre nuove possibilità e nuove forme di resistenza.

Ultime riflessioni sulla corporeità Oltre il corpo ▶ Cloni, cyborg, “mostri”, queer sono figure contestate di cui una parte del più recente (ma anche più criticato) filone di voce anglofona dei Gender Studies si serve per reinterpretare la realtà attraverso un superamento dialettico del genere, ma sempre a partire dalla sua consapevolezza e coscienza. ▶ La sfida utopica di un mondo “mostruoso” senza genere è rilanciata da autrici importanti tra cui Donna Haraway che afferma: Un mondo senza genere è un mondo senza genesi, ma può anche essere un mondo senza fine. (Haraway) ▶ Judith Buttler, una tra le voci statunitensi più autorevoli del pensiero lesbico, afferma che l’elemento centrale contro cui combattere è il paradigma eterosessuale. In un contesto postmoderno le identità si contaminano e divengono multiple. La stessa critica che il pensiero femminista ha applicato al genere deve essere applicata anche al sesso. ▶ Nel pensiero postmoderno si tenta di superare una visione dicotomica (tra i due sessi) per una differenza multipla (tra molti). La filosofia del tao. Oltre la separazione “Un essere umano è parte di un tutto che chiamano “universo” [...] L’illusione (della separazione) è una sorta di prigione per noi [...] Il nostro compito deve essere quello di liberarci da questa prigione, ampliando il nostro cerchio di compassione per abbracciare le creature viventi e la natura tutta nella sua bellezza.” (A. Einstein) ▶ La filosofia occidentale ha elaborato molte delle sue teorie sulla divisione tra mente e corpo. ▶ La filosofia orientale invece considera il fisico e lo spirituale come parti inscindibili di un’unica unità. Ogni elemento dell’universo è costituito dal continuo alternarsi di due polarità: la positiva e la negativa, lo yin e lo yang, il maschile e femminile, il progetto e la realizzazione. L’equilibrio dinamico che si instaura tra queste due qualità energetiche presiede alla vita, la separazione ha senso solo come momento dialettico, ma la ricerca autentica deve portare allo svelamento dell’unità empatica ed olistica del tutto.

LA FANTASCIENZA COME RIFLESSIONE SULL’ETICA FUTURA DEFINIRE LA FANTASCIENZA

• Science + fiction, ma: – Il rapporto tra scienza e narrativa è ambiguo, non scontato come potrebbe sembrare.

• Fantascienza: – Fantasia + scienza; può essere scientifica una fantasia?

OCCORRE COMPRENDERE A FONDO IL RUOLO DELLA FANTASIA,

DELL’IMMAGINAZIONE “Ogni storia di science fiction parte da un novum, un’invenzione postulata sulla base del metodo

scientifico. La presenza di questa ipotesi genera conseguenze sviluppate coerentemente sulla base delle nostre conoscenze “

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D. Suvin, Le metamorfosi della fantascienza tutti i progressi della conoscenza scientifica, ad ogni livello, cominciano con un’avventura speculativa, una preconcezione immaginativa di ciò che potrebbe essere vero, una preconcezione che sempre va un

po’ oltre (e talvolta molto oltre) tutto quanto di cui abbiamo un’evidenza logica e fattuale. È l’invenzione di un mondo possibile, o di una minuscola frazione di tale mondo”

Peter Brian Medawar, premio Nobel per la medicina, L’immaginazione dello scienziato

“la science fiction non è, come molti credono, scienza vestita di fantasia ma esattamente il contrario, cioè fantasia pura ricoperta dei veli di una elaborazione razionale, non importa se dispiegata

paradossalmente”

L. Aldani, La fantascienza

Concezione di H. Bruce Franklin • Ogni narrazione, di qualunque genere, intende descrivere la realtà: le narrazioni di tipo differente

si distinguono quindi per i punti di vista adottati: – Narrazioni realistiche (realistic fiction): descrizioni della realtà presente attraverso la

produzione di una sua simulazione (counterfeit) – Narrazioni storiche (historical fiction): descrizioni della realtà presente attraverso la

produzione di una simulazione della sua storia – Fantascienza (science fiction): descrizione della realtà presente attraverso

l’estrapolazione di un suo ipotetico futuro costruito a partire da un’ipotesi immaginativa – Narrazione fantastica (fantasy): descrizione della realtà presente tramite un’alternativa

impossibile Future perfect

Concezine di Asimov

• Distingue tre tipi di fantascienza: – Avventurosa: vicina al Fantasy (Flash Gordon, Star Wars) – Tecnologica: la tecnologia emerge come valore primario non come mezzo per ottenere

uno scopo (La macchina del tempo) – Sociale: è qui che emerge la valenza culturale e filosofica della fantascienza che, in

questa accezione, si occupa di evidenziare le conseguenze del progresso tecnologico per la società (Asimov, Dick, Ballard, Vonnegut

La fantascienza filosofica

• In questa quarta accezione l’esposizione di temi, problemi e concezioni filosofiche, nonché la

loro investigazione, diviene lo scopo principale della narrazione (Dick, Stapledon, Lem, Matrix)

“tutti gli uomini per natura tendono al sapere” Aristotele, Metafisica I, 1, 980 a “gli uomini, sia ora sia in principio, cominciarono a cercare il sapere a causa della meraviglia” Ivi, 2, 982 b

È proprio del filosofo quello che tu provi, di essere pieno di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo, e chi disse che Iride fu generata da Taumante non sbagliò, mi sembra, nella

genealogia”

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Platone, Teeteto, 155 d

le due questioni che più mi affascinano sono: che cosa è la realtà? - e - Che cosa caratterizza l’autentico essere umano? Sono ormai più di ventisette anni che pubblico romanzi e racconti, e non ho smesso mai

di indagare su tali questioni, profondamente legate tra loro. Le considero estremamente importanti”

Philip K. Dick, Mutazioni

FILOSOFIA E FANTASCIENZA: UNA MEDESIMA RADICE

• Tanto la filosofia quanto la fantascienza nascono dalla capacità umana di provare meraviglia. • Il bisogno di colmare l’ignoranza umana può sfociare sia nell’indagine razionale che nella

narrazione mitica. • La fantascienza è una delle forme in cui si sostanzia la narrazione mitica nell’età contemporanea.

LA FILOSOFIA NEL CINEMA DI FANTASCIENZA

PROBLEMI E TEMI • Il problema dell’identità personale (Blade Runner, Dark City, Atto di forza, Frankenstein) • Il problema mente-corpo (Matrix) • Tecnologia ed etica (Io Robot)

• Paradossi del viaggio nel tempo (L’esercito delle dodici scimmie) • L’intelligenza artificiale (2001 Odissea nello spazio, A. I.) • La realtà virtuale (Matrix) • Il non-umano, il postumano e l’altro (Ultimatum alla terra, L’uomo bicentenario, Bad

Taste) • Utopia e distopia (1984, Farenheit 451) • Il mito e il viaggio escatologico dell’eroe (Mad Max) •

MATRIX

Trama In un indeterminato e lontano futuro la razza umana è controllata e sfruttata dalle macchine. Queste sopravvivono sfruttando l’energia tratta dai corpi degli uomini che vengono tenuti in vita, in una sorta di sogno virtuale, collegati a dei supercomputer. Poche migliaia di umani sono liberi dal controllo delle macchine. "Matrix" è il nome del sistema di controllo cerebrale che imprigiona i loro simili: un sistema di impulsi elettrici inviati al cervello umano che lo convincono di vivere in un mondo che, ormai, non esiste più da centinaia di anni. All'interno di Matrix la gente vive senza accorgersi minimamente della sua vera condizione; soltanto pochissime persone si rendono conto che "qualcosa non va”. Una di queste persone è Thomas Anderson, conosciuto nell'ambiente degli Hacker come "Neo". Convinti che Neo sia "l'eletto" (in grado di restituire la libertà alla razza umana), un gruppo di umani della Resistenza, fra cui spicca la figura di Morpheus, il capitano della nave Nabucodonosor, lo contatta, convincendolo ad uscire dalla matrice per guidare la lotta degli uomini contro il dominio delle macchine.

Principali temi filosofici del film

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1) Il tema dell’autonomia e dell’autosufficienza dell’artificiale e quindi del confine tra artificiale e naturale 2) Il tema del rapporto tra mente e corpo 3) Il tema della distinzione tra realtà e sogno 4) Strettamente connesso al precedente, il tema della realtà virtuale

Matrix immagina che le macchine, superintelligenti e autonome, si siano rese anche autosufficienti, sfruttando l’energia che ricavano allevando bambini umani. L’angoscia per la ribellione dell’artificiale si raddoppia grazie all’inversione della relazione strumentale; non solo l’artefatto ribelle è diventato autosufficiente, ma lo è diventato trasformando gli uomini in suoi strumenti. Sono gli uomini, ora, ad essere artefatti delle macchine.

“Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, allora il reale si riduce semplicemente a segnali elettrici

interpretati dal cervello”

Morpheus

Materialismo riduzionista: gli stati mentali possono essere ridotti a stati fisici, cerebrali

Materialismo eliminativista: la mente è totalmente ricondotta al corpo, o meglio, non esiste se non come un prodotto del linguaggio della psicologia popolare. I coniugi Churchland negano ad esempio che esista la coscienza come fenomeno generale che accomuna la veglia, la consapevolezza di trovarsi in una certa situazioni e il coordinamento senso-motorio, e sostengono invece che questi ultimi sono fenomeni distinti, ciascuno dei quali è riducibile a un proprio processo cerebrale.

“Immaginate che un essere umano (potete immaginare di essere voi) sia stato sottoposto ad un’operazione da parte di uno scienziato malvagio. Il cervello di quella persona (il vostro cervello) è stato rimosso dal corpo e messo in un’ampolla piena di sostanze chimiche che lo tengono in vita. Le terminazioni nervose sono state connesse ad un computer superscientifico che fa sì che la persona a cui appartiene il cervello abbia l’illusione che tutto sia perfettamente normale. Sembra che ci siano persone, oggetti, il cielo ecc., ma in realtà l’esperienza della persona (la vostra esperienza) è in tutto e per tutto il risultato degli impulsi elettronici che viaggiano dal computer alle terminazioni nervose. Il computer è così abile che se la persona cerca di alzare il braccio la risposta del computer farà sì che "veda" e "senta" il braccio che si alza. Inoltre, variando il programma lo scienziato malvagio può far sì che la vittima "esperisca" (ovvero allucini) qualsiasi situazione o ambiente lo scienziato voglia. Può anche offuscare il ricordo dell’operazione al cervello, in modo che la vittima abbia l’impressione di essere sempre stata in quell’ambiente.[...] Potremmo anche immaginare che tutti gli esseri umani ... siano cervelli in un’ampolla. Naturalmente lo scienziato malvagio dovrebbe trovarsi al di fuori. Dovrebbe? Magari non esiste nessuno scienziato malvagio; magari l’universo ... consiste solo di macchinari automatici che badano a un’ampolla piena di cervelli. Supponiamo che il macchinario automatico sia programmato per dare a tutti noi un’allucinazione collettiva ... Quando sembra a me di star parlando a voi, sembra a voi di star ascoltando le mie parole. Naturalmente le mie parole non giungono per davvero alle vostre orecchie, dato che non avete (vere) orecchie, né io ho una vera bocca e una vera lingua. Invece, quando produco le mie parole quel che succede è che gli impulsi efferenti viaggiano dal mio cervello al computer, che fa sì che io ‘senta’ la mia stessa voce che dice quelle parole e ‘senta’ la lingua muoversi, ecc., e anche che voi ‘udiate’ le mie parole, mi ‘vediate’ parlare, ecc. In questo caso, in un certo senso io e voi siamo davvero in comunicazione. Io non mi inganno sulla vostra esistenza reale, ma solo sull’esistenza del vostro corpo e del mondo esterno, cervelli esclusi”.

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H. Putnam, Cervelli in una vasca

Due obiezioni alla possibilità che tutto sia un sogno 1. L’idea di un sogno da cui non ci si può svegliare è contraddittoria perché lo stesso concetto di

sogno presuppone la veglia 2. L’idea di una realtà “apparente” si può fondare solo sulla possibilità di accedere a una realtà da

contrapporre all’illusione stessa

Rapporto con il mondo Virtuale perfetto - Matrix

• Immersione • Integrazione • Condivisione • Coerenza (rispetto delle leggi di natura) Perfezione (uniformità con i ricordi)

REALTA’ . MEMORIA

2001 ODISSEA NELLO SPAZIO

Trama Il film comincia nell'Africa di tre milioni di anni fa. Un giorno, improvvisamente, davanti alla grotta di un gruppo di ominidi compare un misterioso monolito nero; la sua influenza sembra spingere gli ominidi a evolversi attraverso l’uso delle ossa come strumenti per uccidere i propri rivali. La seconda parte del film si svolge nel 2001: il dott. Heywood Floyd è chiamato in missione su una base lunare dove è stato scoperto un grande monolito nero sotterrato ad arte in tempi remoti. Proprio mentre Floyd sta visionando il monolito, il primo raggio di sole del giorno lunare illumina il grande blocco di pietra il quale, immediatamente, emette un forte segnale in direzione di Giove. Nella terza parte del film un gruppo di cinque astronauti, di cui tre in stato di ibernazione, sono in volo verso Giove a bordo dell'astronave Discovery , governata da un supercomputer HAL 9000, dotato di una sofisticata intelligenza artificiale. Ad HAL è stato chiesto di tenere nascosti i veri obiettivi della missione ai compagni di viaggio, i due astronauti di turno, David Bowman e Frank Poole. Ma quest'ordine genera un conflitto interiore nel calcolatore il quale è stato anche "programmato" per collaborare con gli esseri umani nel modo più efficace. Le conseguenze del conflitto si manifestano tragicamente in prossimità dell'arrivo su Giove. Inizialmente HAL interrompe il collegamento radio con la terra simulando un guasto inesistente poi, quando questo tentativo fallisce ed anzi insospettisce gli umani, non trova altra soluzione che cercare di ucciderli tutti per evitare, semplicemente, il momento della verità. Risolto il conflitto, in un modo o nell'altro, avrebbe poi proseguito da solo la missione. Il piano di HAL tuttavia fallisce: David Bowman riesce a sopravvivere ed a riprendere il controllo disabilitando le funzioni superiori del calcolatore. Al termine di questa sorta di "lobotomia", inaspettatamente HAL avvia la riproduzione di un filmato pre-registrato, nel quale il dr. Floyd rivela i veri scopi della missione all'equipaggio: esplorare la zona dove si è indirizzato il segnale radio che il monolito lunare aveva emesso. Nell'ultima parte Bowman arriva in orbita intorno a Giove e vi trova un terzo monolito nero, vi si avvicina con la sua capsula e ne viene profondamente condizionato. Il monolito spedisce Bowman in un viaggio al di là dei confini dello spazio e del tempo. Bowman si ritrova in un appartamento dal decoro settecentesco dove vede se stesso invecchiare rapidamente. Ormai decrepito muore davanti a una nuova apparizione del monolito nero e

Principali temi filosofici del film • •Frammentarietà narrativa, relativismo, lo shock come stimolo alla coscienza per individuare un

orizzonte di senso (Benjamin) Lo stato di natura, la prima arma, la lotta per l’esistenza come

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radice dell’evoluzionismo • Il viaggio • I limiti dell’intelligenza e della tecnica • Dispersione esistenziale e superuomo

“ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico e allegorico di 2001 odissea nello spazio. Io ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare

con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio.”

Stanley Kubrick L’apparizione del monolito ha segnato un passaggio fondamentale: l’uomo si è evoluto. Il primo segno di questa trasformazione è un’intuizione, una nuova associazione mentale che gli ha fatto scoprire l’uso dello strumenti. Grazie a questi può uccidere più facilmente, essere cioè vincente nella lotta per la sopravvivenza.

l’immagine della conquista della sorgente d’acqua si conclude in un gesto di trionfo, il capo clan lancia in aria l’osso. L’immagine viene però sostituita improvvisamente; al suo posto vediamo un veicolo spaziale di forma allungata fluttuare nello spazio. L’evoluzione, sembra dirci Kubrick, non si è mai arrestata: l’intelligenza ha permesso all’uomo di affermare il suo predominio tecnico sulle altre specie dell’universo.

L’imperialismo dell’intelligenza si è però tradotto nella rimozione totale delle emozioni, degli istinti, delle passioni. L’intelligenza è asetticamente autonoma, slegata dall’uomo, dalla sua stessa corporeità. L’intelligenza, il trionfo della razionalità è, paradossalmente, il compimento di una profonda deumanizzazione. Il mondo di 2001 è pronto a morire, come sottolinea la musica intensamente malinconica di Kachaturian che accompagna l’esistenza monotona e vuota dei cosmonauti all’interno del Discovery. Con il viaggio dell’astronauta verso Giove il cinema compie la sua opera di salvezza, l’arte dona all’uomo la coscienza della propria situazione di completa alienazione. La fantascienza sorge paradossalmente dalle ceneri della pretesa onnicomprensiva della scienza stessa. Il monolito è il continuo invito a considerare il dionisiaco.

BLADE RUNNER

Trama Terra, anno 2019. Fiamme, fumo, ombre. Un conflitto mondiale ha provocato immani disastri, intere specie animali sono andate perdute, l'uomo è fuggito nelle colonie extramondo. Una coltre di polvere oscura il cielo. Nebbia, pioggia e ancora buio. Los Angeles, anno 2019. L'ingegneria genetica, meraviglia della Tyrell Corporation, è progredita al punto da creare i replicanti, simulacri perfetti dell'uomo, più intelligenti e più abili, ma meno longevi. Sono poco più che schiavi, impiegati in lavori di colonizzazione che l'uomo non potrebbe mai sopportare. Non hanno passato né futuro. I loro ricordi sono un mero innesto, memoria di persone che non conoscono. Per motivi biologici hanno solo pochi anni di vita. Sono artificiali, e alcuni non sanno nemmeno di esserlo. Un gruppo di replicanti si impossessa di uno shuttle, fugge da una colonia e torna sulla Terra. Vogliono solo capire, vogliono più vita. L'ex-poliziotto Rick Deckard si mette sulle loro tracce: una pista difficile da seguire, quasi priva di indizi, pericolosa anche per un veterano come lui: deve eliminare quattro replicanti capitanati con astuzia e determinazione dal leader Roy Batty . Questa non era chiamata esecuzione, era chiamato ritiro.

Cosa significa essere umani?

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Il ruolo della memoria è centrale, in Blade Runner, per definire l’identità. Non però la memoria cognitiva ma quella emotiva. Sono le emozioni a strutturare l’identità di un essere umano (ecco perché la Tyrrel fa

vivere i replicanti per soli quattro anni)

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi balenare nel buio vicino alle porte di TannhŠuser. E tutti quei

momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire”. Roy

“Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta […] un silenzio nudo, e una quiete

altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato e né inteso perderassi”.

Leopardi, Cantico del gallo silvestre

Biodiritto  

                                                                                                             

   

             Le   lezioni   di  Michel   Foucault   al   Collège  de   France  del   1978-­‐1979   intitolate,  Nascita  della  biopolitica,  risentono   dell’influenza   del   dibattito   avviato   al   seminario   che   contemporaneamente   il   filosofo   francese  teneva  con  i  suoi  collaboratori  sulla  storia  del  pensiero  giuridico  del  XIX  secolo.  In  effetti  gli  interventi  e  le  puntualizzazioni  durante  le  lezioni  intorno  al  diritto  sono  numerosi  e  pregnanti.  

Anziché  discutere  della  biopolitica,  cioè  del  modo  con  cui  il  potere  si  organizza  intorno  alla  vita  dei  cittadini  e   della   popolazione   attraverso   una   serie   di   tattiche   e   strategie   provenienti   da   quell’arte   di   governo  pastorale  cristiana  che  si  riordina  intorno  alle  nuove  problematiche  sociali  del  XVII  e  XVIII  secolo,  Foucault  si   avvede   che   deve   affrontare   preliminarmente   la   questione   del   liberalismo.   È   infatti   questa   nuova  concezione,  affacciatasi  per   la  prima  volta  nel  XVII   che  sembra  riorganizzare   i   tempi,  gli   spazi  e   il  potere  dell’Occidente.  Il  liberalismo  dunque  per  Foucault  non  è  tanto  una  dottrina  filosofica  ma  è  proprio  la  forma  principale  della  pratica  governamentale.  

     Foucault   tenta  di  dimostrare  che,   intorno  al   liberalismo,   si   sviluppa  enormemente   l’apparato  giuridico,  non   tanto   indipendentemente  dal   tipo  di   società  che  si  andava  costituendo  ma  proprio  come  risposta  o  conseguenza  dei  nuovi  rapporti  economici.  Ciò  non  significa  presupporre  che  il  pensiero  giuridico  nasca  dal  pensiero  liberale,  semmai,  sostiene  Foucault,  siamo  alla  presenza  di  due  concezioni  solo  apparentemente  alternative.   La  prima   regolava   i   rapporti   tra   sovrano  e  popolo,   ed   esprime  una   visione   legalista   in   cui   si  tenta   di   chiarire   i   rapporti   tra   governati   e   governanti.   Con   Hobbes   e   poi   con   Bentham   e   Beccaria   ci   si  chiede  come  deve  essere  la  legge,  quale  la  sua  forma  “più  economica  per  punire  le  persone”,  che  Foucault  chiama  la  concezione  dell’Homo  penalis.  La  seconda,  che  corre  parallelamente  alla  prima,  sviluppa  un’idea  tipica  dell’homo  oeconomicus  secondo  la  quale  il  soggetto  può,  almeno  in  prima  istanza,  fare  a  meno  della  legge,   perché   questa   interviene,   semmai,   per   ripristinare   qualcosa   di   già   accaduto.   In   questo   caso   “la  struttura  giuridica  del  potere  arriva  sempre  dopo,  a  cose  fatte,  a  posteriori”1.  Come  si  vede,  già  tra  i  primi  utilitaristi   era   presente   una   forma   mentale   di   tipo   economicistico:   vi   è   un’idea   collegata   ai   costi   e   ai  benefici,   un’idea   che  misura   le   pene   secondo   una   razionalità   economica.   Tuttavia   il   calcolo   utilitario   si  colloca  ancora  entro  una  cornice  e  una  struttura  giuridica:  “L’utilità  che  prende  forma  all’interno  del  diritto  –  sostiene  Foucault  –  e  il  diritto  che  si  edifica  interamente  a  partire  da  un  calcolo  di  utilità.  Ma  la  storia  del  diritto   penale   ha   dimostrato   che   tale   adeguazione   non   poteva   essere   realizzata.   Diventerà   allora  necessario   conservare   il   problema   dell’homo   oeconomicus,   senza   aspirare   tuttavia   a   tradurre  immediatamente  tale  problematica  nei  termini  e  nelle  forme  di  una  struttura  giuridica”2.  

Infatti,  ad  un  certo  punto  il   liberalismo  si  affranca,  per  così  dire,  dal  bisogno  di  riconoscere  nell’uomo  un                                                                                                                            1 M. Foucault, Nascita della biopolitica, tr. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 250. 2 Ivi, p. 205.

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centro  di  istanze  e  di  bisogni  antropologici,  un  soggetto  di  diritti  naturali  limitati  dalla  libertà  degli  altri,  una  sorta   di   antropologia   negativa   di   cui   Hobbes   sarebbe   l’ispiratore,   e   si   sostiene   invece   che   l’individuo   è  soprattutto  un  centro  di  interessi  sì  egoistici  ma  in  competizione  con  l’altro.  L’individuo  diviene  esso  stesso  un’impresa  il  cui  agire  determinerebbe  sempre  benefici.  Locke,  Hume,  Smith  e  Ferguson  indicano  la  strada  al  liberalismo.  Lo  Stato  e  la  sovranità  allora  non  appaiono  più  i  depositari  di  un  potere  e  di  una  legge  tesi  a  regolare   i   rapporti   tra   cittadini.   Lo   Stato   diviene   solo   un   mero   regolatore   della   vita   economica.   Scrive  Foucault:  

 

L’analisi  degli  economisti  finirà  per  collimare  con  il  tema  del  soggetto  d’interesse…  non  si  domanderà  mai  di   rinunciare   al   proprio   interesse…   anzi   si   realizzerà   un   profitto   proprio   grazie   alla   massimizzazione  dell’interesse   di   ciascuno…   siamo   così   lontanissimi   dalla   dialettica   della   rinuncia,   della   trascendenza   del  legame  volontario,  che  troviamo  nella  teoria  giuridica  del  contratto.  Il  mercato  e  il  contratto  funzionano  in  modo  del  tutto  opposto3.    

 

Si  avrà  così,  almeno  a  partire  dal  XVIII  secolo,  la  figura  dell’homo  oeconomicus  assolutamente  eterogenea  rispetto  alla  figura  dell’homo  legalis.  

Nella   visione   liberistica   si   fa   avanti   l’idea   che   l’individuo   non   debba   porsi   l’obiettivo   di   pianificare   e   di  migliorare   la   società   per   almeno   due   ordini   di   ragioni:   innanzi   tutto   perché   non   si   può   pretendere   di  conoscere  e  controllare  tutte  le  variabili  che  influenzano  il  mercato;  in  secondo  luogo  perché  il  mercato  ha  una   forza   immanente   che   lo   spinge,   è   la   famosa   mano   invisibile   di   Smith,   verso   il   miglioramento  complessivo.   Pertanto   lo   Stato   non   può   ostacolare   gli   interessi   degli   individui,   che   sono   anche   i   suoi  interessi,   perché   danneggerebbe   questo   movimento   ‘naturale’,   ‘spontaneo’.   Inoltre   lo   Stato   non   può  intervenire  perché  non  sarebbe  capace  di  scegliere  la  migliore  soluzione  possibile  proprio  per  la  variabilità  e   la   complessità   che   regolano   il  mercato   stesso.   Vi   è,   in   effetti,   all’interno   del   liberalismo,   l’idea   che   si  possa  fare  a  meno  dello  Stato.  “L’economia  sottrae  alla  forma  giuridica  del  sovrano…  proprio  ciò  che  sta  cominciando  ad  apparire   come   l’essenziale  della   vita  di  una   società,   vale  a  dire   i   processi   economici…   Il  mondo   politico   giuridico   e   il   mondo   economico,   infatti   a   partire   dal   XVIII   secolo,   appaiono   del   tutto  eterogenei  e  incompatibili.  L’idea  di  una  scienza  economico-­‐giuridica  è  impossibile…”4.  

Cosa  può  fare  il  governo?  Se  la  teoria  giuridica  non  può  intervenire;  se  “l’arte  di  governare  giuridicamente”  è  opposta  “all’arte  di  governare  economicamente”  allora  che  fare?  Secondo  Foucault  l’idea  di  società  civile  nasce   proprio   per   risolvere   questa   impasse.   Ferguson,   amico   di   Smith,   tenta   di   definire   una   comunità  politica   entro   quello   spazio   in   cui   si   devono  muovere   i   nuovi   soggetti   economici.   Nella   sua   Storia   della  società   civile,   Ferguson   prova   a   confutare   le   teorie   contrattualistiche.   La   società,   si   sostiene,   è   sempre  esistita,   pertanto   non   si   rinuncia   ad   alcun   diritto,   non   si   firma   alcun   patto,   non   si   costituisce   nessuna  sovranità.  Da  sempre  invece  le  merci  circolano,  si  scambiano,  da  sempre  esiste  una  società  civile  che  è  il  supporto,  il  veicolo,  il  mezzo  entro  cui  si  muovono  gli  scambi  commerciali.  Anche  il  potere,  per  Ferguson,  sorge  spontaneamente  come  dato  naturale:  anch’esso  è  sempre  esistito.  In  ogni  luogo  e  in  ogni  tempo  vi  è  un  leader  al  quale  gli  altri  si  sottomettono  volentieri  per  essere  guidati.  Stante  tutto  questo  come  si  porrà  lo  Stato  di  fronte  alla  società  civile?  Lo  Stato  si  pone  come  mediatore  di  controversie,  come  produttore  di  leggi  tese  a  regolare  a  posteriori  la  vita  economica  dei  cittadini.  

       Se,  come  avevano  anche  sostenuto  Weber  ed  Elias,  alla  fine  del  XVII  secolo,  alcuni  sovrani  erano  riusciti  a   formare  degli   Stati   nazionali   o   almeno   “erano   riusciti   un  po’   alla   volta   a   limitare   e   ridurre   i   complessi  giochi  dei  potere  feudali…  e  la  pratica  giudiziaria  aveva  funzionato  da  moltiplicatore  del  potere  regio”  ora,  si  sviluppa  una  nuova  razionalità  di  governo  che  dovrà  limitare  la  ragione  di  Stato  prendendo  corpo  in  uno  

                                                                                                                         3 Ivi, p. 225. 4 Ivi, p. 232.

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stato  di  polizia.  Il  diritto  assolverà  a  questa  funzione.  È  come  se,  sostiene  Foucault,  “la  teoria  del  diritto  e  le  istituzioni   giudiziarie   non   fungeranno   più   da   moltiplicatore,   ma   da   sottrattore   del   potere   del   re”5.   Si  assiste,  in  altre  parole,  in  tutta  Europa  ad  un  fermento  delle  teorie  giuridiche:  teoria  del  contratto,  teoria  del  diritto  naturale  che  servono  da  contrappeso  e  da   limite  alla  ragion  di  Stato.  Contemporaneamente  si  sviluppa   nel   cuore   stesso   delle   pratiche   di   governo   una   nuova   razionalità   politica,   volta   a   calcolare   le  spese,   la   gestione  della  popolazione,   la  nuova  organizzazione  delle   tasse  e  delle   imposte,   l’investimento  delle   ricchezze,   ecc.   Foucault   definisce   tale   nuova   pratica   di   governo   come:  economia   politica.   Prima,   il  mercato   medievale   era   regolato   strettamente   dal   sovrano   così   tanto   che   si   poteva   definire   il   mercato  come   “il   luogo   di   giurisdizione”.   Ora   il   mercato   prende   sempre   di   più   una   sua   forma   che   si   distacca  progressivamente   dal   sovrano   anche   se   si   tenta   di   imbrigliarlo   e   regolarlo.     Ma   il   mercato   esprime   e  diventa   esso   stesso   “un   luogo   di   veridizione”.   Ciò   non   significa   che   la   nascita   di   un’economia   politica  sostituisca   il   diritto   pubblico.   Semmai   si   assiste   ad   una   sovrapposizione:   “dopotutto   i   primi   economisti  erano  anche  dei  giuristi”.  Ciò  che  però  l’economia  politica  esprime,  almeno  da  un  punto  di  vista  filosofico,  è  una  concezione  utilitaristica.  Che  cosa  è  utile  fare  per  il  governo?  Quali  devono  essere  i  suoi  limiti?  Quali  sono   i   suoi   interessi?   “L’utilitarismo   mostra   di   essere   tutt’altro   che   una   filosofia   o   un’ideologia,  costituendo  invece  una  tecnologia  di  governo”6.    

       La  via  utilitarista,  che  poi  sarà  la  via  intrapresa  dal  liberalismo,  sosterrà  “l’indipendenza  dei  governati  dai  governanti”,   un   tipo   di   libertà   diversa   da   quella   del   diritto   pubblico   che   concepisce   la   libertà   come   un  diritto.  Il  liberalismo  produce  libertà,  ha  bisogno  della  libertà  per  la  sua  stessa  sopravvivenza,  innanzi  tutto  libertà  di  commercio  e  di  comunicazione,  ma  anche  avrà  il  problema  pratico  di  stabilire  dei  limiti  a  questa  libertà,   dei   controlli,   delle  obbligazioni,   ecc.   Fin  da   subito  quindi   il   liberalismo  dovrà   contraddirsi   spesso  con  tariffe  doganali  protezionistiche  per  tutelare  la  stessa  libertà  di  commercio  come  successe  negli  Stati  Uniti   per   difendersi   dall’egemonia   britannica.   O   con   interventi   interni   per   creare   acquirenti   di   una  legislazione  anti-­‐monopolio  o  una  legislazione  in  cui  si  diano  sufficienti  lavoratori  competenti  e  qualificati.  Dunque,   conclude   Foucault,   la   libertà   nel   liberalismo   si   scontra   con   la   sicurezza.   Essa   “è   il   criterio   per  calcolare  il  costo  di  produzione  della  libertà”.  La  sicurezza  si  rende  necessaria  proprio  per  controbilanciare  il  liberalismo  che  fa  del  pericolo  il  suo  motto:  vivi  pericolosamente.  “Non  c’è  liberalismo  senza  cultura  del  pericolo”.    Allora  la  sicurezza  è  un  po’  il  recto  verso  o  la  conseguenza  del  pericolo  e  del  rischio.        

     Anche,  non  si  può  comprendere  il  liberalismo  se  non  ci  si  rende  conto  dell’idea  di  progresso  che  con  esso  ha   a   che   fare.   “Con   la   concezione   dei   fisiocrati   e   di   Adam   Smith   si   esce   definitivamente   da   un’idea   del  gioco   economico   come   gioco   a   somma   zero”.   La   libertà   del   mercato   deve   assicurare   l’arricchimento  reciproco.   Il   liberalismo   fin   da   subito   è   improntato   ad   una   visione   globale   e   ‘naturale’   del   mercato.   È  un’idea  che  si  ritrova  anche  in  Kant:  è  la  natura  a  garantire  la  buona  regolazione  del  mercato.  È  naturale  che   l’uomo   tenda  a  possedere   in  quanto   la  natura  è  prodiga.   È  naturale   che   ci   sia  progresso.   Insomma,  sostiene  Foucault,  “è  un  naturalismo  quello  che  vediamo  apparire  alla  metà  del  XVIII  secolo,  molto  più  che  un  liberalismo”7.  Certo  è  un  naturalismo,  come  Foucault  ci  aveva  indicato  in  altri  scritti,  di  un  naturalismo  razionalistico,  dove  natura,  libertà  e  ragione  sono  quasi  sinonimici.  È  un  giusnaturalismo.  

     Tutto   ciò   ci   porta,   seguendo   la   lezione   genealogica,   a   comprendere   l’attualità.   Cosa   succede   oggi?  Foucault  analizza  gli  Stati  europei  contemporanei.  Cosa  si  scopre?  Che  gli  Stati,  appunto,  intervengono  solo  per   regolare   la   vita   economica   ormai   egemone,   anzi   spesso   è   l’economico   che   investe   e   decide   di  autocontrollarsi   utilizzando   pragmaticamente   gli   apparati   statali.   Lo   Stato   è   svuotato   del   potere   di  intervenire  se  non  su  richiesta  della  tecnologia  economica:  “l’economia  è  creatrice  di  diritto  pubblico”8.  Se  prima   c’era   uno   Stato   legittimo   che   limitava   la   necessaria   libertà   economica,   dopo   la   seconda   guerra  

                                                                                                                         5 Ivi, p. 19. 6 Ivi, p. 48. 7 Ivi, p. 64. 8 Ivi, p. 82.

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mondiale  si  dovrà  “risolvere  il  problema  opposto:  dato  uno  Stato  che  non  esiste,  in  che  modo  farlo  esistere  a  partire  da  quello  spazio  non  statale  che  è  quello  della  libertà  economica?”9  

     Non   si   tratta   più   di   analizzare   il   capitale   nei   termini   in   cui   Marx   lo   poneva   per   mostrare   “la   logica  contraddittoria   del   capitale”.   Si   tratta   piuttosto   di   affrontare   il   liberalismo   con   gli   strumenti   che   ci   ha  offerto  Weber  e  “del  problema  della  razionalità   irrazionale  della  società  capitalistica”10.    Sarebbe  proprio  da  Weber,  sostiene  Foucault,  che  si  sono  dipartiti  due  degli  indirizzi  di  pensiero  più  importanti  e  attenti  alla  questione   liberistica,   paralleli   ma   opposti:   da   una   parte   la   Scuola   di   Friburgo,   ovvero   gli   ordoliberali   e  dall’altra  la  Scuola  di  Francoforte.  Entrambi  gli  indirizzi  hanno  preso  sul  serio  la  questione  posta  da  Weber  in  merito  al  capitalismo.    Per   i  francofortesi  si  trattava  di  ridefinire  una  nuova  razionalità  sociale  tale  “da  annullare  l’irrazionalità  economica”.  Per  la  Scuola  di  Friburgo  si  trattava  invece  di  ritrovare  “una  razionalità  economica  che  consenta  di  annullare  l’irrazionalità  sociale  del  capitalismo”.  Questo  perché  il  liberalismo  in  fondo   è   una   concezione   tipica   inglese   per   la   sua   peculiare   configurazione   geografica   e  marittima11.   Alla  Germania,  invece,  “le  occorre  una  politica  economica  protezionistica”.    

       La  Scuola  di  Friburgo  e  i  neoliberali  in  generale  analizzano  il  nazismo  nei  termini  di  una  regressione  ed  un  ritorno  alla  statalizzazione,  laddove  per  la  Scuola  di  Francoforte  e  per  Foucault  il  nazismo  segna  l’avvento  di   una   risposta   del   liberalismo   allo   statalismo   socialista.   (Hobbes,   per   inciso,   non   è   né   il   teorico   del  totalitarismo  né  il  teorico  del  liberalismo  come  pretende  Hannah  Arendt12.  Hobbes  è  invece  il  teorico  della  sovranità  basata  sulla  constatazione  della  penuria  e  sull’importanza  di  costruire  la  pace).    Il  nazismo  non  è  tanto   la  concentrazione  del  potere   in  uno  Stato,  quanto   in  un  partito  e   in  un  Fürer,  anzi   si  assiste  con   il  nazismo   ad   uno   smantellamento   di   molti   apparati   burocratici   statali.   In   questo   senso   Agamben13   non  coglie  nel  segno  quando  considera  la  nuda  vita  una  rappresentazione  della  biopolitica  foucaultiana.  Ciò  che  ha   in  mente  Foucault  non  è   tanto   la  nuda  vita,  ma  una  vita  organizzata  dalla   logica  del  mercato  e  delle  grandi   imprese.   Foucault,   quando   parla   di   biopolitica   e   biodiritto,   non   si   riferisce   tanto   al   nazismo,  ma  proprio  al  liberalismo.  In  questo  senso  Foucault  è  esplicito:  

“Il  nazismo  ha  solamente  spinto  sino  al  parossismo  il  gioco  tra  il  diritto  sovrano  di  uccidere  e  i  meccanismi  del   bio-­‐potere.  Ma  questo   gioco   è   iscritto   effettivamente  nel   funzionamento  di   tutti   gli   stati,   di   tutti   gli  stati  moderni,  di  tutti  gli  stati  capitalisti.  E  non  solo  di  questi”14.    

     Ciò   non   significa   pensare   che   il   nazismo   non   abbia   voluto   creare   una   serie   di   diritti   e   di   leggi   per  controllare  meglio   la   vita   degli   individui.   Al   contrario.   Proprio   come   il   liberalismo   il   nazismo   ha   dovuto  instaurare   una   serie   di   leggi   che   divenissero   norme.   La   macchina   tecno-­‐scientifica   di   un   Kelsen   di   una  ragione  autoregolativa   funzionava  perfettamente  anche  per   l’impresa  nazista.  A  proposito  Esposito  nota  che  “contro   la  convinzione  comune  che   i  nazisti  si   limitassero  a  distruggere   la   legge,  va   invece  detto  che  essi  estesero   fino  a   comprendere  al   suo   interno  anche  ciò   che  palesemente   la  accedeva.  Affermando  di  

                                                                                                                         9 Ivi, p. 84. 10 Ivi, p. 97. 11 Sul tema è da vedere C. Schmitt, tr. di E. Castrucci, Il nomos della terra, Adelphi, Milano, 1990. 12 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano, 1999. 13 G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino, 1995. Per Foucault non si può mai dare nuda vita. La vita è da sempre presa nei meccanismi di potere. Anche nel caso del campo di concentramento non si vuole ridurre la vita dell’uomo a mera animalità (che avrebbe comunque una soglia di sopravvivenza dignitosa: mangiare, bere, dormire, fare sesso) ma si vuole spingere, al limite del paradosso, la civiltà sul corpo del condannato: pulire ossessivamente, essere puniti per ogni regola trasgredita, lavorare sempre, non dormire mai. È esattamente il contrario di ciò che suggerisce Agamben. Qui le analisi dei francofortesi convergono con quelle di Foucault e colgono puntualmente il senso del campo di sterminio riconoscendo nel dominio l’altra faccia della ragione. Dominio e ragione provengono da una storia culturale che vuole imporsi come legittima e vera, e non solo come più forte. Ricordiamo come al processo di Norimberga si difendevano i nazisti: voi, americani, avete vinto ma non siete dalla parte della verità. Oppure il motto delle SS: Dio è con noi, o lo slogan, provocatorio ma non tanto, posto all’ingresso di ogni campo di concentramento: il lavoro rende liberi. Calvinismo e Capitalismo, appunto, L’ipotesi weberiana, resa ancora più salda dalla scoperta freudiana della relazione e del carattere sadico-anale che rimanda a ‘qualità’ come ordine, pulizia, produzione, ma anche a violenza, feticismo, avarizia ecc. 14 M. Foucault, cit., p. 100.

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desumerla  dalla  sfera  della  biologia,  essi  consegnavano  al  comando  della  norma  l’intero  ambito  della  vita.  Se  il  campo  di  concentramento  non  è  certamente  il  luogo  della  legge,  non  è  neanche  quello  del  semplice  arbitrio”15.  

       Certo,  i  neoliberali  vogliono  dimostrare  che  dopo  la  seconda  guerra  mondiale  occorreva  “uno  Stato  sotto  la   sorveglianza   del   mercato,   anziché   un   mercato   sotto   la   sorveglianza   dello   Stato”16.   Tuttavia   gli  ordoliberali   rompono   con   la   tradizione   del   liberismo   classifico.   Essi   riconoscono   che   il   principio   di  concorrenza   come   forma   organizzatrice   del  mercato   non   può   essere   visto   come   un   dato   naturale.   Essi,  riprendendo  Husserl,   sostengono  che  “la  concorrenza  è  un’essenza”,  un  principio  di   formalizzazione.  “La  concorrenza  è  dunque  un  obiettivo  storico  dell’arte  di  governo,  non  un  dato  di  natura  da  rispettare”17.  

Ecco  perché  neoliberismo  e  ordoliberismo  hanno  bisogno  di  qualcosa  o  qualcuno  che  svolga  la  funzione  di  arbitro   e   che   intervenga   spesso   e   vigili   sulle   regole   del   gioco.     “A   questo   proposito   i   neoliberali   hanno  posto   tutta  una   serie  di   problemi  più   storici   e   istituzionali   che  non  propriamente  economici”18.   Il   diritto  interviene  per  dirimere   le  questioni.  È  per  questo  che   in   fin  dei  conti   “tra  una  società  orientata  verso   la  forma   dell’impresa   e   una   società   il   cui   principale   servizio   pubblico   è   l’istituzione   giudiziaria,   esiste   un  legame   privilegiato.   Più   moltiplicherete   l’impresa…   più   moltiplicate   le   occasioni   di   contenzioso,   più  moltiplicherete   la   necessità   di   un   arbitrato   giuridico.   Società   di   impresa   e   società   giudiziaria,   società  orientata   verso   l’impresa   e   società   inquadrata   da   una  molteplicità   di   istituzioni   giudiziarie,   sono   le   due  facce  di  uno  stesso  fenomeno”19.  In  questo  senso  le  tecniche  disciplinari  che  si  incaricano  di  governare  gli  individui   agiscono   in   funzione   del   liberalismo.   Bentham   lo   riconosce   fin   da   subito:   “il   panopticon   è   la  formula  stessa  di  un  governo  liberale”.  

       Il   regime   liberale   non   è   più   solo   e   soltanto   il   risultato   di   un   ordine   naturale   spontaneo  ma   anche   il  risultato   di   un   ordine   legale,   qualcosa   che   presuppone   l’intervento   giuridico   dello   Stato.   “Il   giuridico   dà  forma  all’economico”:   un  ordine   economico-­‐giuridico.  Non   tanto  perché   il   giuridico  debba   intervenire   e  dire   al   piano  economico   come   comportarsi,  ma  piuttosto  occorre  pensare   l’economia   come   se   fosse  un  gioco,   e   l’istituzione   giuridica   fornisce   le   regole  di   questo   gioco.   Ecco  perché,   almeno  a  partire   dal   XVIII  secolo,  secondo  Foucault,  il  quadro  giuridico  (ma  anche  quello  giudiziario)  si  è  rafforzato.  È  necessario  che  si  moltiplichino  le  istanze  giudiziarie  e  di  arbitrato.  La  burocratizzazione  analizzata  da  Weber  e  l’avvento  di  uno  stato  di  polizia,  –  che  è  anche  uno  stato  di  diritto  e  di  un’arte  del  governo  che  intervengono  sempre  più   massicciamente   nella   vita   dei   cittadini,   –   si   collegano   anche   a   questa   stimolazione   da   parte   delle  imprese.   Non   tanto   per   legarli   ad   un   lavoro   o   alla   terra,   anzi   una   certa   mobilità   assicura   migliore  produttività.   Occorre   piuttosto   garantire   una   certa   forma   di   libertà   e   di   scelta,   non   tanto   all’individuo  quanto  all’impresa,  nel  campo  del  lavoro  e  dell’economia  investendo  piuttosto  su  meccanismi  come  quello  della  sicurezza  sociale,  attraverso  un  sistema  di  assicurazioni  che   impediscano  all’impresa  di  non  correre  troppi   rischi.   Si   tratta   insomma   di   governare   la   vita   degli   individui   sui   tempi   dell’impresa.   Sostiene   più  chiaramente  Foucault:    

 

Bisogna  che   la  vita  dell’individuo  non  si   inscriva  come  vita   individuale  nel  quadro  di  una  grande   impresa  costituita   dall’azienda   o   al   limite   dello   stato,   ma   piuttosto   che   possa   inscriversi   nel   quadro   di   una  molteplicità   di   imprese   diverse   e   concatenate   e   intrecciate   tra   loro…   Infine,   bisogna   che   la   vita   stessa  dell’individuo  –  ad  esempio  il  suo  rapporto  con  la  proprietà  privata,  con  la  famiglia,  con  la  sua  conduzione,  con  i  sistemi  assicurativi  e  con  la  pensione  –  faccia  di  lui  e  della  sua  vita  una  sorta  di  impresa  permanente  e  multipla20.  

                                                                                                                         15 R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, 2005, p.151. 16 M. Foucault, cit., p. 108. 17 Ivi, p. 112. 18 Ivi, p. 118. 19 Ivi, p. 132. 20 Ivi, p. 196.

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Si  tratta,  in  altre  parole,  di  farsi  carico  dell’individuo,  di  proteggerlo,  di  ancorarlo  intorno  al  suo  ambiente  naturale,   di   regolare   la   sua   vita   in   modo   razionale,   calcolabile,   utile   inserendolo   nel   meccanismo  economico:   una  politica   della   vita.   Ecco  perché   il   diritto   si   occupa  ormai   di   tutto,   della   vita   stessa   degli  individui.  Interviene  per  regolare,  negoziare  qualsiasi  tipo  di  relazione  sociale.  Il  diritto  non  è  più  e  soltanto  norma   intesa  come  regola   formale,  ma  diventa  piuttosto,  normalizzazione,  un  potere  che   interviene  per  far  vivere  e  di  lasciar  morire…  per  controllarne  gli  accidenti,  i  rischi,  le  deficienze,  è,  in  ultima  analisi,  nella  società   capitalistica   avanzata,   bio-­‐diritto:   un   diritto   che   pur   partendo  da   una   diversa   concezione,   quella  contrattualistica,   è   stato   costretto   a   rincorrere   le   problematiche   costituitesi   dalla   concorrenza   delle  imprese  e  dal   tentativo  di   controllare  gli   individui   in   competizione.   In   conclusione  “il  bio-­‐potere  è   stato,  senza   dubbio,   uno   degli   elementi   indispensabili   allo   sviluppo   del   capitalismo;   questo   non   ha   potuto  consolidarsi  che  a  prezzo  dell’inserimento  controllato  dei  corpi  dell’apparato  di  produzione,  e  grazie  ad  un  adattamento  dei  fenomeni  di  popolazione  ai  processi  economici”21.    

     Il  liberalismo  e  il  capitalismo  sono    pratiche  che  si  sviluppano    a  partire  dal  XVII  secolo  insieme  all’arte  di  governare  della  Police  e  dello  Stato,   sono    pratiche  che  mirano  a  potenziare   il   controllo  del  potere  sulla  massa  di  popolazione  che  sempre  più  numerosa  si   riproduceva  e   la  cui  mano  d’opera  era  essenziale  per  aumentare   la  ricchezza  dei  nobili  e  dei  borghesi.  Tali  pratiche  si   innestano  sul  potere  pastorale  cristiano,  cattolico   e   protestante   che   già,   di   fatto,   controllava   la   popolazione.   Le   scienze   sociali,   la   demografia,   la  medicina,   la   psicologia   ecc,   non   sono,   per   Foucault,   che   delle   forme   di   sapere-­‐potere   che   assistono   e  collaborano   per   la   sanità   della   popolazione   affinché   l’individuo-­‐massa   possa   essere   funzionale   al  meccanismo  economico.  

Walter Fratticci

Le domande dell'etica

1. Una semplice questione (in apparenza)

In filosofia è sempre insidioso giocherellare con le questioni, magari aggirandosi attorno ad esse con atteggiamento di affettata pensosità. A trattarle alla stregua di uno scontato e retorico esercizio di pensiero, si ottiene solo di aumentare l'insofferenza per le pretese della filosofia; ed il rischio di andare incontro ad impreviste smentite si fa tanto più grande, quanto maggiore è la (apparente) semplicità di quell'ingenuo darsi da fare. Per molti versi sembra inevitabile ed anche naturale seguire questa strada; argomenti più volte usati, problematiche note, temi da sempre oggetto di studio paiono non offrire più molto da pensare; mentre il loro stesso continuo ricorrere induce una sorta di assuefazione, che si traduce sovente in pazienti appropriazioni e monotone ripetizioni, per quanto diversamente confezionate. Molto dell'attuale dibattito culturale risente di un siffatto sorvolo a debita distanza dal cuore di essenziali questioni; in tutto questo talora si manifesta, è vero, solo un deficit di riflessione. Eppure, che siffatte questioni risorgano e si ripropongano sempre di nuovo, a dispetto di ogni presunta definitiva loro risoluzione, è segno inequivocabile di una permanente vitalità, che si esprime proprio nella spinta che danno all'incedere del pensiero. Il ritorno ad esse diventa allora occasione propizia di assoluta concentrazione sull'essenziale, sul nucleo sorgivo ed autentico che articola ed orienta la nostra umana condizione di nomadi ricercatori di un senso, che ci trascende pur essendo a noi quanto mai vicino. Questo richiama a sé la nostra distratta attenzione nascondendosi dietro forme all'apparenza normali; che invece, se accolte nella loro piena

                                                                                                                         21 M. Foucault, La volontà di sapere, tr. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 124.

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risonanza, giocano più propriamente come vere pietre di inciampo, sulle quali il pensiero è costretto a soffermarsi, per poter procedere lungo la via infinita dell'avvicinamento alla verità. A queste dinamiche non sfugge neanche una riflessione che intenda tornare a riflettere su le domande dell'etica, come suona il titolo assegnato a questo contributo.

Un titolo nel quale di primo acchito risuona un che di paradossale. Nella opinione comune l'etica infatti è classificata come quella disciplina filosofica che si propone tanto come fattore di descrizione del comportamento dell'uomo quanto anche, e soprattutto, come ambiente teorico di definizione delle modalità e finalità del suo agire. Ad essa ci si interessa dunque al fine di ricavare indicazioni di criteri e direttive necessari allorché si tratti di affrontare situazioni dilemmatiche, nelle quali le opzioni possibili sono plurime e impregiudicati i loro esiti. È quando mi chiedo "cosa fare? ", che l'etica si rivela strumento prezioso e guida indispensabile verso una risposta adeguata. Sembra dunque che, kantianamente, l'unica domanda rilevante per la riflessione etica -- una domanda che peraltro precede tale riflessione, attivandola -- sarebbe quella appena declinata. Perché allora occuparsi delle domande dell'etica? Quali altre domande si danno? Non dovremmo piuttosto prendere in considerazione le differenti interpretazioni e risposte che sono state e ancora di nuovo vengono suggerite per motivare e rafforzare l'agire umano? Non sbagliamo forse approccio ad affrontare la questione etica dal lato della domanda?

Il paradosso è forse la prima manifestazione del vero; va tenuto per questo nella massima considerazione, dal momento che esso si dà a vedere nello squarcio prodotto nella tela ormai consumata dell'interpretazione del reale. Quando infatti a riproporsi è la domanda, quando la ricerca torna nuovamente a scavare attorno agli elementi costitutivi che la sostanziano, questo è perché la strada finora battuta comincia a mostrarsi faticosa ed incerta. Allora al filosofo si richiede di prendere sul serio e svolgere fino in fondo la domanda che origina la sua ricerca, chiamando direttamente in causa gli snodi cruciali che articolano e sostanziano la cosa stessa di cui va occupandosi. Questo è quello che questo contributo si ripromette di fare. In tal modo il suo percorso è per buona parte già segnato. Esso deve, per non ridursi a presentare risposte che è proprio la riproposizione della domanda a segnalare come inadeguate, assumere decisamente il senso profondo di questo domandare. Le domande dell'etica, dunque.

In effetti il tema, con cui questo contributo si confronta, acquista il suo vero senso sullo sfondo di un più ampio domandare, cui la ricerca filosofica ai nostri giorni non può assolutamente sottrarsi. Qualcosa infatti è tornato ad essere nuovamente problematico. Le domande etiche, che l'attuale contesto culturale, che forse sta perdendo in profondità quanto guadagna in ampiezza, pone al filosofo, lasciano infatti intravvedere nella modalità del loro stesso porsi l'assottigliarsi consistente di quel fondo comune condiviso, entro il quale la pluralità dei percorsi viene a costituire un intreccio di opzioni in dialogo reciproco e non un mero elenco incoerente di affermazioni autoreferenziali. Tutto sembra essersi messo in rapido movimento. Il riferimento vacilla, come pure l'orizzonte generale a lungo considerato come lo stabile sostegno di ogni procedere discorsivo. Siamo diventati tutti, come sostiene Engelhardt, degli «stranieri morali». Le strade che attraversano la regione etica non conducono più tutte a Roma. L'immagine, anch'essa proposta dal filosofo statunitense autore del Manuale di bioetica, rappresenta con grande efficacia la situazione contemporanea e le difficoltà che in essa la riflessione etica incontra. Quella metafora lascia infatti intendere che non solo, come è legittimo ed anche auspicabile, il punto di partenza dei percorsi dell'azione personale, nonché i percorsi stessi, siano differenziati; ma, anche, che non più coincidente sia neppure la meta. Ci si mette in cammino, insomma, senza grande preoccupazione per il luogo verso cui tende il movimento. Anzi, di più, il viaggiare medesimo viene a configurarsi come fine sufficiente a giustificare il viaggio, che diventa perciò un viaggio senza meta. Rendendo esplicito il ragionamento, esso constata la dissoluzione e frammentazione contemporanea del riferimento orientativo al bene, un riferimento che, per quanto diversamente declinato, ha nondimeno pervaso l'ethos dell'Occidente, venendo altresì riconosciuto come elemento gerarchicamente impegnativo per l'agire umano. In un altro momento riprenderemo in maniera più analitica il discorso. Qui per il momento interessa solamente mettere in evidenza come entro la tradizione europea si siano prodotte smagliature, che non consentono più di ritenere omogeneo ed immediatamente condivisibile il discorso etico, a partire dai suoi essenziali presupposti.

Con ogni evidenza, infatti, non è la sola riflessione etica ad essere messa in discussione dai grandi sommovimenti epocali che caratterizzano il nostro tempo. Anzi il fattore primario di crisi deve essere individuato piuttosto nella fragilità degli attuali assetti metafisici ed antropologici, con i quali la dimensione etica dell'esistenza è strettamente intrecciata e dai quali essenzialmente dipende; assetti che, per usare la nota metafora proposta da Zygmunt Bauman, sono segnati dalla liquidità, vera configurazione categoriale caratterizzante il nostro tempo. La società liquida è quella che non ha forma propria, ma si adatta facilmente ad ogni nuovo contorno che lo spirito dei tempi assuma; e che però, con la stessa facilità, corre il rischio di disperdersi e sfaldarsi, allorché il movimento si fa repentino e i cambi di direzione frequenti. E così diventa sempre più difficile identificare dei riferimenti univoci a partire dai quali costruire un profilo antropologico che riesca ad interpretare la pluralità delle esperienze umane. Il fatto è che la liquidità non tollera solidificazioni di alcun genere o livello, mentre le istanze, anche le più estreme e reciprocamente

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contraddittorie, rivendicano identico spessore e validità. Non è un caso perciò che la questione antropologica stia nuovamente bussando con prepotenza alle porte della riflessione contemporanea. Questa condizione dello spirito ha un evidente risvolto nell'etica, che soffre più di tutto la crisi e si sente messa in questione, dall'interno e dall'esterno, nella sua pretesa di interpretare e motivare l'agire dell'uomo.

Occorre perciò nuovamente assumere il compito del pensare, cercando di recuperare quanto con colpevole indifferenza la cultura contemporanea ha messo da parte. Non si tratta, va detto subito per evitare sul nascere ogni possibile equivoco, di invocare uno scongelamento comunque problematico di proposte conservate nel freezer della cultura, quasi che bastasse spostare indietro le lancette dell'orologio per tornare ad ipotizzare scenari di condivisa normalità. Occorre molto di più. Occorre disporsi a riprendere in mano con rinnovata energia le grandi questioni che da sempre l'uomo ha sentito come inevitabili ed insieme indispensabili per dar senso e reale pienezza alla sua condizione mondana.

2. L'etica in questione

Una cosa sembra infatti attestata con sufficiente certezza: l'etica ai giorni nostri si trova in un "ginepraio di contraddizioni" simile a quello denunciato da Kant per la metafisica del suo tempo. Serrati confronti su opzioni etiche reciprocamente contrastanti; condotte radicalmente differenziate, ricavate da petizioni di princìpi solo nominalmente identici; interferenze ideologiche che fanno sentire tutto il loro peso nella definizione dei programmi di vita: entro un tale scenario frastagliato l'uomo contemporaneo è chiamato ad affrontare la ricerca di un filo di coerenza, che dia valore al proprio agire senza consegnarlo all'evanescenza di decisioni arbitrarie, perché fondamentalmente incapaci di rispondere di sé. E poi, con più esplicita e convinta consapevolezza, ripetuti appelli a favore di un'etica condivisa, che persone di buon senso di tanto in tanto lanciano. Abbiamo un bisogno quasi disperato di trovare riferimenti comuni che ci consentano ancora di nuovo di delineare lo spazio di una convivenza ordinata.

Eppure la situazione continua a restare problematica. Il fatto è che questi appelli si mostrano radicalmente dissonanti o, forse ancor più, non coerenti con lo sfondo nichilistico della tarda modernità, uno sfondo che per un verso dà voce, per l'altro invece legittima il dissenso generalizzato verso ogni affermazione che intenda rivendicare per sé una intrinseca caratura, che dunque avanzi pretese rispetto alle quali l'individuo umano possa sentirsi subordinato e in qualche misura anche essenzialmente vincolato. Di ogni affermazione dell'etica, in relazione alla quale si sostenga una pretesa di normatività trascendente il contesto concreto cui essa possa comunque riferirsi, si avanza il sospetto di umana condizionatezza. Delegittimata in tal modo la pretesa universalizzante dell'etica, il singolo attore individuale della scena pratica proclama perciò se stesso come fondamento esclusivo di legittimità dell'azione. Su questo assunto, esplicitamente o meno convergono le più significative tendenze della modernità: condizionato dalla cultura, dalla religione, dalla vita sociale, dall'educazione, dall'economia -- e come potrebbe essere diversamente, essendo l'uomo ontologicamente dipendente e determinato fin dall'atto che lo pone in essere? -- l'individuo è invitato a sottrarsi a simili legami al fine di poter affermare se stesso nella sua più ampia libertà. L'uomo, che utilizza la norma etica, vuole esserne anche il creatore. Poche cose sono così radicate nella cultura contemporanea quanto il valore insuperabile della soggettività della coscienza. In qualunque modo si faccia richiamo ad un valore soprastante quest'ultima, la reazione che si genera è quella di ribellione ad un fatto percepito come intollerabile sopruso ed inammissibile violenza. Ma così l'etica ha ancora un senso, o non viene piuttosto destabilizzata fin nelle sue più profonde radici? Può l'etica abdicare al compito di fornire una norma fondamentale generale, che non sia plasmata od anche derivata solamente a partire da circostanze determinate ed assolutamente contingenti? Può l'etica convivere con l'affermazione di una autonomia totale della coscienza individuale, che viene a determinarsi meglio come autoreferenzialità assoluta e che il tratto frammentato dell'esistenza contemporanea traduce in fondo come anomia, ovvero negazione della norma stessa? L'etica non si riduce allora ad essere mera tecnica di comportamento, etologia -- approccio che rivendica con essa una qualche forma di parentela, come la comune derivazione etimologica inequivocabilmente mostra? Con queste domande siamo così già entrati nel cuore della riflessione che ci occupa. La questione, che ci si va infatti proponendo, è quella del fondamento della norma etica, sul quale ci sentiamo particolarmente scoperti ed in grave debito di riflessione. Perché le difficoltà, cui si faceva prima riferimento, sorgono in definitiva proprio dal non poter più contare su un principio che possa essere riconosciuto immediatamente come assolutamente valido. Non sono dunque le singole valutazioni morali, pure spesso oggetto di accesa discussione e forte divisione, quelle che anzitutto ostacolano il dialogo e la possibilità di un incontro sull'etica, quanto piuttosto i principi che fungono da fondamento, di cui quelle valutazioni sono in definitiva deduzioni più o meno coerenti.

Questo genere di considerazioni non ci sono del tutto nuove. A porre l'attenzione su di esse ci ha abituato Kant con la sua riflessione critica trascendentale; richiamarne perciò l'ambientazione assieme storica e teoretica può aiutarci ad avanzare nella nostra riflessione. Non potendo più contare sull'immediata evidenza dei princìpi della tradizionale dottrina morale, che la scienza newtoniana da un lato, le trasformazioni sociali

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e culturali prodotte dal progresso della civiltà dei lumi dall'altro, stavano velocemente erodendo, Kant si è mosso alla ricerca di un nuovo approccio che consentisse di salvaguardare il diritto e la possibilità stessa per la coscienza morale di un'azione moralmente adeguata. Dobbiamo riconoscere che a più di duecento anni dalla sua morte, le questioni che nel campo etico ci si parano dinanzi non sono poi così molto differenti. Non diversamente per noi, è ancor nuovamente con la retroazione che le risultanze scientifiche -- oggi della biologia, più che della fisica -- esercitano sulla riflessione etica che dobbiamo confrontarci; mentre, per altro verso, va delineandosi un nuovo senso morale, che affida alla valutazione suprema dell'individuo, in verità più autoreferenziale che autonomo, il tono etico dell'agire. Vengono ad evidenziarsi in tal modo due nodi problematici e fondamentalmente aporetici, che vogliamo anzitutto dibattere, rinviando ad un secondo tempo la definizione di una prospettiva di ricerca di un principio condiviso: la questione della libertà e/o determinismo nell'etica, ed in secondo luogo l'opposizione di universalità e/o relatività della norma morale. Entrambe le questioni investono la riflessione etica con una forza radicale che mette in gioco non solo la plausibilità dei sistemi etici, ma in definitiva la possibilità stessa della sussistenza di un pensiero e di una prassi che voglia e possa qualificarsi come etica. Diventa perciò essenziale misurarsi con esse.

3. Universalità vs. relativismo della norma

L'opposizione di universalità e relativismo della norma etica, dalla quale prendiamo le mosse, affronta la questione del fondamento di validità della norma stessa dal suo lato formale. Quella che in tal modo si pone è la questione relativa all'estensione dell'ambito di validità della norma. In relazione a quali eventi, situazioni, decisioni la norma etica può far valere la sua istanza?

In prima battuta, un tale interrogativo sembra solo articolare il ventaglio di possibilità cui la norma medesima si riveli applicabile; agli estremi troviamo il caso della norma che tutti riconoscono, almeno astrattamente, come impegnativa, ad esempio il divieto di uccidere, e dall'altro quello del principio di azione che invece interessa propriamente solo il singolo individuo. Tra questi poli si genera una tensione dialettica che può facilmente scivolare in una radicalizzazione esaltante in maniera esclusiva uno solo dei due estremi, come nel caso delle concezioni che potremmo definire dogmatico-oggettive che fanno della norma nella sua oggettività data un valore assoluto immediatamente applicabile ad ogni singolo caso ed al quale la coscienza individuale può solo mettersi passivamente al servizio; o, dall'altro lato, delle opzioni scettiche e individualistiche che, al contrario, ritengono che la determinatezza sempre particolare del contesto pratico, unita alla insopprimibile differenza dei singoli soggetti agenti, renda di fatto impossibile il ricorso alla mediazione di una fonte normativa univocamente determinata. Il peso specifico di entrambi i principi, che le posizioni filosofiche, qui sopra per sommi capi richiamate, pretendono di salvaguardare mediante la riduzione di valore del termine correlativo, chiede di essere apertamente riconosciuto. Norma morale e coscienza singola sono evidentemente legate in una relazione di equilibrio dinamico, sempre da ricercare e continuamente da ricostituire. Eppure su questo punto di equilibrio, e proprio per la sua dinamica costituzione, si concentrano alcune delle maggiori perplessità che affaticano la ricerca etica contemporanea. È conveniente affrontare la questione dal lato dell'universalità della norma. La domanda che ci poniamo è dunque la seguente: qual è il bisogno di sostenere l'affermazione di una validità universale del principio etico?

Il dato storiografico evidenzia con grande evidenza che la tradizione filosofica ha sostenuto in maniera pressoché costante come premessa fondamentale della possibilità stessa di una considerazione etica la validità della norma per la generalità delle situazioni. Questa impostazione può essere osservata già nella riflessione del primo Platone. La sua riprovazione della decisione dei giudici ateniesi che hanno condannato Socrate e, per converso, la difesa della correttezza dell'operato del suo maestro, è giustificata proprio mediante il confronto delle rispettive condotte con un paradigma unico cui l'agire singolo deve essere commisurato ed ancorato e dal quale solo dipende la correttezza del giudizio e la virtuosità dell'agire. Soltanto in questo modo infatti, a giudizio di Platone, la valutazione del bene può essere sottratta alla definizione del singolo, inevitabilmente parziale e dunque sostanzialmente arbitraria. E se, in altri momenti della storia della cultura, con atteggiamento ispirato a maggiore flessibilità il sentire comune ha aperto uno squarcio nella inflessibilità della legge morale concedendo la legittimità dell'eccezione, quest'ultima nondimeno non veniva ritenuta tale da inficiare la validità potenzialmente universale della legge. La norma etica era ritenuta capace di orientare la prassi in ogni situazione.

Anche affrontando la questione dal versante più propriamente teorico, il carattere di universalità delle sue affermazioni sembrerebbe proprio dell'etica. Che sia il bene o il giusto, la felicità o l'utile il principio che giustifica ed orienta l'azione, questo non può non avere un tratto universale; il principio morale cioè avanza la pretesa di valere non solo per il singolo individuo, in quanto ottiene la legittimazione più vera e forte dal fatto che quanto è affermato avere valore per il singolo è ritenuto potersi estendere anche, almeno di principio, a tutti gli uomini. È senz'altro Kant il pensatore che più di ogni altro ha sostenuto la necessità dell'universalità del giudizio morale, al punto da far valere come giustificazione dello stesso formalismo

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dell'etica l'insuperabile parzialità connessa ad ogni determinazione materiale della legge morale; questa risulta inevitabilmente condizionata proprio nel merito del comando dalla particolarità delle circostanze contingenti, che la rendono irrimediabilmente puntuale e ne impediscono la possibile estensione ad altre situazioni. La formula dell'imperativo categorico esprime questa preoccupazione kantiana in maniera esplicita: «Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale». In questa sorta di riedizione della regola aurea, che fa di quanto si desidera ricevere da altri il criterio di condotta verso gli altri, in effetti l'obbligazione del giudizio morale trova nell'affermazione di universalità la propria validità, ovvero la sua riconosciuta conformità al dettato della ragione. Solo nella misura in cui il principio della mia azione potrebbe essere accolto ed applicato anche da altri, ben oltre le contingenze del contesto originario -- il che in altri termini equivale a dire la sua natura universale -- solo in questo caso infatti l'agire del singolo individuo potrebbe rivendicare l'esatta corrispondenza all'obbligazione morale e proclamarsi moralmente corretto, escludendo ogni arbitrarietà del giudizio pratico.

Ma anche nel caso di un approccio etico differente, maggiormente attento ai risvolti empirico-concreti dell'agire umano, trova spazio l'appello a principi di riconosciuta portata universale, vale a dire da considerare da parte di ciascuno come imprescindibili ed assolutamente validi, benché diversamente declinabili nel concreto da soggetti differenti. Tutti gli uomini tendono alla felicità, «il più elevato dei beni realizzabili attraverso l'azione» e fine di queste ultime, sostiene Aristotele nell'Etica Nicomachea. E per quanto la concreta individuazione del contenuto della felicità possa dar luogo ad esiti differenti, che mostrano il diverso grado di educazione e raffinatezza dell'anima, nondimeno è verso di essa che muovono tutte le azioni umane; ne è come la forza attrattiva ultima. Lo stesso si può dire per il principio di utilità, affermato da Hume come criterio di valutazione etica: l'utilità «è la sola fonte dell'approvazione morale che si tributa alla fedeltà, alla giustizia, alla veracità, all'integrità e alle altre qualità e principi utili e degni di stima». Le differenti opzioni teoriche si dividono dunque nella definizione dei caratteri essenziali del principio etico, non nel riconoscimento della sua validità. Ad esso, comunque definito, deve far ricorso il soggetto agente.

Quello che la tradizione filosofica esprime, in buona sostanza, è che la riflessione etica richiede che quanto essa propone possa valere al di là del caso specifico che l'ha attivata. Diversamente rimarrebbe solo il bisogno individuale o la pervicacia della volontà propria a fornire all'azione la determinazione etica essenziale. Con il che, però, la forza del principio che giustifica la dichiarazione etica sarebbe di molto limitata nel suo valore. Affermata solo relativamente al caso specifico, la norma si rivela incoerente e contraddittoria rispetto alla sua pretesa di orientare il comportamento in genere. Certamente la norma universalmente accolta non può escludere, ma anzi necessariamente include l'appello alla coscienza singola, che della condotta conforme a tale norma è esclusivamente responsabile. L'universalità della norma perciò non può essere contrapposta al diritto della coscienza. Ma proprio perché fra le due non si dà opposizione ma integrazione, la coscienza individuale deve riconoscere la valenza in qualche misura obbligante del principio universale.

Certo, ipotesi teoriche del genere manifestano una chiara intenzionalità prescrittiva del giudizio etico, tendono cioè a delineare orizzonti significativi per la prassi. Ma la questione non cambia di molto se, rifiutato per l'etica il riconoscimento di prescrittività, si concede ad essa solo una funzione descrittiva dell'agire umano. Anche in questo caso infatti non è difficile notare come l'iscrizione della proposizione oggetto di analisi al campo dell'etica sia consentita solo mediante il riferimento previo ad un paradigma condiviso del "marcatore" etico. Evidentemente buono o giusto sono termini il cui significato deve essere già presupposto e riconosciuto come valido dagli interlocutori che fanno uso di proposizioni del linguaggio etico. Diversamente non si disporrebbe di nessun elemento per delimitare il registro etico da quello afferente ad altri campi e quindi verrebbe meno la stessa possibilità di definizione della proposizione etica.

E tuttavia la questione non può dirsi chiusa in modo così facile. La forma attuale dell'alternativa etica solo approssimativamente suona identica alla articolazione che ne ha finora data la filosofia morale. A marcare la distanza, infatti, una seconda distinzione, che fa perno attorno alla affermazione della centralità assoluta ed invalicabile dell'esistere proprio di ciascuno, si sovrappone alla questione intrecciandosi con essa e producendo risonanze impreviste che finiscono per disarticolare anche l'equilibrio appena affermato della riflessione etica. Il dibattito interno all'etica, relativo alla migliore modalità di incarnare l'ideale universale che la costituisce nell'intimo, è scavalcato da una nuova posizione della domanda, dove messa in questione è esattamente la pretesa della legge morale di avere un qualche valore vincolante l'agire immediato. Per conseguenza delegittimato in radice è il richiamo ad un confronto della prassi con un quadro di riferimenti etici aventi forza di principio, di cui non si vede neanche il bisogno. Quale diritto può dunque vantare l'universalità della norma nel pretendere di subordinare a sé la volontà individuale del soggetto agente? Perché mai dovrei limitare lo spazio ed il potere della mia volontà libera assoggettando quest'ultima ad un principio che mi trascende, che non ho contribuito io a definire, che io sento comunque vincolante e

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restrittivo?

Domande come queste sono destrutturanti l'impianto etico tradizionale. Esse mettono in gioco infatti non tanto l'estensione dell'orizzonte etico, l'ampiezza inclusiva del principio cui l'agire singolo deve far riferimento, quanto piuttosto l'intensità dello stesso, la sua pretesa di trascendenza etica ovvero di apriorità nel processo pratico che lo costituisce gerarchicamente sovraordinato al soggetto agente. L'universalità della norma viene in qualche modo ancora riconosciuta; ma si tratta oramai di una universalità solo condizionale, affermata solo relativamente ed anche funzionalmente al diritto delle esigenze individuali, che esigono rispetto assoluto. La possibile estensione del criterio normativo particolare non viene pertanto esclusa di principio, ma se si dà è solo per un dato di fatto assolutamente non riconducibile ad uno schema di ragionamento di tipo universalizzante. Quello che sembra far problema alla coscienza contemporanea, insomma, è il primato che la norma morale rivendica per sé. Ecco che, rispetto a questa diversa formulazione della domanda etica, la lode kantiana al dovere, «nome sublime e grande» che «chiedi la sottomissione» e che «esponi soltanto una legge che da sé trova adito nell'animo e anche contro la volontà si acquista venerazione», mostra tutta la sua inefficacia. Altre sono le coordinate del problema.

Il fatto è che l'affermazione dell'individuo, vera e propria cifra della modernità, confligge con il riconoscimento della trascendenza della norma e si oppone radicalmente alla pretesa di universalità di questa. Per un motivo di interna coerenza la modernità, costituitasi attorno alla centralità del soggetto, non è disposta a rinunciare al principio di autodeterminazione individuale. Ma lo sviluppo dialettico di questo principio conduce ad esiti clamorosi, per quanto del tutto consequenziali. Autodeterminazione non significa più solo, kantianamente, che il principio della legge morale non può venirmi imposto in modo eteronomo, costituendo esso l'essenza stessa della ragion pratica; autodeterminazione in realtà sta a dire la rivendicazione di assoluta disponibilità di ogni principio, non solo materiale ma anche formale, da parte del soggetto agente. C'è un detto di Nietzsche su cui dobbiamo soffermare la riflessione. «Posto che si dia la verità, perché non, piuttosto, la non verità?» Della radicalità dell'attacco nietzscheano alla tradizione culturale che ha sorretto l'Europa (preferisco parlare di Europa piuttosto che di Occidente, come fa Nietzsche con una identificazione che andrebbe almeno ridiscussa. Europa non è la terra del tramonto.) solo ai nostri giorni cominciamo a prender coscienza. Minacciosa per la possibilità stessa dell'etica non è la contestazione della morale cristiana come morale degli schiavi, ma lo sconquasso operato sul sistema dei riferimenti in nome dell'assoluta volontà dello Übermensch, l'uomo che ha oltrepassato lo stadio umano di vita per collocarsi nel luogo dell'oltre, dove la sua volontà, che è volontà di potenza, domina sovrana senza più alcuna censura o remora. Non si dà infatti motivo alcuno, che non sia la volontà dell'uomo creatore, che possa attribuire un senso ed anche un valore a cose ed eventi. Nulla è già definito: non la verità, non la non verità. «Se esistessero ancora gli dei, come potrei tollerare di non essere io -- un dio?», si lamenta Zarathustra. Eccola l'etica a-morale di Nietzsche, che abbatte ogni dato trascendente e reclama assoluta onnipotenza per la volontà vogliosa dell'uomo dell'Umanità superiore. Più nessun dio, sia pure nella forma di un valore secolarizzato, può ormai contrastare l'autoaffermazione dell'individuo che si afferma sul gregge degli uomini restati tali.

Non sorprende perciò che per molti di noi, nipotini non sempre consapevoli di Nietzsche, ogni rimando a principi universali, che avanzino una pretesa di validità intrinseca ed antecedente la libera scelta degli stessi da parte dell'individuo protagonista assoluto dell'agire, venga percepita come una minaccia ed anche una limitazione insopportabile al principio medesimo di libertà. E così il disaccordo etico ha preso il posto dell'accordo, la trasgressione e l'estraneità morale quello della condivisione, il relativismo etico quello dell'universalità della norma morale. L'ambito di validità di questa sembra restringersi agli orizzonti omogenei di senso e di valore di cui ciascuno, individuo o gruppo sociale, è nei fatti portatore. L'appartenenza ereditata dalla nascita o la consapevole adesione a differenti tradizioni culturali risulta costituire ostacolo insuperabile all'individuazione di una norma condivisa da tutti. Sicché ogni tentativo di accreditare una qualche validità a priori della norma viene considerato un ostacolo alla possibilità stessa dell'agire libero dell'uomo. Qui si tratta di più che della semplice enfatizzazione di esigenze individuali che non vogliono cedere ad un principio sovraindividuale, di cui pure si ammette la possibilità; in realtà quello che viene sostenuto è il riferimento delle scelte pratiche ad un soggetto che non riconosce vincoli estranei a quelli che lui stesso ritiene di autoimporsi. Al kantiano "tu puoi perché devi" si è sostituito il nichilistico "tu devi perché puoi". Una prassi del genere trova sul terreno etico la sua più compiuta teorizzazione nel relativismo; questo restringe il campo di indagine etico alla circostanza fattuale nella sua più concreta immediatezza, dove solo il soggetto agente individuale è protagonista; dove pertanto non si danno altre istanze cui commisurare la propria condotta. E così l'etica dell'individuo razionale si rovescia nella prassi a-morale dell'imposizione inevitabilmente violenta del forte sul debole, del ricco sul povero, dell'incluso sull'escluso, del sano sul malato.

Ovviamente il relativismo è solo il portato finale di un processo che si muove molto più in profondità, ad investire i gradi preliminari su cui la riflessione etica si basa, quali l'antropologia e la stessa metafisica. Il riferimento a Nietzsche deve essere letto in questo senso. A considerare la cosa nel suo complesso, possiamo

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dire che giunge qui a compimento un processo plurisecolare di emancipazione, che ha liberato l'uomo dalle pastoie di oggettivazioni dogmatiche che finivano per negare quella dignità antropologica al cui servizio pure erano state elaborate. Una morale oggettivata ed al tempo stesso sclerotizzata in forme che pretendevano avere una vitalità ed una sostanza per sé stanti, pensate al tempo stesso più come gabbie entro cui comprimere la vita che come supporti per una vita buona, ha generato una reazione di ribellione. Il rifiuto di tali forme, che fanno dell'uomo niente più che un luogo della realizzazione di istanze esterne in cui la coscienza non ha parte attiva, ha però prodotto la versione semplificata, ed altrettanto estremizzata, di una prassi dove sono quelle istanze a non avere più parte alcuna. Il processo va ovviamente compreso nella totalità delle sue manifestazioni dinamiche, che qui possono essere solo alluse. Non serve a nulla la sua demonizzazione, così come conta poco osservare che il relativismo è in verità un assolutismo mascherato, dove la prospettiva individuale del soggetto agente viene totalizzata e proposta come prassi assolutamente giustificata dalla volontà stessa di chi opera. Resta che lo scardinamento dell'etica, nella sua stessa possibilità, è violento.

La segmentazione del principio etico nei rivoli di una soggettività affermante la propria assoluta ed incondizionata autonomia, che non risponde che a se stessa dei propri comportamenti, lungi dal valere come elemento di rinforzo della fondazione etica, ne mina in realtà le radici profonde. Perché un'etica possa darsi, occorre infatti almeno condividere un perimetro minimale di riflessione, che salvi dall'illusione dell'arbitrio e renda possibile il confronto. Aristotele questo lo dice della filosofia in genere. Noi limitiamoci ad affermarlo per la riflessione etica. Ed il motivo di ciò sta nel fatto che l'etica è chiamata ad intervenire non propriamente sui meccanismi dell'azione umana, quanto piuttosto sulle dinamiche che la stessa azione attiva nel contesto umano sociale. Già Hume osservava che non ci sarebbe bisogno della virtù della giustizia se l'uomo vivesse isolato da ogni contatto con il suo simile. Se l'uomo è essere-in-relazione, persona, l'agire umano, su cui l'etica afferma la competenza, non può non tener conto della presenza di altri e non può non essere oggetto di considerazione ed analisi da parte di altri; dal momento che le azioni e i loro effetti modificano strutturalmente la relazione umana, di cui tutti sono egualmente protagonisti e spettatori. Soltanto nell'ipotesi astratta ed irrealistica di un essere umano, individuo solitario ed isolato da ogni contatto con i suoi simili, si potrebbe sostenere a ragione la non necessità di un riferimento etico fondamentale previo ed indipendente rispetto all'azione data nel concreto. Ma poi forse, a ben vedere, nemmeno in questa ipotesi il singolo individuo potrebbe fare a meno di confrontare i diversi momenti del suo agire e cercare di tenerli assieme costruendo una condotta coerente capace di dare orientamento alle sue azioni.

Ecco dunque che l'elevazione dell'autonomia individuale a principio normativo esclusivo dell'agire, se può ancora valere in riferimento all'individuo singolarmente preso, diventa estremamente problematica quando pretenda di porsi come criterio di determinazione della condotta di singoli in relazione umana tra di loro. È evidente che in questo caso nessun motivo razionale può essere addotto a giustificare la modalità di gestione e di composizione del conflitto, che si genera inevitabilmente ogni qualvolta non si produce una concordanza immediata degli interessi individuali. A questo livello l'etica non potrà essere che espressione dell'interesse del singolo individuo concretamente impegnato nell'azione. E, a meno di non far ricorso all'ipotesi veramente metafisica, nonché sottilmente totalitaria, di un soggetto astratto, quale ad esempio l'umanità la società o lo stato, è allo stesso modo inevitabile che l'interesse del soggetto individuale sia un interesse limitato: a sé, ai suoi, al suo gruppo sociale. E che ne è allora degli altri? degli estranei al nostro ambiente sociale? degli stranieri?

Un caso che ha occupato tempo addietro le pagine dei giornali, quello dei "respingimenti" presso i paesi di partenza degli immigrati clandestini che cercavano di sbarcare sulle coste italiane, può essere un interessante esempio delle nuove difficoltà che un approccio etico di tipo relativistico pone. Esso dimostra che qualora l'utile nazionale richieda l'adozione di misure di contrasto lesive dei diritti elementari del "popolo dei barconi", che sfugge alla guerra e alla fame, il primo fa premio sul secondo e questa priorità viene a giustificare eticamente l'azione. La relativizzazione della norma morale, fatta dipendere dalle esigenze del soggetto (individuale o collettivo) protagonista dell'agire, rende non appellabile il riferimento al principio universalmente riconosciuto dei diritti dell'uomo. Se l'individuo è legislatore a se stesso senza che niente e nessuno possa contestargli il suo diritto primario a definire il contenuto della norma che egli riconosce come prioritariamente valida, non si vede per quale motivo questo stesso individuo che definisce assolutamente giusto il comportamento di tutela dei propri beni e territorio debba sottostare ad imperativi etici come quello della promozione della pace o del rispetto della salute o della dignità dell'altro uomo non appartenente allo stesso gruppo identitario. Nel contesto relativistico, il discorso può essere perfettamente coerente. Ma andiamo provocatoriamente fino in fondo. Gli italiani che lavorano sul territorio africano per conto di imprese italiane o gli escursionisti di safari in Africa non sono, dal punto di vista degli indigeni, altrettanti stranieri che operano illegittimamente in territorio altrui? non hanno pertanto pieno diritto i ribelli della Nigeria o i pirati del Corno d'Africa a far valere le norme della loro etica individuale (di gruppo)? e dunque "respingere" (che in questo caso equivale a rapire) questi stranieri, immigrati da loro non

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autorizzati? Non vorrei essere frainteso. Non intendo affatto giustificare tali comportamenti, che ritengo moralmente inaccettabili; sto solo cercando di rendere evidente come il riferimento alle esigenze individuali, che ognuno è nel pieno diritto di rivendicare -- a meno di non introdurre una razzistica differenziazione tra uomo e uomo -- non sia poi sufficiente a sostenere il minimo di decenza etica necessario a garantire la sopravvivenza delle relazioni umane. Mi sembra che l'esempio mostri bene come basti cambiare prospettiva, spostare il centro del sistema, e quello che prima sembrava anche tollerabile se non anche accettabile, diventa improvvisamente crudele e illecito. La logica del ragionamento rimane la stessa: l'affermazione di una prassi di cui il soggetto agente è anche il fondamento di legittimità. Con quale coerenza di ragionamento allora sostenere la colpevolezza e la disumanità di quei comportamenti? Una volta ammesso il criterio di ricondurre ogni decisione al punto di vista del soggetto agente, si potrà poi distinguere tra soggetto e soggetto? Pare perciò che non resti altro che la forza del vincitore ad attribuire apprezzamenti e biasimo. Perversa è dunque questa logica.

Perversa perché apre le porte alle giustificazioni più incredibili e alle legittimazioni più arroganti che nessun appello alla ragione potrà scardinare. Di fronte ad essa persino il richiamo ai diritti fondamentali dell'uomo, che pure valeva come ultimo contrappeso all'arbitrio di una soggettività esasperata, si rivela un'arma spuntata. Chiuso nel suo bozzolo dove egli è legge a se stesso, il relativista non si lascia scalfire dall'appello ad un fondo comune di dignità umana. Egli esalta il politeismo dei valori della società multietnica e multiculturale, dove ognuno può scegliere in tutta libertà e senza obbligo di giustificazione il suo idolo. Ma, e qui sta tutta la questione, questo politeismo ha scalzato il fondamento stesso che poteva sostenere e finora aveva sostenuto la ricerca del punto mediano di equilibrio, ha relativizzato persino quei diritti. Tra soggetto e sue maschere, l'immagine dell'uomo è andata in frantumi. La ricerca etica scopre così uno dei suoi lati deboli, ovvero il lato antropologico. Chi è infatti il soggetto dell'agire etico? Un individuo autoreferenziale, in grado di determinare assolutamente se stesso e pertanto estraneo ad ogni interpellanza di responsabilità verso altri, o una persona, essere in relazione con altri cui deve in qualche modo rispondere di sé e del suo operare? Dalla risposta a questa domanda dipende la possibilità di continuare nella nostra riflessione.

La conclusione è pertanto aporetica. L'etica sembra come bloccata in una situazione di stallo, nella quale le domande risuonano con maggiore intensità.

4. Libertà vs. determinismo

Lo scenario non si fa di certo più nitido se affrontiamo il secondo dei nodi sopra individuati come centrali per l'attuale ricerca etica, nodo che aggredisce la possibilità dell'etica in una maniera che si rivela speculare al primo. Se infatti l'alternativa tra universalità e relativismo metteva sotto scacco l'etica dal versante della norma, la quale si trova ad essere relativizzata in nome del diritto sovrano della coscienza di comporre i criteri del suo agire, adesso nella sfida che il determinismo lancia nei confronti della libertà è invece la coscienza morale ad essere sottoposta ad attacco frontale, dal momento che l'operare umano viene ricondotto a dinamiche biologiche pensate come determinanti la stessa coscienza nel suo efficace intervento pratico. E mentre nel caso precedentemente esaminato il naufragio della norma porta con sé la disarticolazione della comunità etica e la conseguente perdita di potere della ragion pratica a vantaggio dell'immediatezza del sentire e del desiderio, in questo caso il tentativo riduzionista dello scientismo più agguerrito finisce per rendere niente affatto scontato persino il semplice parlare di etica. È necessario perciò prendere nota anzitutto dello stato della questione.

L'esperienza della libertà propria è per l'uomo esperienza di un'evidenza palmare. Sembra perciò difficile revocarla in dubbio. E tuttavia nel passaggio dall'esperienza della libertà alla presa di coscienza di essa la semplicità di quell'esperienza originaria si carica di fattori di forte tensione problematica. Sentita come valore irrinunciabile e caratterizzante l'essere umano nella sua essenza, la libertà nondimeno risulta spiazzante ed insieme conturbante per lo stesso uomo, che scopre se medesimo e l'altro dotati di un potere sfuggente ad ogni predeterminazione. Come in epoca moderna ha notato Kierkegaard, la libertà dell'esistenza è fattore di possibilizzazione estrema, che sottrae l'uomo al ciclo biologico naturalisticamente determinato del semplice vivente e lo costituisce sovrano di se stesso. A lui solo tra tutti i viventi è dato di poter modellare se stesso e l'ambiente in cui vive secondo modalità non naturali. La necessità della natura non è per lui limite assolutamente insuperabile.

Ma al tempo stesso ed in virtù degli stessi motivi la libertà sconvolge anche ogni sicurezza che l'uomo può aver costruito per sé, lasciandolo privo di ogni garanzia di futuro; proiettato verso il futuro del suo esistere, egli sa che nulla di questo futuro gli è garantito, proprio perché niente è per lui predeterminato. Connotata da un tratto così ambivalente, la libertà costituisce la sfida sovrana che l'uomo gioca con se stesso nel suo progetto, che è al tempo stesso il suo destino, di umanizzazione. L'umanità dell'uomo è infatti qualcosa di più di un dato organico fissato una volta per tutte; è realizzazione di sé, secondo un progetto di esistenza che prende corpo solo quando ciascuno, costruendolo come se fosse dato per la prima volta, lo assume per sé e

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su di sé. In questo modo si pone per l'uomo la condizione di un agire consapevole e responsabile; è dunque la libertà del suo essere che fa di un uomo un soggetto morale. Solo allorché questi può assumere responsabilmente su di sé la decisione ed anche gli effetti del suo agire, in quanto deliberatamente voluti e non semplicemente imposti, si danno le condizioni per un discorso etico. La libertà, come ha sottolineato Kant, è perciò come la ratio essendi della moralità. Dovesse venir meno, il comportamento umano perderebbe immancabilmente il suo tono etico e dovrebbe ricercare altrove il suo motore e la sua spiegazione.

Ma proprio questo sigillo di umanità che l'uomo porta con sé iscritto nella radice del suo essere confligge clamorosamente con un altro grande fattore che qualifica in maniera altrettanto essenziale e forse anche più riconoscibile l'essere umano, vale a dire l'intelligenza. Il raffinato esercizio di questa è lo strumento con cui l'uomo trova le modalità per elevarsi al di là del dato della propria posizione naturale e si mette in grado di gestire il progetto di libertà che lo individua. L'uomo è dunque altrettanto intelligenza, logos, ragione; e benché questi termini non siano del tutto sinonimi, sottolineando sfumature differenti che non possono essere soppresse, nondimeno essi tutti convergono verso un medesimo fuoco, quello di rendere possibile la comprensione del mondo ed organizzare in modo conveniente l'ambiente in cui l'uomo è inserito; la qual cosa costituisce fuori d'ogni dubbio uno degli impulsi originari dell'esistere umano. Realizzazione di sé e conoscenza del mondo, dunque: questa potrebbe essere la formula della relazione di libertà e ragione. Ma non è lungo la direzione interno-esterno che si gioca la difficile partita della coesistenza della libertà con la ragione, quanto piuttosto nella radicale opposizione delle dinamiche che rispettivamente le ispirano.

La dinamica della libertà ha la sua peculiare connotazione nella flessibilità del processo che la chiama in gioco. Esperienza di libertà si dà veramente solo laddove si presenta una pluralità di alternative, tutte egualmente possibili, tra le quali il soggetto dell'azione può esercitare la sua scelta. Essa suppone e richiede pertanto l'indeterminatezza del contesto operativo; una strutturazione già prestabilita di quest'ultimo, tale da rendere inevitabile la scelta della soluzione finale, avrebbe solo la parvenza di libertà, la renderebbe evanescente e fittizia. Libertà è pertanto rottura dell'ordine della necessità che governa inflessibilmente l'ordine naturale degli eventi. Ora proprio l'individuazione, comprensione, costruzione e ricostruzione della catena della necessità costituisce invece l'importante contributo che la ragione apporta all'esistere dell'uomo. Considerato sotto quest'ultimo punto di vista, il mondo appare governato da una ferrea legge, che la ragione sa scoprire nelle cose stesse. E così quello che ha l'aspetto di un assembramento caotico di enti casualmente disposti diventa un cosmo ben ordinato di eventi, nel quale l'uomo può trovare il suo posto ed interagire produttivamente; appropriandosi dell'ordine nascosto, all'uomo poi riesce anche di modificare con la potenza della sua tecnica il mondo. In questo modo, e tanto più quanto maggiore è il successo del suo intervento, l'uomo fa esperienza della legge di necessità cui il mondo della natura è sottoposto, principio che non ammette la possibilità di alternative, eccezioni, distorsioni, che non siano governate dalla necessità medesima. Nulla avviene per caso, nel mondo della natura, perché nella natura non si dà alcuna libertà. Qui ricava tutta la sua forza la costruzione razionale con la quale l'uomo spiega i fenomeni naturali, vale a dire la scienza. Che pertanto non può far posto ad alcuna ammissione di libertà.

La differenza delle prospettive è evidente. Su di essa aveva già attirato l'attenzione Kant, con la celebre affermazione su «il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me». Meno pacifica è invece la possibilità di coesistenza di questi due mondi, fisico e morale; dato che libertà e necessità non possono coabitare nello stesso orizzonte -- e qui l'orizzonte è il medesimo, l'uomo. Ma pur essendo il medesimo il soggetto di riferimento, da questa univocità del riferimento non consegue assolutamente che unico debba anche essere l'approccio ad esso. La proposta kantiana si distingue esattamente per il rifiuto di ogni ipotesi di riduzionismo, troppo facile soluzione che risolve questioni complesse col riportare semplicemente al contesto proprio di senso quanto a questo contesto sfugga; lasciando così però che, ciò che resta eccedente, non è veramente interpretato ma solo rimosso. L'insegnamento del filosofo tedesco rimane dunque ancora una volta decisivo, proprio perché presta attenzione alla complessità e globalità dell'esistenza dell'uomo, contrastando tanto il pigro allentamento dell'ordine inflessibile della natura nel nome di superiori diritti di libertà, quanto lo stritolamento della libertà nelle maglie di una necessità richiesta e sostenuta dalla conoscenza scientifica. Le differenti esigenza dell'etica e della scienza possono venire entrambe salvaguardate limitando le pretese colonizzatrici, che entrambe intimamente coltivano allorché si affidano ad una medesima struttura, quella della razionalità epistemica che si vuole esattamente ed assolutamente in grado di determinare l'oggetto, teorico o pratico che sia. Non dunque l'universo unidimensionale del sistema gerarchico della razionalità scientifica, dove metafisica del trascendente o dello spirito e scienza dell'immanente o della materia si contendono il primato del sapere inconfutabile dell'episteme, ma la possibilità di un universo plurale, dove il riconoscimento della coappartenenza reciproca dei due mondi renda legittimo, accanto all'approccio apodittico della conoscenza scientifica, anche quello non necessario né necessitante, ma non per questo inutile od incerto, di un'etica della libertà consapevole e responsabile. Facendo una volta ancora ricorso alle parole di Kant, questa volta prese dalla prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, il sapere della scienza deve «far posto alla fede» della ragion

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pratica.

E tuttavia, come la storia del postkantismo insegna, l'equilibrio kantiano si rivela troppo fragile e difficilmente condivisibile da parte di una scienza impegnata a raggiungere l'obiettivo di un sistema di conoscenze che possa dirsi assolutamente garantito perché assolutamente necessario. La dialettica interna alla scienza, che mira a raggiungere il grado assoluto di episteme, non può accettare il vincolo fenomenico invalicabile che Kant poneva alla ragione teoretica. Il modello dell'episteme in effetti non ammette limiti all'avanzamento della conoscenza in tutte le regioni dell'essere; una scienza o è assoluta o non è. Dietro la cosiddetta cortina del tempio, osserva Hegel, non c'è nulla da vedere; in altre parole per l'episteme, filosofica o scientifica che sia, non si dà realtà noumenica che non possa manifestarsi, almeno di principio se non anche di fatto. L'appello alla dignità e all'interiorità dell'uomo, il richiamo alla nobiltà della sua coscienza, lo stesso immediato sentimento di libertà, cose tutte che sfuggono alla manifestazione oggettivante, devono perciò trovare una nuova e più adeguata riformulazione nei termini neutrali e (apparentemente) wertfrei della scienza. Laddove la necessità governi sovrana, termini come interiorità, coscienza ed altri dello stesso genere, valgono solo come parole ambigue che attendono una più precisa chiarificazione e definizione da parte della ricerca scientifica stessa. Anche l'etica ed il suo mondo non possono sottrarsi alla medesima esigenza. E così, è stato sufficiente attendere che il potenziamento degli apparati tecnici consentisse più raffinate e specialistiche indagini dei processi della vita dell'uomo, perché ne seguisse con grande naturalezza l'annuncio sempre più trionfale che tutte o quasi le questioni, che hanno finora animato il dibattito etico, trovino la loro precisa soluzione nel quadro della ricerca scientifica e tecnica. Le sensazionali scoperte, rilanciate con grande clamore dai massmedia, di "geni dell'amore", della felicità, della religione e così via fanno il resto, contribuendo a plasmare il modo di pensare di un'opinione pubblica sempre più confusa e disorientata.

Il fatto è che ad una scienza sperimentale non è dato accesso a quanto di principio non può essere oggetto di osservazione. È questa una considerazione quasi tautologica e forse, proprio per questo, spesso premessa di conclusioni improprie. Perché è senz'altro vero che dell'agire umano, eticamente significativo, la scienza può cogliere esclusivamente il momento esteriore misurabile sperimentalmente, vale a dire il comportamento di un certo individuo che fa in un certo modo certe operazioni. Tutto il processo di libertà che precede l'agire, la valutazione della conformità a valori come pure la deliberazione circa la convenienza dell'azione con il progetto di esistenza che l'uomo coltiva, per non dire della costruzione di questo medesimo progetto, tutto questo dibattito interiore si sottrae alla osservazione ed alla analisi della scienza. Essa non può che dichiararlo estraneo al suo ambito di ricerca e quindi non attinente le sue indagini. Ma una tale dichiarazione di estraneità non porta affatto né richiede l'assimilazione dell'elemento estraneo e la sua riduzione all'orizzonte familiare dell'oggettività. Mentre è proprio questo che accade, allorché in nome dei diritti della conoscenza l'approccio scientifico si impossessa del mondo della libertà e ne ritraduce nei termini della necessità ad esso propri ciò che invece a questa necessità precisamente si sottrae. Ciò che rimane sul tavolo quindi sono soltanto le metodiche di comportamento oggetto di osservazione. Non più etica perciò ma, come dicevamo all'inizio, etologia, scienza del comportamento dell'animale della specie homo sapiens.

A dire il vero, però, più che risultato della scienza, queste sono solo le affermazioni che lo scientismo, pessima metafisica travestita di scienza, si incarica di promuovere e sostenere. È soltanto con la rielaborazione teorica delle risultanze della ricerca scientifica da parte di costrutti di interpretazione globale, ricavati non sempre con consapevolezza da implicite assunzioni filosofiche di senso, che si produce quella totalizzazione della conoscenza scientifica che pretende di valere come assoluta ed in ogni caso tale da rendere improponibili altre modalità di ricerca. Lo spazio dell'etica viene in tal modo confiscato; come ha scritto Nicholas Wade, un giornalista scientifico collaboratore della sezione scientifica del The New York Times, «fu il biologo Edward O. Wilson, oltre trent'anni fa, il primo a suggerire che "è giunto il momento di togliere temporaneamente l'etica dalla sfera di pertinenza dei filosofi per passarla ai biologi"» (La Repubblica, 22 marzo 2007).

5. Una conclusione provvisoria

Questa conclusione inattesa e per certi versi anche conturbante, che chiede comunque di essere pensata, mostra con grande plasticità come l'empasse contemporanea dell'etica sia qualcosa di più di una tempesta di superficie. L'evoluzione del contesto culturale contemporaneo mette in discussione l'etica nel cuore della sua pretesa di valere come riferimento significativo per l'agire dell'uomo. Espropriata dapprima del diritto di poter dare orientamenti per l'azione che fungano da criteri per la valutazione dell'azione medesima e non si limitino invece alla semplice registrazione del fatto, comunque benedetto in quanto opera non discutibile di una coscienza assolutamente sovrana, essa si è trovata da ultimo delegittimata persino nella sua semplice possibilità di sussistenza ad opera di una ideologizzazione dogmatica della scienza, che si affida in definitiva al successo pragmatico ed effettuale per tacitare del tutto il richiamo alla coscienza, ultima spiaggia

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dell'etica. Allo stesso modo dell'osservazione critica di Pascal verso il dio cartesiano, l'etica oggi sembra inutile dunque ed incerta.

Eppure il comune sentire si ribella ad una simile conclusione. Sentiamo che senza un quadro di riferimento che ci fornisca prospettive valide per l'azione, alle quali far ricorso nel tessuto vitale delle relazioni umane, il nostro stesso agire resterebbe estremamente volubile e privo di efficaci motivazioni. Accade così che, orfana di una matura riflessione etica, l'umanità contemporanea sia poi costretta ad andare alla ricerca di surrogati che non reggono veramente il peso del confronto e dell'essenziale compito cui sono chiamati. Non si può far veramente a meno di un orizzonte etico. Sempre meglio ci rendiamo conto di come a gestire le relazioni umane poi resterebbe solo il primato della forza; che non tarda a mostrare il suo volto violento e disumano. È la muta ed inquietante Bia, compagna di Kratos del prologo del Prometeo incatenato di Eschilo, inquietante proprio perché muta, cioè estranea al territorio comunicativo della parola, che dà conto di sé e forma così la trama di una relazione razionale che è alla base della comunità etica. Sono le enormi violenze che il potere, comunque definito, ha inflitto e continua ad infliggere oggi con gli smisurati mezzi della tecnica sull'umanità indifesa, inerme, umiliata di quanti non possono in qualche modo opporre un qualche contropotere. Ma la resistenza etica delle coscienze, che si rifiuta di riconoscere giustizia e concedere legittimazione etica al potere brutale della forza -- force n'est pas droit, come la borghesia illuminata gridava contro l'Ancien Régime -- mostra come l'istanza etica sia sempre risorgente, a dispetto di ogni preteso comando di esilio più o meno dorato. Un compito pertanto ci attende e ci riguarda tutti, ed è quello di tessere nuovamente la trama di una riflessione pensante che sappia articolare e dar forma attuale al bisogno di etica. Le sfide culturali provenienti dalla stagione che stiamo vivendo, una stagione confusa ma insieme anche ricca di promettenti aperture, lo richiede in maniera inderogabile. Definire con maggiore precisione la domanda etica, precisarne i suoi mutevoli e problematici contorni è stato quindi il primo essenziale passo, propedeutico ad ogni risposta, che qui abbiamo cercato di percorrere. In attesa di riformulare le coordinate di un'etica per il nostro tempo.

Emanuele Antonelli

Lo spazio sociale come spazio del contagio

Il vischioso è l'agonia dell'acqua

-- Jean-Paul Sartre, L'essere e il nulla.

Traiamo la tesi che vorremo discutere in questo saggio da una schiera di autori di diversa provenienza disciplinare che hanno cercato, negli ultimi lustri, di descrivere la natura delle relazioni intersoggettive facendo ricorso ad un lessico appartenente alla costellazione semantica del contagio. Secondo questa lignée sociologica e filosofica, le relazioni intersoggettive e lo spazio in cui queste hanno luogo, possono essere riconosciute e pensate come condizione di esposizione al contagio.

La percezione dell'esposizione al rischio del contagio -- termine usato in parte metaforicamente e in parte secondo analogia con il settore disciplinare cui pertiene -- può essere considerata come una delle esperienze fenomenologicamente originarie nella definizione delle qualità dello spazio vissuto; l'opzione sulla spinta della quale presentiamo questo saggio è che la concezione dello spazio della modernità possa essere considerata come una pratica di immunizzazione.

Per discutere la tesi appena accennata vorremo fare riferimento ad alcuni autori che nel corso della seconda metà del XX secolo hanno affrontato tematiche e problemi che in qualche modo possono essere utili a determinare una fenomenologia dell'esposizione.

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1. Le fasi della globalizzazione

Peter Sloterdijk, nella trilogia Sphären, elabora, nelle parole del traduttore francese Olivier Mannoni, «niente di meno che una storia filosofica dell'umanità attraverso il prisma di una forma fondamentale: la sfera e tre delle sue declinazioni, la bolla, il globo, l'alveolo di schiuma», offrendo una sorta di grande narrazione a partire da un presupposto polemico indirizzato contro tutte le retoriche della globalizzazione. Secondo Sloterdijk il mondo è sempre stato globalizzato; nell'ultimo secolo avremmo semplicemente assistito ad alcuni, per altro significativi, cambiamenti di forma.

La sferologia di Sloterdijk cerca di proporre una cronistoria delle globalizzazioni elaborate dall'umanità, sulla base di una tesi fondamentale che vorremmo fare nostra e discutere in questo articolo. L'indagine sferologica prende a proprio oggetto gli spazi di coesistenza all'interno dei quali l'uomo interpreta e definisce se stesso: le sfere, i globi e la schiuma sarebbero, dunque, la diacronia evolutiva dei contenitori simbolici e immunitari attraverso i quali l'uomo pensa se stesso nel mondo e trova la propria protezione dai pericoli esterni.

Le epoche della globalizzazione sono tre, la globalizzazione celeste, la globalizzazione terrestre e la globalizzazione attuale, elettronica.

La globalizzazione celeste, elaborata nel mondo greco, si realizza nella perfezione sferica del cosmo antico, dove il tratto immunitario è costituito dalla perfezione dell'ordine della sfera dei cieli aristotelica. In questa formulazione sferologica, la Terra risultava protetta dalla confezione celeste posta a tutela degli uomini;1 una sfera protettiva invisibile che durò fino al Medio Evo, almeno fino a Dante, entrando in crisi ai primi albori della modernità. In questo caso la segmentazione storiografica fornita della scoperta dell'America, diffusa anche se discussa, offre un comodo riscontro. La fine della globalizzazione celeste coincide con le grandi avventure dei navigatori e dei cartografi che, al loro ritorno, offrono per la prima volta la visione empirica della sfericità della globo terraqueo (Sloterdijk 2005: 56ss). La rottura epocale della globalizzazione celeste, che verrà portata a termine nel corso della modernità, attraverso l'opera dei cartografi, di Galileo e, per finire, di Nietzsche, comporta un radicale cambiamento prospettico. Il geocentrismo della globalizzazione celeste comportava una prospettiva analitica verticale e offriva una localizzazione precisa e rassicurante -- anche se non così lusinghiera, stando all'assiologia spaziale aristotelica -- agli abitanti della Terra. La rottura di questa prima fase epistemica comporta un clamoroso stravolgimento immunitario. Gli uomini non sono e soprattutto non possono più sentirsi protetti dalla sfericità celeste e si trovano invece svelati, scoperti, esposti addirittura scorticati, spellati.

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Il processo di modernizzazione prende piede in modo consistente nel momento in cui si iniziano ad elaborare delle soluzioni immunitarie alternative a quella andata in frantumi; secondo Sloterdijk, lo stato nazionale costituisce un tentativo, per larghi tratti riuscito e con una tenuta temporale rilevante, di ricostituire una forma di radicamento territoriale, regionale e patrio che potesse offrire un sostegno orientativo.

Un tratto molto interessante -- su cui torneremo in seguito -- di questa analitica spaziale di Sloterdijk2 è che al termine di questo processo, lo spazio della vita degli uomini cambia completamente le proprie qualità primarie. I luoghi perdono le loro caratteristiche specifiche, smettono di essere localizzazioni, perdono le loro determinazioni di terre natie e protettive e vengono meno al loro ruolo di garanzia identitaria. Nel corso della globalizzazione terrestre i luoghi diventano ubicazioni, caratterizzazioni spaziali determinate dalle coordinate, dalla distanza relativa.

In questa prospettiva, Sloterdijk esercita la sua vis polemista contro un'altra delle chiavi classiche dell'interpretazione del postmoderno, ovvero la retorica della perdita del centro. Secondo il nostro autore, questa idea risale ad un fraintendimento delle conseguenze della rottura della globalizzazione celeste, la quale offriva senz'altro una precisa e solida centralità al globo terrestre. Il vero cambiamento epocale non consiste tanto nella perdita del centro in quanto tale: il concetto di centralità è evidentemente relativo alla determinazione degli spazi periferici. Essendo il centro il luogo a partire dal quale noi organizziamo la nostra percezione spaziale, secondo Sloterdijk, non è questo ad essere andato perso nel corso della modernizzazione quanto, piuttosto, la cintura di sicurezza semiotica e immunitaria garantita dalle periferie.3

A livello concettuale una delle conseguenze più significative di questo evento simbolico rappresentato dal ritorno dei cartografi dalle grandi esplorazioni pre-Rinascimentali, è la rottura del;4 nella fattispecie, si assiste alla comparsa del fuori, non previsto nella cosmologia aristotelica.5 All'abisso scoperchiato dalla rottura della logica cosmica corrisponde o comunque si associa, nel corso della modernizzazione, un secondo abisso, rappresentato dalle culture altre. In questa prospettiva è molto interessante ripercorrere per sommi capi l'evoluzione dei rapporti con l'alterità culturale, spesso fraintesi nella retorica del multiculturalismo.

La molteplicità delle culture è un dato antico quanto il mondo e la coscienza di questa stessa molteplicità smise di fare notizia già al tempo dei sofisti. Ciò che si rende invece significativo, andando a costituire una novità ed un problema ancora in via di definizione prima che di soluzione, è la presenza di una molteplicità di culture all'interno di una comunità determinata, nella fattispecie, nello stato nazionale. In questa prospettiva, il sentimento di paura immunologica deriva dalla possibilità di essere sempre raggiunti e toccati, in una società dalle pareti sottili. 6 Il multiculturalismo è un problema di contatto, coatto, delle varie culture che hanno perso le loro periferie e si può porre logicamente solo all'interno di una medesima comunità,7 segnatamente all'interno dello stato nazionale liberal democratico, punto di arrivo del percorso di modernizzazione. Nel valutare le considerazioni formulate a proposito del tema dell'esposizione sull'astro degli svelati, è senz'altro importante ricordare che Sloterdijk ha compiuto in Germania un lavoro ermeneutico molto significativo, sdoganando la lettura di Heidegger e Nietzsche a sinistra, riuscendo a superare i pregiudizi ideologici che li avevano tenuto distanti dalla teoria critica, l'alveo in cui lo stesso Sloterdijk è cresciuto. In questo senso, l'elaborazione della categoria dell'esposizione è in grande misura debitrice dell'analitica esistenziale heideggeriana. L'astro degli svelati è per l'appunto il mondo sul quale il Dasein è gettato, un mondo inesorabilmente esterno, privo di coperture cosmologiche rassicuranti.8

2. Ordine e purezza

La sensazione di esposizione di cui ci parla Sloterdijk è compatibile con l'esperienza fenomenologica del contagio che stiamo cercando di determinare in queste pagine? Le ragioni che ci portano a proporre questa relazione poggiano sugli scritti di Mary Douglas, in particolare sul saggio del 1966, Purity and danger. La tesi principale di questo testo consiste nel sostenere che le categorie dell'ordine di una cultura siano un'estensione ed un'applicazione al mondo naturale e sociale di una metafisica teologica la cui ragione d'essere è esattamente una funzione di discretizzazione del mondo. La relazione che intercorre tra i due autori sin qui richiamati guadagna in chiarezza nel momento in cui la si istituisca su un piano diacronico, orientato secondo una filosofia della storia che accetti, almeno per adesso in modo irriflesso, il paradigma del nichilismo.

L'opzione della Douglas consiste, sulla scia del citato e di poco precedente Finitudine e colpa, nel considerare sotto il medesimo rispetto le pratiche religiose delle culture primitive e le pratiche igieniche connesse alla categoria della contaminazione. In questi termini, la domanda fondamentale posta dalla Douglas concerne la relazione logica tra le categorie dello sporco, dell'impuro e del disordine: lo sporco

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genera il disordine, o viceversa? Cosa viene prima? Qual è lo statuto ontologico dello sporco?

La tesi del saggio del 1966 è che lo sporco esista solo in relazione ad un contesto che ha una precedenza logica e ontologica. Lo sporco esiste solo come traduzione, o meglio come percezione del disordine, il quale a sua volta si dà solo in relazione all'ordine che viene a negare. Sulla base di tale prospettiva, gli abominî del Levitico, il libro in cui vengono definite le regole della cultura alimentare kosher, possono venire ricondotti ad una pratica di sistematizzazione e discretizzazione metafisica volta a regolare e rendere possibile -- oltreché tollerabile -- l'interazione con il mondo naturale e sociale. L'identificazione dello sporco è uno strumento di organizzazione e ancora prima di indagine dell'ambiente circostante. Le categorie dell'ordine di una cultura assumono così la caratteristica di poter essere le chiavi interpretative attraverso cui comprendere la Weltanschauung di un dato sistema culturale. È interessante d'altronde notare che in tal modo la rimozione dello sporco e del disordine non si presenta come pratica negativa, quanto come costruzione di strutture categoriali, in primo luogo sociali. A tal proposito, e in accordo con l'intima progettualità di questo scritto, vorremmo concentrare la nostra attenzione proprio sugli aspetti sociali del problema del contagio.

Come accennato in precedenza, secondo Sloterdijk, il processo di modernizzazione prende piede con la prima ondata di ritorni dei cartografi dalle grandi avventure di esplorazione del globo del XV secolo. Il tratto simbolico del superamento di questa fase, con l'accesso agli albori del capitalismo, viene ravvisato nel ritorno dei capitali dalle grandi missioni di circumnavigazione del globo. Dobbiamo ora valutare la relazione tra il movimento dei capitali e la dimensione dell'estraneità sociale, in rapporto alla categoria di ordine e disordine.

La figura dello straniero è una determinazione moderna; nel passato, specialmente nel caso della Grecia antica, senz'altro il più noto, lo straniero non esisteva, non aveva l'occasione di presentarsi in quanto tale all'interno di una comunità; anzi, lo straniero è una di quelle categorie sociali in cui si fa più evidente il dispositivo della sacralizzazione immunizzante. Le pratiche religiose connesse alla figura dell'ospite avevano esattamente la funzione di fornirgli -- ed anzitutto istituire -- un posto adatto all'interno della comunità. Lo straniero in quanto tale non esiste perché è sempre comunque già inserito in un contesto definito, che se ne facesse un ospite sacro o una vittima espiatoria, che lo si rendesse schiavo o semplicemente lo si uccidesse. Nella cronistoria sferologica di Sloterdijk la comparsa e la diffusione -- l'urbanizzazione -- della figura dello straniero nelle comunità occidentali ha una stretta relazione genetica con la circolazione del capitale: l'epoca dello straniero è l'epoca del capitalismo. Ma come si costituisce lo straniero e quali sono le modalità di interazione che provoca?

A tal proposito tornano solidali le riflessioni di Alfred Schütz contenute ne La fenomenologia del mondo sociale. Secondo Schütz, il capitalismo come epoca dello straniero immette nelle comunità occidentali una condizione di fluidità foriera di ansia e insicurezza che induce i gruppi residenziali a compattarsi attraverso l'istituzione di livelli di immunità che forniscano una rassicurazione soddisfacente. Il dispositivo sotteso a questo compito è la reciprocità di prospettiva. 9 Per essere rassicurante il comportamento dell'altro deve avere un certo grado di prevedibilità, deve essere un comportamento che evochi e provochi una certa forma di immedesimazione. Lo straniero è colui con il quale non è praticabile il dispositivo dell'immedesimazione reciproca. Questo carattere di non rispondenza alla reciprocità di prospettiva è ciò che definisce lo sporco, l'impuro, il contaminante. Il vero problema di questo dispositivo è la sua intrinseca sommarietà, è un dispositivo vuoto e costantemente esposto alle contraddizioni: è un prefabbricato di comunità.

L'effetto di contaminazione prodotto dall'incontro con lo straniero è una forma di aggressione del vuoto sé del noi comunitario. Lo straniero è colui con il quale non ci si può immedesimare ma allo stesso tempo è colui il quale rende vistosa la gratuità, la fragilità, la debolezza del proprio argomento costituente. Lo straniero rende illegittima la propria opzione identitaria, andando a minarne le fondamenta irriflesse e aggredendone la sommaria coerenza. La re (l) azione sociale provocata dallo straniero è del tutto coerente e convergente con la dinamica del contagio; la metastabilità del sistema identitario di riferimento viene aggredita da un agente patogeno che ne mina la solidità apparente. La reazione di una comunità culturalmente debole è un riflusso nel feticcio identitario del noi, un fatto culturalmente vuoto, un dispositivo senza contenuti che vela la ricerca di un a priori infondato.

È bene notare che dalle operazioni di legittimazione della politica imperiale di Augusto sino ai kilt scozzesi, geniale -- a giudicare dal successo e dalla resistenza dimostrata -- operazione di marketing tardo ottocentesca, le tradizioni di riferimento sono sempre state inventate, acconciando un passato (ri) costruito ad uso del progetto di futuro in vendita, dell'identità preconfezionata esposta in vetrina.10 Secondo un autore come Bauman però, nella postmodernità dei molti e sempre nuovi inizi, la costruzione del passato su cui innestare l'identità del noi, diventa sempre più estemporanea, generando un pomerio sfrangiato, il cui fragile perimetro di purezza si oppone senza speranze alla contagiosa impurità dell'esterno.

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3. Identità mimetica

Le considerazioni appena esposte, sulla scia delle categorie di Alfred Schütz, ci permettono di chiamare in causa un autore strettamente coinvolto nelle riflessioni di matrice immunologica, vale a dire René Girard. Girard ha iniziato la sua brillante carriera accademica con un saggio di critica letteraria, dedicato ad alcuni grandi classici della tradizione occidentale, da Cervantes a Dostoevskij, da Stendhal a Proust, ravvisando come tratto comune e costitutivo una fenomenologia del desiderio mimetico.11 Ciascuno di questi autori a suo modo e con diversi livelli di autocoscienza, avrebbe descritto con una precisione ed una fedeltà sconosciute a qualsiasi ricerca sociologica o filosofica la più intima delle caratteristiche dell'essere umano, ovvero la natura mimetica dell'identità. La riflessione di Girard ha prodotto altri significativi risultati sul tema, andando a fare della teoria mimetica una vera e propria antropologia di base, con interessanti effetti nei campi dell'etnologia, della psicanalisi e della filosofia.

L'osservazione che ci preme considerare in questo contesto è quella costitutiva, il cuore della teoria mimetica: il desiderio umano non è un investimento pulsionale diretto sull'oggetto di interesse e soprattutto non è motivato, almeno non in prima istanza, dalle caratteristiche specifiche dell'oggetto. I desideri oggettuali sono invece sempre indirizzati da una mediazione imitativa pre-oggettiva e pre-soggettiva. La mimesi, in termini genetici, è una categoria ontologica che precede la determinazione dell'oggetto di interesse e dello stesso soggetto che dovrebbe nutrire questo interesse.

Ciò significa che, stando a questo paradigma teorico, la costituzione intersoggettiva dell'identità individuale va presa in modo radicale. I desideri, le preferenze, i criteri di selezione, l'assiologia fondamentale, in questa prospettiva, sono sempre frutto di un'assunzione mimetica irriflessa e di una sorta di sedimentazione genetica.

René Girard, nel corso degli anni '70 ha applicato la teoria mimetica a ricerche di stampo etno-antropologico, andando a ravvisare nella mimesi non solo un carattere fondamentale dell'antropologia di base ma anche una chiave di lettura e di decostruzione dei principali miti, riti e istituzioni culturali delle società arcaiche. In ponderosi volumi come La violenza e il sacro e Delle cose nascoste sin dall'origine del mondo, Girard ricostruisce la genealogia della cultura occidentale attraverso il meccanismo vittimario, risposta naturale ai pericoli creati dall'essenza mimetica dell'essere umano. Senza scendere in dettagli non strettamente inerenti, anche se utili alla comprensione di quanto si sta cercando di sostenere in queste pagine, vista la natura mimetica dei desideri umani, ad ogni livello di evoluzione o di sviluppo, è sempre molto facile che la mediazione interna12 scateni dei conflitti. I conflitti a loro volta possono facilmente degenerare in faide e diffondere la violenza, come una pandemia, all'interno della comunità. A questo punto i possibili scenari seguenti all'esplosione della faida e all'escalation della violenza non sono numerosi. Secondo Girard, uno di questi, originario e fondativo, è la risoluzione vittimaria. In piena crisi di indifferenziazione, quando tutti i sistemi differenziali elaborati in seno alla cultura di riferimento -- i primi dei quali sono quelli protetti dai tabù fondamentali dell'incesto e del parricidio -- vengono meno, la mimesi si sprigiona in tutta la sua pervasività; tutte le rivalità particolari, attraverso l'inesorabile progressione mimetica, confluiscono nell'unico conflitto del «tutti contro uno». L'indifferenziazione mimetica polarizza l'intera comunità contro una sola vittima, ritenuta l'unica responsabile della catastrofe che la violenza diffusa ha nel frattempo provocato.

Il meccanismo vittimario si mette in funzione non appena le rivalità mimetiche raggiungono il picco più alto di intensità; mentre il desiderio di uno stesso oggetto divide, l'odio per un nemico comune riconcilia gli individui appartenenti alla comunità.13 Nei saggi degli anni '70, Girard mette a punto lo strumento decostruttivo con cui riesce a fornire alcune brillanti interpretazioni di miti e riti, a partire dal più celebre caso di Edipo.

Ciò che qui ci interessa accennare, seppure brevemente, è quanto emerge in un saggio come L'origine della cultura e fine della storia,14 nel quale Girard propone alcune rilevanti considerazioni sulla relazione di derivazione dei sistemi culturali dai fenomeni vittimari. In questa prospettiva, i sistemi culturali vengono ridotti a estensioni progressive delle strutture differenziali elementari scaturite dalle risoluzioni vittimarie delle crisi di indifferenziazione.

A partire dal saggio del '78, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Girard ha iniziato a condurre una strenua battaglia per sostenere la propria ermeneutica biblica. L'innovativa, ancorché perfettamente coerente con la tradizione, lettura delle Sacre Scritture proposta da Girard poggia sull'intuizione strutturale dell'analogia tra i riti vittimari di un enorme numero di religioni arcaiche e la vicenda narrata nei Vangeli, mettendo però in mostra una significativa differenza. I Vangeli, come per altro l'Antico Testamento, raccontano, come i miti precedenti o extraperimetrali, una risoluzione vittimaria, ma assumendo la prospettiva della vittima e ripartendo in maniera perfettamente opposta le responsabilità

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degli avvenimenti narrati. Così, se il mito greco attribuisce ad Edipo la responsabilità della peste, riconoscendolo colpevole della violazione dei due più antichi tabù, il Vangelo riconosce l'innocenza di Giuseppe, e di Gesù Cristo.

Secondo Girard, l'evento e la diffusione della narrazione evangelica compiono lo svelamento del meccanismo vittimario, sotteso ad ogni altra religione umana e, soprattutto, ad ogni struttura sociale e culturale. Una volta svelato, il meccanismo mimetico-vittimario perde gran parte della sua efficienza, costitutivamente fondata sul misconoscimento,15 e smette di offrire un solido strumento risolutivo alle reiterate ed inevitabili crisi di indifferenziazione scatenate dai conflitti mimetici.

La conseguenza che ci interessa trarre da quanto sommariamente ricordato sin qui è che nel corso dell'evo cristiano la diffusione del messaggio disvelante e la conseguente rottura del meccanismo vittimario -- testimoniata brillantemente dalla diffusione del concetto di capro espiatorio, assolutamente autoevidente alla maggior parte degli occidentali ma del tutto assente in culture come quella giapponese, dove in assenza di un termine indigeno, il concetto è stato introdotto mediante un calco dall'inglese (Girard 1978: 131) -- si pone a giustificazione della retorica che descrive la modernità e, come abbiamo visto in Bauman la postmodernità in misura maggiore, come epoca di crisi reiterate e dei molti inizi.

Nel paradigma aperto da Girard, le crisi di indifferenziazione, conseguenza diretta della mimesi dell'antagonista, non hanno più mezzi irriflessi di risoluzione. I molti inizi e le crisi reiterate nella metastabilità occidentale hanno progressivamente dissolto le strutture consolidate dei sistemi differenziali di riferimento. Questi fenomeni si sono resi percepibili in maniera sempre più evidente nel corso del XX secolo dando luogo a descrizioni e spiegazioni variegate ma con forti tratti comuni, a partire dalle riflessioni sull'anomia, in Émile Durkheim sino alle considerazioni sul tema del nichilismo elaborate da Gianni Vattimo.

In questi termini gli effetti del contagio mimetico hanno progressivamente perso non solo il meccanismo vittimario, a cui si è per millenni demandata la risoluzione delle crisi di indifferenziazione,16 ma hanno soprattutto corroso le strutture sociali e categoriali che ne limitavano la possibile diffusione. Nella prospettiva girardiana i sistemi differenziali avevano il merito di ridurre i possibili focolai della mimesi dell'antagonista, andando a costituire le condizioni necessarie per favorire lo sviluppo di mediazioni mimetiche esterne. La mimesi si configura come contagio sia dal punto di vista individuale che sociale. È mimetica e contagiosa, la diffusione della violenza nelle crisi di indifferenziazione, così come è mimetica e contagiosa la modalità che pone capo alla risoluzione vittimaria. Come si accennava poco sopra è però, ed anzi soprattutto, mimetica anche la stessa identità, definita per via di sedimentazioni progressive di effetti di contagio. Ad ogni momento dato la soggettività è esposta e le sole modalità di profilassi sono i sistemi differenziali emersi dalle risoluzioni vittimarie di riferimento, strutture di ordine infondate ed illegittime, vuote anche se performative. Nel momento in cui ogni differenza sociale, gerarchica o generazionale viene erosa, i sistemi di gestione dell'ordine lasciano sempre più spazio e libertà al contagio mimetico.

4. Mimesis e immunità

A tal proposito vorremmo qui ricordare alcuni passi di un lettore italiano di Girard, Roberto Esposito che, in collaborazione con Jean-Luc Nancy, ci offre una sponda utile a consolidare, al di là dell'analisi antropologica, le riflessioni sul tema della mimesi in una fertile convergenza con il tema del contagio.

In primo luogo vorremmo prendere brevemente in esame il saggio Communitas, le cui tesi fondamentali ci paiono solidali e convergenti al programma analitico in via di definizione in questo articolo. Il saggio del 199817 si apre con un'introduzione programmatica nella quale Esposito fornisce una prospettiva analitica sul tema della comunità in patente ed esplicita rottura con la tradizione, andando a superare il dibattito tra comunitaristi e individualisti. L'intima natura della comunità non ha nulla da fare con la proprietà: non si tratta di «appropriar [si] del nostro comune (per comunismi e comunitarismi), o comunicare il nostro proprio (per le etiche comunicative) (Esposito 2006: IX)». Esposito elabora la sua tesi con una netta presa di distanza dalla dialettica del proprium, ravvisando gli estremi per capovolgere completamente le retoriche novecentesche sul tema.

La prima sponda da cui Esposito trae le proprie opzioni ermeneutiche è fornita da un'indagine sorprendentemente originale del lessico. 'Communitas'risulta a ben vedere una parola trasparente, la cui radice etimologica ha molto da dire: cum-munus. In nessun modo si può ritrovare nel significato originario del termine una qualsivoglia ragione per sostenere le retoriche della proprietà. Il munus è l'onere, l'ufficio, il dono da restituire a fronte di un donum ricevuto, in ogni caso, appartiene alla semantica del dovere e quindi è più vicino alla mancanza che alla proprietà; «il senso antico, e presumibilmente originario, di communis doveva essere «colui che condivide un carico (una carica, un incarico)». Ne risulta che communitas è l'insieme di persone unite non da una 'proprietà', ma, appunto, da un dovere o da un debito (Ivi: XIII)». È

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qui che il discorso di Esposito acquisisce sempre maggiore pregnanza per la nostra indagine. In questi termini emerge che i soggetti uniti dall'appartenenza alla comunità sono uniti da un dovere, da qualcosa che li «rende non interamente padroni di se stessi», che li «espropria [...] della loro stessa soggettività»; dall'ipotesi di Esposito emerge, inoltre, il fatto che l'esposizione del soggetto al dovere della retribuzione del donum ricevuto non è indolore per il soggetto che la sperimenta. «Ciò che ciascuno teme, nel munus [...] è la perdita violenta dei confini che, conferendogli identità, gli assicurano la sussistenza (Ivi: XV)».

Su che basi stabilire la convergenza tra quanto brevemente accennato delle tesi di Esposito e ciò che abbiamo sin qui detto in merito al tema del contagio? Come tradurre i concetti formulati dal filosofo napoletano nella costellazione semantica del nostro intervento?

Ci pare necessario distanziarci moderatamente da alcune considerazioni contenute nel saggio in questione, in merito ai racconti del delitto fondatore: Esposito ritiene di poter ricondurre questi contenuti narrativi ad una valenza simbolica a nostro avviso esasperata. Così nel testo: «tutti i racconti sul delitto fondatore -- crimine collettivo, assassinio rituale, sacrificio vittimario -- che accompagnano come un oscuro controcanto la storia della civilizzazione non fanno che richiamare in forma metaforica il delinquere -- nel senso tecnico di 'mancare', 'difettare' -- che ci tiene insieme. La falla, il trauma, la lacuna da cui proveniamo (Ivi: XVI)». Queste parole, il cui assunto implicito è decostruttivo, ci paiono imporre una sorta di ipertestualismo contraddetto in qualche misura poche pagine dopo, nel momento in cui lo stesso Esposito, venendo a patti con Hobbes, riconosce nell'«uccidibilità generalizzata» ciò che gli uomini hanno in comune, ciò che li assimila più di qualsiasi altra proprietà.

Cercando allora di far convergere le tesi di Esposito con la teoria mimetica-vittimaria di René Girard, già in parte ricordata, ci pare legittimo e in qualche modo corretto, ricondurre alla retorica vittimaria l'intima realtà della comunità. Il donum da cui ogni membro della comunità è in qualche modo tenuto in ostaggio, è esattamente il «trauma» da cui proveniamo; altrimenti detto, per usare la terminologia girardiana, ciò di cui ogni membro deve essere costantemente grato e verso cui ognuno è debitore è la risoluzione vittimaria di una crisi di indifferenziazione. Il munus che lega e accomuna i soggetti di una comunità è allora un debito potenziale, ovvero l'esposizione al rischio di essere vittimizzati a propria volta, l'esposizione all'incarico farmaceutico. 18

Secondo questa linea argomentativa ci pare ancora più evidente la relazione che Esposito instaura tra la communitas e l'immunitas. Ristabilendo la strutturale contraddizione tra questi due termini -- mediata con ogni evidenza dalla comune radice -- , Esposito ravvisa nel processo di immunizzazione la «chiave esplicativa dell'intero paradigma moderno: accanto e più di altri modelli ermeneutici, quali quelli espressi nei lemmi di 'secolarizzazione', 'legittimazione', 'razionalizzazione'che ne appannano, o attenuano, la pregnanza lessicale (Ivi: XX)». Le pratiche di immunizzazione corrispondono, secondo Esposito, a pratiche di costituzione dell'individuo moderno, il quale diviene davvero tale -- «cioè perfettamente individuo, individuo 'assoluto', circondato da un confine che a un tempo lo isola e lo protegge (Ivi: XXI)» -- nel momento in cui si libera dal debito che lo vincola ad ognuno degli altri membri della comunità. In qualche misura inoltre, ci pare più chiaro ravvisare nell'esposizione al rischio farmaceutico il munus da cui, in ottemperanza al processo di secolarizzazione -- in questi termini perfettamente parallelo al processo di immunizzazione -- , l'individuo moderno si difende.

La strada intrapresa da Esposito lo conduce per altre vie che, in qualche misura, si prestano a riscontrare un'ulteriore piano di convergenza con la teoria mimetica. Distaccandosi dall'analisi più specificamente politica, in cui, come detto, nel munus comunitario, ravvisa un dono di morte, Esposito si avvicina ad una sorta di analitica esistenziale, fortemente ispirata dall'opera di Jean Luc Nancy. La pratica politica approda alla distruzione della comunità: «se la comunità comporta delitto, l'unica possibilità di sopravvivenza individuale sta nel delitto della comunità (Ivi: XXIII)». La componente etimologica messa al centro di questa seconda fase analitica è il cum; il delitto della comunità è il sacrificio del cum, della relazione tra gli uomini. L'appendice aggiunta nell'edizione ampliata del 2006, testimonia questa svolta ontologica, nella quale della comunità non ne è più niente. Le analisi etimologiche e politiche vengono messe a frutto in un'ontologia politica che stabilisce lo statuto della comunità: essa non è un ente, «né un soggetto collettivo né un insieme di soggetti. Ma la relazione che non li fa essere più tali19 -- soggetti individuali -- perché interrompe la loro identità con una barra che li attraversa alterandoli: il 'con', il 'fra', la soglia su cui essi s'incrociano in un contatto che li rapporta agli altri nella misura in cui li separa da se stessi (Ivi: 149)». Seguendo questa linea Esposito matura una forma di ambiguità. Da un lato, nel momento in cui la relazione comunitaria viene presentata come spersonalizzante ed aggressiva, si ha l'impressione che la comunità sia ben lontana dal produrre effetti di comunione. Dall'altro, le conclusioni del saggio vertenti sulla convergenza tra immunizzazione e nichilismo vanno a innestarsi sull'ontologia singolare plurale di Nancy che fa del legame, dell'apertura alla relazione con l'altro, del Mitsein, del con-essere, il nucleo originario dell'esistenza umana. Sulla scia del riferimento a Nancy, Esposito può sostenere che nel delitto del cum gli uomini «sono paradossalmente sacrificati alla loro sopravvivenza (Ivi: XXIII)», ravvisando nell'immunizzazione, operata

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dal e nel processo di modernizzazione, una cauterizzazione dell'apertura esistenziale al con-essere: una vera e propria catastrofe autoimmunitaria.

Ci pare che proprio in un'adeguata considerazione della teoria mimetica si possa trovare una via di fuga a questa ambiguità oltre a segnare un punto fermo nella determinazione del problema del contagio. I due versanti dell'ambiguità che ci è parso di poter ravvisare nelle argomentazioni di Esposito possono essere ricondotti ad unità ridistribuendoli nei due cotés della teoria di Girard. Come già accennato, infatti, ci pare legittimo ravvisare proprio nell'esposizione al rischio di essere presi nel meccanismo vittimario una verosimile traduzione del debito comunitario. D'altro canto, un secondo livello di convergenza si può istituire associando il tratto mimetico -- strutturalmente bicipite -- dell'antropologia fondamentale girardiana alla descrizione degli effetti di appartenenza ma al tempo stesso di aggressione prodotti dalla relazione comunitaria sul soggetto membro. Come accennato, e senza scendere nel dettaglio, la mimesi, nella teoria girardiana, si configura come relazione ontologicamente prioritaria, in perfetta analogia a quanto detto a proposito del Mitsein nell'analitica esistenziale di Jean-Luc Nancy.20

In una prospettiva statica dunque, la mimesi non può che risultare come una forza spersonalizzante, un'aggressione alla struttura identitaria del soggetto che ne mina equilibrio e stabilità. La mimesi si presenta al soggetto che ne sperimenta gli effetti come una agente patogeno, come veicolo di un contagio attraverso cui si diffondono desideri, assiologie e violenza. D'altro canto, secondo una prospettiva diacronica e genetica, la mimesi si presenta come il tratto costitutivo dello stesso essere umano, della sua evoluzione e di ciascuna delle sue pratiche di apprendimento.

Secondo Girard la mimesi è da un punto di vista ontologico la principale caratteristica dell'essere umano. É una proprietà alla pari dei cinque sensi e non può né è mai stata eliminata; nel corso dei millenni di evoluzione culturale precedenti allo svelamento giudeo-cristiano, le comunità umane avrebbero solo imparato a controllarla o quanto meno a ridurne gli effetti più catastrofici. Come si accennava in precedenza, i sistemi culturali e sociali, in quanto sistemi differenziali, avrebbero avuto il merito di ridurre lo spazio di azione delle tensioni mimetiche, riducendo con ciò stesso le possibilità di conflitto e di contagio violento.

Facendo convergere le considerazioni di Esposito sul processo di immunizzazione operato dalla modernità con la filosofia della storia elaborata da Girard, si ha il legittimo sospetto che la progressiva cauterizzazione dell'apertura al con-essere, ovvero l'isolamento protettivo degli esseri umani, si configuri come una forma di protezione dalle tensioni mimetiche piuttosto che dal munus, inteso come dono di morte. Il soggetto moderno, assolutamente individuato, è costruito attraverso la negazione di una relazione che travalica ogni possibile decisione. Questa operazione di immunizzazione, ovvero di esasperazione dell'individualità, è correlata alla progressiva erosione dei sistemi differenziali descritta nelle molte e note diagnosi del nichilismo. In questo scenario, la relazione sociale si presta ad essere percepita come contagiosa perché, venuta meno la solidità delle strutture identitaria culturali e sociali -- la cui sostanziale illegittimità è stata progressivamente scoperta, in secoli di filosofia del sospetto -- la mimesi ha nuovamente lo spazio di azione che le culture arcaiche avevano cercato di sottrarle. Ciò che è fondamentale mettere in luce è il rischio autoimmunitario che si corre nel mettere in atto le pratiche immunitarie descritte da Esposito. Una cauterizzazione dell'apertura alla relazione, essendo la relazione il luogo di costituzione della struttura identitaria, non solo non riduce lo spazio di libertà delle tensioni mimetiche, ma anzi, impedendo ogni processo di definizione del sé per via differenziale, a ben vedere alimenta o quanto meno favorisce la progressiva diffusione di doppi indifferenziati.

In questo aspetto ci pare di poter cogliere innanzitutto un luogo di possibile confronto delle tesi sin qui elaborate con le sociologie del conformismo e in secondo luogo, di riconoscere un tratto caratteristico delle fasi concitate delle crisi vittimarie descritte da Girard.21

5. Luoghi antropologici e accelerazione

Marc Augé, in uno dei suoi saggi più celebri, pubblicato agli inizi degli anni '90, fornisce un'introduzione ad una antropologia della surmodernità, attraverso una categoria ispirata dalle riflessioni di Michel de Certeau: il nonluogo.

La categoria del nonluogo è elaborata in opposizione alla categoria del luogo antropologico, a cui l'autore dedica un capitolo ricco di descrizioni rilevanti per i nostri fini (Augé 1992: 43-69).

Il luogo comune dell'etnologo, e di tutti coloro di cui parla, è appunto un luogo: quello occupato dagli indigeni che vi vivono, vi lavorano, lo difendono, ne segnano i punti importanti, ne sorvegliano le frontiere, reperendovi allo stesso tempo la traccia delle potenze ctonie o celesti, degli antenati o degli spiriti che ne popolano e ne animano la geografia intima, come se il piccolo segmento di umanità che in questo luogo

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indirizza loro offerte e sacrifici ne fosse anche la quintessenza, come se non ci fosse umanità degna di questo nome se non nel luogo stesso del culto che viene loro consacrato. E L'etnologo, dal canto suo, si vanta di poter decrittare attraverso l'organizzazione del luogo [...] un ordine così vincolante, e comunque evidente, che la sua trascrizione nello spazio si presenta come una seconda natura. (Ivi: 43-44, corsivo nostro).

Il luogo, come nozione sociologica o antropologica, per definizione associato ad un cultura collocata nel tempo e nello spazio (Ivi: 36) è un dispositivo spaziale di garanzia identitaria del gruppo ed «è ciò che il gruppo deve difendere contro le minacce esterne ed interne perché il linguaggio dell'identità conservi un senso (Ivi: 45)». Secondo Augé un luogo antropologico, per essere tale, deve avere tre caratteristiche: deve essere identitario, relazionale e storico.

Un tratto rilevante di quanto emerge dalle analisi di Augé è che le spazializzazioni di una cultura, dai reami del Benin alla Francia, si fondano su un dispositivo di costituzione del centro, che sia il re immobilizzato, al centro del villaggio, o i simboli del potere temporale e spirituale nelle piazze delle città, o Parigi, vero e proprio centro dell'intera nazione (Ivi: 59-63) e di definizione oltre che difesa dei confini, delle frontiere, delle soglie tra interno ed esterno.22

Uno spazio che non possa definirsi né identitario, né relazionale, né storico definirà un nonluogo (Ivi: 73). La tesi nota di Augé è che la surmodernità, categoria elaborata in relazione alle retoriche del postmoderno e che rappresenta «il diritto di una medaglia di cui il postmoderno ci ha presentato solo il rovescio (Ivi: 32)», produca nonluoghi. I tratti caratteristici della surmodernità sono riassumibili nella categoria dell'eccesso: secondo l'autore si tratta di un'accelerazione temporale, di un mutamento di scala nel rapporto alle dimensioni spaziali e di un'esasperazione dell'individualità, a cui è in qualche modo consegnata la responsabilità della produzione di senso (Ivi: 32-38). I nonluoghi, idealtipica polarità opposta al luogo antropologico, sono lo spazio della surmodernità. Una figura molto suggestiva con cui Augé determina l'evoluzione verificatasi nel passaggio dalla modernità alla surmodernità, e che in qualche modo converge esplicitamente con quanto detto sin qui, è la descrizione dello sviluppo delle carte geografiche: «dalle carte medievali, costituite essenzialmente dal tracciato di percorsi e itinerari, fino alle mappe più recenti dalle quali è sparita «la descrizione disparata» (Ivi: 76).

Il luogo identitario, relazionale e storico offre, così come le mappe medievali, un «insieme di possibilità, di prescrizioni e di interdetti il cui contenuto è allo stesso tempo spaziale e sociale (Ivi: 52)», mentre il nonluogo, così come le «mappe più recenti» riduce al massimo ogni provocazione. Il luogo antropologico è «uno spazio simbolizzato», uno spazio che detta un uso, coerente con una cultura ed una struttura sociale, il nonluogo è uno spazio astratto, dequalificato e non simbolizzato. La nostra tesi, in questo contesto, è che quanto Augé riconduce alla surmodernità, sia in realtà altrettanto se non maggiormente riconducibile al processo di immunizzazione di cui stiamo cercando di definire i confini. A tal proposito è infatti perfetta la convergenza con quanto detto da Sloterdijk a proposito della trasformazione dei luoghi identitari in ubicazioni relative. I nonluoghi caratteristici evocati da Augé sono «le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti «mezzi di trasporto» (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre (Ivi: 74)». Augé non usa mai il lessico del contagio né quello dell'immunologia nell'affrontare il tema della proliferazione dei nonluoghi eppure ci pare che proprio il processo di immunizzazione dagli effetti di provocazione all'interazione sedimentati nei cosiddetti luoghi antropologici possa essere la chiave di lettura genetica di questo fenomeno. Aggiungerei inoltre una considerazione sull'ennesimo tratto di convergenza con il nostro progetto ravvisabile nelle tesi espresse nel saggio del 2008, Che fine ha fatto il futuro? , in merito, precisamente, alla scomparsa delle soglie, delle discontinuità all'interno del cosiddetto mondocittà (Augé 2008: 41-43).

I luoghi che Augé vede proliferare nelle modalità del nonluogo sono gli spazi della standardizzazione, sono gli spazi del minimo comune multiplo delle culture di provenienza dei potenziali clienti del servizio offerto. Sono spazi asettici le cui affordances sono strumentalmente ridotte ai minimi termini. Una stanza di albergo non deve riportare nessun tratto culturale specifico, per non risultare estranea a nessuno dei clienti, e i centri commerciali non devono distrarre dal fine per cui sono costruiti né richiedere alcuno sforzo ermeneutico supplementare. I nonluoghi sono prodotti di una progettualità ben definita volta a liberare gli individui dalla sensazione del contagio prodotta dall'interazione con i luoghi e con le cose. Ci pare che in qualche modo Augé, proprio nell'affrontare il problema della relazione di provocazione dei luoghi antropologici e della sua evoluzione negli asettici nonluoghi compia una rovesciamento. È lucido nell'intuire che le «interpellanze» provenienti dai nonluoghi «mirano simultaneamente, indifferentemente, a ciascuno di noi [...]; non importa chi di noi, esse fabbricano «l'uomo medio», definito come utente (Ivi: 92)» ma presenta l'effetto di alleggerimento dalle provocazioni di interazione come una fortuita conseguenza. Insomma, ci pare che non avendo assunto il paradigma della modernizzazione come immunizzazione e soprattutto, non avendo di conseguenza colto il rischio strutturale della catastrofe autoimmunitaria, Augé

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non raccolga quanto era possibile dalla sua intuizione antropologica schiacciando le une sulle altre le intenzioni procedurali di immunizzazione e le conseguenze perverse autoimmunitarie.

Le descrizioni dell'effetto conformistico e parcellizzante dei nonluoghi porta Augé a formulare il problema in termini che ci permettono di accostarlo ancora una volta al paradigma dell'immunizzazione storica fornito da Esposito. Secondo Augé «solo, ma simile agli altri, l'utente del nonluogo si trova con esso (o con le potenze che lo governano) in una relazione contrattuale. [...] Il passeggero conquista dunque il proprio anonimato solo dopo aver fornito la prova della sua identità, solo dopo aver, in qualche modo, controfirmato il contratto (Ivi: 93)».23 In qualche misura dunque, la relazione impostata ed imposta dal nonluogo è una relazione documentale e asettica, ma ciò che ci preme rilevare è proprio il parallelo tra questa dimensione relazionale su base contrattuale e le considerazioni elaborate da Esposito nel fare i conti con i grandi filosofi politici del contrattualismo. Come si diceva, l'interpretazione su base politica della comunità ne evidenzia il tratto mortifero:

la comunità porta dentro un dono di morte. [...] Dal momento che l'origine comune minaccia di risucchiare nel suo vortice tutti coloro che ne sono attratti, l'unica via certa si salvezza è quella di rompere seccamente con essa. [...] Ciò che va sciolto è il legame con la dimensione originaria -- Hobbes dice «naturale» -- del vivere comune attraverso l'istituzione di un'altra origine artificiale, coincidente con la figura, giuridicamente 'privatistica'e logicamente 'privativa', del contratto (Esposito 2006: XXII).

Il fatto che Augé possa descrivere i nonluoghi come spazi tipici della surmodernità appare ora non solo un'intuizione poetica o una descrizione antropologica ma la logica conseguenza di un processo, quello di immunizzazione definito da Esposito, che ha di fatto costruito la modernità e che, nei suoi eccessi, sta determinando la surmodernità. In questa prospettiva Esposito e Augé, raccolti nel medesimo paradigma, dimostrano una certa analogia nel descrivere i risultati autoimmunitari delle pratiche immunitarie politica e architettonica. In entrambi i casi, infatti, le conseguenze della corsa all'immunizzazione preventiva dalla relazione producono aberrazioni identitarie. Su questo punto si può richiamare un autore che ha dimostrato una straordinaria sensibilità nel valutare la natura di una specifica tipologia di luogo antropologico, assurto nella sua analisi, a luogo antropologico per antonomasia: il giardino. L'autore a cui ci riferiamo non è Foucault che pure nella conferenza Des espaces autres del marzo 1967 aveva trattato anche di giardini, ma Robert Pogue Harrison. In Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, Harrison assume il giardino a luogo esistenziale antonomasico, fornendoci così numerosi appigli nella nostra indagine. Innanzitutto, come è noto, non esiste giardino propriamente detto che non sia la messa in opera di una metafisica, che non sia la manifestazione di un'idea di ordine e di armonia.24

Il tratto specifico del testo a cui vogliamo fare riferimento è il tema della cura,25 preso in esame e assunto come linea guida del saggio. In effetti, il giardino, oltre ad avere le caratteristiche brevemente ricordate introduce il giardiniere, ovvero colui che se ne prende cura, in una relazione particolare. Il giardiniere coltiva il giardino e coltivando il giardino coltiva se stesso. La propria identità è costituita nella relazione di continuo differimento di sé, progettuale e mnestico, prodotto dall'imposizione della propria idea al giardino. La relazione di assoggettamento è biunivoca ed è, a ben vedere, il vero soggetto della questione. É la relazione di cura che lega il giardiniere e il giardino a costituire, nel progressivo andirivieni identitario, i due poli. Questo aspetto è fondamentale: non può esistere infatti un giardino in cui l'imposizione sia a senso unico. Non esiste giardino laddove l'azione dell'essere umano non tenga conto della vita. Harrison ci mostra così il ruolo di costituzione identitaria della relazione della cura nei confronti di un luogo antropologico, relazione che ovviamente viene a mancare nei nonluoghi. In qualche modo, ancora una volta, ci pare che il nonluogo, che certamente rappresenta la messa in opera di un sistema di ordine, nell'eccesso di difesa immunitaria si trasformi in una perversa catastrofe autoimmunitaria, la cui conseguenza è la distruzione -- o semplicemente l'impedimento alla costituzione26 -- di una struttura identitaria.

Vorrei ora tornare ancora un istante alle caratteristiche dei nonluoghi valutandone l'ergonomia asettica: per far emergere il contrasto tra luoghi antropologici e nonluoghi nel paradigma immunitario, ci pare che, in parallelo all'evocazione di Baudelaire, a cui Augé si richiama per valutare la differenza tra l'accumulazione storica della modernità e l'accelerazione esasperata della surmodernità, si potrebbe ricorrere all'evocazione di Balzac che nel Pére Goriot offre una prova esemplare del suo realismo, a cui ci sentiremmo di apporre l'etichetta del contagio.

Le pagine iniziali sono dedicate ad una minuziosa descrizione della maison Vauquer, la pensione dove alloggia, tra gli altri, Eugène de Rastignac; a partire dalla rue Neuve-Sainte-Geneviève, passando per la facciata dell'edificio, sino ai ninnoli che addobbano il caminetto, Balzac costruisce una rete di riferimenti identitari la cui aggressività sull'identità dei personaggi è manifestata in un gioco di corrispondenze. Mme Vauquer è lo specchio della pensione che dirige, in un tale numero di dettagli che Balzac ci induce a dubitare che si tratti di un particolare gusto per l'arredamento ad aver generato questa identità e che sia invece l'ambiente, con i suoi dettagli un po'miseri e un po'meschini, con la sua atmosfera stantia e chiusa, ad aver

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alla lunga determinato il carattere dei pensionanti tutti, da Mme Vauquer27 allo stesso Pére Goriot.

A sostenere ulteriormente queste impressioni che tendono a fare della relazione con l'alterità una minaccia di contagio, vorrei ancora proporre un riferimento alle ultime pagine dell'Essere e il nulla, nella quali Sartre affronta la categoria ontologica del vischioso, il cui interesse, oltre al valore intrinseco delle pagine, è connesso, mediante isteresi, alla categoria baumaniana della liquidità e al filosofema marxiano ad essa sotteso.

Pur come categoria ontologica specifica, il vischioso ci pare una magnifica simbologia per una fenomenologia del contagio: il vischioso dà, in prima istanza, «l'impressione di un essere che si può possedere (Sartre 1943: 689)», è un'impressione invitante, amichevole, di un essere che si presta al progetto; diversamente dall'acqua, «incomprimibile» e inesorabilmente distante, fredda, il vischioso pare disporsi all'uso, «il vischioso è docile», ma, dice Sartre:

solamente, nel momento stesso in cui credo di possederlo, ecco che per un curioso rovesciamento, è lui che mi possiede. Appunto qui appare il suo carattere essenziale: la sua mollezza fa da ventosa. L'oggetto che tengo in mano, se è solido, posso lasciarlo quando mi pare; la sua inerzia simbolizza per me la mia intera potenza: [...] è il per-sé che assorbe l'in-sé. In altre parole il possesso afferma la preminenza del per-sé nell'essere sintetico «in-sé-per-sé». Ma ecco che il vischioso rovescia i termini: il per-sé è improvvisamente compromesso; [...] la sua maniera di essere non è né l'inerzia rassicurante del solido né un dinamismo come quello dell'acqua, che consiste nel fuggirmi. [...] Il vischioso è la rivincita dell'in-sé (Ivi: 690).

Il vischioso in Sartre è la condizione fenomenologica in cui l'oggetto, l'in-sé, sopraffà la coscienza, il per-sé, e la ingloba. In questo senso descrive perfettamente la sensazione del contagio, una condizione in cui la distanza tra oggetto e coscienza viene meno, in cui l'oggetto aggredisce i confini della coscienza, confondendosi con le sue frontiere e annullando la differenza tra interno ed esterno. «Il simbolo si scopre bruscamente: ci sono dei possessi velenosi; c'è la possibilità che l'in-sé assorba il per-sé: cioè che un essere si costituisca alla rovescia di «in-sé-per-sé», in cui l'in-sé attirerebbe il per-sé nella sua contingenza, nella sua esteriorità di indifferenza, nella sua esistenza senza fondamento (Ibidem)». In questo passo Sartre attribuisce all'esperienza del vischioso tutti i tratti che abbiamo cercato di ricondurre all'esposizione al contagio.

Tornando al testo di Augé vorremmo proporre ora una considerazione su di un'ulteriore convergenza ravvisabile tra quanto l'autore dice a proposito della surmodernità e quanto viene detto da un sagace commentatore e allievo di Rene Girard. Secondo Augé il tratto caratteristico della surmodernità, attraverso il quale vuole in qualche modo mettere in dubbio, o quanto meno ridurre la legittimità delle retoriche del postmoderno, è la tesi dell'accelerazione, tesi a cui ha recentemente dedicato un secondo volume in cui, riprendendo i temi trattati nei Nonluoghi, affronta la questione del nontempo (Augé: 2008).

L'accelerazione del tempo, come detto, viene indicata come tratto caratteristico della surmodernità, ma la nostra tesi, prendendo a sostegno un articolo di Mark Anspach, attraverso il quale tirare le fila dei questo intervento, è che l'accelerazione non sia tanto un tratto caratteristico della surmodernità quanto una sorta di ricaduta ad una temporalizzazione arcaica. Anspach ha scritto un breve articolo frutto di ricerche portate avanti presso l'Association Recherches Mimétiques28 nel quale discute, attraverso l'applicazione della teoria mimetica, la piéce teatrale di Jean Giraudoux, La guerre de Troie n'aura pas lieu,29 ispirata all'Iliade. Anspach cita un verso di quest'opera, pronunciato da Cassandra, che ci offre una solidale convergenza. Prima di arrivare al verso specifico, è necessario introdurre brevemente lo scambio di battute precedente. La scena si apre con un dialogo tra Andromaca a Cassandra. La prima è convinta, riponendo la propria fiducia nel buon senso dei propri compagni troiani e nella presenza di spirito del marito Ettore, che la guerra di Troia non avrà luogo mentre Cassandra è pronta a scommettere il contrario.30 Nella piéce di Giraudoux, Ettore e Ulisse mostrano una certa sensibilità mimetica nei confronti dei temibili effetti della simmetria indifferenziata e cercano in qualche modo di intervenire affinché la guerra possa essere scongiurata: per evitare lo scoppio di una guerra suicida, Ettore cerca di persuadere Ulisse a riprendere con sé Elena, lasciando correre l'offesa subita da Menelao. Lo scambio di battute tra i due eroi è illuminante in merito al tema del destino, richiamato in causa come forza superiore e inappellabile. Questo è il momento in cui Giraudoux offre un esempio di rara poesia: cosa significa la parola destino? «Je ne sais pas ce qu'est le destin», protesta Andromaca. «Je vais te le dire», risponde Cassandra. Il destino, «c'est simplement la forme accélérée du temps (Giraudoux 1935: 56; Anspach 2006: 3, corsivo nostro)». Naturalmente, come tutti sanno, alla fine Cassandra avrà ragione, a causa di un turbinio di eventi in rapida successione che faranno cadere lo stesso Ettore nella spirale della violenza destinata ad espandersi -- per contagio -- sino a esplodere nella grande guerra di Troia.

Ciò che emerge da questo passo è che l'accelerazione è una sorta di ritorno alle origine della temporalizzazione, e quindi non andrebbe forse descritto nei termini positivi dell'accelerazione quanto nei termini di una negazione o corruzione del differimento. Nella prospettiva girardiana infatti, la socialità

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umana si rende possibile solo a seguito dell'attivazione di processi di differimento della reciprocità.31 In qualche modo ci pare dunque che la sensibilità disciplinare di Augé ci fornisca un ulteriore indizio della bontà della nostra ipotesi. L'accelerazione del tempo, come caratteristica del processo produttivo dei nonluoghi, una volta stabilita la mediazione del paradigma teorico inaugurato da Girard, converge perfettamente con un fenomenologia del contagio, o dell'esposizione; un'accelerazione del tempo è semplicemente una resa alla reciprocità mimetica, così come il differimento ne è un vincolo.

6. Conclusione

Per avviarci alla conclusione vorremmo ancora chiamare in causa un testo di Richard Sennett, il quale ci offre una prospettiva ancora diversa e ancora convergente con la nostra tesi in merito alle conseguenze autoimmunitarie seguite all'esasperazione delle pratiche immunitarie dovuta alla progressiva estensione della modernizzazione. Il testo in questione è L'uomo flessibile,32 saggio nel quale Sennett affronta gli effetti delle capitalismo sulla vita personale. L'intuizione fondamentale è quella di mettere a confronto desideri e aspettative delle generazioni nate dopo la II Guerra Mondiale con quelle dei loro padri. Lo spunto consiste nel descrivere le conseguenze inattese della soddisfazione delle pretese di questa generazione, il cui desiderio di potersi muovere con meno vincoli (Sennett 1999: 15), una volta realizzatosi, ha prodotto delle catastrofi identitarie. Ancora una volta torna fondamentale la temporalizzazione delle esperienze e delle relazioni sociali. La frenesia degli spostamenti imposti da professioni sempre più dinamiche distrugge i tessuti connettivi dei quartieri residenziali; le relazioni di vicinato si frantumano, i luoghi perdono la loro determinazione identitaria, il «lungo termine» scompare (Ivi: 20). Naturalmente il dinamismo delle professioni legate ai cicli innovativi del capitalismo ha delle evidenti ragioni immunitarie che vanno però a difendere esclusivamente il sé lavorativo, disgregando le relazioni sociali e riducendo ogni processo di determinazione dell'identità a lungo termine: «è la dimensione temporale del nuovo capitalismo [...] a influenzare in modo più diretto le vite emotive delle persone anche fuori dal luogo di lavoro. Trasposto nell'ambito familiare, il «basta col lungo termine» significa continuare a muoversi, non dedicarsi in profondità a qualcosa e non fare sacrifici (Ivi: 23)». La catastrofe autoimmunitaria prodotta dalla temporalizzazione frammentata e iperdinamica imposta dai ritmi del nuovo capitalismo è chiaramente descritta in questo domanda: «come può un essere umano sviluppare un'autonarrazione di identità e una storia della propria vita in una società composta di episodi e frammenti? (Ivi: 24)».

La riflessione di Sennett cerca di evidenziare le conseguenze inaspettate prodotte dall'erosione di ogni forma di ostacolo alla libertà dell'individuo per mettere in luce il ruolo determinante dei vincoli nella creazione di narrazioni identitarie. L'immunizzazione moderna ha cercato di emancipare gli individui da ogni forma di contatto coatto, simbolico, fisico, sociale per garantire loro la massima libertà ma ha confuso un piano di descrizione statico, in cui le progressive erosioni potevano senz'altro produrre effetti benefici, con il piano genetico, non rendendosi conto che i vincoli di cui ci si è frettolosamente liberati sono necessari per la costituzione di un'identità solida e coerente. In questi termini, la difesa immunitaria -- aggressiva33 -- da ogni invasione del sé, da ogni forma di vischiosità sociale e simbolica, ha prodotto una catastrofe autoimmunitaria. «Immaginare una vita di impulsi momentanei, di azioni a breve termine, priva di routine sostenibili, una vita senza abitudine, è più o meno come immaginare un'esistenza priva di senso (Ivi: 43-44)».

La conclusione che vorremmo trarre da quanto detto sin qui è che la condizione postmoderna descritta dagli autori chiamati a convegno in questo intervento, si può a ragione definire come contagiosa. Il tratto innovativo che ci pare di poter dare a questo paradigma sta nel ravvisare in questa condizione non tanto una novità specificamente post o surmoderna quanto invece la condizione originaria della relazione sociale.

Note

1. P. Sloterdijk, Il mondo dentro al capitale, Roma 2006, pp. 36.

2. L'autore della trilogia in questione ritenne sin dalle prime fasi della stesura dell'opera di aver concepito il libro che Heidegger avrebbe dovuto scrivere, una sorta di compagno di Essere e tempo, il cui sottotitolo intenzionale avrebbe potuto suonare Essere e spazio.

3. Sotto questo profilo le riflessioni di Augé suonano solidali e ci tornerà utile in seguito tenere in considerazione quella sorta di coppia formale costituita dai saggi Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano 1993 e Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Milano 2009.

4. A tal proposito è sempre di grande suggestione rilevare il fatto che in una lingua come il russo, la parola kocmoc significa semplicemente spazio.

5. Cfr. Aristotele, Fisica, 212b.

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6. P. Sloterdijk, L'ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Roma 2002, pp. 169-175.

7. A questo proposito sono molto interessanti le considerazioni storico-antropologiche-filosofiche di Alfred Schütz sullo straniero e quelle di Bernard Waldenfels sull'estraneità.

8. In questa prospettiva, il mondo smette le vesti di ordine e pulizie che gli aveva garantito la denominazione e si presta alla definizione heideggeriana di «astro errante», che compare in M. Heidegger, «L'epoca delle immagini del mondo», in Sentieri interrotti, Firenze 1985, p. 64.

9. A. Schutz, Collected Papers. I. The Problem of Social Reality, The Hague, Martinus Nijhoff, 1962, pp. 207-259.

10. Cfr. Z. Bauman, L'arte della vita, Roma-Bari 2009 e Id., Intervista sull'identità, Roma-Bari 2003.

11. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano 1965.

12. Girard opera una distinzione tra mediazione interna e mediazione esterna per chiarire il ruolo della figura del mediatore. Il modello da cui presoggettivamente si prende ispirazioni nella determinazione dei propri desideri può dunque essere esterno al nostro mondo, vuoi perché troppo lontano, nel tempo e nello spazio, vuoi perché inesistente o interno, e quindi raggiungibile. Per rimanere agli esempi di matrice letteraria, nel primo caso si può citare Amaldigi di Gaula, modello ispiratore del Don Quijote, per quanto riguarda il secondo, si potrebbe fare riferimento alla vicende che legano Monsieur de Rênal, sindaco di Verrières e Valenod nelle prime pagine de Le rouge et le noir di Stendhal.

13. Questa distinzione analitica viene elaborata nel torno di anni che va dalla pubblicazione del '72, in cui la mimesi di appropriazione è già chiaramente esposta, all'opera del '78, in cui viene definita la mimesi dell'antagonista.

14. R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e João Cezar de Castro, Milano 2003.

15. J.-P. Dupuy, Ordini e disordini, Firenze 1986, p. 128.

16. Secondo Girard il meccanismo vittimario si colloca alle origine dell'umano da numerosi punti di vista e per numerose ragioni, una delle quali è che rappresenta una risoluzione dei fenomeni di faida che altrimenti, in assenza di tale meccanismo, potrebbero facilmente condurre all'autodistruzione delle comunità in cui prendevano piede.

17. Riedito in versione ampliata nel 2006.

18. Il riferimento è non solo e non tanto a La farmacia di Platone di Derrida, quanto alla figura del pharmakos ateniese, vero e proprio capro espiatorio usa-e-getta.

19. Il corsivo, nostro, è volto a sottolineare una sottile incoerenza. Nelle prime pagine del testo Esposito si sofferma con molta decisione sull'errore commesso da tutta la tradizione filosofica e politica che prima di lui ha affrontato il tema: la comunità non va intesa «come un legame collettivo venuto ad un certo punto a connettere individui prima separati (Esposito 1998: XV)» eppure in questo passo sembra confondersi su quale sia il soggetto a cui attribuire priorità logica e ontologica.

20. Cfr. Nancy J.-L., Essere singolare plurale, Torino 2001, pp. 37-41.

21. A tal proposito mi permetto di ricordare l'ermeneutica mitica applicata ne La violenza e il sacro a certi elementi simbolici strutturali, a certi mitologemi diffusi come la catastrofe pandemica. La peste tebana, la cui responsabilità sarà fatta cadere sulle spalle di Edipo, è un caso simbolico in cui indifferenziazione e contagio sono perfettamente saldati.

22. A tal proposito, per esempio, si pensi al pomerio di Roma ed al fatto che il gesto fondativo compiuto da Romolo non sia tanto l'istituzione di un centro quanto di una soglia.

23. A tal proposito cfr. anche Augé 2008, p. 49.

24. Un aspetto interessante della questione, per altro già evidente nella sua convergenza con le tesi di Mary Douglas è il riferimento spontaneo ai tappeti, e nella fattispecie all'uso rituale che ne viene fatto nell'Islam. Il tappeto-giardino ammette, o meglio accoglie, il fedele in preghiera in uno spazio puro, perché ordinato e separato.

25. Ovviamente le risonanze heideggeriane del tema sono presenti all'autore ma non è qui il caso di addentrarci nella questione se non per valutare il carattere intrinsecamente relazionale degli esistenziali heideggariani, in questo come in altro, profondamente debitore delle indagini sull'intenzionalità e sulla categoria della relazione nella fenomenologia husserliana.

26. Le analogie con il lessico immunologico svelano ancora più di quanto non sia stato sin qui accennato. Un tema di fondamentale interesse in questa analogia è quello che emerge da un confronto con le teorie del sé immunologico e con i dibattiti a cui si assistette all'inizio del XIX. L'aspetto specifico di questi dibattiti, che non possiamo qui considerare, è lo scontro che oppose Metchnikoff e Ehrlich, rappresentanti di due scuole di pensiero opposte (rispettivamente cellularisti e umoralisti): nella continua interazione con l'esterno -- e con l'interno -- il sistema immunitario, una vera e propria soglia, si limita a proteggere l'integrità del sé o partecipa

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attivamente alla continua e progressiva determinazione dell'identità? Cfr. A.I. Tauber, The Immune Self: Theory Or Metaphor? Cambridge University Press, 1994, pp. 6, 26 e 38.

27. Cfr. H.de Balzac, Papà Goriot, Milano 1992, p. 10: «tutta la sua persona infine spiega [explique] la pensione, come la pensione implica [implique] la persona». Si considerino le influenze che Balzac subì da parte delle teorie proto-evoluzioniste di Geoffroy Saint-Hilaire a proposito dell'effetto di determinazione che l'ambiente di sviluppo di un animale, compreso l'uomo -- visto il principio di unità di composizione postulato -- aveva sull'individuo. A ben vedere lo stesso si potrebbe dire del realismo di Zola in cui il ruolo del milieu è determinante nella definizione dell'identità dell'individuo; in questo caso Zola, come altri suoi contemporanei naturalisti, per esempio Bourget e Maupassant, fu grandemente influenzato dall'astro del determinismo naturalistico dell'epoca, vale a dire Hippolyte Taine.

28. M. R. Anspach, Pourquoi la guerre de Troie aura-t-elle lieu? Du mythe grec à Giraudoux, enquête sur un conflit mimétique, <http://www.arm.asso.fr/offres/file_inline_src/57/57_P_3235_1.pdf>, 2006.

29. Jean Giraudoux, La guerre de Troie n'aura pas lieu [1935], Paris, 1991.

30. Andromaque: La guerre de Troie n'aura pas lieu, Cassandre! / Cassandre : Je te tiens un pari, Andromaque. / Andromaque : Cet envoyé des Grecs a raison. On va bien le recevoir. On va bien lui envelopper sa petite Hélène, et on la lui rendra. / Cassandre : On va le recevoir grossièrement. On ne lui rendra pas Hélène. Et la guerre de Troie aura lieu. / Andromaque : Oui, si Hector n'était pas là !... Mais il arrive, Cassandre, il arrive ! [...] Quand il est parti, voilà trois mois, il m'a juré que cette guerre était la dernière. Cfr. J. Giraudoux, op. cit. p. 55 (Acte I, scène 1), citato in M.R. Anspach., op. cit. p. 2.

31. Cfr. anche M. R. Anspach, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato, Torino 2007.

32. R. Sennett, L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano 1999.

33. Cfr. A. I. Tauber, op. cit., p. 38, in cui si rende conto del primato di Metchnikoff nel determinare l'azione del sistema immunitario come una «active response to a pathogen», allontanandosi dalla considerazione del «host's immune status as due to passive factors».

Sivio Spiri

Le domande della bioetica

1. Introduzione

Le scoperte neuroscientifiche degli ultimi decenni, le loro molteplici applicazioni e le conoscenze acquisite sul DNA presuppongono l'introduzione dell'alta tecnologia nella vita umana e nella medicina. Basti pensare alle tecnologie biomediche (fMRI o risonanza magnetica funzionale, la PET o tomografia ad emissione di positroni, ecc.) e alle biotecnologie. La ricerca genetica, la farmacogenetica e la farmacogenomica, la ricerca con esseri umani, gli sviluppi della biochimica e della biologia molecolare sono espressione del progresso medico e scientifico, ma destano anche numerosi interrogativi bioetici sulla vita umana. Chi è persona? Come «definire» la persona? Quali sono i suoi caratteri distintivi e originari? Che cosa significa rispettare la dignità dell'uomo? Qual è l'ordine dell'essere e degli enti? Le domande etiche, amplificate dai mezzi di comunicazione, esigono altrettante risposte, soprattutto sul piano clinico. La bioetica è certamente il luogo in cui si condensano conflitti radicali che rispecchiano diverse concezioni sul senso profondo da attribuire all'esistenza, alla libertà umana, ai limiti e alle finalità della scienza medica.

Da ciò deriva la consapevolezza dell'importanza del confronto interdisciplinare, finalizzato alla comprensione critica della realtà ed orientato al rispetto della dignità e della verità integrale dell'uomo. La fragilità e la vulnerabilità della condizione umana è il segno dell'esposizione originaria del nostro essere relazionale e della sua apertura al mondo della vita, ma può anche tradursi in varie forme di strumentalizzazione e prevaricazione che il più forte esercita sempre a danno del più debole. Ciò vale anche,

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e non solo, nella scienza medica.

Di bioetica si occupano, a vario titolo, giuristi, politici, medici, filosofi morali e biologi. Nella prospettiva della «bioetica personalista», occorre riflettere innanzitutto sullo statuto ontologico della persona e sull'ordine intrinseco dell'essere e degli enti tutti, sempre da amare e rispettare in base al principio ontologico della giustizia.

Il carattere fondamentale della medicina nel terzo millennio è, senza dubbio, la tecnologia. Già per Heidegger la tecnica era il carattere principale dell'Occidente ed in essa la verità dell'essere obliata si rivelava come nascosto fondamento. La tecnica ha reso possibile il progresso della medicina, la quale non è una scienza monolitica, e non è neppure una scienza esatta, ma abbraccia molteplici e sempre nuove specializzazioni. La medicina si articola in un insieme complesso di scienze sperimentali, ma è anche l'arte del prendersi cura, che si pone al servizio della fragilità dell'homo patiens. La cura delle malattie, l'alleviamento delle sofferenze e l'estensione delle cure di base, in base al principio di equità e giustizia, a tutta l'umanità, sono i caratteri fondamentali della scienza e dell'arte medica. Da tale prospettiva deriva l'esigenza, da più parti invocata, di un'umanizzazione della medicina che anima e sostiene l'idea stessa del progresso scientifico e lo statuto della medicina, il cui fine è la persona. Molte divergenze nascono già nell'indicazione del momento iniziale della sua esistenza o anche nella definizione della morte di una persona o del momento in cui non ci sarebbe più persona, a causa del venir meno di alcune capacità. Ma è possibile ridurre la persona al possesso di alcune capacità, in base ad un presupposto di tipo razionalistico e funzionalistico?

La questione dell'identità personale si riflette nella relazione medico-paziente-famiglia, quale espressione emblematica della condizione umana segnata dalla vulnerabilità. Prima di indicare le domande fondamentali della bioetica, occorre definire la bioetica, delineando il suo statuto epistemologico, molto controverso e dai confini ancora labili, il suo metodo e il suo oggetto formale.

Il rapporto tra tecnica e medicina suppone la domanda sul bene integrale della persona, concepita nell'unitotalità della concreta «esistenza relazionale». Nel contesto personalistico, definito da un'ontologia relazionale, si comprende la ragione per cui tutto ciò che è tecnicamente possibile non è sempre eticamente lecito. Infatti, la tecnica è per l'uomo e non l'uomo per la tecnica. Il mezzo deve essere perciò specificato dal fine ulteriore verso il quale si indirizzano gli sforzi e le intenzionalità pratico-operative.

Una questione essenziale risiede nella capacità di cogliere l'unità antecedente la riflessione, vale a dire l'esperienza vissuta e vivente della persona, la cui integralità spirituale e psico-fisica, richiede sempre protezione, cure proporzionate, scelte politiche e sociali ispirate al principio di giustizia.

Se si riconosce l'istanza metafisica nel filosofare, si comprende che ogni essere umano è persona e che la convivenza ordinata al bene implica il rispetto dei diritti umani che sono fondati nella natura umana. Dalla concretezza fenomenologica dell'esistenza, è possibile riconoscere la dignità di ogni singola persona, in modo universale, cioè ad ogni latitudine e in qualsiasi condizione materiale o fisica si trovi. Da ciò deriva l'assunzione di responsabilità verso il proprio essere, ma anche nei confronti delle scelte e delle conseguenze che le decisioni e le azioni mediche sono in grado di provocare. In riferimento alle nuove e inedite emergenze bioetiche, unitamente alle sfide delle neuroscienze, non è sufficiente un'etica comunitaria a regime ristretto o localistico.

L'allargamento dello sguardo sul mondo può favorire, attraverso la coscienza critica dell'età tecnologica, una progressiva globalizzazione dei diritti, come quello alla vita, alla sussistenza, alla cura e alla tutela delle persone, la cui preziosità e bellezza trascende lo spazio angusto e austero del profitto individuale o degli individui.

2. La bioetica ed il suo statuto epistemologico

Che cos'è la bioetica e qual è il suo stato epistemologico? Innanzitutto, «Bioetica» è un termine composto da due parole greche: bios (vita) ed ethica (etica), etica della vita. La semantica della vita è una questione molto complessa che non si può certo esaurire per mezzo di una definizione chiara e distinta, nel senso che la stessa vita umana trascende ed eccede ogni definizione del vivente. Possiamo però tentare di dire qualcosa senza sprofondare nello scetticismo relativistico o nella presunzione del razionalismo. La vita e la vita biologico-organica non sono nozioni equivalenti e, pertanto, il concetto di vita è di per sé analogo: esistono differenti livelli della vita. Il lessico della lingua italiana non aiuta a identificare la ricchezza della vita. Il termine italiano «vita» indica la vita animale, quella umana, quella oltreumana; applicato all'uomo, indica sia la vita organica, sia la vita spirituale che quella psichica. In greco ci sono tre termini per indicare lati diversi del fenomeno della vita: zoé, bios, psyché.1 Zoé indica la vita come fenomeno fisico, la vita mediante la quale viviamo (vita qua vivimus) , la vitalità, il principio della vita che si manifesta in tutti gli esseri organici. Il bios è la vita che viviamo (vita quam vivimus) e allude alle modalità, alle forme e alle condizioni

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della vita; è la vita, di qualsiasi genere, che ha un inizio e una fine. Bios è il vivente nella sua individualità e Bíoi sono perciò i singoli enti organici viventi che nascono e muoiono. Per descrivere le diverse modalità della vita, ad esempio la vita politica, la vita contemplativa, in greco si usa bios accompagnato da un aggettivo. Infine, Psyché indica il soffio vitale, l'anima e quindi la vita.

Nella seconda metà del Novecento, il pericolo rappresentato dalla proliferazione degli armamenti atomici nel periodo della «guerra fredda» -- ma che si può constatare ancor più nel terzo millennio -- , lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta, le sperimentazioni selvagge in USA, indussero l'oncologo Van Rensselaer Potter (1911-2001) ad affermare la necessità di una nuova disciplina capace di garantire la «sopravvivenza» della vita umana, dell'intero pianeta e di tutti i viventi. Per raggiungere questo scopo, secondo Potter era necessario «combinare la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani».2 Solo così sarebbe stato possibile costruire un ponte verso il futuro Egli coniò così il termine «bioetica» che, fin dagli esordi, assunse una prospettiva globale.

Nella prima edizione del 1978 dell'Encyclopedia of Bioethics, pubblicata negli Stati Uniti, la bioetica è definita da Warren Thomas Reich come «studio sistematico della condotta umana nell'ambito delle scienze della vita e della salute, (condotta) esaminata alla luce di valori e di principi morali».3 Il principialismo è lo sfondo teorico in cui fu concepito il Rapporto Belmont da parte della Commissione USA costituita con il fine di presentare indicazioni valide ad evitare sperimentazioni su esseri umani inconsapevoli. Venne così affermato il principio del rispetto per le persone, il principio di beneficialità e non-maleficenza e, infine, il principio di giustizia. Tali assunzioni caratterizzarono la prima definizione A seguito della denuncia di crimini compiuti contro da alcuni medici, non solo durante il nazismo, ma anche negli anni '60 e '70 in USA, la bioetica sorse con l'intento di impedire nuove forme di sperimentazione selvaggia sugli esseri umani e con il fine di denunciare i rischi della manipolazione genetica.

Nell'edizione dell'Encyclopedia of Bioethics del 1995 compare la seguente definizione, ripresa anche nel 2004: «La bioetica può essere definita come lo studio sistematico delle dimensioni morali -- incluse la visione morale, le decisioni, la condotta, la politiche -- delle scienze della vita e della salute, con l'impiego di una varietà di metodologie etiche con un'impostazione interdisciplinare».4 In questa definizione è evidente il passaggio dal principialismo al nuovo paradigma dell'esperienza, basato sull'etica delle virtù. In questo contesto, le domande della bioetica vengono riformulate; non è più sufficiente chiedersi «che cosa dovremmo fare (etica del dovere), ma che tipo di persone dovremmo essere (etica delle virtù e del carattere)».5 La prospettiva teorica assunta tende a superare la teoria filosofica del principialismo, che caratterizzò la bioetica americana per almeno trent'anni.

Tenendo conto dell'imprescindibilità della questione antropologica e della necessità della riflessione etica a cui rinviano le questioni cliniche, in quanto la scienza e la ricerca sono azioni specifiche dell'uomo in cui è in gioco la felicità e il bene da farsi e il male da evitarsi, possiamo affermare che la bioetica è «la coscienza critica della civiltà tecnologica [...] Il termine «coscienza critica» indica il livello di chiarificazione e di valutazione morale dello specifico contenuto pratico e teorico introdotto dalle tecno scienze: non tutti pertanto i problemi dell'etica medica rientrano nella bioetica, poiché non tutta le medicina è ad alto contenuto tecnologico. Da questo punto di vista la bioetica si configura come un'attività filosofica [...] poiché le domande (l'oggetto formale) che investono le tecnoscienze (l'oggetto materiale) sono di natura filosofica e riguardano il significato della costruzione dell'identità umana all'interno della azione tecnologica»6.

Inoltre, la bioetica esige e presuppone un approccio interdisciplinare: 1) lo studio e l'analisi del fatto biomedico (momento epistemologico) è il compito delle scienza medica; 2) l'individuazione dell'antropologica e delle implicazioni sociali è il momento antropologico/sociale; 3) le risposte etiche, giuridiche costituiscono il momento applicativo.

La bioetica è nata con lo scopo di fornire risposte o almeno indicazioni concrete, valide per la prassi clinica e per la ricerca biomedica. Del resto, l'innovazione tecnica in campo medico, la sperimentazione e la ricerca con esseri umani non cessa di destare inquietanti e laceranti domande su ciò che è giusto e su ciò che è bene. Nel contesto culturale in cui viviamo convivono diverse prospettive e concezioni della vita; perciò, le domande della bioetica non possono non essere pubbliche nel senso che ogni posizione deve possedere un'adeguata argomentazione per sostenere una discussione pubblica. Ciò non implica la ricerca di un consenso a tutti i costi, ma almeno la ricerca paziente di mediazioni ragionevoli che non sacrifichino mai la vita umana. La spettacolarizzazione della sofferenza altrui, su cui si erigono bandiere ideologiche, le generalizzazioni astratte dai contesti esistenziali concreti, sembrano contravvenire al rispetto dovuto ad ogni persona che soffre.

Le domande della bioetica ruotano attorno a tre questioni fondamentali: il rapporto fra la medicina, la tecnica e la dignità dell'uomo ed il problema ecologico, e la bioetica animale, che affronta i problemi legati alla sperimentazione, alla vivisezione, agli xenotrapianti. In questo contributo, è cercherò di individuare le

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domande bioetiche che concernono la prima questione.

L'etica della vita umana concerne le questioni di inizio e fine vita, le quali si situano nel contesto antropologico della famiglia. La domanda fondamentale in bioetica è una domanda antropologica che sorge in relazione alla situazioni concrete di malattia o di sofferenza: qual è il significato della vita umana e della morte? Chi sono i pazienti in stato vegetativo, in coma o locked-in e in minima coscienza? Qual è il limite tra le cure necessarie per la vita e l'accanimento terapeutico? Qual è la dignità dell'embrione? Inoltre, la sperimentazione con esseri umani solleva numerose questioni etiche che riguardano il rispetto che si deve alle persone e la possibilità di esprimere un consenso libero e informato. L'Etica della vita abbraccia anche le questioni di giustizia sociale, il problema dell'allocazione delle risorse sanitarie. La questione della giustizia sociale e della responsabilità si declina non solo nelle dichiarazioni di principi, pure importanti e imprescindibili, come l'importante affermazione dei diritti inviolabili di ogni persona, ma esige una prospettiva globale che affronti il dramma di milioni di esseri umani che muoiono a causa della fame e della mancanza di acqua, il problema della mancanza delle cure mediche essenziali e i gravi problemi etici legati alla sperimentazione di nuove terapie in Paesi in via di sviluppo, dove non sempre vige un controllo indipendente e una regolamentazione codificata. Queste sono solo alcune «emergenze» radicali che interrogano la coscienza morale.

3. Il significato di un'azione biomedica

Dal punto di vista morale, occorre chiedersi: qual è il senso, cioè il significato oggettivo intenzionale dell'azione? In quali circostanze viene attuato un intervento medico, cioè con quali finalità, con quali mezzi e con quali intenzioni? Alcune distinzioni sono utili per decifrare il senso di un'azione. L'oggetto dell'azione é il finis operis. Il motivo che spinge l'agente a compiere quell'azione, lo scopo del soggetto agente è il finis operantis. Bisogna poi considerare anche le circostanze dell'azione. Il contenuto intenzionale di base dell'azione (finis operis) caratterizza la bontà o malizia dell'azione. In altri termini, non basta chiedere cosa faccio? ma occorre anche domandare a che pro lo sto facendo? per cogliere il fine prossimo e immediato dell'azione deliberata, il significato oggettivo dell'azione. Se l'oggetto dell'atto è un bene morale, l'atto è buono; se invece è un male morale, l'atto è cattivo.

Il finis operantis è il fine principale o fine intermedio nel quale il finis operis acquista il suo pieno significato. I fini superiori e principali comportano un atto proprio della volontà, cioè l'intenzione del soggetto. Le circostanze in cui un atto è posto concorrono, insieme alle intenzioni, a definire la moralità di un atto, possono aumentare, diminuire, cambiare in male la bontà oggettiva dell'atto, possono aumentare, diminuire, ma non cambiare in bene la malizia oggettiva dell'azione. In sintesi, un'azione è buona quando si dà unità intenzionale tra l'esecuzione, la scelta, l'intenzione e le motivazioni dell'agire (ragioni, impulsi ed emozioni). Più precisamente: «la moralità dell'atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata [...] Per poter cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto conforme all'ordine della ragione, esso è causa della bontà della volontà, ci perfeziona moralmente e ci dispone a riconoscere il nostro fine ultimo nel bene perfetto, l'amore originario. Per oggetto di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l'atto del volere della persona che agisce. In tal senso ... vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale».7

4. Per un'antropologia dell'integralità

Le domande etiche, alle quali corrispondono divergenti risposte e radicali contrapposizioni, soprattutto nel contesto multiculturale odierno, presuppongono la domanda fondamentale sull'essere umano e sul senso dell'essere dell'uomo. La bioetica deve offrire elementi di riflessione sulla dignità dell'uomo. Come definire la persona? Che cos'è la dignità umana? Le concezioni antropologiche di tipo razionalistico e funzionalistico identificano la dignità dell'uomo con la sua autocoscienza, ma non sono sufficienti a cogliere la complessità della sfida antropologica. Nella prospettiva della «bioetica personalista», che cerca di riflettere sull'integrità spirituale, psico-fisica e relazionale, lo statuto ontologico della persona include il riferimento il punto di partenza, non astratto, è l'unità sintetica originaria, che la riflessione non crea ma trova dinanzi e al di fuori di sé, ovvero l'unità corporeo-spirituale dell'essere umano, la sussistenza relazionale che ognuno di noi è. La dignità di ogni persona si giustifica nell'ordine dinamico dell'essere che la costituisce: la dimensione corporea, quale si dà nella concretezza individuale e somatica, la quale segue una legge ontogenetica di sviluppo, è manifestazione inerente alla persona. Inoltre, nell'apertura originaria della mente umana all'essere e al bene oggettivo, legge morale universale a cui ha accesso solo il mondo delle persone, si

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manifesta la natura trascendente della persona che è in grado di contemplare un ordine ontologico. Pertanto, la dignità umana risiede nell'atto integrale della persona. La «presenza» dell'essere umano si pone come domanda di essere. Per questa ragione l'essere della persona chiede, come atto di giustizia, il riconoscimento, l'accoglienza, l'ospitalità e la difesa della sua integrità. La dimensione trascendente e spirituale della persona ha la sua radice ultima nella verità della creazione dell'uomo, ente intelligente finito, che vive in una relazione con Dio di cui è immagine e somiglianza: «È proprio questa relazione con Dio che definisce gli esseri umani ed è fondamento del loro rapporto con le altre creature [...] il mistero dell'uomo può essere pienamente chiarito solo alla luce di Cristo, che è immagine perfetta del Padre e che ci introduce, attraverso lo Spirito Santo a una partecipazione al mistero di Dio uno e trino. È all'interno di questa comunione di amore che il mistero di ogni essere, abbracciato da Dio, trova il suo pieno significato».8 Su basi antropologiche, le religioni monoteiste, che esprimono visioni bioetiche, possono favorire un dialogo interreligioso proficuo per un autentico progresso umano e scientifico.

5. L'autonomia del paziente e la coscienza del medico

La persona che si trova in una condizione di vulnerabilità e fragilità, veicola una domanda di senso, rivolge una richiesta di aiuto, cerca una risposta di amore, accoglienza e dedizione. Nella relazione con altri, la persona può ricercare il senso globale del suo essere e della stessa sofferenza che coinvolge e attraversa tutte le dimensioni, da quella fisica a quella psichica a quella spirituale. Ciò dimostra quanto sia grande la responsabilità del personale medico e paramedico a cui è richiesta una capacità di ascolto e di empatica comprensione nella comunicazione i cui pilastri sono la verità e l'amore. Solo intercettando le domande di senso, attraverso un approccio maieutico e dialogico, è possibile entrare in dialogo con l'altro: quando desideriamo qualcosa, che cosa realmente desideriamo? Nel rapporto medico-paziente, è importante allargare la beneficialità fondandola sulla fiducia (beneficence-in-trust), sulla base del modello proposto da Pellegrino e Thomasma9: alla fiducia nella persona del medico deve corrispondere la disposizione di quest'ultimo ad agire per il bene del paziente. L'obiettivo comune per il medico e il paziente è agire nel migliore interesse l'uno dell'altro. L'attenzione alla condizione globale del paziente impedisce di considerare la persona un puro e semplice caso. Più precisamente, il bene biomedico, che include tutti gli effetti degli interventi clinici sul decorso della malattia, si deve coniugare sia con l'idea che il paziente ha del proprio bene (il bene che il paziente percepisce) sia con il bene inteso come possibilità di esercitare la capacità di operare scelte condivise, informate, esplicite ed attuali. Infine, il bene particolare del paziente non può non relazionarsi al bene ontologico. Il medico ha il dovere di «prendersi cura» del paziente, di tutelarne la salute e la vita. Contro le forme di manipolazione dell'embrione umano o del suo patrimonio genetico, che rivelano finalità eugenetiche o selettive e configurano il dominio dell'uomo sull'altro uomo, è essenziale la prospettiva di «cura delle persone e di educazione alla cultura dell'accoglienza della vita umana nella sua concreta finitezza storica».10 La relazione o alleanza terapeutica tra il paziente, i medici e i familiari, presuppone il principio dell'inviolabilità e dell'indisponibilità della vita umana. Proprio sulla base della finalità umanistica della medicina si giustifica l'obiezione di coscienza.

Nel principio di autonomia si radica il diritto che ha il paziente all'informazione e al consenso libero e informato prima di sottoporsi ad una sperimentazione. Detto ciò, possiamo affermare che l'autodeterminazione del paziente è assoluta? Esiste davvero una libertà assoluta che include il «diritto di morire»? La libertà dell'uomo per essere moralmente connotata deve sempre declinarsi con la responsabilità. Pertanto, l'uomo gode di un'autonomia relazionale. Inoltre, l'etica della responsabilità ovvero lo sguardo della responsabilità che l'uomo assume su di sé e nei confronti dell'altro, implica il riferimento ad un bene morale oggettivo che l'ideologia libertaria e nichilista dominante nega risolutamente.

Sulla base di tali considerazioni, possiamo formulare alcune domande etiche concernenti lo stato vegetativo, l'inizio della umana nascente, la ricerca le cellule staminali embrionali e con le cellule somatiche, la clonazione e la fecondazione artificiale assistita, i criteri di accertamento della morte e le questioni di fine vita. Pur constatando l'esistenza di risposte divergenti, e spesso inconciliabili, ai problemi enunciati, vale la pena sottolineare che la dicotomia tra una bioetica cattolica e una bioetica laica è una distinzione approssimativa e per certi versi semplicistica, anche se può assumere una funzione pratica e politica. Innanzitutto, bisogna riconoscere che il Magistero della Chiesa in sé non è affatto contraddittorio nel riconoscere la sacralità della vita umana dal concepimento alla morte naturale. La difesa dell'embrione umano, il principio di proporzionalità dei trattamenti e delle terapie, hanno sempre ispirato i pronunciamenti del Magistero. Tali indicazioni consentono di evitare ogni forma di strumentalizzazione o manipolazione della vita umana e, al tempo stesso, l'accanimento terapeutico.

Inoltre, in riferimento alla dignità dell'embrione, alla manipolazione genetica, alla clonazione e alle cure da assicurare ai pazienti in stato vegetativo, si è verificata una sostanziale convergenza tra credenti e non credenti. La laicità, erroneamente assunta come sinonimo di laicismo, ci induce a pensare che il principio

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della sacralità della vita non elimina l'importanza del tema della qualità della vita. Di quest'ultima si indica il fondamento antropologico antecedente che in Dio ha la sua ragione d'essere.

6. L'etica della vita umana

Tra le numerose questioni di bioetica, vi è quella relativa allo stato vegetativo, che non bisogna confondere con gli altri disordini di coscienza, vale a dire la minima coscienza, locked-in, il coma.11 I contrasti etici vertono sulla sospensione o somministrazione dell'alimentazione e dell'idratazione, che alcuni considerano sostegni vitali e altri terapie non obbligatorie.

Per affrontare tale problematica, bisogna prima di tutto chiedersi: che cosa significa essere in uno stato vegetativo? Come si differenzia dal coma? Chi è la persona in stato vegetativo o di minima coscienza? Di che cosa hanno bisogno? I pazienti in stato vegetativo possono percepire il dolore? Qual è il livello di comunicazione possibile con questi pazienti? Dal punto di vista medico-clinico, i pazienti in SV sono persone viventi, sia pure in una condizione di gravissima disabilità: «lo stato vegetativo è una condizione funzionale del cervello, che insorge subito dopo l'evento acuto che lo ha determinato, diventando riconoscibile solo quando finisce il coma che, sovrapponendosi, lo maschera (Plum e Poster, Jennett, Dolce e Sazbon). Lo SV è infatti uno dei possibili esiti del «coma», che è invece uno stato transitorio (qualche settimana) dal quale si può uscire in tre modi: 1) con la morte 2) ripercorrendo tutti i gradini del coma fino a uscirne -- con o senza danni; 3) passando in uno SV/SMC, situazione che può durare a lungo o per sempre. La persona in SV, dopo un lungo e impegnativo percorso sanitario, trascorso fra sale di rianimazione e reparti specializzati, si trova in una situazione personale clinica stabile, con funzioni vitali autonome: dorme e si sveglia con ritmi regolari, respira da sola, non è attaccata a nessuna macchina, ha una sua attività cerebrale. Talvolta riesce anche a deglutire, ma con difficoltà e lentezza, per cui spesso si preferisce nutrirla con sondino naso-gastrico, o con la PEG (Percutanea Enterogastrostomia), Queste persone non sono in uno stato «terminale», e anzi possono lentamente migliorare e, se accudite con attenzione, vivere a lungo».12

Il parametro della coscienza, che costituisce l'hard problem della neuroscienza, non è facilmente misurabile, così come le correlazioni tra le lesioni del cervello e la perdita di coscienza non sono immediatamente evidenti, perché non è possibile indicare la sede, dal punto di vista anatomico, della coscienza. Esistono ancora molte questioni da considerare con pi maggiore attenzione, ad esempio il problema delle diagnosi errate con cui si definiscono irreversibili situazioni che non si rivelano tali, i processi rigenerativi e di riorganizzazione plastica (rewiring) delle strutture cerebrali, la possibilità di una comunicare con questi pazienti, la percezione e la reazione psicofisica alle voci dei familiari, la presenza/assenza di coscienza e conseguentemente la percezione del dolore che i recenti studi stanno accertando e verificando in alcune situazioni cliniche oggetto di studio dei ricercatori. Recentemente alcuni ricercatori, utilizzando la risonanza magnetica funzionale per immagini, hanno verificato la possibilità di una «elementare interazione» con alcuni pazienti.13

Da ciò deriva il compito di ri-definire e migliorare i criteri nosografici dei disordini di coscienza e

della possibile evoluzione di una patologia. Per effettuare un'accurata diagnosi, bisogna adottare un metodo integrato che si avvalga della risonanza magnetica funzionale o di elettroencefalogrammi, test comportamentali, scale di misurazione.

Su queste basi sarà possibile elaborare un nuovo lessico. Infatti, si possono generare equivoci. Ad esempio, al di fuori di un contesto specialistico, l'aggettivo «vegetativo» spesso viene assunto come sinonimo di «vita vegetale» e quindi non umana.

La Multi Society Task Force14 nel 1997 propose alcuni criteri per distinguere lo stato vegetativo «permanente» e lo stato vegetativo «persistente». L'Aspen Consensus Group preferì evitare questi termini, poiché non era possibile stabilire con certezza l'irreversibilità o meno di una condizione, e suggerì di utilizzare l'espressione «stato vegetativo da ... x mesi/anni».

Altri neuroscienziati, riunitisi a Salerno per la terza Conferenza internazionale su Coma e Coscienza (4-7 Luglio 2010) hanno proposto di cambiare la definizione del 1994 di «Stato vegetativo persistente» in «Sindrome della veglia arelazionale», per evitare di assimilare lo «Stato vegetativo» delle persone che si trovano in questa condizione a dei vegetali. In verità, già nel 2003, l'Agenzia governativa australiana consigliava l'espressione «post-coma unresponsiveness».15 Come si vede, tale sindrome è ancora alla ricerca di un nome appropriato. Il principio di precauzione è quello più aderente alla realtà clinica di questi pazienti. Sulla base di tali considerazioni, l'idratazione e l'alimentazione, nella misura in cui garantiscono le condizioni fisiologiche di base per vivere (garantendo la sopravvivenza, togliendo i sintomi di fame e sete, riducendo i rischi di infezioni dovute a deficit nutrizionale e ad immobilità), costituiscono forme di assistenza ordinaria e proporzionata di sostegno vitale, di cura e assistenza. La sospensione di idratazione ed

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alimentazione configurerebbe una forma disumana di abbandono del malato (e in Italia ce ne sono circa 4000). Invece, nell'ipotesi in cui l'organismo non fosse più in grado di assimilare le sostanze fornite si impone la doverosità etica della sospensione della nutrizione.16

L'esperienza clinica, la testimonianza delle associazioni familiari e le nuove ricerche neuroscientifiche dimostrano che «un'evoluzione clinica può dipendere dal tipo di assistenza -- sanitaria, sociale, familiare ... un inserimento corretto della persona in SV nel suo ambiente familiare può dare veramente risposte inattese. Di pari importanza è il non isolamento di queste persone e la frequentazione di ambienti in cui si possano ritrovare con altre persone nella stessa condizione. Talvolta le capacità relazionali aumentano ...»17

Un'altra questione bioetica concerne le situazione-limite in cui si trovano i malati terminali. In senso proprio, la condizione «fine vita» è quella che corrisponde al malato terminale con prognosi infausta a breve termine (cioè, sta per morire). Dall'eutanasia -- che è moralmente illecita in quanto si tratta di un'azione o di un'omissione che procura intenzionalmente la morte del paziente allo scopo di eliminare ogni dolore -- bisogna distinguere il rifiuto dell'accanimento terapeutico, che consiste in una serie di interventi non adeguati alle reali condizioni del paziente. Perciò, «quando la morte si preannunzia imminente e inevitabile, si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi».18 Qual è il modo più umano per combattere la sofferenza e la solitudine si manifesta la solitudine esistenziale dell'uomo? La solitudine esistenziale della persona che soffre nel corpo e nello spirito interpella la responsabilità del personale medico e dei familiari. Si tratta di cogliere la richiesta di aiuto che proviene dalla persona che soffre e che si situa nel contesto di una relazione empatica. Nella richiesta di morte si manifesta la solitudine esistenziale.

L'eutanasia, il suicidio assistito, l'aborto, i tentativi di ibridazione in cui sono stati utilizzati ovociti animali per la riprogrammazione di nuclei di cellule somatiche umane, con il fine di estrarre staminali embrionali, costituiscono una palese violazione e negazione della dignità dell'essere umano.

Dal punto di vista clinico, è necessario precisare i criteri di accertamento della morte. Come si può constatare il decesso avvenuto di una persona? Quando è morto un essere umano? Quando si può sospendere il trattamento artificiale e/o intervenire sul suo corpo? La validità biologica e morale del criterio neurologico di accertamento della morte (morte cerebrale totale), con cui è possibile verificare un'irreversibile cessazione di tutte le funzioni dell'intero cervello, cioè degli emisferi e del tronco cerebrale, è riconosciuta da gran parte della comunità scientifica. Tuttavia, esistono anche altre motivazioni scientifiche e filosofiche (Hans Jonas, Joseph Seifert, Robert Spaemann, John M. Finnis, ma anche su basi diverse Peter Singer) che sostengono la validità dello standard tradizionale cardiocircolatorio (irreversibile cessazione delle funzioni circolatoria e respiratoria). In riferimento allo standard cardio-polmonare, bisogna sottolineare la necessità di adeguati tempi di accertamento che non possono essere ridotti a 2 o 5 minuti, ma devono protrarsi per 20 minuti, come stabilito in modo prudenziale dalla normativa italiana (L. 578/93). A tal proposito, bisogna considerare che la morte è una sola ed entrambi i criteri sono clinicamente validi.19

Un tema molto controverso riguarda lo statuto ontologico e giuridico dell'embrione umano. Qual è la dignità dell'embrione umano? Le tecniche di fecondazione assistita pongono una questione bioetica di grande rilevanza antropologica ed etica, per il fatto che esse implicano la produzione in laboratorio di una vita umana, la produzione di embrioni soprannumerari e il sacrificio degli embrioni sacrificati dalla tecnica. A seguito della stimolazione ormonale compiuta sul corpo delle donne, si compie in vitro la fecondazione.

Prima dell'approvazione della legge n. 40 («Norme in materia di procreazione medicalmente assistita», 18 febbraio 2004), sottoposta a consultazione referendaria, non tutti gli embrioni venivano impiantati, ma alcuni venivano crioconservati nel liquido di azoto, così da renderli disponibili per successivi tentativi di trasferimento in utero. La legge n. 40 imponeva l'impianto dei tre embrioni fecondati, limite massimo consentito dalla legge, al fine di salvaguardare la vita di tutti gli embrioni umani e di porre un argine al problema degli embrioni soprannumerari. Con la sentenza 8 maggio 2009 n. 151, la Corte Costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell'articolo 14, comma 2, della norma, nel punto in cui essa prevede che ci sia un "unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre embrioni». I giudici della Corte hanno così eliminato il limite di tre embrioni, preordinato a tutelare il diritto alla vita. Per effetto della pronuncia della Corte, l'art. 14 comma 2 l. 40/2004 risulta così riformulato: «Le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell'evoluzione tecnicoscientifica e di quanto previsto dall'art. 7 comma 3 [in tema di Linee guida], non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario». Questo significa che in alcune situazioni si possono produrre più di tre embrioni e, inoltre, non c'è obbligo di trasferirli immediatamente e contemporaneamente. Sorge però un problema: se si producono più di tre embrioni, quale sarà la sorte ed il destino degli embrioni umani prodotti dalla tecnica e non immediatamente trasferiti? Più recentemente sono stati sollevati dubbi sulla legittimità costituzionale sulla parte della legge 40 che vieta la fecondazione eterologa. Di fronte all'invasione della

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tecnica, che promette di soddisfare i desideri di potenziali genitori, ci chiediamo: qual è il significato e il fine della procreazione umana e della generazione? Che cosa rimane delle relazioni umane e familiari? Che ne sarà della famiglia come comunità naturale di affetti? Qual è il senso che viene attribuito al valore della vita umana e quali sono le conseguenze (cliniche, psicologiche, sociali, culturali) di tali interventi che producono, «manipolano» embrioni umani viventi?

Alla luce delle conoscenze attuali dell'embriologia, della citologia e della genetica, ogni embrione umano vivente è tale fin dal suo atto primo di esistenza. Dalla fusione dei gameti inizia uno sviluppo coordinato, continuo e graduale. L'espressione essere umano è sinonimo di persona, nel senso che la persona è quell'esemplare unico della specie umana, dotato di individualità genetica, corporea e spirituale che sottende la relazionalità intrinseca del suo stesso porsi come individuo relazionale e relazione sostanziale. Sarebbe sufficiente tale constatazione per motivare un principio prudenziale di tutela della vita umana fin dal concepimento o fecondazione. Alla luce di tali considerazioni, l'aborto e la manipolazione degli embrioni, la ricerca che prevede o comporta la loro distruzione degli embrioni umani, la clonazione costituiscono gravi violazioni della vita umana che p un bene indisponibile e non strumentalizzabile.

Nelle tecniche di fecondazione extra-corporea si utilizza la diagnosi genetica preimpianto (PGD, Preimplantation Genetic Diagnosis) introdotta nel 1990. Essa consiste nell'analisi di una o due cellule prelevate dall'embrione al fine di verificare la presenza di anomali ed eliminare gli embrioni malati. Un'altra finalità è la selezione sociale del sesso o la selezionare di embrioni da utilizzare come possibili donatori di tessuti o di organi per i loro fratelli affetti da una qualche malattia. La mentalità eugenetica si manifesta nella ricerca di un «figlio perfetto e sano» e richiede la selezione degli embrioni. I rischi della genetica liberale sono stati denunciati anche da un filosofo contemporaneo post-metafisico della Scuola di Francoforte, J. Habermas.20 Diversamente dalla diagnosi genetica pre-impianto eseguita con finalità eugenetiche, la terapia fetale ha una finalità etica perché considera l'embrione ed il feto come un paziente di cui bisogna prendersi cura.

Un altro gruppo di domande di bioetica riguardano le cellule staminali: che cosa sono? A che cosa servono? È lecito usarle? Si tratta di cellule capostipiti e non differenziate che sono all'origine di tutte le altre cellule differenziate. Dal latino stamen/staminis = trama, ordito, filo. Tali cellule sono presenti negli embrioni, nel cordone ombelicale, nell'organismo adulto. Le cellule staminali hanno la capacità prolungata di riprodursi senza differenziarsi, dando così vita ad altre cellule staminali, oppure possono dare origine a cellule progenitrici di transito (con capacità proliferativa limitata) dalle quali discendono cellule altamente differenziate (nervose, muscolari, ematiche, ecc.).

Le cellule staminali embrionali (embryo stem cells) sono «totipotenti», possono cioè sviluppare tutte le linee cellulari dell'organismo. La loro preparazione implica un processo molto complesso: 1) la produzione di embrioni e/o l'utilizzazione di quelli soprannumerari da fecondazione in vitro o crioconservati; 2) il loro sviluppo fino allo stadio di iniziale blastociste; 3) il prelevamento delle cellule dell'embrioblasto o massa cellulare interna attraverso una tecnica invasiva che comporta la distruzione dell'embrione umano; 4) la messa in coltura di tali cellule che così si moltiplicano e formano colonie. Le cellule totipotenti, se immesse in un organismo, possono provocare l'insorgenza di tumori. La «clonazione terapeutica» ovvero la riproduzione asessuale e agamica di un organismo umano -- mediante trasferimento del nucleo di una cellula di un soggetto in un oocita umano enucleato -- , viene propugnata al fine di evitare i rischi tumorali delle cellule staminali embrionali e al fine di risolvere le patologie. In questo modo si creano embrioni per poi distruggerli. L'uomo viene così ridotto a strumento, cosa, oggetto da produrre e distruggere in base a presunti vantaggi che ne deriverebbero.

Le cellule staminali adulte o somatiche possono essere estratte dal midollo, dal cervello, dal fegato, dal tessuto adiposo; non sono totipotenti, ma pluripotenti (o multipotenti), in quanto sono in grado di dare origine solo ad alcuni tessuti. Anche se la rarità di queste cellule costituisce una difficoltà, bisogna riconoscere che le cellule staminali adulte provenienti da tessuti specifici, non ledono l'integrità del soggetto, presentano il vantaggio di essere differenziate, possiedono versatilità e plasticità, non comportano la distruzione di embrioni. Dal punto di vista terapeutico, le cellule staminali adulte stanno offrendo buoni risultati in quanto possono essere trapiantate e sono in grado di ricostruire il tessuto del ricevente. Le cellule staminali pluripotenti indotte (Induced pluripotent Stem cell -- IPS) derivano dalla riprogrammazione genetica di cellule adulte differenziate in cellule staminali pluripotenti. La tecnica estremamente innovativa, che ha consentito di riprogrammare cellule della pelle, è stata elaborata dal laboratorio di Biologia delle Cellule Staminali dell'Università di Kyoto, diretto dal prof. Shinya Yamanaka, e successivamente confermata da ricerche che si sono svolte in molti laboratori, sia in Italia che in USA. Le metodiche che si perfezionando sono molto importanti, anche se necessitano di controlli sperimentali accurati. Visto che la fase sperimentale è stata già avviata con successo e i risultati con le cellule staminali adulte sono molto promettenti, come dimostrano i risultati fin qui raggiunti, perché non investire nella ricerca con cellule staminali somatiche o adulte?

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7. La ricerca con esseri umani

Nella storia dell'etica della ricerca con esseri umani si registrano numerose violazioni della dignità umana. Nei campi di concentramento venne attuata tragicamente la sospensione del diritto e la violazione dei diritti umani da parte dei medici nazisti. Le sperimentazioni selvagge nei campi di concentramento furono compiute sui prigionieri e sulle persone internate (ebrei, polacchi, russi, cechi).21 Gli esperimenti di decompressione e di ipotermia a Dachau, gli esperimenti sull'ereditarietà dei caratteri che Menegele, il dottore del terzo Reich, fece sui fratelli gemelli, sono alcuni tragici esempi di come la dignità della persona possa essere violentata dalla «follia collettiva delle menti» di una presunta scienza che, ispirandosi all'ideologia suicida del nazismo, ha annientano l'uomo, riducendolo ad oggetto strumentale, a cavia. Così facendo, la scienza medica è stata degradata ed il suo progresso è stato «sospeso». Tali sperimentazioni disumane erano promosse sulla base della supremazia della scienza, in nome di una suprema ragion di stato, rappresentata dal nazismo. Tra il 1946 e il 1947 si svolse il processo indetto dal tribunale Militare Internazionale insediatosi a Norimberga, che doveva giudicare i responsabili dei crimini di guerra nazisti. Il primo di dodici processi, cosiddetti secondari, di Norimberga fu quello nei confronti di ventitré persone, dottori ed amministratori che avevano preso parte alle sperimentazioni su esseri umani nei campi di concentramento nazisti. Il testo della sentenza contro i medici nazisti, noto come Codice di Norimberga (1947) o Decalogo di Norimberga, fissò in 10 punti alcune linee guida fondamentali. Si sancì la necessità del consenso volontario (voluntary consent) delle persone sottoposte a sperimentazione. Proprio il consenso volontario e informato delle persone sottoposte a sperimentazioni mediche divenne il criterio etico-giuridico imprescindibile di ogni sperimentazione clinica. I principi enunciati nel Codice di Norimberga furono adottati dall'Associazione Medica Mondiale nell'Assemblea svoltasi a Ginevra nel 1948, ispirarono la Dichiarazione di Ginevra (Associazione Medica Mondiale, Dichiarazione di Ginevra, 1948) ed il Codice internazionale di etica medica, approvato a Londra (Associazione Medica Mondiale, Codice Internazionale di etica medica, 1949). Il 10 dicembre 1948, l'Assemblea delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione universale dei Diritti dell'uomo.

Nel giugno del 1964 la XVIII Assemblea della World Medical Assocation, dopo 3 anni di discussione, adottò una risoluzione sui principi base della ricerca, nota come Dichiarazione di Helsinki (1964). Si affermò la necessità di svolgere preventivi esami di laboratorio su animali, un'accurata valutazione dei rischi connessi alla sperimentazione sull'uomo; inoltre, la sperimentazione non terapeutica fu distinta dalla ricerca clinica connessa con l'attività sanitaria; per la sperimentazione non terapeutica si ribadì la necessità del libero consenso, preceduto da informazione, mentre per la sperimentazione terapeutica il libero consenso doveva essere richiesto solo se possibile, secondo la psicologia del paziente. Nonostante ciò, alcuni articoli denunciarono esperimenti non etici. Il Dr. Henry Knowles Beecher (1904-1976), professore di anestesia della Harvard Medical School, nel 1966 pubblicò sul «New England Journal of Medicine»22 un articolo descrisse 22 esempi di ricerche non etiche che misero a rischio la vita delle pazienti. Questo articolo e l'inchiesta congressuale che ne derive alla base della fondazione delle correnti guidelines sul consenso informato e sull'umana sperimentazione.

Inoltre, il libro di Maurice Henry Pappworth (1910-1994), Human Guinea pigs. Here and now. Experimentation on man (1967), mise in luce molti esperimenti in cui molti soggetti sani rischiavano la vita. Queste opere di denuncia erano nate dalla consapevolezza che ogni sperimentazione dovesse rispettare i principi affermati nella Dichiarazione di Helsinki.

Purtroppo la storia dell'etica delle sperimentazioni è contrassegnata da azioni illecite e disumane compiute anche dopo i processi di Norimberga.

Il caso più sconvolgente di sperimentazione selvaggia senza consenso informato è noto alle cronache come «Tuskegee syphilis study» (1932-1972). Questa sperimentazione disumana e razzista, durò ben quarant'anni e fu promossa dalle autorità governative americane. Lo studio fu rivelato dal «New York Times» nel 1972. Nel 1932 il Servizio Sanitario pubblico statunitense si propose di studiare la storia naturale della sifilide e gli effetti della malattia su una popolazione di colore che presentava un alto tasso di sifilide. Lo studio fu condotto nella città Tuskegee, nella contea di Macon dello stato dell'Alabama (USA). Vennero reclutati come cavie 600 braccianti e mezzadri di colore dell'Alabama (600 black man, mostly poor and uneducated): 399 avevano una diagnosi di sifilide e non vennero mai curati. Agli interessati non fu mai comunicata la diagnosi. I restanti 200 soggetti, non affetti da Sifilide, furono impiegati come gruppo di controllo.

I soggetti quindi non sapevano di avere la sifilide, ma fu detto loro di avere solo il «sangue cattivo» (Bad Blood), ragion per cui dovevano sottoporsi ad esami medici periodici, inclusa la puntura lombare. Ai soggetti fu promesso il trasporto gratuito in ospedale, cure mediche gratuite per tutte le patologie, un pasto caldo al giorno e, in caso di morte, un rimborso per la sepoltura.

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Lo studio fu valutato più volte dai responsabili del Servizio di Sanità Pubblica dell'USA, ma si ritenne che la validità scientifica ne giustificava la continuazione. Quando lo studio si concluse, nel 1972, solo 74 persone erano ancora vive, 28 erano morte di sifilide, 100 erano morte a causa di complicazioni, 40 delle loro mogli erano state infettate e 19 dei loro figli erano nati con una sifilide congenita. I ricercatori non iniziarono alcun trattamento a favore dei pazienti, neanche quando divenne disponibile la penicillina, cioè verso la fine degli anni Quaranta. Questo studio rivela una mentalità razzista. La scoperta del «Tuskegee study» indusse il presidente degli Stati Uniti ad istituire nel 1974 di una Commissione che produsse il Rapporto Belmont (1978). Il documento affermò il principio del rispetto dell'autonomia delle persone coinvolte nella sperimentazione e, conseguentemente, l'obbligo del consenso informato. A ciò si aggiunse l'enunciazione del principio di beneficialità negli interventi sperimentali e il principio di giustizia. La commissione concluse che la società non poteva più permettere che l'equilibrio tra i diritti individuali e il progresso scientifico venisse unicamente determinato dalla comunità scientifica».

Un'altra sperimentazione non etica si svolse presso il Jewish Chronic Disease Hospital di Brooklyn di New York (1963-1964), dove il dottore Chester Sotuham dello Sloan-Kettering Institute for Cancer Research iniettò, con il permesso del direttore sanitario dell'ospedale, cellule epatiche tumorali eterologhe in 22 anziani istituzionalizzati, dementi e soli, per valutare gli effetti immunologici. I pazienti non ricevettero le informazioni eticamente corrette.

Presso il Willowbrook State School di New York (1956-1970), alcuni medici iniettarono il virus dell'epatite B attivo in 800 bambini orfani, istituzionalizzati e handicappati psichici, per studiare l'eziopatogenesi dell'epatite e per sviluppare un vaccino. Lo studio, condotto da un medico pediatra e infettivologo, iniziarono nel 1956 e si protrassero sino al 1970, quando emersero all'attenzione del pubblico. Il modulo del consenso era stato redatto in modo ingannevole. Se i genitori si fossero rifiutati di esprimere il consenso alla sperimentazione disumana, l'istituto di cura non avrebbe ammesso i loro figli. Il centro di ricerca fu in seguito chiuso, ma i responsabili non subirono alcuna condanna e non si aprì nessun iter giudiziario.

Questi fatti dimostrano quanto sia importante porre al centro dei protocolli di sperimentazione il bene integrale della persona, la cui dignità ontologica non può essere prevaricata da interessi economici o anche scientifici. Non esiste infatti una buona scienza ed un progresso scientifico autenticamente umano senza un'etica della vita umana. Quest'ultima non è solo il riflesso vincolante di un dovere morale, ma l'espressione dell'amore per l'uomo e per la sua dignità.

8. Conclusione

Dalla medicina e dalla biologia sorgono molte domande. Tuttavia, la scienza non è sufficiente per fornire le risposte. Il ricorso diretto e indiretto alla tradizione filosofica (Tommaso, Rosmini, Kant, la filosofia della medicina contemporanea, le classiche distinzioni sul significato dell'azione, ecc.), non favorisce la conclusione che nella bioetica non ci sia nulla di nuovo o ancor peggio che la bioetica sia inutile. In primo luogo, vale la pena sottolineare che il fondamento della bioetica è la dignità ontologica dell'uomo e questa base è l'insegnamento perenne di una riflessione «metafisica integrale» di cui è possibile riscoprire la fecondità. Le questioni bioetiche qui evocate sono inedite ed esigono un ripensamento o meglio un approfondimento della questione antropologica, che deve consentire di superare l'autosufficienza delle competenze acquisite in uno spazio interdisciplinare per mezzo dello «sforzo edificante dell'integrazione». In questo progetto antropologico e sociale, a cu tutti siamo chiamati a partecipare, l'etica della vita umana si coniuga con l'etica sociale. La bioetica parte dunque dalla considerazione medico-scientifica, esprime un'istanza antropologica, come quella espressa dal personalismo ontologico qui riproposto, si declina nel diritto e nell'etica biomedica e sociale. La prospettiva integrale sulla persona richiede la considerazione della natura biologica dell'uomo, di cui oggi comprendiamo meglio alcuni aspetti, ma non propugna un naturalismo filosofico e non cade nella fallacia naturalistica. Tale fallacia si verifica solo in una prospettiva naturalistica, empiristica o anche in un approccio astratto all'essere e alla persona, ma non si verifica in una metafisica dell'integralità, dove non c'è un passaggio o un salto dal reale all'ideale normativo. Ogni forma dell'essere e ogni livello di realtà deve essere riconosciuto e integrato nell'ordine intrinseco dell'essere. Il riferimento alla trascendenza della verità si esprime nella ricerca di senso e nella globalità del senso a cui ogni uomo aspira e a cui il filosofo deve cercare di dare umilmente ascolto.

Note

1. Per una trattazione approfondita rinviamo al testo: F. D'Agostino, Parole di Bioetica, Giappichelli, Torino 2003, pp. 27-34.

2. Potter V.R., Bioethics. Bridge to the future, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1971, p. 1.

3. Reich W.T. (ed.), «Bioethics», in Encyclopedia of Bioethics, 4 voll., The Free Press, New York 1978;

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Introduction, p. XIX.

4. Reich W.T. (ed.), Introduction, in id., Encyclopedia of Bioethics, 5 voll., MacMillan Simon & Schuster, New York 1995, p. XXI.

5. Reich W.T., La Bioetica negli Stati Uniti, in C. Viafora (a cura di), Vent'anni di Bioetica, Fondazione Lanza, Libreria Gregoriana Editrice, Padova-Roma 1990, p. 171

6. Pessina A., Bioetica. L'uomo sperimentale, Mondadori, Milano 2000.

7. Ioannes Paulus PP. II, Veritatis splendor (6 Agosto 1993), San Paolo, Milano 1993, par. 78.

8. Commissione Teologica Internazionale, Comunione e servizio. La persona umana creata a immagine di Dio, LEV, Città del Vaticano 2005, par. 95.

9. Cfr. Pellegrino E.D., Thomasma D.C., For the Patient's Good. The Restoration of Beneficence in Health Care, Oxford University Press, New York 1988.

10. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Dignitas personae su alcune questioni di Bioetica, LEV, Città del Vaticano 2008, par. 27

11. Cfr. Martin M. Monti, Steven Laureys, Adrian M. Owen, The vegetative state, BMJ 2010; volume 341:c3765, pp. 292-296: «Coma is a condition of unresponsiveness in which patients lie with their eyes closed, do not respond to attempts to arouse them, and show no evidence of awareness of self or of their surroundings. Patients lack not only signs of awareness (similar to vegetative state) but also wakefulness (unlike vegetative state) regardless of how intensely they are stimulated. Patients typically either recover or progress to a vegetative state (that is, they show signs of wakefulness) within four weeks. Irreversible coma with absent brainstem reflexes indicates brain death, which is not the same as a vegetative state. The minimally conscious state is a condition in which patients appear not only to be wakeful (like vegetative state patients) but also to exhibit inconsistent (fluctuating) but reproducible signs of awareness (unlike patients with vegetative state). Like the vegetative state, the minimally conscious state may be transitory and precede recovery of communicative function or may last indefinitely. Locked-in syndrome(or pseudocoma), although not a disorder of consciousness, may be confused with vegetative state. Patients with locked-in syndrome are both awake and aware, yet they are entirely unable to produce any motor output or they have an extremely limited repertoire of behaviours (usually vertical eye movement or blinking)» (p. 293).

12. Ministero della Salute, Libro bianco sugli stati vegetativi. Il punto di vista delle associazioni che rappresentano i familiari. Le buone pratiche e le problematiche relative ai percorsi di cura e ai centri di riabilitazione. Dall'evento al domicilio attraverso un percorso sanitario e sociosanitario, 2010, p. 4.

13. Martin M. Monti, Audrey Vanhaudenhuyse, Martin R. Coleman, Melanie Boly, John D. Pickard, F. Med.Sci., Luaba Tshibanda, Adrian M. Owen, and Steven laureys, Willful Modulation of Brain Activity in Disorders of Consciousness, «The New England Journal of Medicine», 18 Feb 2010, volume 362, pp. 579-589. I ricercatori dell'università di Cambridge e dell'Università di Liège hanno reclutato 23 soggetti in SV e 31 in minima coscienza e hanno constatato che nel momento in cui i soggetti immaginavano di giocare a tennis o immaginavano di passeggiare in una stanza, si attivavano le aree cerebrali che presiedono al movimento. Alla fine dell`esperimento, quattro pazienti che inizialmente erano stati classificati in stato vegetativo si dimostrarono in grado di modulare la propria attività cerebrale attraverso l'immaginazione mentale. Inoltre, un paziente che aveva subito un incidente con conseguente trauma cerebrale, classificato come paziente in stato vegetativo, aveva risposto correttamente, con la propria attività cerebrale, a 5 delle 6 domande autobiografiche. Il soggetto doveva rispondere pensando ad un tipo di immagine in caso di risposta affermativa (immagine motoria o immagine spaziale) e all'altro tipo di immagine in caso di risposta negativa.

14. The Multi Society Task Torce on PVS, Medical Aspects of the Persistent Vegetative State: First of Two Parts, in «New England Journal of Medicine» 330/ 21, pp. 1499-1508; 1572-1579.

15. Australian Government National Health and Medical Research Council, Post-coma unresponsiveness (vegetative state). A clinical framework for diagnosis. An information paper (18.12.2003); Veronika Montiel Boehringer, Estado vegetative (post-coma unresponsiveness): una condición poco comprendida, in «Medicina e Morale», 2010/1, pp. 75-109.

16. Comitato Nazionale per la Bioetica, L'alimentazione e l'idratazione in stato vegetativo persistente, Parere del 30 Settembre 2005.

17. Ministero della Salute, Libro bianco sugli stati vegetativi... , p. 7.

18. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. sull'eutanasia Iura et bona (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), IV, l. c., 551; Ioannes Paulus PP. II, Evangelium vitae (25.03.1995), par. 65.

19. Comitato Nazionale della Bioetica, I criteri di accertamento della morte, Parere del 24 giugno 2010.

20. Habermas J., Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002.

21. Lepicard E., Auschwitz nella prospettiva di Norimberga. Implicazioni mediche ed etiche, in E. Baccarini, Lucy Thorson (a cura di), Il bene e il male dopo Auschwitz. Implicazioni etico-teologiche per l'oggi, San Paolo,

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Milano 1998, pp. 205-223.

Beecher H.K., Ethics and clinical research, in «The New England Journal of Medicine», 1966, 274, pp. 1354-1360.

Alessandro Cordelli

Complessità e mondo dell'uomo

1. Introduzione

Gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati testimoni di una epocale rivoluzione nel pensiero scientifico, una rivoluzione che per certi aspetti non si è ancora pienamente conclusa, e le cui avvisaglie erano già presenti molto tempo prima di quel giorno d'inverno del 1961 in cui la corretta interpretazione di un apparente errore computazionale aprì la strada ad un cammino irreversibile nella storia della scienza. A proposito di questa rivoluzione si è parlato di caos, nonlinearità, olismo, frattali, catastrofi e altro ancora, ma il concetto che meglio racchiude ed esprime il carattere della nuova linea di pensiero è quello di complessità. Nel giro di poco tempo abbiamo dovuto accettare una serie di cambiamenti nella tradizionale visione della natura che, pur nella varietà degli ambiti di applicazione esplorati, fanno comunque capo a due fondamentali principi: gli effetti non sono proporzionali alle cause, e il tutto è qualcosa in più rispetto alla somma delle parti. Non che questi principi non fossero presenti nella scienza anche in precedenza, ma venivano considerati come caratteristiche non essenziali della natura, contingenze che con opportune approssimazioni potevano essere eliminate senza pregiudicare la profonda comprensione dei fenomeni. Invece gli sviluppi della nuova scienza hanno mostrato come la natura, dal livello dei costituenti elementari a quello dei sistemi biologici più strutturati fino alla rete delle relazioni sociali ed economiche umane, sia intrinsecamente e irriducibilmente complessa, cosicché ogni approssimazione che riporti la descrizione dei sistemi ad un modello con interazioni lineari e che separi una parte dal resto è destinata a mancare l'obiettivo di una corretta spiegazione dei fenomeni.

Il paradigma della complessità, molto più di tante altre rivoluzioni scientifiche, ha avuto importanti ricadute anche al di fuori dell'ambito delle scienze naturali, influenzando il pensiero moderno dai livelli più alti fino al senso comune, e ha fornito nuovi strumenti interpretativi per tutta la realtà. Naturalmente la critica al riduzionismo non nasce con la teoria del caos, ma questa ha fornito nuovi potenti strumenti di analisi concettuale per muoversi in tale direzione.

Lo scopo del presente lavoro è quello di mettere in evidenza alcuni degli aspetti della scienza della complessità che meglio possono intervenire nella riflessione sull'uomo. La discussione non ha pretese di sistematicità (un interno trattato non sarebbe sufficiente), ma vuole piuttosto essere un volo d'aquila, un'incursione sui vastissimi panorami concettuali che si sono aperti con lo studio dei sistemi complessi, cogliendo ed evidenziando qua e là aspetti che, si spera, possano rappresentare interessanti spunti per il lettore. Dopo aver quindi cercato di focalizzare la nostra attenzione sul concetto di complessità come emerge dalle scienze della natura, passeremo a vedere in quale senso l'uomo e il suo mondo sono complessi, evidenziando due aspetti fondamentali. In primo luogo l'uomo come creatura complessa, non solo e non tanto come qualsiasi essere vivente, ma anche e soprattutto perché ciò che lo caratterizza e distingue dal resto dei viventi, gli aspetti immateriali del pensiero e della coscienza, ha sostanzialmente il carattere della complessità. Ma non solo l'uomo è complesso in sé, egli è anche creatore di complessità. Ogni sistema sociale e culturale ha in sé eminentemente la ricchezza e l'irripetibilità proprie della complessità. Ed è a questo punto che la riflessione, partita dal piano della filosofia naturale e passata poi su quello antropologico, approda a quello etico. La comprensione dei sistemi umani come sistemi complessi svela il profondo nichilismo delle molte operazioni a cui siamo quotidianamente costretti ad assistere, volte a omologare (con le buone o con le cattive) la totalità delle manifestazioni umane ad un unico modello

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culturale, politico ed economico.

2. L'orizzonte della complessità

Contrariamente a quanto accade per molti dei concetti su cui si basano le teorie scientifiche, per la complessità esiste un serio problema di definizione. Uscendo poi dal recinto fisico matematico, la nebbia che sfuma i contorni dell'oggetto dell'indagine si fa ancora più fitta. Alla ricerca di un punto di partenza, un aggancio, un centro intorno a cui costruire la riflessione, facciamo quindi la cosa più ovvia (ma non per questo la meno opportuna) che di solito si fa in queste circostanze.

Complessità: s. f., modo di essere o di presentarsi (dovuto generalmente a profondità, minuziosità, disposizione o svolgimento necessariamente complicati) che rende difficile l'orientamento o la comprensione: la c. di un ragionamento, di una situazione.

È questa la definizione di complessità fornita da un dizionario della lingua italiana1 che dovrebbe riflettere il significato del termine nel linguaggio comune. Essa però non ci dice cosa è la complessità, ma solo quale è il nostro rapporto di soggetti conoscenti con essa: il complesso è ciò che indubitabilmente è, ma altrettanto indubitabilmente non si lascia afferrare totalmente; a seconda dei contesti sarà causa di sconforto, paura, preoccupazione, ma anche meraviglia e stupore.

I due termini 'semplice' e 'complesso' si appoggiano l'uno sull'altro. Pensiamo il semplice come opposto al complesso, ma anche il complesso può essere pensato a partire dal semplice. Non esiste una valenza di neutralità: il non semplice è complesso e il non complesso semplice. Semmai si tratta di un confine mobile. Ciò che per me appare semplice per un altro può essere complesso, e anche la stessa persona può giudicare in due diversi momenti esistenziali lo stesso dato o insieme di dati ora come semplice, ora come complesso. La complessità è quella regione dove la parte analitica del pensiero si smarrisce. Potremmo forse dire che è legata alla molteplicità delle relazioni e degli agenti, ma è facile riconoscere che esistono situazioni estremamente complesse con poche variabili. Addirittura, la complessità come scienza2 nasce con un sistema avente solo tre gradi di libertà.3 E tuttavia è sicuro che un sistema formato da un unico ente, senza alcuna relazione con null'altro, è semplice; lo è per la matematica e per la fisica come per la mentalità comune. Se allora l'unico, l'irrelato, è il semplice, la relazionalità è sicuramente una condizione di complessità: dove c'è complessità c'è relazione. Ma esiste l'unico, l'irrelato, il semplice, nella realtà? Da un punto di vista fenomenologico la domanda non ha senso: un tale ente, se pure esistesse, sfuggirebbe alla percezione, all'indagine scientifica, più in generale a qualsiasi possibilità di conoscibilità. Ogni ente infatti, deve necessariamente avere la capacità di interagire ad un qualsiasi piano dell'organizzazione del reale (materiale o immateriale) altrimenti la sua esistenza è un «per sé" completamente scorrelato dal resto dell'Universo. Quindi ogni ente è relazionale e strutturato, pertanto potenzialmente complesso (o almeno capace di partecipare alla complessità).

Si potrebbe pensare che passando dal piano generale ontico a quello più delimitato degli oggetti che cadono nel campo di indagine delle scienze positive la comprensione della complessità come concetto sia più agevole e si possa anche giungere a formularne una definizione soddisfacente ed esaustiva. In realtà questo non accade. E il fatto che sia così difficile definire la complessità utilizzando le categorie galileiane non dovrebbe poi stupirci più di tanto: infatti la scienza occidentale moderna si è sviluppata su una linea diametralmente opposta a quella della complessità, vale a dire seguendo il paradigma del riduzionismo. Da Galileo in poi, ridurre e separare è stato un procedimento che ha permesso di raggiungere grandissimi risultati: nel fenomeno naturale si individuano alcune variabili di interesse trascurando tutte le altre e si descrivono le loro relazioni reciproche mediante un modello matematico basato su equazioni possibilmente lineari (cioè tali che la risposta sia proporzionale alla sollecitazione). Dunque riduzione, separazione, linearizzazione: questi i canoni di un paradigma da cui emerge la semplicità più che come dato di realtà come operazione del pensiero (quindi non semplicità ma semplificazione). Così uno stesso sistema presenta un comportamento lineare se ci riferiamo a un sottoinsieme delle variabili che lo descrivono e sotto particolari condizioni al contorno, ma complesso se allarghiamo l'orizzonte della nostra indagine ad altri aspetti. Prendiamo ad esempio il problema classico della meccanica celeste. L'orbita di un pianeta attorno al Sole è ben descritta dalle equazioni di Newton per il problema dei due corpi4 che ne permettono una esatta e completa risoluzione. Se però andiamo a vedere il reale effettivo moto di un pianeta, osserviamo che la sua orbita è perturbata dalla vicinanza degli altri corpi celesti,5 in modo tale che deve essere considerata l'evoluzione del sistema solare come un tutto. Tale evoluzione presenta tutti i caratteri della complessità6 e non ammette quindi una descrizione matematica completa ed esaustiva. Per i primi quattro secoli della scienza occidentale moderna questa limitazione non ha rappresentato un grosso problema, anche perché tutti i sistemi studiati erano 'naturalmente' riducibili e separabili (nel senso che le variabili trascurate danno origine a effetti quantitativamente ridotti rispetto all'entità del fenomeno principale) e 'naturalmente' lineari

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(nel senso di essere governati da equazioni in cui il contributo dei termini non lineari è largamente inferiore a quello dei termini lineari). Poi, negli ultimi decenni del secolo appena conclusosi (ma con forti indizi già a partire dai pionieristici lavori di Poincaré7 a cavallo tra otto e novecento), l'indagine scientifica si è trovata di fronte ad una classe totalmente nuova di sistemi, intrinsecamente non riducibili, non separabili, non lineari. Sistemi la cui evoluzione è sostanzialmente non predicibile con i tradizionali strumenti matematici e che presentano fenomeni di emergenza di nuove proprietà e di organizzazione spontanea, gli stessi caratteri all'origine della vita. E la cosa veramente notevole è che tali sistemi non sono peculiari di una o l'altra delle tradizionali divisioni tassonomiche della scienza (chimica organica, fisica dei solidi, biologia molecolare, etc.) ma si ritrovano, legati da forti analogie strutturali, nei campi più disparati: dalla cosmologia8 ai modelli sociali,9 dalla biologia10 alla meteorologia,11 solo per citarne alcuni. Si può dunque affermare che con la nascita della scienza della complessità12 le categorie epistemologiche devono essere radicalmente ripensate. Con tutto questo, se da più parti si fanno tentativi e si cerca di muoversi nella direzione della ricerca di paradigmi qualitativamente nuovi13 e strumenti matematici alternativi,14 una buona parte della comunità scientifica è ancora convinta che la complessità vada comunque affrontata con l'approccio tradizionale del riduzionismo, in quanto la completa conoscenza dei costituenti elementari di un sistema è ciò che occorre e basta per risalire ad ogni comportamento o fenomeno che esso possa esibire.15

A partire dai primi pionieristici lavori di E. Lorenz16 sui semplici modelli non lineari meteorologici moltissimi sistemi fisici, biologici, sociali sono stati studiati sotto un'ottica non riduzionista, ma a tutt'oggi, una definizione chiara ed esaustiva del concetto di complessità non esiste;17 ciononostante le varie definizioni proposte tengono conto ora dell'uno ora dell'altro degli aspetti caratterizzanti i sistemi complessi.18 Fondamentale è la definizione di Kolmogorov19 della complessità di un oggetto come la minima quantità di informazione necessaria a programmare un calcolatore per produrre l'oggetto. Sebbene questa definizione sia strettamente applicabile solo ad enti matematici, essa può essere estesa anche ad oggetti naturali; ad esempio per un essere vivente tale informazione sarà rappresentata dal suo DNA.20 A partire da questa definizione molti studi sono stati effettuati per misurare la complessità di enti matematici e sistemi fisici,21 ma questo tipo di complessità 'algoritmica' presenta comunque un limite: sistemi completamente casuali (come il testo che si otterrebbe facendo battere una scimmia sui tasti di una macchina da scrivere) danno origine ad elevati valori della complessità misurata, mentre sistemi realmente complessi, come un fiocco di neve, ma che vengono generati da regole brevi e compatte risultano essere molto semplici. Il problema è in effetti quello di misurare il significato più che l'informazione. Anche se tentativi in questo senso sono stati fatti,22 una cornice teorica soddisfacente ancora manca. Una alternativa alla misura 'algoritmica' della complessità è la complessità 'descrittiva',23 cioè la quantità di informazione necessaria per descrivere la sua struttura apparente. Questa nozione è meno univoca della precedente, e anche se evita inconvenienti tipo quello del fiocco di neve, ne presenta altri, di cui il principale è la dipendenza da una particolare procedura descrittiva (che naturalmente, per essere oggettiva, non deve tuttavia ricadere nella descrizione del programma che genera l'oggetto su una macchina calcolatrice). Altre definizioni, poi, che potremmo chiamare complessità 'procedurale', utilizzano come misura la quantità di risorse (ad esempio la memoria di lavoro) utilizzate dal calcolatore durante l'esecuzione dell'algoritmo per la generazione dell'oggetto.24

Tutte le definizioni proposte per la misura della complessità, se colgono correttamente alcuni aspetti dei sistemi complessi, ne perdono altri, e inoltre misure diverse applicate allo stesso oggetto (ad esempio un filamento di DNA) possono dare risultati anche molto differenti tra loro. Tuttavia, il fatto che non sia stato ancora stabilito un metodo univoco per la misura della complessità non significa che non se ne siano capiti aspetti importanti; d'altra parte è proprio una delle caratteristiche dei sistemi complessi quella di sfuggire alla predittività matematica, quindi perché stupirsi se la complessità stessa è così refrattaria a farsi rinchiudere nella gabbia di una definizione quantitativa?

3. Uomo e complessità

Le precedenti considerazioni non rappresentano una trattazione esaustiva delle problematiche riguardanti definizione e misura della complessità matematica, ma chiariscono i caratteri fondamentali del nuovo paradigma; chiarificazione indispensabile prima di affrontare una riflessione su come queste idee, inizialmente confinate all'ambito degli oggetti matematici e dei sistemi fisici, abbiano avuto un impatto dirompente sul pensiero degli ultimi decenni e ci costringano a rivedere le nostre prospettive sull'uomo e sul suo mondo. Ci sembra di poter indicare due fronti di rilevanza antropologica della complessità: uno interno che riguarda l'uomo come ente intrinsecamente ed essenzialmente complesso, l'altro esterno che riguarda il mondo dell'uomo: quella realtà di relazioni sociali, economiche, produttive, culturali, che ha tutti i caratteri della complessità (tanto che è proprio in questo ambito che si hanno alcune delle applicazioni più

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interessanti della nuova scienza). Spostiamo dunque la nostra attenzione sull'uomo e iniziamo a farlo dalla sua più profonda radice ontologica.

4. L'uomo come creatura complessa

L'imprevedibilità, la gratuità, la ricchezza tipiche dei comportamenti dei sistemi complessi suggeriscono potenti analogie con il carattere essenzialmente non deterministico e libero dell'agire umano. Tuttavia, le tentazioni riduzionistiche in questo campo portano ad un duplice rischio, come ben evidenziato da Searle25 nei suoi studi sulla natura della coscienza; due posizioni diametralmente opposte che però, ad una più approfondita analisi, risultano essere le due facce della stessa medaglia: una non corretta interpretazione del cambiamento sostanziale e qualitativo che la scoperta dei sistemi complessi ha portato nella visione del mondo. Da una parte infatti, possiamo accogliere l'analogia fino al punto di accettare l'idea che i comportamenti liberi e coscienti siano totalmente compresi nell'alveo del sottostante livello biochimico e abbracciare così la visione materialista nelle varie direzioni in cui si è sviluppata.26 Portando coerentemente alle estreme conseguenze questa posizione si arriva a quella forma di materialismo 'evoluto' che è alla base dell'ipotesi dell'intelligenza artificiale forte,27 secondo cui la mente sta al cervello come il programma sta all'hardware (la conseguenza più notevole di tale ipotesi è che la coscienza e gli stati mentali di un uomo potrebbero essere trasferiti su qualsiasi sistema in grado di «eseguire il programma»). A parte argomenti di critica tecnicamente specifici che esulano dai fini della presente trattazione, osserviamo che comunque il fatto che la biochimica del cervello sia governata dalle leggi non deterministiche della fisica quantistica o che la dinamica neuronale sottostante sia non lineare non implica necessariamente la libertà e la coscienza. Tali aspetti, eminentemente umani, non sono causati dalla contingenza fisica, ma la precedono ontologicamente e la trascendono. Non è certo da classificare come libero il comportamento di un elettrone in un diodo solo perché non deterministico. La nostra esperienza quotidiana è ricca di dispositivi (si pensi al LASER o ai circuiti a semiconduttori) che fondano il loro funzionamento sui principi quantistici e tuttavia fanno esattamente quello per cui sono stati costruiti e programmati. L'agire umano appare invece ordinato e finalizzato a molteplici obiettivi che si dispiegano su orizzonti più o meno ampi.

Se dunque l'accettazione di una analogia troppo stretta tra indeterminismo delle leggi fisiche e libertà dell'uomo conduce al materialismo, dall'altra parte il rifiuto di considerare la genuina emergenza di nuovi livelli ontologici a partire da dinamiche sottostanti non lineari, ci fa ricadere nel dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa e nell'ipotesi di un principio immateriale completamente scorrelato dalla materialità della struttura. Questa visione, intrisa di un platonismo un po' ingenuo, non ha molte basi critiche su cui fondarsi; in particolare chi scrive non condivide la tendenza di alcuni autori a fondare dimostrazioni della necessità di un principio immateriale che sia alla base dell'agire libero a partire dalle stesse leggi della fisica.28 Più convincente appare allora la prospettiva di chi, come Searle,29 considera la coscienza come un fenomeno intrinsecamente non riducibile, una proprietà emergente, che ha un carattere nuovo e ontologicamente differente rispetto ai costituenti del sistema. È precisamente in questo senso che viene fuori una certa immaterialità, senza tuttavia richiedere l'intervento di entità di carattere extramateriale.

Ad ogni modo, quale che sia la posizione che si voglia abbracciare sul problema del rapporto mente-corpo, la complessità di cui è profondamente intrisa la natura umana è un dato incontestabile sul piano fenomenologico, cioè, secondo la celebre definizione di Husserl,30 una «visione originalmente offerente» che rappresenta «una sorgente legittima di conoscenza», ponendo naturalmente la massima attenzione al fatto che tale dato «è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà». Vediamo allora che, pur lasciando volutamente aperta la questione se la complessità possa essere pensiero, sicuramente potremo asserire che il pensiero richiede la complessità. Cioè la complessità è condizione di possibilità dell'agire umano: solo un sistema che abbia una reale facoltà di molteplici scelte, azioni, comunicazioni, può sostenere l'agire umano nel mondo, con tutta la immaterialità e spiritualità che lo caratterizza. Dunque, c'è un dato fenomenologico la cui evidenza si impone in maniera inconfutabile, ed è rappresentato da tutti quegli aspetti di immaterialità e spiritualità caratteristici dell'Uomo, immaterialità e spiritualità che richiedono un supporto materiale sufficientemente complesso per potersi esprimere, una sorta di materia nobile. L'essenza dell'uomo, superiore a tutto ciò che costituisce l'Universo sensibile, per attualizzarsi richiede una materia che non sia materia qualunque, ma materia complessa, sufficientemente complessa, complessa oltre una certa soglia che renda possibile un pensiero che si rapporti con lo spazio e il tempo, ma che da sola non è pensiero, non più di quanto lo sia la rete telefonica mondiale o il sistema globale di scambi economici e relazioni produttive.

Il punto focale della riflessione si sposta quindi sull'origine di questa complessità, così preziosa e necessaria, anche se non sufficiente a spiegare l'essenza dell'uomo. È casuale? È il frutto di una serie di circostanze fortuite che hanno portato l'evoluzione a produrre l'homo sapiens oppure c'è un carattere di necessità in tutto ciò? L'uomo è una «opportunità colta al volo»31 tra gli innumerevoli percorsi potenziali dell'evoluzione

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della vita sul nostro pianeta? In termini ancora più essenziali, il meraviglioso ordine biologico che si è sviluppato dagli archeobatteri fino a quella materia nobile in grado di essere una casa per lo spirito, ha unicamente un'origine darwiniana? È contingente? Avrebbe potuto non realizzarsi mai se solo il clima dell'Africa centrale di 15 milioni di anni fa fosse stato per esempio un po' più secco o un po' più umido? Fino a non molto tempo fa la risposta a tutte queste domande era positiva, in accordo con le posizioni ufficiali della biologia teorica, secondo cui l'evoluzione darwiniana è tutto ciò che serve per spiegare i caratteri della storia della vita sulla Terra, dalle origini ad oggi, uomo compreso. Recentemente però, sulla scia della scienza della complessità, nuove originali posizioni sono sorte32 secondo cui il meccanismo darwiniano di mutazione fortuita e pressione selettiva non è da solo sufficiente a spiegare l'insorgenza dell'ordine biologico e tantomeno il suo sviluppo. Risulta che la complessità è una tendenza ineliminabile connaturata a tutti i sistemi in grado di differenziarsi e stabilire relazioni, come ad esempio una rete di reazioni chimiche o un ecosistema o anche uno scenario tecnologico produttivo. Per quei sistemi sufficientemente complessi da porsi sul confine tra ordine e disordine (sull'orlo del caos), l'autorganizzazione sorge spontaneamente e gratuitamente, e da lì in avanti innumerevoli potenziali percorsi si affacciano all'orizzonte dell'essere. L'evoluzione, poi, orienterà le contingenze di queste storie, ma in nessun modo potrà influire sulla direzione di tale movimento, che punta verso la massima ricchezza, varietà, complessità. Vi è dunque un telos nello sviluppo della vita, implicito fin dalle prime reti autocatalitiche di reazioni tra molecole organiche nei mari di 3, 8 miliardi di anni fa, una strada che porta all'uomo, pur attraverso una imprevedibile serie di contingenze. È proprio l'evidenza di questo fine, così profondamente inciso nelle leggi della materia inanimata, che fa dire a Kauffman che siamo «A casa nell'Universo»,33 nel senso di una riscoperta del senso più profondo del nostro essere nello spazio tempo, dopo che negli ultimi quattro secoli eravamo passati dal ruolo di specialissime creature create da Dio a propria immagine e poste nel centro geometrico dell'Universo, a quello di una tra le tante specie animali, selezionata fortuitamente, manifestazione di un fenomeno chiamato 'vita', realizzatosi casualmente su un pianeta non troppo grande di una insignificante stella periferica in una galassia simile a moltissime altre sparse qua e là in un Universo senza alcun centro, né geometrico né di altra natura.

5. Complessità e gratuità

La complessità è ordine disordinato e disordine ordinato. Ordine perché ogni cosa è al suo posto e non si può modificare nulla senza che la funzione dell'intero sistema ne risulti compromessa, disordine perché in tutto ciò non vi è regolarità. L'ordine è la notte, la morte, il silenzio. Anche il disordine è notte, morte, silenzio. Nell'ordine totale, come nel disordine totale, non è possibile né lo spazio né il tempo; i due estremi sono esattamente equivalenti: dove non è possibile evidenziare una diversità, un punto di riferimento che rompa l'uniformità della situazione circostante non si può parlare di distanze e neanche di prima e dopo. Lo spazio e il tempo richiedono la complessità; la storia è un evento complesso, e senza un substrato complesso non avrebbe senso parlare di storia (anche naturale), basterebbero le leggi dell'ordine o il silenzio del disordine.

Se la vita è complessa, la morte è intimamente necessaria alla complessità. La vita è altro dalla cristallizzazione dell'ordine e dall'indifferenza del disordine, ambedue senza tempo. Le strutture aperte che si formano in virtù delle molteplici interazioni, proprio a causa di esse, ad un certo punto devono dissolversi e liberare le risorse materiali che hanno occupato per permettere ad altre strutture di formarsi. Non può essere diversamente, senza questo necessario carattere la stessa complessità non potrebbe sussistere. Una struttura che gratuitamente appare gratuitamente scompare per permettere ad altre strutture di sorgere spontaneamente e gratuitamente. La stessa vita, forse, ha questo destino.34

Da queste considerazioni si capisce come la gratuità sia un concetto intimamente connesso alla complessità. Quella stessa gratuità che sul piano antropologico emerge ad una attenta analisi fenomenologica dal continuo bisogno d'essere dell'uomo, cioè come ontologia indigenziale,35 può essere vista su uno sfondo più ampio, che abbraccia (quantomeno) l'intero mondo della vita. In effetti, in un sistema di enti e relazioni sufficientemente ricco, gratuitamente emergono strutture e proprietà a priori non prevedibili, una realtà totalmente nuova in nessun modo riducibile al precedente livello ontologico.

6. L'uomo come costruttore di complessità

L'uomo, creatura complessa, tende naturalmente a formare e creare sistemi complessi. Tali sono le reti di rapporti personali e sociali, la struttura economica, l'organizzazione del lavoro, il sistema politico. Ci troviamo quindi di fronte ancora a un dato fenomenologicamente evidente: l'universo dell'uomo non è un universo a risposta lineare. Non lo è prima di tutto egli stesso -- l'uomo -- in quanto vivente, non lo è egli stesso in quanto capace di pensiero, non lo è infine la sua cultura e il mondo che egli si costruisce. Malgrado

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questo, vi è un anelito sempre presente alla riduzione, alla semplificazione, alla linearizzazione. Non accettando l'irriducibile complessità che permea il suo mondo, l'uomo ha molte volte percorso la strada della riduzione e separazione, non capendo che, una volta spaccata, la complessità non è più tale e il dato risulta destinato all'incomprensibilità. In altri casi invece egli ha rivolto i suoi sforzi ad abbracciare il tutto senza volerlo dominare e sovrastare, ma accettando quello che del tutto riesce a cogliere.

Vi sono profonde analogie strutturali tra un sistema complesso naturale (come ad esempio una cellula) e l'insieme dei rapporti in una qualsiasi comunità umana. In ambo i casi abbiamo una rete di relazioni tra singoli agenti in cui la presenza di ognuno di essi influenza un certo numero di relazioni, o perché ne prende attivamente parte, o perché ne rappresenta una delle condizioni di possibilità. Si tratta inoltre di sistemi aperti, che si sostengono sulla base di scambi con il mondo in cui sono immersi. Sotto quest'ottica si capisce bene quale sia l'effettivo e profondo valore della diversità. Per meglio chiarire questo concetto utilizziamo una analogia biologica,36 considerando semplici sistemi di molecole organiche interagenti tra loro (il probabile meccanismo che diede origine alla vita sulla Terra). In molti casi una miscela di specie diverse raggiunge una configurazione di equilibrio nella quale nessuna specie nuova si crea e le concentrazioni delle specie esistenti rimangono costanti. Però può accadere che alcune specie che partecipano direttamente a certe reazioni possano giocare anche il ruolo di «facilitatori» per altre reazioni. Aumentando il numero di specie coinvolte e di possibili reazioni chimiche oltre un certo valore di soglia si osserva un rapido incremento di complessità. Da qui in poi il sistema può evolvere, aumentare la propria diversità, esplorare imprevedibili regioni (o anche ripiombare nella morte dell'equilibrio).

La diversità è la radice genetica della complessità; intervenire su un sistema per ridurne la diversità significa tagliare alla base le possibilità di una evoluzione che si sviluppi creando novità. Non necessariamente un tale intervento avrà sempre una valenza etica negativa, ma sicuramente la avrà quando lo si applica alle culture umane. Se infatti uno dei caratteri della complessità è la creazione irreversibile di strutture sempre nuove che una volta sparite non si riproporranno più negli stessi termini, vi sarà, in maniera analoga alla preziosità dell'individuo irripetibile, una preziosità irripetibile delle culture. E quindi, poiché la complessità è ordine gratuito che appare e si sviluppa purché vi sia sufficiente diversità, distruggere tale diversità, imporre l'omologazione in nome di una presunta consapevolezza di avere in mano il migliore dei modelli possibili, significa negare le stesse basi ontologiche del mondo dell'uomo. Le implicazioni etiche di queste considerazioni sono di drammatica attualità. L'etica e la politica del mondo moderno sono fondate sul soggetto, sul vuoto cogito cartesiano, autoreferenziale, che trova il suo perfetto compimento nell'enunciazione del principio per cui senza il riconoscimento di un'idea di cui «non posso essere io stesso la causa [...] non avrò proprio nessun argomento che mi possa rendere certo dell'esistenza di una qualche cosa diversa da me».37 È chiaro come in questa prospettiva la diversità non solo non rappresenti un valore, ma anzi la sua cancellazione permetta al soggetto di ridurre il tutto a sé.

Nella loro imprevedibilità e ricchezza i sistemi complessi sono estremamente fragili. Essi, in quanto sistemi aperti, dipendono in maniera critica dalle condizioni al contorno. Una cultura umana è una complessa struttura di agenti in interazione, fortemente dipendente dal contesto in cui è immersa. Sulla scala del gruppo ritroviamo quella preziosità e irripetibilità che caratterizza il singolo. In maniera irripetibile e irreversibile si crea, come polpa di un frutto intorno a ciò che è più essenzialmente e profondamente umano, un complesso di saperi, forme, tradizioni, che è ricchezza del gruppo ma che -- una volta conosciuto -- lo è per il resto della famiglia umana. E proprio questa potrebbe essere la maniera corretta di vivere la mondialità: non tentativo egemone di una sola cultura di ridurre tutte le altre ai propri modelli economici e politici, ma interazione reciproca nel rispetto delle peculiarità, magari superando la fase meramente conoscitiva per sperimentare inedite contaminazioni. Si tratta in fondo della risposta alle contraddizioni della cultura occidentale di chi oppone al paradigma della soggettività quello della reciprocità,38 superando anche il concetto stesso di «tolleranza» (che già nella sua etimologia ha il senso negativo di sopportazione di un peso) per sostituirlo con quello di «convivialità». D'altra parte, questa esigenza di un profondo mutamento sul piano valoriale che oramai non è più esclusivo patrimonio di poche avanguardie particolarmente sensibili e illuminate, si manifesta sempre più spesso in concrete battaglie politiche39 e proposte economiche effettivamente alternative.40 Questa diversità, che nasce nella varietà delle culture umane e al tempo stesso è la condizione di possibilità per lo sviluppo di quelle culture, è dunque ricchezza autentica, irripetibile, irreversibile. È ricchezza autentica perché profondamente radicata nell'esperienza, spesso inconsapevole, di generazioni nel corso dei secoli, stratificazione di innumerevoli contributi. Legata alla terra, al mare, alla vita, inconsapevolmente conscia, in un modo misterioso, di molte delle acquisizioni della ratio dianoetica riguardanti il paradigma della complessità.41 Diversità che è ricchezza irripetibile per l'impossibilità oggettiva di ricreare due volte le stesse condizioni. Non ci si illuda, pentimenti tardivi non potranno in alcun modo riavvolgere la pellicola della storia. È inscritto nelle più profonde leggi della complessità, è la nonlinearità per cui una piccola perturbazione riesce ad influenzare radicalmente tutta l'evoluzione di un sistema. Per gli stessi motivi la diversità è ricchezza irreversibile: quando per effetto di una spinta esterna l'equilibrio dinamico di un sistema si rompe e la sua struttura passa ad altro, non sarà

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possibile né invertendo il segno della spinta né in alcun altro modo ripercorrere a ritroso gli stessi passi; sarebbe come voler far rivivere il cadavere di un annegato semplicemente svuotandogli i polmoni dall'acqua.

Appare dunque chiaramente come la tendenza all'omologazione, la mondialità a senso unico, l'imposizione di un modello economico, politico e culturale egemone, abbia il carattere della distruzione, della riduzione al nulla, al non essere, della perdita irreversibile, di un impoverimento generale dell'umanità. Se a questa forma di nichilismo aggiungiamo il fatto che la colonizzazione culturale è accompagnata dall'imposizione in agricoltura di estese monoculture, dalla deforestazione, dalla pesca effettuata con metodi intensivi, dal deterioramento degli ecosistemi a causa dell'inquinamento, si vede come la distruzione si porti dal piano immateriale delle culture a quello concreto della diversità biologica. Il danno per l'uomo è duplice: in quanto soggetto culturale nel primo caso, e in quanto essere vivente partecipante alla biosfera nel secondo. Guardando questa preoccupante situazione sotto la lente della complessità possiamo cogliere ulteriori aspetti che danno pienamente conto della portata della sfida a cui siamo chiamati. Invece, nella miope visione riduzionistica la ricchezza della diversità non è percepita come tale, e la complessa rete di agenti e relazioni che forma il sistema delle relazioni umane è vista solo come un limitato insieme di «qui ed ora» nelle immediate vicinanze del soggetto che, pur essendo uno tra i tanti in una rete chiusa su se stessa e quindi senza centro né periferia, nutre l'illusoria convinzione di occupare una posizione privilegiata.

Note

1. G. Devoto, G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze (1971).

2. James Gleick, Caos, Rizzoli, Milano (1989).

3. E. Lorenz, Deterministic nonperiodic flow, Journal of the Atmospheric Sciences, 20, 130 (1963).

4. B. Bertotti, P. Farinella, Physiscs of the Earth and the Solar System, Kluwer Academic Publishers (1990), cap 10.

5. Ibidem, cap. 11.

6. Ibidem, § 15. 2.

7. Si veda ad esempio la raccolta di scritti Geometria e Caso, Bollati Boringhieri, Torino (1997).

8. Si veda a proposito lo storico lavoro di Freeman Dyson sul futuro dell'Universo: F. J. Dyson, Rev. Mod. Phys., 51, 447, (1979); ma anche M. L. Kraus, G. D. Starkman, Qual è il destino della vita nell'Universo? , in Le «Scienze», 378, (2002). Si veda inoltre L. Pietronero: La struttura frattale dell'Universo, in «Le Scienze», 354 (1998).

9. Lo studio matematico dei comportamenti sociali, che tanta importanza riveste nella scienza della complessità, trova la sua pietra miliare nei lavori pionieristici di von Neumann sulla teoria dei giochi, idee che sono mirabilmente esposte in J. Von Neumann, O. Morgenstern, Theory of Games and Economic Behavior, Princeton University Press, New Jersey 1944.

10. A partire dagli storici lavori di Volterra e Lotka (V. Volterra, Atti Accad. naz. Lincei Memorie, 2, 31, 1926 e A. J. Lotka, J. Wash. Acad. Sci., 22, 461, 1932) sui modelli non lineari in biologia, la produzione sull'applicazione della scienza della complessità in biologia è stata vastissima, qui ricordiamo solo una delle ipotesi più suggestive, ovverosia il pianeta vivente, Gaia, in J. E. Lovelock, L. Margulis, Atmospheric Homeostasis by and for the Biosphere: the Gaia Hypothesis, in «Tellus", 26, 2-9 (1974).

11. J. P. Peixoto, A. H. Oort, Physics of Climate, in «Rev. Mod. Phys.», Vol. 56, 3 (1984)

12. Una esposizione divulgativa di buon livello è rappresentata dal celebre testo di H. Haken: Sinergetica -- Il segreto del successo della natura, Bollati Boringhieri, Torino (1983).

13. Per esempio, un tentativo molto interessante è quello di affrontare lo studio della biologia partendo da oggetti elementari puramente biologici, cioè non ulteriormente riducibili a sistemi fisici più semplici, illustrato in Galleni L., Forti M., An axiomatization of biological concepts within the foundational theory of E. De Giorgi, in «Rivista di Biologia/Biology Forum», 92, 77 (1999).

14. G. Basti & A. L. Perrone, Le radici forti del pensiero debole, Il Poligrafo, Padova (1996).

15. Mi sembra a tal proposito particolarmente significativo un episodio di cui io stesso sono stato testimone. Di fronte a una platea di insegnanti di fisica delle scuole medie superiori, uno stimato fisico teorico durante una conferenza sull'importanza dello studio delle particelle elementari disse che, tra le altre cose, la conoscenza dei mattoni fondamentali della materia permetterà prima o poi di comprendere tutti i fenomeni posti a un livello di organizzazione più elevato: da quelli chimici, a quelli biologici, e -- passando per la neurofisiologia -- fino alla psiche dell'uomo!

16. E. Lorenz, cit.

17. P. Musso, Filosofia del caos, Franco Angeli, Milano (1997), p. 41.

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18. C. H. Bennet, Dissipation, Information, Computational Complexity and the Definition of Organization, D. Pines ed., 1987, pp. 215-231.

19. A. N. Kolmogorov, Three Approaches to the Definition of the Concept of the Amount of Information, Problemy Peredachi Informatsii 1: 1, 293-302 MR. # 2273 (1965).

20. R. Nobili, The Conceptual Basis of Theoretical Biology, in «Annales Biotheoretici», 14, 1, (1997).

21. Per esempio, la complessità di un oggetto può essere valutata dal rapporto tra la lunghezza della sua descrizione e la lunghezza di tale descrizione dopo essere stata compressa per mezzo di un opportuno algoritmo, come illustrato in: F. Argenti, V. Benci, P. Cerrai, A. Cordelli, S. Galatolo and G. Menconi, Information and Dynamical Systems: a Concrete Measurement on Sporadic Dynamics; Chaos, Solitons and Fractals, 13, 461-469, (2002).

22. A. Cordelli, L. Galleni, Towards a Definition of Meaning in Biology: a Proposal for an Operative Definition, in «Rivista di Biologia/Biology Forum», 145, 96 (2003).

23. R. Penrose, La mente nuova dell'imperatore, Rizzoli, Milano (1992).

24. R. Nobili, cit., p. 18.

25. J. Searle, La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino (1994).

26. J. Searle, cit., cap 2.

27. Una magistrale illustrazione di questa posizione si trova nel classico D. R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un'Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano (1990), che unisce al rigore espositivo uno stile gradevole e divulgativo.

28. M. Zatti, Dolore innocente, libertà, caso: riflessioni di filosofia naturale, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», ISSN 1128-5478 (2004).

29. J. Searle, cit.

30. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (trad. it. di E. Filippini), Einaudi, Torino (1965).

31. J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano (1970).

32. S. Kauffman, The origins of order, Oxford University Press, New York (1993).

33. S. Kauffman, A casa nell'universo, Editori Riuniti, Roma (2001).

34. M. L. Kraus, G. D. Starkman, cit.

35. Si veda a tal proposito la dettagliata discussione su questi temi di E. Baccarini in La persona e i suoi volti, Anicia, Roma (2003), come pure in La soggettività dialogica, Aracne, Roma (2002).

36. S. Kauffman, A casa nell'universo, cit., cap. III.

37. Cartesio, Meditazioni metafisiche (a cura di Lucia Urbani Ulivi), Rusconi, Milano (1998), p. 197.

38. E. Baccarini, La persona e i suoi volti, cit., cap X.

39. Si veda ad esempio il racconto della lotta degli agricoltori francesi per la salvaguardia delle produzioni di qualità in: Josè Bovè e François Dufour, Il Mondo non è in vendita, Saggi Universale Economica Feltrinelli, Milano 2001.

40. N. Roozen, F. van der Hoff, Max Havelaar -- L'avventura del commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano (2003).

Le comunità rurali, anche nelle aree sottosviluppate del sud del mondo, trovano spesso il loro equilibrio all'interno di un sistema integrato che ha tutti i caratteri della complessità e che è formato, oltre che dall'uomo da una grande varietà di specie vegetali e animali. Per queste comunità l'incontro con i grandi gruppi transnazionali alimentari, del legname e delle sementi, che impongono monoculture intensive con mezzi industriali di specie molto spesso estranee all'ecosistema locale, quando non addirittura geneticamente modificate, comporta invariabilmente esiti di estrema drammaticità. L'avvincente descrizione dei sistemi produttivi dei villaggi rurali indiani confrontati con quello delle società multinazionali si trova nell'ormai classico: Vandana Shiva, Monoculture della Mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

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Mirko Di Bernardo

Simulazione informatica e vita artificiale. È possibile per l'uomo creare la vita reale?

1. Premessa

Alla luce dei buoni risultati ottenuti dalle ricerche attuali nel campo della filosofia della biologia e delle affascinanti prospettive aperte dalla post-genomica, si sta assistendo, negli ultimi anni, ad una rivisitazione di quelli che sono ormai i veri e propri classici della biologia del novecento, vale a dire i lavori di Monod, Crick e Jacob.1 Questa rivisitazione sta, attualmente, mettendo in luce come questi grandi scienziati, con le loro geniali intuizioni, abbiano cambiato radicalmente il volto della biologia contemporanea iniziando, per alcuni aspetti, il cammino stesso della filosofia della biologia.

Monod offre alla biologia contemporanea la possibilità di costruire un nuovo paradigma e di individuare un codice per esso: egli presenta la teoria molecolare del codice come teoria generale degli esseri viventi, ovvero di quegli «oggetti strani» che si distinguono da tutti gli altri oggetti dell'universo in quanto dotati di teleonomia, morfogenesi autonoma e invarianza riproduttiva. Gli organismi viventi, dunque, sono «unità funzionali coerenti ed integrate in grado di costruirsi da sé»:

La struttura di un essere vivente [...] deve tutto, dalla forma generale fino al minimo particolare, a interazioni morfogenetiche interne all'oggetto medesimo. [...] Struttura che testimonia un determinismo autonomo, preciso, rigoroso, che implica una libertà quasi totale verso agenti o condizioni esterne, capaci di ostacolare questo sviluppo ma non di dirigerlo né di imporre all'oggetto vivente la sua organizzazione.2

Il meccanismo morfogenetico costituisce la base della teleonomia e consente agli organismi viventi la conservazione e la moltiplicazione delle specie, cioè il realizzarsi del progetto teleonomico originario. Quest'ultimo «consiste nella trasmissione, da una generazione all'altra, del contenuto d'invarianza caratteristico della specie. Tutte le strutture, le prestazioni, le attività che concorrono al successo del progetto essenziale saranno quindi chiamate teleonomiche. [...] Si può allora affermare che il livello teleonomico di una data specie corrisponde alla quantità d'informazione che deve essere trasferita, in media, per individuo onde assicurare la trasmissione del contenuto specifico di invarianza riproduttiva alla generazione successiva.»3 Alla luce di tutto ciò, dunque, in accordo a Monod, è possibile asserire che in ogni organismo vivente la struttura stessa delle molecole raggruppate costituisce la fonte dell'informazione per la costruzione dell'insieme. L'organizzazione globale di un organismo complesso è già contenuta nella struttura dei suoi costituenti, tuttavia diviene attuale grazie alle loro interazioni:

Quest'analisi, come si vede, riduce a mera disputa verbale, priva di qualsiasi interesse, l'antica polemica tra pre-formisti e epigenisti: la struttura compiuta non è pre-formata, in quanto tale, in alcun luogo, ma il suo progetto è presente nei suoi stessi costituenti. Essa si può dunque realizzare in modo autonomo e spontaneo, senza intervento dall'esterno, senza immissione d'informazioni nuove: l'informazione è già presente, ma rimane inespressa, nei suoi costituenti. La sua costruzione epigenetica non è dunque una creazione, bensì una rivelazione.4

Jacob e Monod, pertanto, attraverso lo studio dei geni regolatori, giungono alla fondamentale nozione di programma genetico, ovvero un programma di sviluppo della cellula racchiuso all'interno del genoma. Secondo i due scienziati, infatti, immediatamente dopo il concepimento esiste in essenza un programma completo di sviluppo di un nuovo essere vivente, un programma che però ha la peculiarità di essere singolare e discriminante di ogni organismo.

Tutto il determinismo del fenomeno ha origine, in definitiva, nell'informazione genetica costituita dalla somma delle sequenze polipeptidiche interpretate, o meglio filtrate, dalle condizioni iniziali. L'ultima ratio di tutte le strutture e prestazioni teleonomiche degli esseri viventi è dunque racchiusa nelle sequenze dei radicali amminoacidi dei filamenti polipeptidici.5

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La realizzazione del Progetto Genoma Umano, negli ultimi anni, ha segnato una cesura con questa concezione monodiana poiché ha dato nascita ad una nuova fase di studio: la genomica funzionale. Fox Keller, proseguendo il cammino tracciato dalle fondamentali scoperte di Jacob e Monod, capisce che per fare previsioni sulle funzioni precise delle innumerevoli regioni codificanti non basta analizzare la sequenza meramente sintattica del DNA poiché la stabilità strutturale dei geni costituisce «Non il punto di partenza ma il prodotto finale di un processo dinamico altamente orchestrato che richiede la partecipazione di un gran numero di enzimi organizzati in reti metaboliche complesse, le quali regolano e assicurano sia la stabilità della molecola di DNA che la sua replicazione fedele.»6 Questi risultati, pertanto, conducono la grande studiosa a rivisitare la dottrina della morfogenesi autonoma monodiana attraverso una prospettiva in accordo alla quale, come appunto scrivono A. Carsetti e H. Atlan, i sistemi naturali sono caratterizzati dal fatto che ciò che si auto-organizza al loro interno è la funzione stessa che li determina con il loro significato. Stando così le cose, lo studio della funzionalità del genoma costituisce la vera e propria chiave d'ingresso scientifica all'interno della complessità dei sistemi biologici.

Per quasi cinquant'anni ci siamo illusi che la scoperta delle basi molecolari dell'informazione genetica avrebbe svelato il segreto della vita, che bastasse decodificare il messaggio nella sequenza dei nucleotidi del DNA per capire il programma che fa di un organismo ciò che è. Ci stupiva che la risposta fosse così semplice. [...] Ora che cominciamo a misurarne l'ampiezza, ci stupisce non la semplicità dei segreti della vita ma la loro complessità.7

La genomica funzionale rappresenta lo studio della vita cellulare nei suoi diversi livelli, ovvero nelle complesse interazioni tra le molte componenti del sistema. È proprio nell'analisi del concetto di significato biologico, dunque, che risulta possibile rintracciare la differenza concreta tra la concezione di programma genetico di Monod e quella di programmi distribuiti della Keller. Secondo questa nuova prospettiva le informazioni non si trovano più in luoghi specifici e determinabili, al contrario il sistema agisce come un insieme dinamico all'interno del quale ogni particolare diviene indispensabile nel momento in cui entra in relazione con gli altri generando, così, una complessa auto-organizzazione.

La fonte della stabilità genetica diviene, dunque, il risultato di un processo dinamico:

Ora abbiamo imparato che anche la funzione genica va capita in termini dinamici. Siccome la funzione biologica è inerente all'attività delle proteine più che all'attività dei geni, il crollo dell'ipotesi un gene-una proteina toglie di mezzo la possibilità di attribuire una funzione al gene inteso, per tradizione, come un'unità strutturale. Nemmeno dopo che è stato riconfigurato come unità funzionale [...] il gene può essere ricollocato sopra e fuori dai processi che specificano l'organizzazione cellulare ed intracellulare. Quel gene è parte integrante dei processi definiti e messi in opera dall'azione di un sistema complesso e auto-regolato, nel quale e per il quale il DNA ereditato fornisce la materia prima assolutamente indispensabile, ma nulla di più.8

Stando così le cose, il riduzionismo genetico, insieme allo stesso concetto di gene, dopo aver raggiunto il livello massimo di produttività, lascia ora il posto ad una visione olistica in cui i sistemi biologici non sono più né equivalenti alla semplice somma delle loro parti, né tanto meno determinabili in base alle sole condizioni iniziali; essi appaiono costituire il risultato di complesse interazioni che si danno al livello della molteplicità immensa delle loro componenti. Fox Keller, quindi, mettendo in luce l'esigenza della circolarità continua tra strutture proteiche e nucleotidiche, introduce mutamenti profondi per quel che concerne il concetto di programma genetico ed individua altresì il compito della ricerca contemporanea nella circolarità.

Oggi, tuttavia, gli scienziati nel cercare di capire i processi cellulari che portano alla funzione biologica, hanno bisogno dell'aiuto di scienze sincretiche. Per descrivere le funzioni biologiche, infatti, serve un lessico che comprenda concetti appartenenti all'ingegneria, all'informatica e alla fisica: ecco dunque il delinearsi di nuove aree di ricerca come ad esempio la bio-informatica e la vita artificiale .

2. La bio-informatica

Durante l'ultima guerra gli ingegneri diventarono efficienti nel progettare macchine finalizzate allo svolgimento di compiti che le precedenti generazioni ritenevano superiori a capacità non umane. Le ricerche di Wiener in ambito cibernetico portarono alla realizzazione di macchine dotate di intenti; alla luce di tali ricerche, infatti, ci si accorse che il comportamento di un pilota automatico non era diverso da quello di un organismo vivente (per esempio un embrione) poiché entrambi mostravano un'attività guidata da uno scopo. Queste nuove idee, suggerite da meccanismi auto-regolatori, si rivelarono estremamente utili per la biologia:

Dagli anni cinquanta nel campo dell'intelligenza artificiale prevaleva il presupposto che la capacità di

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risolvere problemi risiedeva in un'intelligenza centrale, la quale operava in base ad una descrizione o rappresentazione simbolica del mondo già iscritta nel sistema. Dopo trent'anni di sforzi, però, i risultati rimanevano deludenti. Pochi sistemi progettati in questo modo erano in grado di operare nel mondo reale [...]. Insieme ai colleghi, Brooks ha suggerito un'alternativa: progettare agenti autonomi capaci di svolgere i compiti incontrati durante l'interazione con il mondo, invece dei compiti per i quali sono appositamente costruiti. Come arrivare a questo risultato?9

Brooks propone una «programmazione interattiva», ovvero software concepiti per percepire gli stimoli dall'ambiente durante l'attività dei robot in modo tale da cercare «programmi secondari» in grado di elaborare le informazioni ottenute. Le caratteristiche essenziali di questa «robotica basata sul comportamento» sono la collocazione e l' incorporazione: i robot, una volta collocati nel mondo, hanno a che fare con il «qui e ora» dell'ambiente esterno che influenza direttamente il comportamento del sistema.10 In questo senso le macchine sono come corpi che istaurano un'interazione costruttiva con il mondo: le azioni hanno una retroazione immediata sulle sensazioni provate dal robot che le compie. Tali proprietà sono state ottenute da Brooks in quattro modi: attraverso l'uso di circuiti paralleli, attraverso la scomposizione del comportamento in diverse spire di «percezione-e-azione» eseguibili autonomamente, attraverso regole locali di interazioni che fanno dipendere la risposta di un'unità dai segnali provenienti dal suo ambiente immediato ed infine attraverso principi di controllo stratificati e robusti in cui i vari strati, pur operando in modo indipendente, sono ordinati in modo tale che i livelli superiori possono sussumere il ruolo di quelli inferiori.

In queste creature, la capacità di risolvere problemi non richiede né una rappresentazione interna né una capacità centralizzata e programmata di elaborare simboli. Compare invece come una proprietà emergente dell'intensa interazione tra il sistema ed il suo ambiente dinamico.11

Alla luce di tutto ciò, appare chiaro come i biologi nel cercare di capire i processi cellulari che portano alla funzione biologica, hanno bisogno dell'aiuto di scienze sincretiche. Per descrivere le funzioni biologiche, infatti, serve un lessico che comprenda concetti appartenenti all'ingegneria e all'informatica («amplificazione», «adattamento», «correzione degli errori», «robustezza» e altri). Dietro a tutto questo, però, vi è la presa di coscienza del fatto che tali proprietà non emergono dalle componenti di un sistema come per esempio singoli geni o singole proteine, bensì dalla loro interazione. Le cellule sono dei sistemi robusti insensibili in maniera specifica a quelle mutazioni che influiscono su attività cruciali: molti geni o interazioni regolatrici non hanno alcun effetto significativo sul fenotipo a meno che un certo insieme di altri geni sia contemporaneamente modificato.

Uno dei vantaggi notevoli dovuti all'ascesa della genomica è stata l'emergenza di una nuova sottodisciplina, la bioinformatica, e di concerto quella di una nuova stirpe di biologi con una formazione informatica. Quando il Progetto Genoma Umano era stato lanciato, sul finire degli anni ottanta, era già ovvio che i metodi convenzionali non sarebbero bastati per gestire le masse di dati provenienti da un sequenziamento completo. Perciò una parte significativa degli sforzi promozionali del Progetto è stata diretta al reclutamento di informatici e alla creazione di centri di bioinformatica. [...] Da allora il numero di questi centri è cresciuto in maniera spettacolare e le collaborazioni che hanno generato rientrano tra le maggiori fonti di nuove prospettive in biologia molecolare e, forse soprattutto, del crescente riconoscimento del bisogno di passare a livelli di organizzazione superiori a quelli del gene.12

Il concetto essenziale che la gnomica funzionale, in dialogo costante con le scienze sincretiche, ha mostrato è che l'insieme di interazioni cinetiche all'interno del sistema integrato della cellula determinano non solo le caratteristiche funzionali della singola componente e del sotto-sistema, ma addirittura quelle dell'intero organismo.

La letteratura informatica per ciò che concerne l'affidabilità e la flessibilità è ricca di riferimenti ai sistemi biologici, tuttavia, nella parte finale del suo volume, Fox Keller si sofferma su un esempio in cui il richiamo ai principi dell'organizzazione biologica risulta essere più esplicito: si tratta di un tentativo in corso al MIT, l'amorphous computing o elaborazione amorfa. Gerald Jay Sussman, uno dei responsabili di questa ricerca, pur partendo dal fallimento della progettazione strutturale e dalla fragilità dei sistemi informatici, cerca idee nella biologia dove oggi si riscontra il fatto che «strategie multiple possono essere messe in opera da un singolo organismo per ottenere un'efficacia collettiva superiore a quella di un singolo approccio.»13 La biologia, quindi, diviene per Sussman, non solo campo di applicazione, ma soprattutto, fonte di ispirazione:

L'elaborazione amorfa richiede nuovi modi di concepire la tolleranza degli errori. Tradizionalmente, si cerca di ottenere risultati corretti a dispetto delle parti inaffidabili, introducendo una ridondanza per rilevare gli errori e sostituire le parti difettose. Ma in un regime amorfo, voler ottenere la risposta giusta potrebbe essere un'idea sbagliata: non conviene pensare che un meccanismo quale lo sviluppo embrionale produca l'organismo giusto riparando le parti difettose e le comunicazioni interrotte. Occorre invece strutturare astrattamente dei sistemi per avere una probabilità elevata di ottenere risposte accettabili anche in presenza

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di inaffidabilità.14

I meccanismi centrali di un sistema amorfo, dunque, consistono nel verificare la coerenza dei risultati intermedi di sistemi progettati in maniera indipendente anche se non c'è una corrispondenza esatta di dati valori nei singoli sub-sistemi. Sussman ed i suoi collaboratori, da ingegneri, hanno lo scopo di rendere concrete queste idee e pensano di riuscirci in due modi:

In primo luogo costruendo sistemi che si ispirano alla biologia non solo come a una metafora, ma come ad una tecnologia concreta per la messa in opera di una nuova attività di elaborazione cellulare e, in secondo luogo, sviluppando su questi processi il controllo che permetterà loro, in quanto ingegneri, di creare organismi nuovi con le proprietà desiderate.15

Ovviamente i biologi hanno intenti diversi, tuttavia possono ugualmente trarre vantaggio dalle idee degli informatici; l'elevato numero di sequenze di genomi completi, infatti, oggi è resa possibile dalle risorse bio-informatiche e da internet. Tutto ciò costringe le bioscienze a compiere un importante passo verso l'integrazione ed il «comportamento sistemico». Questa prospettiva se da un lato ci proietta verso la realizzazione di sistemi artificiali capaci di prestazioni paragonabili a quelle umane nello svolgimento di attività intelligenti (i così detti computers semantici), dall'altro fa emergere una nuova questione:

Mentre calcolatori e organismi sono sempre più invischiati nella trama di idee, competenze e lessico intessuta dalle rispettive discipline [...] diventa a volte difficile sapere quale disciplina funga da metafora per l'altra, e perfino distinguere la descrizione di un sistema da quella dell'altro.16

Se gli ingegneri, dopo aver analizzato i «principi di progettazione dei sistemi biologici» come per esempio la rilevazione delle coincidenze, l'amplificazione, i sistemi a prova d'errore e la retroazione (positiva o negativa), concludono che «in biologia progettazioni simili sono comuni», dove divergono, dunque, calcolatori e organismi viventi? Secondo Fox Keller la differenza risiede in un elemento essenziale:

La strada attraverso la quale i due tipi di sistema sono giunti ad essere meccanismi così straordinariamente simili. Per quanto siano stati influenzati dalle strutture biologiche, i calcolatori sono costruiti in base ad una progettazione umana, mentre gli organismi si sviluppano senza i benefici di un progettista (o così di solito si presume). La domanda cruciale per i biologi è perciò questa: quale processo evolutivo ha portato all'esistenza di esseri così complessi e auto-organizzati? Come può un processo che dipende unicamente dalla comparsa casuale di nuove mutazioni aver dato luogo a strutture la cui funzione è di fornire sacche di resistenza alle forze disordinatrici del caso, insomma a strutture progettate per essere robuste?17

Come i classici della biologia del novecento, anche il testo della Keller termina con un interrogativo sulle origini: vero e proprio scacco per il sapere di ogni tempo. La grande filosofa della scienza, pur prendendo in seria considerazione le riflessioni di Jacob e Darwin riguardanti tale questione, tuttavia non sembra essere completamente soddisfatta dalle loro risposte:

Sono tentata di concludere il capitolo laddove era iniziato con un omaggio alla [...] creatività di lunghe ere di bricolage, di ricombinazioni casuali di parti preesistenti che, in virtù delle ricombinazioni e con l'aiuto di una costante retroazione proveniente da organismi vicini e dall'ambiente, quasi inavvertitamente acquisiscono nuove funzioni. [...] Dopotutto c'è altro da dire, credo. [...] Preferisco perciò concludere con una previsione: stanno per comparire molte novità, forse addirittura un altro Cambriano, non più nuove forme di vita biologica, questa volta, bensì nuove forme di pensiero biologico.18

La questione sollevata dagli scienziati del primo novecento resta dunque irrisolta, ma, potremmo dire, «gravida di futuro».

3. Gli automi cellulari

In Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, testo del 2005, la Fox Keller mostra la sua effettiva passione: l'epistemologia. La grande studiosa «interpreta» la biologia come l'immagine stessa della divinità dei nostri giorni, come la divinità del vivente. Il compito principale che la Keller si prefigge è quello di esplorare i segreti del linguaggio della vitadi cui noi siamo espressione eche tuttavia non conosciamo in tutta la sua profondità. In altre parole, anche se l'«essenza» del bios resta misteriosa, lungo tutto il suo stupefacente passaggio dal modello all'espressione estesa della vita, la grande studiosa individua nella disamina dei moduli dell'auto-organizzazione l'unica via in grado di condurre la ricerca verso la comprensione delle regole di questo enigma.

L'utilisation de la simulation informatique pour étudier les systèmes biologiques a explosé au cours des dix dernières années, et elle découle directement du développement historique de la simulation dans les sciences physiques. De fait, à ce jour, ceux qui affirment sa valeur sont encore principalement des physiciens

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et des mathématiciens. Le plaidoyer de loin le plus vigoureux et le plus répandu vient des scientifiques engagés dans le projet que Christopher Langton a appelé « vie artificielle ».19

La prima volta che Langton usò quest'espressione così scrisse:

Le but ultime de l'étude de la vie artificielle serait de créer de la vie dans un autre milieu, l'idéal serait un milieu virtuel dans lequel l'essence de la vie aurait été débarrassée des détails de sa mise en jeu dans des modèles particulaires. Nous voudrions construire des modèles qui soient si semblables à la vie qu'ils cessent d'être des modèles de la vie pour devenir les exemples mêmes de la vie.20

Questa nuova area di ricerca fu inaugurata ufficialmente nel congresso appositamente organizzato dallo stesso Langton a Los Alamos, in quell'occasione, infatti, il grande informatico disse: «La vie artificielle est un domaine relativement nouveau qui emploie une approche synthétique pour étudier la vie telle qu'elle pourrait être. Elle conçoit la vie comme une propriété de la matière ainsi organisée.»21

Il termine simulazione informatica, nella sua prima accezione, faceva riferimento all'uso dei calcolatori numerici per la soluzione di equazioni differenziali le quali costituivano la base matematica di molti modelli dei fenomeni fisici e naturali. Questa utilizzazione, però, presentava il problema di dover rappresentare le variabili continue, contenute nelle equazioni, tramite delle quantità discrete costituite da numeri da 32 a 64 bit. Questo problema portava alla necessità di dover operare delle approssimazioni: in particolare, per molte equazioni non lineari dovevano essere usati metodi ad hoc per calibrare l'accuratezza di valori di grandezza imprecisi (approximations):

Cependant, lorsqu'on a tenté de mettre au point de meilleures théories du comportement des fluides, les ordinateurs ont rapidement été utilisés pour simuler non seulement les équations mais aussi la dynamique moléculaire des fluides réels. Une grande partie des simulations informatiques de systèmes biologiques repose sur un progrès supplémentaire, à savoir l'utilisation d'ordinateurs pour explorer des phénomènes pour lesquels on n'a encore formulé aucune équation ni aucune sorte de théorie générale, et pour lesquels on ne dispose que d'indications rudimentaires sur la dynamique des interactions sous-jacentes.22

Ad esempio i modelli teorici delle esplosioni nucleari e lo studio delle supernove implicano la risoluzione di centinaia di equazioni differenziali che descrivono l'interazione di un numero molto grande di isotopi. In questi casi ciò che è simulato non costituisce né un insieme ben stabilito di equazioni differenziali, né le costituenti fisiche particolari del sistema, bensì il fenomeno osservato così come si manifesta nella sua complessità: il tentativo, dunque, è quello di ridurre tale complessità alla sua dinamica essenziale. Lo studio di questi sistemi ha portato, in questi ultimi anni, allo sviluppo di una nuova area di ricerca detta teoria dei sistemi complessi in cui i metodi computazionali svolgono un ruolo fondamentale. La teoria or ora accennata parte dallo studio del comportamento delle singole componenti di un sistema complesso e dalle loro interazioni basandosi sull'ipotesi che le proprietà microscopiche dei componenti sono trascurabili e che il comportamento collettivo non varia se variano di poco le leggi che regolano il comportamento dei singoli componenti. A conferma di ciò, Stephen Wolfram così scrive:

La science s'est traditionnellement concentrée sur l'analyse des systèmes en les décomposant en constituants simples. Une nouvelle forme de science se développe actuellement, qui aborde le problème de la manière dont ces parties agissent ensemble pour produire la complexité du tout.

Dans cette approche, il est fondamental de rechercher des modèles qui soient aussi simples que possible à construire, mais qui possèdent les caractères mathématiques essentiels nécessaires pour reproduire la complexité observée. Les automates cellulaires offrent probablement les meilleurs exemples de modèles de ce type.23

Gli automi cellulari sono sistemi dinamici discreti in grado di riprodursi, la cui struttura è quella propria di sistema parallelo distribuito. Ogni elemento dell'automa in una griglia spaziale regolare è detto cella e può essere in uno degli stati finiti che la cella può avere. Gli stati delle celle variano secondo una regola locale e sono aggiornati contemporaneamente in maniera sincrona. L'insieme degli stati delle celle compongono lo stato dell'automa; così, secondo questo modello, un sistema viene rappresentato come composto da tante semplici parti ed ognuna di queste parti per evolvere ha una propria regola interna ed interagisce solo con le parti ad essa vicine: l'evoluzione globale del sistema, pertanto, emerge dalle evoluzioni di tutte le parti elementari. Una delle idee fondamentali del concetto di automa cellulare è quella di riuscire a ricostruire il comportamento complesso di un sistema a partire da semplici regole che descrivono l'interazione dei micro-componenti in cui si pensa suddiviso il sistema stesso. «Les automates cellulaires sont si bien accueillis par ceux qui tentent de modéliser des phénomenes pour lesquels on n'a pu formuler aucune équation de la micro-dynamique qui produise la complexité observée.»24 Secondo questa nuova prospettiva, dunque, la complessità di un sistema emerge dall'interazione delle parti che lo compongono. Un esempio di semplice automa cellulare è il Gioco della Vita o A-Life proposto da John Horton Conway. A-Life simula una

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popolazione di organismi viventi o celle in una griglia bidimensionale che si sviluppano nel tempo sotto l'effetto di tendenze all'accrescimento e all'estinzione. Ogni cella può avere due stati: vivente (1) o morta (0) ed ha un vicinato composto dalle otto celle adiacenti. In base a certe regole date, le celle cambiano stato rappresentando così l'evoluzione di una popolazione di organismi viventi. In realtà il progetto di utilizzare il computer per la simulazione dei processi biologici di sviluppo, riproduzione ed evoluzione, è molto più antico del termine automa cellulare: il vero padre della vita artificiale, infatti, non è Langton, bensì John von Neumann.

La construction initiale de von Neumann, au début des années 1950, était très lourde (elle nécessitait 200 000 cellules avec 29 états pour chaque nœu), mais elle fit date. L'histoire de sa mise au point ensuite (et de sa considérable simplification), depuis le Game of Life de John Conway aux « boucles » de Christopher Langton (1984), encore plus simples, a été racontée à plusieurs reprises. Ce qui est un peu moins connu, c'est l'histoire de l'utilisation des automates cellulaires dans la modélisation des phénomènes physiques complexes (tels que les transitions de phase, la turbulence ou la cristallisation), une activité qui, tout comme la vie artificielle, a explosé dans les années 1980. De fait, le tout premier congrès sur les automates cellulaires s'est également tenu à Los Alamos (quatre ans avant le congrès sur la vie artificielle), et si a donné à Langton l'occasion de faire une première incursion dans la vie artificielle, ce congrès portait principalement sur les sciences physiques. L'apparition d'une nouvelle génération d'ordinateurs à processeurs parallèles à grande vitesse a été d'une importance déterminante dans le regain d'intérêt pour les modèles à automates cellulaires dans les années 1980.25

Wolfram, come abbiamo già accennato, pone l'accento sui progetti sintetici degli automi cellulari di cui l'aspetto più importante, ai suoi occhi, consiste proprio nel fatto che la complessità del sistema non si origina dalle singole proprietà delle parti che lo costituiscono, bensì dal modo in cui queste parti interagiscono; il suo intento è quello innanzitutto di far vedere come da interazioni locali semplici possano scaturire comportamenti globali complessi. Alla luce di tutto ciò, lo studio degli automi cellulari ci permette di fare ulteriori considerazioni sul bios. La fitta rete di connessioni cellulari che caratterizza gli automi è una simulazione di due aspetti fondamentali della vita reale: il connessionismo e la moltiplicazione. La vita, infatti, oltre ad essere significato, è anche un programma distribuito legato a funzioni specifiche di auto-programmazione; in accordo a Monod, come abbiamo già visto, essa è anche un fenomeno di auto-organizzazione in vista di un telos specifico: la riproduzione. Per garantire l'auto-riproduzione von Neumann definì per l'automa cellulare un costruttore universale che fosse realizzato nell'automa tramite un insieme di celle (pattern) con valori di stato particolari ed una regola di transizione di stato per esse. Questo insieme di celle formava un automa virtuale: la griglia di celle di base consentiva di realizzare una macchina di calcolo universale capace di risolvere qualsiasi problema che fosse alla portata di un calcolatore.

4. La vita artificiale

Dagli automi di von Neumann agli studi di Langton e di tutto il gruppo di ricerca di Santa Fé, lungo lo scorrere di questi ultimi trent'anni abbiamo assistito all'emergere di un dibattito sempre più approfondito sui temi della vita artificiale che ci permette di vedere il modo in cui il modello cellulare si realizza a livello di costruzione effettiva. Ma come è possibile che ciò avvenga?

A questo riguardo, ci sembrano rilevanti le considerazioni di Toffoli e Margulis:

Dans la mythologie grecque, c'étaient les dieux eux-mêmes qui représentaient la machinerie de l'univers. [...] Dans des conceptions plus récentes, l'univers est créé tout d'un bloc, avec ses mécanismes d'action: une fois en mouvement, il fonctionne tout seul. Dieu se trouve à l'extérieur de lui et peut prendre plaisir à le contempler.

Les automates cellulaires sont des univers stylisés, synthétiques. [...] Ils ont leur propre type de matière évoluant dans un espace et un temps qui leur sont propres. On peut en concevoir une variété stupéfiante. On peut réellement les construire et les regarder évoluer. Créateurs inexpérimentés, nous avons peu de chance de produire un univers très intéressant du premier coup; en tant qu'individus, nous avons peut-être des idées différentes sur ce qui rend un univers intéressant ou sur ce que nous pourrions vouloir faire avec. En tout cas, une fois qu'on a vu un univers d'automates cellulaires, on veut en faire un soi-même; quand on en a fait un, on veut en essayer un autre. Après en avoir fabriqué quelques-uns, on est capable d'en tailler un sur mesure dans un but particulier avec une certaine assurance.

Une machine à automates cellulaires est un constructeur d'univers. Comme un orgue, elle a des touches et des registres permettant de mettre en marche, de combiner et de reconfigurer les ressources de l'instrument. Son écran couleur est une fenêtre par laquelle on peut regarder l'univers qui est « joué ».26

In ambito scientifico, l'utilizzazione degli automi cellulari per simulare gli effetti globali non solo ha

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provocato una visibile trasformazione semantica dei termini «simulazione» e «modello», ma, addirittura, ha contribuito in modo determinante a modificare il senso dell'espressione «reale».27 Come hanno notato più autori, la simulazione informatica giunge a mettere in questione lo stesso concetto di realismo favorendo così la costruzione di una «realtà alternativa» che sembra essere più facilmente interscambiabile con il mondo reale. Gli automi costituiscono dei veri e propri «universi stilizzati e sintetici» in continua evoluzione, universi di cui è possibile osservare la nascita, la riproduzione ed infine la morte. Osservare la storia di un automa cellulare significa guardare una macchina in grado di costruirsi da sé, ovvero un «costruttore d'universi» capace di padroneggiare gli strumenti di cui è fornito. Alla luce di tutto ciò, attraverso lo schermo di un computer è possibile contemplare una realtà alternativa creata dall'uomo la quale, sostituendosi e confondendosi con il mondo reale, conferisce al suo costruttore una sorta di ruolo di creatore: ogni essere umano in grado di dare nascita ad un universo cellulare, infatti, gioca (joué) a tutti gli effetti un ruolo demiurgico. Lo spazio dell'uomo diviene, infatti, lo spazio stesso del possibile.

La questione che ci interessa approfondire in questa sede consiste nella stretta relazione che si instaura tra le considerazioni di Toffoli e Margulis sull'universo fisico or ora accennate e quelle di Langton concernenti la biologia. Langton fa lavorare gli automi cellulari con lo scopo di costruire un universo di esseri viventi all'interno del quale l'ultima ratio consisterebbe proprio nel creare la vita ricorrendo a strumenti del tutto nuovi e non semplicemente meccanici. Le costruzioni formali che hanno sempre svolto la funzione di modelli della vita, passano ora dalla dimensione virtuale a quella reale divenendo così «essi stessi degli esempi della vita».

La vie artificielle, a-t-il répété par la suite, est la biologie de la vie possible, c'est l'étude de systèmes fabriqués par l'homme et présentant des comportements caractéristiques des systèmes naturels vivants. Elle complète les sciences biologiques traditionnelles, qui traitent de l'analyse des organismes vivants, en tentant de produire synthétiquement des comportements semblables à la vie dans des ordinateurs et d'autres milieux artificiels. En étendant les bases empiriques sur lesquelles est fondée la biologie au-delà de la vie qui a évolué sur Terre, caractérisée par des chaînes carbonées, la Vie Artificielle peut contribuer à la biologie théorique en situant la vie-telle-que-nous-la-connaissons au sein d'un domaine plus vaste, celui de la vie-telle-qu'elle-pourrait-être.28

Il senso principale di quest'ultima espressione, ovvero «la vita tale come essa avrebbe potuto essere», a nostro avviso, mette in luce la logica autentica del bios: l'apertura al possibile. La vita è imprevedibilità e quindi novità continua, ma la frase di Langton ci permette di fare un passo ulteriore; la questione che egli pone non concerne semplicemente la possibilità da parte dell'uomo di intervenire sulla vita per modificarla, la sua prospettiva è ancor più radicale: la vita artificiale diviene la biologia della vita possibile. In altre parole si tratta di creare nuovi orizzonti in grado di completare le scienze biologiche tradizionali, lo spazio dell'immaginazione umana si trasforma nello spazio effettivo della biologia poiché c'è la possibilità di articolare un nuovo linguaggio. L'uomo si trova di fronte ad una sfida immensa, una sfida che conduce anche alla necessità di rivisitare teorie filosofiche del primo novecento come ad esempio la sintesi di Bergson in accordo alla quale, come giustamente nota Monod:

L'uomo rappresenta lo stadio supremo a cui è giunta l'evoluzione, ma senza averlo cercato o previsto: egli è piuttosto la manifestazione e la prova della totale libertà dello slancio creatore.29

Ancora una volta, l'indagine sul bios pone in stretto contatto scienza, etica ed antropologia; la prospettiva di Langton, in effetti, se apre al genere umano spazi immensi della possibilità, lo mette anche, d'altro canto, dinanzi a dei pericoli immensi (a livello ad esempio della bio-tecnologia). Con riferimento a questa prospettiva ci sia consentito concludere il presente paragrafo con la seguente annotazione: il bisogno insito nel cuore di ogni uomo di dare un volto al mistero, di spiegare e comprendere totalmente ogni enigma, nasconde in realtà, a nostro avviso, l'esigenza originaria di una risposta totale, un'esigenza che spinge ogni essere umano a scambiare la particolarità per la totalità fino all'incapacità stessa di comprendere il rapporto essenziale esistente tra mezzi e fini. È, quindi, possibile domandarsi: i pur enormi progressi della conoscenza umana a livello della biologia molecolare sono realmente in grado di «interpretare» in modo completo il linguaggio misterioso della complessità della vita? Ed inoltre, ammesso che noi in quanto uomini saremo nel futuro in grado di svelare il segreto di tale linguaggio, potremo mai divenirne dei creatori autonomi senza di nuovo cadere nella nemesi propria dell'antica Torre di Babele?

5. Verso «la sfida della Complessità»

La principale technique de simulation de Vie artificielle est connue sous le nom d'algorithmes génétiques. La méthode des algorithmes génétiques (parfois appelés systèmes adaptatifs) a été introduite pour la première fois lors de tentatives visant à imiter l'évolution par sélection naturelle. Elle exploite les procédures des automates cellulaires en produisant des changements aléatoires (appelés mutations) dans la population des

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algorithmes (ou gènes) de départ, des procédures d'échange de parties d'algorithmes (appelées croisements génétiques) et un programme de langage machine qui code pour la fabrication de copies (ou reproduction) des nouveaux programmes ainsi construits. Ce programme de langage machine (ou, comme on le désigne souvent, le corps de l'organisme digital) peut être soit inséré dans le hardware de l'unité centrale de traitement de l'ordinateur, soit stocké en mémoire comme des données, pour un traitement ultérieur. Certes, la transformation effective de ces données en un organisme vivant nécessite l'activité (ou l'énergie) de l'unité centrale de traitement, mais l'important, c'est que sa forme finale est indépendante du hardware.30

Il concetto essenziale che la genomica funzionale, in continuo dialogo con le scienze sincretiche, ha mostrato è che l'insieme di interazioni cinetiche all'interno del sistema integrato della cellula determinano non solo le caratteristiche funzionali della singola componente e del sotto-sistema, ma persino quelle dell'intero organismo. Le considerazioni or ora accennate se tradotte nel nuovo linguaggio della simulazione informatica ci conducono verso degli scenari inediti:

Hayles fait à peu prés la même remarque. Elle écrit : « Ces corps d'information ne sont pas, comme les termes pourraient le suggérer, les expressions phénotypiques de codes informationnels. En réalité, les créatures sont leurs propres codes. Pour elles, le génotype et le phénotype sont une seule et même chose ; l'organisme est le code et le code est l'organisme ». De même, il est important de noter que [...] le code est considéré à la fois comme génome et programme, comme données et instructions; c'est « l'ensemble de bits qui compose le programme [qui] est le corps de l'organisme » et, en même temps, « la totalité du matériel génétique » de l'organisme (c'est-à-dire son génome). En d'autres termes, le vocabulaire biologique qu'il utilise n'établit pas que le code est le génome, que le génome est le programme et celui-ci le corps de l'organisme, il présuppose tout cela.31

La selezione entra in ballo, quindi, al livello del corpo della realtà: quello che prima era programma, ora diviene corpo biologico. Ecco dunque che il codice e il genoma costituiscono la medesima realtà; quando ciò avviene emergono fenomeni nuovi ed imprevedibili:

La question principale, dans une grande partie de la littérature, est la simulation de l'évolution par sélection naturelle. Comment les organismes numériques évoluent-ils ? L'univers dans lequel on dit qu'ils vivent est défini par l'espace de la mémoire de l'ordinateur et le temps nécessaire au traitement, et l'évolution est définie comme le processus résultant de leur compétition pour cet espace et ce temps. De même que dans le cas de la sélection naturelle agissant sur les organismes biologiques, les gagnants sont les organismes numériques qui ont les plus rapides taux de reproduction et qui, de ce fait, détiennent la plus grande patrie des ressources. Ray conclut donc : « L'évolution engendrera des adaptions permettant d'avoir un meilleur accès à ces ressources et de les employer plus efficacement ».32

Gli specialisti della vita artificiale, nell'ultimo decennio, hanno fatto convergere i loro sforzi nell'utilizzo degli algoritmi genetici (spesso in relazione con le reti neurali) per simulare l'evoluzione dei meccanismi dello sviluppo osservati negli organismi biologici. Questi studi hanno permesso ai ricercatori di abbandonare il modello della causalità e di interpretare il bios come un fenomeno emergente:

L'émergence est ici le terme opérationnel, car on considère que c'est précisément dans leur capacité à produire des formes globales précisément dans leur capacité à produire des formes globales d'une grande complexité que réside la force de ces modèles. Cependant, malgré la proximité avec les processus biologiques qu'indique tout le discours sur les génomes et les programmes, les résultats ont été jusqu'ici décevants.33

Secondo questa nuova prospettiva, dunque, la nozione monodiana di invarianza legata all'idea di programma genetico fisso ed immutabile lascia il posto a quella di emergenza, un'emergenza che appare connessa ad una continua apertura al possibile e ad un approfondimento delle radici della complessità.

Alla luce di tutto ciò, l'obiettivo dei biologi diviene quello di studiare la vita non più come semplice dato, bensì come un fenomeno emergente associato a sistemi complessi adattivi. Il tentativo di studiare l'emergenza senza cadere nei meccanismi causali ed oggettivi ha costituito, negli ultimi anni, uno degli ambiti di ricerca della Teoria della Complessità, ovvero lo studio interdisciplinare dei sistemi complessi adattivi (dai sistemi naturali non biologici fino ai sistemi biologici) e dei fenomeni emergenti (come la vita, la mente e l'organizzazione sociale) ad essi associati.34 La domanda cruciale a cui i teorici della complessità stanno tentando di rispondere concerne le caratteristiche dei sistemi or ora accennati. La risposta a questa domanda, tuttavia, attende ancora una sistemazione teorica rigorosa. In accordo con l'intuizione di Langton è possibile affermare che i sistemi adattivi di media-alta e alta complessità evolvono verso una regione intermedia tra l'ordine ed il caos: il «margine del caos». Quest'ultimo è lo stato ottimale posto tra i due estremi di un ordine rigido, incapace di modificarsi senza essere distrutto e di un rinnovamento incessante, irregolare e caotico. Cosa succede quando un sistema complesso adattivo si trova al margine del caos? Il

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sistema si auto-organizza. Quando avviene ciò emergono fenomeni nuovi ed imprevedibili: i fenomeni emergenti. In epistemologia un fenomeno è detto emergente se ha natura processuale, se può essere descritto utilizzando un linguaggio qualitativamente diverso da quello usato per descrivere le altre proprietà del sistema cui è associato, se il suo comportamento non è previsto dal modello del sistema e, in fine, se la sua esistenza non dipende dall'esistenza di singole componenti del sistema. La vita associata a qualsiasi sistema biologico (cellule, organi, organismi) è l'esempio per eccellenza di fenomeni che hanno tutte queste caratteristiche: il bios, infatti, costituisce una sorta di miracolo poiché il suo emergere nell'universo non è possibile se non grazie ad un aggiustamento eccezionale delle leggi fondamentali dell'universo stesso le quali oscillano verso quell'ineffabile frontiera tra l'ordine ed il caos.

Come abbiamo già accennato facendo ricorso ai testi della Keller, i teorici della complessità utilizzano come principale metodo di ricerca la simulazione su computer, ciò significa che i sistemi complessi adattivi vengono studiati mediante modelli computazionali di media complessità. Il passaggio dai sistemi complessi reali ai loro modelli computazionali comporta un'immensa diminuzione di complessità. Lo scarto di complessità tra modelli computazionali e sistemi complessi tende certamente a diminuire in virtù della costante produzione di computer e programmi di simulazione sempre più complessi; tuttavia resta il fatto che oggi la complessità dei modelli è ancora lontana da quella dei sistemi complessi adattivi. Alla luce di queste considerazioni, ci si può legittimamente domandare se sia effettivamente possibile per l'uomo «creare la vita reale». In altre parole, una creatura sintetica fisicamente realizzata come per esempio un automa cellulare, può concretamente sostituire la creatura che ha lo scopo di imitare? Fox Keller, nella parte finale del suo testo, così risponde:

Très brièvement, je dirais que même si les organismes synthétiques dans l'espace-temps physique ne sont plus des simulations informatiques, ce sont encore des simulations, bien que dans un milieu différent. Cependant, je ne crois pas du tout à une séparation irréductible entre la simulation et la réalisation. D'une part, les milieux de construction peuvent changer, et ils le feront sûrement. [...] D'autre part, on peut également s'approcher d'une convergence entre la simulation et la réalisation, entre les constructions métaphoriques et littérales, en manipulant du matériel biologique déjà existant. Par exemple, les informaticiens pourraient en venir à abandonner le projet d'une synthèse de novo d'organismes artificiels, tout comme les biologistes actuels semblent l'avoir fait. La construction de nouvelles formes de vie, dans la biologie contemporaine, procède d'une manière totalement différente, elle ne part pas des matériaux bruts fournis par le monde inorganique, mais de ceux que fournissent des organismes biologiques existants.35

Gli informatici, dunque, abbandonano la sintesi ex novo degli organismi artificiali e tentano di partire da materiali già evoluti poiché la realtà alternativa costruita dalla simulazione artificiale, attraverso modelli sempre più complessi, non può sostituire, a tutti gli effetti, il mondo reale. In linea di continuità con tale prospettiva e potendo contare sul miglioramento continuo di tecniche e tecnologie, molti studiosi di fama internazionale impegnati in centri di ricerca differenti, negli ultimi anni, hanno tentato simultaneamente di avvicinarsi al genoma minimo necessario per la vita stimato in meno di quattrocento geni circa.

Nel luglio 2007, ad esempio, Craig Venter (cofondatore della Synthetic Genomics, azienda creata per inventare organismi artificiali in grado di produrre bio-carburanti e combustibili alternativi a basso impatto ambientale) ed il suo team sono riusciti ad inserire in un microrganismo il DNA di un'altra specie. Pochi giorni dopo un gruppo di biologi del centro Enrico Fermi, coordinato da Giovanni Murtas, ha cercato di «creare» la prima cellula sintetica racchiudendo in una sfera costituita da lipidi circa quaranta geni; purtroppo, però, l'esperimento è riuscito solo in parte: tale cellula, infatti, è stata in grado riprodurre proteine fluorescenti (GFP) solo per qualche ora.

Una tappa fondamentale lungo il cammino che conduce verso la vita artificiale sembra essere stata raggiunta pochi giorni fa dallo stesso Craig Venter il quale, il 6 ottobre, ha dichiarato in un'intervista rilasciata al quotidiano britannico «The Guardian» di aver realizzato in laboratorio un cromosoma completamente artificiale. «Oltre che un traguardo scientifico», ha spiegato lo scienziato, tale scoperta «rappresenta un importante passo filosofico nella storia della nostra specie. Stiamo passando dalla capacità di leggere il nostro codice genetico alla possibilità di scriverlo. E questo ci rende ipoteticamente in grado di fare cose mai pensabili fino ad oggi.»36 Queste parole hanno dato il via ad una grande speculazione mediatica basata sull'idea inesatta secondo cui grazie alla scoperta di Venter l'uomo sarebbe finalmente in grado di creare la vita reale; a dire il vero, agli occhi della comunità scientifica (in particolare ci riferiamo ai commenti di alcuni autorevoli scienziati tra i quali spiccano A. Vescovi, G. Novelli e E. Boncinelli), quella di Venter, più che essere una scoperta, costituisce senza dubbio un'innovazione tecnologica importante, ovvero un esperimento (tra l'altro ancora da documentare scientificamente visto che all'annuncio non ha ancora fatto seguito alcuna pubblicazione scientifica) che rappresenta un'evoluzione tecnica in più e che potrebbe costituire un passo notevole verso l'esistenza artificiale. Certamente, a livello delle bio-tecnologie, l'esperimento dello scienziato statunitense può aprire interessanti orizzonti sia nell'ambito della produzione di nuovi farmaci, sia nell'ambito energetico dove potrebbe favorire la realizzazione di fonti alternative di

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energia prima impensabili (si potrebbero produrre batteri capaci di assorbire l'anidride carbonica in eccesso contribuendo così alla soluzione del problema del riscaldamento globale, oppure carburanti come butano e propano prodotti partendo dallo zucchero); tuttavia, nello stesso tempo, queste nuove conoscenze se utilizzate con scopi distruttivi possono condurre l'umanità verso la grande minaccia delle armi batteriologiche.37

Quello che ci interessa approfondire in questa sede, tuttavia, è la questione relativa alla possibilità da parte dell'uomo di oggi di creare effettivamente la vita reale; in tale senso l'esperimento di Venter e del su gruppo di ricerca ci spinge a riflettere perché mette in luce le possibilità e i limiti della conoscenza umana: fino a che livello, infatti, possiamo conoscere e quindi padroneggiare quel linguaggio misterioso che è dentro di noi e che ci permette di essere ciò che siamo?

Il cromosoma è quel filamento di DNA impacchettato in una struttura proteica che si trova nel nucleo delle cellule e che porta su di sé l'informazione genetica di ogni organismo, ovvero i suoi caratteri ereditari (le istruzioni che gli permettono di diventare ciò che è). Nei laboratori di Venter, un'equipe di venti scienziati capeggiata dal Premio Nobel Hamilton Smith sarebbe riuscita nell'impresa precedentemente accennata partendo da un cromosoma esistente, quello del batterio Mycoplasma genitalium. Questo batterio, che vive nelle cellule dei genitali dei primati, è una delle forme di vita più piccole che si conoscano ed ha un unico cromosoma. Proprio questo cromosoma è stato preso dagli scienziati di Venter, spogliato di un quinto delle sue caratteristiche genetiche e quindi ricostruito con sostanze di sintesi fino a farne un filamento lungo circa trecentoottantuno geni (il quale contiene cinquecentoottantamila paia di basi di codice genetico). Il cromosoma, denominato Mycoplasma laboratorium, è stato successivamente inserito nella cellula vivente di un batterio privato del materiale genetico. I ricercatori sperano che in un secondo momento il cromosoma prenda il controllo dello sviluppo di questa cellula producendo, altresì, una forma di vita parzialmente nuova.

In senso stretto l'inserimento del cromosoma all'interno di una cellula pre-esistente non è definibile come specie completamente sintetica poiché il cromosoma utilizzerebbe i sistemi biologici preesistenti per potersi replicare. In laboratorio, dunque, è stata costruita, pezzo per pezzo, una copia leggermente modificata del cromosoma dello stesso batterio. Alla luce di tutto ciò, dunque, non siamo di fronte alla creazione di una nuova vita (una sintesi ex novo di un organismo vivente), bensì, in accordo con Evelyn Fox Keller, alla ricostruzione di un organismo preesistente in natura (ovvero già evoluto) e geneticamente modificato. Questa tecnica, tra l'altro, è stata già sperimentata con successo dallo stesso gruppo di ricerca; in quel caso, però, come abbiamo già accennato in precedenza, ad essere inserito nella cellula di un batterio era il genoma naturale proveniente da un altro batterio già esistente in natura con il risultato di modificare la specie di origine della cellula. Oggi Venter ci riprova con un DNA parzialmente artificiale, ma si è detto «convinto al cento per cento che l'esperimento riuscirà.»

L'obiettivo dello scienziato statunitense è quello di riuscire a trasferire gradualmente il genoma all'interno dei batteri e studiare come i singoli geni si attivino; ciò è fondamentale per capire le funzioni delle singole porzioni di DNA e anche per stabilire il minimo genoma necessario ad attivare i primi processi vitali. Questo tipo di studio si realizza spegnendo un segmento alla volta del genoma, tuttavia è un procedimento complesso e nello stesso tempo limitante. Oggi, infatti, grazie all'importante contributo offerto dagli studiosi che si occupano di complessità, si sta assistendo all'emergenza di nuovi modelli in grado di «interpretare» il bios alla luce di una visione sistemica in cui lo schema un gene -- un enzima -- un carattere lascia il posto alla circolarità delle funzioni in grado di mutare a seconda del contesto: in tal senso le conseguenze delle operazioni del sistema sono le operazioni del sistema in una situazione di completo auto-riferimento. Applicando questo principio della teoria dei sistemi complessi in biologia, è possibile affermare che l'interconnessione degli elementi che compongono il sistema (cellula, organo, apparato, organismo) è così cruciale che si è obbligati a mettere in primo piano la loro chiusura e la loro circolarità:

In tutti questi casi ciò che avviene nel sistema è la generazione di stati di coerenza auto-determinantesi che comportano uno stato soddisfacente, in uno stesso momento, per tutte le componenti.38

Chiusura significa che il risultato di un'operazione cade ancora entro i confini del sistema stesso. In altre parole, «la chiusura di un sistema può produrre un mondo o dare senso ad un mondo».39 Ciò a livello della biologia molecolare significa che il passaggio dell'informazione dal DNA alle proteine non avviene in modo lineare ed univoco, bensì è da rintracciarsi nella circolarità del sistema; l'informazione genetica (la successione sintattica del DNA), infatti, è costantemente creata e riorganizzata non da semplici risistemazioni di elementi interconnessi, ma da una rete di funzioni di auto-programmazione sparse in tutta la cellula: ad ogni combinazione, ad ogni risistemazione delle parti corrisponde, dunque, un'organizzazione funzionale differente, ovvero un diverso significato delle relazioni che si stabiliscono fra differenti fattori. Questo concetto di auto-creazione del significato come origine dell'auto-organizzazione è stato sviluppato e approfondito in modo particolare da H. Atlan il quale nell'articolo dal titolo Complessità, disordine e auto-

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creazione del significato, così scrive:

L'aspetto più importante dei fenomeni di auto-organizzazione è l'auto-creazione del senso, cioè la creazione di nuovi significati nell'informazione trasmessa da una parte a un'altra parte o da un livello di organizzazione ad un altro livello di organizzazione. Senza la creazione di nuovi significati avremmo a che fare con ricombinazioni che non sarebbero in grado di portare all'apparizione di nuove funzioni, di nuovi comportamenti.40

Stando così le cose, il significato in biologia costituisce quel vero e proprio mistero invisibile che, celandosi dietro l'informazione genetica, crea costantemente ogni novità e differenza. Alla luce di tali considerazioni, pertanto, appare evidente come Venter abbia senza ombra di dubbio compiuto un passo in avanti molto importante in seno all'ingegneria genetica, ma per andare oltre, ovvero per parlare di vita artificiale servono delle conoscenze tecnologiche e scientifiche che la specie umana attualmente non possiede. Per tali ragioni, i pur enormi progressi della conoscenza umana a livello della biologia molecolare, al momento, non sono in grado di comprendere l'enigmatico linguaggio della vita: traccia di una diacronia irrappresentabile che sfugge costantemente ad ogni tentativo umano di determinazione completa. Questa dimensione antinomica del limite in cui la scienza entra in contatto con quello che alcuni filosofi definiscono come il precategoriale è descritta, in modo impeccabile, da Monod che, nel suo volume, introduce, così, il capitolo dedicato alle frontiere della conoscenza:

Quando si pensa al lunghissimo cammino percorso dall'evoluzione da forse tre miliardi di anni, alla prodigiosa varietà delle strutture che essa ha creato, alla miracolosa efficacia delle prestazioni degli esseri viventi, dal batterio all'uomo, diventa spontaneo dubitare che tutte queste manifestazioni possano essere il risultato di una gigantesca lotteria in cui vengono tirati a sorte dei numeri tra i quali una cieca selezione designa rari vincenti.41

Più avanti il grande biologo francese aggiunge:

Si potrebbe pensare che l'aver scoperto i meccanismi universali su cui si basano le proprietà essenziali degli esseri viventi abbia permesso di risolvere il problema delle origini. In realtà tali scoperte, presentando sotto nuova luce tutta la questione, oggi posta in termini molto più precisi, l'hanno resa ancor più complessa di quanto non sembrasse prima.»42

Teleonomia, morfogenesi autonoma e invarianza riproduttiva, quindi, sono tre manifestazioni distinte di un'«essenza» che, ad un'indagine diretta, permane densa di mistero.

In questo senso, ci sia consentito di chiudere il presente lavoro individuando in Immanuel Kant il primo grande studioso che ha tentato di porre in termini non metafisici il problema della natura umana scindendo, altresì, la caratteristica principale del bios (e quindi degli organismi viventi) da qualsiasi nozione metafisica della vita (si consideri a riguardo l'interessante prospettiva di Tommaso D'Aquino circa I tre gradi d'immanenza di un'operazione vitale).43 Il grande genio del settecento, infatti, prendendo le distanze in modo esplicito dall'idea di disegno, ha il merito di aver distinto nettamente l'auto-organizzazione, caratteristica fondamentale del bios, da qualsiasi altra causalità: «Un prodotto organizzato della natura è quello in cui tutto è scopo e vicendevolmente anche mezzo. Niente in esso è gratuito, senza scopo, o da ascrivere ad un cieco meccanismo della natura.»44 «In un tale prodotto della natura ogni parte, così come c'è soltanto mediante tutte le altre, è anche pensata come esistente in vista delle altre e del tutto, vale a dire come strumento [...] Solo allora e per ciò un tale prodotto potrà essere detto, in quanto essere organizzato e che si auto-organizza, uno scopo naturale.»45

Alla luce di tutto ciò, gli organismi viventi non possono essere considerati, quindi, come meri «spettatori» del mondo, bensì come «attori-costruttori» che, in continuo rapporto con l'ambiente, trasformano se stessi creando così sempre nuovi significati.

Note

1. In particolare ci riferiamo ai seguenti volumi: Crick, F., L'origine della vita, Garzanti, Milano 1983; Jacob, F., Il gioco dei possibili, Mondadori, Milano 1983; Monod, J., Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1970.

2. Monod, Il caso e la necessità, p. 15-16.

3. Ibidem, p. 19.

4. Ibidem, p. 82.

5. Ibidem, p. 90.

6. Keller, E. F., Il secolo del gene, Garzanti, Milano 2001, p. 27.

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7. Ibidem, p. 9.

8. Ibidem, p. 56.

9. Ibidem, p. 96.

10. Brooks, R. A., «Elephants don't play chess», Robotics and autonomous systems, 6, (1990) p. 3-13.

11. Keller, Il secolo del gene, p. 97.

12. Ibidem, p. 99-100. Cors. nostro.

13. Ibidem, p. 98.

14. Abelson, H. et A., «Amorphous computing», White Paper, MIT. http://swiss.csail.mit.edu/projects/amorphous/papers/aim1665.pdf, 1999.

15. Ivi.

16. Keller, Il secolo del gene, p. 101.

17. Ibidem, p. 102.

18. Ibidem, p. 103.

19. Keller, E. F., Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, Gallimard, Janvier 2005, p. 291.

20. Langton, C. J., «Studying artificial life with cellular automata», Physica, 22D, 1986, p. 120-149.

21. Ivi.

22. Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, p. 292.

23. Wolfram, S., «Theory and application of cellular automata», World Scientific, Singapore 1986 (ed.).

24. Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, p. 293.

25. Ibidem, p. 295.

26. Toffoli, T. et N., Margulis, «Cellular automata machines: a new environment for modeling», MIT. Press, Cambridge 1987.

27. Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, p. 295-296.

28. Langton, C. J., «Studying artificial life with cellular automata», Physica, 22D, 1986, p. 120-149.

29. Monod, Il caso e la necessità, p. 29.

30. Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, p. 302-303.

31. Ibidem, p. 304.

32. Ibidem, p. 304-305.

33. Ibidem, p. 306.

34. Per un'introduzione allo studio della Teoria della Complessità, qui solo accennata, si veda: Prigogine, I., La complessità. Esplorazioni nei nuovi campi delle scienze,Einaudi, Torino 1991; Prigogine, I. e I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1993; Atlan, H.,(1992), «Self-organizing networks: weak, strong and intentional, the role of their underdetermination», La Nuova Critica, 19-20, p.51-71; Carsetti, A. (1993), «Meaning and Complexity: the role of non standard models», La Nuova Critica, 22, p. 57-86; Carsetti, A., «Randomness, Information and Meaningful Complexity: Some Remarks About the Emergence of Biological Structures», La Nuova Critica, 36 (2000): 47-128; Carsetti, A., «La filosofia della scienza di fronte alla sfida della complessità», in Caos Ordine Complessità, I quaderni dell'I.P.E., Cur. G. Del Re, E. Mariani, Napoli 1993; Carsetti, A., «Dalla Cibernetica alla Teoria della Complessità: il percorso intellettuale di Valerio Tonini», in Visione del mondo nella storia e nella scienza, I quaderni dell' I.P.E., Cur. E. Mariani, Napoli 1998; Carsetti, A., «Semantic Information and Biological Funtions », T. R., Rome (at press); Brocchi, G. e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007.

35. Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, p. 313-314.

36. Saturday October 6 2007, The Guardian: «I am creating artificial life, declares US gene pioneer.» Disponibile all'indirizzo http://guardian.co.uk/science/2007/oct/06/genetics.climatechange/.

37. Ci riferiamo all'intervista del 7 ottobre 2007 rilasciata da Angelo Vescovi a Il Giornale.it: «Così è stato fatto un passo verso l'esistenza artificiale» di Enza Cusmai. Disponibile all'indirizzo http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=211359.

38. Varela, J. F. (1985), «Complessità del cervello e autonomia del vivente», in Bocchi e Ceruti, (a cura di) La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007, p.123.

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39. Ibidem, p. 129

40. Atlan, H. (1985), «Complessità, disordine e auto-creazione del significato», in Bocchi e Ceruti, (A cura di) La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007, p.143.

41. Monod, Il caso e la necessità, p. 127.

42. Ibidem, p. 128

43. Tommaso D'Aquino [S. Th.]. Summa Theologiae, a cura di Caramello P., Torino 1952-56. [I, 18, 3c].

44. Kant, I., Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, p. 209-210.

45. Ibidem, p. 207.

Mirko Di Bernardo

Verso una fondazione naturalistica delle pre-condizioni dell'etica: semantica molecolare ed intenzionalità nei sistemi viventi

1. Agenti autonomi ed auto-catalisi

In Esplorazioni Evolutive, testo pubblicato nel 2000 dopo una faticosa gestazione durata quattro anni, Stuart Alan Kauffman, uno dei padri della teoria della complessità biologica contemporanea, mostra l'esito di una ricerca serendipica con un cospicuo numero di risultati sorprendenti. Si tratta di un'opera realmente esplorativa, piena di ipotesi di lavoro euristiche, talvolta feconde talvolta destinate al fallimento la cui argomentazione è, a tratti, oscura ed enigmatica, ma da cui traspaiono, senza ombra di dubbio, sia la passione per la ricerca della verità che l'attaccamento ad alcune tracce di lavoro promettenti. Rispetto agli anni di massimo fervore intellettuale del «pensatoio interdisciplinare» formatosi attorno al Santa Fe Institute durante i quali hanno visto la luce The Origins of Order e A casa nell'universo; rispetto, cioè, a quella temperie scientifica di fine novecento dove tutto sembrava possibile (scoprire la quarta legge della termodinamica per i sistemi aperti in non equilibrio, tracciare una teoria unificata dell'universo, decifrare le leggi senza tempo della biologia universale) e dove la Scienza della Complessità gettava ponti tra domini diversi della fisica, fra la Cibernetica e la teoria dell'informazione, nonché fra matematica, scienze biologiche, economia, psicologia e politica; Esplorazioni evolutive, rispetto a quell'epoca pionieristica, «rappresenta al contempo la chiusura di una trilogia e l'apertura di nuove possibilità, mosse dallo stesso stupore sincero, quasi fanciullesco degli esordi».1 Il grande biochimico americano, infatti, nelle sue esplorazioni cerca di dar vita ad un'ermeneutica dell'evoluzione che spieghi la logica costruttivista del vivente, una logica, vale a dire, che deriva dalla selezione naturale, dall'auto-organizzazione e da altri principi che tutt'ora restano incomprensibili. «La cosa strana della teoria dell'evoluzione è che tutti credono di conoscerla. Com'è vero! Essa sembra, naturalmente, così semplice. I fringuelli zampettano sulle Galapagos e migrano occasionalmente di isola in isola; becchi grandi e becchi piccoli sono utili per semi differenti; i becchi che si adattano ai semi nutrono i piccoli; i becchi di giusta foggia vengono favoriti dalla selezione; le mutazioni sono la riserva di variazioni ereditabili in una popolazione; le popolazioni si evolvono per mutazione, accoppiamento, ricombinazione e selezione per dar vita a quelle varietà ben demarcate che, per Darwin, sono nuove specie. Filogenesi a cespuglio nella biosfera. «Siamo qui, siamo qui!», ognuna grida la sua presenza che data a quattro milioni di anni in uno spettacolo all'aperto che si replica da quattro miliardi di anni. «Siamo qui!». Ma come? Come, in molti sensi. Innanzitutto, la teoria dell'evoluzione di Darwin è una teoria della discendenza con modificazioni. Essa finora non ha spiegato la genesi delle forme, ma la rifinitura delle forme, una volta che sono state generate. «Un po'come ottenere un melo potando tutti i rami», citando uno scettico di fine Ottocento. Come, nel senso più fondamentale: da dove è scaturita la vita per la prima volta? Darwin prende le mosse da una vita già presente. Da dove ha origine la vita è la sostanza di tutte le domande successive sull'origine e sul vaglio delle forme. [...] La cosa strana della teoria dell'evoluzione è che tutti credono di conoscerla. Ma non è così. Una biosfera, o un'econosfera, si

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costruiscono in modo auto-consistente secondo principi che ancora non sappiamo spiegare.»2 Questi esercizi di biologia teorica, dunque, si pongono un obiettivo molto ambizioso: andare alle radici della definizione del vivente. Così, il nume che lo studioso invoca, è il padre della meccanica quantistica, ovvero E. Schrödinger ed in particolare il suo capolavoro del 1943 dal titolo Che cos'è la vita? . In quel testo il grande fisico suggerì di non ridurre la vita alla fisica, ma di pensare ad una nuova fisica capace di spiegare l'organizzazione propagante della biosfera e dell'universo, ovverossia l'incessante produzione coevolutiva di nuova diversità e nuova complessità di cui solo la vita è capace. «Erwin Schrödinger [...] nel corso delle lezioni magistrali che tenne a Dublino, creò lo scenario della biologia contemporanea. [...] Nessuno però, neanche lo stesso Schrödinger, avrebbe potuto prevederne le conseguenze. Al suo libro, Che cos'è la vita? , si ascrive il merito di aver ispirato una generazione di fisici e di biologi alla ricerca della natura fondamentale dei sistemi viventi. Fu Schrödinger infatti a introdurre in biologia la meccanica quantistica, la chimica ed il concetto di informazione, formulato quest'ultimo in forma ancora embrionale. Egli fu l'antesignano della nostra conoscenza del DNA e del codice genetico. Eppure, per quanto geniale sia stata la sua intuizione, io credo che abbia mancato il bersaglio. Esplorazioni Evolutive punta proprio a quel bersaglio, ma trova in realtà un enigma.»3 Nei due libri precedenti, il grande studioso americano aveva messo in rilievo alcune ragioni crescenti per ritenere che l'evoluzione fosse più ricca persino di quanto avesse immaginato Darwin. La moderna teoria dell'evoluzione, basata sul concetto di discendenza con variazioni ereditabili filtrate dalla selezione naturale per conservare i cambiamenti adattativi, è giunta a ritenere la selezione come l'unica fonte di ordine nella biosfera. Ciò nonostante, la delicata simmetria esagonale di un fiocco di neve testimonia, secondo Kauffman, il fatto che l'ordine può emergere anche senza il contributo della selezione. «The Origins of Order e A casa nell'universo, i miei due libri, avanzano ragioni valide per ritenere che una buona parte dell'ordine negli organismi -- dall'origine stessa della vita all'incredibile ordine nello sviluppo di un neonato a partire da un uovo fecondato -- non sia il riflesso della sola selezione. Piuttosto, io credo, buona parte di tale ordine è auto-organizzato e spontaneo. L'auto-organizzazione si mescola con la selezione naturale secondo modalità poco chiare e produce la nostra pullulante biosfera in tutto il suo splendore. La teoria dell'evoluzione deve perciò essere ampliata. Ma ci serve qualcosa di ben più importante di una teoria dell'evoluzione ampliata. Pur con tutte le valide intuizioni nei miei due libri precedenti, e con l'ottimo lavoro di molte altre persone -- incluso il fulgore evidente della biologia molecolare degli ultimi trent'anni -, il cuore della vita stessa è rimasto come nascosto dietro ad un velo. Noi conosciamo frammenti della meccanica molecolare, dei percorsi metabolici, degli strumenti di biosintesi delle membrane. Insomma, conosciamo molte parti e molti processi. Eppure non ci è ancora chiaro che cosa fa di una cellula qualcosa di vivente: il bersaglio è ancora avvolto nell'ombra.»4 Ritorniamo per un momento alle illuminanti intuizioni di Schrödinger ed al suo tentativo di dare una definizione cardinale della vita. Che cos'è la vita? ha fornito una risposta sorprendente alla sua indagine relativa all'essenza del bios, ponendo una questione rilevante: da dove deriva lo straordinario ordine negli organismi? La risposta classica (per Schrödinger erronea) risiedeva nella fisica statistica. Se si sospende una goccia di inchiostro nell'acqua immobile di una capsula di Petri, per esempio, essa si diffonderà raggiungendo all'equilibrio una distribuzione uniforme, che costituisce una media ricavata da un numero enorme di atomi o di molecole, e non è attribuibile al comportamento di singole molecole: qualsiasi fluttuazione locale della concentrazione di inchiostro, infatti, presto si dissipa per ritornare all'equilibrio. Schrödinger basò il suo ragionamento sulla genetica sperimentale e sui dati relativi all'induzione attraverso raggi X di mutazioni genetiche ereditabili. Così, calcolando «la dimensione del bersaglio» di tali mutazioni, egli capì che un gene poteva includere poche migliaia di atomi.5 Si consideri, per esempio, il lancio, 10000 volte, di una moneta regolare. Il risultato sarà 50% testa e 50% croce con una fluttuazione di circa 100, ovvero la radice quadrata di 10000. Una tipica fluttuazione da testa e croce 50: 50, perciò, sarà pari a 100/10000, ovvero all'1%. Si immagini ora che il numero dei lanci sia 100 milioni: le sue fluttuazioni saranno la sua radice quadrata, cioè 10000. Se si effettua la divisione, 10000/10000000 produce una tipica deviazione, pari allo 0. 01%, dal rapporto 50: 50. «Schrödinger era pervenuto alla conclusione corretta: se i geni sono costituiti da diverse centinaia di atomi appena, le fluttuazioni statistiche familiari previste dalla meccanica statistica sarebbero così ampie che l'ereditabilità sarebbe pressoché impossibile. Le mutazioni spontanee si verificherebbero con una frequenza enormemente più grande di quella osservata. La fonte di ordine deve risedere altrove. La meccanica quantistica, sosteneva Schrödinger, viene in soccorso alla vita. Essa assicura che i solidi abbiano strutture molecolari rigidamente organizzate, e un cristallo ne è il caso più semplice. Ma i cristalli sono strutturalmente monotoni: i loro atomi sono disposti su una griglia tridimensionale regolare. Se conosciamo la posizione di tutti gli atomi in un'unità minima di cristallo, sapremo dove si trovano tutti gli altri atomi dell'intero cristallo. E'un po'un'esagerazione, poiché vi possono essere difetti complessi. Il punto però è chiaro: i cristalli possiedono strutture molto regolari, e dunque le loro differenti parti diranno in un certo senso tutte la stessa cosa. [...] Schrödinger tradusse l'idea del «dire» nell'idea del «codificare».»6 Compiuto quel salto, però, un cristallo regolare non può «codificare» molta «informazione» poiché quest'ultima è già contenuta interamente nella cellula unitaria. Così, se i solidi hanno l'ordine richiesto ma i solidi periodici come i cristalli sono troppo regolari, l'attenzione del grande fisico si concentra allora sui solidi aperiodici: «Una piccola molecola potrebbe dirsi «il germe di un solido».

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Prendendo le mosse da un tale piccolo germe solido, sembrano esservi due diversi modi di fabbricare assiemi di atomi sempre più vasti. Uno è quello relativamente monotono di ripetere all'infinito la stessa struttura nelle tre direzioni. Questo è quello che si realizza nell'accrescimento dei cristalli. Una volta che la periodicità è stabilita non vi è un limite definito alle dimensioni dell'aggregato. L'altro modo è quello di costruire un aggregato sempre più esteso, senza ricorrere al banale espediente della ripetizione. Questo è il caso delle molecole organiche via via più complicate, nelle quali ogni atomo ed ogni gruppo di atomi ha una funzione particolare, non interamente equivalente a quella di molti altri (come avviene in una struttura periodica). Potremmo, in modo proprio, chiamare una tale struttura un cristallo o solido aperiodico ed esprimere la nostra ipotesi con le parole: noi riteniamo che un gene, o forse l'intera fibra cromosomica, sia un solido aperiodico.»7 La forma dell'aperiodicità, inoltre, conterrà una sorta di codice microscopico che in qualche modo controlla lo sviluppo dell'organismo: «Ci siamo spesso chiesti come mai questa insignificante particella di materia, il nucleo dell'uovo fecondato, possa contenere tutto un elaborato codice che riguarda tutto il futuro sviluppo dell'organismo. Una ben ordinata associazione di atomi dotata di sufficiente stabilità per mantenere il suo ordine in permanenza, sembra essere l'unica struttura materiale concepibile, che offra una varietà di possibili riordinamenti (isomerici) sufficientemente grande da racchiudere un complicato sistema di «predeterminazioni» entro un volume spaziale piccolo. Infatti, non è necessario che il numero di atomi in una struttura di questo genere sia molto grande, per dar luogo ad un numero di possibili ordinamenti diversi, praticamente illimitato. Considerate a titolo d'esempio, il Codice Morse. I due diversi segni, il punto e la linea, in gruppi ben ordinati di non più di quattro, permettono di ottenere una trentina di differenti specificazioni. Ora, se vi permettete l'uso di un terzo segno, oltre al punto e alla linea e fate uso di gruppi di non più che dieci segni, potete formare 88. 572 differenti lettere; con cinque segni e gruppi fino a venticinque, il numero è 372. 529. 029. 846. 191. 405. [...] Naturalmente, nel caso reale, è chiaro che non ogni disposizione del gruppo di atomi rappresenterà una possibile molecola; inoltre, la questione non è quella di adottare un codice arbitrario, poiché il codice stesso deve essere il fattore operante che porta innanzi lo sviluppo. Ma, d'altra parte, il numero da noi scelto nell'esempio [...] è ancora molto piccolo e abbiamo inoltre tenuto conto soltanto della semplice disposizione dei segni lungo una linea. Ciò che desideriamo porre in rilievo è soltanto il fatto che con il modello molecolare di un gene non è più inconcepibile che il codice in miniatura venga esattamente a corrispondere ad un complicatissimo e specificato piano di sviluppo ed in qualche modo contenga i mezzi per realizzarlo.»8 Il carattere quantistico del solido aperiodico sta a significare che si verificheranno piccoli cambiamenti discreti: le mutazioni. Infine, la selezione naturale, agli occhi del grande fisico, operando su questi piccoli cambiamenti discreti, selezionerà le mutazioni favorevoli secondo il modello divisato da Darwin: «Concesso che si debbano spiegare le rare mutazioni spontanee per mezzo delle fluttuazioni casuali dell'agitazione termica, non dobbiamo troppo stupirci del fatto che la natura sia riuscita a fare una così oculata scelta dei valori di soglia da rendere le mutazioni un evento raro. Infatti siamo arrivati precedentemente alla conclusione che mutazioni frequenti sono dannose all'evoluzione. Individui che, per mutazione, acquistano una configurazione genica di insufficiente stabilità avranno poca probabilità di vedere la loro discendenza, «ultraradicale» e rapidamente mutante, sopravvivere a lungo. La specie si libererà di essi e presceglierà così, per selezione naturale, dei geni stabili.»9 Alla luce di quanto detto sinora, dunque, Kauffman così scrive: «A cinquant'anni di distanza, trovo che il ragionamento di Schrödinger sia affascinante e brillante. In un colpo solo, egli concepì quella che nel 1953 sarebbe diventata la chiarificazione della struttura della doppia elica del DNA da parte di James Watson e di Francis Crick, con una considerazione nel loro articolo originale che, come è noto, è stata minimizzata: cioè che la struttura del DNA suggerisce il suo modo di replicarsi e il suo modo di codificare l'informazione genetica. A cinquant'anni di distanza sappiamo moltissime più cose. [...] Ci siamo avvicinati al sogno di Schrödinger. Ma siamo anche più vicini a rispondere alla domanda «che cos'è la vita?» La risposta, quasi certamente, è no. Io non sono nella condizione di affermare così su due piedi perché lo penso, ma posso abbozzare una spiegazione. Esplorazioni Evolutive è la ricerca di una risposta. [...] I sentieri lungo cui ho proceduto con passo malfermo, intravedendo una possibile terra inesplorata, mi sembra meritino davvero una presentazione e una considerazione serie. Con mio grande stupore, la storia che qui si dispiegherà suggerisce una risposta nuova alla domanda «che cos'è la vita?» Risposta di cui non mi aspettavo nemmeno un abbozzo e ancora mi sorprendo per essere stato guidato verso queste direzioni inattese. Una direzione suggerisce che una risposta potrebbe richiedere un cambiamento fondamentale nel modo in cui pratichiamo la scienza fin dai tempi di Newton. La vita sta facendo qualcosa di assai più ricco di tutti i nostri possibili sogni, qualcosa di letteralmente incalcolabile. Quale è il ruolo di una legge se, come abbiamo accennato, le variabili e lo spazio delle configurazioni di una biosfera, o magari di un universo, non possono essere specificati? Eppure, io credo che esistano leggi. E se queste mie meditazioni sono vere, allora è la scienza in sé che dobbiamo ripensare.»10 Siamo, dunque, di fronte ad un libro di maturazione intellettuale ed umana, ovvero al compimento di un lungo percorso che ha condotto il grande biochimico verso il nucleo dell'attuale teoria della complessità biologica: l'agente autonomo, ovvero l'unità di base di una biologia generale indipendente dal supporto, definito come «un sistema auto-riproduttivo capace di eseguire almeno un ciclo di lavoro termodinamico.»11 Si consideri un batterio che nuota controcorrente in

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un gradiente di glucosio sfruttando il suo motore flagellare rotativo. Se ci si domanda cosa effettivamente stia facendo, è possibile rispondere senza esitazione che «sta andando a procurarsi da mangiare». Ciò, agli occhi di Kauffman, significa che, pur senza attribuirgli una coscienza o una finalità cosciente, risulta possibile concepire il batterio come «agente a proprio vantaggio in un ambiente»: esso, infatti, sta nuotando controcorrente per ottenere il glucosio di cui necessita. Ebbene, quei batteri che raggiungono effettivamente il glucosio, o il suo equivalente, possono sopravvivere con più probabilità rispetto a quelli che non riescono ad usufruire dello stratagemma motorio flagellare; la selezione naturale, pertanto, li selezionerà positivamente. «Un agente autonomo è un sistema fisico come lo è il batterio, che può agire a proprio vantaggio in un ambiente. Tutte le cellule dotate di vita autonoma e gli organismi sono chiaramente agenti autonomi. Il carattere quasi familiare, ma del tutto straordinario, degli agenti autonomi -- Escherichia coli, e parameci, cellule del lievito e alghe, spugne e platelminti, anellidi e ognuno di noi -- è la capacità che abbiamo di manipolare ogni giorno il mondo circostante: noi nuotiamo, strisciamo, ci attorcigliamo, costruiamo, ci nascondiamo, annusiamo e ghermiamo. [...] Il nostro batterio con il suo motore rotativo flagellare che nuota controcorrente verso la sua cena è, come puro fatto, un sistema molecolare auto-riproduttivo che segue uno o più cicli di lavoro termodinamici. E lo è il paramecio che insegue il batterio augurandosi la propria, di cena. E altrettanto lo è il dinoflagellato a caccia del paramecio che tende un agguato al batterio. [...] Ci vorrà del tempo per esplorare a fondo questa definizione. Spiegarne minutamente le implicazioni rivela molte cose che nemmeno lontanamente avevo previsto. Una prima intuizione è che un agente autonomo deve essere allontanato dall'equilibrio termodinamico perché i cicli di lavoro non possono verificarsi all'equilibrio. Il concetto di agente è dunque di per sé un concetto di non equilibrio. In esordio, è anche chiaro che questo nuovo concetto di agente autonomo non è contenuto nella risposta di Schrödinger. Il suo brillante salto concettuale ai solidi aperiodici codificanti l'organismo, che spiegò le ali alla biologia di metà Novecento, sembra essere soltanto lo sprazzo di una storia ben più grande.»12 A dire il vero, a questo stadio la definizione provvisoria di Kauffman non è circolare, poiché «riproduce se stesso» e «ciclo di lavoro» li possiamo definire indipendentemente. Ma quando, nei prossimi paragrafi, scaveremo più a fondo nel concetto di agente autonomo, sorgeranno definizioni circolari relative a «lavoro», «lavoro propagante», «vincoli», «organizzazione propagante» e «compito». L'obiettivo del grande studioso consiste, dunque, nel mettere in luce come il circolo definizionale sia virtuoso e quindi foriero di una nuova comprensione del concetto di «organizzazione» in sé. In breve, sviscerare questa definizione ci condurrà in un territorio misterioso. In parte, l'enigma riguarda la risposta ad un interrogativo preciso: quale è la forma matematica opportuna per descrivere un agente autonomo? Si tratta di un numero, e quindi di uno scalare? Di un elenco di numeri, e quindi di un vettore? Di un tensore? Secondo Kauffman la risposta è negativa poiché quello di agente autonomo è un concetto relazionale. Le cellule viventi, infatti, appaiono ineluttabilmente come totalità organizzate. Una cellula non è un singolo tipo di molecola che replica se stessa, bensì una ricca trama di eventi molecolari mediante i quali quella totalità propaga «riduzioni approssimative di se stessa». Esiste poi il metabolismo, vi è l'attività di comprensione, traduzione ed innovazione di diversi linguaggi che interagiscono incessantemente tra loro come, ad esempio, quello del DNA, quello relativo ai vari RNA ed infine quello delle proteine dove il codice stesso è mediato dagli enzimi di attivazione (aminoaciltrasferasi) che caricano sulle opportune molecole di tRNA gli aminoacidi corretti al fine di tradurre il codice, un codice, vale a dire, capace di creare gli enzimi aminoaciltrasferasi stessi. Nella cellula, inoltre, c'è il «fruscio» di energia che fluisce simultaneamente dentro, e attraverso, quelle che potremmo definire come vie labirintiche principali e secondarie che collegano la degradazione di fonti a elevata energia alla sintesi di prodotti che richiedono l'aggiunta di energia libera. «Una cellula vivente è, a un esame, [...] un sistema collettivamente auto-catalitico. Nessuna specie molecolare da sola produce copie di se stessa. Che cos'è questa totalità? E poi, l'olismo è necessario? Di che cosa necessita quell'intricata trama della rete molecolare che appare come l'anima stessa di una cellula? In qualsiasi teoria dei geni nudi replicanti, come la concezione standard di un polinucleotide replicante, sia esso senza enzimi oppure una RNA polimerasi alla Szostak che bisbiglia felicemente tra sé e sé, «AAUGGCCAAUCCCC... .», la virtù è nell'apparente semplicità dei primi passi della vita. Fate sì che la nuda molecola capace di replicare se stessa esista e altrove prenderà forma una biosfera. Rimane però irrisolta la questione dell'origine della trama olistica di una cellula e, faccenda più critica, se la rete è essenziale. Mi spiego. I sistemi viventi autonomi più semplici, i pleuromonia (PPLO), una specie batterica semplificata che infesta i polmoni delle pecore, già possiedono una membrana, un DNA, un codice, forse trecento geni assortiti, un congegno per la trascrizione e la traduzione, un metabolismo e un collegamento dei flussi di energia verso e attraverso l'interno. Un pregio della teoria del gene nudo è l'origine semplice della vita. Un suo difetto è che non sa rispondere alla domanda: perché le cellule libere hanno una complessità apparente minima? Suppongo che una complessità minima sia reale. Assemblare una varietà sufficiente di funzioni molecolari che lavorino di concerto dando vita a una creatura essenziale, capace di riprodursi e di evolvere verso una complessità superiore, potrebbe richiedere una complessità minima. Evolversi da un simile antenato comune verso la complessità crescente di una biosfera potrebbe richiedere una varietà di funzionalità iniziali. Tant'è che persino il matematico J. von Neumann ritenne anni addietro che una complessità minima sia necessaria per creare un sistema capace di riprodursi e di arricchire quella complessità.»13 La forza della teoria degli insiemi auto-catalitici, così come divisata da

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Kauffman, risiede proprio nel fatto di condurre naturalmente ad attenderci un ineluttabile olismo di complessità minima: «In un insieme autocatalitico tutte le molecole la cui formazione deve essere catalizzata trovano all'interno dell'insieme medesimo la specie molecolare che catalizza le reazioni della loro formazione. Tutte le funzioni catalitiche vengono svolte di modo che l'insieme sia collettivamente autocatalitico. Non si tratta di un olismo mistico, ma di una proprietà reale, osservabile, di un insieme di molecole collettivamente autocatalitico. La nuova radicale concezione della vita cui aderisco è che la vita si fondi su un insieme di molecole collettivamente autocatalitico, e non sulla replicazione a stampo in sé. [...] Da quando Watson e Crick hanno scoperto la simmetria dello stampo del DNA a doppia catena, tutti hanno compreso come una molecola copia se stessa. Ma le proteine? Questa classe di molecole si ripiega in compatte strutture tridimensionali, l'emoglobina per esempio. Come potrebbe un meccanismo copiare quella struttura? Ebbene, risulta difficile se lo scopo è copiare la struttura dell'emoglobina in un unico passaggio. Ma se vengono saldate sottosequenze della proteina e si costruisce l'intera sequenza da suoi frammenti? E che dire della possibilità concettuale di un insieme collettivamente autocatalitico basato interamente su proteine che catalizzano reciprocamente la propria formazione attraverso una qualche stima di reazioni di saldatura?»14

M. R. Ghadiri e colleghi hanno realizzato la prima stupefacente scoperta in questo senso. Nell'articolo del 1996 dal titolo: A self-Replicating Peptide, infatti, questi chimici operanti allo Scripps Research Institute hanno pubblicato il primo esempio di proteina auto-riproduttiva. L'esperimento è stato il seguente. Sia A una sequenza lunga 32 aminoacidi la quale catalizza la formazione di una copia di se stessa allineando e saldando due propri frammenti. La sequenza di 32 aminoacidi si ripiega in un Ü-elica, che a sua volta si ripiega su se stessa creando una struttura a superelica. Ghadiri ha congetturato che, ripiegandosi l'Ü-elica su se stessa e legandosi perciò a se stessa, la medesima sequenza poteva legare due propri frammenti. Per fornire l'energia utile a guidare la formazione del legame peptidico tra i frammenti adiacenti, lo studioso è ricorso ad uno stratagemma chimico: ha fatto sì che un primo frammento fosse elettrofilo (E) e un secondo nucleofilo (N). Il grande chimico, inoltre, ha definito templato (T) il peptide a 32 aminoacidi. A questo punto abbiamo che T allinea E ed N adiacenti a se stesso e catalizza la saldatura di E e di N, creando una seconda copia di T.15 L'esperimento è riuscito brillantemente. Ghadiri e colleghi hanno dimostrato che la vita potrebbe essere basata solo su proteine. Ebbene, lo stesso gruppo di studiosi, in un lavoro successivo ha creato un «brodo» composto da peptidi T, E ed N simili. Qui, un templato specifico T1 poteva catalizzare non solo la saldatura di E1 e di N1 formando così una seconda coppia di T1, bensì poteva anche catalizzare la saldatura di E2 e di N2 per formare T2. A sua volta, T2 poteva agire non solo su E2 ed N2, ma anche su N1 ed E1, o su altre combinazioni di frammenti E ed N.16 Alla luce di quanto detto sinora, dunque, Kauffman così scrive: «Riassumendo, tra le possibilità già dimostrate vi sono reti di reazioni di modesta complessità, costituite da peptidi auto-catalitici e a catalisi incrociata. Per esempio A potrebbe catalizzare la propria formazione come pure la formazione di B, mentre B potrebbe catalizzare la propria, di formazione, e anche quella di A, in una struttura catalitica che nel 1977 il premio Nobel Manfred Eigen ha definito con Peter Schuster iperciclo. Ghadiri e collaboratori hanno pubblicato il primo esempio di iperciclo peptidico. Una rete collettivamente autocatalitica, dove A e B catalizzano mutuamente la propria formazione, ma né A né B lo fanno direttamente, non è ancora stata ottenuta, ma lo sarà presumibilmente in un futuro prossimo. [...] Gli esperimenti di Ghadiri aprono la strada al lavoro su sistemi molecolari auto-riproduttivi in reti complesse di reazioni chimiche dove i substrati e i prodotti sono tutti peptidi. Il campo della diversità molecolare, vale a dire la generazione di trilioni di sequenze più o meno casuali di DNA, di RNA e di proteine, significa che possiamo creare reti di reazioni complesse a volontà. Poiché DNA, RNA e proteine possono tutti legarsi a, e presumibilmente anche a catalizzare, reazioni che coinvolgono altre classi di polimeri, nulla impedisce di andare a caccia di sistemi auto-catalitici e collettivamente autocatalitici di DNA, di RNA e di specie proteiche, tutti insieme. [...] Se Ghadiri può costruire un peptide autocatalitico o una rete di reazioni peptidiche collettivamente autocatalitica, non possono tali sistemi assemblarsi per caso? Forse che la vita è prefigurata nelle leggi di tutto questo? Io intendo proporre una concezione ancora allo stadio di teoria, secondo cui la vita, come le rozze bestie di Yeats, striscia verso Betlemme per essere partorita -- nascita virginale di tutti noi. Desidero sostenere che la vita è una proprietà attesa, emergente, di reti complesse di reazioni chimiche. In condizioni piuttosto generali, al crescere della diversità di specie molecolari in un sistema di reazioni, viene attraversata una transizione di fase, superata la quale diventa pressoché inevitabile la formazione di insiemi di molecole collettivamente autocatalitici. Se così, siamo figli della diversità molecolare, figli delle stelle di seconda generazione.»17 Secondo questa visione dunque la vita è copiosa, è emergente, è attesa, un fenomeno, vale a dire, che si dispiega misteriosamente all'interno di un universo creativo. Se tale prospettiva è corretta, quindi, l'emergenza di insiemi autocatalitici non è difficile, ma relativamente facile. Agli occhi di Kauffman, infatti, è necessario un modo per assemblare varietà di RNA, di proteine o di altri substrati (o catalizzatori potenziali) per tenerli in prossimità affinché non si allontanino per diffusione da un contatto reciproco efficace, e che, infine, il caso ed i numeri compiano la «magia». Tuttavia, se in A casa nell'universo il grande studioso riteneva che la chiusura auto-catalitica fosse la proprietà fondamentale della vita anche perché permetteva di spiegare la misteriosa evoluzione dalle

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strutture pre-biotiche alle cellule evolute (con DNA, RNA e proteine), in Esplorazioni Evolutive, invece, la sua posizione appare molto più cauta. «[...] La vita è una proprietà emergente attesa di reti complesse di reazioni chimiche. Bisogna tuttavia essere prudenti. In primo luogo, dobbiamo sapere se il nostro calcolo approssimativo su una semplice pcat è robusto. Parrebbe di si. Per una serie di ipotesi circa la distribuzione di attività catalitiche tra insiemi di molecole, e una serie di ipotesi sulla struttura statistica dei grafi delle reazioni, quando si manifesta una diversità critica gli insiemi autocatalitici tendono a emergere. Ma andiamoci cauti: è necessario ulteriore lavoro teorico e, soprattutto in questa fase, molto lavoro sperimentale ancora. In secondo luogo anche nel caso che la teoria precedente fosse vera, non abbiamo ancora parlato dell'emergenza di un metabolismo che risolva il problema termodinamico: cioè il problema di guidare la sintesi rapida di specie molecolari sopra le rispettive concentrazioni all'equilibrio collegando tale sintesi alla liberazione di energia attraverso la demolizione di altre specie chimiche. Le reazioni chimiche che liberano energia vengono definite esoergoniche e, viceversa, endoergoniche quelle che richiedono energia chimica. Le cellule viventi connettono reazioni endoergoniche e reazioni esoergoniche al fine di produrre concentrazioni elevate di molte specie molecolari. [...] Il legame tra reazioni esoergoniche ed endoergoniche si rivela infatti essenziale nella definizione di agente autonomo, quella misteriosa concentrazione di materia, di energia, di informazione, e di quel qualcosa in più che chiamiamo vita. In breve, io sosterrò che auto-catalisi e riproduzione molecolare sono si necessarie per la vita, ma non ancora sufficienti. La vita possiede realtà più profonde, e ancora più misteriose, di quell'autocatalisi che siamo andati esplorando [...] .»18 Ebbene, nel tentativo di sondare l'essenza misteriosa della vita, dunque, Kauffman cerca ora di esplorare più in profondità la circolarità insita nella definizione stessa di agente autonomo, prendendo le mosse dalla pietra angolare della termodinamica: il ciclo di Carnot.

Carnot, nel volume dal titolo: Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco, si dedicò alla comprensione degli elementi fondamentali dell'estrazione di lavoro meccanico da fonti di energia termica. Il risultato dei suoi sforzi fu l'analisi di un dispositivo ideale per ricavare lavoro meccanico dal calore, il ciclo di Carnot.19

Figura 1

La figura 1 illustra gli elementi essenziali della macchina ideale di Carnot, la quale è costituita da due serbatoi di calore di cui uno più caldo dell'altro, T1 > T2. Tra i due serbatoi è collocato un cilindro contenente un pistone. Lo spazio tra la parte superiore del pistone e la testa del cilindro è riempito da un gas che «compie lavoro ideale», che può essere compresso e può espandersi. Un gas reale (e a maggior ragione un gas ideale) una volta compresso si riscalda e, viceversa, una volta espanso si raffredda. Kauffman modifica la macchina di Carnot per un aspetto centrale il quale rende esplicito, senza alterarlo, un carattere importante dell'attività reale della macchina stessa: egli, infatti, attacca una manopola al cilindro. Sarà un soggetto esterno, quindi, a far funzionare la macchina. Il ciclo di Carnot inizia con il pistone compresso in alto, quasi alla sommità del cilindro, e con il gas compresso e caldo, come la temperatura elevata T1. Se si tira la manopola, quest'ultima farà scivolare il cilindro (privo di attrito) a contatto con il serbatoio a temperatura elevata T1. A questo punto, allora, se si lascia la manopola, il gas si espande nel cilindro spingendo così il pistone in basso, lontano dalla testa del cilindro. Questa è la prima parte della corsa di lavoro della macchina di Carnot. Quando ha inizio la corsa di lavoro il gas si espande e comincia a raffreddarsi. Tuttavia, poiché il cilindro è a contatto con il serbatoio termico caldo, il calore fluisce nel cilindro da T1 e mantiene il gas praticamente alla temperatura costante T1. In realtà, se si opera sulla macchina di Carnot con adeguata lentezza, la temperatura rimane costante: un'operazione lenta viene definita reversibile. Se, invece, si opera sulla macchina più rapidamente (irreversibilmente) la temperatura viene mantenuta pressoché costante lungo questa fase della corsa di lavoro che viene definita «fase di espansione isotermica» del ciclo di Carnot. Kauffman raffigura lo stato del sistema or ora accennato in un sistema di coordinate cartesiane dove l'asse delle ascisse corrisponde al volume del gas e l'asse delle ordinate

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alla sua pressione (figura 2).

Figura 2

Il ciclo ha avuto inizio con il pistone prossimo all'estremità del cilindro, con il gas caldo e compresso. Quando avviene la fase di espansione la pressione diminuisce leggermente mentre il volume aumenta sensibilmente. Il segmento corrispondente del ciclo collega la posizione di partenza (posizione1), alla posizione 2 per mezzo di un segmento che rappresenta i valori simultanei di volume e pressione durante la fase di espansione isotermica della corsa di lavoro. La seconda fase della corsa di lavoro, invece, ha inizio spingendo la manopola e allontanando il cilindro dal serbatoio caldo T1 per collocarlo in una posizione intermedia tra i due serbatoi senza che venga a contatto con nessuno dei due. Se si lascia improvvisamente la manopola, il gas continuerà ad espandersi spingendo in basso il pistone allontanandolo dalla testa del cilindro. Tuttavia, dato che il cilindro non è a contatto con T1 e il gas si sta espandendo divenendo altresì percettibilmente più freddo, la pressione diminuirà notevolmente mentre il volume aumenterà leggermente. Questa fase della corsa di lavoro viene definita da Carnot espansione adiabatica. La fase di espansione adiabatica sposta il sistema dalla fase 2 alla fase 3, la fase finale della corsa di lavoro, ovvero un punto in cui la pressione raggiunge il livello minimo mentre il volume del gas è al punto massimo del ciclo. Per far ritornare la macchina di Carnot allo stato iniziale1 così che il gas possa nuovamente espandersi e compiere lavoro meccanico sul pistone, deve essere svolto del lavoro sul motore per riportare il pistone alla sua posizione vicina alla testa del cilindro ricomprimendo e scaldando di nuovo il gas in modo tale che i suoi valori di temperatura e pressione (il suo stato) corrispondano allo stato1 (figura 2). «La macchina di Carnot, come tutte le macchine termiche, invece di ripercorrere la via della corsa di lavoro ricorre ad un semplice stratagemma. Sarete voi a farlo: alla fase3, la terminazione della corsa di lavoro, afferrate la manopola, spingendo così il cilindro a contatto con il serbatoio a bassa temperatura T2. Voi infatti avete disposto le cose in modo che alla fine della corsa di lavoro il gas sia anch'esso alla temperatura più bassa T2. Adesso che il cilindro è a contatto con T2, girate attorno alla base del cilindro, dove una robusta manopola è attaccata al pistone e si protende oltre la base del cilindro. Spingete la manopola, che spingerà il pistone verso l'alto nel cilindro e comprimerà così il gas. Mentre effettuate questo lavoro sul pistone, il gas in fase di compressione tende a scaldarsi. Ma, grazie al contatto con il serbatoio a bassa temperatura, il calore generato dalla compressione nel gas si diffonde nel serbatoio freddo T2, mantenendo il gas solo leggermente più caldo di T2. Così facendo, il volume diminuirà apprezzabilmente, mentre la pressione aumenterà leggermente. Il punto chiave dello stratagemma è che è necessario meno lavoro per comprimere un gas che rimane freddo che non un gas che si riscalda. Poiché il gas viene mantenuto ad una temperatura pressoché costante T2, questa fase della corsa di compressione viene definita compressione isotermica, e sposta il sistema nel suo spazio degli stati pressione-volume dalla posizione 3 alla posizione 4. Alla fine della fase di compressione isotermica, siete ancora voi a entrare in scena: tirate la manopola, allontanando il cilindro dal contatto con il serbatoio freddo T2 in una posizione tra T2 e T1, senza che esso sia a contatto né con l'uno né con l'altro. A quel punto, spingete un'altra volta la manopola collegata al pistone, comprimendo ulteriormente il gas. A

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causa della compressione del gas e al fatto che non è in contatto con il serbatoio T1 freddo, il gas si riscalda e la pressione aumenta sensibilmente mentre il volume diminuisce appena, e intanto il gas viene compresso finché si raggiunge lo stato iniziale del gas compresso caldo, la fase1. Adesso, il ciclo è completato. [...] Ho sottolineato il ruolo vostro e della manopola in questo cammino attraverso il ciclo. È chiaro che in una macchina reale il ruolo della manopola è svolto da vari ingranaggi, bielle, scappamenti e altri congegni meccanici che rivestono un ruolo essenziale: la manopola e voi, oppure gli ingranaggi, le bielle e gli scappamenti, organizzano letteralmente il flusso del processo ricorrente. Ritornerò su questa organizzazione del flusso del processo in una macchina o in un agente autonomo. Il ciclo di Carnot è coinvolto nel rilascio organizzato di energia termica per ottenere lavoro meccanico ricorrente. L'organizzazione del lavoro è essenziale -- e sarà centrale -- per riflettere su quanto accade in un agente autonomo. Infatti, a noi serve anche un modo per caratterizzare l'organizzazione di processi reali nel mondo in non equilibrio. Non credo che disponiamo già di un concetto adeguato di organizzazione.»20 Il ciclo di Carnot, dunque, opera in un ciclo, come fanno un motore a vapore, un motore a benzina ed un motore elettrico, poiché, completato un ciclo, il sistema totale viene riportato allo stato iniziale dell'avvio del ciclo: l'organizzazione del processo, quindi, ritorna alla configurazione iniziale da cui il sistema potrà eseguire ancora una volta un ciclo. «[...] L'organizzazione ciclica dei processi nella macchina di Carnot, in quella a vapore, a gas, oppure in quella elettrica, realizza l'organizzazione richiesta proprio perché il sistema opera come un processo ciclico.»21

Una seconda questione su cui, agli occhi di Kauffman, è opportuno riflettere riguarda un aspetto ben conosciuto della macchina di Carnot. «Se la sequenza di stati viene percorsa in direzione contraria, così che la macchina venga attivata dallo stadio 1 allo stadio 4 allo stadio 3, e poi al 2 e di qui all'1, la macchina di Carnot non si comporta affatto da pompa, ma piuttosto da frigorifero. Attivata in direzione contraria, la macchina di Carnot usa il lavoro meccanico per pompare calore dal serbatoio freddo T2 al serbatoio caldo T1, raffreddando T2. [...] Gli aspetti che meritano di essere considerati sono quindi due: il primo è che la stessa macchina, la macchina di Carnot, può essere sia pompa che frigorifero. Dipende dalla sequenza delle operazioni. [...] Sostanzialmente, la stessa macchina può eseguire due funzioni, o compiti, molto differenti: pompare in un caso e raffreddare nell'altro.»22 Il terzo punto individuato da Kauffman concerne processi spontanei e processi non spontanei. Sono stati necessari più di cinquant'anni dagli studi di Carnot per iniziare a comprendere veramente la termodinamica e per inventare la meccanica statistica che collega termodinamica e meccanica newtoniana. Alcuni processi si verificano spontaneamente mentre altri processi plausibili no. Per esempio, se un gas caldo viene messo a contatto con un gas freddo, i due, a tempo debito, avranno la stessa temperatura: il calore, infatti, si diffonde spontaneamente dall'oggetto caldo a quello freddo, raffreddando il primo e scaldando il secondo. In meccanica statistica la concezione comune di «caldo» corrisponde ad atomi in movimento rapido, ovvero con la nozione di energia cinetica elevata. Quando questi atomi interagiscono con atomi più lenti le collisioni trasferiscono energia cinetica a questi ultimi accelerandoli e provocando così il rallentamento dei primi. Con il passare del tempo gli atomi appartenenti ai due insiemi arriveranno ad avere la stessa distribuzione statistica dei moti e quindi la stessa energia cinetica, vale a dire la stessa temperatura. La seconda legge della termodinamica, come tutti sanno, stabilisce che l'entropia di un sistema è costante oppure cresce. L'interpretazione moderna dell'entropia può essere formulata grossomodo ricorrendo al concetto di spazio delle fasi 6n-dimensionali. Si consideri un sistema chiuso e isolato, per esempio un gas ideale in un termos. Si ipotizzi, inoltre, che nel termos vi siano n particelle di gas . Ebbene, ogni particella sarà in movimento nello spazio tridimensionale reale; allora, sarà possibile scegliere un sistema di coordinate tridimensionali arbitrario con lunghezza, larghezza e altezza (x, y, z). E risulta possibile anche rilevare la posizione di ogni particolare particella nel termos in ciascun istante per ciascuna delle tre coordinate di posizione. Ogni particella, oltre ad avere una posizione, potrebbe essere in movimento, potrebbe avere una velocità e una quantità di moto associate a qualche direzione nel termos. Ricorrendo alle regole della composizione vettoriale delle forze di Newton è possibile scomporre il movimento della particella reale nei suoi movimenti nelle direzioni x, y e z. «La quantità di moto in ciascuna di queste direzioni è proprio la massa della particella moltiplicata per la sua velocità in quella direzione. La regola della composizione vettoriale di Newton afferma che possiamo risalire al moto della particella iniziale costruendo l'evidente parallelogramma che ricompone di nuovo i vettori della velocità o della quantità di moto sugli assi x, y, z. Allora, di ciascuna particella, possiamo rappresentare con 6 numeri la posizione e la quantità di moto in tre direzioni dello spazio. Nel termos ci sono n particelle, e possiamo pertanto rappresentare la loro posizione e quantità di moto effettiva in ogni istante con 6n numeri. Combinazioni differenti di posizioni e velocità corrispondono adesso ad insiemi differenti di 6n numeri. E, se le n particelle nel termos si urtano e si scambiano le quantità di moto, rimbalzando in nuove combinazioni di direzioni con nuove combinazioni di velocità in accordo con le tre leggi del moto di Newton, i 6n numeri che rappresentano il sistema in ogni istante cambieranno nel tempo attraverso una successione di 6n numeri. Se consideriamo tutti i possibili valori di posizione e di velocità delle n particelle nel termos, quell'insieme di valori possibili è lo spazio delle fasi 6n-dimensionale del nostro sistema.»23 Il sistema, quindi, inizia da qualche singola combinazione di 6n numeri, cioè da un singolo stato nello spazio delle fasi. Nel tempo, al

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variare delle posizioni e delle quantità di moto, i 6n numeri variano e il sistema fluisce verso una traiettoria nello spazio delle fasi. Alla luce di quanto detto sinora, dunque, Kauffman così scrive: «La seconda legge, nella sua interpretazione moderna, è semplicemente l'enunciato secondo cui un sistema termodinamico isolato tenderà a fluire lontano da macrostati improbabili -- corrispondenti a pochissimi dei nostri cubetti microscopici 6n-dimensionali -- e fluirà e trascorrerà la maggior parte del tempo nel macrostato all'equilibrio per l'ottima ragione che quel macrostato corrisponde ad un numero enorme di piccoli cubi 6n nell'intero spazio delle fasi 6n-dimensionale. Nella seconda legge, l'aumento di entropia è semplicemente la tendenza dei sistemi a fluire da macrostati meno probabili a macrostati più probabili.»24 A partire dall'Ottocento, grazie al decisivo contributo di Boltzmann, il concetto fisico di entropia di un macro stato viene concepito come proporzionale al logaritmo del numero di cubetti 6n-dimensionali che corrispondono a quel macrostato. L'aumento di entropia in processi spontanei è allora la tendenza a fluire da macrostati costituiti da un numero esiguo di cubi 6n-dimensionali, o microstati, a macrostati costituiti da moltissimi microstati. Stando così le cose, dunque, il passo successivo compiuto da Kauffman nella riflessione sugli agenti autonomi consiste nel fatto di considerare il concetto di «spazio delle attività catalitiche» ed il carattere degli «insiemi auto-catalitici» nel contesto dello spazio delle attività catalitiche. «Dovremo considerare uno spazio delle forme limitato con valori massimi e minimi per ciascun asse. Una forma è un punto nello spazio delle forme e dunque un carattere molecolare su un antigene virale, un epitopo, è un punto nello spazio delle forme. Un anticorpo potrebbe legarsi a quell'epitopo e a una famiglia di forme simili che riempiono una sfera nello spazio delle forme. [...] Molecole molto differenti possono avere la stessa forma, e allora l'endorfina e la morfina si legheranno allo stesso recettore, il recettore dell'endorfina. Un numero finito di palle ricoprirà lo spazio delle forme e un repertorio immunitario, forse nell'ordine di un centinaio di milioni di anticorpi, potrebbe benissimo ricoprire lo spazio delle forme.»25 Secondo Kauffman lo spazio delle attività catalitiche si limita ad applicare il concetto di spazio delle forme alla catalisi. Un punto nello spazio delle attività catalitiche rappresenta dunque un'attività catalitica. «Una certa reazione chimica costituisce un'attività catalitica. Come nello spazio delle forme, reazioni simili costituiscono attività catalitiche simili. Come nello spazio delle forme, reazioni differenti possono costituire essenzialmente la stessa attività catalitica. Un enzima copre una certa palla nello spazio delle attività catalitiche, che comprende l'insieme di reazioni che essa può catalizzare. E, come rilevato in precedenza e in accordo alla teoria dello stato di transizione, un'attività catalitica corrisponde ad un catalizzatore che si lega alla configurazione molecolare distorta, e perciò a elevata energia, corrispondente allo stato di transizione di una reazione con elevata affinità e che lega gli stati del substrato e del prodotto con affinità, in generale, inferiore.»26 E'quindi possibile domandarsi: in termini di spazio delle attività catalitiche, che cos'è un insieme collettivamente autocatalitico? Vediamo un esempio semplice. Due peptidi A e B formano un insieme collettivamente autocatalitico se A catalizza la formazione di B da due frammenti di B, e B catalizza la formazione di A da due frammenti di A. Si Considerino allora due palle nello spazio delle attività catalitiche: la prima palla, coperta da A, costituisce l'attività catalitica in cui due frammenti di B sono saldati per formare B; la seconda palla, coperta da B, costituisce l'attività catalitica nello spazio delle attività in cui due frammenti di A sono saldati e formano A. «Il primo carattere di un insieme collettivamente autocatalitico è quello che definisco chiusura catalitica. Ogni reazione che deve trovare un catalizzatore lo trova. La formazione di A richiede B e la formazione di B richiede A. È importante sottolineare che questa chiusura nello spazio delle attività catalitiche non è locale, perché non vi è una singola reazione in questo insieme collettivamente autocatalitico che costituisca in sé la chiusura in questione. Chiaramente, la chiusura catalitica è una proprietà del sistema nella sua totalità. Un secondo aspetto da sottolineare è che A e B, in quanto catalizzatori, non costituiscono in sé la chiusura in questione; A e B potrebbero catalizzare una varietà di reazioni. [...] In breve la chiusura delle attività catalitiche richiede la specificazione delle attività catalitiche stesse insieme con i substrati specifici i cui prodotti, in questo caso A e B, costituiscono i catalizzatori veri e propri che eseguono le attività catalitiche in questione. La chiusura di un insieme autocatalitico e di un insieme di attività catalitiche manifesta una sorta di dualismo. Dal punto di vista delle molecole implicate, le attività catalitiche specifiche costituiscono le grandi vie di liberazione dell'energia chimica mediante cui il sistema molecolare riproduce se stesso. Le attività coordinano il flusso di atomi tra le molecole mediante cui l'insieme riforma se stesso. Dal punto di vista delle attività le specie molecolari riescono ad eseguire le attività ripetutamente, senza che ulteriori specie molecolari siano necessarie per eseguire le attività. Le molecole eseguono le attività, le attività coordinano, ovvero organizzano, i processi tra le molecole. [...] L'organizzazione realizzata dalla chiusura delle attività catalitiche è simile all'organizzazione ottenuta dagli ingranaggi e dagli scappamenti di concerto al resto della macchina ideale di Carnot. Il flusso del processo è disposto in un tutto organizzato. Nel caso dell'insieme autocatalitico, quest'ultimo riproduce se stesso. Merita inoltre sottolineare che questa chiusura nello spazio delle attività catalitiche è un concetto nuovo che possiede un significato fisico reale. È un dato di fatto oggettivo se un sistema di reazioni fisico realizza o meno la chiusura catalitica; il precedente ipotetico sistema AB e qualsiasi cellula autonoma realizzano una chiusura catalitica.»27 Per giungere alla definizione provvisoria di agente autonomo precedentemente accennata, però, secondo Kauffman, occorre riflettere in modo ancora più

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approfondito su un preambolo: la distinzione, già rilevata, tra reazioni chimiche spontanee (esoergoniche) e non spontanee (endoergoniche). «Tutte le reazioni chimiche spontanee, se non sono accoppiate ad alcun'altra fonte di energia, sono esoergoniche. Per contro, se qualche altra fonte di energia libera viene accoppiata alla reazione, quest'ultima può essere spinta oltre l'equilibrio utilizzando parte della fonte di energia. Le reazioni che vengono spinte oltre l'equilibrio per aggiunta di energia libera sono definite endoergoniche. Perciò X potrebbe convertirsi in Y e questa reazione potrebbe essere accoppiata ad un'altra fonte di energia libera, così che la concentrazione di Y allo stato stazionario sia molto superiore a quella del rapporto normale tra X e Y all'equilibrio.»28

Nel ciclo di Carnot, come abbiamo ampiamente mostrato in precedenza, il completamento del ciclo vedeva coinvolto il sistema cilindro-pistone che eseguiva lavoro esoergonico sul mondo esterno durante la corsa di lavoro e vedeva poi il mondo esterno eseguire lavoro sul sistema cilindro-pistone nel momento in cui veniva esercitata una pressione sul pistone per comprimere il gas. «Il ciclo di Carnot collega fonti di energia meccanica e di energia termica in un ciclo. Una rete di reazioni chimiche con un ciclo dovrà collegare reazioni spontanee, esoergoniche, e reazioni non spontanee, endoergoniche, nell'analogo chimico di un ciclo. Al pari della macchina ciclica di Carnot, l'analogo chimico dovrà lavorare in un ciclo di stati, come il ciclo 1, 2, 3, 4, 1 del ciclo di Carnot. Inoltre, affinché il ciclo operi con una velocità finita, e quindi irreversibilmente, l'agente autonomo deve essere un sistema termodinamico aperto spinto da fonti esterne di materia o di energia -- quindi cibo -- e la spinta continua del sistema da parte di tale cibo mantiene il sistema lontano dall'equilibrio.»29 (Figura 3).

Figura 3

Stando così le cose, dunque, in accordo con Kauffman, risulta possibile riconsiderare sotto questa luce il sistema autocatalitico di Ghadiri; la sequenza di 32 aminoacidi A che salda due frammenti, A'di quindici aminoacidi, e A? di 17 aminoacidi, per formare A. Questa reazione è puramente esoergonica, procede dai frammenti substrato A'e A? per formare la molecola prodotto A, e si approssima al rapporto di equilibrio substrati/prodotto. «Il sistema autocatalitico di Ghadiri è magnifico, ma puramente esoergonico: non produce un ciclo. In generale, sistemi autocatalitici e collettivamente autocatalitici possono essere puramente esoergonici. In qualsiasi caso del genere, non si realizza alcun ciclo. A questo punto, possiamo ritornare alla mia definizione buttata lì: un agente autonomo è un sistema riproduttivo che esegue almeno un ciclo di lavoro termodinamico. Quel batterio, remando contro il gradiente di glucosio, con il flagello che si dimena in cicli di lavoro, si danna per farlo, riproducendosi ed eseguendo uno o più cicli di lavoro. E lo fanno anche le cellule autonome e gli organismi. Noi, come puro fatto, colleghiamo processi spontanei e non spontanei in percorsi interattivi dai complessi intrecci, che attuano la riproduzione e i cicli di lavoro persistenti mediante cui agiamo sul mondo. I castori costruiscono davvero le dighe, eppure questi animali sono meri sistemi fisici. Tuttavia, l'esempio del peptide autocatalitico proposto da Reza Ghadiri non si dimostra all'altezza e nemmeno l'esamero autocatalitico di DNA di Günter von Kiedrowski o l'insieme collettivamente autocatalitico di due esameri di DNA. Tutti questi sistemi sono esclusivamente esoergonici e non viene eseguito alcun ciclo.»30 Una volta enunciata la definizione, dunque, il grande studioso americano prosegue la sua argomentazione ipotizzando la realizzazione di un agente autonomo molecolare (figura 4).

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Figura 4

Tale figura è costruita per connettersi con altri due sistemi molecolari, il sistema esoergonico autocatalitico sviluppato da G. von Kiedrowski basato sulla saldatura di due trimeri di DNA da parte del loro esamero complementare. Qui l'esamero è semplificato come 3'CCCGGG5'e i due trimeri complementari sono 5'GGG3'+ 5'CCC3'. Questa reazione, lasciata ai propri meccanismi, è esoergonica e, in presenza di trimeri in eccesso rispetto al rapporto all'equilibrio tra esamero e trimeri, è Kauffman che parla, fluirà esoergonicamente verso l'equilibrio mediante la sintesi dell'esamero. Dato che l'esamero è a sua volta catalizzatore della reazione, la sintesi dell'esamero è autocatalitica. Il primo sistema aggiunto è il pirofosfato PP, un dimero ad alta energia di monofosfati che si scinde per formare due monofosfati P + P. Come qualsiasi reazione, la reazione che converte PP in P + P ha un proprio equilibrio, e quindi un rapporto di equilibrio tra PP e P. In presenza di PP in eccesso rispetto all'equilibrio, la reazione fluisce verso l'equilibrio mediante scissione spontanea di PP, da cui si ottiene P + P.31 «Io mi richiamo alla conversione esoergonica di PP in P + P al fine di utilizzare la perdita di energia libera in questa reazione esoergonica per guidare la reazione trimeri-esamero di DNA oltre il suo equilibrio, determinando così una sintesi in eccesso rispetto 3'CCCGGG5'rispetto alla sua concentrazione di equilibrio. Pertanto, la sintesi in eccesso dell'esamero, che non si manifesterebbe spontaneamente, è guidata endoergonicamente essendo accoppiata alla scissione esoergonica di PP in P + P. In breve, la rottura esoergonica di PP in P + P fornisce l'energia libera per guidare l'accumulo in eccesso della concentrazione di 3'CCCGGG5'oltre il proprio equilibrio rispetto ai propri substrati, i trimeri 5'GGG3'e 5'CCC3'. La sintesi in eccesso di 3'CCCGGG5'costituisce la riproduzione in eccesso del prodotto della reazione autocatalitica dell'esamero oltre quella che si verificherebbe senza l'accoppiamento con la fonte di energia libera aggiuntiva PP. Il sistema allora si riproduce meglio accoppiandosi a PP che non accoppiandosi. [...] Una volta che il pirofosfato PP viene scisso e forma P + P, al fluire di questa reazione verso il rapporto di equilibrio tra PP e P, quell'energia libera viene consumata. Per avere una fonte interna rinnovata di energia libera necessaria per sintetizzare esamero in eccesso, è conveniente risintetizzare il pirofosfato dai due monofosfati P + P'. [...] In un'accezione generale la convenienza riflette l'organizzazione dei processi che alimenta un agente, ma quell'organizzazione non è conveniente, è essenziale.»32 La sintesi di PP da P + P richiede l'aggiunta di energia libera. A questo punto si deve aggiungere energia per risintetizzare PP da P + P. Per fare ciò, Kauffman chiama in causa una fonte addizionale di energia libera, l'elettrone e che assorbe un fotone hv, che viene così spinto endoergonicamente in uno stato eccitato e* e ricade esoergonicamente verso il proprio stato a bassa energia in una reazione accoppiata alla sintesi di PP da P + P. «Il punto di questa terza coppia di reazioni è chiaro:

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PP viene sintetizzato da P + P, così che PP possa continuare a guidare la sintesi in eccesso dall'esamero di DNA 3'CCCGGG5'. Complessivamente, il sistema di reazioni collegate è esoergonico. Avviene cioè una perdita complessiva di energia libera fornita a conti fatti dal fotone entrante hv, oltre che da i due substrati 5'GGG3'e 5'CCC3'. Quindi non stiamo sfuggendo alla seconda legge della termodinamica.»33 Torniamo per un attimo al ciclo di Carnot, in particolare nella fase in cui Kauffman aveva fatto spingere e tirare la manopola ed il pistone ad un soggetto esterno durante il ciclo. Come abbiamo già accennato, in una macchina reale il ruolo nell'organizzazione dei processi (chi spinge e tira la manopola) è assunto da ingranaggi e da scappamenti, da bielle e da connettori, da cuscinetti e da altri pezzi meccanici. Ora, però, il grande studioso americano ipotizza, come primo assunto, che l'esamero 3'CCCGGG5'sia il catalizzatore che accoppia la saldatura dei due trimeri 5'GGG3'e 5'CCC3'con la scissione esoergonica di PP in P + P e, come secondo assunto, che il monofosfato P si leghi all'esamero e faciliti la reazione. Egli, pertanto, suppone che P sia un attivatore allosterico della reazione dove il termine allosterico significa che P si lega a un sito dell'enzima, all'esamero in questo caso, diverso dal sito di legame proprio dell'esamero per i substrati. Attivatori e inibitori allosterici, dunque, come tutti sanno, sono comuni nei sistemi biologici. «In questo caso, P potrebbe legarsi allo scheletro di zuccheri-fosfato dell'esamero di DNA. Questo accoppiamento implica che quando PP si scinde per formare P + P, il monofosfato P eserciterà una retroazione attivando ulteriormente l'enzima esamerico e accelerando ulteriormente la catalisi di formazione dell'esamero. Una simile retroazione positiva di un prodotto di reazione sulla formazione di un enzima si verifica nella celebre glicolisi, il cuore del metabolismo delle vostre cellule. In realtà, in condizioni sperimentali opportune, questo accoppiamento basato sulla retroazione positiva può far sì che la glicolisi sia soggetta a marcate oscillazioni temporali nella concentrazione dei metaboliti glicolitici. Infine, chiamerò in causa qualche altro accoppiamento. Io suppongo che uno dei trimeri, 5'GGG3', sia il catalizzatore che accoppia la perdita esoergonica di energia liberata dall'elettrone attivato e* a e, con la risintesi di PP da P + P. Ed evocherò un'inibizione allosterica di questa catalisi da parte dello stesso PP. Pertanto, il PP, quando è a concentrazione elevata, tende ad inibire la propria risintesi. Ma quando la sua concentrazione diminuisce, l'inibizione della sua sintesi viene rimossa, e PP viene risintetizzato.»34

La figura 4 mostra il primo ipotetico agente autonomo. Dopo aver costruito virtualmente l'impalcatura molecolare di un tale sistema, dunque, Kauffman ne mette in luce gli aspetti rilevanti. Egli, infatti, individua quattro caratteristiche su cui vale la pena riflettere. La prima riguarda il fatto che l'ipotetico agente autonomo «costituisce una classe di reti di reazioni chimiche non ancora indagate: il comportamento di sistemi esoergonici autocatalitici e a catalisi incrociata comincia adesso ad essere studiato. Il comportamento di reti di reazioni esoergoniche ed endoergoniche collegate è la sostanza stessa del metabolismo intermedio e della trasduzione biochimica dell'energia, oggetto di studio per i biochimici per anni. Ma, fino a oggi, nessuno ha iniziato a studiare reti di reazioni collegate in cui l'autocatalisi è accoppiata a reazioni esoergoniche ed endoergoniche connesse. Stiamo dunque entrando in un dominio completamente nuovo. Il nostro agente autonomo molecolare costituisce perciò un sistema con due caratteri essenziali dei sistemi viventi: l'auto-riproduzione e il metabolismo. Tuttavia, il mio insistere che un agente autonomo esegue un ciclo perfeziona il concetto di metabolismo per come viene comunemente inteso, includendo la richiesta che esso esegua un ciclo.»35 Il secondo aspetto messo in luce dal grande studioso americano, consiste nel fatto che il nostro agente autonomo virtuale è di necessità un sistema in non equilibrio. L'energia libera, infatti, nel nostro caso nella forma del fotone hv e dei trimeri substrati, viene inclusa ed impiegata per guidare la sintesi di PP e l'eccesso dell'esamero di DNA. All'equilibrio, dunque, non vi è azione causale. La sintesi in eccesso dell'esamero di DNA costituisce la replicazione in eccesso dell'esamero in virtù dell'accoppiamento della sintesi trimeri-esamero al ciclo di reazioni PP? P + P, che, agli occhi di Kauffman, costituisce una vera e propria «macchina chimica». Il terzo carattere da rilevare è il ciclo eseguito dall'agente. Nel comportamento della reazione PP? P + P è possibile vedere il ciclo. Nel ciclo di Carnot, come abbiamo ampiamente mostrato in precedenza, il gas effettua dei cicli: da compresso e caldo, a meno compresso e freddo, e di ritorno a compresso e caldo. Nell'ipotetico agente autonomo esiste un ciclo macroscopico di materia da PP a P + P attraverso la reazione di formazione dell'esamero di DNA e di ritorno lungo una via circolare a PP attraverso la reazione con l'elettrone a energia elevata. Ebbene, il ciclo macroscopico di materia intorno a questo ciclo costituisce la macchina operante. «In funzione dei dettagli delle costanti cinetiche, il nostro agente autonomo potrebbe letteralmente manifestare un ciclo di concentrazioni oscillatorio, dove la concentrazione di PP inizia elevata per diminuire poi rapidamente con la formazione di P + P; a quel punto, la concentrazione elevata di PP si riforma con l'impiego della reazione esoergonica e*? e che il fotone ha arricchito di energia. Allora, la reazione PP? P + P inclusa nell'agente autonomo costituisce una macchina chimica in cui si verifica un flusso macroscopico netto di materia intorno al ciclo PP? P + P, che opera lontano dall'equilibrio essendo spinto dall'addizione di energia del fotone hv e da quella dei due trimeri di DNA, e poiché l'energia è drenata via per guidare la sintesi in eccesso dell'esamero di DNA.»36 Infine, il quarto aspetto da rilevare, secondo Kauffman, risiede nel fatto che l'agente autonomo, come la macchina di Carnot, lavora lungo un ciclo. Al termine del ciclo il sistema è pronto per un nuovo ciclo, ovverossia si realizza un'organizzazione ripetuta del processo. Inoltre, come la

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macchina di Carnot che fatta funzionare al contrario è un frigorifero e non una pompa, se le reazioni dell'agente autonomo venissero attivate al contrario la macchina PP? P + P funzionerebbe nella direzione contraria. «La ragione è che tutte le coppie di reazioni sarebbero allontanate dall'equilibrio nella direzione contraria e l'analogo di invertire il movimento degli ingranaggi -- ovvero invertire di segno gli accoppiamenti, positivi e negativi, di attivatore e inibitore con i due enzimi opportuni -- convertirebbe l'energia in eccesso, immagazzinata nella concentrazione all'equilibrio dell'esamero di cui sopra, nella produzione di due trimeri e nella risintesi di PP da P + P. Se la liberazione del fotone hv fosse un passo facilmente reversibile, l'eccesso di PP guiderebbe l'emissione di un fotone da parte dell'elettrone eccitato, che ritornerebbe allo stato iniziale, lo stato non eccitato. In breve, l'agente autonomo, se fatto funzionare al contrario, si fonde con il suo cibo. Attivato al contrario, il sistema non è un agente autonomo: non si riproduce e non esegue un ciclo. Attivato al contrario il sistema è un lampo di luce.»37 Insieme a A. J. Daley, A. Girvin, P. R. Wills e D. Yamins, Kauffman, nell'articolo dal titolo: Simulation of a Chemical Autonomous Agent, ha simulato con successo il sistema di equazioni differenziali che corrispondono alla dinamica di questa rete di reazioni molecolari dell'agente autonomo. Le equazioni differenziali rappresentano il modo in cui la concentrazione di ciascuna specie chimica nell'agente autonomo varia nel tempo in funzione della concentrazione propria e di altre sostanze chimiche.38 In genere, nelle equazioni differenziali di questi modelli matematici sono incluse diverse costanti fisse che rappresentano costanti cinetiche e altri parametri. In questo caso, il sistema di equazioni differenziali possiede tredici di questi parametri. Il sistema dell'agente autonomo simulato viene allontanato dall'equilibrio mediante l'aggiunta persistente dei due trimeri di DNA 5'GGG3'e 5'CCC3', la rimozione dell'esamero di DNA e l'attivazione persistente per opera del fotone hv, dall'esterno. La rete delle reazioni chimiche si verifica in condizioni di chemostato, ovvero tutti i costituenti molecolari del sistema sono trattati matematicamente come se fossero in un serbatoio reale ben agitato cui vengono aggiunti a velocità costante i trimeri ed il fotone. In aggiunta, i componenti molecolari dell'esamero vengono rimossi dal sistema con una velocità regolabile che ne mantiene costante la concentrazione interna a prescindere da quale sia la velocità di riproduzione dell'esamero. Sono stati eseguiti esperimenti di selezione al computer, non solo comparando l'agente autonomo ad un sistema esoergonico nudo di trimeri-esamero di DNA, ma anche mutando in maniera computazionale le costanti cinetiche per piccoli valori e facendo evolvere, sempre computazionalmente, gli agenti autonomi affinché si riproducessero con maggiore efficienza termodinamica. Alla luce di tutto ciò, dunque, nel suo volume, il grande studioso americano così commenta i risultati ottenuti: «I nostri risultati dimostrano innanzitutto una cosa: che gli agenti autonomi operanti lontano dall'equilibrio, e che utilizzano un ciclo, sono più efficienti nell'impiego dell'energia libera disponibile che entra nel sistema totale per riprodurre l'esamero di DNA che non quando è assente l'accoppiamento del sistema di DNA trimeri-esamero con il sistema del ciclo PP ed elettrone fotone. Allora, l'agente autonomo come totalità, includendo il suo ciclo, riproduce l'esamero di DNA più rapidamente che non il solo sistema esoergonico trimeri-esamero. In breve, fatto non meno importante, essere un agente autonomo che accoppia un sistema autocatalitico con un ciclo, arreca un vantaggio selettivo rispetto al semplice essere un sistema autocatalitico esoergonico. In secondo luogo, proprio come nel caso della retroazione positiva nella glicolisi, il nostro agente autonomo simulato, per valori opportuni delle costanti cinetiche, può subire intense oscillazioni temporali della concentrazione di PP e di altre sostanze. L'oscillazione di PP durante il ciclo, da concentrazione elevata a bassa concentrazione e poi di nuovo a concentrazione elevata, è analoga all'oscillazione dell'espansione e della compressione del gas nel ciclo della macchina di Carnot. In terzo luogo, esiste un paesaggio di fitness montuoso nello spazio dei parametri matematici delle tredici costanti cinetiche, dove alcuni valori delle costanti cinetiche determinano un'efficienza di riproduzione superiore rispetto ad altre. La selezione naturale darwiniana potrebbe in linea di principio operare se vi fosse variazione ereditabile delle costanti cinetiche. La conclusione principale che ricaviamo dalla nostra simulazione è che gli agenti autonomi, accoppiando uno o più cicli autocatalitici e cicli di lavoro, sono una forma perfettamente plausibile, se pure nuova, di rete di reazioni chimiche aperta e in non equilibrio. Nessuna magia qui. In un futuro prossimo quasi certamente costruiremo simili reti di reazioni molecolari degli agenti autonomi e ne studieremo la dinamica e l'evoluzione del comportamento. Una biologia generale è davvero dietro l'angolo.»39 Alla luce di quanto detto sinora, dunque, è ipotizzabile la creazione di una nuova forma di vita, per simulazione/manipolazione della biologia molecolare? In un'intervista rilasciata nel 2002 a R. Benkirane, Kauffman così ha risposto: «Si, potremo creare sistemi molecolari autoriproduttori in grado di compiere cicli termodinamici: all'inizio li si creerà in vitro e poi, in una seconda fase, si tenterà di inserirli in una parvenza di vita che nasce da abbozzi di cellule. Se pensa a ciò che è un agente autonomo, ovvero un sistema che si connette ad un ambiente e agisce per proprio conto, allora tutte le cellule viventi possono agire in questo modo all'interno del proprio milieu -- ad esempio un batterio può nuotare risalendo un gradiente di glucosio per cercare cibo. Mi chiedo quali debbano essere le caratteristiche di un sistema fisico affinché esso possa connettersi al suo ambiente per proprio conto, e rispondo che tale sistema deve essere in grado di autoriprodursi e compiere cicli di lavoro termodinamico; forse così ho trovato una definizione rigorosa di vita... In ogni caso potremo produrre sistemi di questo tipo in un prossimo futuro, perché già oggi gli scienziati concepiscono sistemi molecolari autoriproduttori. Restano solo da aggiungere i cicli di lavoro termodinamico, e avremo una

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nuova tecnologia basata su questi sistemi entro i prossimi trent'anni.»40 L'agente autonomo virtuale finora studiato, però, è stato trattato come se il problema di conservare i reagenti in una regione di spazio confinata potesse essere ignorato. Tale assunto in realtà costituisce un'idealizzazione: se, infatti, l'ipotetico agente autonomo si trovasse in una soluzione diluita, le velocità di reazione sarebbero molto lente. Pertanto, sottolinea Kauffman, la creazione effettiva di un agente autonomo molecolare funzionante richiederà che le specie molecolari reagenti siano confinate in un piccolo volume (micelle e liposomi) o superficie, oppure confinate in qualche altro modo. Nel prossimo paragrafo mostreremo altre proprietà degli agenti autonomi molecolari. In particolare focalizzeremo l'attenzione sul concetto di lavoro. Il grande studioso americano, in effetti, critica il concetto fisico di lavoro: ai suoi occhi, infatti, l'interpretazione migliore di lavoro appare quella secondo cui quest'ultimo costituisce il rilascio vincolato di energia. «Eppure, i vincoli effettivi al rilascio di energia, essenziali per svolgere il lavoro, costituiscono a loro volta l'analogo di ingranaggi, bielle, connettori e scappamenti di una comune macchina. Ma, soprattutto, ci vuole di solito proprio del lavoro per costruire i vincoli sul rilascio di energia che poi costituisce a sua volta lavoro.»41 Nell'ipotetico agente autonomo, dunque, questi vincoli sono presenti negli accoppiamenti, precedentemente delineati, di catalizzatori e attivatori allosterici con le reazioni che costituiscono l'agente autonomo stesso. «Ho la sensazione -- una sensazione profonda che rasenta la convinzione -- che l'organizzazione coerente della costruzione di insiemi di vincoli sulla liberazione di energia, che costituisce il lavoro attraverso cui gli agenti costruiscono poi ulteriori vincoli sul rilascio di energia i quali, nel tempo dovuto, a loro volta letteralmente costruiscono una seconda copia dell'agente stesso, sia un concetto nuovo, la cui formulazione adeguata sarà un concetto adeguato di organizzazione.»42 E, nell'articolo del 2007 dal titolo Question1: Origin of life and a Living State, Kauffman, dopo aver introdotto la nozione di agente autonomo, aggiunge: «The inclusion of a work cycle seems to be a central feature of this tentative definition, for work cycles link spontaneous and non-spontaneous (exergonic and endergonic) chemical reactions. The collectively autocatalytic system [...] might have been entirely exergonic. If one considers the biosphere as a whole, it is a richly interwoven web of linked exergonic and endergonic reactions building up the enormous chemical complexity of the entire biosphere, the most complex chemical system we know. I suspect that we will create molecular autonomous agents in the reasonably near future, for molecular reproduction has been achieved experimentally, as have molecular motors. I also suggest that such system may foretell a technological revolution for they do work cycles, hence can build things, as do cells when they build copies of themselves and do other work. It may be, although I would not insist on it, that molecular autonomous agents, augmented to have a bounding membrane, my be a minimal definition of life. I would note that Schrödinger, in What is life, argued for the necessity for «neg-entropy», but not for the requirement for a work cycle.»43 Se il ragionamento del grande biochimico americano è corretto, quindi, Schrödinger avrebbe visto giusto per quanto riguarda il suo microcodice il quale, però, ora viene «reinterpretato» come un sottoinsieme dei vincoli sulla liberazione di energia mediante cui un agente autonomo costruisce una copia grezza di se stesso. Ciò, allora, significa che il microcodice è la struttura stessa del DNA, che funge da vincolo sugli enzimi i quali poi trascrivono e traducono il codice. «Schrödinger tuttavia non asserì che il requisito di un agente dovesse essere il non equilibrio. Invece lo spostamento dall'equilibrio è una condizione necessaria affinché un microcodice faccia alcunché. E allora, forse, lo spostamento dall'equilibrio era implicito nella sua tesi. Ma, soprattutto, credo gli sia sfuggito un altro concetto: che un agente è un'unione di un sistema autocatalitico che segue uno o più cicli di lavoro. Un'unione che è un sistema dinamico di tipo nuovo. Ora che abbiamo visto un agente autonomo mi scopro a domandarmi se gli agenti autonomi potrebbero rappresentare una definizione adeguata della vita in sé. Non provo nemmeno a difendere la mia forte intuizione che la risposta sia affermativa. Ho il dubbio che il concetto di agente autonomo, inteso come sistema autocatalitico che esegue uno o più cicli di lavoro, definisca la vita. Se è così, eccolo il centro, quel nocciolo esclusivo della vita, che l'indagine di frammenti molecolari della cellula non rivela. Una buona parte del libro sarà dedicata ad esaminare gli sviluppi imprevisti di questa definizione provvisoria di agenti autonomi e, perché no, della vita. Ma non insisterò certamente su questa mia intuizione. Giunti sin qui sarà sufficiente rilevare che tutti i sistemi viventi liberi da noi conosciuti -- batteri unicellulari, eucarioti unicellulari e organismi pluricellulari -- soddisfano la mia definizione di agente autonomo.»44 Tale definizione provvisoria, tuttavia, a nostro giudizio, nasconde delle insidie. Se, infatti, la figura 4 ci illustra un primo caso di agente autonomo molecolare, quanto è grande la famiglia di sistemi abbracciata dal concetto di agente autonomo? Secondo Kauffman, nulla nel concetto di sistema riproduttivo, che esegue almeno un ciclo termodinamico, limita un sistema di questo tipo al DNA, all'RNA e alle proteine; pertanto, sembra plausibile che ampie classi di reti di reazioni chimiche possano esaudire i criteri fin qui delineati. A questo punto, quindi, risulta possibile chiedersi: sistemi mutuamente gravitanti come le galassie, non potrebbero esaudire gli stessi criteri? Ed inoltre, cosa dire, per esempio, di sistemi formati per lo più da fotoni, da spettri autoriproduttivi in una cavità risonante alimentata da un mezzo amplificatore? Ed, infine, che cosa dire della geomorfologia? A tali domande, però, Kauffman dichiara di non poter, al momento, offrire alcuna risposta: «Non lo so. Forse a questo punto ci basterà aver iniziato un'indagine, un'esplorazione, e non tanto averla completata.»45 L'indagine relativa agli agenti autonomi, pertanto, ci conduce verso quelle che potremmo definire come «le

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colonne d'ercole della biologia». Dove risiede, infatti, assumendo come attendibile la definizione di agente autonomo elaborata da Kauffman, la linea di demarcazione tra ciò che è vita e ciò che non lo è? Quali sono i principi alla base della genesi delle forme viventi e della loro auto-organizzazione, un'auto-organizzazione, vale a dire, molto più complessa rispetto a quella mostrata da una perturbazione atmosferica o da altri fenomeni naturali non ancora viventi? A partire dalle esplorazioni di Kauffman, nei prossimi paragrafi, cercheremo di mostrare come, a nostro giudizio, l'essenza della vita costituisca, in realtà, un'alterità radicale e profonda che trascende costantemente, pur non trasgredendole, la chimica (per esempio il concetto di autocatalisi), la fisica (per esempio, la nozione di cicli di lavoro termodinamico) e la bio-matematica (i modelli di simulazione e le equazioni differenziali). Forse, dietro al misterioso connubio di auto-organizzazione e selezione naturale non c'è solo una relazione addizionale tra materia, energia ed informazione, bensì, come Kauffman intuisce, giunge a fare capolino una nuova concezione dell'informazione, una concezione al cui interno l'informazione giunge ad apparire come una «qualità» in grado di generare e regolare l'intero sistema (relazione coestensiva legata ad un continuo gioco dialettico delle parti), trasformandolo in un sistema vivente e quindi in un sistema cognitivo. Ci stiamo riferendo qui all'affascinante possibilità di far dialogare il mistero della complessità del vivente con la nozione di emergenza del significato. Il bios, infatti, a nostro giudizio, andando oltre la misurazione meramente quantitativa (livello sintattico) dell'informazione aggredita attraverso la logica binaria (logica estensionale),46 può essere interpretato come un fenomeno emergente intrinsecamente connesso a forme di cognizione e di intenzionalità (livello semantico). In questo spirito, quindi, proseguiremo la nostra trattazione approfondendo, da un lato la circolarità fisica esclusiva della vita tra vincoli e lavoro secondo la quale il lavoro viene definito, al contempo, come il rilascio vincolato di energia e come la condizione principale della costruzione dei vincoli medesimi e dall'altro l'esigenza intrinseca al concetto di organizzazione propagante di porre le basi per la costruzione di una fisica della semantica (o meglio di una semantica molecolare). Questa intuizione geniale di Kauffman, pertanto, ci permette di compiere un ulteriore passo in avanti per ciò che concerne la nostra esplorazione dell'auto-organizzazione; sotto certi aspetti, però, tale indagine ci consente anche di esplorare percorsi teorici paralleli portati avanti da studiosi che pongono l'accento delle loro ricerche sui limiti della teoria dell'informazione di Shannon e sulla possibilità affascinante di elaborare quella che attualmente viene definita da alcuni come teoria semantica dell'informazione.

2. Lavoro propagante

Può darsi che il mondo sia brutalmente davanti ai nostri occhi, ma che, di esso, ci manchino le domande che ci consentirebbero di vedere. Davanti a noi, infatti, in ogni istante cellule o colonie di cellule propagano una meravigliosa organizzazione di processo: ogni agente autonomo, come abbiamo visto in precedenza, collegando con abilità processi esoergonici ed endoergonici, mediante la chiusura delle attività catalitiche e delle attività di lavoro, costruisce di fatto una seconda copia «grezza» di se stesso da «piccoli mattoni». Risulta difficile, dunque, vedere qualcosa di cui non si ha ancora un concetto. Nel presente paragrafo, pertanto, attraverso le esplorazioni di Kauffman, tenteremo di svolgere un'indagine su cosa potremmo intendere, e quindi vedere, per organizzazione propagante. Il nostro cammino teorico prende le mosse dal demone di Maxwell e dalla ragione per cui la misurazione di un sistema è remunerativa solo in una situazione di non equilibrio. Situazione in cui le misurazioni si possono archiviare in memoria ed impiegare per estrarre lavoro dal sistema misurato. In fisica, il demone di Maxwell è il luogo per antonomasia in cui è possibile trovare insieme materia, energia ed informazione. Ciò nonostante, più avanti scopriremo che il demone ed i suoi sforzi di misurazione sono sorprendentemente incompleti: solo alcuni caratteri di un sistema in non equilibrio, infatti, se misurati, rivelano spostamenti dall'equilibrio da cui in linea di principio risulta possibile estrarre lavoro; gli altri caratteri, invece, persino se misurati, sono inutili per rilevare tali fonti di energia. Ma procediamo con ordine. Si consideri per l'ennesima volta un sistema termodinamicamente isolato, ovvero una scatola che contiene un gas, isolata da ogni scambio di energia o di massa con l'esterno. Nella scatola sono contenute n particelle di gas e, come abbiamo sottolineato, di tutte le n particelle è possibile considerare posizione e quantità di moto. Ciascuna posizione e ciascuna quantità di moto risulta possibile poi scomporla in tre valori numerici, che definiscono posizione e moto nelle tre direzioni nello spazio. L'intero stato delle n particelle sarà perciò definito da 6n numeri, cui aggiungeremo la specificazione dei confini interni della scatola. In precedenza avevamo affermato che tutti i possibili stati di questo sistema 6n di particelle si possono suddividere in volumi molto piccoli di stati, che chiameremo microstati. Un microstato, come tutti sanno, è un insieme di microstati. In particolare, il macrostato all'equilibrio è un insieme di microstati che godono della proprietà per cui le particelle di gas sono distribuite nella scatola in modo pressoché uniforme, con una distribuzione caratteristica delle velocità all'equilibrio, che lo stesso Maxwell risolse. Questo macrostato all'equilibrio presenta ulteriori importanti proprietà per cui: a) Moltissimi microstati sono nel macrostato all'equilibrio e b) alcuni caratteri macroscopici (la temperatura, la pressione e il volume) sono sufficienti per specificare il macrostato

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all'equilibrio. «Abbiamo visto che, in termini di macrostati e microstati, la seconda legge può essere riformulata nella sua celebre incarnazione secondo la meccanica statistica. La seconda legge diventa l'enunciato secondo cui, all'equilibrio, il sistema fluirà da un qualunque macrostato iniziale in modo tale da trascorrere la maggior parte del tempo nel macrostato all'equilibrio. Questo enunciato della seconda legge non esclude il caso estremamente improbabile in cui succede che le n particelle fluiscano verso un angolo della scatola. La seconda legge sarà allora una legge statistica in meccanica statistica. Ma ecco che arriva Maxwell e inventa una creatura microscopica, poi soprannominata demone o diavoletto di Maxwell. Per inciso, confesso che trovo l'uso del termine demone qui più che leggermente interessante. Si può dire che il demone di Maxwell sia quasi un agente autonomo. Anche se questa creatura non viene definita così come la definisco io, presto vedrete come essa sembri capace di prendere decisioni e di agire su mondo fisico. [...] Maxwell ci chiede di considerare quello stesso contenitore con n particelle. Egli però immagina che il contenitore sia suddiviso in due scomparti da una parte con una finestrella, nella quale è inserita una valvola a battente. A valvola aperta, le particelle di gas possono fluire dalla scatola sinistra a quella destra, oppure da quella destra alla sinistra. Ebbene, esprime divertito Maxwell, supponiamo che lo stato iniziale del gas nel contenitore sia il macrostato all'equilibrio: nessun lavoro macroscopico potrà essere svolto dal sistema all'equilibrio. Questo era il punto centrale di Carnot. Esiste un mare di energia nei movimenti casuali delle particelle di gas, ma da esso non vi è modo di estrarre lavoro meccanico, per esempio per spingere un pistone. Poi, aggiunge Maxwell, appassionandosi alla sua tesi, «immaginiamo che il nostro minuscolo amico agisca sulla valvola a battente in modo che egli, ogni volta che una particella veloce di gas si avvicina alla finestra dall'interno del contenitore sinistro verso quello destro, apra il battente e lasci passare la particella di gas più veloce della media, cioè la particella più calda. Supponiamo poi che il nostro demone agisca sulla valvola a battente e lasci così passare le particelle di gas più lente della media, e quindi più fredde, dal contenitore destro a quello sinistro. Ebbene, presto il contenitore sinistro sarà più freddo ed il contenitore destro più caldo. E ora [...] noi possiamo sfruttare la differenza macroscopica di temperatura tra il contenitore sinistro e il contenitore destro ed estrarre lavoro meccanico, magari per spingere un pistone».»47 Maxwell pose, quindi, una questione difficile per la meccanica statistica: sembrava, infatti, che le azioni del demone potessero aggirare la seconda legge della termodinamica. In effetti, il diavoletto di Maxwell ha posto un enigma non ancora risolto appieno. Tuttavia, un passo importante verso il «salvataggio» della seconda legge lo ha compiuto L. Szilard che concepì la reazione nucleare a catena, favorendo così lo sviluppo della bomba e dell'energia atomiche. «Szilard effettuò un calcolo che collegava per la prima volta il concetto di entropia ad un concetto nuovo di informazione. L'entropia in un sistema è la misura del suo disordine. Se ricordate, possiamo definire i volumi di macrostati differenti dal numero di microstati contenuti in ciascun macrostato. Per convenzione, consideriamo il logaritmo del numero di microstati di ciascun macrostato. In aggiunta, ogni macrostato ha anche la probabilità di essere occupato dal sistema. Moltiplichiamo il logaritmo del numero di microstati per macrostato per la probabilità che il sistema sia in quel macrostato. A questo punto, sommiamo tutti questi valori per tutti i macrostati. Il valore totale sarà l'entropia del sistema.»48 Dal punto di vista statistico, l'entropia di un sistema o aumenta nel tempo oppure è costante. All'equilibrio, per esempio, essa è costante. Diversamente, se il sistema viene lasciato libero da un macrostato inizialmente improbabile, in un primo momento l'entropia iniziale sarà bassa poiché la maggior parte dei macrostati non è occupata, tuttavia, con il passare del tempo, essa si diffonderà su tutte le possibilità e la somma della probabilità dei tempi di occupazione moltiplicata per i volumi dei macrostati crescerà fino al valore di equilibrio. «Szilard compì una prima riflessione su quella che in seguito Shannon avrebbe definito informazione. Szilard aveva grosso modo compreso che, quando il demone lascia passare in modo specifico una particella più veloce o più lenta nello scomparto sinistro oppure in quello destro, allora l'entropia totale del sistema sta diminuendo un poco. Ma, a sua volta, Szilard stimò la quantità di lavoro che il demone deve svolgere per distinguere se la particella di gas è più veloce o più lenta della media. Ne risulta che il lavoro da svolgere, e quindi l'energia utilizzata, è equivalente al lavoro che in seguito potrà essere estratto dal sistema una volta che le particelle veloci e quelle lente sono state segregate nei due comparti. Poiché il lavoro svolto dal demone equivale al lavoro estraibile in seguito dal sistema, all'equilibrio non può essere estratto alcun lavoro netto dal sistema: la seconda legge è salva.»49 Il passo successivo, però, lo ha compiuto Shannon legando il concetto di entropia con quello di informazione. Egli era interessato alla trasmissione dei segnali via cavo e concepì acutamente il segnale minimo come una risposta tutto o nulla, una risposta «si» o «no», che si poteva quindi rappresentare sottoforma di cifre binarie (di 1 o 0), quelle che oggi definiamo bit. Shannon considerò l'entropia di una sorgente che inviava un eventuale messaggio come l'insieme dei possibili messaggi potenzialmente inviabili, dove ogni messaggio doveva essere quantificato per la probabilità di essere effettivamente inviato. Egli concepì la ricezione di un messaggio come la riduzione di entropia, o di incertezza, riguardo a quale messaggio fosse stato effettivamente inviato, considerato l'insieme iniziale di messaggi possibili. In tal modo, dunque, Shannon reinventò la stessa matematica attinente all'entropia. Si immagini che esista un insieme di messaggi e che ciascuno di essi occupi un volume in uno spazio di messaggi possibili. Ogni messaggio viene inviato dalla sorgente con una certa probabilità. Shannon allora considerò il logaritmo del volume, nello spazio dei messaggi, occupato da un messaggio e lo moltiplicò per la probabilità che quel messaggio venisse inviato

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dalla sorgente. Se la frazione del volume totale dello spazio dei messaggi occupato da un certo messaggio è p, allora il logaritmo di questo volume è logp mentre la probabilità di quel volume è p. Pertanto il logaritmo di una probabilità di un messaggio moltiplicata per la probabilità stessa è data da plogp. La somma di questi termini plogp per l'insieme totale dei messaggi alla sorgente, dunque, rappresenta l'entropia della sorgente. «La ricezione di un segnale riduce l'incertezza nel ricevente riguardo a cosa viene inviato dalla sorgente, un'entropia negativa dunque. La misura dell'informazione secondo Shannon sarà allora il valore negativo della misura normale dell'entropia. Il legame che Szilard stabilì tra entropia e demone di Maxwell è, grosso modo, il seguente: la distinzione effettuata dal demone circa il fatto che una molecola di gas sia più veloce o più lenta della media e provenga dallo scomparto sinistro oppure da quello destro (vale a dire, se debba aprire o chiudere la valvola) costituisce una misurazione che estrae informazione sul sistema del gas, e quindi diminuisce l'incertezza sul sistema stesso. L'entropia del sistema sarà ridotta. La cosa importante è che, quando si parla di entropia, esiste un osservatore implicito. Pertanto, un fisico potrebbe affermare che l'entropia di un sistema la dobbiamo alla «nostra suddivisione a grana grossa» del sistema in macrostati scelti (arbitrariamente). Se noi disponessimo di più informazione sugli stati microscopici del sistema, la nostra grana più fine ridurrebbe l'entropia del sistema dal nostro punto di vista. E, difatti, nel concetto di entropia, vi è stata una certa confusione sul ruolo dell'osservatore e della sua scelta più o meno arbitraria delle dimensioni della grana.»50 R. Sinclair e W. Zurek hanno rivisitato il problema del demone con un mirabile insieme di concetti proponendo altresì una soluzione interessante alla confusione or ora accennata. Il demone quando è alle prese con la valvola sta in realtà misurando il sistema di gas: egli, infatti, effettuando le misurazioni, conosce più cose sullo stato dettagliato del sistema, ovvero possiede una descrizione compatta dello stato del sistema del gas. In realtà, la descrizione compatta dello stato di equilibrio è tale per quanto possibile: alcune variabili macroscopiche (temperatura, pressione e volume) sono sufficienti. I due studiosi hanno effettuato indipendentemente ricerche che dimostrano quanto segue: «da principio, il demone, nel suo operare, accresce la propria conoscenza del sistema e dunque l'entropia del sistema di gas diminuisce. Ma, al contempo, aumentando l'informazione che il demone ha del sistema, di quest'ultimo aumenta anche la lunghezza della descrizione più compatta. In realtà, la lunghezza della descrizione più compatta aumenta, in media, esattamente con la stessa velocità con cui diminuisce l'entropia nel sistema di gas. Ma al crescere della lunghezza della descrizione più compatta, bit dopo bit reale, il suo contenuto di informazione aumenta, bit dopo bit. Pertanto, per ciascun bit di riduzione dell'entropia del sistema di gas ottenuto dalle nostre misurazioni, il contenuto d'informazione della descrizione più compatta aumenta, in media, esattamente con la stessa rapidità. Oppure -- afferma Zurek -- nell'interpretazione moderna, in un sistema di gas all'equilibrio la somma dell'entropia del sistema di gas e della conoscenza che l'osservatore ha di quel sistema è una costante.»51 Ebbene, è ancora possibile estrarre lavoro dal nostro sistema di gas misurato avvalendoci dell'informazione sul suo microstato ricavata da tutte le misurazioni. Tuttavia, nota Sinclair, a lungo andare l'inganno non funzionerà poiché si è dovuto registrare l'informazione sul sistema di gas da qualche parte, magari nei registri di un chip di silicio. Ad ogni modo, in un certo momento, all'interno di un sistema chiuso, il chip avrà saturato di bit i suoi registri. Per continuare a misurare il sistema all'equilibrio, quindi, si dovrà cancellare il chip. Il calcolo effettuato da Sinclair, inoltre, conferma quello di Szilard: cancellare un bit archiviato in memoria richiede un costo energetico minimo che bilancia esattamente il lavoro che si potrebbe ottenere dal sistema di gas usando l'informazione immagazzinata relativa al sistema. La seconda legge, ancora in un'accezione statistica, regge. Stando così le cose, dunque, Kauffman così scrive: «All'equilibrio nessun lavoro macroscopico può essere svolto da un sistema: in una condizione di equilibrio la misurazione non paga. Perché questo lungo preambolo? Perché invece paga misurare il sistema di gas se non è all'equilibrio. Un semplice esempio: le particelle di gas nello scomparto sinistro sono effettivamente più calde di quelle nello scomparto destro. La pressione nello scomparto sinistro sarà dunque maggiore rispetto a quello dello scomparto destro. Se la valvola è aperta, il gas fluirà dallo scomparto sinistro a quello destro fino a equilibrio ristabilito. Si noti che una descrizione molto semplice, compatta, ha colto questi tratti del sistema in non equilibrio e si può estrarre lavoro mentre il sistema di gas fluisce verso l'equilibrio. Più in generale, la tesi di Zurek è che, quando le misurazioni sono effettuate su un sistema di gas in non equilibrio, la lunghezza della descrizione più compatta cresce più lentamente di quanto la conoscenza così guadagnata riduca l'entropia del sistema. È pagante misurare il sistema in non equilibrio, nel senso che quelle misurazioni specificano gli spostamenti dall'equilibrio che costituiscono fonti di energia utilizzabili per estrarre lavoro. Ecco che il demone è davvero un luogo della fisica dove confluiscono materia, energia, informazione e, naturalmente, lavoro.»52 Si prenda in considerazione ora come il lavoro potrebbe essere estratto nella situazione classica del demone di Maxwell, con un gas ideale in due scomparti separati da una parete con finestrella e valvola. Come esempio si consideri un piccolo mulino a vento. La banderuola sul mulino misura la direzione del vento e direziona il mulino in modo da disporne le pale contro vento. Il vento eseguirà a sua volta lavoro sulle pale facendo ruotare il mulino. Il sistema complessivo misura una deviazione dall'equilibrio (in questo caso, la direzione del vento), orienta l'intero sistema in modo che il marchingegno estragga lavoro grazie al vento ed esso estrarrà lavoro: il mulino gira. A questo punto si immagini che il piccolo mulino sia collocato molto vicino alla finestra con la valvola all'interno dell'intero sistema di gas. Se la valvola è aperta, un flusso d'aria

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passerà dallo scomparto sinistro a quello destro. La pala del mulinello misurerà la direzione del flusso e orienterà le pale perpendicolarmente a esso. Infine, il flusso d'aria causerà la rotazione della pala ausiliaria, che estrarrà pertanto lavoro meccanico dal sistema fino a raggiungere l'equilibrio. È dunque possibile chiedersi: quale aspetto del sistema di gas totale è stato misurato e rilevato si da poter estrarre lavoro? Approssimativamente, il flusso d'aria dallo scomparto sinistro a quello destro. Kauffman, però, fa notare come in realtà non tutte le misurazioni del sistema a due scomparti si sarebbero rivelate informazione utile, nel senso che il lavoro avrebbe potuto essere estratto dallo scomparto reale nella sua configurazione reale. Per esempio, la scatola con la valvola separa lo scomparto destro dal sinistro; si supponga che vi sia un identico numero di molecole di gas dai due scomparti di grandezza equivalente e che il gas nello scomparto sinistro sia più caldo di quello nello scomparto destro. Si supponga poi che il demone misuri il numero e le posizioni all'istante di tutte le particelle di gas negli scomparti destro e sinistro. Se si misurassero il numero e le posizioni istantanee di tutte le particelle di gas negli scomparti destro e sinistro, non verrebbe comunque rilevato che le particelle nello scomparto sinistro sono più calde che in quello destro e che quindi si muovono più velocemente. Per misurare il movimento più veloce, il demone deve misurare posizioni in due istanti, oppure qualche altra proprietà, come il contraccolpo delle pareti dello scomparto misurato dalla quantità di moto trasferita dalle particelle di gas più calde rispetto a quelle più fredde nello scomparto sinistro e destro quando rimbalzano contro la parete. Come fa, allora, il demone a misurare (o decidere) le proprietà rilevanti, affinché sia identificata con successo una fonte di energia da cui estrarre lavoro? «A dire il vero, una risposta ancora non l'abbiamo. Eppure è una questione essenziale. Solo determinati caratteri di un sistema in non equilibrio riveleranno, a una misurazione, uno spostamento dall'equilibrio effettivamente utilizzabile per estrarre lavoro. Altri caratteri, se misurati, sono privi di utilità per la rivelazione di uno spostamento dall'equilibrio impiegabile per estrarre lavoro da parte di un sistema specifico qualsiasi. È importante sottolineare che qui disponiamo di una accezione di utile che esula dal contesto degli agenti autonomi. Misurazioni utili individuano tratti di spostamento dall'equilibrio che rivelano fonti di energia da cui si può estrarre lavoro. [...] Io credo che in definitiva potremo creare una teoria statistica della probabilità della generazione di nuovi processi, di nuove strutture e di nuove sorgenti di energia specifici; della propagazione di misurazioni; della rivelazione di fonti di energia utili; e degli accoppiamenti di strutture e di processi a fonti di energia per estrarre lavoro e accumulare progressivamente nuove strutture, nuove fonti di energia e nuovi processi -- il tutto in funzione della diversità attuale di strutture, di processi di trasformazione e di entità di misurazione e di accoppiamento. [...] Quella di cui abbiamo bisogno è una teoria dove la rottura di simmetria richiede ulteriore rottura di simmetria in un accumulo progressivo di strutture e processi diversificanti.»53 Un prototipo parziale di una teoria statistica di questo tipo è presente nel precedente paragrafo dove si è parlato di agenti autonomi, intesi come sistemi fisici auto-riproduttivi, che misurano con esito favorevole spostamenti dall'equilibrio e che si evolvono con successo per accoppiare reazioni esoergoniche ed endoergoniche e per realizzare cicli di lavoro completi: la vasta rete di reazioni esoergoniche ed endoergoniche accoppiate in modo complesso nell'ecosistema globale, pertanto, appare, agli occhi di Kauffman, come una dimostrazione positiva di tale costruzione propagante nell'universo fisico. È altresì importante analizzare il significato delle espressioni, presenti nella citazione precedente, «effettivamente» e «sistema specifico qualsiasi». Si consideri una singola particella di gas in un contenitore. Si misuri la posizione di tale particella a destra o a sinistra di una qualunque superficie arbitraria che tagli trasversalmente il contenitore. Se si sa che la particella è a sinistra di una paratia arbitraria data, è possibile, in linea di principio, estrarre lavoro consentendo a tale particella di passare attraverso una finestra nella paratia e di effettuare lavoro sul mulinello mentre passa nello scomparto destro. Sembra, pertanto, che, in linea di principio, qualsiasi misurazione arbitraria rilevi una fonte di energia sfruttabile per estrarre lavoro. Kauffman, però, ci tiene a precisare che è falsa la conclusione secondo cui qualunque delle misurazioni arbitrarie del nostro sistema con una sola molecola di gas possa rilevare uno spostamento dall'equilibrio da cui estrarre lavoro. «Quell'«in linea di principio» di poc'anzi implica l'idea che, avendo collocato arbitrariamente la paratia e misurato da che lato della paratia si trova la particella, e rilevato quindi mediante quella misurazione arbitraria lo spostamento dall'equilibrio che è fonte di energia, con il senno di poi possiamo decidere una procedura di costruzione che utilizzerà l'informazione sullo spostamento dall'equilibrio per estrarre lavoro dal sistema misurato, in non equilibrio.»54 In altre parole, è possibile collocare il mulinello nel sistema dopo aver misurato la posizione della particella di gas. Prima si effettua la misurazione e poi si colloca il mulinello nello scomparto privo della particella di gas, così quella particella, attraversando la valvola a battente, farà ruotare lievemente il mulinello. Ma nel caso in cui si fosse già costruito il sistema destinato a estrarre lavoro (come nel caso del minuscolo mulinello) e lo si fosse già montato in una posizione specifica dentro il contenitore, non potrebbe essere estratto alcun lavoro netto: la molecola di gas, infatti, è Kauffman che parla, rimbalzando ripetutamente contro le pale del mulinello da tutti gli angoli, non permetterebbe il verificarsi di alcuna rotazione netta della pala. Secondo il grande studioso americano, dunque, qui è possibile rintracciare gli indizi di qualcosa di nuovo: «Solo determinati aspetti di un certo sistema in non equilibrio, se misurati, daranno luogo al rilevamento di fonti di energia che potrebbero essere accoppiate ad altri processi specifici che, effettuando lavoro, propagano cambiamenti macroscopici nell'universo. Il minuscolo mulino è un esempio di congegno che non solo rileva il flusso di

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particelle dallo scomparto sinistro a quello destro, ma che orienta la pala perpendicolarmente a quel flusso e presenta accoppiamenti e vincoli incorporati nella sua struttura tale che il lavoro meccanico venga effettivamente estratto. [...] L'universo nella sua interezza è stato testimone della nascita di nuove strutture e di nuovi processi, il che è accaduto anche per la biosfera. Dove non esistevano differenze, differenze sono scaturite. In un'accezione generale, la persistente emergenza di strutture e di processi differenti è la rottura persistente della simmetria dell'universo. Che cosa alimenta questa evidente diversità propagante?»55 Le reazioni chimico-organiche esorganiche ed endorganiche tra loro collegate presenti in quegli agenti autonomi molecolari che chiamiamo cellule sono proprio un esempio di strutture e funzioni al contempo raffinate e complesse. Per esempio, la distribuzione della carica elettrica su due molecole organiche complesse avvicinate tra loro, accoppiata ai movimenti traslazionali, vibrazionali e rotazionali, costituisce, secondo Kauffman, il mezzo raffinato per misurare gli spostamenti dall'equilibrio, per accoppiarsi a tali spostamenti e per generare reazioni esoergoniche ed endoergoniche catalizzate collegate. «Al crescere della diversità molecolare della biosfera, nascono molte di queste specie molecolari lontane dall'equilibrio: molte di esse sono capaci di rilevare spostamenti dall'equilibrio simili e si generano ulteriori reazioni endoergoniche ed esoergoniche accoppiate di questo tipo. In generale, sembrerebbe che, generandosi una diversità maggiore di entità -- entità perciò necessariamente più complesse -, i loro modi d'essere in condizioni di non equilibrio aumentano in quanto a diversità e raffinatezza. A sua volta, l'esistenza stessa di insiemi di queste entità progressivamente diverse e complesse conferisce loro un numero maggiore di modalità, e dunque maggiore probabilità, per accoppiarsi l'una con l'altra, così che l'una possa misurare uno spostamento dall'equilibrio dell'altra. Queste entità si imbattono dunque in una fonte di energia che può essere, ed è, estratta per eseguire lavoro. A sua volta, quel lavoro può dirigere processi non spontanei a creare specie molecolari ancora più complesse, o altre entità, nel possibile adiacente. In breve, sembra esistere una relazione positiva tra la diversità e la complessità di strutture o processi e la diversità e la complessità dei caratteri di un sistema in non equilibrio, che possono essere rilevate e misurate dalla struttura di rilevazione per identificare una fonte di energia e poi accoppiarsi alla fonte di energia ed estrarre lavoro. Se esiste una relazione per cui tali caratteri diversi e complessi di sistemi in non equilibrio, utili come fonte di energia, possono essere rivelati al meglio da strutture egualmente diverse e complesse, allora nell'universo sembra esistere un insieme di processi autocatalitici generalizzati già a partire dal Big Bang, e anche in una biosfera, mediante i quali nascono sistemi in non equilibrio di diversità e complessità crescenti, che forniscono fonti di energia di raffinatezza e di complessità crescenti, e che a loro volta vengono rilevati ed estratti dalle strutture vieppiù complesse che vengono generate.»56 Questa lunga riflessione di Kauffman, riportata qui quasi integralmente, costituisce, senza dubbio, una prima risposta alla domanda relativa alla fonte dell'organizzazione propagante della biosfera: la diversità e la complessità stesse della biosfera, infatti, è il grande studioso che parla, ne causano l'ulteriore diversificazione e complessificazione (e lo stesso discorso potrebbe valere per l'universo intero). «Il legame tra un ligando e un recettore può innescare una complicata sequenza di reazioni che conducono alla sintesi di centinaia di specie molecolari differenti. Ma l'elevata specificità delle interazioni molecolari in una cellula è un esempio puntuale della nascita di una ricca gamma di processi molecolari complessi, dalle ricche sfumature strutturali e operative, che misurano e rilevano fonti di energia e che accoppiano tali fonti all'esecuzione di ulteriore lavoro, sia esso chimico, elettrico o meccanico. Una biosfera che coevolve realizza proprio l'emergenza di tale organizzazione auto-costruttiva diversificante. Se le galassie, i sistemi planetari, quelli stellari o di altro tipo facciano la stessa cosa è una questione aperta. Ancora una volta, si percepisce la possibilità di una teoria statistica della propagazione e dell'auto-elaborazione di tali sistemi trasformazionali dalla struttura connessa.»57 In questo spirito, dunque, dopo aver indagato il demone di Maxwell, Kauffman si pone ora una domanda propria della fisica: che cos'è il lavoro? La risposta dei fisici è la seguente: l'integrale della forza per la distanza. I fisici hanno in mente qualcosa di simile alle leggi di Newton, dove F = ma, la forza è uguale alla massa per l'accelerazione. In tal senso, allora, il lavoro svolto si ricava semplicemente sommando piccoli incrementi di forza agente su una massa e accelerandola lungo una distanza. Tuttavia, vi sono delle complicazioni. In qualsiasi specifico caso di lavoro eseguito, una direzione di applicazione della forza è specificata nello spazio tridimensionale, qualche direzione reale del movimento della massa è specificata nello spazio tridimensionale ed un meccanismo reale di accoppiamento è in gioco cosicché la forza agisce effettivamente sulla massa e la accelera in quella direzione. È dunque possibile domandarsi: come si pone in essere la specificazione di una direzione? Ed inoltre, come si verifica l'organizzazione del caso specifico di lavoro? Nella fisica classica tutte queste specificazioni sono poste all'inizio del problema, nell'enunciato delle condizioni iniziali e al contorno. Si consideri come esempio una partita di biliardo. Le palle sono sul tavolo in questa o quest'altra posizione, la stecca viene mossa con tale velocità e colpisce una certa palla in tale posizione con una certa velocità. A questo punto si calcoli con gli strumenti di Newton la traiettoria futura delle palle sul tavolo. «Il problema dell'origine delle condizioni iniziali e al contorno, e lo specifico accoppiamento tra stecca e palla, saranno nascosti nelle condizioni iniziali e al contorno del problema e nel modo in cui Newton ci ha insegnato a calcolare. In breve, il problema dell'organizzazione del processo in qualsiasi caso specifico di lavoro è nascosto alla vista nelle condizioni iniziali e al contorno dell'enunciato usuale del problema fisico. In effetti, la scelta è quella dei gradi di libertà rilevanti, che equivale alla scelta

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delle condizioni al contorno di contro alle variabili dinamiche del sistema. Ma una biosfera che si evolve non è che la nascita nell'universo delle complesse, e di continuo diversificanti, condizioni iniziali e al contorno che costituiscono agenti autonomi che coevolvono, con la loro mutevole organizzazione di capacità nel misurare e rilevare fonti di energia, e di accoppiare tali fonti rilevate a sistemi che talvolta estraggono lavoro. [...] Ha senso voler prestabilire in modo finito le condizioni iniziali e al contorno di una biosfera? Io sosterrò di no, che non ha senso. La mia tesi sarà che non possiamo prespecificare in modo finito lo spazio delle configurazioni di una biosfera e che dunque non possiamo fare la stessa cosa per le sue condizioni iniziali e al contorno.»58 Stando così le cose, secondo Kauffman, non è possibile nascondere la questione dell'organizzazione dei processi di lavoro in un enunciato delle condizioni iniziali e al contorno della biosfera. Egli, infatti, tentando di andare oltre Newton, si sforza di risolvere l'emergenza e la propagazione dell'organizzazione nei suoi stessi termini. Consideriamo il lavoro da un secondo punto di vista. Facciamo il caso di un sistema termodinamico isolato. All'equilibrio, il sistema non può eseguire alcun lavoro. Poniamo però che il sistema sia suddiviso in due o più domini, per esempio da una membrana. Ecco, una parte del sistema può ora svolgere del lavoro sull'altra parte. Per esempio, se la pressione media in una parte è superiore alla pressione in un'altra parte, la prima parte provocherà il rigonfiamento della membrana verso l'interno della seconda parte. Da dove è venuta la membrana? Come viene a essere suddiviso il sistema? Non si tratta forse di un'altra condizione iniziale o al contorno che cela la domanda: da dove è derivata questa organizzazione di materia e di processo? Per inciso, si noti che il concetto di lavoro sembra richiedere che l'universo sia in sé suddiviso. Regioni dell'universo devono essere distinte (da cosa o da chi?) affinché il lavoro si verifichi. E adesso vengo a una delle mie definizioni preferite, coniata da Peter Atkins nel suo libro definisce il lavoro «liberazione vincolata di energia» e ribadisce che il lavoro è una «cosa».»59 Si consideri il cilindro ed il pistone nel ciclo di Carnot ideale, con il gas di lavoro caldo e compresso dentro la camera. Il cilindro e il pistone, la posizione del pistone nel cilindro, il grasso tra il pistone ed il cilindro sono vincoli che, insieme con il gas caldo compresso nella testa del cilindro, affinché il lavoro si svolga quando il gas si espande ed esercita la spinta sul pistone. Quale è, tuttavia, l'origine di tali vincoli? E così sembriamo entrare in un circolo interessante: il lavoro è la liberazione vincolata di energia, ma spesso è necessario il lavoro per costruire i vincoli. Secondo Kauffman, dunque, per lavoro qui si intende un accoppiamento tra processi spontanei e non spontanei, ovverossia proprio quello che si suppone debba accadere negli agenti autonomi. «L'universo è pieno di fonti di energia. Scaturiscono strutture e processi in non equilibrio, di diversità e complessità crescenti, che costituiscono fonti di energia e che misurano, rivelano e catturano quelle fonti di energia, costruiscono nuove strutture che costituiscono vincoli sul rilascio di energia, e quindi spingono processi non spontanei a creare ulteriori processi, strutture e fonti di energia, nuovi e diversificanti di questo tipo. [...] La cosa certa è che finora non disponiamo di una teoria coerente per questa fioritura di processo e di struttura. Di qualunque cosa si tratti, una biosfera lo fa. Quanto era sterile il Nebraska, ovunque esso fosse, quattro milioni di anni fa! Ora, non più.»60 Il cuore dell'enigma riguarda la comprensione adeguata del concetto di organizzazione. Più in profondità, è il grande studioso che parla, il mistero attiene alla manifestazione storica, a partire dal Big Bang, di strutture connesse di materia e di energia e dei processi mediante i quali nell'universo compare una crescente diversità di tipi di materia, di fonti di energia e di tipi di processi: proprio ciò che abbiamo davanti agli occhi e che non siamo in grado di vedere. Riassumendo brevemente quanto detto sinora, dunque, abbiamo che il lavoro è la liberazione vincolata di energia e i vincoli sono loro stessi la conseguenza di lavoro. Ebbene, sulla base della definizione provvisoria di agente autonomo come un sistema auto-riproduttivo che esegue almeno un ciclo di lavoro, Kauffman ha rilevato che un agente autonomo è necessariamente un dispositivo in non equilibrio, un dispositivo, vale a dire, in grado di immagazzinare energia. Inoltre, coma abbiamo ampiamente mostrato in precedenza, riflettendo sui cicli di lavoro, il grande studioso si è interrogato sul demone di Maxwell, sulla misurazione, sul motivo per cui la misurazione paghi, ed infine su quali aspetti di un sistema in non equilibrio sono misurati in modo tale da costruire una fonte di energia. Di qui si è poi domandato come nascano accoppiamenti in grado di catturare la fonte di energia giungendo altresì al concetto di lavoro, a quello di vincoli ed infine a quello che è stato definito come lavoro propagante dovuto, cioè, all'occorrenza di insiemi connessi di vincoli e flussi di materia e di energia. «Un passo successivo sarà capire che i soli agenti autonomi ben conosciuti, vale a dire le cellule reali -- come il lievito, i batteri, le vostre e le mie cellule -- realizzano effettivamente processi collegati in cui processi spontanei e non spontanei sono accoppiati per costruire vincoli sulla liberazione di energia. L'energia, una volta liberata, costituisce lavoro che si propaga e che effettuerà ulteriore lavoro, costruendo ulteriori vincoli sulla liberazione di energia che, liberata a sua volta, costituirà lavoro destinato a propagarsi oltre.»61 La figura 5 rappresenta in modo schematico una cellula.

Figura 5

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Qui viene mostrata una tipica membrana a doppio strato lipidico, piccole molecole organiche di specie differenti A, B, C, D, E, F, G, un canale trans-membrana, e così via. Ebbene, come tutti sanno, le cellule eseguono di regola lavoro termodinamico per costruire lipidi da specie molecolari più piccole. Tipicamente, l'energia la forniscono la scissione di ATP in ADP o reazioni metaboliche esoergoniche simili. I lipidi, tuttavia, hanno la capacità di precipitare in una struttura a bassa energia, precisamente un doppio strato lipidico. In ambiente acquoso, notoriamente, i lipidi tendono a formare membrane a doppio strato lipidico con le teste idrofobiche affacciate sul mezzo acquoso e le code idrofobiche rivolte in profondità, le une contro le altre lontane dall'acqua. In realtà, se si prende una molecola lipidica e la si dissolve in acqua, si formeranno spontaneamente vescicole membranose di lipidi a due strati: i liposomi. Alla luce di tutto ciò, dunque, risulta possibile inferire, in accordo con Kauffman, che le cellule eseguono lavoro termodinamico per costruire lipidi, lipidi che, a loro volta, formano spontaneamente una struttura a bassa energia, la membrana. Ma la membrana costituisce vincoli. Si veda la figura 5. «A e B sono piccole specie molecolari organiche capaci di tre reazioni ipotetiche. A e B possono essere soggette ad una reazione due-substrati-due-prodotti e formare C e D. A e B possono saldarsi e formare un unico prodotto, E. Oppure A e B possono andare incontro a una differente reazione due substrati-due prodotti e formare F e G. Naturalmente ciascuno di questi tre percorsi di reazione di A e B procede lungo le proprie coordinate di reazione attraverso il proprio differente stato di transizione. Poiché ciascuno dei tre stati di transizione possiede un'energia superiore rispetto ad A e B o ai prodotti C più D oppure E o F più G, l'energia dello stato di transizione è una barriera di potenziale energetico, che rallenta la reazione da A e B lungo ciascuno dei tre percorsi di reazione.»62 Si supponga che A e B si dissolvano nella membrana lipidica dall'interno acquoso della cellula. Quando ciò accade, l'immersione di A e di B nell'ambiente della membrana modifica i movimenti vibrazionali, rotazionali e traslazionali (o gradi di libertà) di A e B. Ma, a loro volta, le modificazioni dei movimenti di A e di B modificano l'altezza delle energie dello stato di transizione lungo ciascuna delle tre vie di reazione da A e B a C più D oppure a E, o a F più G. «Ma la modificazione delle altezze di energia potenziale lungo i tre differenti percorsi delle reazioni da A e B è precisamente la modificazione dei vincoli su queste reazioni. Le altezze delle barriere, insieme con le barriere di energia anche superiori che forniscono i muri delle coordinate di reazione lungo cui la reazione procede, costituiscono i vincoli. La cellula in realtà ha dunque svolto lavoro termodinamico per costruire vincoli sulla liberazione di energia chimica immagazzinata in A e B, che potrebbe essere liberata per formare C più D oppure E, o anche F più G.»63 Non solo. Il grande studioso, infatti, fa notare che la cellula esegue lavoro termodinamico, utilizzando la degradazione di ATP in ADP, anche per legare gli aminoacidi in una proteina enzimatica. L'enzima diffonde nella regione della membrana dove sono caricati A e B e si lega stereospecificamente allo stato di transizione che conduce da A e B ai prodotti C e D. Legandosi al complesso dello stato di transizione di questo percorso di reazione, l'enzima abbassa la barriera di potenziale per la reazione A + B? C + D e l'energia chimica immagazzinata in A + B viene liberata per formare C + D. Stando così le cose, quindi, Kauffman così scrive: «La cellula esegue pertanto lavoro, sia per costruire vincoli che per modificarli, elevando o abbassando le barriere di potenziale affinché venga liberata energia chimica. Inoltre, l'energia liberata può, cosa che spesso si verifica, propagarsi per effettuare lavoro che costruisce altri vincoli. Allora, il prodotto D potrà a sua volta diffondersi verso un canale trans-membrana e qui legarsi, cedendo parte dell'energia immagazzinata nella sua struttura mediante una rotazione interna ad uno stato di energia inferiore, e perciò sia legarsi al canale sia addizionare energia a quest'ultimo per aprirlo, in modo tale che gli ioni calcio entrino nella cellula. Sono così accoppiati un processo spontaneo e un processo non spontaneo. Il lavoro si propaga nelle cellule e spesso lo fa attraverso la costruzione di vincoli sulla liberazione di energia,

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che una volta rilasciata costituisce lavoro che si propaga per costruire ulteriori vincoli sulla liberazione di energia.»64

In termini di diversità molecolare e di diversità di altro tipo, quindi, secondo il grande studioso, l'universo e la biosfera progrediscono in un persistente possibile adiacente. Nuovi tipi di molecole, infatti, dotate a loro volta di nuove proprietà e in coppia con altri tipi di molecole, nascono senza sosta sul pianeta terra e forse nelle fredde nubi molecolari giganti, dove, cioè, nascono le stelle in gran parte delle galassie a spirale. Così, è Kauffman che parla, le nuove specie di molecole forniscono nuove reazioni esoergoniche ed endoergoniche, nuovi vincoli e nuove fonti de energia che sono parte della creatività che vediamo al di fuori delle nostre finestre. «Eppure, noi sappiamo a malapena come esprimere la natura di questa propagazione e di questa elaborazione dell'organizzazione e del processo, e siamo privi di indizi sull'esistenza di leggi generali che presiedono a tali processi auto-costruttivi in non equilibrio. Una legge del genere potrebbe essere la mia sospirata quarta legge della termodinamica per sistemi aperti e auto-costruttivi. Eravamo partiti dagli agenti autonomi, ma qui siamo andati oltre le biosfere. Quali sono le condizioni generali che consentono di fiorire a tali processi auto-costruttivi in non equilibrio? Le biosfere sono l'unico esempio? Che dire allora dell'evoluzione della geologia di un pianeta, di un sistema solare, di una galassia o dell'universo intero? Esistono modi per considerare l'emergenza di strutture che misurano e scoprono fonti di energia nei sistemi in non equilibrio, insieme con l'emergenza di strutture e processi che si accoppiano a fonti di energia, effettuano lavoro per costruire vincoli e propagano la liberazione vincolata dell'energia scoperta, tale che possano sorgere strutture, vincoli e processi più diversi, de novo, nel possibile adiacente dell'universo che si evolve?»65 A molte di queste domande tutt'ora non c'è una risposta che non sia soltanto un'ipotesi. Molto probabilmente, però, secondo Kauffman, l'universo rompe di continuo simmetrie generando novità di questo tipo, creando molecole peculiari o altre forme mai esistite prima. Addirittura, secondo Kauffman e Atkins,66 potrebbe esistere una legge generale per la biosfera e forse anche per l'universo intero lungo la traccia seguente. Una candidata quarta legge della termodinamica: «come tendenza media, le biosfere e l'universo creano novità e diversità quanto più rapidamente possibile senza distruggere l'organizzazione propagante accumulata, che è il fondamento e il tessuto connettivo da cui ulteriore novità viene scoperta e incorporata nell'organizzazione propagante.»67 Gli agenti autonomi, ovvero sistemi autoriproduttivi che eseguono uno o più cicli di lavoro collegando processi esoergonici ed endoergonici in una modalità ciclica che propaga l'unione di catalisi, di costruzione di vincoli e di organizzazione di processo, sono gli esempi più miracolosamente diversificanti di questo processo generale che avviene nel nostro universo in continuo dispiegamento e in continua trasformazione. Con riferimento a questa prospettiva, dunque, ci sia consentito, a questo punto, di chiudere il presente paragrafo facendo nostra la seguente riflessione di Kauffman tratta dal suo ultimo volume: «Now what a cell does is rather astonishing, and hard to pin down. Chemical processes happen that do work to construct constraints on the release of Energy, which, when released, does further work that builds a variety of things, including further constraints on the release of energy. This, crudely, is propagating process. In due course, this propagating process of constraint construction, the constrained release of energy in specific directions, the resulting building of structures and carrying out of processes, closes upon itself in a set of tasks such that the cell constructs a rough copy of itself. While we all know this is true, we seem not to have a language for it. The closest simple analogy I can think of is a river and river bed, where the river carves the bed, while the bed is a constraint on the flow of the river. The phenomena of propagating processes, with linked constraint construction and constrained release of energy, are right in front of us, but hard to describe so far, and hard to mathematize so far. It is this self propagating organization of processes, upon which the philosopher Immanuel Kant commented over 200 years ago, that we need to understand more fully, and for which we need to formulate a mathematical framework. Perhaps the reader knows of such a framework already. I confess I do not as jet. Nevertheless, cells carry out a propagating organization of process, overwhelmingly chemical, that remains poorly analyzed. Linked among cells, this propagating organization of process flows through and constructs the biosphere.»68

3. Semantica molecolare ed «informazione istruttiva»

Nei paragrafi precedenti abbiamo avuto modo di approfondire ulteriormente la definizione di agente autonomo elaborata da Kauffman. Ora tale definizione risulta alquanto ampliata poiché abbiamo realizzato che spesso gli agenti autonomi rilevano, misurano e registrano anche spostamenti dall'equilibrio di sistemi esterni, e che tali spostamenti sono impiegabili per estrarre lavoro. Al momento, dunque, sappiamo che gli agenti autonomi estraggono lavoro dal loro ambiente, propagando lavoro e costruendo vincoli. L'egretta, l'airone, l'Escherichia coli e qualsiasi altro essere vivente, però, fanno parte del mondo fisico tanto quanto gli atomi e forse più dei quark. Tuttavia, gli agenti autonomi che manipolano giorno per giorno il mondo a loro vantaggio e che ricevono dai loro linguaggi comuni gli attributi inevitabili dell'intenzionalità e della finalità sono anche, nella definizione divisata da Kauffman, semplici sistemi fisici con un'organizzazione

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peculiare di processi e di proprietà. «Se il concetto di agente autonomo fosse una definizione utile -- o, meglio, adeguata -- della vita stessa, allora gli agenti autonomi colmerebbero il divario che separa il dominio del meramente fisico da quel nuovo regno del meramente fisico dove tutti noi ci attribuiamo a vicenda uno scopo. La semantica entra in gioco con la finalità. Affinché ciò sia vero, non è necessario che i portatori di finalità -- mi viene in mente proprio quello stesso batterio che si dirige contro corrente lungo il gradiente di glucosio -- siano coscienti.»69 In precedenza abbiamo visto che, secondo il grande studioso, una biosfera è una co-costruzione auto-consistente di agenti autonomi, di modi di procurarsi da vivere e di procedure di ricerca (la mutazione e la ricombinazione), ma, al contempo, è anche «esplorazione comportamentale aperta» per gli agenti autonomi. Ebbene, Kauffman sostiene che questi ultimi, come individui e come collettività, hanno il know-how incarnato per guadagnarsi da vivere con i giochi naturali del loro mondo. «I mezzi per procurarsi da vivere ben esplorati e padroneggiati dagli agenti e dalle loro procedure di ricerca sono diventati i mestieri più occupati, le nicchie abbondanti nella biosfera. Nella totalità di questo sistema auto-costruttivo vi è un saper fare più ampio, che travalica quello di ogni singolo agente autonomo che si muove bramosamente nel suo microambiente. Eppure è chiaro che il saper fare è distribuito. Non esiste alcun agente autonomo, nessuno, che sappia come funziona l'intero sistema, non più di quanto oggi ciascuno di noi conosca il funzionamento di un sistema economico globale con le sue miriadi di interazioni, di transizioni commerciali, di frodi, speranze e frustrazioni. Che cos'è il know-how nel mondo? I filosofi distinguono tra sapere come (know-how) e sapere che (know-that). Io so come allacciarmi le scarpe e sto imparando come si suona la batteria jazz. Il sapere che riguarda proposizioni, più convenientemente proposizioni umane. Io so che la luna -- così mi dicono -- non è fatta di gorgonzola. So che la terra orbita intorno al sole e che è grossomodo sferica; che le sedie vengono usate per sedersi. Il sapere che implica le questioni standard e non standard della verità o della falsità di proposizioni riferite a stati del mondo. Forse anche i primati superiori addestrati a manipolare simboli semplici con evidente riferimento al mondo possono possedere il sapere che rispetto a proposizioni. Il sapere come, a differenza del sapere che, non implica proposizioni sul mondo. Esso riguarda la conoscenza procedurale, il nostro cavarcela nel mondo. Il ghepardo che insegue lo gnu e l'atleta di talento che salta in alto possiedono il know-how che permette loro queste azioni. Allora, un batterio sa come procurarsi da vivere nel proprio mondo? La mia risposta è, senza titubanze, sì, anche se io non attribuisco affatto a quest'ultimo una coscienza.»70 Si consideri, per esempio, la miriade di intricate attivazioni e disattivazioni di geni, di commutazioni metaboliche, di contrazioni meccaniche, di percezione del gradiente di glucosio, di azioni natatorie controcorrente per raggiungere concentrazioni maggiori di glucosio. Il batterio sa fare tutto ciò anche se non può raccontarlo. «Grazie a Dio esiste il know-how. Il sapere che non che è una sottile patina depositata sopra la facoltà del know-how, una facoltà vecchia quattro miliardi di anni e abbondante nella biosfera. Ma qualsiasi agente autonomo che prolifera da solo e con una congerie di altri agenti è anche favorito, sembrerebbe, da quel suo know-how. Se nei decenni a venire sintetizzeremo agenti autonomi ed essi co-evolveranno sotto il nostro sguardo rapito in pochi mesi o anni, in un ecosistema di modesta complessità, brulicante di nuove forme di vita, ebbene anch'essi sapranno come procurarsi da vivere nel modo che avranno creato mutuamente, cui si aggiungeranno le condizioni al contorno che noi, più o meno intelligentemente, imporremo loro. Posto in questi termini, il know-how è solo un altro modo di vedere le chiusure catalitiche che si propagano, i compiti di lavoro, la percezione, la registrazione e le azioni che noi oggi riconosciamo come intrinseci alle attività di agenti autonomi. Il know-how non è al di fuori di quell'organizzazione propagante: il know-how è l'organizzazione propagante.»71 Eccoci, dunque, inevitabilmente condotti ai confini della semantica. In on emergence, agency and organization, articolo del 2006, Kauffman, in collaborazione con P. Clayton, ha messo in luce il fatto che se esiste un agente autonomo, esiste necessariamente una semantica dal suo punto di vista privilegiato. Ebbene, tutto ciò è molto semplice. Una specie molecolare che sopraggiunge e penetra in un agente autonomo è: (I) cibo; (II) veleno; (III) un segnale; (IV) neutro; (V) altro. La molecola entrante è disgustosa oppure deliziosa. Agli occhi di Kauffman il grande passo concettuale verso il disgustoso, ovvero il delizioso, è inevitabile una volta che un agente autonomo viene posto in essere.72 Così, sostanzialmente, risulta possibile inferire che sono criteri darwiniani quelli a cui stiamo facendo riferimento: se è delizioso, infatti, questo tipo di agente sarà probabilmente più rappresentato sotto forma di discendenza, qualora fosse disgustoso, invece, non è altrettanto probabile che questa discendenza prospererà. A questo punto, dunque, a giudizio di Kauffman, se esistono il disgustoso ed il delizioso, allora vuol dire che ci stiamo avvicinando alla triade semiotica di C. S. Pierce: segno, significato, significante. «Che ci piaccia o meno, il gradiente di glucosio è un segno, un qualcosa che predice «maggiore quantità di glucosio lungo quella strada». Certo, tale molecola non è un simbolo arbitrario, non più di quanto la nube lo è per la pioggia. In quest'accezione limitata, i segni sono casualmente correlati con la cosa significata. Viceversa, la relazione tra la parola sedia e l'oggetto che essa significa, e su cui adesso sono seduto, è arbitraria. Ma possono i segnali chimici nelle comunità di batteri, di piante e di esseri umani essere arbitrarie dal punto di vista chimico-causale? In caso affermativo, possono «mere sostanze chimiche» essere segni a pieno titolo, per come li intendeva Pierce? Io sono convinto sia chiaro che una semplice chimica in un agente autonomo possa ospitare simboli e segni nelle accezioni più complete dei termini.»73 Si consideri, ad esempio, il celeberrimo codice genetico.

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Triplette di nucleotidi in una molecola di RNA rappresentano aminoacidi specifici, i quali verranno incorporati in una proteina. Nei dettagli della meccanica causale, infatti, abbiamo: le molecole di tRNA con il sito dell'anticodone e con il sito distante cui si attaccano gli aminoacidi, gli enzimi aminoacil-trasferasi che caricano il sito di legame dell'aminoacido di ciascun tRNA con l'aminoacido corretto tra i venti disponibili, il legame del sito caricato dell'anticodone dell'RNA con l'opportuna tripletta dell'RNA (una parola in codice) ed infine il ribosoma che scivola tra molecole caricate di tRNA adiacenti legando così gli aminoacidi nella catena polipeptidica in crescita la quale fluttua in una sua estremità nel citoplasma essendo ancorata dal ribosoma alla molecola di mRNA che nel frattempo viene tradotta. L'arbitrarietà del codice genetico è esemplificata dall'evoluzione di nuove molecole di tRNA le quali traducono un determinato codice di triplette di mRNA in un aminoacido differente. Come tutti sanno, Monod, più di trenta anni fa, ha focalizzato l'attenzione delle sue ricerche sulla gratuità dei processi cellulari mettendo così in luce il fatto che le relazioni tra le strutture chimiche che controllano la catalisi sono totalmente arbitrarie rispetto a quelle che la supportano. Lo stesso discorso vale per lo tRNA. Qui, infatti, il sito dell'anticodone è distante dal sito di legame dell'aminoacido e, in virtù di ciò, quale aminoacido sia caricato su una specifica molecola di tRNA è assolutamente arbitrario ed è controllato dall'enzima aminoacil-trasferasi, nonché dalla struttura del sito di legame per l'aminoacido sul tRNA: entrambi, quindi, possono essere modificati senza cambiare il meccanismo di accoppiamento codone-anticodone. Alla luce di tutto ciò, dunque, Kauffman, dopo aver più volte ribadito che la chimica ammette organizzazioni arbitrarie delle relazioni di controllo, così si esprime: «Sembra pienamente legittimo assegnare i concetti di segno, significato e significante al codice genetico. E sembra legittimo anche estendere quella nozione a gran parte dei raffinati meccanismi di trasmissione di segnali, chimici e di altra natura, tra agenti autonomi e all'interno di essi. Ne sono un esempio le piante. Esse, infestate da un particolare insetto, secernono un metabolita chimico secondario che allerta altri membri della stessa specie di un'infestazione d'insetti in atto, affinché questi attivino, a loro volta, metaboliti secondari di difesa anti-insetto.»74 In accordo ad una tesi formulata da J. Bronowski75 e formalizzata, poi, da M. Eigen, è ormai consuetudine affermare che, a livello biologico, il contenuto informazionale di una struttura data può permanere stabile solo se esso viene mantenuto nel tempo nei limiti di una determinata soglia che risulta essere inversamente proporzionale al tasso medio di mutazioni che si danno nella replicazione delle strutture individuali.76 In tal modo, il mantenimento della stabilità nella replicazione risulterebbe legato ad una sorta di confronto continuo ed incessante con il rumore. Tuttavia, in relazione a questa tesi, occorre rilevare il fatto che senza la utilizzazione creativa degli shifts casuali, vale a dire senza l'irrompere di mutazioni, non vi è, a livello degli organismi viventi, reale possibilità di raggiungere progressivamente strutture stabili di grado più elevato. Con riferimento alla formulazione originaria della tesi di Eigen, pertanto, come rilevano A. Carsetti ed altri studiosi, appare necessario distinguere due diversi tipi di stabilità. «Una stabilità statica connessa ad una pura replicazione dell'esistente ed una stabilità dinamica che vive nello sviluppo e che risulta legata a continui processi di trasformazione e di innovazione. A livello di questo ultimo tipo di stabilità, un organismo biologico può pervenire a realizzare un incremento progressivo della complessità che lo caratterizza a livello interno e, quindi, un arricchimento effettivo del proprio patrimonio informazionale, solo mediante la utilizzazione creativa di shifts casuali capaci di aprire la strada per giungere a concretizzare stadi più alti e prima imprevedibili di complessità stabile. È attraverso questa utilizzazione creativa che il gioco casuale della evoluzione appare venire a lanciare in avanti il processo della crescita, permettendo il delinearsi di nuovi equilibri, di nuove strutture, capaci di rivelarsi come dei veri e propri punti di accumulo per nuovi balzi, per brusche variazioni dei tassi di crescita della complessità interna; variazioni atte a condurre al superamento di antiche soglie per determinare, quindi, in loro vece, nuovi livelli di stabilità invariante.»77 Così, nel caso dell'evoluzione naturale, ci troviamo dinanzi a processi di convergenza e di divergenza intrinsecamente correlati. In altre parole, ci troviamo di fronte ad una sorta di processo dialettico nascosto in grado di tenere insieme permanenza ed innovazione da un lato e variabilità e specificità dall'altro, una dialettica vale a dire che, in ogni caso, vede come risultato ultimo del processo la formazione di «isole sempre più rarefate di negentropia». Questo rapporto dialettico tra stabilità e mutazione, dunque, ci consente di rivisitare le prime considerazioni di Monod circa la relazione esistente tra casualità ed invarianza, ma, al contempo, ci indica anche la necessità di un ampliamento della problematica monodiana: «La necessità, segnatamente, di giungere a distinguere una invarianza di superficie da una invarianza a livello profondo, connessa a precisi processi di crescita e di rivelazione a livello interno. Rispetto a questo ultimo tipo di invarianza non si pone più, soltanto, il problema di garantire la fedeltà della replicazione del messaggio originario, né quello di garantire, esclusivamente, tramite selezione, la permanenza di mutazioni inseritesi nel tessuto del messaggio e rivelatesi apportatrici di specifici vantaggi selettivi; ciò che appare necessario assicurare, perché una struttura data si replichi secondo invarianza profonda, è la possibilità, da un lato, della eliminazione sistematica del rumore non utilizzabile in modo costruttivo e, dall'altro, del delineamento di «aperture» di tipo non predeterminato che conducano ad una irruzione di rumore «creativo» in vista di un successivo allargamento delle basi semantiche del messaggio che viene trasmesso, della struttura stessa che si replica invariante.»78 Ovviamente, per far sì che questo tipo di processo possa darsi in modo ordinato, occorre l'esistenza di una

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attività continua di controllo, di auto-organizzazione e di selezione. Occorre, cioè, un rapporto di accoppiamento costante tra gli organismi che si replicano e l'ambiente circostante. Prima di tutto, infatti, è l'ambiente che concorre a determinare i confini del tasso medio di mutazioni che possono darsi all'interno di un determinato essere vivente ed è l'ambiente che interviene attraverso la selezione per assicurare una «direzione» all'evoluzione. Così, più un organismo risulterà altamente strutturato, più avrà l'opportunità di sfruttare intelligentemente ed in modo autoregolato le proprie risorse interne e più avrà possibilità di fare proprie le potenzialità di sviluppo che gli vengono offerte dalle mutazioni, ovverossia dalle «vie privilegiate del caso». D'altro canto, l'ambiente, a sua volta, dovrà intervenire per selezionare tra la molteplicità degli sviluppi possibili e per guidare la composizione di questi sviluppi in modo da garantire una crescita ed un adattamento equilibrati. «Ci troviamo, pertanto, a livello evolutivo, dinanzi ad una situazione dinamica che diviene e si trasforma per equilibri successivi. Da un lato, il mantenimento necessario della stabilità nella replicazione comporta la eliminazione di una molteplicità di vie del rumore. Questa espulsione dall'isola identica della replicazione di aperture e tensioni sottese, di aggressioni aleatorie interne ed esterne, costituisce un impoverimento oggettivo delle capacità espressive a livello di crescita e di rivelazione in senso profondo della struttura che si riproduce. Dall'altro, la utilizzazione creativa degli shifts casuali, l'inglobamento ordinato di mutazioni permettono una crescita reale delle strutture. Ma questa utilizzazione non potrà essere portata oltre una certa soglia se non si vuole che la struttura perda la propria identità, le proprie caratteristiche di stabilità interna, di controllo unitario ed equilibrato di un processo di rivelazione progressiva.»79 A questo punto, dunque, l'aporia che sembrava scaturire da quest'apparente contrapposizione si scioglie una volta che l'identità or ora accennata, in una situazione di sviluppo, non venga più intesa, in senso restrittivo, come identità di superficie, bensì come invarianza relativa alla coordinazione unitaria dei patterns profondi di crescita. In tal senso, quindi, proprio all'interno di questo rapporto dinamico tra superficie e profondità è possibile rintracciare il filo conduttore utile a farci comprendere come sia possibile, in effetti, conservare un'identità a carattere analitico nonostante il flusso di trasformazioni progressive (sintetiche) delle strutture informazionali. In questa luce, dunque, appare possibile pensare che «è, esattamente, nelle pieghe di questa connessione intrinseca che si cela l'origine, almeno per determinati aspetti, delle metamorfosi della Natura, la ragione o meglio una delle ragioni che guidano il continuo emergere del nuovo. Da un punto di vista effettivo [...] il problema non è, pertanto, quello di chiarire entro quale soglia, in presenza di mutazioni, possa essere assicurata la replicazione invariante di una struttura data. Il problema è quello, in realtà, di spiegare in che termini e secondo quali modalità una crescita conservativa della struttura, atta a rivelare il tessuto profondo delle potenzialità che la sottendono, possa contemporaneamente giungere sia ad utilizzare il rumore in senso creativo, sia ad assicurare una invarianza minima di superficie, in maniera tale da permettere un'alternanza coordinata di periodi di convergenza e di divergenza. E', precisamente, la esistenza di questa porta di Giano nei confronti del Caso che assicurerebbe, secondo la ipotesi che viene qui delineata, quel lancio in avanti dell'evoluzione a cui si è dianzi accennato. Non si tratta più, allora, di determinare soltanto i confini di una soglia, bensì di comprendere in qual modo questa soglia, pur operante, possa essere spostata continuamente in avanti, nel rispetto di precisi moduli connettivi e secondo gradi di complessità via via più elevati.»80 Ebbene, l'origine e le modalità di azione di questo spostamento appaiono direttamente riconducibili, per quanto concerne il modello teorico, nel cuore della dinamica propria dei processi di auto-organizzazione che sono alla base dei fenomeni della vita. Quando ci troviamo, infatti, dinanzi non a fenomeni di puro ordine né di pura casualità, bensì a fenomeni riguardanti forme di alta auto-organizzazione, ci troviamo, in realtà, al cospetto di una situazione intermedia tra la completa assenza di vincoli e il massimo della ridondanza. Nei fenomeni vitali, pertanto, l'organizzazione dovrebbe essere vista come un compromesso tra la massima variabilità e la massima specificità, un compromesso, vale a dire, che, in presenza di una struttura profonda sottostante il messaggio di superficie, verrà ad articolarsi secondo una dimensione dinamica capace di mutare nel tempo. «La dimensione propria di un processo di auto-organizzazione, di un processo, vale a dire, in base al quale il cambiamento dei moduli organizzativi non risulta diretto da un programma già predeterminato, bensì da un programma che nasce dall'incontro tra la esplicitazione di potenzialità interne al sistema in evoluzione, da un lato, e la rivelazione (a seguito anche del realizzarsi di una precisa azione di guida) di principi generativi che vivono, in modo sotteso, nella realtà esterna al sistema, dall'altro. Tale processo potrà comportare in linea di principio, un progressivo decremento delle condizioni di possibile alta ridondanza proprie dello stato iniziale, sotto l'effetto di una molteplicità di fattori, ed un correlato e successivo incremento della variabilità potenziale a livello simbolico. Ciò potrà permettere, quindi, un ampliamento susseguente del raggio d'azione dei fattori regolativi interni, collegato all'apparizione di nuovi vincoli, di forme rinnovate di organizzazione. In questo modo ad un aumento della variabilità verrà a corrispondere un aumento della specificità, una diminuzione del disordine. E ciò senza cadere in paradossi o contraddizioni. E', esattamente, a questo pressoché contestuale aumento della variabilità e della specificità, che facciamo riferimento quando parliamo di apertura dall'interno di un sistema accoppiato, dotato di moduli auto-organizzativi. In altre parole, nel momento in cui si realizzano passaggi di soglia le basi della variabilità si ampliano e si giunge, altresì, nel contempo, a porre le condizioni per realizzare fenomeni di organizzazione estremamente complessi.»81 In effetti, oggi sappiamo come l'entropia possa aumentare e contemporaneamente il

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disordine diminuire quando il numero dei microstati non risulta costante: in particolar modo quando l'incremento di questo numero avviene più rapidamente di quello di S (l'entropia). In tal senso, allora, può essere rivisitata la tesi originale di von Weizsäcker che mette in stretta relazione l'incremento di informazione e l'incremento di entropia: l'ampliarsi della variabilità è, infatti, condizione necessaria, a livello semantico, per il realizzarsi di una «complessificazione» del sistema.82 Così, come tutti sanno, affinché si realizzi un concreto processo di auto-organizzazione occorre la presenza di un sistema accoppiato sorgente-osservatore che risulti caratterizzato da un «dialogo informazionale» continuo tra le due componenti or ora accennate, nonché dalla capacità effettiva della sorgente di aprirsi al proprio interno articolandosi così secondo una precisa dimensione semantica in grado di snodarsi per livelli gerarchici successivi. Naturalmente, il legame tra evoluzione ed entropia deve essere visto in riferimento al divenire reale di biosistemi a carattere complesso, dotati di codice interno, di apparati specifici di regole e di capacità di auto-programmazione. Occorre, in questo senso, andare oltre la caratterizzazione data da Shannon del concetto di informazione: «Il punto di fondo è che a livello biologico gli organismi sono determinati da un insieme di vincoli, di codici, di programmi. L'informazione che risiede negli organismi a livello profondo specifica, al tempo stesso, la loro struttura. Dobbiamo, pertanto, seguendo Layzer, individuare uno spazio degli stati avente carattere biologico e definire, conseguentemente, microstati o eventi elementari che risultino determinati da vincoli regolativi, da regole di produzione, da punti limite ecc. La variabilità e la specificità dovranno, quindi, essere definite rispetto a questo tipo particolare di microstati; ad eventi elementari, vale a dire, che non possono essere identificati [...] tramite il riferimento ingenuo a frequenze o a vincoli di superficie; che debbono, al contrario, essere definiti nella loro oggettività, nel quadro del rapporto dialettico esistente tra osservatore e sorgente, tra ipotesi misure e falsificazioni, in riferimento, segnatamente, alla possibilità stessa di innescare, tramite la guida offerta dalle misure, un processo di liberazione della informazione profonda e, quindi, il rivelarsi progressivo di strutture specifiche, collegate al processo suddetto. Qui possiamo individuare uno dei nodi cruciali del processo della analisi. La nostra capacità di arrivare a distinguere microstati atti a dar conto dell'articolarsi di una funzione-entropia associata a specifici vincoli regolatori a carattere biologico, può permetterci di delineare una spiegazione, in generale, dei processi di soglia e di auto-organizzazione che sono alla base di quel particolare tipo di struttura vivente rappresentato dal DNA. Una molecola, vale a dire, che possiede al suo interno le regole preposte alla piena espressione del proprio programma, nonché le regole per mutare queste stesse regole.»83 Tale molecola, dunque, possiede una capacità che risulta adeguata ad elaborare strutture potenzialmente infinitarie, quelle strutture, vale a dire, che risultano essere determinanti per la trasmissione dell'informazione, trasmissione che si attua con la replicazione nel finito, con la trasmissione delle regole relative alla replicazione della struttura. In questo modo, allora, il DNA non è sorgente infinitaria in senso attuale, bensì costituisce la base per la trasmissione di quantità finite, ma adeguate, di informazione relative alla edificazione per replicazione possibile di strutture potenzialmente infinitarie. «Occorre, in altre parole, rendersi conto, innanzitutto, che non è possibile calcolare l'informazione biologica così come avviene per il caso della trasmissione dei segnali. Non possiamo confondere eventi macroscopici o macrostati con microstati. Né basta tener conto dell'intervento dell'attività della misura distinguendo informazione libera ed informazione legata, quando, poi, non si è in grado di individuare la realtà intrinseca dei microstati biologici e, quindi, il tipo di vincoli specifici ad essi connessi. È necessario, al contrario, individuare i livelli della informazione profonda, là dove si nascondono i vincoli regolatori; è necessario, altresì, dar ragione del rapporto che lega l'osservatore alla sorgente ed in particolare del nesso che intercorre tra i vari livelli a cui si disloca il contenuto della informazione. Ciò permetterà di definire in modo corretto i microstati con riferimento alla evoluzione reale della sorgente ed alla apparizione progressiva di nuovi vincoli in presenza di un aumento della variabilità. Come giustamente nota Jaynes entrare nei livelli profondi della sorgente, nel nostro caso del DNA, è possibile solo con l'aiuto di telescopi-modelli molto sofisticati, con l'aiuto di misure di informazione e di ipotesi non predeterminate in modo rigido. Capaci, occorre aggiungere, di dar ragione del complesso intreccio esistente tra informazione di superficie ed informazione di profondità. Di dar conto, in altri termini, di come il rumore, generato innanzitutto a livello interno, possa essere sfruttato in modo creativo e divenire fattore di innovazione. Tutto ciò comporta che i microstati non potranno essere considerati come semplici lettere di un alfabeto, come entità ancorate a vincoli di superficie a carattere monodimensionale, incapaci di dar conto della dialettica esistente tra sorgente ed osservatore. Al tempo stesso la creatività del sistema, il suo carattere semantico non possono scaturire [...] da semplici aggiunte di nuovi stati-lettere, bensì dal manifestarsi di processi di riorganizzazione globale che si realizzano tramite scissione interna degli atomi, apertura di punti fissi, individuazione di nuovi attrattori. Il problema reale è quello di capire come la macchina auto-poietica giunga ad ampliare, in modo autonomo, la base della propria variabilità interna in modo da porre le basi per il realizzarsi di un bricolage evolutivo, storicamente determinato che si snoda lungo il passaggio da un elemento all'altro di una gerarchia di livelli, secondo moduli non predeterminati in via completa.»84 Il problema reale, dunque, è quello di capire come l'osservatore possa, tramite le sue misure, porsi come «fattore di guida» per il rivelarsi delle potenzialità nascoste, ovvero per l'espressione piena dell'autonomia propria della fonte. Per poter realizzare tale azione di guida, quindi, l'osservatore dovrà possedere una teoria adeguata della complessità, ossia dovrà dotarsi di

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strumenti che non siano il frutto di proiezioni antropomorfiche, che risultino, bensì, oggettivi: capaci, ad esempio, di dare nascita ad un processo concreto di aumento della variabilità. Quanto abbiamo fin qui accennato, dunque, può essere sommariamente riassunto dicendo che un processo di auto-organizzazione atto a determinare la crescita «qualitativa» della complessità propria del sistema, può darsi effettivamente solo nel caso in cui viene garantita la presenza operante di alcuni fattori di fondo: «(1) il carattere accoppiato del sistema globale: la presenza, vale a dire, di una interazione continua tra sorgente ed osservatore; (2) l'articolarsi intrecciato di una molteplicità di processi di riflessione, invenzione e selezione; (3) la presenza di un apparato di istruzioni, di un codice autonomo interno alla sorgente, atto a far si che la sorgente, nel mentre che esprime se stessa, specifichi, nel medesimo tempo, la propria struttura; (4) uno sviluppo autonomo del sistema che risulti intessuto in accordo alle caratteristiche di un vero e proprio bricolage evolutivo; (5) la presenza, da un lato, di potenzialità latenti a livello della sorgente, di fattori di liberazione possibile, e la presenza, dall'altro, di programmi specifici a livello di osservatore, di fattori vale a dire di intervento, riflessione e coagulo.»85 Nel quadro di questa apertura a carattere semantico, dunque, a nostro giudizio, si profila l'importanza di possedere una teoria dell'informazione che non si incentri soltanto sulla determinazione di particolari distribuzioni di probabilità, da un lato, e sull'accertamento delle condizioni di ergodicità, dall'altro, ma che, diversamente, definisca il contenuto di informazione di «strutture-oggetti» determinati in termini della complessità degli oggetti stessi, della quantità di informazione necessaria per calcolare e generare le strutture sotto esame. Ebbene, il calcolo shannoniano «risulta legato al disegno di un programma stocastico che consente la ricostituzione, a livello di superficie, della struttura frantumata, che permette, cioè, di ristabilire i vincoli perduti in accordo a misure proposizionali e nel quadro di un processo che si articola in un ambito a carattere strettamente monodimensionale. In un quadro, vale a dire, che non prende in considerazione l'ampliamento e la trasformazione autonoma del tessuto delle complessioni, sulla base dell'intervento di fattori di auto-organizzazione. Che non prevede, al limite, il sorgere stesso di tale ampliamento a seguito della interazione reale sistema-osservatore. L'ordito concettuale fornito da Shannon non consente di analizzare i punti campioni oltre il livello di superficie. Essi vengono definiti, per di più, in relazione ad una rete di vincoli a carattere markoviano che limita, a sua volta, le possibilità relazionali di tali punti, nonché il ventaglio di scelta ad essi relativo.»86 Questa problematica è ben presente alla mente di Kauffman e anima una parte non piccola dei suoi pensieri da circa un decennio, da quando cioè, come abbiamo dinanzi mostrato, egli ha deciso di intraprendere un nuovo sentiero teorico, oggi ancora provvisorio ed incompleto; ci stiamo riferendo qui all'affascinante congettura, proposta nel quinto capitolo di Esplorazioni Evolutive e successivamente approfondita in alcuni articoli scientifici, di costruire una Fisica della Semantica (o meglio una semantica molecolare) andando così oltre la tradizionale teoria dell'informazione elaborata da Shannon e Wiener, una teoria, vale a dire, basata ancora su un tipo di matematica troppo semplice e quindi incompatibile con la complessità dei fenomeni vitali. Nel suo volume, dunque, il grande studioso americano così si esprime: «Il calcolo, ovvero l'elegante teoria dell'informazione di Claude Shannon, ha sempre riguardato la riduzione dell'incertezza statistica della sorgente di un insieme di simboli. In nessun punto del nucleo del lavoro di Shannon sulla codificazione e sulla trasmissione di informazione entra in gioco il significato, la semantica, dell'informazione. La mia non è una critica e la teoria è ampiamente conosciuta e apprezzata. Tuttavia, nella concezione di Shannon vi è appena un cenno di semantica, ovvero che essa risieda nel decodificatore. Non posso accettare la concezione di Shannon almeno che il decodificatore non sia un agente autonomo. In caso contrario, il decodificatore non fa altro che trasformare una stringa di bit trasmessi lungo un canale di comunicazione in una dinamica di tipo diverso, discreta o continua: per esempio un insieme di ciotole colme d'acqua viene svuotato attivando una macchina che apre in determinati modi le valvole tra ciotole e mondo esterno. Gli schemi di drenaggio delle ciotole a fronte della ricezione dei messaggi, in forma di stringa binaria inviati lungo un canale di comunicazione, costituiscono la decodificazione. Ma se il ricevente è un agente autonomo, un batterio per esempio, e la molecola in arrivo è un segno-simbolo di un paramecio o di un'ameba incombenti, e il batterio si allontana nuotando perché vuole evitare di diventare il loro pasto, allora quella sequenza di eventi sembra carica di semantica. Se solo il batterio potesse dirci: «Hai visto quel bestione di paramecio che mi veniva addosso? Mi ci sono imbattuto prima, ma mi sono nascosto sotto quel masso e lui non ha mai percepito la mia presenza! Sono tornato a casa sano e salvo. Martha, passami altro glucosio per piacere». [...] Non correte, non accusatemi subito di antropomorfismo. Io pure sono consapevole dei rischi, fra cui la pretesa comune che, in linea di principio, possiamo sempre tradurre un «discorso intenzionale» in una spiegazione causale che predice appieno gli eventi in questione. Pazienza! Non solo siamo incapaci di prestabilire lo spazio di configurazioni di una biosfera e di predirne gli sviluppi, ma non possiamo nemmeno tradurre -- nel senso di condizioni necessarie e sufficienti -- il discorso giuridico in discorso intenzionale normale, e men che meno il discorso giuridico del Signor Henderson giudicato colpevole di assassinio in un discorso di fisica riguardante forme di onde sonore monitorate e masse descritte lungo linee dello spazio-tempo. Proviamo, dunque, per un momento ad essere semplici. La semantica del disgustoso -- delizioso che entra in un agente autonomo semplice -- in un batterio primitivo, per esempio -- è legata al know-how incorporato di quell'agente, alla sua capacità o incapacità di procurarsi da vivere nel suo mondo. La semantica di un evento è un sottoinsieme dell'insieme, completamente modellato e dipendente dal contesto, di implicazioni causali

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dell'evento, o del segnale, in questione.»87 Da queste parole, pertanto, è possibile evincere facilmente i limiti della teoria dell'informazione classica. Secondo la concezione shannoniana, infatti, l'entropia massima possiede una valenza esclusivamente monodimensionale.88 Il suo modello astratto è rappresentato da un box ideale in cui si mescolano casualmente lettere-simboli. Tuttavia, come si è detto, a livello biologico le cose risultano essere ben diverse poiché esistono processi di apertura in serie connessi al rivelarsi di microstati via via differenti. Di qui la necessità, messa in luce contemporaneamente ed in modo indipendente da diversi studiosi, di individuare, caso per caso, le misure di complessità corrette, i livelli effettivi della randomness e l'articolazione reale dei livelli logici di volta in volta in questione. In questo quadro, allora, occorre definire le condizioni di massima entropia in riferimento non solo all'informazione di superficie, bensì anche alla intelaiatura propria della informazione di profondità. «A livello biologico non è, ad esempio, possibile fornire direttamente informazione-negentropia al sistema tramite sequenze di simboli macroscopici a carattere istruttivo. Si può parlare al sistema solo nelle condizioni del suo linguaggio interno e nel rispetto della sua autonomia. Ma ciò implica l'accertamento previo, di volta in volta, a livello probabilistico ed informazionale, della natura effettiva dei microstati che concernono il sistema stesso, nonché delle condizioni reali della randomness che lo caratterizzano. Occorrerà, in altre parole, possedere una teoria adeguata delle regole, dei vincoli, del gioco dei possibili che presiedono, dall'interno, all'articolazione espressiva dell'informazione profonda.»89 In questo spirito, dunque, proseguiremo la presente trattazione mettendo in luce come, in pressoché totale accordo con le parole di Carsetti, Kauffman, in collaborazione con altri studiosi, nell'articolo del 2008 dal titolo Propagating organization: an enquiry, offra alcuni spunti molto interessanti per quanto riguarda la possibilità di elaborare una nuova teoria dell'informazione applicabile all'evoluzione e alla biosfera, una teoria della «informazione biologica», vale a dire, che fa appello immediatamente ad una semantica di tipo funzionale capace altresì di offrire un adeguato modello interpretativo per le strutture infinitarie come, ad esempio, la molecola del DNA. Pertanto, nella parte iniziale del suo articolo il grande studioso americano così scrive: «Shannon information require that a prestated probability distribution (frequency interpreted) be well stated concerning the message ensemble, from which its entropy can be computed. But if Darwinian preadaptations cannot be prestated, then the entropy calculation cannot be carried out ahead of time with respect to the distribution of features of organisms in the biosphere this, we believe, is a sufficient condition to state that Shannon information does not describe the information content in the evolution of the biosphere. There are further difficulties with Shannon information and the evolving biosphere. What might constitute the «Source»? Start at the origin of life, or the last common ancestor. What is the source of something like «messages» that are being transmitted in the process of evolution from that Source? The answer is entirely unclear. Further, what is the transmission channel? Contemporary terrestrial life is based on DNA, RNA, and proteins via the genetic code. It is insufficient to state that the channel is the transmission of DNA from one generation to the next. Instead one would have to say that the actual «channel» involves successive life cycles of whole organisms. For sexual organisms this involves the generation of the zygote, the development of the adult from that zygote the pairing of that adult with a mate, and a further life cycle. Hence, part of one answer to what the «channel» might be is that the fertilized egg is a channel with the Shannon information to yield the subsequent adult. But it has turned out that even if all orientations of all molecules in the zygote were utilized there is not enough information capacity to store the information to yield the adult. This move was countered by noting that, if anything, development is rather more like an algorithm than an information channel [...] . In short, a channel to transmit Shannon information along life cycles does not exist, so again Shannon information does not seem to apply to the biosphere. It seems central to point out that the evolution of the biosphere is not the transmission of information down some channel from some source, but rather the persistent on going, co-construction, via propagating organization, heritable variation and natural selection, of the collective biosphere. Propagating organization requires work. It is important to note that Shannon ignored the work requirements to transmit «abstract» information, although it might be argued that the concept of constraints is implicit in the restrictions on the messages at the Source. While we mention this, we have no clear understanding physically of what such constraints are.»90 Come abbiamo mostrato nel primo paragrafo, fu Schrödinger ad introdurre in biologia la meccanica quantistica, la chimica ed il concetto d'informazione (a livello embrionale). Egli fu l'antesignano della nostra concezione del DNA e del codice genetico poiché tradusse l'idea del dire nell'idea del codificare. Come tutti sanno, la sostanza del gene, secondo lui, doveva essere una forma di cristallo aperiodico e la forma dell'aperiodicità avrebbe dovuto contenere una sorta di codice microscopico capace di controllare l'ontogenesi. A questo punto, però, è possibile domandarsi: in che senso un cristallo aperiodico «codifica molta informazione»? Schrödinger si è limitato ad affermare che il solido aperiodico può contenere un microcodice; egli, quindi, a giudizio di Kauffman, non ha colto fino in fondo la portata semantica di un tale processo. «We believe Schrödinger was deeply correct, and that the proper and deep understanding of his intuition is precisely that an a-periodic solid crystal can contain a wide variety of micro-constraints, or micro-boundary conditions, that help cause a wide variety of different specific events to happen in the cell or organism. Therefore we starkly identify information, which we here call

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«instructional information» or «biotic information», not with Shannon, but with constraints or boundary conditions. The amount of information will be related to the diversity of constraints and the diversity of processes that they can partially cause to occur. By taking this step, we embed the concept of information in the ongoing processes of the biosphere for they are causally relevant to that which happens in the unfolding of the biosphere. We therefore conclude that constraints are information and, as we argue below, information is constraints which we term as instructional or biotic information to distinguish it from Shannon information. We use the term «instructional information» because of the instructional function this information performs and we sometimes call it «biotic information» because this is the domain it acts in, as opposed to human telecommunication or computer information systems where Shannon information operates. This step, identifying information as constraints or boundary condition, is perhaps the central step in our analysis. We believe it applies in the unfolding biosphere and the evolving universe, expanding and cooling and breaking symmetries, that we will discuss below. Is this interpretation right? It certainly seems right. Precisely what the DNA molecule, an a-periodic solid, does, is to «specify» via the heterogeneity of its structural constraints on the behaviour of RNA polymerase, the transcription of DNA into messenger RNA. Importantly this constitutes the copying or propagating of information. Also, importantly, typically, the information contained in a-periodic solids requires complex solids, i. e., molecules, whose construction requires the linking of spontaneous and non-spontaneous, exergonic and endergonic, processes. These linkages are part of the work cycles that cells carry out as they propagate organization. [...] The working of a cell is, in part, a complex web of constraints, or boundary conditions, which partially direct or cause the evens which happen. Importantly, the propagating organization in the cell is the structural union of constraints as instructional information, the constrained release of energy as work, the use of work in the construction of copies of information, the use of work in the construction of other structures, and the construction of further constraints as instructional information. This instructional information further constraints the further release of energy in diverse specific ways, all of which propagates organization of process that completes a closure of tasks whereby the cellreproduces.»91 Ecco allora che una nuova concezione di informazione viene ad essere delineata, una concezione, vale a dire, che fa appello immediatamente all'originale intuizione secondo cui, in una cellula vivente, un insieme di vincoli guida il flusso di energia libera, producendo altresì lavoro termodinamico. Stando così le cose, quindi, proprio nella circolarità di concetti codefiniti come, ad esempio, quello di informazione, di vincoli, di energia, di cicli di lavoro termodinamico, di chiusura di compiti e di organizzazione propagante, dunque, è possibile comprendere pienamente la definizione di agente autonomo: un sistema riproduttivo che esegue almeno un ciclo di lavoro termodinamico, ossia l'organizzazione di materia, energia e instructional information cui possono essere attribuite finalità quali, appunto, la capacità di agire a proprio vantaggio e la riproduzione. In questa definizione, pertanto, pietre e sedie non risultano essere agenti autonomi, mentre le cellule viventi lo sono; in ogni istante, infatti, gli agenti autonomi manipolano davvero il mondo a proprio vantaggio, si pensi, ad esempio, ad una coppia di uccelli che costruiscono il nido. «Una volta che abbiamo gli agenti autonomi e la differenza fra delizioso e disgustoso, sembra proprio che la semantica faccia il suo ingresso nell'universo allorché gli agenti coevolvono e agiscono a proprio vantaggio l'uno rispetto all'altro in una biosfera che si dispiega.»92 A questo punto è possibile chiedersi: l'informazione è una costante come, ad esempio, la velocità della luce? La risposta di Kauffman è negativa. La definizione di informazione, infatti, secondo il grande studioso, è relativa e dipende dal contesto in cui viene considerata: la nozione di instructional information, ad esempio, risulta essere proficua per quanto concerne i sistemi biologici nella stessa misura in cui l'informazione di Shannon è efficace per il canale ingegneristico di telecomunicazione e quella di Kolmogorov è utile per studiare la compressione dell'informazione relativa alle macchine di Turing. «Just as Shannon defined information in such a way a to understand the engineering of telecommunication channels, our definition of instructional or biotic information best describes the interaction and evolution of biological systems and the propagation of organization. Information is a tool and as such it comes in different forms. We therefore would like to suggest that information is not an invariant but rather a quantity that is relative to the environment in which it operates. It is also the case that the information in a system or structure is not an intrinsic property of that system or structure; rather it is sensitive to history and environment . [...] Information is about material things and furthermore is instantiated in material things but is not material itself. Information is an abstraction we use to describe the behaviour of material things and often is thought as something that controls, in the cybernetic sense, material things. So what do we mean when we say the constraints are information and information is constraints [...] . «The constraints are information» is a way to describe the limits on the behaviour of an autonomous agent who acts on its own behalf but is nevertheless constrained by the internal logic that allows it to propagate its organization. This is consistent with Hayle's [...] description of the way information is regarded by information science: «It constructs information as the site of mastery and control over the material world.» She claims, and we concur, that information science treats information as separate from the material base in which it is instantiated. This suggests that there is nothing intrinsic about information but rather it is merely a description of or a metaphor for the complex patterns of behaviour of material things. In fact, the key is to what degree information is a completely vivid description of the objects in

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question.»93 La possibilità di comprendere la natura dell'informazione, come abbiamo già ampiamente mostrato, la si deve all'originale formulazione dell'informazione di Shannon che, in un ormai celebre articolo del 1948, così scriveva: «The fundamental problem of communication is that of reproducing at one point either exactly or approximately a message selected at another point. Frequently the messages have meaning; that is they refer to or are correlated according to some system with certain physical or conceptual entities. These semantic aspects of communication are irrelevant to the engineering problem. The significant aspect is that the actual message is one selected from a set of possible messages. The system must be designed to operate for each possible selection, not just the one that will actually be chosen since this is unknown at the time of design. If the number of messages in the set is finite then this number or any monotonic function of this number can be regarded as a measure of the information produced when one message is chosen from the set, all choices being equally likely.»94 Agli occhi di Kauffman, tuttavia, questa visione dell'informazione risulta essere riduttiva e parziale specialmente se applicata in ambito biologico: ecco, dunque, che alcuni problemi vengono immancabilmente ad emergere. «The first is that the number of possible messages is not finite because we are not able to prestate all possible pre-adaptations from which a particular message can be selected and therefore the Shannon measure breaks down. Another problem is that for Shannon the semantics or meaning of the message does not matter, whereas in biology the opposite is true. Biotic agents have purpose and hence meaning. The third problem is that Shannon information is defined independent of the medium of its instantiation. This independence of the medium is at the heart of a strong AI approach in which it is claimed that human intelligence does not require a wet computer, the brain, to operate but can be instantiated onto a silicon-based computer. In the biosphere, however, one cannot separate the information from the material in which it is instantiated. The DNA is not a sign for something else it is the actual thing in itself, which regulates other genes, generates messenger RNA, which in turn control the production of proteins. Information on a computer or a telecommunication device can slide from one computer or device to another and then via a printer to paper and not really change, McLuhan's «the medium is the message» aside. This is not true of living thing. The same genotype does not always produce the same phenotype.»95 E più avanti il grande studioso americano aggiunge: «According to the Shannon definition of information, a structured set of numbers like the set of even numbers has less information than a set of random numbers because one can predict the sequence of even numbers. By this argument, a random soup of organic chemicals has more information that a structured biotic agent. The biotic agent has more meaning than the soup, however. The living organism with more structure and more organization has less Shannon information. This is counterintuitive to a biologist's understanding of a living organism. We therefore conclude that the use of Shannon information to describe a biotic system would not be valid. Shannon information for a biotic system is simply a category error. A living organism has meaning because it is an autonomous agent acting on its own behalf. A random soup of organic chemicals has no meaning and no organization. We may therefore conclude that a central feature of life is organization -- organization that propagates.»96 Stando così le cose, dunque, per cogliere in profondità la complessità del bios, secondo Kauffman, non basta un sistema linguistico (o a limite un puro sistema di programmi), diversamente, questi elementi devono essere legati al significato poiché la vita, come ha ben messo in luce Monod, è teleonomia, ovvero progetto autonomo che si dà da sé il proprio telos. In tale prospettiva, quindi, lo studio del significato nell'ambito dei processi di auto-organizzazione costituisce la vera e propria chiave d'ingresso scientifica all'interno della complessità dei sistemi biologici. Ebbene, in questo spirito, Kauffman, nelle sue recenti pubblicazioni, ha messo in luce lo stretto legame che inevitabilmente viene ad instaurarsi in ambito biologico tra informazione semantica, da un lato, e vincoli, dall'altro: la semiosi, infatti, sotto certi aspetti, costituisce proprio un caso specifico dell'informazione intesa come restrizione. E', quindi, possibile domandarsi: quali sono le condizioni fisiche minime affinché si manifesti questo misterioso processo di correlazione che lo studioso definisce semiosis? Ed inoltre, se non c'è alcuno spirito vitale, come si genera allora la teleonomia nei processi biologici? «Consider an agent that is confronted by molecules in its environment, which constitute yuck or yum. To respond to these environmental features, the agent, assumed to be bounded [...], must also have yuck and yum receptors, capable in the simplest case of recognizing molecules of yuck or yum, and responding appropriately by avoiding yuck and eating yum. Assume such molecular machinery exists in the agent. They of course exist in prokaryotic and eukaryotic cells. We wish to say that the agent confronting yuck or yum receives information about yuck or yum. This appears to constitute the minimal physical system to which semiotic information might apply. And it is worth noting that the meaning or semiotic content of the yuck and yum molecules is built into the propagating organization of the cell. The cell, we want to say, has embodied knowledge and know-how with respect to the proper responses to yuck and yum, which was assembled for the agent and its descendants by heritable variation and natural selection. The existence of yuck and yum as semiotic signs is sub-case of constraint as information. How does the agent detect yuck? A concrete case would be that a yuck molecule binds a yuck receptor, constraining the receptor's motions, which in turn acts as a constraint in unleashing a cell signalling cascade leading to motion away from yuck. Further, if yuck is present below a detection threshold, it will not be detected by the agent. Hence that threshold, and the receptor itself, act as a

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constraints partially determining the behavior of the agent in fleeing or not fleeing.»97 Secondo questa prospettiva, dunque, batteri e amebe manifestano già forme di apprendimento poiché sono dotati di recettori che si adattano su un livello costante di un certo ligando-segnale e che percepiscono un cambiamento dal livello presente. Qui, non si può ancora parlare di associazione tra uno stimolo condizionato più o meno arbitrario ed uno stimolo non condizionato, tuttavia, agli occhi di Kauffman, risulta possibile immaginare una chimica che realizzi quest'ultimo. Così, nella misura in cui si suppone che i neuroni proliferino e formino nuove connessioni sinaptiche, mediando la connessione tra stimolo condizionato e stimolo non condizionato, allo stesso modo potrebbe esistere, è il grande studioso che parla, una chimica complessa, ad esempio schemi molto complessi di sintesi dei carboidrati alimentati da insiemi complessi di enzimi la cui attività è modulata da quegli stessi carboidrati differenti, come nel caso del metabolismo attuale dei carboidrati. Uno schema del genere certamente potrebbe sperimentare alla cieca schemi varianti di sintesi fino a formare una rete auto-alimentante che collega i carboidrati, gli enzimi e determinati recettori proteici (mediatori tra stimolo non condizionato e stimolo condizionato) che conservano quel legame mediante anelli di retroazione positiva. Al di là di tali ipotesi, però, un aspetto emerge con forza da queste riflessioni: le funzioni cognitive dei sistemi molecolari semplici, ovverossia di sistemi privi di cellule nervose. Pertanto, la capacità dei batteri e delle amebe di percepire i cambiamenti esterni tramite recettori e di agire a proprio vantaggio nell'ambiente in cui vivono testimonia, in modo inequivocabile, il fatto che la vita è significato e cognizione. Ebbene, tutto ciò è traducibile anche a livello molecolare: «One can construct an underlying set theoretical interpretation for yuck and yum semantics in two equivalent ways: the first posits a set of instances, and a set of properties to which each instance is assigned. The second posits a set of instances and detectors do the job. If the second stance is taken, then detectors, yuck and not yuck, suffice and no extension beyond instructional information is required. If the second stance suffices, we want to say not only that constraints are information but also that information is constraints. We recognize that this second is arguable and do not analyze this issue further here. Semiotic information can not itself embody agentness, for it has no agency; but identified agents can be observed to respect the semiotic interpretation like yuck and yum. This inspectable behaviour provides the opportunity to attribute constraint-directed behaviour to the agent organism. Another important point in this attempt to understand propagating organization is that the semiotic behaviour can identify a source of free energy, yum in this case, from which work can be extracted and propagate in the cell. This behaviour is part of a theory that unifies matter, energy, information and propagating organization. [...] A wide variety of molecules might bind to the yum receptor with modest affinity, hence mimic true yum molecules. So the yum receptor can be fooled. This might allow another agent to emit a poison that mimics the yum molecule, fools the receptor, and leads to the death of the agent. So evolves the biosphere. Now ask, can a Shannon channel be fooled? Clearly noise can be present in the channel. Due to noise a 1 value can replace a 0 value in the constrained sense of 1 and 0 as subsets of the physical carriers of 1 and 0. But the Shannon channel cannot be fooled: fooling is a semantic property of detectors, hence not present in a Shannon channel. Therefore, while one might be tempted to measure the amount of semiotic information using a Shannon-like approach, the fact that semiosis in an organism can be fooled suggests that a symbol based Shannon move is inappropriate.»98 E più avanti Kauffman e colleghi così concludono la loro argomentazione: «We conclude that semiotic information in molecular agents such as organisms is a special case of information as constraint. For semiotic information to be about something, and to be extracted, it appears that a constraint must be present in one or more variables that are themselves causally derived from that which the information is about. Like the threshold level of yum needed for detection, to use the information, the extracted semiotic information must do work on some system. That work might copy the information, for example into a record, or might construct constraints on the release of energy which is further work. Here, semiotic information becomes part of propagating organization. We comment that in standard semiotic analyses with human agents and language, there are three elements to semiotic information, namely: 1) The subject of the information or the agent being informed. 2) The object of the information or what the information is about. 3) The possibly arbitrary, sign or symbol referring to the object. With Monod in Chance and Necessity we add that allosteric chemistry allows arbitrary molecule to cause events. If we wish to call such molecules «symbols» that «refer to» «yum», the standard semiotic analysis just noted applies to molecular autonomous agents. Note that Monod's example is broader than DNA, RNA and proteins. It is the general arbitrariness of allosteric chemistry that allows arbitrary molecules to cause events. Information is thus broader than coding.»99 Nei prossimi paragrafi vedremo come quello di informazione semantica sia un concetto molto più ampio rispetto a quello di codice genetico: in un sistema vivente, infatti, la realtà profonda (livello semantico) non solo regola ma addirittura genera l'informazione di superficie (livello sintattico). Per il momento però appare opportuno ritornare a Kauffman ed, in particolare, alla sua nozione di informazione biologica (biotic information) intesa come informazione istruttiva (instructional information or constraint), ovvero come quell'informazione capace di causare eventi sempre nuovi nella biosfera. «For information to be united with matter and energy, information must be part of the physical unfolding of the universe. [...] What is required is that, in the non-equilibrium setting, a displacement from equilibrium that is a source of free energy must be detected by at least one measurement; a physical system

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able to couple to that source of free energy must have come to exist and must actually extract free energy, and must release that energy in a constrained way to carry out actual work. Thereafter, this work may propagate. If we conceive of an abiotic physical system able to carry out these processes of measurement and work extraction in the abiotic universe, it will have to be an abiotically derived system able to perform such measurements, recording the results, and employ the record of the measurements to extract actual work. Such a system will be a case of propagating organization with boundary conditions as constraints, including measurements in the record as constraints on the behaviour of the system conditional on the recorded measurements, and the constrained release of energy in work. [...] These considerations suggest that we take information to be constraint or its physical equivalent, boundary conditions that partially cause events, where the coming into existence of the constraint is itself part of propagating organization. If we do so, the issue starts to clarify in a simple way. It is fully familiar in physics that one must specify the laws, particles, the initial and boundary conditions, then calculate the behaviour of the system in a defined state space. Now it is common, as noted, in physics, to «put in by hand» the boundary conditions, as in the cylinder and piston case. But in the evolving biosphere, it self part of the evolving universe, and in the evolving universe as a whole, new boundary conditions come into existence and partially determine the future unfolding of the biosphere or the universe. These evolving boundary conditions and constraints are part of the propagating organization of the universe. [...] Then the growing grains appear to be cases in which matter, energy, and continuously evolving boundary conditions and novel sources of free energy emerge, and condition the future evolution of the grains. The grains are at levels of complexity sufficiently above atoms so that what occurs is typically unique in the universe. It seems virtually sure that no two modest size grains are molecularly identical. Here we confront a union of matter, energy, and evolving and diversifying boundary conditions linking, for example, spontaneous and non-spontaneous processes, and providing diversifying sources of free energy, which alter the ever diversifying structures that come to exist in the evolving expanding universe. If this approach has merit, it appears to afford a direct union of matter, energy and information as constraint or boundary condition.»100 In quest'ottica, dunque, a nostro giudizio, ogni agente autonomo inteso come un sistema riproduttivo che misura, rileva e registra fonti di energia effettuando lavoro per costruire vincoli al rilascio di energia, costituisce, in realtà, quel progetto in grado di fissare per sé il proprio scopo e, di conseguenza, di portare autonomamente il significato al di fuori di sé; ma poiché l'assimilazione, caratteristica che analizzeremo dettagliatamente più avanti, non può che avvenire sulla base di un progetto, un organismo vivente può essere definito anche come un sistema funzionale cognitivo che si auto-programma. Qui possiamo riconoscere con precisione quel particolare intreccio di auto-organizzazione, complessità, emergenza ed intenzionalità (legata allo scopo) che ci permette, sotto certi aspetti, di «leggere» la vita come un fenomeno cognitivo in costante evoluzione.

4. Le pre-condizioni dell'etica

Nella Metafisica dei costumi, capolavoro del 1797, Immanuel Kant, nella parte introduttiva, dà una definizione di ciò che si intende per vita: «Si chiama vita la facoltà che un essere ha di agire in modo conforme alle proprie rappresentazioni.»101 Di primo acchito sembra che questa frase si riferisca solo a soggetti dotati di coscienza, in realtà, se si rivisita questa definizione meravigliosa alla luce della prospettiva di Kauffman dinanzi delineata, alcuni aspetti originali vengono certamente ad emergere. Per esempio, a più di duecento anni dalle geniali parole di Kant, la biologia sistemica non può che riconoscere al grande filosofo del settecento il merito di aver individuato una delle caratteristiche principali della vita: la cognizione. Ma non è tutto, fra poco apparirà chiaramente come, negli organismi viventi, la cognizione sia profondamente legata alla fondamentale nozione di intenzionalità. D. Dennet nel volume dal titolo: L'idea pericolosa di Darwin, propone una gerarchia di forme del conoscere, scaturite durante l'evoluzione con mezzi darwiniani. Egli, infatti, distingue creature darwiniane, creature pavloviane, creature popperiane e creature gregoriane. «Processi più o meno arbitrari di ricombinazione e mutazione dei geni generano alla cieca una gran varietà di organismi candidati. Questi furono saggiati sul campo e sopravvissero i migliori. Questo è il pianterreno della torre. Agli abitanti di questo piano si dia il nome di creature darwiniane.»102 Un agente autonomo semplice come, per esempio, un batterio è una creatura darwiniana. Nella sua versione più semplice tale creatura si evolve per mutazione, ma anche per ricombinazione e selezione naturale (senza considerare alcun apprendimento comportamentale). Pertanto, una creatura, oppure una colonia o un ecosistema, si adatterà grossomodo come pensava Darwin. «E poi questi individui erano abbastanza fortunati da essere dotati alla partenza di rafforzatori che casualmente favorivano [...] le azioni migliori per chi le eseguiva. Questi individui pertanto affrontarono l'ambiente generando una grande varietà di azioni, che sperimentarono singolarmente sino a trovarne una funzionante. Le creature darwiniane di questo sottoinsieme, dalla plasticità condizionabile, si potrebbero chiamare creature skinneriane.»103 Quindi, nel livello superiore successivo a quello delle creature darwiniane, secondo Dennet, esiste un sistema nervoso e la creatura (per esempio l'aplysia) è capace di apprendimento stimolo-risposta. In realtà, l'aplysia può apprendere stimoli condizionati molto semplici; l'analogo più recente può essere rappresentato dal

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campanello che induce il cane a salivare nell'aspettativa del cibo. «Il condizionamento skinneriano è una buona capacità da possedere, fino a che non si viene uccisi da uno degli errori commessi in precedenza. Un sistema migliore comporta la preselezione tra tutti i possibili comportamenti o azioni, che consente di scartare le alternative sciocche prima di arrischiarle nel mondo spietato [...] . I beneficiari del terzo piano della torre si possono chiamare creature popperiane, poiché come disse una volta con grande eleganza Sir Karl Popper, questo progresso progettuale «di morire al nostro posto».»104 Secondo Dennet, dunque, le creature popperiane (noi vertebrati) possiedono modelli interni del loro mondo e possono far funzionare il modello interno a ruota libera, piuttosto che attivare il modello in tempo reale nel mondo reale. In tal modo, allora, come appunto ha affermato Popper, «le nostre ipotesi muoiono al posto nostro». «I successori delle semplici creature popperiane sono quelli i cui ambienti interni sono permeati dalle parti progettate dell'ambiente esterno. Le creature di questo sotto-sotto-sottoinsieme si potrebbero chiamare creature gregoriane, poiché lo psicologo britannico Richard Gregory è a mio avviso il teorico preminente del ruolo dell'informazione [...] nella creazione di mosse accorte.»105 Le creature gregoriane siamo noi esseri umani. Il ragionamento di Dennet è molto semplice: noi utilizziamo i nostri utensili (coltelli di pietra, frecce, sarchietti, macchine utensili) per ampliare il nostro mondo di fatti e di processi. Questo mondo condiviso e allargato ci mette a disposizione più saper fare e più conoscenza. In un certo momento però l'evoluzione culturale irrompe libera: la musica rock, ad esempio, invade i minareti iraniani. Alla luce di quanto detto sinora, dunque, Kauffman così commenta: «Mi piace moltissimo la scala di Dennet del sapere come, e infine del sapere che. Senza invocare la coscienza, non perché essa non meriti di essere chiamata in causa ma perché così poche cose sensate sono state dette in materia, sembra importante domandarsi fino a che punto questa gerarchia potrebbe essere realizzata da sistemi molecolari semplici, privi di cellule nervose persino. Sono propenso a credere che gran parte di questa gerarchia sia traducibile a livello molecolare. Per esempio batteri e amebe manifestano già un apprendimento pavloviano: sono dotati di recettori che si adattano su un livello costante di un certo ligando-segnale e che percepiscono un cambiamento dal livello presente. Qui, non si può ancora parlare di associazione tra uno stimolo condizionato più o meno arbitrario e uno stimolo non condizionato, ma riesco a immaginare una chimica che realizzi quest'ultimo. [...] Ad esempio schemi molto complessi di sintesi dei carboidrati alimentati da insiemi complessi di enzimi la cui attività è modulata da quegli stessi carboidrati differenti, come nel caso del metabolismo attuale dei carboidrati? Un sistema del genere potrebbe sperimentare alla cieca schemi varianti di sintesi fino a formare una rete autoalimentante che collega i carboidrati, gli enzimi e determinati recettori proteici -- mediatori tra stimolo non condizionato e stimolo condizionato -- che conservano quel legame mediante anelli di retroazione positiva. Questa immagine non è poi così distante da come immaginiamo il funzionamento delle reti immunitarie a idiotipo e anti-idiotipo, che provvedono alla sintesi di un insieme di anticorpi desiderati contro un agente patogeno che invade l'organismo. In queste reti, di cui esistono prove moderatamente buone, un primo anticorpo funge da antigene stimolando il corpo a produrre un secondo anticorpo, il quale si lega a sequenze di aminoacidi esclusive, l'idiotipo del primo anticorpo. A sua volta, il secondo anticorpo, l'anti-idiotipo, stimola un terzo anticorpo, che stimolerà a sua volta un quarto anticorpo. È probabile, però, che questa serie formerà anelli a retroazione. Infatti il primo e il terzo anticorpo possono spesso legarsi allo stesso sito del secondo anticorpo: il primo e il terzo anticorpo saranno allora forme simili nello spazio delle forme. Non è poi una forzatura considerare il sistema immunitario come un sistema di risposta a stimolo condizionato.»106 Si pensi, ad esempio, alle creature popperiane di Dennet; i nervi sono necessari? Sembra che le piante si inviino segnali mediante complessi metaboliti secondari, e ciò per caratterizzare i tipi di insetti che infestano la radura. Tra il metabolita e l'insetto si stabiliscono relazioni strutturali arbitrarie, proprio come i simboli del linguaggio umano sono spesso arbitrari rispetto alla cosa significata. Non male per degli invertebrati privi di sistema nervoso. Ma andiamo, ora, a prendere in considerazione le creature gregoriane. «Persino qui, la creazione libera e aperta di nuove stringhe di simboli in una lingua, ovunque si possano creare nuove frasi, non differisce nella sostanza dalla persistente creazione aperta di nuovi tipi di molecole nella biosfera intesa come un tutto. Se ci stupiscono le nostre conversazioni di bipedi recenti sui nostri sarchietti e sulle nostre bombe atomiche, non da meno è la conversazione chimica in qualsiasi ecosistema completo, dove tutti siamo funzionali alla vita l'uno dell'altro. Forse, io sono ingenuamente spinto a ritenere che la biosfera, con la sua incalzante diversità, dentro la quale noi, tronfi per tutto il nostro know-how, continuiamo la nostra ricchissima conversazione, possa aver ospitato precocemente tutti i livelli di cui parla Dennet. [...] Che posto interessante la biosfera, con tutti questi argomenti di cui parlare! Quattro miliardi di anni di cicaleccio. Le commedie e le farse potrebbero aver avuto inizio tanto tempo fa.»107 Posto in questi termini, il know-how, in accordo con Kauffman, è un altro modo di vedere le chiusure catalitiche che si propagano, i compiti di lavoro, la percezione, la registrazione e le azioni che noi oggi riconosciamo come intrinseci alle attività di agenti autonomi. Il know-how, infatti, non è al di fuori dei processi di auto-organizzazione: il know-how è l'organizzazione propagante stessa. In quest'ottica, dunque, agli occhi del grande studioso americano, con gli agenti autonomi nasce anche un barlume di questione etica. «Disgustoso o delizioso esistono dal mio punto di vista, se io sono un agente autonomo. Vi sono ragioni profonde per essere cauti. Molto tempo fa Hume aveva parlato di fallacia naturalistica: non si può dedurre il «dev'essere»

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dall'«è». Dal fatto che le madri si prendono cura dei piccoli, non possiamo dedurre che esse dovrebbero fare così, egli sosteneva. [...] L'ingiunzione di Hume è alla base della cautela degli scienziati nell'esprimersi su questioni di etica. Noi scienziati scopriamo i fatti. Voi cittadini del mondo potete discettare di etica. Ma se Hume ci invita a non dedurre il deve essere dall'è, che origine hanno i valori? L'ingiunzione di Hume a non dedurre il dev'essere dall'è ha in ogni caso iniziato riconoscendo la legittimità della categoria del deve essere. Gli sforzi successivi a Hume per comprendere il significato di asserti etici sono stati lunghi, contorti e ardui. [...] Mi ha sempre lasciato perplesso che il messaggio principale dei positivisti logici, «solo gli enunciati verificabili empiricamente sono significativi», sia esso stesso non verificabile empiricamente. È un po'come se qualcuno si desse la zappa sui piedi. [...] L'emergenza dell'etica nell'evoluzione della vita sul nostro pianeta è una questione affascinante. Mi limiterò ad interrogarmi sull'origine innanzitutto del valore e dei rudimenti di intenzionalità nell'universo fisico [...] . Dove è il posto del valore in un mondo di fatti? Una breve digressione, allora. I fatti sono enunciati dal sapere che. Ma il sapere come ha preceduto il sapere che. Io, anche se pienamente consapevole dell'ingiunzione di Hume, credo che nella prospettiva dell'agente autonomo la dicotomia disgustoso-delizioso sia primaria, inevitabile e, per quell'agente, della massima importanza. Noi applichiamo, suppongo, criteri darwiniani: troppo disgustoso, ed ecco che quell'agente autonomo, prole compresa, scompare dal futuro della biosfera. Senza attribuire una coscienza a E. coli o a un agente autonomo che potremmo creare in un prossimo futuro, non posso non percepire che i rudimenti del valore sono presenti una volta che esistono gli agenti autonomi.»108 Ritorniamo per un momento alla definizione formulata da Kant. La vita intesa come facoltà di agire in modo conforme alle proprie rappresentazioni non solo ci dice che tutti gli esseri viventi sono sistemi cognitivi, ma ci dice anche che questi organismi agiscono secondo modelli interni creando così sempre nuovi significati. Una rappresentazione, infatti, può essere letta, da un punto di vista fenomenologico, come una ri-presentazione di qualcosa, nel termine rappresentazione, dunque, è implicita la differenza interno/esterno e quindi la direzionalità verso la realtà esterna percepita attraverso modificazioni dello stato interno cui è possibile rispondere mediante semplici azioni. Questa tensione all'esteriorità, soltanto intuita da Kant, a nostro giudizio, può essere definita come intenzionalità non riferita alla coscienza, ossia come quel processo, strettamente connesso con la gratuità delle interazioni molecolari, per cui i significati si sviluppano e, una volta incarnati nelle azioni, operano consentendo altresì agli agenti autonomi di modificare a proprio vantaggio l'ambiente in cui vivono per riprodursi. Ripensiamo per un attimo all'umile E. coli che nuota controcorrente in un gradiente di glucosio. Come abbiamo ampiamente mostrato attraverso le acute osservazioni di Kauffman, il batterio è un sistema autocatalitico in grado di riprodursi e quindi di agire effettuando uno o più cicli di lavoro termodinamico, ma è anche un sistema cognitivo capace di creare sempre nuovi significati e, successivamente, di trasmetterli per mezzo di azioni non coscienti. I batteri e le amebe, infatti, come ben sappiamo, manifestano già un apprendimento potremmo dire pavloviano per usare le parole di Dennet; questi organismi, infatti, sono dotati di recettori che si adattano su un livello costante di un certo ligando-segnale e che percepiscono un cambiamento dal livello presente: ecco, dunque, il delinearsi in biologia di una forma primitiva (naturalmente non cosciente) di rappresentazione. Qui, pertanto, pur non potendo ancora parlare di associazione tra uno stimolo condizionato più o meno arbitrario e uno stimolo non condizionato, risulta possibile inferire che tali organismi sono a tutti gli effetti dotati di quella facoltà vecchia quattro miliardi di anni che Kauffman definisce come know-how, intenzionalità non riferita alla coscienza. A questo punto, dunque, appare con chiarezza la genialità dell'intuizione di Kant: «Si chiama vita la facoltà che un essere ha di agire in modo conforme alle proprie rappresentazioni.» In questa definizione, tuttavia, resta ancora da chiarire un aspetto. Cosa si intende infatti con il termine «azione»? Nel tentativo di dare una prima risposta a tale quesito, appare opportuno esaminare attentamente le seguenti parole di Kauffman: «Daniel Yamins è un giovane e brillante matematico. Dan, da poco iscritto ad Harvard, ha trascorso con me un'estate al Santa Fe Institute prima di imparare a guidare. L'estate precedente l'aveva passata presso il laboratorio di Jack Szostak ad Harvard, dove, quattordicenne, imparava a far evolvere molecole di RNA che si legassero a ligandi arbitrari. Quell'estate, Dan e io abbiamo lavorato sodo per distinguere tra le azioni di un agente autonomo e i meri accadimenti che si svolgono dentro e intorno a lui. Si noti che diciamo che E. coli sta nuotando controcorrente nel gradiente di glucosio per raggiungere il cibo. Ma in quel momento è in atto ogni genere di movimento molecolare vibrazionale, rotazionale e transazionale. Che cosa è azione e che cosa mero accadimento? Non credo che siamo riusciti a distinguere in modo netto tra azioni e accadimenti con una matematica chiara. Percepisco, però, che la differenza tra azione e accadimenti, nella felice espressione di Dan, sia rilevante per E. coli, per le tigri, per noi, per gli alberi e per gli agenti autonomi in generale. [...] Non è insieme strano e interessante che tali questioni sembrino scaturire tutte insieme con gli agenti autonomi, ma non altrimenti? Fermo restando che qui sembriamo ritrovare la circolarità del gioco linguistico cui abbiamo alluso in precedenza, credo davvero che rudimenti di semantica, di intenzionalità, di valore e di etica nascano con gli agenti autonomi.»109 Alla luce di tutto ciò, dunque, la differenza fondamentale tra ciò che è vivente e ciò che non lo è risiede nella capacità di agire, ovvero in quel processo che consente al significato di manifestarsi nel tempo: «Meaning derives from agency, Recall the discussion of the minimal autonomous molecular agent, reproducing, doing at least one work cycle, with a receptor for food and for poison, and able to move toward food and away from

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poison. We can substitute a bacterium swimming up a glucose gradient for food as our example. Then, I claimed, an increased rate of glucose molecules detected by a glucose receptor as the bacterium swims or orients up the gradient was a sign of more glucose up the glucose gradient, and that sign was interpreted by the bacterium by its oriented motion up the glucose gradient. In the C. S. Peircian sense, the glucose is given meaning to the bacterium by the bacterium's reception of the sign, the glucose, and in its doings, here, swimming up the glucose gradient. The bacterium itself is the receiver. And in this case it is natural selection that has assembled the molecular systems able to accomplish this. Without agency, as far as I can tell, there can be no meaning. It is a very long distance to human agency and meaning. But it is we humans who use the computer to solve our problems. It is we who invest meanings in the physical states of the water bowls or electronic states of the silicon chip. This meaning is the semantics missing in the Turing machine's computations. Without the semantics the Turing machine is merely a set of physical states of marks on paper, or levels of water in a water bowl or electronic states on that silicon chip. Similarly, it is not a wonder than Shannon brilliantly ignored semantics to arrive at his quantitative theory of the amount of information carried down a channel. That is why Shannon tells us the amount of information passing down a channel, a syntactic quantity, but does not tell us what information is.»110 Da queste parole di Kauffman, quindi, risulta chiaro che gli agenti autonomi costituiscono quel luogo misterioso della fisica in cui la fisica si apre alla semantica; tuttavia, a nostro giudizio, risulta opportuno distinguere nella scala dei viventi le azioni di agenti autonomi semplici come le amebe ed i batteri o più complessi come le tigri e gli scimpanzé da quelle dell'Homo sapiens, ovvero l'unica specie finora conosciuta capace di bene e di male. Con l'Homo sapiens, infatti, fa la sua comparsa sulla terra il sistema nervoso più profondamente teleonomico mai esistito nella storia della nostra biosfera: solo a questo livello, dunque, la natura, prendendo coscienza di sé, risulta essere effettivamente in grado di trasformare le azioni portatrici di significato in atti liberamente voluti. Per comprendere fino in fondo la portata di queste considerazioni ci pare opportuno invocare di nuovo l'aiuto di Kant il quale nella Metafisica dei costumi distingue con grande acume il termine «azione» (Handlung) da quello di «atto» (That). L'azione (handlung) costituisce un mutamento posto in essere dal soggetto, ovvero da qualsiasi essere vivente; l'atto (that), invece, è il contenuto materiale dell'azione, ovvero ciò di cui il soggetto è l'artefice.111 Secondo Kant, quindi, solo l'uomo compie atti poiché solo l'uomo, in quanto unico essere auto-cosciente, è in grado di riconoscere responsabilmente un'azione come espressione della propria soggettività. A questo punto, allora, possiamo tornare alla definizione kantiana di vita. In virtù della distinzione or ora delineata, appare chiaramente come, agli occhi del grande filosofo tedesco, la facoltà di agire (handeln) in modo conforme alle proprie rappresentazioni non sia soltanto umana, bensì si estenda a tutti i sistemi viventi, ovvero a tutti quei sistemi cognitivi che, agendo a proprio vantaggio, sono in grado di riprodursi. Ebbene, questa geniale intuizione di Kant ci consente di riflettere anche su un'altra questione rilevante sollevata da Kauffman, ci stiamo riferendo, cioè, all'idea originale secondo cui rudimenti di semantica, di intenzionalità, di valore e di etica nascano con gli agenti autonomi e quindi siano intrinsecamente correlati alla nozione di vita. Secondo il grande studioso americano, infatti, anche se tali rudimenti non sono sufficienti per saltare a piè pari la fallacia naturalistica di Hume, tuttavia con la comparsa degli agenti autonomi le categorie del dover essere e dell'essere fanno ingresso nell'universo fisico. In tal senso, allora, l'auto-coscienza, l'etica ed i valori potrebbero affondare le loro radici nell'intenzionalità, proprietà fondamentale della vita: «[...] Senza attribuire una coscienza, una volta che un agente autonomo esiste, è presente il rudimento di intenzionalità? In caso affermativo, è stata posta un'altra pietra angolare di attività etica. Il comportamento etico richiede innanzitutto la possibilità logica del comportamento di cui si è responsabili. Voi non siete responsabili di atti e di effetti al di fuori del vostro controllo. Per agire eticamente, dovete prima di tutto essere capaci di agire in senso lato.»112 Nell'introduzione alla Dottrina della virtù Kant presenta un ragionamento, per certi versi, simile e a tratti sorprendente, tenendo bene a mente la sua posizione nei confronti della legge di Hume. Il grande filosofo tedesco, infatti, così si esprime: «[...] La coscienza non è qualcosa che si può acquisire e non esiste il dovere di procurarsene una. Piuttosto ogni uomo, in quanto essere etico, ha in sé originariamente una tale coscienza.»113 Che vuol dire che la radice dell'etica e del dovere risiedono nell'essere? Quest'espressione è usata da Kant per distaccarsi dall'idea che la coscienza si possa acquisire. Se si potesse acquisire, infatti, si tratterebbe di qualcosa di cui abbiamo un dovere: sarebbe, cioè, qualcosa che non abbiamo in quanto esseri umani. Dire che ogni uomo ha in sé originariamente una coscienza, infatti, non significa che l'uomo è buono per natura. Questo tema oggi è di grande attualità, si pensi ad esempio alle neuro-scienze ed in particolare alla nascita di nuovi ambiti di ricerca come per esempio la neuro-etica; alcuni studiosi, infatti, si chiedono se esistono delle strutture di valore filogeneticamente consolidate che in qualche modo possono essere legate alla chimica. Se la risposta a tale domanda fosse positiva, l'uomo rappresenterebbe quell'essere capace di morale e di responsabilità i cui atti (that), potrebbero però essere considerati come il risultato di milioni di anni di evoluzione, un risultato, vale a dire, le cui radici risiederebbero nella capacità stessa degli agenti autonomi più semplici di agire (handeln) a proprio vantaggio nell'ambiente in cui vivono (know-how). Se così fosse, allora sarebbe possibile inferire che l'uomo, in quanto attuale punto più alto dell'evoluzione (se prendiamo la curva dell'indice di encefalizzazione l'Homo sapiens rappresenta un vero e proprio salto), costituisce una sorta di

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anello di congiunzione tra l'etica e la biologia, ovvero quel livello della natura in cui la natura, prendendo coscienza di sé, diviene altresì conditio sine qua non per la comparsa dell'etica: «Non vi è uomo che sia privo di un qualche sentimento morale, in quanto una totale insensibilità verso questo sentimento segnerebbe la sua morte etica e se (per parlare in termini medici) la forza vitale etica non fosse più in grado di produrre questo sentimento, l'umanità (per legge chimica, in un certo qual modo) si disperderebbe nella mera animalità e si mescolerebbe irrimediabilmente con la massa degli altri esseri naturali. Contrariamente a quanto si usa dire, non abbiamo un sesto senso per il bene ed il male (etici) come noi l'abbiamo per la verità; ciò che abbiamo è caso mai la sensibilità con cui il libero arbitrio è messo in movimento dalla ragione pura pratica (e dalla sua legge), e questo è ciò che chiamiamo sentimento morale.»114 Come tutti sanno, per Kant la morale la fa la legge e non il sentimento, tuttavia, dove ne va di concetti estetici preliminari, il grande filosofo scrive che per non ridurre l'umanità a mera animalità dobbiamo pensare ad una «forza vitale etica» che produce nell'uomo un sentimento che non è un sesto senso perché non si aggiunge al piano in cui operano gli altri cinque, bensì costituisce una sorta di «morale prima della morale» la cui interfaccia è rappresentata dalla legge morale stessa. Stando così le cose, dunque, in queste pagine il Kant incompatibilista parla della misteriosa forza vitale etica che fa dell'uomo un essere vitale etico. Proprio in queste parole, quindi, risulta possibile rintracciare, a nostro giudizio, l'alba di un ipotetico cammino teorico in cui è possibile supporre una fondazione naturalistica delle pre-condizioni della capacità morale anche in virtù della definizione di agente autonomo divisata da Kauffman e poca'anzi messa a confronto con l'originale prospettiva kantiana. In quest'ottica, allora, L. Boella così scrive: «Parlare di morale prima della morale presuppone la ricerca inaugurata da Darwin, di specifici comportamenti orientati a fini vitali (la sopravvivenza della specie), ma non solo. L'evoluzione ci dice infatti quanto la risposta al bisogno di mantenimento in vita di un organismo implichi lo sviluppo di un tessuto di interazione tra gli individui fondamentale per l'acquisizione di capacità superiori come il linguaggio, l'apprendimento, la memoria. In realtà, in una morale prima della morale non è in gioco semplicemente l'attestazione della base biologica della morale, quanto piuttosto la possibilità di ridefinire e ricomporre una visione unitaria della persona in cui i dati che risultano dalla conoscenza dei meccanismi naturali non vengano recepiti passivamente come qualcosa di immutabile ed estraneo (e magari manipolabile da forze superiori come la medicina), bensì vengano attratti nell'orbita dell'esperienza quale ognuno di noi la costruisce giorno per giorno, sacrificando parti di sé, incoraggiandone altre, affidandone altre ancora alla cura di medici, di familiari. [...] Quando ci si riferisce all'approccio scientifico e, nel caso specifico, neurobiologico alle questioni morali, è giusto chiarire che esso si colloca nel contesto dell'evoluzione ma si pone una domanda diversa da quella di Darwin sull'origine naturale-biologica della morale, che per altro continua ad alimentare molte discussioni. Le neuroscienze possono infatti essere utilmente interrogate in relazione ad un ambito determinato e sicuramente non esaustivo della complessità dell'esperienza morale, quello delle precondizioni o condizioni di possibilità della capacità morale. Quello biologico o, più precisamente, neurobiologico è quindi un livello dell'esperienza morale corrispondente all'esistenza di reazioni automatiche anche complesse governate da meccanismi cerebrali. Tale livello mette di fronte a vincoli decisivi per l'esercizio della capacità morale e al tempo stesso rende plausibile un radicamento del comportamento morale -- per esempio, dell'altruismo, della bontà -- nel sistema dei desideri, delle intenzioni, delle motivazioni. D'altra parte, la molteplice gamma di possibilità inscritte nel cervello umano e la sua plasticità rendono impossibile, almeno allo stato attuale delle conoscenze, ricondurre anche solo un unico comportamento morale esclusivamente a funzionamenti organici. Nella prospettiva dell'esperienza umana nella sua integrità e ricchezza appare infatti che, in ogni momento dell'esistenza, gli esseri umani sperimentano il passaggio dalla passività e dipendenza biologica all'ambito dei giudizi, delle scelte, delle valutazioni e delle azioni. E ciò significa che in gioco sono diverse possibilità non solo di umanizzare ciò che è naturale, ma anche di naturalizzare ciò che è umano.»115

5. Coscienza ed intenzionalità

Ed eccoci inevitabilmente condotti ai confini della neuroetica, vale a dire, verso quel nuovo campo di indagine strettamente correlato sia agli straordinari progressi compiuti negli ultimi anni dalle scienze del cervello, sia al complesso delle loro implicazioni etiche, legali e sociali. Tuttavia, questi brevi accenni al dibattito di natura interdisciplinare in atto, relativo all'idea di naturalizzare l'etica ed i valori, mostrano, con chiarezza, la complessità e la vastità di tali tematiche. Al fine, dunque, non di dare soluzioni, ma di inquadrare meglio alcuni dei più importanti problemi teorici sul tappeto, appare opportuno, giunti a questo punto della disamina, concludere il presente lavoro mostrando come, parallelamente alle ricerche portate avanti da Kauffman, in questi ultimi anni, in ambito neurobiologico, stiano facendo capolino una serie di studi relativi all'intenzionalità ed alla capacità biologica di scegliere. In modo particolare, faremo qui riferimento a W. J. Freeman studioso americano che, in linea di continuità con la prospettiva di Kauffman, nel volume del 1999 dal titolo: Come pensa il cervello, mostra come l'intenzionalità non possa essere riferita solo a livello della coscienza, bensì sia presente anche in agenti autonomi non umani, venendo ad essere considerata altresì come una delle caratteristiche fondamentali del bios. Freeman definisce intenzionale il

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processo che genera azioni mirate a un obiettivo nel cervello degli esseri umani e di altri animali. In genere, tali azioni vengono chiamate volontarie se compiute da un essere umano, ma non da un animale poiché molti pensano che soltanto gli esseri umani abbiano la capacità di agire per volontà. In alternativa a questo concetto di volizione, dunque, il grande neurobiologo tenta di individuare una base neurale per le azioni finalizzate che è comune agli esseri umani e ad altri animali poiché riflette l'evoluzione dei meccanismi umani a partire da animali più semplici in cui l'intento può operare senza volontà. Pertanto, nella parte iniziale del suo volume, egli così si esprime: «Il concetto -- l'intenzionalità -- fu descritto per la prima volta da Tommaso d'Aquino nel 1272 per indicare il processo mediante il quale gli esseri umani e altri animali agiscono in conformità alla propria crescita e maturazione. Vi è un intento quando un'azione viene rivolta verso un qualche obiettivo futuro che è definito e scelto dall'agente. Differisce da un movente, che è la ragione e spiegazione dell'azione, e da un desiderio, che è la consapevolezza e l'esperienza che derivano dall'intento. [...] Sulle orme di Tommaso d'Aquino, gli avvocati comprendono e utilizzano tali distinzioni. Gli psicologi di norma no. I filosofi hanno cambiato radicalmente il significato del termine intenzione e lo usano per indicare la relazione che un pensiero o una convinzione hanno con il proprio significato, quale che sia, ma i medici e i chirurghi, di nuovo seguendo Tommaso d'Aquino, hanno mantenuto il senso originario poiché applicano il termine ai processi di crescita e guarigione del corpo dalle lesioni, conservandone in tal modo il contesto biologico originario. A mio giudizio, gli animali sono dotati di consapevolezza, ma non della consapevolezza di sé, che è ben sviluppata soltanto negli esseri umani. La consapevolezza di sé è necessaria per la volizione: gli animali non possono offrirsi volontari. [...] La mia proposta è che i significati emergono quando il cervello crea comportamenti intenzionali e poi cambia se stesso in accordo con le conseguenze sensoriali di tali comportamenti. Tommaso d'Aquino e Jean Piaget hanno entrambi chiamato assimilazione tale processo. Si tratta del processo mediante il quale il sé arriva a capire il mondo adattando se stesso al mondo. I contenuti del significato derivano dall'impatto del mondo, principalmente dall'impatto sociale delle azioni di altri esseri umani su di noi, e comprendono tutto il contesto già acquisito della storia e dell'esperienza. Benché i contenuti del significato abbiano in gran parte un'origine sociale, i meccanismi del significato sono biologici e vanno compresi in funzione della dinamica cerebrale. Il significato è una sorta di struttura viva.»116 I neuroscienziati hanno prestato scarsa attenzione a come nasce il significato e a quali sono le condizioni che lo favoriscono. Per i pragmatisti e gli esistenzialisti il significato si forma chiaramente mediante l'azione. In modo particolare, viene creato nel e dal cervello. L'opinione di Freeman, invece, è che «il significato si crea in forme particolari e uniche dentro di noi mediante le azioni e le scelte che noi tutti facciamo, imparando inizialmente a vivere secondo un sistema di credenze che ci viene offerto attraverso i genitori, i compagni e i colleghi, e che dapprima cambiamo affinché ci soddisfi e poi modifichiamo affinché diventi noi stessi.»117 Di solito le persone suppongono che il significato si trovi negli eventi naturali come, ad esempio, i tramonti, i fiori primaverili ed il corteggiamento da parte degli animali. In realtà, sottolinea il grande neurobiologo, i significati si trovano negli osservatori (compresi gli animali) e non negli oggetti, negli eventi o nei movimenti del corpo. Soltanto il cervello, infatti, ha significati e questi ultimi sono molto diversi dalle rappresentazioni. Per cogliere pienamente tale differenza, allora, occorre distinguere la rappresentazione mentale dallo stato mentale. «Durante gli ultimi trecento anni, ci siamo abituati a esprimere i nostri pensieri in termini di rappresentazioni. La metafora di immagine mentale ha sostituito la descrizione effettiva della nostra esperienza soggettiva del pensiero, tanto che mettere in dubbio l'utilità della metafora per comprendere la funzione cerebrale può sembrare un atteggiamento polemico. Eppure il contenuto mentale che precede la realizzazione di un dipinto, di un romanzo o di un modello, per esempio, differisce profondamente dalle forme che vengono congelate nell'opera. Questo è altrettanto vero per qualunque azione nei confronti dello stato mentale che la precede. Quando tentiamo di correlare uno stato cerebrale con un comportamento, dovremmo confrontare le misure di una configurazione di attività cerebrale non con un concetto mentale che sta dentro di noi, ma con uno stato di significato che in base alle nostre inferenze sta nel cervello della persona o dell'altro animale che stiamo osservando. Poiché il cervello è composto da neuroni interconnessi, i significati devono emergere in qualche modo grazie all'attività dei neuroni.»118 Oggi sappiamo molto delle caratteristiche anatomiche, fisiche e chimiche dei neuroni, tuttavia l'aspetto importante per comprendere fino in fondo la relazione tra neuroni e significato costituisce, agli occhi di Freeman, una nuova prospettiva da cui esaminare le masse di dati raccolti dai neurobiologi e gli enigmi che ne derivano. Nonostante l'enorme quantità di dati accumulati, infatti, i neuroscienziati tutt'ora non riescono a superare le difficoltà poste dai vecchi interrogativi. In un quadro del genere, allora, l'idea di significato, un concetto critico che definisce la relazione tra ogni cervello ed il mondo, diviene fondamentale specialmente nei dibattiti che si svolgono oggi nell'ambito della filosofia della biologia, delle scienze cognitive e, recentemente, anche della neurobiologia. Come abbiamo dinanzi accennato, il processo per cui i significati si sviluppano e operano è l'intenzionalità. Per la maggioranza delle persone il termine intenzione si riferisce a qualsiasi comportamento cosciente, diretto ad un obiettivo. Tale accezione, come sappiamo, è una versione diluita del concetto elaborato da Tommaso d'Aquino. Alcuni filosofi del secolo scorso hanno usato l'altra versione mitigata per designare la relazione (sia reale che immaginaria) tra stati mentali ed oggetti o eventi del mondo. I riferimenti a questa accezione di intenzionalità parlano spesso di attinenza delle rappresentazioni mentali. «Una caratteristica importante tanto dell'accezione quotidiana quanto del

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recente uso filosofico è l'implicita richiesta che gli stati mentali siano stati coscienti. Ma noi svolgiamo la maggior parte delle attività quotidiane che sono chiaramente intenzionali e significative senza esserne esplicitamente consapevoli. Si consideri l'attività degli atleti e dei ballerini, che muovono il loro corpo nello spazio e nel tempo per qualche fine (vincere una gara, raccontare una storia, esprimere emozioni). Quando una persona impara per la prima volta a ballare o a praticare uno sport, fa ricorso ad una riflessione cosciente su che cosa dovrebbe fare con il suo corpo, ma per lo più attinge in maniera inconscia a quelle capacità già acquisite che tutti manifestiamo utilizzando il corpo come la capacità di correre. Via via che procede l'allenamento del cervello e del corpo, la riflessione cosciente sulla manipolazione del corpo diminuisce e la persona salta il fosso acquisendo quella che comunemente si chiama facilità per il gioco o per la danza. La performance diventa una «seconda natura».»119 In molti casi, la massima gioia e realizzazione delle persone arriva con l'immersione totale nell'attività che manda in frantumi la consapevolezza di sé: esse, infatti, diventano completamente ciò che desiderano nel corpo e nello spirito, senza riserve. Il cervello ed il corpo, anticipando i segnali in ingresso, percepiscono e fanno movimenti senza dover riflettere. E', quindi, proprio questo genere di abilità inconsapevole, ma diretta, nell'esercizio della percezione (il know-how per dirla con Kauffman e Dennet) che il concetto di intenzionalità deve comprendere. Alla luce di tutto ciò, dunque, Freeman così si esprime: «Gli esempi dell'atleta e del ballerino dimostrano quelle che a mio giudizio sono le tre proprietà principali dell'intenzionalità. La prima è l'unità. Il nostro cervello ed il nostro corpo sono totalmente impegnati nella proiezione corporea di noi stessi nel mondo e l'unificazione delle nostre percezioni rispetto a tutti i sensi si realizza a ritmi più veloci di quelli che possiamo percepire. In questo contesto, io distinguo tra il sé, che è unificato, e la consapevolezza di sé, che nella nostra esperienza è l'ego, che non è unificata, ma sfaccettata come il sole sulle onde. La seconda proprietà è l'interezza: l'intera esperienza della vita confluisce in ogni momento di azione. Le esperienze della gara e della danza vengono generalizzate e continuamente utilizzate come base di rielaborazione. È presente anche uno sforzo, descritto da Aristotele e Goethe due secoli fa, nel senso di una lotta cieca, organica, verso la realizzazione del nostro potenziale completo entro i limiti posti dall'eredità e dall'ambiente. La terza proprietà dell'intenzionalità è lo scopo o intento, poiché, che gli atleti e i ballerini ne siano consapevoli o meno, le loro azioni sono dirette a qualche fine. Quindi la percezione è un processo continuo e perlopiù inconscio che viene campionato e contrassegnato in maniera intermittente dalla consapevolezza, e ciò che ricordiamo sono i campioni, non il processo. Il fatto che non sia necessario che la coscienza faccia parte della descrizione dell'intenzionalità apre nuovi orizzonti. La coscienza non è un buon punto da cui iniziare una teoria dell'attività del cervello, poiché l'unico test biologico per provare se la coscienza è presente o meno in un soggetto passivo consiste nel domandarglielo. Gli animali non possono rispondere, non perché a modo loro non possono ricordare o creare rappresentazioni, ma perché non possono creare e rappresentare astrazioni all'altezza del livello di ricercatezza comunicativa necessario.»120 I biologi evoluzionisti hanno mostrato che le operazioni complesse del cervello e del corpo hanno avuto origine in animali più semplici e si sono evolute nelle capacità umane. In tal senso, allora, sulla base dei dati relativi al comportamento, risulta possibile inferire che gli animali nutrono intenzioni, pur non sapendo se sono coscienti delle loro azioni. Si consideri, ad esempio, un animale che si sveglia, ha fame e si mette in cerca di una preda. Se si imbatte in una sostanza chimica odorante che corrisponde al cibo, deve estrarre e percepire un odore di cui è alla ricerca e distinguerlo da tutto il sottofondo di odori, un insieme infinitamente complesso di sostanze chimiche che non è affatto in grado di identificare e catalogare. Successivamente indaga per scoprire da dove viene l'odore: concepire l'origine, infatti, fa parte del significato dell'odore. Per fare ciò, l'animale necessita di sapere dov'era quando lo ha percepito e di calcolare la sua intensità. Deve considerare diverse variabili come la direzione del vento o delle acque in base alla sensazione sulla pelle, alla percezione di piante ondeggianti ed ai suoni prodotti dalla corrente. Così, in virtù di questi nuovi ingressi, deve compiere un'altra mossa e deve sapere dove è arrivato. Infine, deve ottenere dai recettori sensitivi dei muscoli e delle articolazioni la verifica che abbiano effettivamente fatto quanto aveva segnalato di fare il cervello, o, in caso contrario, deve sapere che cosa hanno fatto in alternativa. «Tutti questi segnali si combinano nell'unità di una percezione multisensoriale, nota anche come Gestalt, che fornisce la base per quanto l'animale sceglie di fare al passo successivo. Tutti questi aspetti vengono attribuiti al significato della percezione, dell'odore, e nessuno di essi allo stimolo, la sostanza odorante. L'animale si sposta in una nuova posizione, annusa ancora una volta e confronta i due odori. Ma la differenza di intensità tra i due passi successivi sarebbe priva di significato se l'animale non costruisse una storia che descrive dove si trovava al primo tentativo e dove è andato al secondo, combinando numerose percezioni sensoriali che comprendono le registrazioni somatosensoriali dei movimenti del suo corpo nell'ambiente.»121 La fondamentale attività di ricerca del cibo dimostra le tre proprietà dell'intenzionalità individuate da Freeman. «Gli esseri umani si sono evoluti da creature più semplici e taluni comportamenti di queste forme più antiche sono precursori del nostro comportamento intenzionale che è ricco e vario. L'evoluzione ci ha conferito la capacità di cogliere l'intenzionalità negli altri senza bisogno di definirla. Se vediamo un comportamento mirato, lo riconosciamo quasi all'istante. Quando ci imbattiamo in un oggetto di un certo tipo, ci domandiamo se è vivo o morto e se reagirebbe attaccandoci o fuggendo al nostro tentativo di catturarlo. Se sta fermo, ci domandiamo se ci sta guardando. Se si muove, ci domandiamo se il movimento è diretto verso di noi, lontano da noi o altrove. Nel mondo moderno, non

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abbiamo grandi difficoltà a distinguere tra i comportamenti delle macchine intelligenti che non sanno ciò che fanno ed i comportamenti intenzionali degli animali che lo sanno. Nella letteratura zoologica sono citati molti esempi di comportamenti intelligenti manifestati da altri vertebrati e anche da invertebrati quali il polpo, l'ape e l'aragosta. Charles Darwin scoprì prove evidenti di comportamento intenzionale nei lombrichi e alcuni scienziati ritengono che anche i batteri lo manifestino.»122 Si pensi per l'ennesima volta all'esempio di E. coli che risale controcorrente il gradiente di glucosio in cerca di cibo. Il batterio «affamato» distingue il proprio corpo dagli elementi chimici esterni, come un potenziale cibo, e tiene traccia dei suoi movimenti nello spazio e nel tempo, il che potrebbe indicare l'interezza dell'esperienza. La sua attività, inoltre, è orientata ad uno scopo preciso: la riproduzione. Ovviamente noi possiamo soltanto supporre tutto questo osservando l'agente autonomo in azione. L'unità, l'interezza e lo scopo, dunque, costituiscono, agli occhi di Freeman, le condizioni base affinché esista un soggetto biologico portatore di significato. Come abbiamo già accennato in precedenza, quindi, i significati si trasmettono tramite l'intenzionalità, ovvero tramite quel processo in base al quale gli organismi viventi cambiano se stessi agendo ed imparando dalle conseguenze delle loro azioni: quando un agente autonomo afferra un significato, infatti, è spinto verso nuovi comportamenti. Ebbene, a seconda della complessità degli agenti autonomi ci saranno capacità differenti di elaborazione del significato, ovvero canali diversi di comunicazione. «[...] Tutto quel che sappiamo del nostro cervello in confronto a quello di altri animali presenti sulla terra e a tutte le testimonianze fossili ci dice che l'intelligenza biologica si è evoluta nel contesto di una brutale corsa agli armamenti chimici, la guerra biologica in cui si mangia per non essere mangiati. Il naso era ed è l'arbitro iniziale di ciò che ingeriamo e di ciò che ci spaventa. Il confronto tra cervelli diversi mostra che i meccanismi dell'intenzionalità emersero per la prima volta nel sistema olfattivo e che il sistema visivo, quello uditivo e quello somatosensitivo si inserirono cooperandone il sistema operativo, modificando i dettagli, ma sfruttando la spinta principale di quella dinamica. L'olfatto continua a essere unico tra i sensi a causa dell'accesso diretto alla corteccia cerebrale dei suoi neurorecettori. [...] Questo spiega perché l'odore del fumo, della carne putrida, del caffè del tabacco, del profumo, gli odori corporei e così via sono tanto più irresistibili emotivamente delle sensazioni visive e uditive che li accompagnano. Se ne ricava la lezione che per capire la vista e l'udito, comprese le forme di rappresentazione parlate e visive, dobbiamo innanzitutto capire come fa il nostro cervello ad affrontare le infinite complessità dell'ambiente olfattivo. Gli esempi dell'atleta, del ballerino e dell'animale affamato ci riconducono ad alcuni interrogativi fondamentali. [...] Se il mondo esterno è infinito rispetto agli stimoli sensoriali che offre al corpo, in che modo il cervello seleziona ciò che ha un'importanza immediata? Quando vi è consapevolezza, quale è la sua natura biologica e cosa fa?»123 Eccoci giunti, dunque, al cospetto di una delle più grandi frontiere dell'ignoto: la comparsa ed il funzionamento del sistema nervoso centrale dell'uomo, ovvero il sistema più profondamente teleonomico che sia mai esistito sulla Terra, l'unico sistema, vale a dire, a partire dal quale si genera il misterioso fenomeno dell'autocoscienza. «Alcuni sistemi biologici sono dotati di coscienza ma, come mise in evidenza Franz Brentano, le macchine inanimate, finora, non lo sono, poiché non hanno intenzioni. Ma quale è la natura della coscienza? In che modo il cervello la genera? In che modo si potrebbe farla operare in un cervello dall'intelligenza artificiale per produrre cambiamenti nei componenti della macchina e nel comportamento dell'intero sistema? Nella comunità delle scienze cognitive sono in corso numerosi dibattiti proprio su questi argomenti. La coscienza è un gran mistero. I problemi sono intrattabili poiché, nel campo delle scienze cognitive, il significato è definito da una relazione tra simboli, come nelle definizioni sintattiche delle parole, composte da altre parole e da immagini, che si trovano in un vocabolario. Ma nella realtà i riferimenti al mondo non sono definiti nell'ambito di un vocabolario o di un computer.»124 Le riflessioni di Freeman ci consentono, a questo punto, di mostrare la concezione della mente offerta dal pragmatismo, una concezione che, in accordo con il grande neurobiologo, facciamo nostra anche al fine di mettere in luce un altro aspetto fondamentale del bios che Kauffman non approfondisce e che la definizione kantiana di vita non coglie nella sua profondità, ci stiamo riferendo qui alla fondamentale nozione di assimilazione (o adaequatio), termine introdotto per la prima volta da Tommaso d'Aquino. Per i pragmatisti, la mente è una struttura dinamica che deriva dalle azioni compiute nel mondo. Oggi sappiamo che la coscienza interagisce con i processi cerebrali, tuttavia non è qualcosa di epifenomenico e non è identica a questi processi. La coscienza non controlla le azioni che costituiscono i comportamenti o almeno non in modo diretto. In termini dinamici, secondo il grande neurobiologo, essa può essere paragonata ad un operatore poiché modula la dinamica cerebrale da cui sono costruite le azioni passate: «posta in nessun luogo e dappertutto», infatti, essa è in grado di rielaborare i contenuti forniti dalle varie parti. Negli esseri umani, secondo recenti studi, sembra che sia l'abbondante sviluppo dei lobi frontali e temporali a fornire l'oggetto dell'autocoscienza. Il cervello degli altri animali, infatti, non possiede queste parti ed il loro comportamento non dà prova di auto-coscienza o di auto-consapevolezza: esiste, quindi, la possibilità che essi siano coscienti senza essere autocoscienti, né consapevoli delle loro azioni intenzionali. «Nel 1272, Tommaso d'Aquino fece conoscere all'Europa occidentale Aristotele, in particolare nel Trattato sull'uomo, e la teoria aristotelica della percezione attiva, secondo la quale l'organismo acquisisce la conoscenza del mondo e realizza il suo potenziale attraverso le sue azioni sul mondo. Tommaso modificò il concetto per renderlo conforme alla dottrina cristiana, distinguendo tra volontà e intenzione: la volontà compie scelte etiche libere in relazione al

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bene e al male, al torto e alla ragione, ed è qualcosa che hanno soltanto gli esseri umani, mentre l'intenzione è il meccanismo attraverso il quale si realizza il potenziale dell'organismo, qualche cosa che hanno anche altri animali. Secondo tale concezione, inoltre, ogni animale è un essere unificato e racchiuso entro un confine che distingue tra «sé» e «altro da sé» e il sé utilizza il corpo per spingere in fuori il suo confine nel mondo.»125 In un passaggio importante della Summa Theologiae il Doctor Universalis così scrive: «[...] Intendere significa tendere verso qualcosa; e questa tendenza si può riscontrare sia nel soggetto che muove sia in quello che è mosso. Se dunque si considera l'intenzione come derivante da altri, allora si può affermare che la natura ha l'intenzione del fine: poiché è mossa da Dio al suo fine, come la freccia dall'arciere. E in questo senso anche gli animali irrazionali hanno l'intenzione del fine, in quanto sono mossi dall'istinto naturale verso determinate cose. -- In un altro senso invece l'intenzione del fine è riservata al soggetto che muove, in quanto è capace di ordinare l'operazione propria, o quella di altri, al fine. Il che spetta solo alla ragione. Quindi gli animali irrazionali non hanno l'intenzione del fine in questo senso, che è poi quello proprio e principale, come si è spiegato.»126 L'origine etimologica di intendere e di intenzione è il verbo latino intendere, che significa non solo tendere in avanti, ma, in maniera altrettanto importante, anche, come abbiamo accennato sopra, cambiare il sé agendo ed imparando dalle conseguenze delle azioni. Al posto dell'idealismo platonico, Tommaso pose a fondamento della dottrina medievale della Chiesa il materialismo aristotelico, operando però una brillante distinzione. A differenza di Platone, secondo Aristotele e Tommaso la percezione è un processo attivo e non una passiva accettazione delle forme. Nella visione Aristotelica, tuttavia, l'interazione tra mente e mondo va in entrambe le direzioni: le azioni transitive (per esempio, tagliare, bruciare, indagare), sono dirette nel mondo in quanto manipolazioni esplorative, e quindi gli stimoli entrano nel corpo come forme degli oggetti materiali, mentre con le azioni intransitive si interpretano e si conoscono le forme degli oggetti per associazione. «Tommaso, in base alla sua concezione dell'unità del sé, concluse che il processo è unidirezionale. Le azioni del corpo escono grazie ai sistemi motori, cambiando il mondo e cambiando la relazione del sé con il mondo. Le conseguenze sensoriali delle azioni consentono poi al corpo di cambiare se stesso in accordo con la natura del mondo. La percezione, tuttavia, è soltanto dei contorni alterati del sé come ne viene fatta esperienza internamente. Nessuna forma viene spinta attraverso o al di là del confine. La parola chiave usata da Tommaso è «assimilazione» (adaequatio indica un avvicinamento, ma non il raggiungimento, dell'uguaglianza). Il corpo non assorbe gli stimoli, ma cambia la propria forma per diventare simile a quegli aspetti degli stimoli che riguardano l'intento emerso nell'ambito del cervello. Tommaso paragonò tale processo a un osservatore che fa brillare una luce all'interno di una struttura come una tenda. L'osservatore inferisce che cosa succede all'esterno dalle forme della luce riflessa e dai movimenti delle pareti della tenda. Vi è differenza con le pareti della caverna di Platone poiché lì la luce e le forme provengono dall'esterno e vengono colte in modo imperfetto dai sensi in base alle ombre sul muro immobile, mentre per Tommaso le forme vengono create internamente al sé grazie al raggiungimento della similitudine.»127 L'Aquinate così spiega questo fondamentale concetto: «Il vero [...] si trova formalmente nell'intelletto. E siccome ogni cosa è vera secondo che ha la forma conveniente alla propria natura, l'intelletto, considerato nell'atto del conoscere, sarà vero in quanto ha in sé l'immagine della cosa conosciuta, poiché tale immagine è la sua forma nell'atto del conoscere. Per questo motivo la verità si definisce in base alla conformità dell'intelletto alla realtà, e quindi conoscere tale conformità è conoscere la verità. Tale conformità invece il senso non la conosce in alcun modo: per quanto infatti l'occhio abbia in sé l'immagine dell'oggetto visibile, pure non afferra il rapporto che corre tra la cosa vista e ciò che esso ne coglie. L'intelletto invece può conoscere la propria conformità con la cosa conosciuta. Tuttavia non la afferra quando percepisce la quiddità di una cosa; ma quando giudica che la cosa in se stessa è conforme alla sua apprensione, è allora che comincia a conoscere e a dire il vero. E fa questo nell'atto di comporre e di dividere: infatti in ogni proposizione l'intelletto applica o esclude, in una cosa espressa dal soggetto, ma una certa forma espressa dal predicato. Quindi è giusto affermare che il senso relativamente ad una data cosa è vero, o che è vero l'intelletto nel conoscere la quiddità, ma non si può dire che conosca o affermi il vero. E la stessa cosa vale per le espressioni verbali complesse o semplici. La verità, dunque, può anche trovarsi nei sensi o nell'intelletto che conosce la quiddità come si trova in una cosa vera, ma non quale oggetto conosciuto nel soggetto conoscente, come invece indica il termine vero: la perfezione dell'intelletto, infatti, è il vero conosciuto. Per conseguenza, a parlare propriamente, la verità è nell'intelletto che compone o divide (che giudica); non invece nel senso, e neppure nell'intelletto che percepisce la quiddità.»128 Per esempio, quando adattiamo una mano per stringere una caffettiera e l'altra per tenere una tazzina allo scopo di riempirla, non trasferiamo forme geometriche nel cervello, ma uniamo il nostro corpo alle forme degli oggetti adattandovi le mani per poterli manipolare. Pertanto, i significati degli oggetti crescono in conformità a quanto abbiamo fatto e a quanto intendiamo fare con tali oggetti. Così, altri possono osservare ciò che facciamo, imparare per imitazione a creare in tal modo significati simili ai nostri, che comunque sono prodotti da loro e non sono trapiantati. Tommaso basa la sua nozione di unidirezionalità sull'incompatibilità tra le forme della materia, che sono uniche e particolari, e le forme dell'intelletto, che sono generalizzazioni e astrazioni. Questi costrutti intellettuali sono tutto ciò che possiamo conoscere poiché ogni oggetto materiale è infinitamente complesso nei suoi dettagli. «In un certo

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senso esiste un'unica verità, per la quale tutte le cose sono vere, mentre non è così in un altro senso. Per vederlo chiaramente bisogna sapere che quando un attributo viene affermato di più cose univocamente, si trova in ciascuna di esse secondo la sua propria nozione, come animale in ogni specie di animali. Quando invece un attributo viene affermato di più soggetti analogicamente, allora esso si trova secondo la sua propria nozione in uno solo, dal quale tutti gli altri vengono denominati: p. es. sano si dice dell'animale, dell'orina e della medicina, in modo che l'attributo della sanità non si trova nel solo animale, ma dalla sanità dell'animale è denominata sana la medicina in quanto è causa di tale sanità, e sana l'orina in quanto ne è il segno. E sebbene la sanità non sia nella medicina e neppure nell'orina, tuttavia nell'una e nell'altra vi è qualcosa per cui l'una produce e l'altra significa la sanità. Ora, sopra [...] si è detto che la verità primariamente è nell'intelletto e secondariamente nelle cose in quanto dicono ordine all'intelligenza divina. Se dunque parliamo della verità in quanto, secondo la sua nozione propria, è nell'intelletto, allora, dato che esistono molte intelligenze create, vi sono anche molte verità; e anche in un solo e medesimo intelletto vi possono essere più verità, data la pluralità degli oggetti conosciuti.»129 Non esistono, ad esempio, due tazzine identiche, neanche se provengono dallo stesso stampo; molto semplicemente, per motivi pratici, ci figuriamo che lo siano. Le forme dipendono dalla scala: nel caso, ad esempio, delle lamette da barba sembrano tutte uguali ad occhio nudo, tuttavia, se le si osserva al microscopio elettronico, ognuna appare come una catena montuosa diversa. Stando così le cose, dunque, Freeman così si esprime: «Tommaso annullò la dicotomia tra soggetto e oggetto, poiché il sé crea le sue forme uniche rendendosi simile al mondo, non scoprendo al suo interno forme ideali, categorie o verità eterne che si contrappongono agli oggetti del mondo. In termini contemporanei, il corpo e il cervello sono sistemi aperti con flussi di materia, energia ed informazione, ma l'unidirezionalità della percezione fa della trama del significato un sistema chiuso. Il mondo è infinitamente al di là delle nostre limitate capacità di creare forme e i suoi particolari sono inaccessibili e inutili per noi. [...] Il processo dell'intenzionalità, quando funziona bene, ci permette di cogliere proprio tutto ciò che siamo i grado di trattare e nulla di più. [...] Il nostro sistema percettivo unidirezionale è la nostra risorsa migliore per adeguare le nostre limitate capacità al mondo infinito.»130 Nella dottrina di Tommaso d'Aquino, come abbiamo dinanzi mostrato, l'intenzionalità non richiede coscienza, tuttavia ha bisogno dell'azione per creare significato. Questa impostazione, dunque, ci consente di scavare ulteriormente all'interno della teoria dell'agente così come divisata da Kauffman. In base alla prospettiva di Freeman or ora messa in luce, infatti, gli agenti autonomi sono si attori costruttori che creano sempre nuovi significati attraverso la realizzazione di azioni imprevedibili (know-how), ma tutto ciò è possibile solo perché, come appunto denota Tommaso, la vita è essenzialmente assimilazione (adaequatio) e quindi intenzionalità: il bios, pertanto, alla fine di questa lunga disamina, appare come il risultato di una serie trans-finita di adeguamenti che costituiscono e modificano imprevedibilmente le parti del gioco stesso. Noi annusiamo, muoviamo gli occhi, mettiamo la mano a coppa dietro all'orecchio e spostiamo le dita per manipolare un oggetto al fine di ottimizzare la nostra relazione con tale oggetto per il nostro scopo immediato. Merleau-Ponty ha chiamato questa azione dinamica «ricerca della massima presa», ovvero «ottimizzazione della relazione del sé con il mondo realizzata disponendo i recettori sensitivi verso l'oggetto designato».131 Questo concetto equivale, appunto, all'assimilazione di Tommaso. Da queste considerazioni, quindi, a nostro giudizio, risulta possibile inferire che la vita non è soltanto linguaggio (o a limite puro sistema di programmi) e cognizione (e, in generale, apprendimento), bensì appare anche come un fenomeno coevolutivo in cui l'informazione si trasforma continuamente dando nascita, altresì, ad un processo dialettico di creazione ed assimilazione (adaequatio) di significati sempre nuovi: ecco, allora, che, in accordo con Kauffman e Freeman, diviene sempre più urgente la costruzione di una nuova semantica, una semantica, vale a dire, non più soltanto di tipo interpretativo, bensì di tipo generativo. Il grande biochimico, tuttavia, pur avendo segnato (mediante l'applicazione delle reti booleane stocastiche alla biologia) il cammino delle ricerche nell'ambito della complessità biologica dagli anni settanta fino ad oggi e nonostante i numerosi ed originali sentieri esplorati nell'ultimo decennio (la teoria dell'agente autonomo, il concetto di cicli di lavoro termodinamico, la rivisitazione del concetto di significato secondo Pierce e la teoria dell'informazione istruttiva), a differenza di Atlan e Carsetti i quali pongono l'accento dei loro studi sulla possibilità di costruire una teoria semantica dell'informazione, ovvero una rinnovata teoria algoritmica dell'informazione basata su di una logica intensionale e sul riferimento a strumenti matematici innovativi, egli, rimane, per alcuni aspetti, ancorato ad un modello matematico (basato su una logica estensionale), che permane, a livello formale, quello presentato con tanta cura e lungimiranza nei suoi primi articoli pubblicati negli anni settanta e a cui, ancora oggi, si fa continuo riferimento in tanti centri di ricerca nel mondo. Per costruire a livello biologico una teoria dell'informazione semantica, invece, occorre fare i conti sino in fondo con l'informazione profonda, un'informazione, vale a dire, non misurabile tramite il ricorso agli strumenti offerti dalla tradizionale teoria dell'informazione di Shannon basata, come abbiamo visto, su di una matematica troppo semplice e quindi «incompatibile» con la complessità dei fenomeni vitali. Occorre, in altre parole, definire, come abbiamo accennato in precedenza, i principi di una nuova teoria dell'informazione algoritmica (cioè di una nuova teoria della complessità), non esclusivamente ancorata ad una base proposizionale, bensì articolata al livello di una dimensione logica a carattere predicativo e stratificato. Una tale teoria della complessità dovrebbe essere in grado, tra l'altro, di mostrarci come sia

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possibile parlare, senza contraddizione alcuna, di non esistenza di algoritmi finiti in relazione a problemi che pure risultano ben posti in termini di unicità e di esistenza (la non esistenza è un dato di partenza ineliminabile così come, sul versante fisico, in accordo con Prigogine, è un dato primitivo l'esistenza di una randomness che trova il suo fondamento nella dinamica). Ebbene, tutto ciò implica anche l'elaborazione di una semantica intensionale ed iper-intensionale per i processi ricorrenti di auto-organizzazione, nonché la costruzione di modelli di simulazione di automi dotati di basi intensionali e di funzioni riflessive ed interpretative. In altre parole, occorre estendere il quadro standard relativo ai modelli tradizionali booleani per costruire un nuovo e più generale tipo di concetto teorico: «the concept of self-organizing model. The sign of such a new kind of semantics, if successful, will necessarily conduct us, as a consequence, to perceive the possibility of outlining a new and more powerful theory of cellular automata, of automata in particular, that will manifest themselves as coupled models of creative and functional processes. We shall no longer be only in the presence of classification systems or associative memories or simple self-organizing nets. We shall be, on the contrary, faced with a possible modeling of precise biological activities, which biochemical networks or biochemical simulation automata capable of self-organizing, as coupled systems, their emergent behaviour including their same simulation functions. When we consider, for instance, DNA as a complex system characterized by the existence of a precise language articulating within the contours of a self-organizing and intentional landscape, we are necessarily faced with a molecular semantics that needs, in order to be understood, explanatory tools much more powerful than those provided by Kauffman model a particular embodiment of these tools, can be actually, represented by the outlining of simulation automata able to prime new forms of conceptual «reading» of the information content hidden in the text provided by the molecular language.»132 Anche se le parole ed i concetti che abbiamo or ora riportato hanno subito in lavori più recenti alcune modificazioni a seguito dell'approfondimento realizzato da A. Carsetti in questi ultimi anni, questi, tuttavia, a nostro giudizio, ci additano con efficacia l'ombra di quelle che potremmo definire come le «colonne d'Ercole della biologia». Una teoria dell'informazione semantica, infatti, dovrebbe fare i conti con una alterità radicale: in questo ipotetico dialogo tra l'osservatore e la sorgente, infatti, quest'ultima può essere paragonata da un filosofo anche ad una significazione originaria che sfugge costantemente ad ogni tentativo umano di oggettivazione e di rappresentazione. Si sta proponendo qui l'ipotesi suggestiva di far dialogare il mistero dell'auto-organizzazione con una diacronia irrappresentabile, ovvero con un'intenzionalità priva d'inizio che, trascendendo la chimica, la fisica, la matematica, la biologia e la stessa scienza dell'informazione, si ri-vela come Vita «incarnandosi» costantemente nel linguaggio, quindi nel codice. Un tale cammino teorico, inoltre, come abbiamo mostrato in queste pagine, potrebbe anche far luce sull'intrigante questione relativa alla comparsa dell'etica mostrando altresì come le pre-condizioni della capacità morale dell'uomo siano in realtà proprietà fondamentali che caratterizzano la vita stessa. Secondo questa prospettiva, dunque, la nozione monodiana di invarianza legata all'idea di un programma genetico fisso ed immutabile, lascia il posto a quella di emergenza del significato, cioè apertura al possibile e alla complessità. Gli agenti autonomi, infatti, non sono meri «spettatori» del mondo, al contrario, come appunto rileva Kauffman, sono «attori-costruttori» che, in continuo rapporto con l'ambiente, trasformano se stessi creando così sempre nuovi significati. Il DNA, pertanto, non è un programma fisso che dice quello che saremo, bensì costituisce quel fascio di capacità che esprime la logica della vita fondata sul concetto-chiave di possibilità. «At the level of complexity molecules [...] the universe has not had time to create all possible versions. For example, the universe has not had time to create all proteins to length 200, by about 10 to the 67th power repetitions of the history of the universe. Consider a simple set of organic molecules and all the reactions they can collectively undergo. Call the initial set of molecules the Actual. New among the reactions that might happen, some may lead to molecular species that are not present in the initial actual. Call these new molecular species the Adjacent Possible. They are the molecular species that are reachable in a single reaction step from the current actual. It is of fundamental importance that the biosphere has been evolving into the Adjacent Possible for 3. 8 billion years, from an initial diversity of perhaps 1000 organic molecules to trillions. The biotic world advances into the adjacent possible in terms of molecules, morphologies, species, behaviours, and technologically from pressure flaked stones; it lurks in everything from the global economy to the computer, and the millions of products in the current global economy. [...] The evolving universe and biosphere advance persistently into the adjacent possible. This means that what comes to exist at these levels of complexity is typically unique in the universe. Now consider a heritable variation which gives rise to a new constraint, physical biotic information, that helps cause a sequence of events in a molecular agent. If that heritable variation is to the selective benefit of the agent, the new constraint, the new biotic information, will be grafted into the organism, its progeny, and the ongoing evolution of the biosphere. It is essential to note that in the absence of heritable variation, an increase in fitness, and natural selection, this new functionality would not come to exist in the universe: but lungs and flight have come to exist. The mechanisms of heritable variation and natural selection comprise an assembly process by which propagating organization is modified in normal Darwinian adaptations and pre-adaptations where new functionalities arise, and these modifications are built into the ongoing evolution of the biosphere.»133 Stando così le cose, dunque, a nostro giudizio, la vita appare come un fenomeno di transazione, ovvero il risultato di una serie di trasferimenti bi-direzionali di

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informazione indipendenti tra loro e nello stesso tempo interconnessi. L'indipendenza implica che ogni trasferimento è in sé libero; in altre parole, nessun trasferimento informazionale costituisce un prerequisito per la messa in atto dell'altro, dal momento che non vi è alcun obbligo esterno in grado di agire sulla dinamica del processo. È una logica, quest'ultima, di reciprocità molecolare, una logica vale a dire né condizionale né puramente incondizionale, poiché se è vero che i processi molecolari di una cellula sono gratuiti, al tempo stesso senza la risposta di alcune macromolecole il sistema non realizza il proprio telos interno. A queste due caratteristiche (la condizionalità/incondizionale e la bi-direzionalità dei trasferimenti) ne va però aggiunta una terza: la transitività. Nei sistemi altamente complessi come gli agenti autonomi, a livello molecolare si ha che la risposta di una molecola ad un segnale di un'altra molecola può anche non essere rivolto verso quella molecola che ha scatenato la reazione di reciprocità, ma anche verso un terzo elemento. In altre parole, A che pone in essere un processo nei confronti di B innesca un processo di reciprocità chimica non solo se B risponde nei suoi confronti, ma anche se agisce reciprocamente nei confronti di C (si pensi ad esempio alla chiusura auto-catalitica dei sistemi prebiotici). È questo, dunque, che rende la reciprocità del bios qualcosa di diverso da un egoismo incrociato, conferendole altresì apertura. Sono queste, infatti, le dinamiche interne ai processi di auto-organizzazione della vita. Nei sistemi viventi, a livello molecolare, la struttura di reciprocità che viene spontaneamente ad emergere è normalmente triadica e dunque aperta, una struttura, vale a dire, in cui è possibile rintracciare chiaramente non solo fenomeni di associazione molecolare, bensì fenomeni di cooperazione in cui ogni parte, così come c'è soltanto mediante tutte le altre, «è anche pensata come esistente in vista delle altre e del tutto, cioè come strumento [...] solo allora e per ciò un tale prodotto potrà essere detto, in quanto essere organizzato e che si auto-organizza, uno scopo naturale».134 Proprio qui infatti possiamo riconoscere con precisione i meccanismi misteriosi di quella che Kant definisce come forza vitale etica, ovvero quel particolare intreccio di auto-organizzazione, complessità, emergenza, assimilazione ed intenzionalità che ci permette di «leggere» la vita come un fenomeno cognitivo, coevolutivo e relazionale, un fenomeno, vale a dire, governato da una misteriosa logica di reciprocità molecolare.135

Note

1. T. Pievani, La scienza della complessità incontra la storia, in Esplorazioni evolutive, Einaudi, Torino, 2005, p. 345.

2. S. A. Kauffman, Esplorazioni evolutive, Einaudi, Torino 2005, p. 25-29.

3. Ibidem, p. 3.

4. Ibidem, p. 4.

5. E. Schrödinger, (1943), Che cos'è la vita?, Sansoni, Firenze 1947, p. 63-66.

6. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 10.

7. Schrödinger, Che cos'è la vita?, p. 87.

8. Ibidem, p. 88-89.

9. Ibidem, p. 92.

10. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 11-12

11. Ibidem, p. 7.

12. Ibidem, p. 13.

13. Ibidem, p. 44.

14. Ibidem, p. 46-47.

15. D. H. Lee, J. R. Granja, J. A. Martinez, K. Severin and M. R. Ghadiri, (1996), «A Self-Replicating Peptide», Nature 382 (6591): 525-528.

16. D. H. Lee, K. Severin, Y. Yokobayashi and M. R. Ghadiri, (1997), «Emergence of symbiosis in peptide self-replication through a hypercyclic network», Nature, 390:591-594. Si veda anche: D. H. Lee, K. Severin and M. R. Ghadiri, (1997), «Autocatalytic networks: the transition from molecular self-replication to molecular ecosystems», Curr.Opin. Chem. Biol., 1, 4, p. 491-496.

17. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 49.

18. Ibidem, p. 64.

19. S. Carnot, Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

20. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 76-77.

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21. Ibidem, p. 78.

22. Ibidem, p. 78-79.

23. Ibidem, p. 80.

24. Ibidem, p. 82.

25. Ibidem, p. 83.

26. Ivi.

27. Ibidem, p. 84.

28. Ibidem, p. 86.

29. Ivi.

30. Ibidem, p. 87.

31. S. A. Kauffman, (2003), «Molecular Autonomous Agents», Philos. Transact a Math. Phys. Eng. Sci., 361 , 1807, p. 1089-99.

32. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 89-90.

33. Ibidem, p. 90.

34. Ibidem, p. 91.

35. Ivi.

36. Ibidem, p. 92.

37. Ibidem, p. 92-93.

38. A. J. Daley, A. Girvin, S. A. Kauffman, P. R. Wills and D. Yamins, (2000), «Simulation of a Chemical Autonomous Agent», Z. Phys.Chem. 216, 41.

39. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 95.

40. R. Benkirane, (2002), Teoria della Complessità, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 159-160.

41. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 96.

42. Ibidem, p. 96-97.

43. S. A. Kauffman, (2007), «Question: Origin of Life and the Living State», Orig. Evol. Biosph, 37:315-322, p. 319.

44. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 97.

45. Ibidem, p. 98.

46. C. E. Shannon, (1948), «A mathematical theory of comunication», Bell Syst Technical J. 27:379-423.

47. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 114.

48. Ibidem, p. 115.

49. Ibidem, p. 115-116.

50. Ibidem, p. 116-117.

51. Ibidem, p. 117-118.

52. Ibidem, p. 118-119.

53. Ibidem, p. 121.

54. Ibidem, p. 122.

55. Ibidem, p. 123.

56. Ibidem, p. 124.

57. Ibidem, p. 126.

58. Ibidem, p. 127-128.

59. Ibidem, p. 128.

60. Ibidem, p. 129.

61. Ibidem, p. 133.

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62. Ibidem, p. 134.

63. Ibidem, p. 135.

64. Ivi.

65. Ibidem, p. 112.

66. P. Atkins, Four laws that drive the universe, Oxford University Press., 2007.

67. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 112.

68. Kauffman, Question: Origin of Life and the Living State, p. 320.

69. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 143.

70. Ibidem, p. 144.

71. Ibidem, p. 145.

72. Kauffman, S. A. and P., Clayton (2006) «On emergence, agency, and organization», Biol. Philos, 21:501-521.

73. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 145.

74. Ibidem, p. 146.

75. J. Bronowski, (1970), «New concepts in the Evolution of Complexity», Zygon, 5, p. 18-35.

76. Eigen M. and R. Winkler, (1981) «Transfer-RNA, an early Gene?», Naturwissenschaften, 68, p. 282-292.

77. A. Carsetti, (1987), «Teoria algoritmica dell'informazione e sistemi biologici», La Nuova Critica, 3-4, p. 37-38.

78. Ibidem, p. 38. Si veda anche A. Carsetti, «Natural Intelligence and Artificial Intelligence», in Intelligent Information Systems for the Information Society, (B. C. Brookes ad.), Elsevier, Dordrecht, 1986.

79. Ibidem, p. 39.

80. Ibidem, p. 40.

81. A. Carsetti, (1989), «Teoria della complessità e modelli della conoscenza», La Nuova Critica, 9-10, p. 61-62.

82. C. F. von Weizsäcker, «Evolution und Entropiewachstum, in Offene Systeme I (von Weizsäcker ed.), Stuttgart, 1974.

83. Carsetti, «Teoria algoritmica dell'informazione e sistemi biologici», p. 43.

84. Ibidem, p. 44.

85. Ibidem, p. 45.

86. Ibidem, p. 47.

87. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 147-148.

88. C. E. Shannon (1948) «The mathematical theory of communication», Bell Syst Technical J., 27, p. 379-423.

89. Carsetti, «Teoria algoritmica dell'informazione e sistemi biologici», p. 50-51.

90. S. A. Kauffman, R. K. Logan, R. Este, R. Goebel, G. Hobill and I. Shmulevich, (2008) «Propagating organization: an enquiry», Biol. Philos., 23, p. 34-35.

91. Ibidem, p. 36-37.

92. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 149.

93. Kauffman, Logan, Este, Goebel, Hobill, Shmulevich, «Propagating organization: an enquiry», p. 38.

94. Shannon, «The mathematical theory of communication, p. 380.

95. Kauffman, Logan, Este, Goebel, Hobill, Shmulevich, «Propagating organization: an enquiry», p. 38.

96. Ibidem, p. 39.

97. Ivi, p. 39.

98. Ibidem, p. 39-40.

99. Ibidem, p. 40.

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100. Ibidem, p. 42-43.

101. I. Kant (1797) Metafisica dei costumi, Bompiani, Milano 2006.

102. D. Dennet, L'idea pericolosa di Darwin, Bollati Boringhieri, 1997,p. 474-75.

103. Ibidem, p. 474.

104. Ibidem, p. 474-475.

105. Ibidem, p. 478.

106. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 151.

107. Ibidem, p. 152.

108. Ibidem, p. 153-154.

109. Ibidem, p. 154-155.

110. Kauffman, Reinventing the sacred, p. 193.

111. Kant, Metafisica dei costumi, p. 47.

112. Kauffman, Esplorazioni Evolutive, p. 154.

113. Kant, Metafisica dei costumi, p. 415.

114. Ibidem, p. 415.

115. L. Boella, Neuroetica. La morale prima della morale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, p. 43-44.

116. W. J. Freeman, Come pensa il cervello, Einaudi, Torino 1999, p. 12-13.

117. Ibidem, p. 19.

118. Ibidem, p. 22.

119. Ibidem, p. 24.

120. Ibidem, p. 25.

121. Ibidem, p. 26.

122. Ibidem, p. 40.

123. Ibidem, p. 26-27.

124. Ibidem, p. 34-35.

125. Ibidem, p. 35.

126. Tommaso d'Aquino, (1272), La somma teologica. CD-ROM, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2002. [I-III, 12, 5a].

127. Freeman, Come pensa il cervello, p. 36.

128. Tommaso d'Aquino, La somma teologica. CD-ROM, [I, 16, 2a].

129. Ibidem. [I, 16, 6a].

130. Freeman, Come pensa il cervello, p. 37-38.

131. M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, Bompiani, Milano 1970.

132. A. Carsetti, 1996, «Chaos, natural order and molecular semantics», La Nuova Critica, 27-28, p. 99-100.

133. Kauffman, «Propagating organization: an enquiry», p. 41.

134. I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, p. 207.

135. Questo articolo costituisce una rielaborazione di alcune tematiche sviluppate nella mia tesi di laurea magistrale dal titolo: I sentieri evolutivi della complessità biologica alla luce delle investigazioni scientifiche e delle esplorazioni metodologiche di S. A. Kauffman. Ringrazio calorosamente il Dipartimento di Biologia dell'Università di Roma Tor Vergata ed in particolare i professori Amaldi, Piacentini, Rickards e Rizzoni con i loro rispettivi collaboratori per avermi permesso, mediante programmi mirati, di approfondire dal punto di vista scientifico alcune delle tematiche qui affrontate. Un ringraziamento speciale va al mio relatore e maestro, il Prof. Arturo Carsetti, per avermi dato l'opportunità di scoprire ed approfondire, attraverso i suoi fondamentali insegnamenti, i temi affascinanti della filosofia della biologia contemporanea, trasmettendomi altresì la passione per lo studio del significato. Inoltre, ringrazio il Prof. Stuart Alan Kauffman per aver accettato di interloquire con me dandomi utili suggerimenti ed interessanti spunti, nonché la possibilità di mantenere anche un prezioso contatto a distanza. Infine, ringrazio con affetto il correlatore, il Prof. Francesco Miano, per la competenza, la

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disponibilità e la profonda umanità con cui mi ha seguito. Le immagini qui utilizzate sono di Stuart Kauffman ed in particolare sono state riprese dal volume Esplorazioni Evolutive, Einaudi, Torino 2005.

Angela Spinelli

La tecnologia: nature artificielle dell'umano

Ma tu Callicle disprezzi lui e la sua arte, e oltraggiosamente lo chiameresti "un costruttore di macchine", né daresti una tua figliuola in moglie a suo figlio, né vorresti che tuo figlio sposasse una tua figliuola.

--Platone, Gorgia

1. Antropologia della tecnica vs cultura della tecnologia?

La separazione fra sapere tecnico e cultura accademica è fortemente radicata già nella tradizione classica. Sebbene nella filosofia greca la tecnica rivestisse un ruolo di importanza non marginale la sua condizione era sempre e comunque subordinata al sapere puro, al sapere speculativo, al sapere dell'essere in quanto essere: alla metafisica. Già nelle filosofia classica, dunque, il sapere puro (la metafisica o filosofia prima) e il sapere pratico (la tecnica) sono formalmente e logicamente distinti e godono di diverse posizioni gerarchiche: la metafisica è prima di ogni altra conoscenza e il sapere pratico ha un valore conoscitivo nettamente inferiore, tanto da essere collocato da Aristotele al terzo ed ultimo posto nel quadro complessivo delle scienze perché è un sapere ad esclusivo vantaggio dell'oggetto stesso e non della filosofia o dell'agire etico.1

La tecnica, in greco téchne e in latino ars, pur essendo «una disposizione creativa accompagnata da ragione vera [...] intorno a quelle cose che possono essere diversamente da come sono»,2 era volta alla produzione di un bene, di un prodotto, è un sapere poietico il cui fine ultimo è la creazione, fosse anche di un brano musicale o di un mirabile discorso.

Per molto tempo il sapere tecnico e la conseguente attività di produzione sono stati considerati subordinati ad una cultura "alta" in cui risiedeva la riflessione sull'indirizzo di questo saper fare, sui valori intrinseci (o meno) all'agire pratico-produttivo. Contemporaneamente, le professioni di chi provvedeva alla produzione di beni utili a terzi, alla loro manutenzione e gestione sono state considerate umili e, comunque, inferiori a quelle di coloro i quali non "producevano" fisicamente un bene materiale, né lo dovevano gestire e controllare per determinarne un corretto uso e una giusta conservazione. Già Platone, nel suo ordinamento del governo ideale, distingue nettamente tra gli artigiani e i commercianti che lavorano per soddisfare i bisogni primordiali della collettività e i migliori fra i "custodi", i sapienti, sui quali ricade l'onere di governare, proprio in virtù della loro caratteristica "di classe": la sapienza. Anche Aristotele, nel delineare la sua politica, riconosce l'importanza degli agricoltori e degli artigiani e dei commercianti per il buon andamento della città, ma proprio in virtù del loro operare li esclude dalla condizione di cittadini; queste attività saranno proprie degli schiavi e non degli uomini liberi che per essere veramente tali devono poter godere di sufficiente tempo utile all'esercizio della virtù.

Eppure, non sempre il rapporto tra sapere e saper fare è stato soggetto a questa interpretazione; al contrario, lunghi periodi storici hanno decantato le doti, le qualità, le possibilità offerte da una visione tecnica della realtà. A partire da Bacone, unanimemente riconosciuto come filosofo dell'età industriale, il segno della riflessione cambia radicalmente. Nel Novum Organum, l'Autore individua nella stampa, nella polvere da sparo e nella bussola i tre elementi che hanno mutato definitivamente l'assetto del mondo e, in piena polemica con l'opera di Aristotele, avvia una riflessione sul metodo come strumento di scoperta e ricerca per opere vantaggiose per la vita umana e non come mezzo buono soltanto per le dispute e le controversie intellettuali. Lo scopo dell'uomo, per Bacone, risiede nel generare e introdurre in un corpo dato una nuova natura o più nature diverse, cioè nell'intervenire artificialmente sulla natura per orientarla al soddisfacimento efficace dei bisogni umani operando attraverso un metodo, almeno in parte, di natura

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sperimentale nel senso moderno del termine.

E nonostante ciò, ancora oggi, nelle scuole l'approccio più diffuso è quello di una "separazione della carriera" fra istituti tecnici, in cui la formazione generale e la cultura così detta di base hanno un valore inferiore rispetto alla professionalizzazione, e i licei, in cui -- al contrario -- le materie tecnico-produttive non sono oggetto di studio, sostituite in toto dalle discipline umanistico-scientifiche, "astratte". Ben diversa la situazione nel periodo rinascimentale in cui l'istruzione e l'educazione passavano, anche e mirabilmente, nelle botteghe in cui il maestro affiancava l'allievo nell'attività pratica, "facendo" insieme a lui e praticando un'attività di tutoring il cui valore, oggi, sta tornando molto in auge, almeno all'interno della letteratura scientifica, quando non nella pratica quotidiana.

Il saper fare con arte (la tecnica) è sempre stato uno snodo importante della riflessione teorica e della cultura tout court. Passando per apologie, ma anche per accuse aspre (come quelle luddiste), la tecnica ha sempre rivestito un ruolo di fondamentale importanza. Ciò che nel tempo si è modificato è l'immagine che in ogni determinato periodo storico si è avuta della tecnica stessa. Si è andata modificando la cultura della tecnologia, composta da tre ambiti distinti eppure intimamente collegati fra di loro: il sapere tecnologico, le immagini e i valori della tecnologia, il contesto sociale della tecnologia.3

A nostro avviso le immagini e i valori attribuiti alla tecnologia ne determinano gli usi e anche gli abusi, e contemporaneamente riescono a fornire "letture" teleologiche del saper fare dell'umano. Queste letture sono essenzialmente visioni sociologiche della tecnica e della tecnologia. Visioni, contemporaneamente, anche antropologiche.

Pertanto l'opposizione tra antropologia della tecnica e cultura della tecnologa, verosimilmente, non è realistica: entrambe le locuzioni includono una visione dell'uomo che, per essere tale, deve confrontarsi tecnologicamente con la natura che lo circonda. Frutto di questo confronto è il "dominio" sull'imprevedibilità della natura; è il "controllo" delle variabili; è la produzione di arnesi, utensili, strumenti utili al sopravvivere e al vivere; è -- in altri termini -- la cultura.

Per dirla con Gehlen: «anche l'uomo è così come la tecnica nature artificielle».4 L'ossimoro natura artificiale sta ad indicare il come e il quanto l'agire tecnologico (e non solo tecnico) sia connaturato all'essere umano. Nonostante questa sostanziale intimità, l'opposizione natura-cultura non può essere persa di vista: infatti, se da un lato l'agire umano è naturalmente artificiale, il suo scopo ultimo è proprio quello di distinguere se stesso dal resto del mondo, distinguere ciò che è frutto della cultura da ciò che invece ricade nella natura. L'opposizione natura-cultura, cara all'antropologia di segno strutturalista, indica perfettamente lo scopo dell'agire culturale: separare da sé ciò che ricade nella sfera dell'inconoscibile, dell'imprevedibile, del totalmente fuori controllo. E questo agire culturale di fatto è veicolato da un fare tecnico.

Il termine cultura, con i diversi significati che ha assunto via via all'interno delle diverse teorie facenti capo all'antropologia come scienza umana, può esser fatto risalire al 1871, con la pubblicazione del volume Primitive Culture di Tylor,5 in cui erano inclusi il sapere scientifico, le credenze religiose, le manifestazioni artistico-letterarie, il diritto, la morale, i costumi e tutti i modi di comportamento acquisiti in virtù dell'appartenenza ad una determinata società. Il termine assume fin da subito un significato totale, all'interno del quale rientrano tutte le manifestazioni dell'uomo in quanto appartenente ad un determinato gruppo sociale e non in quanto essere naturale6 perché «l'uomo di natura, il Naturmensch, non esiste».7

Il passaggio dal singolare "cultura" al plurale "culture" si deve ai successivi lavori di Boas e Malinowski, che abbandonando definitivamente l'interpretazione positivistica dell'evoluzione cominciano a distinguere -- seppur nelle profonde differenze -- tra cultura e civiltà ipotizzando che la cultura è espressione di ogni aggregazione sociale e in quanto tale si manifesta in una pluralità di forme, la civiltà, invece, è la forma più avanzata e moderna di alcune culture. All'interno della cultura rientrano a pieno titolo anche i saperi tecnologici e gli artefatti che sono, inevitabilmente, relazionati all'ambiente esterno, circostante, naturale e interpretati come risposta ad esso:

In tutti i punti di contatto con il mondo esterno egli [l'uomo] crea un ambiente artificiale, secondario: costruisce case o fabbrica rifugi, prepara il cibo in maniera più o meno elaborata procurandoselo per mezzo di armi e di attrezzi, costruisce strade e si serve di mezzi di trasporto. Se l'uomo dovesse contare solo sui suoi strumenti fisici sarebbe in breve tempo distrutto o soccomberebbe per la fame e per l'esposizione alle intemperie. La difesa, la nutrizione, il movimento nello spazio tutti i bisogni fisiologici e spirituali vengono soddisfatti indirettamente per mezzo di artefatti perfino nelle forme più primitive della vita umana. [...] Gli artefatti, le imbarcazioni, gli attrezzi e le armi, gli accessori liturgici della magia e della religione -- in una parola: il corredo materiale dell'uomo -- costituiscono nel loro complesso gli aspetti più evidenti e più tangibili della cultura.8

Il pensiero tecnologico e il fare tecnico sono, dunque, antropologicamente connaturati all'umano, la cui

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attività precipua è di natura culturale, pertanto nessuna opposizione esiste fra una visione antropologica della tecnica e una cultura della tecnologia. Nessun dualismo, se non artificioso e interpretativo, separa il fare dalla speculazione sul fare stesso. Questi due aspetti, infatti, sono legati reciprocamente all'interno dell'orizzonte culturale, anche se -- di norma -- vengono distinti per motivi scientifici e conoscitivi. Popitz, che pure identifica la tecnica in primis con la produzione di artefatti, contestualizza il dualismo tra téchne ed epistéme in Aristotele sottolineando come questo sia dovuto all'influenza del periodo storico e mettendo in rilievo come, con l'evoluzione tecnologica, i saperi fondamentali, fra cui le convinzioni matematiche ed astronomiche, siano sempre più inclusi all'interno dell'agire tecnico e del pensare tecnologico, «ciò significa che la produzione intermedia che Aristotele assegnò al sapere produttivo si è dimostrata un'attribuzione storicamente condizionata. La moderna tecnica basata sulle scienze della natura collega la conoscenza, formulabile matematicamente, dell'immutabile, delle leggi della natura, con le strategie del produrre. Il sapere produttivo è diventato un caso particolare di questo sapere fondamentale».9

2. Tecnica: mancanza organica o capacità umana?

Nella visione antropologica proposta da Gehlen, la tecnica è il frutto di una mancanza originaria dell'uomo, di uno stato di privazione. La tecnica è un organo esosomatico10 dell'uomo atto a integrare organi fisici poco adatti alla sopravvivenza perché niente affatto specializzati; a intensificare la forza dell'agire umano sull'ambiente; e ad agevolare il lavoro rendendolo meno faticoso. «Chi viaggia in aereo ha i tre principi riuniti in uno: l'aereo sostituisce le ali che non ci sono spuntate, batte in modo assoluto tutte le capacità organiche di volo e risparmia le fatiche a chi vuole recarsi in posti lontani.»11

Nonostante ciò, per l'Autore «sostenere che l'atteggiamento tecnico sia "soltanto razionale e volto a conseguire obiettivi" è un pregiudizio molto diffuso e di evidente origine accademica».12 La classica definizione di tecnica quale procedimento volto al raggiungimento di uno scopo e caratterizzato da elementi di efficacia ed efficienza, in questo caso non corrisponde alla visione antropologica che Gehlen ha dell'atteggiamento tecnico. All'interno di questo orizzonte, infatti, rientra anche la magia, quale tecnica soprannaturale, distinta dalla tecnica del naturale, eppure unita a questa dalle medesime aspirazioni umane: il controllo sulla natura e sugli eventi esterni a sé e la ripetibilità controllabile dell'agire. Ciò che Gehlen definisce il fascino dell'automatismo che «costituisce l'impulso pre-razionale meta-pratico della tecnica, il quale dapprima, e per molti millenni, si esplicò nella magia -- la tecnica del soprasensibile -- fino a trovare solo in epoca molto recente la sua completa espressione in orologi, motori e meccanismi ruotanti di ogni genere».13

E sul valore della ripetizione quale tecnica per arginare il rischio della perdita della presenza individuale o collettiva si sofferma De Martino in buona parte della sua produzione teorica intorno all'analisi del nesso tra mito e rito. In particolare, la iterazione rituale «non è pensabile senza l'orizzonte mitico in cui si inquadra, senza un simbolo di risoluzione che appartiene all'ordine metastorico, e che risolve ora perché riassorbe l'ora nella parola di sempre».14 Il nesso mitico-rituale risolve la crisi perché attua una tecnica di riproduzione artificiale e "protetta" della crisi stessa, arginando i rischi individuali o collettivi di perdita dell'orizzonte culturale: «il rapporto mitico-rituale comporta pertanto un regime di esistenza protetta, uno stare nella storia "come se" non ci si stesse, un piano metastorico di rifugio, che ridischiude i valori minacciati dalla crisi»15 evitando così il rischio delle apocalissi culturali e psicopatologiche16 di un agire de-contestualizzato culturalmente di fronte alle crisi della presenza e dell'esistenza.

L'agire umano è, pertanto, stimolato da fattori pre-razionali, da bisogni inconsci che ne determinano la direzione e risponde -- contemporaneamente -- alle esigenze antropologicamente innate e alle condizioni esterne dettate dalla natura, interpretata come "altro da sé" e, pertanto, potenzialmente pericoloso. L'unione di queste diverse istanze ha condotto e conduce l'uomo ad agire tecnologicamente con l'obiettivo di oggettivare la natura, distinguendola da sé e contemporaneamente oggettivare il proprio lavoro (utensile) alla ricerca di un crescente esonero dell'uomo capace di condurlo all'automazione di prassi, procedure, fenomeni. In questa aspirazione alla consuetudine, alla routine e alla normalizzazione risiede la natura inconfessata delle tecniche.

«L'uomo è un essere predisposto all'azione, alla modificazione dell'ambiente esterno. Il circolo dell'azione, vale a dire il movimento plastico, guidato, corretto, in base all'avvertimento dell'esito positivo o negativo, e infine automatizzato dalla consuetudine, è una delle sue caratteristiche essenziali.»17 L'umano è, pertanto, naturalmente predisposto ad agire tecnologicamente: da un lato è un essere manchevole di specializzazioni biologiche capaci di renderlo sicuro nel suo habitat naturale; dall'altro è deputato ad agire nel mondo secondo regole che obbediscono a bisogni inconsci di sicurezza. Sono questi i motivi dell'agire tecnico, secondo la visione antropologica proposta da Gehlen. Come a dire che natura e cultura concorrono all'agire tecnico in pari misura ma allo scopo di dividere e differenziare sempre più la condizione naturale dalla

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produzione culturale. D'altra parte le apparecchiature tecniche umane si differenziano da quelle animali per il valore d'uso che l'uomo ne fa, per il rapporto che l'utensile intrattiene con il proprio utente e pertanto per la sovrastruttura tecnologica propria della cultura umana che investe l'oggetto stesso di valori a lui esterni.

Nell'uso, gli utensili intrattengono rapporti specifici con i loro utenti. A rigore, questo rapporto e non l'utensile in sé è la qualità storicamente determinata di una tecnologia. Nessuna differenza puramente fisica tra le trappole di certi ragni e quelle di certi cacciatori, o tra l'arnia delle api e quella bantu, è storicamente significativa quanto la differenza del rapporto strumento utente.18

Perché è nello scopo ultimo della tecnologia che si differenzia l'uso: l'essere umano progetta uno strumento in vista di un risultato, di un valore intrinseco allo strumento stesso che è un valore di natura teleologica e che risponde a bisogni antropologicamente connaturati all'umano.

Di segno diametralmente opposto il presupposto che Popitz rintraccia nell'agire tecnico.19 Questo Autore opera una rivoluzione copernicana rispetto al suo predecessore: non da una condizione di manchevolezza biologica nasce la tecnica, quanto piuttosto dal possesso di specifiche capacità, di cui la mano è il punto focale. L'uomo non è un essere manchevole e bisognoso di compensazione, la tecnica non bilancia una insufficienza organica ma, al contrario, sfrutta una specifica capacità organica perché «la capacità di agire tecnologicamente è già presente nella costruzione organica fondamentale dell'uomo».20

L'evoluzione tecnica è stata possibile perché è andata rafforzando le specificità biologiche proprie degli esseri umani, e -- almeno inizialmente -- l'evoluzione tecnologica è stata consequenziale all'evoluzione biologica. Solo in un successivo momento, e con l'affinarsi delle abilità superiori dell'uomo (il linguaggio, la memoria, il pensiero speculativo) l'evoluzione tecnologica ritorna sulle caratteristiche psico-fisiche dell'uomo, influenzandole a sua volta.

Popitz muove contro le tesi di Gehlen accuse di inconsistenza e propone a sua volta una contro-tesi che, nella sua pars costruens è un inno alla mano.21

Naturalmente non sappiamo se un essere simile all'uomo ma privo di tecnologia sarebbe in grado di sopravvivere oppure no. Ma sappiamo con certezza che la tecnologia degli utensili è da attribuirsi ad una specifica idoneità organica dell'uomo. Non da una deficienza organica, ma al contrario, da questa specificità organica, scaturisce la caratteristica connessione tra agire tecnologico e organismo umano.

La versatilità e l'intensità del contatto con gli oggetti, che caratterizzano la mano umana, non temono confronti nel mondo degli organismi viventi. Pressappoco tutto ciò che è afferrabile l'uomo lo può maneggiare e può asservirlo ai propri scopi. Questo si vede già nella morfologia della mano. Decisiva è però la coordinazione tra mano, occhi e cervello, come si vede considerando qualsiasi manipolazione di oggetti coll'intenzione di plasmarli. Una coordinazione nella quale coagiscono a mo'di circuito di regolazione dati ricavati, segnali guida, informazioni di ritorno e correzioni. Inserita in un "circuito di regolazione tecnico-organico", la mano fa i suoi giochi di prestigio. Ne emerge una capacità di fare esperienza che -- pervadendo tutto il corpo -- sbocca nella specifica intelligenza produttiva dell'uomo.22

La tecnica è perciò una forma di intelligenza produttiva il cui epicentro è da rintracciarsi nella mano, così come già in Aristotele che nel De anima definisce la mano lo strumento degli strumenti e nel De Partibus animalium afferma: «a colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti. [...] All'uomo, invece, sono concessi molti mezzi di difesa, ed egli può sempre mutarli, adottando inoltre l'arma che vuole e quando vuole. La mano infatti può diventare artiglio, chela, corno, o anche lancia, spada e ogni altra arma o strumento: tutto ciò può essere perché tutto può afferrare e impugnare».23

Con il progressivo miglioramento della coordinazione mano-occhio-cervello l'agire tecnico si è evoluto fino a determinare una condizione "di ritorno" sulle caratteristiche umane. Di conseguenza, se è vero che le capacità e le possibilità psico-fisiche dell'uomo sono state il motore primo dell'agire tecnologico è parimenti vero che, da un certo momento in poi, l'agire tecnologico ha influito su quelle stesse capacità psico-fisiche che ne erano state il motore primo. E la mano, oltre ad essere strumento di intervento nel mondo è, per l'uomo, anche strumento di conoscenza di se medesimo: solo attraverso quest'arto, infatti, l'uomo tocca se stesso e nel toccarsi si conosce; solo attraverso la mano l'uomo tocca altri uomini instaurando una relazione di tipo conoscitivo e comunicativo.

La mano, infine, consente l'oggettivazione del mondo attraverso l'uso di utensili che mediano il rapporto tra il mondo esterno e l'uomo, modificandolo profondamente. In questa prospettiva gli artefatti tecnologici non sono per nulla sostitutivi e compensativi di una manchevolezza, ma protesi che amplificano caratteristiche già possedute in potenza.

Della teoria di Gehlen, in Popitz, rimane solo l'idea di rafforzamento dell'organo, e ne vengono -- invece --

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escluse le ipotesi di sostituzione ed esonero: «la lancia non ha esonerato dalla caccia agli orsi ma l'ha resa al contrario possibile, e questo con grande sforzo degli organi».24

Insomma, non ci spostiamo in aereo perché non abbiamo le ali; lo utilizziamo perché siamo stati in grado di pensarlo, progettarlo, costruirlo, farlo funzionare; e l'aereo non sostituisce un organo di cui eravamo privi, ma apre nuove possibilità di confronto con il mondo esterno.

L'agire tecnologico è, pertanto, una trasformazione antropocentrica di ciò che è naturalmente dato fino alla creazione delle macchine che, quasi avessero una capacità tecnologica al quadrato, conducono ad una eterodeterminazione sull'uomo che le ha create: «l'effetto antropocentrico dei processi tecnologici si interrompe con la tecnologia delle macchine. L'opera della costruzione delle macchine è elevata espressione della capacità umana di riplasmare il dato a misura d'uomo [...] e nel contempo, proprio con questa creazione, viene messa al mondo una nuova entità, un nuovo processo in modo definitivo e prima inimmaginabile, espone l'uomo a una eterodeterminazione per mezzo di ciò che ha creato».25

E in questa complessa visione circolare di prodotti che influiscono sui processi Popitz ricostruisce una storia della tecnica scandita da sette tecnologie fondamentali:

1. Tecnologia degli utensili: i primi mezzi di produzione. L'uomo lavora "qualcosa" allo scopo di rendere più adatta la natura di "qualcos'altro". «La produzione di mezzi di produzione è la prima e veracemente fondamentale idea della storia della tecnologia.»26

2. Prima rivoluzione tecnologica: Tecnologia dell'agricoltura (8 000 a.C.): l'uomo diventa produttore dei suoi mezzi di sussistenza, mettendo al proprio servizio processi vitali che riguardano altre creature; plasma la natura organica. «Il contadino lavora la natura in modo tale che la natura lavori per lui -- e questa è l'idea fondamentale della nuova tecnologia»27

3. Tecnologia della ceramica e metallurgia (6 000 a.C.): l'uomo produce direttamente il materiale tecnico di cui necessita; forgia la natura inorganica. «L'agire tecnologico produce d'ora in poi non solo la forma degli artefatti ma anche la natura del materiale di cui quelli sono fatti.»28

4. Tecnologia dell'edilizia urbana (3 000 a.C.): l'organizzazione orizzontale e verticale delle città determina cambiamenti sociali di enorme portata: l'architettura della città è un'architettura del potere, cui si vanno affiancando attività sempre più specializzate di produzione, immagazzinamento e scambio di merci. L'uomo acquista il potere di modificare tecnologicamente se stesso.

5. Seconda rivoluzione industriale: Tecnologia delle macchine (a partire dalla seconda metà del XVIII secolo): con la produzione delle macchine si innescano due tendenze principali: l'aspirazione sempre più marcata all'efficienza e l'autopoiesi delle macchine stesse.

6. Tecnologia della chimica (prima metà del XIX secolo). 7. Tecnologia dell'elettricità (seconda metà del XIX secolo).

Considerata complessivamente, questa evoluzione è una sequenza di attività atte a trasformare antropocentricamente la realtà. Ogni innovazione tecnologica, per l'Autore, non determina solo un salto quantitativo nella capacità produttiva dell'essere umano, genera anche un salto di natura qualitativa: ogni innovazione tecnologica cambia il posto dell'uomo nel mondo: «la storia della tecnica è la storia della atropo-centrizzazione della Terra».29

Sebbene la ricostruzione storica proposta, tanto dal punto di vista cronologico quanto a livello interpretativo,30 possa essere opinabile, essa offre un'utile prospettiva di lettura intorno al ruolo della tecnologia vista non come strumentale all'evoluzione umana, ma come sostanziale. La tecnologia è il cuore del progressivo accomodamento culturale dell'uomo, della sua capacità di organizzarsi culturalmente nel mondo trovando via via nuovi assetti, di trovare la propria specifica posizione in un mondo che è sempre più capace di controllare e prevedere, dotandolo di un senso e di un significato.

Dunque, nonostante le differenze, anche per Popitz così come per Gehlen la storia della tecnica è storia dell'uomo stesso e della sua cultura e, contemporaneamente, è espressione di una connaturata predisposizione ad agire, perseguendo lo scopo di razionalizzare il mondo e la propria posizione in esso, anche producendo ciò che in natura non è dato: l'artefatto. Eppure, le interpretazioni che costringono l'agire tecnico nel solo campo produttivo sono riduttive, sia che si consideri l'innovazione tecnologica quale il motore dei cambiamenti socio-economici, sia che si interpreti -- di contro -- come una conseguenza di un radicale cambiamento sociale ed economico, l'agire tecnico è intimamente legato all'organizzazione sociale ed economica e alla rappresentazione che un determinato gruppo umano ha di se stesso.

Pare perciò plausibile poter affermare che l'opposizione natura-cultura trovi nell'agire tecnologico il canale di comunicazione, di scambio e di reciproca influenza.

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3. Le tecnologie culturali

Tanto è complessa la trattazione antropologica della tecnologia che Haudricourt preferisce definirla "scienza umana", auspicando che possa determinarsi una disciplina autonoma a cavallo tra storia ed etnologia all'interno della quale ricostruire storicamente lo sviluppo degli oggetti materiali e del loro utilizzo.31 Prospettiva, questa, che conforta l'ipotesi iniziale secondo cui il "sapere puro" e il "sapere pratico" sono distinguibili formalmente a scopo conoscitivo, ma non sostanzialmente come capacità metodologiche, potenzialità euristiche e contenuti valoriali. Al contrario, "sapere puro" e "sapere pratico" sono così profondamente e intimamente inter-connessi da aver trovato nelle tecnologie della parola uno dei nodi comuni più pervasivi della produzione culturale umana.

Platone, padre di tutti gli idealismi, intendeva difendere il percorso conoscitivo che conduceva alla Verità dalle false opportunità offerte dalla scrittura tanto da far dire al "suo" Socrate, nel Fedro:

Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l'intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi.32

Sicché, per Platone, la scrittura non era in grado di poter sostenere il peso della Verità; non poteva in alcun modo condurre ad essa, come invece potevano fare i discorsi e i dialoghi sostenuti da una logica dialettica. Eppure, oggi, mentre non si può citare Socrate si può invece riportare il pensiero platonico: contraddizione insita nell'opera del grande maestro che mentre denigrava la scrittura la utilizzava per i propri dialoghi, al contrario di Socrate del quale nulla ci è pervenuto. Ma al di là dell'atteggiamento contraddittorio, importante è valutare come uno strumento tecnologico, un mezzo di comunicazione -- il discorso orale o il discorso scritto -- venga considerato da un filosofo classico come influente sulla correttezza del metodo da utilizzare nella ricerca della verità. Per Platone, la parola orale poteva condurre alla sapienza, al contrario della parola scritta, perché colui che ha intenzione di trattare di cose d'impegno «non le scriverà con intenzioni serie nell'acqua nera, seminandole mediante la penna con parole che non possano parlare a propria difesa, né possono insegnare in modo sufficiente il vero».33 La scrittura, dunque, per Platone non è strumento di verità. E nonostante ciò l'Autore, a sua insaputa, ne individua una condizione valoriale importante: la verità può dipendere dalla tecnologia che si utilizza per la sua ricerca, trasmissione, diffusione; lo strumento comunicativo ha "qualcosa" a che fare con l'idea di verità, è ad essa collegata al punto che ne può determinare la procedura e l'esito. La parola orale dà forma alla Verità, la sostanzia; cosa a cui il discorso scritto non può accedere, che gli è preclusa. Platone pensava alla parola scritta come ad un artificio esterno all'uomo e alla sua connaturata aspirazione e capacità conoscitiva, mentre -- con tutta probabilità -- pensava alla parola orale come strumento naturale del metodo dialettico, metodo conoscitivo per eccellenza.

Esiste da sempre, quindi, una opposizione fra oralità e scrittura di natura non solo strumentale, ma -- per così dire -- gnoseologica: legata all'idea di verità conoscibile e di organizzazione culturale della stessa. Questa opposizione è stata mirabilmente descritta da Ong come segue: «pensare alla tradizione orale o a un'eredità di forme, generi e stili orali come a una "letteratura orale" è lo stesso che pensare ai cavalli come a delle automobili senza ruote».34

Anche la parola scritta, dunque, è una tecnologia che al pari degli utensili, dell'agricoltura e della chimica ha determinato profondi cambiamenti di natura socio-culturale ma anche di tipo gnoseologico e cognitivo. Per Ong, la parola, al pari delle altre tecnologie, è contemporaneamente naturale e artificiale: «le tecnologie sono artificiali, ma -- di nuovo il paradosso -- l'artificialità è naturale per gli essere umani».35 Ancora una volta, l'ossimoro nature artificielle pare ben adattarsi a sintetizzare l'essenza antropologica dell'umano. Ma proprio perché così legate alla natura umana, le tecnologie, e in specie quelle della parola, non sono solo aiuti esterni e neutri, ma comportano cambiamenti che, da questo Autore, vengono identificati in trasformazioni delle strutture mentali.

Fino ad ora, con Gehlen e Popitz, è stato evidenziato il rapporto di reciprocità tra innovazione tecnologia e innovazione socio-culturale-economica, così da poter dimostrare un certo grado di reciprocità tra struttura tecnologica e sovrastruttura culturale. Seguendo le ipotesi e le dimostrazioni di Ong possiamo aggiungere anche il fattore cognitivo. Non che Popitz lo avesse escluso totalmente, ed infatti rintraccia nel circuito mano-cervello-occhi un dispositivo regolatore della capacità tecnico-organica, al punto da affermare che il

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cervello e il corpo degli ominidi hanno sudato gli utensili prodotti innescando un circolo così strutturato: «quanti più utensili l'uomo produceva [...] tanti più modelli di forme doveva ricordare [...]. Quanto più difficili sono diventate le forme degli utensili, tanto più gli occhi dovevano imparare a vedere anche piccole differenze e a guidare corrispondentemente il movimento della mano. [...] Quanto più complesso diventava il movimento della mano nell'utilizzare arnesi, tanto più bisognava dominare le capacità motorie della mano e collegare l'uno con l'altro i singoli movimenti arbitrari».36 Anche in Popitz, perciò, è presente un'attenzione allo sviluppo delle capacità cognitive e senso-motorie in relazione all'utilizzo di artefatti tecnici. Ma Ong va oltre: non solo l'artefatto innesca, sollecita e sviluppa capacità e abilità nuove da un punto di vista fisiologico; anche il pensiero tecnologico modifica cognitivamente l'umano determinando nuove forme di organizzazione del sapere. Tanto ha potuto l'introduzione della parola scritta, tanto ha potuto l'introduzione della stampa.

In concomitanza con l'esordio della scrittura si ha un cambiamento cosmologico, non è una nuova tecnologia che si affianca alla precedente migliorandone alcuni aspetti quanto piuttosto una nuova tecnologia che smantella l'ordine costituito intorno alla precedente. Le culture orali e quelle chirografiche, infatti, sono tra loro -- per dirla con Feyerabend -- incommensurabili, non hanno cioè punti in comune sulla base dei quali poter operare una comprensione per analogia o similitudine. Piuttosto, è un "nuovo mondo" che sostituisce quasi per intero il precedente, una psicodinamicità diversa e non complementare, una nuova organizzazione del pensiero. La tecnologia della scrittura, non considerata né da Gehlen né da Popitz, costituisce -- invece -- per Ong l'invenzione che più di tutte le altre ha trasformato la mente umana perché «non si tratta di una semplice appendice del discorso orale, poiché trasportando il discorso dal mondo orale-aurale a una nuova dimensione del sensorio, quella della vista, la scrittura trasforma al tempo stesso discorso e pensiero».37

Forme del linguaggio e forme del pensiero, dunque, si modificano reciprocamente, così come già Platone aveva intuito; l'oralità delega il significato al contesto e alla riproduzione mnemonica di se stessa e della propria cultura; la scrittura, invece, affida il significato al linguaggio stesso, puntando sulla precisione e puntualità terminologica.

Con l'avvento della stampa, altra tecnologia della parola, si giunge alla nascita dei grandi bacini culturali in cui si deposita il passato, la tradizione, la storia: nascono i saperi "enciclopedici", nascono i cataloghi, gli indici e i vocabolari. La stampa presuppone che le parole siano "cose" ancor più di quanto non abbia fatto la scrittura amanuense, che siano infinitamente riproducibili uguali a se stesse. In questa caratteristica, nella riproducibilità tecnica della scrittura, Ong individua uno dei fattori che contribuirono alla nascita della scienza moderna:

Una delle conseguenze di questa esatta riproducibilità fu la nascita della scienza moderna. Non che prima non si praticasse l'osservazione esatta: per secoli essa era stata essenziale alla sopravvivenza, ad esempio fra i cacciatori e gli artigiani. Ma, carattere distintivo della scienza moderna, è l'unione tra osservazione esatta e verbalizzazione esatta, vale a dire, una descrizione verbalmente formulata in modo preciso degli oggetti e dei complessi processi osservati [...] Le tecniche della stampa e della verbalizzazione esatta si dettero vicendevole impulso: il mondo poetico ipervisualizzato che ne derivò, fu qualcosa di completamente nuovo. Gli scrittori dell'antichità e del Medioevo non erano affatto in grado di descrivere con esattezza oggetti complessi, come avverrà invece dopo l'invenzione della stampa, e ancor più in epoca romantica, cioè nell'età della rivoluzione industriale.38

E sulla reciproca influenza tra tecnica di comunicazione, capacità cognitive e struttura del sapere insiste Ong anche quando, descrivendo i caratteri propri delle culture orali in opposizione con quelle chirografiche, affronta l'analisi dell'Odissea sulle tracce delle osservazione proposte da studiosi precedenti e allorché riporta i racconti di esperienze etnografiche, definendo così le caratteristiche psicodinamiche dell'oralità. Fra i dati di maggior interesse, riportati con dovizia di particolari e attinti dalle ricerche di Lurija,39 l'incompetenza dei soggetti illetterati (orali) a riconoscere categorie logiche formali: «una cultura orale semplicemente non riesce a pensare in termini di figure geometriche, categorie astratte, logica formale, definizioni, o anche descrizioni inclusive o auto-analisi articolate che derivano tutte non semplicemente dal pensiero in sé ma dal pensiero condizionato dalla scrittura».40

4. Pensare criticamente le tecnologie

Gehlen, Popitz e Ong confermano l'idea di partenza secondo cui l'agire tecnico ed il pensiero tecnologico sono fatti totali, che -- come ebbe a dire Haudricourt a proposito degli oggetti materiali -- se studiati correttamente si trascinano dietro l'intera società. Non che, a nostro avviso, siano necessariamente il punto privilegiato da cui guardare l'evolversi dei modelli di pensiero e sociali, ma certamente guardando l'oggetto si può intravedere il valore culturale dello stesso, contestualizzandolo nella triplice relazione citata in

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apertura tra sapere tecnologico, valore della tecnologia e contesto sociale che è il modello interpretativo proposta dal tecnologo Pacey per definire la cultura della tecnologia.41 Operazione, questa, tanto più importante nella contemporaneità in cui gli artefatti tecnici sono estremamente diffusi ed il loro carattere di apparente naturalità è ancora perfettamente integro, seppur -- come dimostrato -- palesemente improbabile. Diversamente, decontestualizzare la tecnologia assumendola come neutra, come un compartimento stagno di un più ampio quadro culturale con il quale non sussistono relazioni e scambi se non di natura strumentale è un errore interpretativo che svilisce tanto il ruolo della tecnologia quanto l'orizzonte culturale, paventando il danno di non saper guardare oltre il fatto tecnologico in sé e per sé escludendolo, così, dal movimento dialettico che lo vede in costante relazione con i fatti sociali, inclusi quelli di portata etica e politica. Lo stesso Popitz, nel volume Fenomenologia del potere, ha incluso il rapporto tra tecnica e potere dedicandovi un intero capitolo (L'agire tecnico) e sebbene la sua riflessione fosse esplicitamente dedicata agli artefatti materiali e agli strumenti di violenza e controllo la sua affermazione secondo cui «in linea di principio ogni modificazione tecnica può diventare un atto di esercizio del potere»42 a noi pare la conferma che il nesso rilevato sia estensibile anche ad altri campi dell'agire tecnologico tanto nella fase propriamente creativa quanto nell'uso finalizzato della tecnologia.

In particolare, in questa sede ci interessa riflettere sulle tecnologie della comunicazione perché offrono l'occasione di affrontare il portato politico dell'agire e del pensare tecnologico. Se è vero, come affermiamo, che la tecnologia influenza l'individuo nel proprio agire individuale e collettivo, nella rappresentazione di sé, degli altri e del mondo ciò non può essere disgiunto dalla organizzazione e dalla gestione del potere, tanto più all'interno del campo delle tecnologie della comunicazione che possono essere affrontate a partire da un assunto interpretativo rintracciabile nel pensiero filosofico da Bacone in poi secondo cui sapere è potere.

Non c'è dubbio che le tecnologie della comunicazione, da sempre, influenzano la fenomenologia del potere e ne determinano le forme; ciò nonostante non esiste una relazione univoca, deterministica fra tecnologia e potere, così come non esiste un nesso deterministico fra tecnologia e organizzazione sociale, disposizione cognitiva, organizzazione culturale. In conclusione: nonostante il valore centrale dell'agire tecnologico questo non è soggetto a corrispondenze deterministiche fra cause ed effetti perché la tecnologia può essere motivo dello sviluppo umano, ma certamente ne è anche effetto; perché i processi influiscono sui prodotti, ma anche i prodotti influiscono sui processi.

Il determinismo tecnologico, insomma, non è un utile paradigma interpretativo perché non esiste un nesso causale fra i tre ambiti di cui è composta la cultura tecnologica; anche la visione forte di Braudel, per cui «tutto è tecnica» è contestualizzata dall'Autore stesso come segue: «un'innovazione ha significato soltanto in relazione alla spinta sociale che la sostiene e la impone»43 che ne amplifica i fattori di indeterminatezza e le possibilità di evoluzione non predeterminata. Anche Bloch lega il fattore tecnologico alla reazione sociale in cui e da cui è determinato perché «l'invenzione non è tutto. È necessario che la collettività l'accetti e la propaghi»44 e, aggiungiamo noi, concorra a determinarne gli esiti.

Dunque, sebbene le relazioni siano sempre più complesse rispetto a quelle pensate all'interno di una visione deterministica della realtà, esiste un nesso innegabile tra tecnologie della comunicazione, potere ed etica. Seguendo un semplice ragionamento non è pretestuoso affermare che se il sapere è potere e le tecnologie sono, come dimostrato, forma pratica e teorica del sapere, le tecnologie sono potere. Zavoli, nella sua Lectio Magistralis presso l'Università degli Studi di Roma Tor Vergata così si esprime in proposito alle tecnologie della comunicazione: «è diffusa l'idea secondo cui, oggi, l'informazione non è più il "quarto potere" dei tempi andati, ma quello che, per la sua globalizzazione e velocità, condiziona le cose del mondo allo stesso modo, ormai, dell'economia. E il fatto d'essere un nuovo sapere, implica, per ciò stesso, l'acquisizione di un nuovo potere. Talché, azzarda qualcuno, oggi si vincono più battaglie usando i media, che tessendo diplomazie politiche e finanziarie».45

E l'analisi della relazione tra tecnologia e potere è solo apparentemente una questione ideologica, dimostrandosi, al contrario, un aspetto fondamentale per la comprensione dei legami fra tecnologia e cultura dell'umano da cui siamo partiti. Non a caso la ricostruzione storica della società dell'informazione proposta da Mattelart dimostra come le tecnologie della comunicazione e dell'informazione siano tecnologie del potere e come ne determinino gli esiti, la fenomenologia, gli usi e gli abusi.46 Tutte le tecno-utopie sottendono più o meno implicitamente una visione dell'uomo e del suo intrinseco "valore" a partire dal quale si pratica una particolare forma di tecnologia finalizzata (anche) alla gestione del potere. Così è stato, per esempio, con Bacone e Leibniz che avevano visto nella costituzione e condivisione di una lingua universale la possibilità di crescita di tutto il genere umano. Bacone aspirava alla composizione di una lingua filosofica, a priori, capace di liberare la scienza dagli idola di cui era intrisa, rifondandola così sulla base di un alfabeto del pensiero umano in grado di render conto dell'oggettività della ricerca empirica. Leibniz, in una prospettiva diversa, espressamente religiosa, tesa ad un ecumenico cosmopolitismo, desiderava la medesima condivisione di una lingua capace di far intendere tutto il genere umano.

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La lingua, dunque, come tecnologia della parola capace di far progredire l'umanità nella conoscenza, nella pace, nella concordia, insomma in una storia ormai accettata come progressiva e migliorista.

E così è, oggi, con l'ideale di intelligenza collettiva che è: «un'intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze»47 perché è democraticamente costituita in una comunità, in un collettivo spontaneo il cui progetto comporta ed aspira ad un nuovo umanesimo in cui si passa dal cogito cartesiano al cogitamus, ma che «lungi dal fondere le intelligenze individuali in una sorta di magma indistinto» è un processo di crescita di differenziazione e di reciproco rilancio delle individuali specificità.48 Così la democrazia diretta è praticabile a partire dalle tecnologie che la consentono: «la democrazia rappresentativa può essere considerata come una soluzione tecnica alla difficoltà di coordinamento. Ma nel momento in cui si presentano soluzioni tecniche migliori, non c'è alcuna ragione per non prenderle seriamente in considerazione».49 E fa un certo effetto paragonare questa affermazione a quella di Vandermonde che non poco tempo prima, nel 1795, scriveva: «molti uomini rispettabili, tra i quali va annoverato Jean-Jacques Rousseau, hanno ritenuto che l'istituzione della democrazia fosse impossibile presso i grandi popoli. Come infatti il popolo potrebbe decidere tutto insieme? [...] L'invenzione del telegrafo è un elemento nuovo di cui Rousseau non ha potuto tener conto nei suoi calcoli. Esso può servire a parlare a grandi distanza tanto speditamente e tanto distintamente come in una sala»;50 seguendo esattamente lo stesso ragionamento del suo successore e considerando, al suo pari, lo strumento tecnologico come portatore autonomo di valori intrinseci.

Una credenza molto diffusa è che la tecnologia, di per sé, sia neutra e che il valore positivo o negativo non risieda mai nella tecnologia stessa, ma nella contestualizzazione del suo uso. Questa credenza è solo parzialmente vera, infatti l'invenzione, l'innovazione tecnologica non è mai il frutto isolato del lavoro geniale di un individuo ma è il risultato di una stratificazione anche non lineare di saperi che la rendono possibile. Quale frutto del suo tempo e del suo spazio la tecnologia ne eredita i valori e, contemporaneamente, tende a modificarli attraverso processi lunghi e, per lo più, imprevedibili. Sicché la tecnologia non è neutra, ha un proprio orizzonte valoriale che, come detto, riflette e determina una visione particolare dell'uomo e del suo posto nel mondo e nel cosmo. Insomma, un medesimo strumento può determinare effetti diversi in dipendenza dalle variabili proprie della specifica cultura tecnologica.

Ed in questo senso è interpretabile la polemica serrata di Mattelart alle tecno-utopie figlie del determinismo tecnologico che viene così giudicato dall'Autore:

Il determinismo tecnomercantile genera una modernità amnesica e priva di progetto sociale. La comunicazione senza fine e senza limiti si autonomina erede del progresso senza fine e senza limiti. Se la memoria non ci inganna, assistiamo al ritorno in auge di un'escatologia di carattere religioso che trae ispirazione dalle profezie sull'avvento della noosfera. [...] La società delle reti è dunque ben lontana dall'aver posto fine all'etnocentrismo delle età imperiali. Più che risolvere il problema, la tecnologia lo sposta. Mentre rimane sul tappeto la questione più lacerante: come concepire e rendere operanti altri modelli di sviluppo?51

La tecnologia, perciò, non è di per sé un sapere neutro ma non è neppure intrinsecamente determinato, tanto più se intorno all'uso della tecnologia, e nello specifico delle tecnologie della comunicazione e dell'informazione, le riflessioni di più ampio respiro cercano anche un indirizzo di natura etica, come nel caso di Mattelart che afferma in apertura del suo volume che una diversa società dell'informazione è possibile; o come nel caso del citato giornalista Zavoli che, distinguendo fra informazione e comunicazione, auspica che una riflessione sugli strumenti mediatici e, specificatamente, sul giornalismo non si riveli sempre più povera di attenzione alle conseguenze etiche e ai principi deontologici perché «non è solo questione di essere culturalmente pronti a ciò che cambia, ma anche eticamente capaci di adeguare le scelte ai principi. [...] Non saranno le parvenze a farci diversi, ma la percezione e la coscienza di ciò che, cambiando, ci cambia; e sapendo che domani si potrà ancora cambiare questo mondo cambiato. Cambiato anche da noi, i cosiddetti comunicatori».52

Il carattere "partigiano" della tecnologia è legato, perciò, al contesto culturale in cui viene pensata e alle modificazioni che produce nel medesimo contesto culturale in conseguenza al suo uso, alle sue interpretazioni e alle conseguenze sociali e cognitive che comporta. Ancora, la tecnologia non è neutra perché è intimamente legata alla trasmissione del sapere, come afferma Mauss, che è connessa alla trasmissione del potere. «Non esiste tecnica né trasmissione, se non c'è tradizione. È in questo che l'uomo si distingue, prima di tutto, dagli animali: per la trasmissione delle sue tecniche [...].»53

Inevitabilmente la trasmissione del sapere sposta la riflessione su temi più squisitamente pedagogici ed educativi.

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5. Conclusioni

Tentare conclusioni su temi di così vasta portata è sempre un'impresa ardua, di necessità soggetta al monito crociano del dire ciò che si sa e si può. Come tale, è sempre un'operazione provvisoria e settoriale, in mutamento e soggetta ai cambiamenti interni al proprio tempo.

Fino ad ora si è tentato di dimostrare come l'agire tecnologico sia naturalmente connaturato all'essenza dell'umano, tanto che si guardi a questa relazione come a una mancanza organica, tanto che vi si guardi come a una specifica capacità umana si può giungere alla conclusione che l'agire tecnico è uno dei veicoli principali delle determinazioni culturali dell'umano, per il quale nulla è più naturale della tecnica. Ovviamente, in questa affermazione si cela il paradosso di considerare la natura umana come qualcosa di artificiale per definizione; di culturale per precostituita determinazione. Antropologia della tecnica e cultura della tecnologia non sono, perciò, alternative l'una all'altra, piuttosto si è dimostrato come siano complementari: l'uomo è antropologicamente determinato nel suo stare nel mondo attraverso l'agire tecnico e questo comporta una progressiva costruzione di una cultura tecnologica, intendendo con ciò una complessità di aspetti (di cui si è detto) che la fanno progressivamente coincidere con una cultura della tecnologia. Non dualismo, dunque, ma funzionalità reciproca capace di risanare anche la spaccatura, dimostrata inconsistente, fra sapere puro e sapere tecnico. La distinzione fra téchne ed epistéme non trova oggi, almeno a nostro avviso, argomentazioni valide per la sua perpetrazione.

Insomma, la tecnologia è una forma di conoscenza e di sapere che non può essere compresa a partire da una gerarchizzazione disciplinare proprio perché si è dimostrata connaturata alla natura dell'uomo, trasversale ai diversi saperi e in reciproco rapporto con le costruzioni culturali storicamente determinate; e proprio nel riconoscerla legittima detentrice di capacità conoscitive e, perciò stesso, legata alle molteplici determinazioni culturali dell'umano, la tecnologia mostra il suo legame con il potere, proprio in quanto forma di sapere. Per ciò stesso la tecnologia non è neutra e una riflessione sulla sua natura non può prescindere da considerazioni valoriali, quando non etiche.

Come affrontare, dunque, il ruolo delle tecnologie all'interno dei processi formativi se non a partire da questa complessità? In primis perché il sapere tecnologico, nella formazione, è tanto oggetto quanto soggetto di istruzione ed educazione: si tramanda sia l'essenza del sapere tecnologico sia la sua forma, cioè tramandare la cultura è tramandare forme di sapere organizzate tecnologicamente (la sostanza) attraverso apparecchiature tecniche (la forma).

Eliminare tale complessità dai processi di formazione è certamente una scelta pericolosa perché depriva i "tecnici" del valore propriamente più culturale del loro sapere e -- contemporaneamente -- depriva i "teorici" della possibilità di orientare i processi tecnologici intervenendo nella pratica.

Per tutto ciò, e davvero in conclusione, sposiamo la posizione "formativa" di Fieri che afferma:

La tesi che vogliamo sostenere è piuttosto forte: tutti, anche le persone più distanti dalla produzione e dall'utilizzazione di oggetti tecnici, dovrebbero possedere, in qualche misura, una cultura della tecnologia con tutte e tre le sue dimensioni.

[...] Un alto livello di intellettualità dei tecnici non è solo un elemento di civiltà, ma la condizione per agire in modo più efficace e, probabilmente, più innovativo.

I fruitori hanno bisogno, come è ovvio, di buone competenze d'uso, specialmente se sono utilizzatori di utensili sofisticati. In qualche misura debbono conoscere anche i paradigmi di base della scienza tecnologica. Ma hanno soprattutto bisogno di dare un senso all'uso degli oggetti tecnici, e questo richiede una forte consapevolezza del contesto e del valore della tecnologia, almeno in relazione al proprio raggio d'azione.

Quale che sia il rapporto dei singoli con le tecnologie, essi sono cittadini, che debbono partecipare nel modo più attivo e consapevole possibile alle scelte della loro comunità, e persone che hanno bisogno, per sviluppare le proprie potenzialità culturali, di comprendere tutti gli aspetti rilevanti del mondo che li circonda. Questa è la ragione per cui, oltre a una forte consapevolezza del contesto e dei valori, tutti dovrebbero conoscere i principi di base delle tecnologie e sviluppare almeno la voglia di scoprire come funzionano gli oggetti tecnici.54

Note

1. Etimologicamente il termine metafisica deriva da metà tà physiká: ciò che sta oltre il mondo della realtà sensibile, fisica. Il termine venne coniato non da Aristotele ma da Andronico di Rodi, suo editore, per indicare i libri che venivano dopo la Fisica. Con il tempo però il termine assunse un valore metaforico fino ad indicare il

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tema dell'essere in quanto essere, di cui trattavano i volumi in oggetto, ed il suo utilizzo si diffuse con tale significato.

2. Aristotele, Etica Nicomachea, VI (�), 4-5, 1140a, 20, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 144.

3. Cfr. A. Pacey, The Culture of Technology, MIT Press, Cambridge, MA, USA 1992; in Italia M. Fierli, La cultura della tecnologia, in TD -- Tecnologie didattiche, n. 1, 2005, pp. 13 - 21.

4. A. Gehlen, L'uomo nell'era della tecnica, Armando Editore, Roma 2003, p. 33.

5. E. B. Tylor, Primitive Culture, J. Murray, London 1871.

6. Cfr. P. Rossi, Introduzione, in P. Rossi (a c. di), Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, Einaudi, Torino 1970, pp. VII-XXXI.

7. B. Malinowski, Voce: Cultura dell'Enciclopedia delle Scienze Sociali, in P. Rossi (a c. di), Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, op. cit., p. 136. Pur nelle differenze di pensiero una posizione simile è espressa da Mauss che afferma, con riferimento alle tecniche del corpo: «era un modo acquisito, non un modo naturale di camminare. Insomma, nell'adulto, non esiste forse un "modo naturale"». M. Mauss, Teoria generale della magia, Einaudi, Torino 1991, p.390.

8. Ibidem.

9. H. Popitz, Fenomenologia del potere, il Mulino, Bologna 1990, p. 104.

10. Letteralmente "al di fuori del corpo", in questa sede indica un organo "esterno" all'uomo che risponde alle sue mancanze organiche attraverso la costruzione di artefatti tecnici. Il termine si contrappone a endosomatico.

11. A. Gehlen, L'uomo nell'era della tecnica, op. cit., p. 33.

12. Ivi, p. 41.

13. Ivi, p. 40.

14. E. De Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995, p. 147.

15. Ivi, p. 163.

16. Cfr. E. De Martino, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, Argo, Lecce 1997.

17. A. Gehlen, L'uomo nell'era della tecnica, op. cit., p. 42.

18. M. Sahlins, L'economia dell'età della pietra, scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980, p. 88.

19. H. Popitz, Verso una società artificiale, Editori Riuniti, Roma, 1996

20. Ivi, p. 42.

21. Cfr. F. Ferrarotti, Prefazione, a H. Popitz, Verso una società artificiale, op. cit., pp. IX-XV.

22. H. Popitz, Verso una società artificiale, op. cit., p. 5.

23. Aristotele, Parti degli animali, IV (�), 10, 687a-b, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 128. Per un confronto in merito fra i filosofi classici fino a Giordano Bruno cfr. F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Liguori, Napoli 2006, pp. 214-221.

24. H. Popitz, Verso una società artificiale, op. cit., p. 41.

25. Ivi, p. 23.

26. Ivi, p. 13.

27. Ivi, p. 16.

28. Ibidem.

29. Ivi, p. 9.

30. Per esempio, sullo stesso tema si confrontino le opinioni alternative di J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 2000. Specificatamente, con riguardo all'organizzazione dello spazio umano pre-urbanistico cfr. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1975 in cui l'Autore mostra come una tecnologia "del potere" e dell'autorappresentazione di sé fosse gia presente nelle strutture dei villaggi di molti popoli etnografici. Ancor prima, diversi autori si sono confrontati sulla storia della tecnica, specificatamente M. Daumas, Le grandi tappe del pensiero tecnico, Armando, Roma 1983 propone una storia "interna" della tecnica come un insieme coerente di tappe evolutive sulle quali nessuna, o poca, influenza hanno avuto le condizioni socio-economiche. Di contro, L. Febvre, Réflexions sur l'Histoire des techniques, PUF, Paris 1962 sostiene nella sua ricostruzione della storia del mondo materiale che lo spirito dell'epoca influisce notevolmente sull'evoluzione tecnica e viceversa. Ciò nonostante, fra gli storici della tecnica, ha prevalso l'idea che la storia della tecnica possa essere ricostruita da una prospettiva interna alla tecnica stessa in un'ottica di "autosufficienza" rispetto alla storia generale per

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passare, solo in un secondo momento ed eventualmente ad una ricerca comparativa tra evoluzione tecnica ed evoluzione storica complessivamente intesa.

31. André-Georges Haudricourt, La Technologie science humaine, Éditions de la Maison des science de l'homme, Paris 1987

32. Platone, Fedro, 275d-e, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 275-276.

33. Ivi, 276d, p. 277.

34. W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986, p. 31.

35. Ivi, p. 124.

36. H. Popitz, Verso una società artificiale, op. cit., p. 53-54. Corsivi nel testo.

37. W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, op. cit., p. 126-127.

38. Ivi, p. 180-181.

39. A. R. Lurija, Storia sociale dei processi cognitivi, Giunti Barbera, Firenze 1976.

40. W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, op. cit., p. 86.

41. Cfr. nota n. 3.

42. H. Popitz, Fenomenologia del potere, op. cit., p. 110.

43. F. Braudel, Civiltà materiale, economia, capitalismo, Einaudi, Torino 1976, p. 253.

44. M. Bloch, Technique et évolution sociale : réflexions d'un historien, in Mélanges historiques, Sevpen, Paris 1963, p. 837.

45. S. Zavoli, Lectio Magistralis: Un sapere e un potere nuovi, 26 marzo 2007, Università degli studi di Roma Tor Vergata, Facoltà di Lettere e Filosofia.

46. A. Mattelart, Storia della società dell'informazione, Einaudi, Torino 2002.

47. P. Lévy, L'intelligenza collettiva. Per un'antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1998, p. 34.

48. Ivi, p. 37.

49. Ivi, p. 77.

50. A. Mattelart, Storia della società dell'informazione, op. cit., p. 24.

51. Ivi, p. 145.

52. S. Zavoli, Lectio Magistralis: Un sapere e un potere nuovi, op. cit., p. 31.

53. M. Mauss, Teoria generale della magia, op. cit., p. 392.

M. Fierli, La cultura della tecnologia, op. cit., p. 21.

Mario Zatti

Filosofia naturale del dolore

1. Introduzione

Oltre al male direttamente dovuto all'umana perversità, noi vediamo anche la crudeltà della natura; oltre ai morti sotto le macerie della guerra, vediamo i morti provocati dalla violenza degli uragani o dei terremoti, o dalla malignità di tanta patologia. E non è altrettanto facile per la ragione accettare anche i molteplici volti dell'iniquità di quella stessa natura che con le sue bellezze e il suo ordine parla, a parere di molti, di una

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Divinità creatrice.

Armonia e bellezza sono proprietà di questo mondo, e la bellezza si può trovare persino quando è sicuramente inutile, come nelle forme dei microscopici scheletri dei Radiolari e Foraminiferi che si trovano accumulati nei fondi marini e dei quali esistono migliaia di specie. Le figure ne riportano un esempio (Acanthodermia corona) che nell'ingrandimento ricorda la foggia di una corona regale, e un secondo esemplare (Actissa princeps) in cui si realizza uno dei giochi geometrici di infinite fantasie nella costruzione di capsule, gabbie, spine. (Fotografie dall'American Museum of Natural History Library.)

L'immagine riguarda un caso di errore genetico: sindrome di Roberts, con malformazioni, cecità, deficit mentale (M.V.R. Freeman et al. Clinical Genetics, Munksgaard International Publ., Copenhagen).

Tutte le figure rappresentano aspetti dello stesso creato, da un lato armonia e bellezza, dall'altro malattia e dolore (inutili anche questi?).

Certo l'armonia dell'universo richiede il mutarsi delle sue parti; e Agostino (De Civitate Dei, XX, 2) indica la radice metafisica del male nella deficienza di essere delle realtà temporali. Ma lo stesso Agostino, raccontando della morte del ventenne amico di Tagaste, esprime disperazione, incapacità di dare significato.

È infatti bensì comprensibile che il divenire, l'essere nel tempo, sia già morire, dolere; ma ciò che fa scandalo è «il modo assurdo in cui spesso si muore. Ciò infatti non avviene soltanto per un processo biologico naturale, come vediamo nel frutto maturo quando cade dal ramo: si constata invece nelle circostanze più ripugnanti al nostro senso di pietà».1 È questo l'aspetto del dolore di cui vogliamo occuparci.

«Il tragico [...] è proprio tale in quanto, posta ogni incomprensibile sciagura, mette in crisi il sentimento religioso, destando il sospetto di una sconnessione totale dell'essere [...].»2

2. La risposta darwinista

La risposta darwinista è proprio su questa linea.

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La filosofia naturale quale è suggerita dalla biologia dopo Darwin è infatti prevalentemente una filosofia della disperazione umana. Come diceva J. Monod,

È vero che la scienza attenta ai valori. Non direttamente, poiché non ne è giudice e deve ignorarli; però essa distrugge tutte le ontogenie mitiche o filosofiche su cui la tradizione animistica, [...] ha fondato i valori, la morale, i doveri, i diritti, le interdizioni. [...] L'antica alleanza è infranta; l'uomo finalmente sa di essere solo nell'immensità indifferente dell'Universo da cui è emerso per caso.3

E in effetti la coesistenza dell'armonia e della precarietà non destano meraviglia se vige il regno del caso, se l'Universo è accidentale.

Un saggio più recente della stessa filosofia è quello di D.C. Dennet dove dice: «Darwin ha cambiato per sempre quello che significa domandare, e rispondere, alla questione del Perché». «Non c'è futuro per alcun mito sacro». E cita un passaggio di Locke definendolo il «blocco concettuale» esistente prima della rivoluzione darwiniana... «la Materia non può mai cominciare ed essere; se supponiamo che essa esista ab aeterno come pura e semplice Materia senza Moto, il Moto non può cominciare ad essere; se supponiamo Materia e Moto preesistenti o eterni, il Pensiero non può mai cominciare a essere».4 Darwin dice invece: datemi tempo, e io vi produrrò evoluzione, complessificazione, disegno, pensiero, attraverso l'opera della selezione tra mutazioni prodotte dal caso.

Nella generalizzazione dell'uso dell'algoritmo (selezione tra varianti equiprobabili) scoperto da Darwin, e divenuto poi, nell'applicazione all'evoluzione prebiologica e cosmologica, «onnivoro» (secondo la definizione dello stesso Dennet), risiede la ragione dell'evoluzione del darwinismo stesso da modello scientifico a filosofia del caso e della necessità. Secondo l'applicazione che ne fa P.W. Atkins «... universi sono continuamente creati e la presente collezioni di universi è infinita». Se ne deduce che è necessario che il nostro apparentemente ordinato universo esista, perché, dice Atkins, «qualunque evento si realizza quale che sia la sua probabilità purché non sia assolutamente impossibile», o in altri termini, la selezione tra infinite varianti è un gioco dal successo sicuro, gioco nel quale l'algoritmo darwiniano sfocia in una sorta di metafisica che è quella dell'infinito materiale in atto.5

Ma con simili ragionamenti, cioè invocando la condizione di tempo e materia infiniti, il concetto di probabilità è annullato, e si può dimostrare tutto (e il contrario di tutto).

Il darwinismo ignora cause interne dell'evoluzione, leggi preferenziali per la stabilità delle strutture senza cui, se anche si formassero, la loro permanenza non si spiega, forme, archetipi, attrattori.

L'integrazione fondamentale, per una teoria dell'evoluzione, richiede la presa d'atto della unità degli insiemi capaci di autoorganizzazione: così, la vita può avere le sue origini in una sorta di cambiamento di fase, improvviso, in cui una rete di molecole, replicantisi in virtù della loro interdipendenza, sorse da un primitivo insieme di reazioni chimiche indipendenti. L'emergenza di comportamenti collettivi tramite azioni di lungo raggio consente la generazione di nuove forme nell'ambito della complessificazione.6 Anche la biologia ritrova in questi concetti la sua specificità, al di sopra del riduzionismo che non permette di uscire da una prospettiva di aggregati di componenti tenuti insieme da accidentali incontri, fortunati nella selezione ambientale. Sfugge a questa prospettiva il significato dell'unità formale, che è oggi compreso e sempre più approfondito dallo studio dei sistemi complessi nella loro interezza.7

La complessità (in senso tecnico) compare nei sistemi non lineari e lontani dall'equilibrio termodinamico (cosiddetti sistemi dissipativi, quali sono anche i viventi). La massima complessità è rappresentabile come quella di una struttura che contiene una quantità di informazioni non comprimibile in un algoritmo, o meglio, descrivibile soltanto da un algoritmo composto di un numero di bits d'informazione comparabile a quello della struttura stessa: la complessità cioè corrisponde alla dimensione del programma di calcolo necessario per descriverla; e si definisce complessità fondamentale quella di una struttura (per es. una sequenza) che non avendo limiti di simmetria, periodicità, ridondanza, ma un ordine aperiodico, possiede per tal modo il prerequisito per il massimo possibile contenuto d'informazione, anche se non si riesce a trovarne un'espressione analitica.

J. Monod, non avendola trovata per la sequenza di aminoacidi di una proteina, ne dedusse la assoluta casualità,8 non tenendo conto della geniale definizione che E. Schrödinger già da tempo aveva dato delle proteine: «cristalli aperiodici».9 La filosofia naturale di Monod è stata capace di lasciare un marchio pesante sulla visione del mondo di molti uomini, di scienza e non; e che pesa tuttora. Nondimeno, quella filosofia ha dei presupposti totalmente erronei.10

Monod esprimeva la sua fede nell'assenza di qualsiasi disegno per la costruzione dell'ordine biologico affermando che il messaggio, pur oggettivamente carico di significato, contenuto nella sequenza di 200 aminoacidi di una proteina, costituita dai 20 diversi tipi di aminoacidi disponibili, è scritto a caso, da un «gioco completamente cieco», dato che conoscendo 199 aminoacidi nessuno potrebbe dire quale viene per

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duecentesimo. Ma questo significa identificare il gioco non cieco con la ridondanza, con la simmetria: viceversa, la simmetria può essere un limite al contenuto d'informazione, come ad es. nel caso di una sequenza omogenea fatta della ripetizione monotona di un solo simbolo e che si caratterizza per il massimo della simmetria, ma non certo per il massimo di intelligenza e creatività. L'equivoco si spiega se si ricorda che la quantificazione matematica di entropia (l'entropia è una misura del disordine ed è il logaritmo del numero dei possibili microstati) è analoga a quella di complessità, e infatti l'incomprimibilità algoritmica del programma d'informazione, richiesto per specificare un sequenza del tutto casuale, trova analogia con l'incomprimibilità di quello richiesto per descrivere una sequenza che si caratterizzi per il massimo di complessità, cioè proprio per l'assenza di limiti di simmetria al contenuto d'informazione (incomputabilità): il messaggio nella proteina non è il prodotto del cieco caso, ma della raggiunta complessità, che trova spiegazione nei principi di autoorganizzazione e nei campi delle forme più che nella sufficienza del tempo di un gioco cieco.11

3. L'ordine come autoorganizzazione

Darwin non avrebbe mai potuto sospettare le stupefacenti potenzialità della materia quando sono presenti sia le dinamiche non lineari che i vincoli di non equilibrio, cioè in quelli che Prigogine ha chiamato «sistemi dissipativi».12

Le mutazioni rendono i fenotipi abbastanza fluidi per cambiare, la selezione implementa prefenzialmente particolari cambiamenti, ma il risultato complessivo, la direzione del flusso evolutivo, è da attribuire come per un corso d'acqua al paesaggio che lo condiziona, pur essendo in questo caso invisibile, paesaggio composto dai potenziali fenotipi più prossimi e condizionato dal contesto, lo spazio degli stati matematico che include non solo ciò che si realizza ma anche quello che sarebbe potuto accadere in alternativa. Questo spazio si fa sentire costringendo le dinamiche potenziali entro il comportamento che effettivamente osserviamo.

Sistemi con microstruttura altamente complessa tipicamente sviluppano macrodinamiche riconoscibili e, come dimostrano alcuni modelli matematici di reti Booleane, la microcomplessità dà luogo a emergente macrosemplicità.13 È per questi motivi che molti aspetti dello sviluppo degli organismi e della loro evoluzione sono profondamente robusti, e il percorso evolutivo assai meno contingente di quanto pensano i darwinisti, perché costretto dalla topologia del proprio spazio delle fasi.

È per questi motivi che l'evoluzione, in tempi relativamente brevissimi, ha potuto costruire la sequenza dei 100 aminoacidi caratteristica del citocromo-c con i 20 diversi tipi di aminoacidi disponibili, scegliendola tra tutte le sequenze teoricamente possibili, e che se si volesse vedere riprodotta per caso facendo un tentativo ogni secondo impiegherebbe 10120 anni per comparire (l'età dell'Universo è dell'ordine dei 1010 anni). Una proteina di 100 aminoacidi assume poi spontaneamente e pressoché istantaneamente una struttura tridimensionale altamente specifica e complessa, capace di una mobilità intramolecolare, che ne condiziona la funzione. È stato calcolato che un super computer che applichi regole plausibili per il ripiegamento molecolare necessiterebbe di 10127 anni (da sommare ai precedenti!) per trovare la forma finale di una tale proteina.14 La natura non trova tanto difficile il problema della computabilità, e anzi appare evidente che gli stati autoorganizzati permessi dalla fisica del non equilibrio vengono prodotti con probabilità uno.

L'ordine da autoorganizzazione risulta da un campo morfogenetico, da archetipi attrattori sia pure attraverso l'instabilità del moto associato alle dinamiche caotiche, che permette al sistema di esplorare il suo spazio delle fasi, trovandovi le forme.15 Ciò significa che la materia, come dice Cramer è «a priori filled with ideas».16 Torniamo al confine con la filosofia, che non è più quella di Monod, ma quella espressa nel titolo dell'ultima opera di Kauffman: At Home in the Universe, libro che chiude con le parole: «In the beginning was the Word».17 Ma se, come s'è detto, l'incomprensibile sciagura non fa problema in una filosofia del caso, altrettanto non si può dire quando si pensa che in principio era la Legge.

Si tratta di un problema di significato, quindi filosofico e non scientifico, ma strettamente implicato dalla dimostrabile incompletezza dell'ordine nella natura, e in particolare in quella biologica. Infatti il riconoscere che le grandi linee dell'evoluzione (prebiologica e biologica) sono segnate da «idee» a priori e quindi dovute a cause interne, indipendentemente dalla selezione, non implica il rifiuto ma soltanto un'integrazione del darwinismo.

4. L'indeterminazione nell'ordine biologico

Caratteristica delle macchine biologiche è di avere strumenti mono-macromolecolari costituiti da delicate e instabili molecole organiche, il che è abbastanza ovvio se si pensa che il loro assetto funzionale se fosse

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decisamente stabile non sarebbe funzionale.

È ben noto che l'indeterminazione quantistica gioca un ruolo su eventi di scala submicroscopica, a livello atomico/molecolare. Se però viene interessata la molecola del DNA, e risulta alterato nel gioco dell'indeterminazione il messaggio genetico in essa contenuto, l'effetto della mutazione molecolare viene amplificato e diviene macroscopico nell'organismo vivente che dipende dal messaggio genetico, scritto e trascritto nell'alfabeto molecolare ma tradotto e riflesso in struttura e funzionamento o malfunzionamento di cellule, tessuti e organi. Questa azione amplificatrice è caratteristica notevole dell'ordine biologico, nella misura in cui il fenotipo dipende dal genotipo cioè dalle macromolecole informazionali.

Ora, la forza dei legami chimici in una macromolecola può variare con le fluttuazioni dell'energia vibrazionale, responsabili di un certo ambito d'incertezza, che consente alle mutazioni di aver luogo imprevedibilmente. Nel processo replicativo del DNA, la catena molecolare che funge da modello deve formare complessi ternari attivati con l'enzima e con una delle 4 basi (nucleotidi), che costituiscono le 4 lettere dell'alfabeto del codice genetico, che vanno montate via via secondo la loro compatibilità con quelle della catena modello. L'accuratezza del processo è dovuta alla specificità dei legami (di tipo intermolecolare) per cui il corretto accoppiamento di una determinata base necessita di una energia di attivazione del complesso ternario minore di quella richiesta per l'accoppiamento di una base sbagliata.

Questa differenza di energia (condizionata anche da vincoli strutturali e superstrutturali del DNA) è in generale superabile, sia pure con scarsa probabilità, dalle fluttuazioni termiche possibili alla temperatura e alle condizioni fisiologiche: può cadere in tal modo il confine dell'ordine codificato preesistente, la barriera contro le mutazioni. Al di fuori delle condizioni fisiologiche, mutazioni possono essere facilitate o indotte da un varietà di «perturbazioni» da parte di agenti chimici e fisici.

I principi comunque implicati nelle mutazioni sono due:

1. la seconda legge della termodinamica, che promuove errori di replicazione quali vie attraverso le quali si accresce la casualità configurazionale, e questo assicura che ci siano mutazioni;

2. l'indeterminazione quantistica dell'energia termica, per le ragioni esposte sopra, e questo assicura che le mutazioni colpiscono a caso.18

Di qui, l'apertura all'evoluzione ma insieme necessariamente al dolore, perché in biologia errore vuol dire dolore, anche nella forma della più incomprensibile sciagura, come la sofferenza e la morte di un bambino.

L'indeterminazione submicroscopica ha più d'un modo per riflettersi su scala macroscopica nel mondo biologico: uno è quello dell'amplificazione che una mutazione molecolare del genotipo subisce nel corso dell'espressione fenotipica del gene mutato; l'altro è proprio dei microeventi statistici che generano una sorta di rumore biochimico accoppiato attraverso una soglia critica a macroeventi cellulari quantali tramite la legge del tutto o niente. Questo secondo meccanismo di comportamento dipendente da fluttuazioni (imprevedibili) entra in gioco quando il numero delle molecole o ioni intracellulari interessati è relativamente basso, non se esso è superiore a 60.000 per cellula. Ad esempio, la concentrazione degli ioni Ca++ nelle cellule a riposo è intorno a 100nM, quindi non ve ne sono più di 20.000 in una cellula-tipo; il numero dei recettori di membrana per molti agonisti è ancora più basso, il numero dei canali per il trasporto trans-membrana dei principali cationi è, in molte cellule, dell'ordine di poche centinaia ecc.19 Per fare un esempio familiare, gli atomi rarefatti di un tubo al neon danno un comportamento macroscopico all'accensione che tutti sanno caratterizzato da incertezza. Allo stesso modo, stante il ruolo dei recettori e degli ioni di cui sopra nei comportamenti cellulari, questi non appaiono deterministici, in quanto, pur essendo osservabili su larga scala, sono connessi non a una media di grandissimi numeri di stati submicroscopici indipendenti, ma ad un piccolo numero o anche a uno solo di tali microstati, per ciascuno dei quali vige l'indeterminazione.

Di qui, oltre alla possibilità del dolore come errore, deriva però anche la garanzia, per l'esercizio della libertà, rappresentata da un sia pur controllato grado di indeterminismo, a livello di azione mentale sulla materia cerebrale.

J. Eccles ha descritto a tale proposito l'incertezza quantistica dimostrabile nelle giunzioni tra neuroni, note come sinapsi, nelle quali lo stimolo passa da un neurone all'altro attraverso la liberazione di quanti biochimici di sostanze conosciute come neurotrasmettitori.20

Questi sono contenuti in vescicole la cui membrana può fondersi, per effetto di azioni prodotte dallo stimolo nervoso, con quella della giunzione (membrana presinaptica) provocando lo svuotamento della vescicola e l'emissione del neurotrasmettitore.

Si potrebbe comprendere che nelle sinapsi corticali gli eventi mentali (ossia l'intenzione, l'atto di volontà)

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interferiscano sulle probabilità di emissione di questi quanti biochimici, le vescicole, e quindi sull'attività neuronale, se per il rapporto di tali vescicole con la griglia presinaptica, cioè nello stadio di prefusione, si potesse applicare la relazione di incertezza degli stati quantici. La massa di una vescicola sinaptica, infatti, non è tale da esorbitare dai limiti della relazione d'incertezza di Heisenberg, e quindi potrebbe risentire la grandezza dell'effetto prodotto da un'onda di probabilità della quanto-meccanica.

Infatti, secondo la usuale equazione d'incertezza quale adottata da Margenau per situazioni non-atomiche e riportata da Eccles:

� x � v >= k/m (k = h/2 �)

(dove con � si indicano le piccole incertezze delle quantità x, che esprime la posizione, e v, che esprime la velocità, incertezze ineliminabili perché il loro prodotto non può essere inferiore alla costante di Planck h divisa per 2 � e per il valore della massa m) essendo la massa (m) di una vescicola sinaptica, del diametro di circa 40 nm, 3×10-17 g, per � x di una vescicola nella zona attiva pari a 1 nm risulterebbe � v = 3,5 nm/msec, che non è lontano dal giusto ordine di grandezza, tenendo presenti le distanze delle vescicole dalla membrana presinaptica e i tempi del processo di esocitosi.21

Ciò conferma quanto sostengono R. Penrose, R. Swinburne e altri, che se anche l'unica fonte di indeterminismo nel mondo fisico fosse quella degli stati quantici, ciò basterebbe a garantire uno spazio di non computabilità, una possibilità di comportamento non legato a processi algoritmici per l'azione della intelligenza e della libertà umane.22

Eccles riprende l'analogia di Margenau che paragona la mente a un campo di probabilità della quantomeccanica, del quale condivide l'immaterialità e il confinamento spaziale, e la capacità di azione.23 È in fondo l'antico discorso con cui già Epicuro e Lucrezio cercavano di descrivere una indeterminatezza (clinamen) dei moti atomici come giustificazione della libertà del volere.24 Si tratta infatti, in ogni modo, di una imprevedibilità connessa ad amplificazioni su scala macroscopica di fluttuazioni submicroscopiche, sia che queste amplificazioni siano legate a dinamiche non lineari in presenza di vincoli di non equilibrio, sia che risultino come eventi cellulari quantizzati, prodotti secondo la legge del tutto o niente, in seguito ad effetti soglia, quando questa viene superata da fluttuazioni per le quali vige l'indeterminazione.

Se alla mente umana è possibile modificare parametri chiave dell'attività neuronica producendovi variazioni inferiori all'entità della loro incertezza di Heisenberg, allora l'uomo è libero di produrre eventi ed effetti senza rompere alcuna legge fisica.

5. Un mondo non Laplaciano e la libertà

Le proprietà fondamentali della vita (quale conosciamo), l'autonomia e la reattività cellulari, la stessa esistenza di individui senzienti, prima che di soggetti potenzialmente liberi, non sono coerenti con l'ipotesi di un universo strettamente deterministico.

L'organizzazione vivente opera tipicamente con strumenti monomolecolari costituiti da delicate e instabili molecole organiche. L'instabilità è necessaria perché se l'assetto funzionale fosse stabile non sarebbe funzionale. Per esempio il trasporto dell'ossigeno da parte dell'emoglobina avviene sulla base di un legame che dev'essere abbastanza stabile da non venire scisso dall'energia termica e abbastanza instabile per permettere la scissione (cessione dell'ossigeno) per fini regolazioni ambientali che agiscono sulla struttura e sui legami intermolecolari della instabile proteina. Questa qualità, l'instabilità, è una caratteristica propria del livello elementare, atomico prima che molecolare, della materia.

P.W. Atkins lo esprime così:

La tenuità della parte esterna dell'atomo dimostra la debolezza del controllo che esercita il nucleo centrale sugli elettroni che lo circondano. Questa debolezza è alla base della ricchezza della vita. Essa implica che gli atomi possono essere allontanati da una molecola usando soltanto una gentile persuasione, e che inoltre una struttura di atomi può trasformarsi in una nuova struttura. Data la debolezza dei legami, le strutture non sono congelate in schemi immutabili ma possono rispondere alle sollecitazioni dell'ambiente. La struttura debolmente legata degli atomi e delle molecole porta alla sensibilità verso l'esterno: quando l'ambiente esterno esercita una leggera pressione, cambiamenti possono aver luogo. Se le strutture fossero state più compatte, solo stimoli violenti come quelli delle esplosioni nucleari avrebbero potuto produrre cambiamenti; non avrebbero potuto evolversi i raffinati e delicati meccanismi della percezione e della presa di coscienza. L'evoluzione, che è ora costruttiva, sarebbe stata distruttiva.

La fragilità della struttura molecolare, mentre da una parte permette alla materia di rispondere alle leggere pressioni esercitate dall'ambiente e di sviluppare delicati meccanismi di risposta, acquistando complessità, continua a contribuire d'altra parte alla complessità culturale delle specie. Finché le molecole presenti in un

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organismo possono reagire alle influenze dell'ambiente, l'organismo può osservare. La sensibilità delle strutture porta con sé una sgradevole vulnerabilità. Piccole fluttuazioni rispetto alla norma rischiano di uccidere. Il calore che riscaldava può, al di là di una certa soglia, scottare e bruciare. È per questo che è così facile morire.25

Quali sono le leggi del mondo molecolare e atomico/subatomico che sottostanno alla fenomenologia di cui sopra? Secondo Penrose, le nostre qualità sono radicate in qualche strano e meraviglioso aspetto di quelle leggi fisiche che effettivamente governano il mondo in cui siamo... e cioè noi «in qualità di esseri senzienti dobbiamo vivere in un mondo quantistico» nel quale vige l'incertezza di Heinsenberg.26

Alla radice di una vera (non apparente) instabilità, delle fluttuazioni, di ogni evento realmente casuale, deve esserci un certo ambito di indeterminazione, in assenza della quale non avrebbe senso parlare di impredicibilità. Diceva Hofstadter: «Il principio di indeterminazione non è una legge epistemologica riguardante l'osservazione, ma piuttosto una semplice conseguenza del fatto che la costante di Planck non è uguale a zero».27 La presenza della costante di Planck nella relazione d'incertezza di Heisenberg indica che la situazione è conseguenza della natura ondulatoria della materia.

Sul piano della filosofia della natura ammettere questo ambito di impredicibilità e indeterminazione non vuol significare che esistano eventi senza causa tout court.

Sembra necessario ipotizzare l'azione di cause immanenti responsabili dell'indeterminatezza dell'esito di un'azione della causa efficiente esterna: la condizione si realizza nella sovrapposizione delle possibili alternative (forme) di uno stato quantico dove la causa formale entro certi ambiti non è deterministica. L'ambito del caso è limitato, ma esiste, ed è alla radice di qualunque vera contingenza fisica, della creatività dell'evoluzione, dell'esistenza di soggetti senzienti e liberi.

Non vi sarebbe mai nulla di accidentale se questa radice di intrinseca indeterminazione mancasse. Essa esiste almeno nel mondo quantistico sub-microscopico, e anche nei punti di biforcazione dei sistemi caotici, i quali sono degli amplificatori di variazioni accidentali anche minime.28 Il caos è detto deterministico ma può apportare impredicibilità e indeterminazione, se si considera in connessione con quella quantistica: sia perché le sue dinamiche sono caratterizzate dalla sensibilità a piccole variazioni delle condizioni iniziali; sia perché nelle biforcazioni vi sono momenti di indeterminismo che azioni esterne veramente accidentali possono orientare anche casualmente (ma sono tali solo se esiste in qualche luogo una radice di indeterminazione intrinseca alla materia).

Se non fosse così il mondo sarebbe nonostante tutto Laplaciano, perché la catena delle cause non ammettendo niente di indeterministico quindi niente che sia realmente accidentale darebbe luogo ad un'evoluzione unica e necessaria per quanto multiforme e complicata. In un tale mondo il messaggio (anche fosse un numero irrazionale) che un sistema fisico legge dall'ambiente è letto in un tempo finito, predeterminato dalla successione delle cause (il numero irrazionale è troncato dopo una predeterminata e quindi non casuale serie di decimali che viene letta dal sistema), quindi non può esserci novità, creatività, o soluzione accidentale di una instabilità. I viventi sono automi, alcuni dei quali con la predeterminata ma falsa convinzione di essere liberi: tutte le azioni causali sono univoche e necessarie, nessuna è realmente contingente.

G.F. Basti, che si rifà a S. Tommaso, giustifica la possibilità della libertà solo se le cause per sé necessarie alla produzione di un effetto sono in sé contingenti, per cui «l'effetto rispetto alla causa di un processo fisico, differentemente dalla conseguenza rispetto alla sua premessa in una procedura logica, non deriverà univocamente dall'esistenza della stessa». Basti specifica che se «tutto è predeterminato fin dall'inizio» [...] «la libertà dell'uomo diviene un'illusione».29

Ovviamente sarebbe un'illusione parlare di contingenza delle singole cause in un universo Laplaciano dove il caso è apparenza ma non esiste, e tutto il processo è necessario e univoco. Nonostante il concorso di varie cause possa sembrare accidentale, se ogni causa singola è necessaria anche il risultato finale lo sarà.

Se invece vale l'ipotesi che esistano momenti, eventi e forme in cui vige una causalità non deterministica, si apre lo spazio anche per l'esercizio della libertà umana e della responsabilità. La responsabilità entra in gioco se si realizzano due condizioni: a) che l'uomo sia libero di scegliere e individuare le proprie azioni, b) che l'azione determinata dalla libertà abbia delle conseguenze, delle ripercussioni significative sul resto del mondo (un'azione insignificante e senza conseguenze non chiama in causa la responsabilità). In questo senso (soprattutto per il punto b) le dinamiche caotiche, che implicano la sensibilità alle condizioni iniziali e l'amplificazione delle piccole perturbazioni, allargano notevolmente lo spazio della responsabilità umana. L'uomo, qualsiasi uomo, con la sua piccola azione libera può «creare» il futuro e di questa possibilità reca la responsabilità.30

Si è detto che i sistemi naturali lontani dall'equilibrio presentano comportamenti dinamici complessi, al

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limite tra ordine e caos. Questa classe di comportamenti dinamici è stata rappresentata per analogia come una transizione di fase tra le due classi fondamentali, fase «solida» (ordine, computabilità) e fase «fluida» (caos, incomputabilità), dei comportamenti dinamici in generale. È intuitivo che in tale condizione-limite un sistema è dotato di un certo grado di ordine ma insieme ne è svincolato e possiede una certa creatività e libertà.

A livello mentale -- si suggerisce -- il caos come amplificazione di fluttazioni potrebbe essere il motore della creatività e come generatore di imprevedibilità potrebbe essere garanzia di libero arbitrio, pur in un mondo governato da leggi esatte. «L'emergenza di stati mentali -- sostiene K. Mainzer -- è spiegata dall'evoluzione di parametri d'ordine (macroscopici) di insiemi di unità cerebrali che vengono causati da interazioni non-lineari (microscopiche) di cellule nervose in strategie di apprendimento lontano dall'equilibrio termico».31 La capacità del cervello di rispondere in modo flessibile alle sollecitazioni del mondo esterno e di generare nuovi tipi di attività, compreso il concepire idee nuove, è connessa alla tendenza di ampi gruppi di neuroni a passare bruscamente e simultaneamente da un quadro complesso di attività ed un altro in risposta al più piccolo degli stimoli. Questa capacità è una caratteristica primaria di molti sistemi caotici.

Secondo la scienza classica deterministica dei tempi di Laplace, ogni evento naturale dovrebbe avere la sua specifica causa dello stesso ordine di grandezza. Ciò significa che cause di entità relativamente trascurabile non potrebbero generare eventi notevoli. Ma recentemente sono state fornite molte dimostrazioni del fatto che sistemi caotici di vario tipo possono essere influenzati e addirittura «regolati» da minime perturbazioni dei parametri di controllo del sistema.32

In conclusione si può fare l'ipotesi che eventi mentali attraverso piccole perturbazioni potrebbero interferire per esempio sulla frequenza del campo elettromagnetico che può modulare azioni di neurotrasmettitori, e infine modificare dinamiche del sistema, attrattori e campi delle forme. Questa ipotesi non fa che estendere la prospettiva di azione degli eventi mentali quale ipotizzata come analoga a quella dei campi di probabilità della meccanica quantistica su eventi probabilistici sinaptici. L'influenza mentale sugli eventi sinaptici potrebbe infatti esponenzialmente amplificarsi attraverso la nota, estrema sensibilità delle dinamiche caotiche alle piccole perturbazioni. La presenza di caos deterministico è stata dimostrata su semplici sistemi neuronali «in vitro», e così pure la possibilità di controllare i sistemi caotici, cioè di rendere il loro comportamento regolare o periodico; o viceversa di «anticontrollare» comportamenti periodici inducendo il caos.

Qui sorge tuttavia una domanda alla quale sembra difficile dare risposta: la «flessibilità», la «plasticità», l'«indeterminazione», permesse o amplificate dalle dinamiche caotiche, e che sono certamente condizione necessaria per l'esercizio della libertà, ne sono anche condizione sufficiente?

La questione può essere sintetizzata come segue. Il problema della libera scelta riguarda la possibilità che un sistema avente una indeterminazione o instabilità fondamentale, come quello delle reti neurali, possa essere orientato in modo che dopo la scelta esso possa trovarsi in un solo stato, dei suoi 2n stati possibili, tale compressione (riduzione di entropia) essendo corrispondente all'atto del libero volere. La riduzione di entropia degli stati sinaptici, operata da una scelta mentale, ogni volta che abbia luogo sarà necessariamente accompagnata (come insegna la termodinamica) da scambi di calore con l'ambiente o da equivalenti variazioni dell'entropia di una memoria. Se il sistema è materiale, infatti, esso deve spendere qualche energia per attuare l'orientamento (riduzione di entropia) della instabilità, il quale dovrebbe in ipotesi corrispondere all'atto del libero volere: cioè il sistema dovrebbe voler spendere energia, quindi l'atto libero sarebbe precedente e diverso dall'orientamento dell'instabilità e anche dalla relativa spesa d'energia. Ma cosa sarebbe? Ne viene un ricorso all'infinito.

Si può evitarlo se si dispone di un sistema che non richieda mezzi fisici nell'atto di scegliere: occorre una causalità non causata, una intelligenza immateriale che qualunque sistema esclusivamente fisico (nel quale per ogni bit d'informazione cancellata dev'essere simultaneamente dissipata un'energia di kT loge 2)33 non ha e non è. Oppure l'uomo non è libero.34

6. Un mondo non Laplaciano e il dolore

Se in qualche modo si considera che l'uomo sia dotato di libertà permessa dalla indeterminatezza e dalla incompletezza algoritmica che caratterizza i sistemi complessi, può essere interessante notare che, nell'ambito della stessa incompletezza, si deve considerare necessaria l'esistenza del dolore: libertà e dolore sono strettamente correlati. È a tutti evidente che tanta parte della sofferenza umana viene dalla libera scelta degli uomini, dal cattivo uso della libertà. Questa sofferenza così provocata pone certamente dei problemi interpretativi, ma in qualche modo è spiegabile perché la sua causa sta nell'esistenza di esseri liberi, come tali capaci di scegliere fra diversi possibili comportamenti. Se non si vuole annullare la libertà, si deve accettare che esista questo male, anche nell'estensione e nell'intensità che rappresenta uno scandalo come

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Auschwitz.

Ma vi è anche un'altra sorta di male, che non è così direttamente imputabile alla cattiveria umana, e che tuttavia provoca tanta apparentemente ingiusta sofferenza, scandalo dunque ancora maggiore perché sembra implicare una cattiveria radicale della natura: chi ha visto gli occhi scavati e smarriti di un bambino leucemico ne ha riportato un'impressione, come quella che si può avere di fronte al dolore e alla morte prodotti dalle diverse calamità naturali.

Tradizionali interpretazioni del dolore e della morte hanno attribuito in definitiva anche questo tipo di male all'uso (e all'abuso: peccato originale) della libertà da parte dell'uomo. Qui non affrontiamo questo tema, ma vogliamo esporre alcune considerazioni sul rapporto tra complessità, libertà e dolore.

Oggi i fisici parlano di «principio antropico» per interpretare l'universo.35 Secondo tale principio, perché fosse possibile la presenza di osservatori, quali noi siamo, questo universo doveva proprio essere per tanti aspetti così com'è: dovevano esserci pianeti termostatati, stelle capaci di radiazioni energetiche costanti per miliardi di anni, ecc. Spostando un poco il punto di vista, un'applicazione del principio antropico potrebbe essere la seguente: se gli osservatori, quali noi siamo, dovevano essere dei soggetti dotati di libertà, allora era necessario che la stoffa dell'universo non fosse strettamente condizionata da leggi deterministiche, risultando rigida come l'inferriata di una prigione; viceversa essa avrebbe dovuto garantire un certo ambito di aleatorietà dei processi, di non determinazione, uno spazio e un modo perché l'influenza della volontà libera potesse esplicarsi, perché gli eventi mentali potessero causare eventi neurali.

Ma una materia non completamente determinata nella successione degli eventi possibili, se può servire a supporto di soggetti con libertà d'azione, è però un orologio che può sbagliare il tempo, è un congegno passibile di errore, ed errore in biologia vuol dire spesso dolore. L'estensione del principio antropico ci consente dunque di dire: perché fosse possibile la presenza di osservatori liberi, quali noi siamo, questo universo doveva essere così com'è, doveva essere luogo di dolore.

Ogni sorta di male ha dunque una relazione causale con la libertà, o perché può essere provocato dalla libera volontà defettibile: il male di Caino; o perché la stessa esistenza della libertà, di soggetti liberi, in questo universo è permessa soltanto da quella incompletezza della algoritmicità dalla quale sono permesse anche le catastrofi, e che viene descritta oggi dalle teorie dell'indeterminazione e del caos. Le leggi che governano la natura non sono rigidamente deterministiche, ma lasciano ampi spazi all'indeterminazione, all'imprevedibilità, quindi all'incomprensibile sciagura.36 Solo una stoffa materiale di questo tipo può d'altra permettere l'esistenza di soggetti capaci di esercitare la libertà in questo universo).37

7. Dolore e onnipotenza creatrice

La scelta creatrice è stata doppiamente limitativa dell'originaria onnipotenza perché: 1) contemplando l'esistenza di soggetti liberi 2) ha permesso una misura di casualità che introduce contingenza e imprevisto limitando l'azione delle leggi matematiche fisse. La libertà dell'uomo è consentita dalla «libertà» della natura. L'introduzione della stocasticità a un livello fondamentale (il carattere intrinsecamente statistico degli eventi atomici) può implicare, sia pure entro un limitato ambito, una sorta di attenuazione del principio di ragione sufficiente dato che «ciascun individuale evento quantistico può essere genuinamente impredicibile, mentre una collezione di tali eventi è conforme alle previsioni statistiche della quantomeccanica».38

Da un lato è evidente una «impressionante simmetria» sottesa all'universo, ma d'altro lato vediamo che le simmetrie «sono invariabilmente quasi simmetrie, e che le piccole violazioni che osserviamo sono altrettanto necessarie alla nostra esistenza».39 Vi è dunque un piccolo ma fondamentale spazio lasciato a «cause indeterministiche» o, ciò che è lo stesso, parzialmente al di fuori del principio di ragione sufficiente, spazio di creatività lasciato alla creatura, e che è quindi anche non-creazione (del male), mancanza di essere partecipato e cioè di bene, penetrazione del Niente40 nell'evoluzione. In vista della libertà delle creature Dio ha dovuto lasciare al caso (al Niente) una parte della creazione.

La difficoltà del concetto di onnipotenza quale abitualmente inteso è nota ed è antica, da Epicuro a H. Jonas,41 e condivisa da R. Panikkar.42 «Il male c'è solo in quanto Dio non è onnipotente»...43 Prescindendo dal male dovuto direttamente all'azione degli uomini, non si tratta infatti solo di male metafisico legato alla finitezza del creato, ma anche di privazione di perfezioni dovute, perché l'incompletezza algoritmica e l'indeterminazione, che ne sono causa, sono qualità non necessarie di una materia finita. Divengono necessarie per garantire, come s'è detto sopra, la possibilità della libera autodeterminazione ed è per questo fine, per questo bene, che il creatore ha dovuto lasciare al caso una parte della creazione. Secondo N. Venturini «è necessario che tra bene superiore voluto e male permesso ci sia [...] un nesso tale che non sia possibile volere l'uno senza permettere l'altro, ma a noi questo nesso non è

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dato di coglierlo».44 Forse questo pessimismo è eccessivo?

M. Ruse riporta motivi ed esempi che dimostrano come i mali naturali non possano essere evitati se i viventi devono fare parte della natura come esseri senzienti, e conclude: «The hard nature of physical existence and being is not therefore a rebuke against an all-powerful God».45

Resta in ogni caso una difficoltà in relazione all'onnipotenza: perché il dolore (nella forma di sciagura) non viene sempre miracolato? Il rispetto del Creatore per il creato e le sue leggi fino a che punto può essere in causa? Non v'è dubbio che il rispetto della libertà delle creature fatte a Sua immagine nella carne deve permettere loro la facoltà di decidere il compimento di atti autonomamente determinati anche se questi comportano male e sciagura. Potrebbe essere miracolato chi riceve il male dalla natura, la cui «libertà» potrebbe essere annullata in ogni opportuna occasione? Ma se non si può salvare Abele, si può nella giustizia salvare l'uomo che viene ucciso dalla tigre? o dall'uragano? Si può salvare almeno il bambino dalla leucemia? Ma fino a che età?

Se tuttavia il creato «era cosa molto buona» (Gn 1,31) agli occhi dell'onnipotenza, si deve anche considerare che la sofferenza implicita potesse avervi un senso entro l'orizzonte dell'amore che salva. Il dolore, che potrebbe non avere un senso su un determinato piano (ad esempio, sul piano cellulare e organico perché incurabile e «non-curante»), potrebbe assumere un senso se visto in un contesto diverso, che tiene conto dei rapporti dell'uomo -- in quanto uomo -- con i propri simili o con il Creatore.

Si entra qui in un campo in cui la scienza sa e dice poco, forse nulla. Tuttavia, il «modo di pensare» secondo il paradigma della complessità induce a sostenere che analogie esistano tra i diversi piani della realtà, dal microcosmo al macrocosmo, che le leggi della complessità siano applicabili alle molecole, alle cellule come alla vita psichica e relazionale.46 Perciò una prospettiva di apertura all'altro-da-sé e quindi al trascendente non solo non è irrazionale ma è profondamente funzionale alla natura stessa dell'uomo e della sua evoluzione e ciò in quanto l'uomo, così come ogni altro essere vivente, come sistema aperto e dissipativo, mantiene il proprio ordine interno per il continuo flusso di energia, materia e informazione che lo attraversa e per la continua dispersione di entropia nell'ambiente. Analogamente quindi secondo la prospettiva della complessità anche il dolore può essere vissuto nell'apertura del sistema-uomo a qualcosa d'altro o a qualcun altro-da-sé, apertura che faccia sperimentare un ri-assestamento del proprio io verso uno stato di maggiore armonia e di maggiore consapevolezza.47

Note

1. A. Moschetti, E Agostino mi risponde, Gregoriana, Padova 1989, p. 65.

2. Ivi, p. 68.

3. J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1970, p. 138 e 143.

4. D.C. Dennett, «Darwin's Dangerous Idea», The Sciences, 1995, 35, pp. 34-40.

5. P.W. Atkins, Creation Revisited, Freeman, Oxford 1997, p. 134.

6. S.A. Kauffman, The Origins of Order, Oxford Univ. Press, New York 1993.

7. I. Prigogine, I. Stengers, La Nouvelle Alliance, Gallimard, Poitiers 1979; R. Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, Einaudi, Torino 1980; G. Nicolis, I. Prigogine, La complessità, Einaudi, Torino 1987; F. Cramer, Chaos and Order, VCH Verlagsgesellschaft Weinheim 1993.

8. J. Monod, cit. alla nt. 3, p. 84.

9. E. Schödinger, Che cos'è la vita, Sansoni, Firenze 1947, p. 12.

10. M. Zatti, «Il caso e la complessità», Kos, 1996, XIII, pp. 36-41.

11. Il discorso tecnico che ha portato Monod alle sue conclusioni è interessante ed è forse utile cercare di esprimerlo in termini semplici. Egli dice: le proteine, cioè le molecole organiche complesse fondamentali per la vita, anche se hanno tutte una precisa funzione, si sono formate per caso. Le proteine sono sequenze di 20 diversi tipi di molecole più piccole, i mattoni della costruzione, che si chiamano aminoacidi. Una proteina è come un discorso molto lungo fatto con sole 20 diverse parole e queste parole si succedono l'una all'altra senza una regola apparente. Se noi conosciamo la serie in sequenza di 199 aminoacidi che compongono una proteina che ne ha 200, l'ultimo non possiamo prevedere quale sia, tra i 20 diversi tipi possibili, perché non c'è una regola della loro successione, della loro distribuzione in fila. Dunque non c'è un ordine, è il caso che ha costruito la proteina, anche se essa ha oggettivamente una funzione biologica precisa, cioè un alto contenuto di informazione. Questa è la conclusione di Monod. È importante a questo punto stabilire quale significato tecnico dare ai termini ordine e informazione. Intuitivamente si pensa che un messaggio che contiene informazione debba essere anche ordinato, con un ordine analizzabile e descrivibile, non casuale nella sua composizione. Per esempio una serie, una sequenza di parole può rappresentare un messaggio più o meno ricco di informazione.

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Se le parole vengono cambiate di posto non si capisce più niente. La domanda che ci poniamo è: una sequenza di parole è tanto più ricca d'informazione quanto più è ricca di ordine apparente? Per esempio se in un discorso vedo una certa parola ripetuta ogni cinque altre, riconosco un certo grado di ordine. L'ordine è dato da una distribuzione delle parole in cui si riconosca qualche simmetria, qualche periodicità, qualche regola fissa, un algoritmo. Una sequenza ripetitiva di una sola parola (per es. questo, questo, questo...) avrà quindi il massimo di ordine. Ma non potremo certo dire che ha il massimo di informazione. Invece di una serie di parole tutte uguali facciamo una sequenza di parole diverse l'una dall'altra, per es. diciamo questa è una scuola, un liceo. Se noi trascuriamo, ignoriamo il significato ossia l'informazione, come se la leggesse uno che non conosce l'italiano, le parole sembrano disposte a caso. Le parole qui appaiono come gruppi di lettere disposti senza nessun ordine nella successione: per esempio non viene prima la più piccola poi le altre in ordine di grandezza, né si alterna una grande e una piccola, ecc., sembra che la sequenza sia messa lì senza un ordine apparente, quindi a caso, ma sappiamo bene che è assai più ricca di significato di quella, sicuramente più ordinata, formata di altrettante parole tutte uguali messe in fila. È chiaro dunque che ordine e informazione non coincidono. Monod doveva chiedersi da dove viene l'informazione, non da dove viene l'ordine, che può esserci e non esserci. È vero che non c'è una regola, una periodicità, nella sequenza degli aminoacidi. Ma questa sequenza forma una proteina che ha una funzione, cioè significato, informazione.

Anche il numero � ha una serie di decimali non periodici, ma tutti i matematici sanno quanta informazione contiene. L'ordine com'è comunemente inteso è una cosa, il contenuto di informazione è una cosa diversa. È del resto intuitivo che una sequenza senza tante regole d'ordine ricorsivo può essere più inventiva, libera, creativa, meno limitata nel contenere fantasia e ricchezza d'informazione. L'ordine come l'abbiamo definito è dunque addirittura un limite al possibile contenuto d'informazione, e noi possiamo concludere che il massimo d'informazione deve coincidere con il minimo di ordine, con buona pace di Monod.

12. I. Prigogine, La Nouvelle Alliance, cit. alla nt. 7.

13. S.A. Kauffman, At Home in the Universe, Oxford Univ. Press, New York 1995; I. Stewart, «Emergent macrosimplicity», Nature, 1996, 379, p. 33.

14. J.L. Casti, «Confronting Science's Logical Limits», Sci. American, 1996, 275 (4), pp. 78-81.

15. R. Thom, cit. alla nt. 7.

16. F. Cramer, cit. alla nt. 7, p. 172.

17. S.A. Kauffman, cit. alla nt. 13.

18. J.S. Wicken, Evolution, Thermodynamics, and Information, Oxford Univ. Press, New York 1987, p. 91.

19. M.B. Hallett, «Unpredictability of Cellular Behaviour», Persp. Biol. Med., 1989, 33/1, pp. 110-19.

20. J.C. Eccles, «Do Mental Events Cause Neural Events Analogously to the Probability Fields of Quantum Mechanics?», Proc. R. Soc. London B, 1986, 227, pp. 411-28.

21. Risultano, all'analisi delle trasmissioni sinaptiche, possibili influenze di modificazioni della membrana post-sinaptica, fermo restando il significato presinaptico di alcuni dei parametri (n, numero delle zone attive; 1, probabilità di rilascio di un pacchetto quantico). H. Korn, D.S. Faber, «Quantal Analysis and Synaptic Efficacy in the CNS», Trends in Neurosciences 1991, 14, 439-45; J.M. Bekkers, C.H. Stevens, «Presynaptic Mechanism for Long-Term Potentiation in Hippocampus», Nature 1990, 346, 724-29; R. Malinow, R.W. Tsien, «Presynaptic Enhancement Shown by Whole-Cell Recordings of Long-Term Potentiation in Hippocampal Slices», Nature 1990, 346, 177-80. Punto critico dell'attività neuronale è l'attivazione dei canali del Ca2+ voltaggio-dipendenti e la successiva esocitosi presinaptica del neurotrasmettitore, contenuto in vescicole la cui proteina p65 interagisce con le sintaxine della zona attiva della membrana presinaptica. La letteratura descrive: variabilità quantali di queste attività giunzionali, proprietà stocastiche delle interazioni tra recettori e trasmettitori, possibilità di interferenze di vario tipo sull'efficienza della comunicazione tra cellule nervose (D.S. Faber, W. . Young, P. Legendre, H. Korn, «Intrinsic Quantal Variability Due to Stochastic Properties of Receptor-Transmitter Interactions», Science 1992, 258, 1494-501; P. Greengard, F. Valtorta, A.J. Czernik, F. Benfenati, «Synaptic Vesicle Phosphoproteins and Regulation of Synaptic Function», Science 1993, 259, 780-88). Una delle variabili è rappresentata da variazioni del numero delle vescicole del pool di riserva rispetto a quello rilasciabile in una terminazione sinaptica, con una transizione regolata dalla fosforilazione/ defosforilazione di una proteina. Nel complesso si può dire che è molteplice l'ambito delle fluttuazioni sulle quali potrebbe esercitarsi l'influenza di un'onda di probabilità della quantomeccanica.

22. R. Penrose, The Emperor's New Mind, Oxford Univ. Press, New York 1989; R. Swiburne, The Evolution of the Soul, Oxford Univ. Press, New York 1986.

23. H. Margenau, Il miracolo dell'esistenza, Armando, Roma 1987, p. 105.

24. B. Mondin, Corso di storia della filosofia, Massimo, Milano 1983, pp. 174-77.

25. P.W. Atkins, La creazione, Zanichelli, Bologna 1985, pp. 23-25.

26. R. Penrose, The Emperor's New Mind, cit. alla nt. 22, p. 226.

27. D.R. Hofstadter, «I paradossi della meccanica quantistica», Le Scienze, 1986, 33, p. 13.

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28. F. Cramer, cit. alla nt. 7.

29. G.F. Basti, Filosofia dell'uomo, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1995, pp. 264-65.

30. P. Bellavite, M. Zatti, «Il paradigma della complessità nelle scienze e in medicina», Nuova Secondaria, 1996, XIII (7), pp. 45-53.

31. K. Mainzer, Thinking in Complexity, Springer Verlag, Berlin-Heidelberg 1994, p. 7.

32. G.P. Williams, Chaos Theory Tamed, Taylor & Francis, London 1997.

33. R. Landauer, «Dissipation and Noise Immunity in Computation and Comunication», Nature, 1988, 335, pp. 779-84.

34. D.C. Dennet, Consciousness Explained, Little, Brown 1991.

35. Autori vari, Il principio antropico, a cura di B. Giacomini, Spazio Libri Editori, Ferrara, 1991.

36. Si intende che questo può valere nel caso di sciagura che anche soltanto indirettamente possa essere riferita alla creatività dell'evoluzione nei suoi aspetti più rigorosamente darwiniani (i quali non sono certo annullati dalle capacità autoorganizzative che segnano le linee maestre del processo evolutivo).

37. M. Zatti, Il dolore (nel) creato, Dehoniane, Bologna 1994.

38. P. Davies, The Mind of God, Simon & Schuster, London 1992, pp. 192-93.

39. J.D. Barrow, J. Silk, La mano sinistra della creazione, Mondadori, Milano 1985, p. 232.

40. K. Barth, Dio e il Niente, Morcelliana, Brescia 2000, p. 152.

41. N. Venturini, Perché il male?, Rubettino, Catanzaro 2000.

42. R. Panikkar, La pienezza dell'uomo, Jaca Book, Milano 1999, pp. 140-41.

43. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Melangolo, Genova 1989, p. 32.

44. N. Venturini, Perché il male?, cit. alla nt. 41, p. 311.

45. M. Ruse, Can a Darwinian be a Christian?, Cambridge Univ. Press, Cambridge 2001, p. 136.

46. K. Mainzer, Thinking in Complexity, cit. alla nt. 34, p. 289.

P. Bellavite, M. Zatti, cit. alla nt. 33.

Rino Gaion

Darwin e la questione antropologica. Appunti preliminari

1. «Ciò che rende gli uomini umani»

In un breve saggio intitolato Sulla ricerca dell'ideale, presentato a Torino il 15 febbraio 1988 in occasione del conferimento all'autore del Premio internazionale senatore Giovanni Agnelli, Isaiah Berlin (1990) ripercorre, con tono autobiografico, le tappe del pensiero che lo hanno portato alla ricerca del suo ideale morale e politico. Il punto di partenza di questa ricerca, sostenuto dalla lettura dei grandi romanzieri russi, era la convinzione del giovane Berlin che non solo esistessero soluzioni ai grandi mali dell'umanità (l'ingiustizia, l'oppressione, la falsità, la cecità morale, l'egoismo, la crudeltà, la miseria, la disperazione, ecc.), ma che fosse anche possibile scoprire queste soluzioni e, con una buona dose di altruismo, cercare di realizzarle. Il secondo passaggio, favorito dalla riflessione etica e politica della philosophia perennis occidentale, l'aveva portato a ritenere tre idee fondamentali: che tutte le domande autentiche dovevano

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avere, sul modello delle scienze, una e una sola risposta vera, tutte le altre essendo necessariamente sbagliate; che doveva esserci una via attendibile e sicura per pervenire alla scoperta di queste verità; e infine che le risposte vere, quando fossero state trovate, dovevano necessariamente essere compatibili tra loro e formare un tutto unico, giacché, era dato per scontato, che una verità non può essere in conflitto con un'altra. Il terzo gradino, provocato dalla lettura di Machiavelli (per il quale le virtù pagane di forza e di astuzia su cui si fonda uno stato sono opposte alle virtù cristiane dell'umiltà, dell'accettazione delle sofferenze, dalla rinuncia ai beni terreni), gli instillò un'idea choccante: che non tutti i valori supremi perseguiti dall'umanità oggi e in passato sono necessariamente compatibili fra loro ma che anzi talvolta entrano decisamente in contrasto. Da qui la scoperta, attraverso Vico ed Herder, che le singole società prendevano forma a seconda dei valori che coltivavano e che questi valori potevano differire fra loro in modo profondo, inconciliabile, non riconducibile a una sintesi definitiva. Ora, nota Berlin, molto spesso questa posizione è stata definita relativismo culturale e morale, ma in realtà questo non è relativismo. Il relativismo ritiene che le diverse culture siano chiuse nel loro bozzolo impenetrabile e che si possa escludere qualunque forma di comunicazione fra loro. Ma questo è falso da tutti i punti di vista. Gli uomini possono avere valori diversi fra loro che si possono approvare o condannare, ma non si può fingere di non comprenderli affatto o di considerarli semplicemente soggettivi. «Esiste un mondo di valori oggettivi [...] I fini, i principi morali sono molti. Molti, ma non innumerevoli, perché devono restare entro l'orizzonte umano». Ci sono valori che, se non sono universali, sono almeno tali da costituire un minimum senza il quale le società difficilmente potrebbero sopravvivere. È anche vero che alcuni di questi valori oggettivi sono fra loro in conflitto e noi siamo condannati a scegliere, e scegliere significa perdere qualcosa. È in questa necessità di decidere per alcuni valori piuttosto che per altri, nel correre il rischio morale, che consiste l'autonomia, la solitudine, ma anche la dignità dell'uomo. I conflitti tra valori possono essere ridotti al minimo attraverso la promozione e la conservazione di un delicato equilibrio fatto di rimodulazione, accordi e compromessi.1 Ma vi sono alcuni (pochi) valori (Berlin elenca fra questi la schiavitù, l'omicidio rituale, le camere a gas naziste, l'omicidio gratuito, la tortura di esseri umani a scopo di piacere o di profitto) che non sono né negoziabili né disponibili al compromesso, dato che è proprio attorno a questi valori che si è costruita una nozione minima di «natura umana» e giustificare compromessi in questi valori significherebbe uscire dall'umanità. Secondo Berlin ciò che rende inconsistente la posizione del relativismo culturale e morale è il fatto che «ciò che rende gli uomini umani è comune a tutti e funge da ponte tra loro» (Berlin, 1990: 12).

«Ciò che rende gli uomini umani e funge da ponte tra loro» viene solitamente indicato come «la comune natura umana». L'idea che la nozione di «natura umana» è costruita attorno ad alcuni valori morali, o almeno l'idea che vi è un nesso inscindibile tra la nozione di «uomo» e quella di «morale», è tutt'altro che nuova. Ma le sue radici moderne affondano nell'empirismo inglese e due delle sue principali icone (ma si deve riconoscere che così schematizzando si fa torto a molti altri autori) sono costituite dallo «stato di natura» delineato dal Leviatano di Hobbes e dal Trattato sulla natura umana di Hume. Comune a tutta questa tradizione era, contro la retorica dei «metafisici» e l'arroganza dei razionalisti cartesiani, l'adozione del metodo sperimentale, induttivo, genetico o fenomenologico, nell'indagine morale. Da qui la scoperta che i sentimenti e le passioni, molto più della ragione, costituiscono il vero nocciolo duro dell'identità dell'io e si pongono quindi al centro, come motore, della vita morale. Per gli empiristi le tesi del razionalismo etico secondo le quali le idee di bene e male hanno misure eterne e immutabili, presenti in ogni tempo e in ogni luogo, valide non solo per l'uomo ma per la stessa divinità, vengono sconfessate dal fatto che i nostri giudizi morali di approvazione o disapprovazione, di lode o di biasimo, si basano prima di tutto sulle nostre impressioni di piacere e dolore. Noi consideriamo buono ciò che ci reca piacere e cattivo ciò che ci reca dolore. A partire da queste considerazioni Hobbes e Hume tracciano due percorsi diversi che portano a quella bipolarità (dualismi-monismi) antropologico-morale che ancora oggi è difficile da scalfire.

2. Il serpente e la colomba

Nello scenario disegnato da Hobbes l'uomo naturalmente egoista, ambizioso e orgoglioso, è portato a curare i propri esclusivi interessi per cui lo «stato di natura» non sarebbe nient'altro che una «condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo» alla quale mette freno la paura della morte e il desiderio di sicurezza che impone la regola generale «che ogni uomo debba cercare la pace fino a che ha la speranza di poterla ottenere; e se non può ottenerla deve cercare e usare tutti i mezzi di aiuto e i vantaggi della guerra». Lasciata a se stessa l'umanità finirebbe per autodistruggersi. Per uscire da questo stato di guerra permanente, per ottenere la pace, ogni uomo deve essere disposto, quando anche gli altri lo siano, a rinunciare al suo diritto su ogni cosa e a conservare solo tanta libertà quanta vorrebbe che gli altri ne avessero nei suoi confronti. Questo reciproco trasferimento di diritti avviene attraverso un «contratto» la cui osservanza viene garantita affidando a un potere che sta sopra i due contraenti e ha diritto e forza sufficienti a costringerli ad adempiere l'impegno. Questo potere è rappresentato dallo stato che, attraverso il monopolio della forza, è in grado di ispirare timore e costringere i singoli individui a rinunciare all'uso personale della violenza,

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garantendo l'ordine e la sopravvivenza della specie. Per Hobbes sono le leggi, e le gerarchie che le fanno rispettare, a salvare una specie umana i cui membri sono naturalmente portati alla violenza autodistruttiva. Il mitico scenario dello stato di natura delineato da Hobbes ha lasciato in eredità alla riflessione successiva una grande serie di problemi tutti riconducibili alla sua visione dualista del rapporto natura umana-morale. Secondo Hobbes da una parte stanno gli uomini con la loro natura di individui egoisti e dall'altra vi è un'agenzia morale esterna -- lo stato, la società, la cultura, la religione, un «contratto» di reciprocità ecc. -- che li costringe a stare assieme e ad adottare una morale pubblica. La morale, in altre parole, sarebbe sorta dalla necessità strumentale di andare contro la natura umana o almeno di mettere dei limiti alle sue malefatte dato che, come dirà Kant più tardi (e come Berlin ama citare «dal legno storto dell'umanità non si è mai cavata una cosa dritta»). A una visione sostanzialmente hobbesiana si sono ispirati tutti coloro che ritengono impossibile che la morale possa derivare direttamente dalla natura dell'uomo, o perché questa è amorale o perché ritengono che non esista una natura umana definitivamente data, ma che dipenda dalla storia o dalla cultura. Connesso a questa visione è il problema delle vie di uscita dal caos hobbesiano al quale hanno cercato di rispondere le dottrine del «contratto sociale», nelle loro diverse versioni (quello «ideale» di John Rawls, 1989, quello «reale» di David Gauthier, 1986, ecc.). Ma queste dottrine mostrano notevoli difficoltà a giustificare sul piano teorico, senza il ricorso a una forza estranea o a un sentimento naturale, la disponibilità degli individui a fare accordi o a mantenere i patti. Anche il principio di reciprocità (sotto la forma di riconoscimento reciproco, di dono, o di regola aurea) invocato da alcuni antropologi culturali ha difficoltà a diventare operativo se non è preceduto almeno da un naturale sentimento di fiducia che il dono sarà accettato e ricambiato. A una visione dualista sostanzialmente hobbesiana, si ispira anche la bioetica (e più in generale l'etica)2 quando si pone a contrasto e limite della hybris tecnologico-scientifica.

Hume dedica invece molti sforzi a dimostrare che le impressioni di piacere e dispiacere non sono dirette soltanto verso il nostro esclusivo interesse. L'egoismo universale o parziale, se pure fa parte della natura umana, come sostengono Hobbes e Locke, non è tanto importante per la moralità, e, nella vita pratica, quelle che prevalgono sono le disposizioni della benevolenza e della generosità e affezioni come l'amore, l'amicizia, la compassione e la gratitudine. Nessun uomo è del tutto indifferente alla felicità e alla miseria degli altri; la prima tende in genere a dare piacere la seconda dolore per via di un sentimento che è alla base della nostra stessa vita sociale: la simpatia reciproca. L'atteggiamento di simpatia o senso di umanità o di benevolenza generale, originario e comune a tutti gli uomini, fa sì che la nostra natura non sia quella del lupo e del serpente, ma sia molto di più quello della colomba. L'uomo per Hume non è naturalmente egoista, ma naturalmente con-passionevole rivolto a condividere il piacere e il dolore degli altri. Da notare che, secondo Hume, «non c'è bisogno di spingere le nostre ricerche fino a domandare perché noi abbiamo il senso di umanità e di simpatia per gli altri. Basta che si sperimenti che è un principio della natura umana. Dobbiamo pur fermarci a qualche punto nel nostro esame delle cause; e vi sono, in ogni scienza, dei principi generali al di là dei quali non possiamo sperare di trovarne altri più generali» (Ricerche sui princìpi della morale V, II). Il sentimento dal quale discende tutta la morale, la simpatia, non è tanto un valore da giustificare quanto un «dato di fatto» da constatare e da spiegare. Nell'impostazione humeana tutta la cultura (e quindi anche la morale) deriverebbe direttamente dalla natura dell'uomo, dai suoi istinti e desideri, e quindi all'interno di questa natura, senza il ricorso a nessuna agenzia esterna, si devono trovare le sue radici. Lungo questa linea si sono mossi in qualche misura tutti i programmi di naturalizzazione e biologizzazione dell'etica, tentati soprattutto da sociobiologi e psicologi evoluzionisti che hanno trovato nella rivoluzione antropologica darwiniana il loro insuperato punto di avvio.

3. Una natura amorale

L'etica darwiniana si muove completamente all'interno del bipolarismo antropologico-morale costituito dagli scenari disegnati da Hobbes e da Hume. Ciò che differenzia la teoria di Darwin rispetto a quella di altri autori empiristi e positivisti suoi contemporanei e che gli dà un rilievo di rivoluzione scientifica e culturale deriva dal suo tentativo di fondare l'evoluzione della moralità sulla selezione naturale. Così facendo Darwin inserisce anche la morale nella sua grande scoperta che nella natura agisce «una legge generale che ha per scopo il progresso di tutti gli esseri organizzati, cioè la loro moltiplicazione, la loro variazione, la persistenza del più forte e l'eliminazione del più debole» (O. S. , 242).3 Depurata dal linguaggio ottocentesco questa legge suggerisce, sul piano biologico, quel principio di «ottimizzazione attraverso riproduzione-variazione-selezione», che ha fornito alle scienze naturali una cornice teorica generale, semplice e potentemente euristica, entro cui ricollocare tutta la storia della vita sulla terra. Pur avendo subito numerose modifiche, ampliamenti e precisazioni la teoria darwiniana dell'evoluzione rappresenta ancora oggi, nella sua essenza, una teoria ampiamente fondata e verificabile che, sul piano biologico e paleontologico, non ha trovato alcuna seria alternativa. La rivoluzione culturale darwiniana si basa sostanzialmente su due principi. Il primo è che la natura non è sempre stata così com'è adesso, ma ha una lunga storia. Tutte le specie attuali hanno avuto origine e si sono diversificate a partire da un unico vivente originario; la loro differenziazione è dovuta all'accumulo di variazioni nella trasmissione dei caratteri ereditari che è potuto avvenire nella

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lunghezza dei tempi geologici. Il secondo è il principio dell'unità della natura per cui tutti gli esseri viventi dal più semplice al più complesso hanno la stessa natura fisico-chimica e differiscono tra loro solo per grado (Darwin cita spesso il detto leibniziano natura non facit saltus). Anche l'uomo è il prodotto degli stessi processi fisico-chimici ed evolutivi di tutti gli altri enti naturali, dato che anche la specie umana si è originata da altre (in particolare, per Darwin, come è noto, dai primati) attraverso il meccanismo della variazione graduale-selezione naturale.

La grandiosa visione di Darwin di una natura dai tempi geologici così dilatati che la presenza della specie umana sulla terra può essere paragonata a un rapido battito di ciglia, sembra dominata da un meccanismo naturale (riproduzione-variazione-selezione), di stampo squisitamente hobbesiano, che offre un panorama di assoluta indifferenza e amoralità. Scrive ad esempio Stephen Jay Gould (2003: 161 ss.): «la natura non ha necessità di operare secondo le norme della morale umana. Se nella natura amorale l'adattamento di un individuo richiede la morte di migliaia di altri, così sia. Il procedimento può essere confuso e distruttivo, ma la natura ha tempo in abbondanza e non è necessario che i suoi procedimenti brillino per efficienza». Da questa visione della natura si devono trarre, secondo Gould essenzialmente due insegnamenti: 1. dopo Darwin la natura non è più il luogo da cui trarre motivi di fede religiosa o di insegnamenti morali: se si vogliono cercare ragioni per la fede o per la morale queste non vanno cercate nelle leggi della natura, ma da qualche altra parte; 2. dopo Darwin le due domande fondamentali di ogni etica: «che cosa significa comportarsi moralmente?» e «perché comportarsi moralmente?» diventano praticamente irrilevanti: «Quali esseri umani abbiamo un interesse personale e legittimo per il nostro comportamento etico ma non possiamo sacralizzare questa proprietà facendole occupare più che un angolino della natura (quali che siano il suo impatto sul pianeta e la nostra preoccupazione particolaristica per la sua unicità)». Forse è vero che nella prospettiva delle profondità paleontologiche, come quella adottata da Gould, le nostre questioni morali possono apparire insignificanti. Del resto il pensiero religioso e filosofico non ha avuto bisogno di attendere né Darwin né la paleontologia per riflettere a fondo sulla precarietà e la fugacità della vita dell'uomo sulla terra. Il fatto è che l'uomo è, sì, nient'altro che una fragile canna, ma è una canna pensante e, almeno per quanto ne sappiamo ora, è l'unica specie che, essendo consapevole di questa precarietà, si pone domande sul suo significato. Inoltre è anche vero che, di fronte ai dilemmi morali posti agli uomini dalla vita quotidiana, è la prospettiva paleontologica a risultare del tutto irrilevante. In realtà, come già suggeriva Thomas Henry Huxley nella sua celebre lettura Evolution and Ethics (1894), proprio l'indifferenza della natura può essere una buona ragione perché l'uomo si assuma le sue responsabilità morali.

Il lungo periodo, dodici anni, intercorso tra la pubblicazione dell'Origine delle specie (1859) e quella dell'Origine dell'uomo (1871) è stato giustificato da Darwin con il timore che le sue idee sull'origine dell'uomo avrebbero suscitato nuovi pregiudizi sulle sue teorie. Ma in realtà questi anni segnano anche il passaggio di Darwin da uno scenario di tipo hobbesiano, mediato soprattutto da Robert Malthus, ad un linguaggio più humeano4 visto soprattutto con gli occhi di Adam Smith: un rilevante lavoro di approfondimento e di precisazione di Darwin stesso su diversi punti essenziali della sua teoria dell'evoluzione, proprio nella direzione di rendere coerente la sua visione biologica con le peculiari caratteristiche delle facoltà cognitive e morali dell'uomo. L'immagine della natura presentata dall'Origine delle specie infatti assomiglia per molti versi al mitico stato di natura della hobbesiana guerra di tutti contro tutti. Ma il meccanismo della selezione naturale, così come è presentato nell'Origine delle specie, mostra due punti deboli: il primo è quello relativo al sorgere e consolidarsi della sterilità in diverse caste di insetti; il secondo, molto più rilevante, è quello relativo al sorgere e al consolidarsi dei comportamenti altruistici umani. Responsabili di questa debolezza sono la correlazione, ribadita più volte da Darwin, tra la metafora della selezione naturale e la metafora della lotta per l'esistenza e l'affermazione continuamente ripetuta, e connessa all'idea di trasmissione ereditaria e all'accumulo di variazioni di piccola entità, che la selezione naturale opera a esclusivo vantaggio del singolo individuo.5 Il primo a rendersi conto dell'evidente fallimento di una rappresentazione della natura fatta di soli competitori, incapace quindi di descrivere il sorgere della cooperazione, è stato lo stesso Darwin. In mancanza di altri fattori la selezione naturale favorisce il sorgere e il prevalere di soli individui egoisti: ciascun gene, ciascuna cellula, ciascun individuo, ciascun gruppo tende a promuovere il suo esclusivo successo riproduttivo a spese dei suoi competitori. Come si spiega allora la presenza tra gli animali e, in misura ancor maggiore, tra gli umani di una robusta e diffusa presenza di comportamenti altruistici? A questa domanda Darwin cerca di rispondere nell'Origine dell'uomo sottolineando l'importanza di quella particolare forma di selezione naturale che è la selezione sessuale e introducendo due elementi nuovi: gli istinti sociali, e quella «selezione naturale a vantaggio del gruppo» che ha costituito, per oltre un secolo, una spina sul fianco del darwinismo. In ogni caso nell'Origine dell'uomo cambia (o forse, meglio, si articola) lo scenario di competizione di tutti contro tutti e l'altruismo diventa l'elemento cruciale per le sorti di una morale darwiniana che ha la necessità di spiegare come alcuni individui dotati dalla selezione naturale di un forte istinto di sopravvivenza che li spinge a competere con gli altri per il successo riproduttivo, siano portati, in alcune circostanze, a essere talmente generosi da sacrificare la loro stessa vita per difendere o aiutare gli altri. La chiave di volta di queste puntualizzazioni è costituita dalla teoria darwiniana degli istinti. Benché rivisti e ampiamente modificati in funzione delle

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nuove acquisizioni scientifiche, i principi darwiniani sugli istinti hanno costituito le basi metodologiche da cui sono mosse le ricerche della etologia, della sociobiologia e della psicologia evoluzionista.

4. Vita di società

Il cambio di prospettiva provocato dalla visione darwiniana della natura ha avuto profonde ripercussioni sul piano antropologico spostando l'uomo, dall'apice di una creazione concepita in forma di piramide gerarchica, all'ultimo della fila tra i viventi comparsi sulla terra, ai margini e non al centro della storia naturale, e costringendolo, con un esercizio di umiltà, a riconoscere di essere parte e non padrone del mondo, o, come in maniera più colorita suggerisce James Rachels (1987; 1996), di essere un animale creato da altri animali. Le implicazioni morali di questa dislocazione rivoluzionaria sono state esplorate essenzialmente in due direzioni.

La prima è quella, volta ad allargare progressivamente le frontiere della morale ad altri soggetti (gli animali, appunto) che tradizionalmente ne sono stati esclusi, dell'uguaglianza interspecifica. Su questa strada si incontra, ad esempio, quella variante dell'utilitarismo classico che è l'ugualitarismo degli interessi di Peter Singer (1991; 1989; 2000), per il quale la natura degli esseri coinvolti in una deliberazione morale (uomo o donna, bianco o nero, intelligente o stupido, a due zampe o a quattro zampe) è del tutto indifferente e la discriminazione basata sull'appartenenza a una specie è soltanto un pregiudizio, specismo, paragonabile al razzismo o al sessismo, mentre quello che rende uguali gli uomini e gli altri animali è la sensibilità al dolore e alla sofferenza. Un'impostazione quella di Singer che lo ha portato a rivedere in chiave di ugualitarismo molti temi della bioetica a partire dall'allargamento ad alcuni animali (i primati, qualche cetaceo, il maiale, ecc.) della nozione di «persona» (negata però al feto umano e al cerebroleso), alle prese di posizione molto nette a favore dell'aborto, dell'eutanasia ecc. La questione dell'ugualitarismo interspecifico e quella connessa dei diritti degli animali, ha avuto il grande merito di orientare l'opinione pubblica contro alcuni trattamenti (chiusura nelle gabbie, sperimentazioni, vivisezioni, ecc.) cui sono sottoposti gli animali talvolta anche senza reale necessità («che rapporto c'è tra il fatto che l'uomo è razionale e il coniglio non lo è e la pratica di spalmare gli occhi dei conigli con prodotti chimici per testare gli effetti di alcuni cosmetici?» si chiede Rachels). Ma nei suoi termini generali la retorica dell'ugualitarismo che, come ha riconosciuto lo stesso Singer (1999), ha improvvidamente rinunciato alla nozione di «natura umana», non è riuscita a cancellare le obiettive disuguaglianze e i conflitti che sono presenti nella natura.

La seconda direzione è quella che, proprio riconoscendo il debito maturato dall'uomo nei confronti della natura in genere e degli animali in particolare, gli assegna il compito di «responsabile» o di curatore. L'etica della responsabilità o meglio della cura, quella che il figlio più giovane deve ai suoi anziani genitori, non comporta che l'uomo misconosca la sua discendenza, ma piuttosto che se ne prenda cura, non tanto perché loro hanno dei diritti ma perché lui ha dei doveri.

Nel quadro della natura disegnato da Darwin questi due aspetti sono entrambi rintracciabili. La natura dell'uomo si caratterizza infatti sotto due profili: per il primo l'uomo è un animale sociale; per il secondo l'uomo è l'unico ente morale presente in natura. La definizione dell'uomo come «animale sociale», non nuova ma ribadita da Darwin a più riprese, rientra, a prima vista, nel solco di una lunga tradizione che affonda le sue radici nella filosofia greca. Non a caso essa è stata accostata da diversi commentatori, alla ricerca di padri nobili, al politikÕn zùon di Aristotele.6 In realtà, come è già stato sottolineato da altri, la nozione aristotelica di politikÕn zùon intende fornire una definizione essenzialista dell'uomo, a marcarne la differenza rispetto agli altri animali, dato che il vivere nella polis fa parte della sua natura esclusiva. L'espressione darwiniana «animale sociale» indica invece che l'uomo appartiene a una precisa categoria di animali, quelli che uno zoologo odierno definirebbe «obbligatoriamente gregari» per i quali cioè la vita in gruppo non è un'opzione, ma una necessaria strategia di sopravvivenza (così, ad esempio, de Waal, 2006: 4 ss.). La sua quindi è una definizione inclusiva, sottolinea la continuità della natura dell'uomo con quella degli altri animali e in particolare con quelli che possiedono istinti sociali. Gli animali sociali condividono con gli altri animali alcuni istinti di base come quello di autoconservazione, l'attrazione sessuale, l'amore della madre per i suoi neonati, ecc. Ma oltre a questi ne hanno sviluppato altri che portano un animale sociale a provare piacere nella compagnia dei suoi simili, a sentire una certa quantità di simpatia nei loro confronti, ad aiutarli e difenderli in caso di bisogno. L'istintiva simpatia reciproca degli animali sociali sarebbe stata modellata dalla selezione naturale come estensione, oltre i confini familiari, dell'amore dei genitori verso i figli (altruismo parentale) che sarebbe alla base di tutti gli istinti sociali i quali a loro volta sarebbero rafforzati anche dall'esercizio continuato (abito) e dalla constatazione dei vantaggi reciproci (altruismo reciproco). Queste considerazioni hanno portato alcuni autori (cfr., ad esempio, Singer, 1981; de Waal, 2001) a suggerire che il fondamento istintuale comune agli uomini e ai primati e la matrice della moralità è la relazione di cura parentale. Nel caso dell'uomo questa relazione sarebbe stata accentuata da alcune eterocronie e in particolare dalla immaturità alla nascita e dal prolungamento abnorme dell'investimento parentale nell'infanzia e nell'adolescenza. Da questa relazione di cura così protratta,

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allargando via via il cerchio per prossimità, sarebbe sorto l'altruismo umano. In realtà, le cose non sembrano così semplici perché l'altruismo parentale e l'altruismo non parentale sembrano rispondere a meccanismi diversi e non facilmente collegabili.

5. Altruista, quello?! No, è soltanto un «egoista razionale»

Nella seconda metà del Novecento l'altruismo è diventato il tema centrale della sociobiologia. I tentativi di dare risposta agli interrogativi lasciati in sospeso da Darwin sull'origine e la natura dei comportamenti altruistici sono stati numerosi e hanno contribuito ad apportare sostanziosi chiarimenti sui meccanismi evolutivi che potrebbero spiegare i comportamenti altruistici degli animali sociali e dei primati sia per sé, sia come cause remote dell'altruismo umano. Il punto di avvìo del problema è fornito dallo scenario hobbesiano-malthusiano-darwiniano di un mondo abitato da soli competitori. In un panorama di questo tipo la selezione darwiniana favorisce gli individui più competitivi e se anche, per mutazione, dovessero apparire caratteri cooperativi, la presenza di profittatori (free-riders) cioè di individui che godono dei benefici comuni senza pagarne il costo, ridurrebbe ben presto a zero il numero degli altruisti. Come si può spiegare in uno scenario del genere il sorgere e il consolidarsi dei comportamenti altruistici, verificabili tra gli animali, e, in misura molto maggiore, tra gli uomini? È evidente che, se la selezione naturale tende a favorire i tratti egoistici, per spiegare la presenza degli altruisti è necessario ricorrere ad altri meccanismi evolutivi. In realtà Darwin stesso aveva indicato nell'amore dei genitori per i figli e nella selezione dei gruppi i meccanismi in grado di spiegare gli atti altruistici, ma fino agli anni sessanta del Novecento queste indicazioni erano considerate piuttosto vaghe sia perché si riteneva che la selezione operasse esclusivamente a livello di organismi e non fra i gruppi, sia perché in mancanza di conoscenze precise la relazione tra geni e atti altruistici restava confusa, sia infine perché il termine «altruismo» continuava a mantenere un aspetto di «volontarietà» che rendeva difficile la sua formalizzazione. Nella prima metà degli anni sessanta del Novecento, in concomitanza con le nuove conoscenze relative ai processi di trasmissione delle informazioni geniche, i due tipi di meccanismi in grado di promuovere la cooperazione, la selezione parentale e la reciprocità, la prima relativa all'altruismo fra organismi geneticamente correlati e il secondo tra organismi privi di relazione di parentela, hanno cominciato ad assumere contorni più precisi. Uno schema molto semplice delle teorie sul sorgere e consolidarsi dei tratti altruistici in una popolazione di soli egoisti, proposto da Martin A. Nowak (2006), può aiutarci a sintetizzare e chiarire il nucleo del discorso sulle condizioni formali dell'altruismo.

Fig. 1

Si supponga una popolazione virtuale di soli defezionisti (D) la cui fitness media è minima (la guerra di tutti contro tutti rende il gruppo più debole); in essa per mutazione nasce un cooperatore (C); la selezione naturale in una popolazione mista tende a favorire i defezionisti e quindi l'unico cooperatore sarebbe destinato a sparire senza trasmettere il suo tratto di reciprocità; per la stabilizzazione di un tratto altruista nella popolazione serve quindi un meccanismo di supporto che freni gli egoisti e favorisca gli altruisti. I due meccanismi potrebbero essere l'altruismo parentale e la selezione dei gruppi. Si potrebbe supporre ad esempio che il sistema di riconoscimento parentale, a causa di mutazioni genetiche o di cambiamenti demografici, sia casualmente modificato per estendere ai non parenti del gruppo l'altruismo parentale; in seguito, per adattamento, si potrebbe introdurre una ulteriore modifica che discrimina fra i non parenti che adottano comportamenti di reciprocità e quelli che defezionano (Axelrod and Hamilton 1981). Oppure si potrebbe supporre una selezione dei gruppi, dato che una popolazione con molti altruisti sarebbe facilmente vittoriosa sulle altre e quindi espanderebbe i tratti altruistici. Entrambe queste possibilità sono state adombrate da Darwin. A mano a mano che i tratti altruistici si diffondono la fitness media tende a crescere (da Nowak, 2006, modificato).

5.1. L'amore dei parenti e l'egoismo dei geni

L'idea di una correlazione tra la parentela genetica e i comportamenti altruistici era già stata intuita e avanzata molti anni prima, ma la sua formalizzazione si deve a William D. Hamilton (1964). Il primo passo è

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stato una definizione operativa degli atti «altruistici». L'altruismo, dal punto di vista operativo, descrive i comportamenti di un individuo a beneficio di qualcun altro, in opposizione a «egoismo» che è l'insieme delle azioni rivolte al proprio esclusivo interesse. Gli atti altruistici sono caratterizzati da due elementi: 1. recano un beneficio (b) al destinatario; 2. comportano normalmente dei costi (c) per l'individuo che li pratica. In biologia i costi e i benefici sono valutati, darwinianamente, in termini di successo riproduttivo effettivo e potenziale (fitness), ovvero nell'atteso numero di discendenti.7 A partire da questa definizione Hamilton ipotizza che, perché avvenga un atto altruistico, il coefficiente di parentela genica tra donatore e ricevente deve essere superiore al rapporto tra costi e benefici, e formalizza questa relazione nella regola, divenuta poi molto popolare, r>c/b.8 Secondo questa regola, il grado di altruismo degli animali risulta essere tanto più grande quanto più è stretto il legame di parentela genica e i benefici erogati con atti altruistici sono tanto maggiori e i costi tanto più sopportabili (vicini allo zero) quanto più è alto il coefficiente di parentela genica.9 Secondo Hamilton il comportamento sociale di una specie evolve come se l'individuo in ogni situazione tenesse conto, oltre che del suo, anche del successo riproduttivo dei suoi parenti cooperando con il suo comportamento al successo di chi condivide i suoi stessi geni (inclusive fitness). In pratica è come se la selezione naturale invece di esercitarsi a livello dei singoli organismi operasse a livello del gruppo dei parenti (kin selection). I comportamenti altruistici, del tutto incomprensibili a livello del singolo individuo (perché una madre ama tanto suo figlio da rischiare la vita per lui?) sembrano acquistare una loro ragionevolezza se guardati dal punto di vista della sopravvivenza e diffusione di un pool genico comune a diversi individui. A partire da queste ipotesi negli anni sessanta-ottanta in molto neodarwinismo (cfr., Williams, 1966; Dawkins, 1976) che praticamente considerava il gene come la sola unità su cui si esercita la selezione naturale e l'individuo come il livello su cui avviene l'adattamento, gli esempi di altruismo vengono spiegati esclusivamente in termini di autointeresse. Secondo George C. Williams i geni sono la fondamentale unità di selezione perché hanno la durata (sono virtualmente eterni) che gli individui non hanno. Con Dawkins, successivamente, il gene diventa egoista e gli individui diventano veicoli robot controllati dai geni mentre l'altruismo non sarebbe nient'altro che un trucco dell'egoismo dei geni per assicurarsi la loro diffusione e sopravvivenza. La visione della selezione genica come unico livello di selezione è stata utile, a suo tempo, per mettere a fuoco alcuni punti di vista della genetica, ma si scontra con molti problemi teorici (ad esempio la differenza tra replicatori e interattori, tra genotipo e fenotipo) e osservazionali (ad esempio il fatto, verificato dalla genetica di popolazione, che il gene favorito dalla selezione tra i gruppi rimpiazza il gene favorito dalla selezione all'interno del gruppo elevando la fitness media della popolazione [v. fig. 1]; la teoria dell'altruismo parentale inoltre lascia aperto il problema decisivo: dato che né gli insetti sociali né l'uomo possono vedere direttamente il dna di un altro, cos'è che fa sì che i geni riconoscano il grado di parentela genica degli interattori?).

La teoria della selezione parentale (e del «fenotipo esteso», Dawkins, 1982) sembra aver trovato sul piano empirico alcune conferme, sia tra gli insetti sociali sia tra i primati, ma in realtà la regola di Hamilton fornisce solo le condizioni «formali» perché l'altruismo parentale possa introdursi e consolidarsi in un mondo di defezionisti. Proprio per la sua semplicità e flessibilità formale la regola di Hamilton è diventata il modello per la formalizzazione di altre regole in grado di promuovere la cooperazione (Nowak, 2006). Nella realtà tuttavia le cose sono molto più complicate. I parenti, ad esempio in presenza di risorse locali scarse, possono essere anche competitori e giungere a una lotta fra parenti vicini riducendo o anche annullando l'effetto della parentela nel promuovere l'altruismo. L'immagine della natura umana prospettata dal primo neodarwinismo non è solo sconfortante ma anche paradossale10 e soprattutto miope dato che in ogni caso non riesce a spiegare con la condivisione genica i numerosissimi casi di altruismo non parentale.

5.2. La reciprocità e l'egoismo dei gruppi

L'idea che negli animali, prima che negli uomini, potesse essere sviluppato un istinto di «reciprocità» e che questo istinto spiegasse l'altruismo non parentale è stata proposta da Robert L. Trivers (1971) al seguito di numerose osservazioni sul mutualismo degli animali. La reciprocità, l'andirivieni di qualcosa da X verso Y e viceversa, che sino allora era stata considerata da una lunga tradizione,11 come la regola caratteristica delle società umane, fondamento della giustizia e quindi della pace sociale, diviene un istinto ereditato dai nostri antenati animali e quindi una specie di legge di natura. Nel modello messo a punto da Trivers l'evoluzione genetica dell'altruismo reciproco avviene sulla base di un mutuo vantaggio e sul relativamente rapido riequilibrio del rapporto, attraverso il ricambio del beneficio.12 Un altruista reciproco accetta costi immediati a fronte di un beneficio futuro,13 ma perché questo avvenga è necessario che gli individui siano nelle condizioni di incontrarsi e interagire relativamente di frequente. L'altruismo reciproco si può evolvere più facilmente quindi in specie che hanno vite abbastanza lunghe, buona memoria, e una popolazione sufficientemente stabile nella quale due individui hanno probabilità di incontrarsi più volte e di ricordare il comportamento passato, tutte condizioni che spiegherebbero la grande diffusione di questa regola nella specie umana. Un comportamento altruista è vantaggioso per colui che lo pratica se è diretto verso individui

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che in caso di necessità sono disposti a ricambiare. Ma, data l'ipotesi iniziale di una popolazione formata da soli egoisti (v. fig. 1) e dato che il beneficio futuro è connesso al successivo comportamento del beneficiato su cui l'agente non ha il controllo, cos'è che fa sì che la regola della reciprocità venga rispettata? Attorno a questa domanda John Maynard Smith (1982) ha sviluppato, a partire dagli anni settanta del Novecento, la teoria evoluzionistica dei giochi che ha consentito di portare notevoli conoscenze sulle condizioni formali relative al sorgere e consolidarsi della cooperazione14 umana. Molte di queste sono state illustrate attraverso il celebre «Dilemma del prigioniero» a due persone la cui strategia vincente, quando sia giocato una sola volta (nel qual caso non può esservi reciprocità), rispetta il principio della selezione naturale, è cioè sempre a favore del defezionista (D) e a svantaggio del cooperatore (C), secondo una matrice del guadagno di tipo 2 × 2:

C D

C (b-c) -c

D b 0

che nella situazione standard vede ovviamente (b-c) <b e -c<0. Se però la situazione descritta dal dilemma del prigioniero si ripete più volte con gli stessi attori allora la strategia che risulta vincente, come hanno dimostrato Axelrod e Hamilton (1981) e Axerold (1984, 1997) con due celebri tornei, è quella fornita dal semplice algoritmo del «colpo su colpo», (tit-for-tat, Tft), cioè quella di ripetere la stessa mossa fatta in precedenza dall'avversario: cooperare se coopera, defezionare se defeziona, che è caratterizzata dalla massima reciprocità diretta. La semplicità e la robustezza della strategia TFT ha per un po'di tempo messo in ombra i suoi due limiti principali: il problema della prima mossa e la possibilità dell'errore. Il presupposto di TFT è infatti la disponibilità a cooperare per cui essa è vincente se ha di fronte altre strategie cooperative. Molto più complicata è, ad esempio, l'insorgenza e la stabilizzazione di una strategia di cooperazione quando la prima mossa di un avversario si basa sulla strategia del «defeziona sempre» (always defect, ALLD). In questo caso l'applicazione rigida di TFT comporterebbe una risposta defezionista innescando così la impossibilità dell'insorgenza della cooperazione. Per risolvere questo problema sono state avanzate diverse proposte. Se ad esempio all'interno di una popolazione sufficientemente ampia un individuo può scegliere con chi giocare (ad esempio solo con cooperatori), oppure se è libero di scegliere caso per caso se giocare o non giocare, allora qualche livello di cooperazione può insorgere; un'altra proposta, forse non meno interessante, è rappresentata dal modello «barbe verdi» nel quale i cooperatori si riconoscono fra loro attraverso un'etichetta arbitraria (come un tratto del volto, l'odore, ecc.; questo riporterebbe a una specie di selezione di parentela, ma se li riconoscessero anche gli altri sarebbero destinati a essere sfruttati e a perdere). Infine un altro meccanismo in grado di promuovere il comportamento reciproco può essere costituito dalla punizione dei defezionisti (ma solo una volta che la reciprocità sia già stata accolta, istintivamente o no, come regola: la punizione non può avvenire per una regola che non c'è ancora).

Ma vi è un altruismo specificamente (di specie) umano? Il che potrebbe voler dire: vi è una moralità specificamente umana? Le risposte a questa domanda non sono semplici. In un lungo saggio sull'altruismo umano, Ernst Fehr e Urs Fischbacher (2005) sostengono che le società umane rappresentano una vistosa anomalia nel complesso del mondo animale: esse sono attualmente basate su una articolata divisione del lavoro e su una cooperazione a larga scala di gruppi di individui geneticamente non correlati. Per contrasto gran parte delle specie animali mostrano una ridottissima divisione del lavoro e la cooperazione è limitata a piccoli gruppi. Anche nelle altre società di primati che con noi condividono gli antenati, la cooperazione è incomparabilmente meno sviluppata che negli umani. Perché gli uomini sono così spettacolarmente unici rispetto a tutti gli altri animali? La risposta è proprio che vi sono forme di «altruismo» unicamente umane. L'altruismo umano va ben oltre ciò che è stato osservato nel mondo animale dove l'altruismo e la cooperazione sono strettamente limitati al gruppo parentale. Ad esempio non sembrano esservi casi, nel mondo animale nei quali si possa riconoscere che la cooperazione è motivata dalla costruzione di una reputazione personale (che nel mondo umano è una delle motivazioni prevalenti). L'altruismo umano sembra avere dei limiti che derivano essenzialmente dai costi degli atti altruistici, dalla competizione tra gli individui e dai confini dei gruppi. La maggior parte dei comportamenti altruistici umani non rientrano nel modello della reciprocità diretta: tra gli uomini spesso le relazioni sono asimmetriche e fugaci. È il caso, ad esempio, dell'elemosina a un povero: i poveri non sono in grado, per definizione, di essere reciproci anche se spesso sono capaci di essere grati. Oppure è il caso delle donazioni offerte a sventurati sconosciuti colpiti da calamità naturali come terremoti o inondazioni in qualche angolo sperduto del mondo. Cos'è che sostiene questi comportamenti altruistici non direttamente reciproci? Secondo molti autori la moneta che alimenta la reciprocità indiretta è proprio la reputazione. Aiutare qualcuno promuove una buona reputazione che sarà ricompensata da altri. Sebbene forme semplici di reciprocità indiretta possano essere riscontrate anche presso gli animali (Warneken et al., 2007) soltanto gli uomini sembrano pienamente coinvolti nella piena

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complessità del gioco. La reciprocità indiretta comporta fondamentali livelli di conoscenza. Non soltanto dobbiamo ricordare le nostre interazioni, ma dobbiamo anche monitorare la rete sociale del gruppo che varia continuamente. Il linguaggio sintatticamente articolato sembra necessario per guadagnare le informazioni e diffondere il gossip associato con la reciprocità indiretta e per esprimere, attraverso la lode e il biasimo, i giudizi morali (Alexander, 1987) e le norme sociali.

Se l'altruismo parentale sembra determinato dall'egoismo dei geni, quello reciproco sembra determinato dall'egoismo dei gruppi che, attraverso il sacrificio dei singoli, tendono a incrementare la loro fitness media (v. fig. 1). In tutti questi contesti i termini altruismo e cooperazione hanno assunto significati tecnico-operativi che escludono dal loro orizzonte qualunque valutazione morale. L'atto altruistico viene sempre considerato connesso all'autointeresse dei singoli, o dei gruppi. Vengono eliminate le caratteristiche che connotano l'altruismo come atto morale, la gratuità da un lato e la gratitudine dall'altro, ed escono così dall'orizzonte della moralità, fenomeni come il dono, la solidarietà, il volontariato, gli aiuti internazionali, la grazia, ecc. L'immagine della natura umana che ne viene fuori è però l'immagine piatta, unidimensionale dell'Homo oeconomicus, una definizione univocamente centrata su quella razionalità europea che, per motivi storici, è stata fatta coincidere, almeno dal Rinascimento in poi, con la massimizzazione del profitto riproduttivo ed economico. È sostanzialmente su questa immagine (anche se nelle versioni aggiornate dell'«egoista razionale» o del «massimizzatore vincolato» di Gauthier, 1986) che si fonda la strategia darwinista di formazione delle norme sociali e della morale. Estendere il principio di reciprocità agli animali ha fatto sì che questa immagine acquistasse la parvenza di una legge naturale, ma in realtà Smith e Darwin considerano naturale l'immagine dell'uomo prodotta dalla borghesia capitalista e che loro stessi hanno contribuito a costruire. Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono (1965: 283-284) nota che se vi è nell'uomo un egoismo calcolatore esso non fa parte di una natura umana, ma è un portato della storia e della organizzazione sociale: «sono state le nostre società occidentali a fare, assai di recente, dell'uomo un "animale economico"... L'uomo è stato per lunghissimo tempo diverso e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice».15 L'individuazione delle condizioni formali per il sorgere dell'altruismo parentale e dell'altruismo reciproco, effettuata dal laboratorio virtuale della teoria dei giochi e delle decisioni economiche, non dice molto in realtà a riguardo di come effettivamente sono andate le cose dal punto di vista dell'evoluzione, ma ha messo in luce due elementi di grande interesse. Il primo è che il punto di partenza fornito dallo scenario hobbesiano-malthusiano-darwiniano di un mondo abitato da soli competitori è uno scenario «mitico»: questo scenario infatti dovrebbe essere retto da una popolazione perfettamente mista (v. fig. 1), nella quale cioè ogni individuo è in un rapporto univoco con ogni altro. Ma in natura, o almeno tra gli animali superiori, non si conoscono popolazioni così composte, dato che tutti gli individui sono collocati all'interno di relazioni e gerarchie plurime, famiglia, gruppo parentale, vicinato, ecc. In altre parole, l'hobbesiana guerra di tutti contro tutti non è mai esistita, come, forse, non è mai esistita la pace di tutti con tutti. Il secondo punto, ancora più rilevantemente fecondo, è che gli studi sull'altruismo evidenziano che nella selezione naturale, accanto al principio darwiniano di «competizione», opera un altro principio, non rilevato da Darwin, un principio generale di «cooperazione». Infatti si possono osservare forme di cooperazione a tutti i livelli biologici: i geni cooperano nei genomi, i cromosomi cooperano nelle cellule eucariotiche, le cellule negli organismi multicellulari, gli individui cooperano nelle colonie di animali sociali e, tra gli animali superiori, gli uomini sono forse il maggior esempio di successo evolutivo dovuto alla cooperazione. Secondo Maynard Smith (Maynard Smith J., Szathmary E., 1995) è proprio la cooperazione sotto diverse forme che ha consentito le otto transizioni biologiche principali e permesso l'emergenza di caratteri a livelli di complessità superiore.

6. Il senso morale

Ciò che maggiormente distingue l'uomo dagli altri animali, è, secondo Darwin, il suo senso morale. Che cosa Darwin intenda per «senso morale» non è però facile da chiarire. Nelle prime righe del quarto capitolo dell' Origine dell'uomo esso viene presentato come «coscienza» o «senso del dovere»: «esso è riassunto in quella breve ma imperiosa parola ought (dovere) così piena di alto significato»; e in uno dei non molti slanci retorici prosegue citando la Metafisica dei costumi di Kant «Dovere! ... pensiero straordinario». A prima vista il senso morale è un comando interiore che fa sì che un uomo, senza esitare, rischi la vita per i suoi compagni, oppure, dopo opportuna riflessione (spettatore interno), decida di sacrificare la sua vita per una grande causa. Questa concezione ha fatto accostare il senso morale di Darwin a un imperativo categorico che la selezione naturale avrebbe consolidato per limitare i desideri egoistici individuali e favorire la promozione della cooperazione sociale, dato che cooperare con coloro che condividono un pool genico o che possono reciprocare favorisce la fitness riproduttiva. Proprio a partire da queste considerazioni l'etica darwiniana è stata posta da Michael Ruse (1986) all'interno del cosiddetto «scetticismo morale» dato che il senso del dovere non sarebbe nient'altro che un trucco della selezione naturale per farci cooperare. Lo scetticismo morale, come illustrato ad esempio da John L. Mackie (1977), sostiene che le nostre affermazioni su specifiche proprietà del mondo, come i valori e le qualità etiche, sono necessariamente tutte false in quanto

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tali proprietà non sono proprietà reali ma solo psicologiche. La confusione tra proprietà reali e sentimenti psicologici avrebbe portato il senso comune e anche la riflessione di molti filosofi a ritenere che esistano valori morali reali. Ma si tratterebbe di un errore, dato che in realtà non esistono imperativi categorici, non c'è niente che noi «dobbiamo» fare e i nostri giudizi morali sono ontologicamente non validi. Secondo Mackie la moralità non è da scoprire, ma da inventare: siamo noi che dobbiamo decidere se e quali orientamenti morali adottare (per un primo approccio al pensiero di Mackie cfr. De Mori, 2005; per gli sviluppi successivi cfr. Joyce, Kirchin, 2007). Nei fatti però anche la teoria dell'errore morale si scontra con le stesse difficoltà logiche che minano alla base tutte le teorie metaetiche scettiche e relativiste: un pensiero sostanzialmente sterile, incapace di giudicare, pirronianamente afasico e indifferente, spesso venato di psicologismo, fondato sul paradosso per cui si è scettici su tutto eccetto il proprio scetticismo. In realtà l'etica darwiniana che sostiene che la moralità è parte della natura umana della quale, in qualche direzione, costituisce una ottimizzazione oggettiva; che questa moralità è autoritativa e normativa; che tutte le società umane possiedono, virtualmente, una moralità alla quale sembra quindi impossibile poter sfuggire; e che, infine, i nostri giudizi morali hanno rilevanti effetti pratici, difficilmente si può collocare all'interno di teorie metaetiche scettiche.

Secondo Darwin il senso morale è il risultato evolutivo della combinazione di due elementi: gli istinti sociali e le peculiari facoltà cognitive dell'uomo. L'uomo è l'unico ente morale sulla terra perché è l'unico vivente nel quale lo sviluppo delle capacità cognitive ha raggiunto un punto così alto da permettergli di comparare le azioni passate con quelle presenti e darne una valutazione nei termini di giusto o sbagliato e quindi a sentirsi obbligato a seguire una certa condotta.16 Soltanto oltre una certa soglia di sviluppo delle facoltà cognitive si ha l'emergenza del senso morale, una nuova facoltà o una facoltà del giudizio esclusivamente umana. In Darwin tuttavia il rapporto tra istinti sociali e ragione nella costruzione del senso morale lascia aperta la porta a diverse interpretazioni. In effetti le riflessioni postdarwiniane sulla moralità si sono sviluppate tradizionalmente lungo tre assi principali: 1. quello degli istinti sociali come fonte del senso morale; 2. quello delle precondizioni cognitive che consentono la valutazione morale; 3. quello della selezione dei gruppi. Tutte queste riflessioni hanno trovato il loro punto di partenza e la trattazione darwiniana più esplicita soprattutto nel quarto capitolo della prima parte dell'Origine dell'uomo, ma sono molto lontane dal confluire in una concezione antropologico-morale unitaria rispecchiando quelle che sono le difficoltà incontrate da Darwin stesso: l'impossibilità di una sintesi tra una visione monista e una dualista dell'uomo.

7. La grammatica e l'incesto

Alla genesi dei giudizi morali (secondo la dicotomia giusto/sbagliato), ha dedicato un ampio studio Marc D. Hauser (2006). Secondo Hauser il senso morale dell'uomo va considerato alla stregua di una vera e propria facoltà al pari di quella linguistica e matematica. Si tratterebbe di «una capacità innata di tutte le menti umane che inconsciamente e automaticamente generano giudizi su ciò che è giusto o sbagliato» sviluppatasi con l'evoluzione e costituita da una serie di circuiti neurali. Questa facoltà opererebbe per gran parte come una «grammatica morale», alla stregua di come opera la grammatica universale di Chomsky. Come la grammatica generativa di Chomsky opera a livello inconscio dettando le regole che generano la sintassi e il vocabolario, senza alcun linguaggio particolare, così la «grammatica morale» detta le regole per la formazione dei giudizi morali senza una lista di norme specifiche che vengono fornite dalle singole culture. Tuttavia queste regole sono così stringenti che un certo numero di norme sono praticamente universali: la regola aurea, non uccidere, evita l'adulterio e l'incesto, non tradire, non rubare, aiuta chi soffre, ecc. .17 Ma in concreto le diverse culture possono assegnare pesi differenti ai singoli elementi della grammatica morale e quindi mostrare una pluralità di valori morali.

Il fatto che la grammatica morale che valuta le cause e le conseguenze delle azioni nostre e di quelle degli altri sia inconscia, rende un'illusione il paradigma dominante secondo il quale noi costruiamo la morale con la ragione a partire da principi espliciti. Naturalmente anche la nostra convinzione di poter decidere con libertà, il libero arbitrio, è un'illusione (ma Hauser non spiega come mai, se il comportamento morale è istintivo, una tale convinzione è così universalmente diffusa) dato che è sufficiente seguire le regole innate modellate dalla selezione di gruppo. Per dimostrare la sua ipotesi Hauser ricorre a testimonianze ricavate da osservazioni scientifiche e da ingegnosi esperimenti mentali, ritenendo che le questioni del moralmente giusto/sbagliato siano state per troppo tempo in mano ai filosofi morali o ai moralisti e sia giunta l'ora che esse vadano in quelle dei biologi evoluzionisti. L'etica deve diventare una branca della psicologia umana. In questa direzione un certo sviluppo hanno avuto le ricerche relative all'evitazione dell'incesto.

Gli studi sulla proibizione dell'incesto hanno visto confrontarsi, sin dalla fine dell'Ottocento, due posizioni: quella di Edward Westermarck secondo il quale la proibizione dell'incesto riflette una ripugnanza innata nell'uomo all'accoppiamento tra membri dello stesso gruppo domestico; e quella solitamente attribuita a Edward B. Tylor, e adottata poi da una schiera di antropologi culturali, che collega l'incesto all'esogamia sintetizzata nella formula «o sposarsi fuori della famiglia o venire uccisi fuori della famiglia». Secondo la

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prima ipotesi l'evitazione dell'incesto sarebbe stata favorita dalla selezione naturale per limitare la diffusione di geni deleteri dovuta alla fecondazione tra membri della stessa famiglia; per la seconda invece la proibizione dell'incesto sarebbe una regola sociale volta a favorire la cooperazione fra i gruppi: nel primo caso si potrebbe considerare l'evitazione dell'incesto come una forma molto sofisticata di altruismo parentale (che si potrebbe esprimere con la regola: la diffusione del proprio pool genico non può avvenire se questa pratica mette a rischio la fitness complessiva dei geni condivisi); nel secondo invece la proibizione dell'incesto costituirebbe la premessa dell'altruismo reciproco umano, o, come propone Lévi-Strauss, la cerniera tra natura e cultura. Il punto centrale di questo dibattito è costituito dal problema (lasciato aperto dall'altruismo parentale, v. sopra) del sistema di «riconoscimento della parentela». Per alcuni sociobiologi il problema di riconoscere i parenti è stato risolto da parte di alcuni animali attraverso una serie di «indicatori indiretti» come l'odore e la vicinanza territoriale. Ma, nel caso dell'uomo, vi sono ancora all'opera indicatori analoghi e se sì quale peso hanno, oppure il riconoscimento dei parenti avviene esclusivamente sulla base della terminologia di parentela e quindi sul piano culturale? Rispolverando la vecchia idea di Westermarck, Debra Lieberman et al. (2007), avanzano l'ipotesi che il cervello umano abbia elaborato evolutivamente un sistema che riconosce la parentela (kin detection system), un circuito neurale discreto non conscio -- un indice di parentela che ricalca quello di Hamilton -- che alimenterebbe sia il disgusto e la riprovazione morale per l'incesto sia l'altruismo verso i famigliari. Secondo gli autori il circuito neurale che riconosce il grado di parentela determinerebbe una specie di imprinting tra fratelli attraverso due indizi indiretti e indipendenti (ma non si escludono altre tracce): 1. l'associazione materna perinatale, ovvero il fatto che i figli maggiori possono osservare le cure materne dedicate ai figli minori che quindi inconsciamente vengono etichettati come fratelli; 2. la durata della coresidenza durante il periodo dell'investimento parentale (convenzionalmente da 0 a 18 anni) che fa sì che i figli minori riconoscano i maggiori come fratelli. Queste informazioni sarebbero quindi inviate a due diversi sistemi motivazionali: quello dell'avversione/attrazione sessuale e quello dell'altruismo verso i famigliari. Quando il sistema di riconoscimento della parentela ha etichettato (giusto o sbagliato che sia) una persona come fratello/sorella, allora, da un lato, il pensiero di fare sesso con quella persona solleverebbe disgusto, e dall'altro solleciterebbe invece l'altruismo. L'ipotesi di una qualche relazione tra l'altruismo parentale e la proibizione dell'incesto ha un certo fascino. In fondo la diffusione del pool genico attraverso i parenti trova un limite proprio nell'evitazione dell'incesto. Ovviamente non si può escludere che nell'architettura neurocognitiva umana esista un circuito neurale specializzato di questo genere, ma il problema consiste proprio nel valutare se quel circuito e la componente genica che lo sostiene è ancora la causa dell'evitazione dell'incesto e dei comportamenti altruistici verso i parenti o se non sia stato reso inutile nell'uomo (come ad esempio l'odore) dalla evoluzione di un sistema di segnalazione molto più efficace come quello linguistico che, oltre a classificare in maniera più precisa e articolata i parenti, è in grado di indurre il disgusto e di elaborare le regole per la sua socializzazione.

In realtà il tentativo di ridurre i giudizi morali a una grammatica neurologica o a tratti psicologici fondati sulla biologia è una variante poco più sofisticata del vecchio determinismo genico.

8. «Sono» quindi non «devo»

I tentativi di ridurre la genesi dei giudizi morali alle componenti neurologiche riaprono la porta a una vasta famiglia di problemi tutti riconducibili all'idea che la morale è un fatto naturale e che quindi viene meno la differenza tra «fatto» e «valore», tra «essere» e «dover essere». Il primo a rendersi conto di questo tipo di problemi sembra essere stato proprio Hume. Nella sezione I della parte I del III libro di A Treatise of Human Nature pubblicato a Londra nel 1739-40, Hume scriveva:

Sono sorpreso nel constatare che invece dell'usuale copula delle proposizioni «è» o «non è» non ho incontrato alcuna proposizione che non sia connessa da «deve» o «non deve». Si tratta di un cambiamento impercettibile, ma tuttavia di estrema rilevanza. Dato che questo «deve» o «non deve» esprime una qualche relazione o affermazione nuova è necessario che essa venga osservata e spiegata. E nello stesso tempo che venga fornita una ragione poiché sembra del tutto inconcepibile che questa nuova relazione possa essere dedotta da altre che sono completamente differenti da essa.

Le interpretazioni di questo paragrafo di Hume, conosciuto come «il divieto is-ought», hanno dato vita ad accesi dibattiti e sono, ancora oggi, piuttosto divergenti fra loro.18 Esso sembra comunque sostenere la scorrettezza logico-formale di tutte quelle teorie che pretendono di ricavare affermazioni relative ai doveri e ai valori (quelle connesse dal verbo «deve») da affermazioni relative ai fatti (quelle caratterizzate dalla copula «è»). Assegnare i fatti e i valori allo stesso livello del discorso non è possibile dato che «è» e «deve» esprimono due relazioni radicalmente diverse; e d'altra parte se si pone «è» e «deve» su due diversi livelli del discorso sembra impossibile derivare l'uno dall'altro e si introduce così una dicotomia insanabile. La legge di Hume non sembra vietare di trattare i valori morali come fatti naturali. Lo stesso Hume nella Ricerca sui principi della morale, benché si sforzi di operare una sintesi tra la ragione (che presiede ai valori) e il sentimento (che è un fatto naturale), propende in maniera netta, alla fine, per assegnare le

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distinzioni della morale al sentimento, più originario nella natura umana. Ma forse è consapevole che facendo diventare i valori morali dei fatti naturali si elimina il punto di vista valutante (un tema che sarà ripreso più tardi ad esempio da Adam Smith con la sua proposta di uno «spettatore interno»), cioè la loro connotazione di «moralità», che è connessa al «dovere».

Il paragrafo is-ought di Hume è stato collegato da alcuni autori al problema, che ha percorso tutto il Novecento, della fallacia naturalistica. Quello della «fallacia naturalistica» è il dibattito teorico più rilevante con il quale lo studio della morale da parte dell'evoluzionismo si è trovato (e in parte ancora si trova) a dover fare i conti. Avviato dalle reazioni antipsicologiste di Gottlob Frege contro il primo Husserl e contro John Stuart Mill («è qui fatale il doppio senso della parola "legge". Nel primo essa annuncia ciò che è; nel secondo, ciò che deve essere», Frege, 1965: 485),19 il problema della fallacia naturalistica ha trovato sistemazione nella morale dei Principia Ethica (1903) di George Moore. Secondo Moore ogni tentativo di definire il «bene» in termini naturalistici è destinato a fallire dato che il bene in quanto tale è indefinibile:

Il bene [...] è incapace di ogni definizione [...] «Bene» non ha definizione in quanto è semplice e non ha parti. Esso è uno degli innumerevoli oggetti del pensiero che di per sé sono incapaci di definizione, giacché essi sono i termini ultimi rispetto ai quali ciò che è capace di definizione deve essere definito» (I, 9-10).

In quanto oggetto del pensiero semplice e senza parti la nozione di «bene» è autoreferenziale. Se vogliamo dare una definizione di «bene» noi dobbiamo anche dire se quella definizione è buona. Noi possiamo trovare molte cose «buone», come possiamo trovare molte cose colorate, profumate, saporite, ecc.; ora mentre il colore, l'odore e il sapore sono tra le proprietà di quelle cose, il «buono» non è tra le proprietà di quelle cose. «Per essere definibile "buono" dovrebbe essere complesso e così si dovrebbe dire di ogni definiens se è buono. Dopo tutto una definizione non dovrebbe essere semplicemente analitica, essa dovrebbe dare informazioni sul definiendum; quindi qualunque definizione venga data deve essere sempre possibile dire, con significato, del complesso così definito, se esso stesso è buono» (Hill, 1976, 99, cit. in Teehan, diCarlo, 2004). Nel quarto capitolo dei Principia Moore afferma che ogni definizione di bene, sia di tipo naturalistico sia di tipo metafisico commette una fallacia naturalistica: i naturalisti perché credono che l'etica possa essere spiegata in termini di proprietà naturali, i metafisici perché credono il «bene» un oggetto soprasensibile effettivamente esistente. Per Moore, il bene è un oggetto del pensiero, oggettivo anche se non esistente (oggettivismo etico), un valore soprasensibile, che può essere conosciuto soltanto attraverso l'intuizione e non attraverso le scienze empiriche. Quindi le scienze empiriche (come già sosteneva Socrate nel Fedone 96a-97b), non solo non sembrano in grado di aiutarci a definire ciò che è bene e ciò che è male, ma addirittura possono costituire un serio ostacolo alla sua conoscenza. Non è il caso qui di addentrarci nei dibattiti ancora in corso tra chi ritiene che la fallacia naturalistica sia un falso problema (e gli oppone una fallacia antinaturalistica) e chi invece lo considera ancora l'insorpassabile Rubicone che proibisce alle scienze naturali di avventurarsi nel campo della morale. E forse il punto fondamentale evidenziato dalla fallacia naturalistica non è neanche quello che normalmente più si paventa relativo all'autonomia dell'etica. Il problema principale è che seguire l'equilibrio della natura, anche concesso che la nostra informazione sia affidabile (e nel caso dei circuiti neurali la cosa è ampiamente ipotetica), equivale letteralmente a non decidere nulla. Il processo di psicologizzazione dell'etica consiste, nei suoi termini generali, in una serie di riduzioni eliminative che tolgono all'etica la normatività e cancellano l'idea che l'uomo possa decidere razionalmente e liberamente. Da riflessione sul modo in cui la vita dovrebbe essere vissuta, su ciò che uomini e donne dovrebbero essere e fare, l'etica diventa così una semplice descrizione di sentimenti e comportamenti che non hanno bisogno di essere fondati o giustificati, ma soltanto spiegati. Questa prospettiva, il cui limite principale è costituito dalla difficoltà di dare un solido fondamento alla distinzione tra comportamenti abituali e azioni morali, si dimostra anche incapace di dare indicazioni riguardo a ciò che sarebbe giusto o sbagliato fare quando, ad esempio, siamo messi di fronte a problemi morali nuovi come quelli suscitati dalla bioetica, dall'etica ambientale o dalla globalizzazione. Se l'etica viene ridotta a etologia o a psicologia è perché alcuni evoluzionisti percepiscono la morale più come un problema imbarazzante che come una risorsa squisitamente umana.

9. Capacità morale e giudizi morali

Il fatto è che per Darwin l'etica non è intuizionistica. Il giudizio morale non è un'emozione o un sentimento per cui l'individuo intuisce ciò che è giusto o sbagliato; esso è piuttosto, come in Kant, il frutto della facoltà della ragione. Secondo Giovanni Boniolo (2006) è possibile riconoscere, in Darwin, due teorie dell'origine della morale: la prima è una teoria della genesi della «capacità morale», cioè delle condizioni biologico-evolutive che mettono l'uomo in grado di esprimere valutazioni morali sui comportamenti e di adeguarsi a queste valutazioni; la seconda è una teoria della genesi dei diversi giudizi morali. Ora, secondo Boniolo, le due teorie darwiniane sull'origine della morale, pur essendo entrambe presenti in Darwin, devono essere tenute separate, proprio perché, mentre i prerequisiti della «capacità morale» (gli istinti sociali e le strutture cerebro-mentali specie-specifiche dell'uomo) dipendono completamente dall'evoluzione biologica, i diversi

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giudizi morali nascono nell'ambito dei rapporti sociali e culturali e non dipendono direttamente dal meccanismo fondamentale darwiniano. Da qui l'osservazione che «i tentativi di analizzare la genesi o lo status delle teorie morali comparando il comportamento non-umano con quello umano vanno guardati con sospetto».20 Inoltre la «capacità morale», non essendo intrinsecamente morale, poiché riceve questa qualifica solo a posteriori dato che moralità e immoralità sono proprietà che dipendono dal giudizio, non si presta a spiegazioni dell'etica di tipo fondazionalista o essenzialista. La distinzione di Boniolo, che reintroduce la dicotomia tra innato e acquisito, secondo la quale la sola capacità morale costituita dal binomio «istinti sociali-facoltà cognitive» si trasmette ereditariamente, mentre le norme positive sarebbero fornite dagli interessi delle singole culture, ricolloca la morale darwiniana su una linea antropologica duale. Questa posizione sembra in grado di dare una risposta a due osservazioni: 1. che la capacità morale è diffusa presso tutti i gruppi umani; 2. che le norme morali variano da un gruppo all'altro. Molta più difficoltà mostra però nel rendere conto dei cosiddetti «universali morali», ovvero del fatto che vi sono alcune intuizioni morali, tradotte in norme, che sono pressoché comuni a tutti i gruppi umani. Venendo a mancare qualunque rapporto tra supporto biologico e norme, la nozione darwiniana di «senso morale» rischia di essere svuotata di ogni contenuto e resa una specie di lavagna vuota, nella quale i singoli gruppi umani scrivono volta a volta le loro regole del gioco. Ma vi sono molti dubbi nel considerare le strutture cerebro-mentali dell'uomo come neutre e vuote, dato che non mancano osservazioni che portano a pensare che l'intelligenza umana è orientata in senso sociale (o, se si vuole, machiavellico). Il problema consiste proprio nell'elaborare una visione unitaria che integri nell'uomo gli aspetti biologici e quelli socio-culturali. Non a caso l'autore mostra serie difficoltà là dove tenta di sfuggire, aggrappandosi a distinzioni che creano più problemi di quanti ne risolvano, alla deriva relativista.

In realtà secondo Darwin nel senso morale risulterebbero selezionati e consolidati alcuni giudizi morali derivanti dalla natura di animale sociale dell'uomo. I contenuti sui quali vertono i primitivi giudizi «morali» promossi dagli istinti sociali si condenserebbero nella regola aurea nella sua versione più semplice: «ama i tuoi amici e combatti i tuoi nemici». Questi giudizi sarebbero stati formulati inizialmente dagli altri componenti del gruppo attraverso i meccanismi dell'approvazione e del biasimo. Ma a mano a mano che l'uso, l'istruzione e la riflessione diventano più mature l'uomo non accetta più la lode e il biasimo dei suoi simili come unica guida, ma sono le sue convinzioni abituali, controllate dalla ragione a dargli la legge più salda. È soltanto con l'aiuto della ragione, dell'istruzione e dell'amore o del timore di Dio che l'uomo ha potuto, ad esempio, superare la legge del taglione e formulare una norma più elevata come quella che dice «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc, 6, 27). In una nota dedicata all'odio Darwin osserva:

Né è probabile che la coscienza primitiva avrebbe rimproverato un uomo per aver offeso un suo nemico: piuttosto lo avrebbe condannato se non si fosse vendicato. Restituire bene per male, amare il proprio nemico, è un'altezza morale cui si può dubitare che gli istinti sociali da soli ci avrebbero mai portati. È stato necessario che questi istinti, insieme alla simpatia, fossero coltivati ed estesi con l'aiuto della ragione, dell'istruzione e l'amore o il timore di Dio, prima che si concepisse e seguisse una legge così aurea (O. U. 101).

In altre parole la morale dell'uomo per Darwin è diventata tanto elevata: a) perché attraverso la ragione è andata oltre i giudizi di valore suggeriti dagli istinti sociali; b) non si è lasciata condizionare dall'opinione pubblica. Soltanto quando la sua ragione diviene talmente forte da controllare gli istinti e da dare una corretta valutazione del giudizio dei suoi compagni, l'uomo si sentirà spinto a certe linee di condotta che prescindono da piaceri o da pene transitorie. Soltanto allora la sua coscienza diviene giudice e guida suprema della sua condotta ed egli può affermare con Kant: «Io non violerò nella mia persona la dignità umana» (99). Dignità che consiste nella capacità di autonomia nelle decisioni morali, diventata, senza suo merito, il carattere specifico (di specie) della natura umana.

10. La natura del branco e oltre

Scriveva, ormai un po'di tempo fa, Richard D. Alexander, uno dei più lucidi e rigorosi studiosi evoluzionisti:

I biologi e gli antropologi di formazione biologica [...] ritengono come dato che tutte le forme viventi sono venute all'esistenza attraverso un'evoluzione organica guidata in primo luogo dalla selezione naturale [...] La selezione naturale implica vantaggi riproduttivi. Ma vi sono interi settori dell'attività umana che sembrano non avere niente a che fare con la riproduzione e che nessuno è stato disponibile ad affrontare in tali termini. Come si può spiegare l'arte, la musica, l'opera, la letteratura, lo humor, la politica, la scienza o la religione, usando argomenti dall'evoluzione biologica? Viceversa, perché dovremmo prendere sul serio l'evoluzione, tentando di comprendere noi stessi, se tali importanti attività sembrano impenetrabili alle sue indagini? (Alexander, 1990).

Da notare che tra le condotte umane elencate da Alexander manca la morale. Forse non a caso, dato che

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l'autore tre anni prima di questo scritto aveva dato alle stampe un lungo saggio sulla biologia dei sistemi morali (Alexander, 1987) e quindi dava per scontato che il darwinismo non solo era la cornice più idonea, ma l'unica, entro la quale si potevano comprendere i comportamenti morali. Le descrizioni delle cause remote di alcuni comportamenti prosociali, o di un generico senso morale, come quello proposto dal darwinismo, sono in quanto tali degne di attenzione. Esse ci consentono di arrivare a una migliore comprensione del nostro passato, di quella che è stata la nostra storia naturale di uomini; da questo punto di vista il darwinismo è un impareggiabile fonte di conoscenza di noi stessi. Altra questione è se queste descrizioni siano rilevanti ai fini delle riflessioni etiche ovvero se permettono la distinzione tra comportamenti abituali e azioni morali, e se oltre a dare una descrizione biologica di ciò che noi facciamo o pensiamo che dovremmo fare, possono anche dare indicazioni riguardo a ciò che sarebbe giusto o sbagliato fare quando, ad esempio, siamo messi di fronte a problemi morali nuovi. All'inizio della sua trattazione della morale nel quarto capitolo dell'Origine dell'uomo Darwin cita Kant; nelle osservazioni conclusive dello stesso capitolo discute «il principio della massima felicità» di John Stuart Mill. Kant e Mill rappresentano gli alfieri dei due principali filoni delle filosofie morali contemporanee: a Kant fanno capo, in qualche misura tutte le etiche di carattere «deontologico», che si basano cioè sull'idea di «dovere»; a Mill tutte le etiche di carattere teleologico cioè orientate a perseguire dei fini. In Kant Darwin sembra, in realtà, cercare una semplice conferma della sua equiparazione del senso morale con il senso del dovere; invece nel principio utilitarista della massima felicità di Mill, Darwin trova un ostacolo alla sua teoria dell'origine della morale dagli istinti sociali. Dopo aver osservato che il principio proposto dall'utilitarismo è un criterio di valutazione e non un motivo di condotta (nessuno agisce avendo a mente la massima felicità per tutti), Darwin sostiene che gli istinti sociali non si sono sviluppati per la felicità generale della specie, ma per il bene comune, cioè per il bene delle singole comunità, dove per bene si deve intendere sostanzialmente la loro fitness riproduttiva. In realtà quella di Darwin non né un'etica deontologica (e meno che mai un'etica del dovere per il dovere) né un'etica dei fini. Entrambe queste etiche hanno l'obiettivo di dirci come «dovremmo» essere e che cosa «dovremmo» fare. Darwin invece ha lo scopo di illustrarci chi «siamo» e come ci comportiamo. Il sottinteso è che, una volta appreso chi siamo e che cosa facciamo, è anche possibile decidere che cosa «dobbiamo» fare. Ma il darwinismo fallisce proprio nel passaggio dall'«è» al «deve». La sua etica, strettamente connessa alla sua visione biologica, è un'etica che è sorta e si è sviluppata attraverso la selezione naturale solo perché è risultata «funzionale» alla competizione riproduttiva di piccole comunità. Secondo Darwin la natura umana che la selezione naturale ci ha consegnato è la natura del branco, della banda, della tribù; attorno a questa natura ha costruito un'etica coerente: quella della fedeltà ai compagni, dell'obbedienza al leader e della paura e della lotta al diverso. Ma la morale del branco, adatta ai piccoli gruppi sociali dei nostri antenati, sembra diventata un maladattamento, forse pericoloso, per le mega società del presente. Secondo Alexander (1990) estrapolata ai giorni nostri, la tendenza alla selezione dei gruppi porta a conclusioni piuttosto inquietanti quali la inevitabilità della competizione fra nazioni, la corsa internazionali agli armamenti, e il rischio di mutua estinzione e di scomparsa di civiltà. «Le idee discusse qui sembrano predire -- e forse richiedere -- proprio una tale tendenza». Questo processo, iniziato dalla cooperazione fra individui dello stesso gruppo, con la comparsa delle cure parentali, e dalla competizione fra gruppi diversi, evidenziato dal consolidarsi delle tendenze monogamiche nella linea umana, e accentuato dall'evoluzione del cervello e dell'intelligenza, sarebbe diventato ormai inarrestabile. Anche se non vi sarà un'aggressione su larga scala o un irreversibile danneggiamento dell'ambiente a causa della competizione sulle risorse (ma questi esiti sembrano sempre più probabili), il destino dell'uomo sembra quello di assistere a una continua corsa agli armamenti e alla scomparsa di interi gruppi umani. Questo perché gli uomini fanno i loro interessi cooperando all'interno dei gruppi, ma non all'interno di quell'unico gruppo che è l'umanità. L'onesta conoscenza di noi stessi esige, secondo Alexander, che si prenda atto di questa situazione creata dalla legge della selezione dei gruppi. D'altra parte, nota Alexander nel finale, «nessuna parte della teoria biologica ha mai legittimamente comportato che gli uomini non possano usare delle loro caratteristiche evolutive per darsi e raggiungere nuovi obiettivi che possono essere diversi -- o anche contrari -- alla loro storia di selezione naturale». Con lo sviluppo della ragione, aiutata dall'istruzione e dalla fede, l'evoluzione sembra aver consegnato all'uomo la capacità morale, uno strumento in grado di disegnare, se, come dice Berlin, accettiamo il rischio di usarlo, una nuova immagine della natura umana.

Note

1. Per un primo approccio al tema dei conflitto dei valori e alla complessità delle decisioni etiche si può vedere Panizza, 2003.

2. Cfr., ad esempio, Changeux J. P., Ricoeur P., 2000.

3. La traduzione, eseguita direttamente dall'inglese, differisce leggermente da quella qui indicata.

4. Nonostante l'adozione di termini come amore, simpatia ecc., Darwin non è mai riuscito a integrare la visione hobbesiana con quella humeana ed è rimasto profondamente hobbesiano: la competizione viene solo spostata

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dal livello degli individui a quello dei gruppi.

5. Non è possibile, per motivi di spazio, addentrarsi nei dettagli tecnici del dibattito, ormai secolare, sull'unità e i livelli di selezione, anche se questo avrebbe potuto chiarire il senso di alcune affermazioni; rimandiamo alle oltre 1600 pagine di Gould (2003) che, a detta dello stesso autore, non sono altro che un lungo ragionamento, dichiaratamente partigiano, sui livelli di selezione per supportare la tesi a favore di una «selezione gerarchica» che comprenda geni, linee cellulari, organismi, demi, specie e cladi.

6. In particolare Larry Arnhart (1998) nel tentativo di accreditare un darwinismo di destra o conservatore, arruola, con un'operazione a dir poco spericolata, sia Aristotele sia san Tommaso nella schiera dei pre-darwiniani (o, se si preferisce, fa di Darwin un aristotelico o un realista) dato che le nozioni di uomo «animale politico» e di «legge naturale» fonderebbero l'etica direttamente sulla biologia.

7. Nel caso dell'uomo il rapporto tra costi e benefici viene misurato sia con il successo riproduttivo sia con il successo sul piano socioculturale.

8. Dove r è il coefficiente di parentela genica tra donatore e ricevente ed esprime la probabilità che due individui condividano un dato gene in forza della loro discendenza da un antenato comune recente; c sono i costi sostenuti dal donatore per l'atto altruistico; b è l'insieme dei benefici ricevuti dal ricevente.

9. Ad esempio, secondo questa regola, la disponibilità a sacrificare la propria vita da parte di un organismo diminuisce a mano a mano che il legame di parentela si allenta: in un diploide sarà del 50% per un fratello, del 25% per un fratellastro, del 12,5% per un cugino primo e così via.

10. Basta considerare la stucchevole retorica (ricorrente in tutto il libro) con cui, ad esempio, Dawkins (1976), dopo aver sostenuto che l'uomo è solo una macchina per la riproduzione dei geni, annuncia: «Noi abbiamo il potere di sfidare i geni egoisti della nostra nascita... Possiamo anche discutere i modi di coltivare e nutrire deliberatamente un puro disinteressato altruismo - cosa che non esiste in natura, cosa che non è mai esistita prima lungo l'intero arco della storia del mondo. Noi siamo costruiti come macchine dei geni... ma abbiamo anche il potere di rivoltarci contro i nostri creatori. Noi, soli sulla Terra, possiamo ribellarci contro la tirannia dei replicatori egoisti».

11. In un passo molto citato dell'Etica nicomachea (1132b 21 e segg.), Aristotele facendo un gioco di parole tra le Grazie (divinità) e la grazia (charis) scrive: «Per questo è costruito, bene in vista, un tempio delle Grazie, perché vi sia reciprocità. Questo infatti è proprio della grazia: che bisogna ricambiare favori a chi ha dato il suo favore e a nostra volta iniziare noi a dar favori».

12. Più che di reciprocità si dovrebbe palare di mutuo autointeresse.

13. Costi e benefici sono calcolati, darwinianamente, in rapporto al loro contributo alla fitness inclusiva.

14. Il termine «altruismo» usato dai biologi è praticamente equivalente a quello di «cooperazione» usato dagli scienziati sociali (Sober e Wilson, 1998). I termini defezionista e cooperatore corrispondono quindi, trascurando le sfumature, a quelli, rispettivamente, di egoista ed altruista. Ricordiamo che c e b sono rispettivamente i costi e i benefici. Negli studi sui comportamenti degli animali la nozione di «altruismo» viene usata, come termine descrittivo, per indicare una serie di situazioni e di comportamenti (che vanno dalla sterilità delle api operaie, alla condivisione del cibo, al grooming, all'empatia, alla cooperazione nella ricerca del cibo e nella guerra, ecc.). L'altruismo umano invece condensa una serie di relazioni (dalla cooperazione, alla solidarietà, alla reciprocità e in generale ai comportamenti prosociali).

15. Per una breve analisi della lotta di Mauss contro l'immagine dell'Homo oeconomicus e più in generale sul significato del dono si può vedere Gaion, 2004.

16. Non è il caso di discutere qui quanto sia forte o debole questo obbligo.

17. Se si escludono i comandi verso Dio, queste norme ripetono, forse non troppo stranamente, i dieci comandamenti.

18. Se Hume intendesse tracciare proprio una precisa dicotomia tra fatti e valori o se avesse usato questa dicotomia solo come stratagemma per far passare una visione empirista della morale, è un problema che si può lasciar risolvere gli storici della filosofia. A noi qui interessa soltanto come problema teorico e come anticipazione logica del problema epistemologico della fallacia naturalistica.

19. Frege fa questa affermazione a proposito delle «leggi» della logica, ma il suo platonismo lo collega in qualche misura al platonismo morale di Moore.

Da questo punto di vista, dire, come fa Frans de Waal (2001), ad esempio, che i nostri cugini scimpanzè sono «naturalmente buoni» suona del tutto improprio.

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Marta Perego

Fondamenti scientifici per un'etica nella medicina. Eredità e ripensamento del neocriticismo da Baden a Marburgo

1. Posizione del problema

Il percorso che ho pensato di proporre non ha preso avvio da una lettura, da uno studio specifico, ma piuttosto da un problema, un problema su cui mi è capitato di riflettere di taglio nel corso di questi anni e che quest'occasione mi ha aiutata, se non ha risolvere, quando meno ad ordinare.

Il nodo centrale ha riguardato il rapporto tra scienza (nello specifico quella medica) ed etica, nel tentativo di provare a capire lo spazio che nei sempre più attuali dibattiti concernenti tematiche di bioetica, spetta alle ragioni dell'una e dell'altra, di fronte ad uno scenario in cui spesso ideologie, politica e senso comune contribuiscono a confondere i termini.

Lo strumento a mia disposizione è stata, va da sé, la riflessione filosofica anche se non sono affatto sicura che spetti ai filosofi, in questo caso almeno, trovare risposte. Credo comunque che essa rimanga un buon mezzo per provare a far luce sulle parti in gioco nel tentativo di evidenziarne i caratteri perspicui.

2. Uno sguardo indietro

Questo percorso comincia con uno sguardo indietro, uno sguardo verso la riflessione che alcuni filosofi neokantiani dedicarono al tema dell'etica dei valori nella quale, credo, si possa trovare qualche idea suggestiva per affrontare le questioni che qui ci competono.

La scuola neokantiana del Baden, in particolare con Windelband e Rickert, aveva tentato di estendere l'insegnamento kantiano, dunque la ricerca di una fondazione trascendentale a priori per la conoscenza, anche alla sfera dei valori, tentando in tal modo di ancorare la morale, allo stesso modo della gnoseologia, a criteri universali e necessari. Si tentava di costruire un unico dominio, che in sé avrebbe dovuto comprendere, da un lato, le attività dell'uomo (nello specifico quella scientifica, tradizione della scuola marburghese) e, dall'altro, un carattere di ordine normativo che ne avrebbe dovuto condurre gli scopi. Capiamo così la considerazione di Windelband quando osserva come debba essere la filosofia, in quanto teoria della conoscenza, a determinare i valori (universali) che stanno a fondamento della conoscenza scientifica.

Questa soluzione sarebbe stata forse risolutiva oggi, davanti ai problemi di natura etica di cui spesso i dibattiti intorno alle continue scoperte scientifiche e tecnologiche in campo medico, ci chiamano a rendere ragione. Stabilire l'universalità di un valore morale, così come proponeva la proposta neokantiana, implicava l'assenza di alternative e, dunque, di conflitti. Ma questa proposta non poteva avere successo: e lo notò innanzitutto Max Weber, il quale, pur rifacendosi alla teoria rickertiana dei valori, ne criticò l'impostazione metafisica ed ontologica, dunque l'astrattezza e la conseguente incapacità di rendere ragione, ad un livello concreto di considerazione, delle problematiche etiche e morali sollevate dal progresso scientifico. I problemi che la filosofia neokantiana poneva a Weber, erano principalmente due:

• Da un lato, a parere di Weber, Windelband e Rickert continuavano a non risolvere davvero il problema del fondamento: nella misura in cui i valori a cui la scienza doveva rispondere fossero stati davvero necessari ed universali, chi avrebbe dovuto stabilirne l'identità? Ed in quale luogo avrebbe dovuto radicarsi? Nella riflessione filosofica come pretendevano Windelband e Rickert?

• Dall'altro Weber si cominciò a domandare se davvero fosse la scienza, tramite le prescrizioni delle costruzioni teoriche della filosofia come accadeva in Windelband, a doversi porre tale problema. Dunque egli si chiedeva se davvero il progresso scientifico dovesse essere condotto da valori, piuttosto che da ragioni sue proprie. Tutto ciò, con grande eco attuale, significava domandarsi se doveva -- deve -- essere la scienza ad essere intrinsecamente etica, oppure se etico era -- è -- semplicemente ogni suo uso, lasciando in tal modo al progresso teorico la libertà di procedere senza indicazioni di sorta.

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3. Etica è la scienza o etico è l'uomo?

Potremmo cominciare da questo secondo punto. La sua attualità torna quando notiamo come il dibattito intorno alla discutibilità delle conquiste scientifiche abbia spinto oggi a chiedersi se davvero tutto quello che si propone come scientificamente possibile, sia anche eticamente legittimo: tale questione ha facilmente indotto i luoghi in cui le ideologie fioriscono (la religione, le filosofie, eccetera), dunque le riflessioni di natura teorica, a colpire -- nel tentativo di gestirne il controllo --, l'origine delle tensioni legate a queste applicazioni problematiche, nello specifico l'elaborazione teorica delle teorie scientifiche. Potremmo obiettare che, almeno in medicina, la linea tra formulazione teorica e sperimentazione è davvero sottile e questa potrebbe essere una valida ragione per essere dunque più severi sin da principio; ma ciò non dissolve il problema e semmai lo rende ancora più pericoloso poiché questa generale tendenza, più che cercare di rendere responsabile l'uso dei risultati della ricerca, tenta di porne limiti intrinseci, con il grave risultato di rallentare, come nota Demetrio Neri nel libro «La bioetica in laboratorio», lo sviluppo delle acquisizioni scientifiche in diversi campi.

Davanti a questo problema che, in una forma analoga si poneva anche a Weber, egli non smette mai di sottolineare con forza come la scienza, di per sé, nemmeno la scienza medica, non abbia il compito di dirci cosa dobbiamo fare o dome dobbiamo vivere, poiché non è una metafisica: non conferisce senso, ossia non dà risposte teoriche sull'esistenza umana; solo possibilità.

Quest'idea è ben evidenziata da Karl Jaspers, medico prima che filosofo, il quale parlando di Weber scrive:

Egli vuole un sapere empirico necessariamente valido, e come studioso, insiste su distinzioni che pretende siano mantenute al servizio di un genuino conoscere. Perciò combatte per l'effettivo mantenimento della distinzione tra sapere empirico e giudizio valutativo.1

Tutto ciò cosa significa? Significa che la libertà che la scienza possiede di valutare, equivale alla possibilità di non pronunciare i propri giudizi per vedere, di fronte ai fatti graditi o magari scomodi, lo stato di fatto con chiarezza e da tutti i lati. Il dovere scientifico di vedere la verità dei fatti e quello pratico di far valere i propri ideali sono doveri di diversa natura. Questo è il punto.

4. Il fondamento del criterio di scelta

Sciolto questo primo nodo, potremmo ora domandarci, dopo avere sottolineato come la responsabilità non siano intrinseche alla ricerca scientifica ma piuttosto dell'uomo, nell'uso che di essa promuove, come e da cosa tale uso venga orientato. Torniamo allora alla prima domanda che ci ponevamo; perché la proposta di Rickert e di Windelband non pare, in ultima analisi, reggere? Essi, lo ricordiamo, intendevano i valori morali come principi a priori, fondati, come scrive Rickert, su una coscienza giudicante in genere e perciò anche su un soggetto gnoseologico super-individuale che valuta la verità.2 Questa soluzione, l'abbiamo accennato, aveva un merito: esibiva una garanzia che non era necessario fondare ulteriormente. Essi, detto in altro modo, riposando su un terreno di natura trascendentale e non sottostando ad alcuna delimitazione spazio-temporale, consegnavano valori dotati di una validità universale e necessaria in modo analogo alle scienze naturali. Questi principi avevano allora una giustificazione prettamente teoretica, aderente ad un particolare sistema filosofico piuttosto che ad un aspetto obiettivo dell'esperienza dell'uomo; in ultima analisi, sembravano essere davvero poco utili, come notò Weber, nel momento in cui si abbandonava la prospettiva ontologica e metafisica in cui erano inscritti, per il darsi concreto della realtà: piuttosto che presupposti e fondati, questi principi avrebbero dovuto essere, in una dimensione pratica, spiegati e fondati. Le cose non stanno allora così come credevano Rickert e Windelband, e lo scopriamo non appena proviamo a considerare la realtà: la scienza, nota Weber, si trova, rispetto alle sue applicazioni, di fronte alla scena della lotta insanabile e mortale (dunque inconciliabile) tra i diversi ordini valoriali del mondo, davanti ad un inevitabile 'politeismo di valori'. La domanda che Weber avrebbe posto a Rickert, sarebbe allora stata: viste come effettivamente le cose si danno, siamo davvero sicuri che anche per le questioni di natura pratica, al pari che per le scienze naturali, si tratti di individuare come fondamento, principi a priori (i valori appunto) capaci di garantire una validità universale e necessaria (in quanto a loro volta universali e necessari), e non piuttosto cercare le ragioni di questi stessi principi nelle dinamiche concrete? Di questo Weber era perfettamente sicuro. Ma si poneva un altro problema. Da dove infatti arrivano quelle prescrizioni morali davanti a cui l'uomo obiettivamente si trova, nel momento in cui l'applicazione pratica delle conquiste scientifiche, specialmente in campo medico, ci inducono a problematizzarne l'uso? Weber, lo abbiamo visto, si limitava, contro le costruzioni dei neokantiani, ad una constatazione: nel mondo esistono gruppi divergenti ed incompatibili di valori, derivanti da diversi campi ideologici. Questa contrapposizione non può che risolversi in un insanabile conflitto.

Potremmo allora chiederci se a questa risposta esiste un'alternativa. Forse sì e paradossalmente, nonostante

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i limiti che abbiamo evidenziato, è il passato neokantismo, integrato dalle basi teoriche proposte da Weber, ad indicarcene una. Potremmo allora domandarci se non esista un terreno ultimo a cui potere ricondurre e radicare questi parametri di valutazione: un terreno simile a quello di cui Rickert e Windelband erano andati alla ricerca, ma diversamente fondato. Qualche cosa di questa riflessione, credo quindi rimanga. In primo luogo, la concezione di valore, non come «criterio di valutazione», dunque intrinseco all'attività scientifica, ma piuttosto come «criterio di scelta», un criterio di scelta non super-individuale, come avrebbe voluto Rickert, quanto piuttosto individuale, dunque indipendente da prescrizioni predefinite e legato piuttosto alla percezione che di sé e della propria esistenza un individuo possiede. Da dove deriva, potremmo domandarci, questa percezione? È ancora una volta il neokantismo a soccorrerci attraverso l'articolata nozione di 'cultura': la scuola del Baden si era diffusamente soffermata su tale concetto e, anche se la piega metafisica ed ontologica è ancora una volta preponderante, un'osservazione può essere senz'altro ricordata: Rickert qui ricorda come, mentre la natura risulta essere in sé senza rapporto con i valori -- wertfreies Sein -- e priva di senso -- sinnfreies Sein --, la cultura risulta essere in rapporto con i valori -- wertvolles Sein -- e dotata di senso -- sinnvolles Sein --. Se per la natura allora, il problema del rapporto tra realtà e valori non ha ragione di presentarsi, in quanto la natura non ha alcuna relazione con il mondo dei valori, per la cultura tale problema assume un'ampia portata. Ma è soprattutto nell'accezione marburghese, in particolare nell'elaborazione che Ernst Cassirer ne fece che questa nozione ha mostrato tutta la sua attualità, riconoscendo come linguaggio, mito, religione, arte e scienza siano direzioni tipiche della vita umana in sé e per sé autonome, dotate quindi di ragioni proprie, convergenti verso una meta precisa: a capo del percorso sta il riconoscimento dell'autentico «soggetto» che è, in definitiva, l'uomo nella sua individualità, in quanto

Complesso di funzioni in base alle quali soltanto si costruisce per noi il fenomeno del mondo e di un suo determinato ordine di senso.3

Dunque, centro focale funzionale delle multiformi attività. In esse l'uomo scopre e dimostra un nuovo potere, ul potere di costruirsi un mondo proprio, un mondo 'ideale', dove anche le visioni del mondo più contrastanti non si escluderebbero ma mostrerebbero armonia in un'analoga origine in cui all'individuo rimane la libertà di scegliere per ciò che lo riguarda, secondo i propri criteri. È questo quello che intende Cassirer quando scrive:

[L'uomo] non può vivere la sua vita senza esprimere la sua vita.4

L'attualità di questa osservazione credo sia indiscutibile.

In questa libertà che l'idea di cultura consegna, lo spostamento di prospettiva in cui è l'uomo, secondo i suoi principi, a potere scegliere per la sua vita, restituisce all'individuo, accanto alla sua libertà ed alla sua autonomia, la propria responsabilità.

5. Conclusioni

Il discorso di Weber, nella sua parte più suggestiva ha proceduto per via negationis: egli, per meglio dire, si è preoccupato soprattutto di stabilire bene i limiti entro cui si snoda il procedere scientifico, zona a cui la riflessione etica, abbiamo visto, non ha accesso, pena una limitazione del progresso e delle sue potenzialità. Nel momento in cui, però, ci sarebbe stato bisogno di delineare la zona e la logica propria dell'eticità, egli si è limitato a parlare di conflitto, senza darci una risposta articolata. Ciò non significa però che Weber non contribuisca ad impostare in modo interessante le questioni. In fondo, il processo di razionalizzazione con cui la scienza stringe uno stretto e singolare rapporto è ciò che contribuisce a delineare il volto del mondo, un mondo antimetafisico e disincantato in cui ben si inserisce lo spazio della libertà dell'individuo, uno spazio acquistato attraverso il compromesso tra quello che scientificamente sappiamo e quello che dobbiamo fare, in un'ottica di reciproco rispetto e libertà: libertà che rimane, appunto, libera, fintanto che non invade la libertà altrui.

Note

1. K. Jaspers, Max Weber. Il politico, lo scienziato, il filosofo, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 73.

2. P. Rossi, L'eredità del neocriticismo e la filosofia dei valori, in Lo storicismo tedesco contemporaneo, p. 147, cfr. Rickert, Die Grenzen der naturwissenshaftlichen Begriffsbildung (I ed.), pp. 669-670.

3. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Vol. III (tomo primo), La Nuova Italia, pp. 65-66.

E. Cassirer, Saggio sull'uomo, Armando editore, Roma 2000, p. 368.

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Francesca Petrelli

La bioetica tra filosofia, medicina e diritto

1. Introduzione

Tra i temi caldi della nostra cultura, quelli che hanno caratterizzato ed acceso progressivamente i dibattiti internazionali della seconda metà del secolo appena concluso, figurano in prima istanza gli orizzonti epistemologici della biomedicina e i problemi bioetici in essi coinvolti.

Nonostante la confusività linguistica nell'uso del termine bioetica, legata alla mancanza di assegnazione contenutistica univoca a tale nuova disciplina, essa tende comunque a caratterizzarsi per l'assunzione di un comune obiettivo metodologico: confrontarsi con le sfide poste dalle società occidentali tecnologico-scientifiche, per tentare di capire se, e come, sia possibile far loro fronte e sulla base di quali presupposti e criteri etico-antropologici. L'orizzonte della bioetica, intesa secondo Lecaldano1 come riflessione intorno alle innovative prospettive di nascita, vita e morte che si offrono sul «mercato» delle scelte individuali, in virtù dei progressi della biologia e della medicina, rappresenta dunque davvero l'area di nuovo incontro-scontro fra pensatori di settori diversi.

Nonostante il coinvolgimento di ambiti di conoscenza e professionalità differenti, la bioetica risulta, epistemologicamente, sostenuta e -- si può dire -- «abbracciata» da una prospettiva etica: si tratta di definire i diritti e i doveri di ogni singolo alla luce del codice deontologico proprio della medicina, ancora sotto il profilo giuridico, valutando la possibilità di conferire statuto normativo ai nuovi diritti rivendicati, nonché sul piano delle risorse economiche messe in campo. Ognuna di queste sfere apparentemente distinte si fonde in uno sguardo filosofico che si interroga sulla liceità morale di quanto nel contemporaneo contesto tecnologico è possibile realizzare e, sui nuovi o pregressi modelli di riferimento per la definizione della dignità della vita, del valore della morte, del bisogno di miglioramento della società umana nel suo complesso.

2. Il contributo complesso della filosofia alla bioetica

In prima istanza occorre sottolineare quali sono le ragioni, le cause di un rinnovato interesse nei confronti della disciplina etica. Essa si pone come strumento razionale di primaria analisi e valutazione e, di successiva potenziale risoluzione, dei dilemmi che le frontiere dello sviluppo medico-biologico pongono all'uomo contemporaneo. In tal senso le portentose possibilità di nascita, cura e morte non solo presentano nuove sfide per il pensiero occidentale, ma contribuiscono in modo determinante a creare un altrettanto nuovo orizzonte di percezione del mondo e una nuova sensibilità culturale.

A partire da tale rivoluzione cognitiva, la bioetica non si potrà limitare esclusivamente a rivisitare l'antico e moderno repertorio delle concezioni etiche formulate nel corso dei secoli. Per quanto infatti tale bagaglio intellettuale risulti irrinunciabile per orientarsi con maggiore consapevolezza all'interno delle varie forme di traduzione del concetto di bonum morale, pure la novità e l'arricchimento di prospettive tanto teoriche quanto pratiche dei temi biomedici, impone -- a mio avviso -- un radicale ripensamento di quegli stessi paradigmi. Inoltre, le tradizionali versioni della scienza della morale (aristotelismo, kantismo, utilitarismo) non appaiono adeguarsi, già solo da un punto di vista epistemologico, alle tematiche bioetiche. Benché ogni formulazione etica implichi una riflessione fondativa del valore e sul valore, questo lo si è sempre considerato nel suo aspetto teorico; sono state cioè sempre pensate la vita e la morte, l'etica non si è mai dovuta confrontare con l'urgenza di una responsività rispetto alle infinite modalità concrete in cui una vita e una morte si possono dare.

3. La riformulazione dell'etica filosofica per la bioetica

Propriamente in virtù della consapevolezza della difficoltà strutturale in cui appare trovarsi l'etica filosofica,

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quando intenda porsi come ideale regolativo dell'agire scientifico, alcuni filosofi hanno contestato l'utilità di questa stessa disciplina per la costruzione di un'adeguata bioetica risolutiva. Un'esemplare critica rivolta alla filosofia -- che vorrebbe rivendicare il primato epistemologico sulla bioetica -- è svolta dall'autrice Anne Maclean,2 la quale sostiene che gli esperti di etica applicata sarebbero incapaci di fornire contributi alla sanità in quanto sprovvisti della perizia specifica. Poiché infatti -- continua la Maclean -- la filosofia non presenta uno statuto disciplinare univoco, né un'univoca teorizzazione, non solo non potrebbe vantare alcuna pretesa volta ad incrementare il sapere, ma addirittura acuirebbe lo smarrimento rispetto a direttive operative medico-sociali. Altri autori hanno tentato di contestare questo nichilismo epistemologico; fra questi spicca, per acutezza e rigore, David Lamb che ha compiuto una serrata analisi dei deficit teoretici della filosofia. Raccogliendo in parte le provocazioni dell'autrice, questo autore si impegna a fornire statuto di validità ad una disciplina quale la filosofia ormai dimenticata e disprezzata come eccessivamente astrattizzante.

Lamb concorda con la Maclean sulla mancanza di conoscenze tecnico-mediche da parte del filosofo e sulla constatazione che non esiste nell'ambito delle decisioni di vita e di morte un'univocità di risposte morali, ma non per questo l'autore ritiene di poter escludere aprioristicamente un'utilità dell'indagine etica rispetto a tali problematiche:

L'affermazione che la filosofia sia incapace di rivolgersi ai maggiori problemi del nostro tempo è facilmente confutabile. Si può correggere la cattiva con la buona filosofia, che è in grado di dimostrare che la prima era inadatta ad affrontare i problemi che le venivano sottoposti. [...] Può accadere che alcuni tipi di impostazione filosofica invalidino le pretese di accedere alla verità e alla ragione, ma gli argomenti tesi a dimostrare la debolezza e l'inadeguatezza di talune posizioni non possono venir estesi all'intero campo dell'indagine filosofica.3

Un esempio di «cattiva filosofia» che Lamb scarta come inutile e addirittura fastidiosa per la bioetica, deriverebbe dal «fondamentalismo etico», da quella prospettiva teoretica che costruisce e propone una morale saldamente fondata su valori e assunti che avrebbero pretesa di validità perenne e comune per tutti i problemi presi in esame. Potremmo definire tale posizione come deontologica, essa fa riferimento ad un insieme di norme e precetti morali che, una volta stabiliti in astratto, possono non solo rispondere alle necessità poste dalla pratica medica, ma trovare anche una loro applicazione concreta. Quest'impalcatura teoretica che Lamb definisce «ingegneristica» considererebbe l'etica applicata come disciplina che sottostà alle formulazioni teoriche elaborate in sede filosofica e dunque come una sorta di sua filiazione empirica. Un'ottica del genere, rischia in realtà di essere eccessivamente astratta e di non tener conto delle progressive innovazioni tecnico-mediche che prevedono un continuo aggiornamento morale. La sclerotizzazione di valori e principi, anche condivisibili, implicata in questa concezione etica, relegherebbe nuovamente la filosofia nella sfera dei dibattiti accademici, che nulla possono aggiungere rispetto alle scelte quotidiane dei singoli. Proprio l'etica ingegneristica finirebbe dunque per decretare la morte del contributo filosofico alla bioetica: il professionista sanitario non potrebbe, di fronte ad un dilemma etico, deresponsabilizzarsi delegando la direttiva della scelta adeguata al filosofo, vissuto in questa dinamica come un saggio a-storico. Tale modello etico non solo risulta incapace di ricavare da premesse astratte e generiche, prescrizioni in grado di orientare i singoli agenti morali, ma è foriero di conflitti fra diverse concezioni etiche, conflitti resi insanabili dalla rigidità intrinseca alla prospettiva deduttivistica. La costruzione gerarchica di valori e principi morali universali infatti, si presenta come ostacolo alla ricerca di punti di convergenza, in quanto finisce con il ricondurre tutti i contrasti morali a profonde divergenze di principio anche laddove queste non sarebbero de facto insormontabili.

Ciò dunque non può non implicare uno scarto fondamentale fra i paradigmi che l'etica tradizionale pur nella sua specificità formulativa ha utilizzato, e quelli che si devono probabilmente ancora edificare per applicarsi propositivamente ai casi della bioetica.

Già per il fatto di ritenere centrale un tale ripensamento della morale ci si colloca all'interno di una precisa opzione teoretica: solo se la bioetica vuole tentare di fornire contributi in qualche modo risolutivi dei casi che affronta, e non si vuole esclusivamente limitare a districare i nodi concettuali, a chiarificare i termini coinvolti nel confronto dialettico, elevando le consapevolezze degli interrogativi antropologici che si rintracciano in ogni problematica, dovrà riformulare la metodologia stessa dell'intervento razionale. L'apporto riflessivo che la filosofia può allora offrire alla bioetica dovrà basarsi su una sua rifondazione epistemica che tenga conto e si lasci contaminare dalla disciplina che propone tali sfide: la medicina. La razionalità astrattizzante e categorizzante propria della riflessione teoretica dovrà perciò lasciare spazio all'analisi del contesto in cui si inserisce il problema, all'indagine sulle variabili di quel contesto e all'auspicata conoscenza dei soggetti direttamente coinvolti. Certo il rischio di tale rifondazione è costituito dal venir propriamente meno del progetto filosofico inteso come indagine ultima ed universale sui fondamenti dell'essere, ma in realtà si può ancora mantenere saldo tale obiettivo -- caratteristico del ragionare filosofico -- invertendo i puntelli archimedei dai quali far originare la riflessione: come la

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metodologia induttiva guarda in prima istanza alla realtà complessa dei fenomeni tentando di arrivare ad uniformarli in griglie referenziali univoche, così l'etica bioetica dovrà sondare la peculiarità della contingenza problematica contestuale, per poi ardire di ancorare quella specificità all'interno di un ampio sostrato antropologico. Prima ancora cioè di stabilire quale teoria etica si confaccia maggiormente ad una bioetica che tenti di conciliare l'etica dell'autorealizzazione propriamente aristotelica con quella del rispetto, di matrice kantiana, si deve saldare il discorso sul valore nell'ambito di una più generale teoria metafisica del valore della vita.

La forte centratura epistemologica sull'etica, all'interno dell'interdisciplinarietà bioetica, non deve al contempo essere interpretata come un'ingerenza filosofica in una sfera tecnico-pratica: se per la metodologia scientifica esistono esclusivamente elementi fattuali, privi di connotazioni morali,4 la bioetica si vuole impegnare a fornire loro una dimensione qualitativa che metta in campo giudizi morali, garantendo una supervisione rispetto alle conseguenze prodotte. In tal senso dunque, non si intende -- almeno in una fondazione «laica»5 della bioetica -- vincolare i progressi conoscitivi della tecnica, né si pretende di imporre confini etici invalicabili e barriere giuridiche ad alcune sue applicazioni.

4. Quale diritto per la bioetica

Assodata dunque l'importanza dell'apporto filosofico nella chiarificazione e nella comprensione dei problemi bioetici, si pone un'ulteriore questione epistemologica: se precedentemente si era messa in discussione la rilevanza stessa dell'indagine filosofica per i dilemmi contemporanei, ora si può porre la questione inversa, se cioè la bioetica sia nel suo insieme una disciplina filosofica. Ritenere che lo statuto epistemico fondante la bioetica sia filosofico, implica riconoscere all'etica un primato che difficilmente lascerebbe spazio ad apporti di altre discipline; la sede filosofica diverrebbe l'unica deputata all'autentica riflessione biomedica, mentre le altre verrebbero ridotte a fonte di dati empirici da elaborare o a campi di applicazione delle decisioni elaborate a livello etico. La conseguenza di un tale modello riflessivo consisterebbe in un impoverimento della capacità dei vari saperi di riflettere su loro stessi, di interagire e comunicare fra loro.

I rapporti fra diritto e morale, da sempre argomento di dibattito filosofico, assurgono così, nel consesso bioetico, a pietra angolare della caratteristica propria di tale ambito di studio, ovvero l'interdisciplinarietà.

Fra i diversi settori che concorrono alla costruzione di una riflessione in merito alle nuove possibilità di intervento medico-tecnologico, sulla nascita, cura e morte umane, il diritto si pone fra i più significativi, data la ricaduta socio-politica della normazione positiva. La scienza del diritto applicata alle tematiche biomediche viene propriamente definita biogiuridica. Essa dovrebbe impegnarsi a disciplinare i comportamenti dei singoli e ad organizzare quelli collettivi, al fine di preservare la società da un uso arbitrario delle portentose capacità scientifiche. Il sapere sperimentale sembra infatti non riuscire, in prima istanza da un punto di vista etico, ad individuare criteri in grado di guidarne lo sviluppo, stabilendone al contempo i limiti di liceità. Ciò che dunque si chiede al diritto è la codificazione di norme intese non come formalizzazione di scelte politiche che sono sempre ideologiche, neanche quindi l'individuazione di direttive esposte secondo la dialettica -- propriamente politica -- maggioranza-minoranza, ma la costruzione di articolati legislativi che tendano a promuovere il comune interesse al fine di una giusta convivenza sociale. In tal senso si pretende dal diritto un'edificazione autonoma rispetto alle ingerenze costituite tanto dalla morale, quanto dalla politica. Di fronte a tale compito la biogiuridica non appare dare risposta, né sul piano della riflessione teorica, né inevitabilmente su quello di una normazione concreta. Le motivazioni di tale ritardo sono legate da una parte al fatto che gli stessi problemi che devono essere disciplinati hanno una recente nascita, dall'altra che la giurisprudenza si trova specificamente negli ultimi decenni del Novecento in una difficoltà strutturale, ovvero in un conflitto fra i doveri dei soggetti contraenti il patto sociale e i loro diritti rivendicati in continua progressione.6

5. Il liberalismo moderato come paradigma per il biodiritto

Il proliferare di sempre nuove richieste di riconoscimenti giuridici è dettato dalla caratteristica dei contratti statuali contemporanei, ovvero dalla unanime accettazione del liberalismo politico.7 Si è infatti abbandonata la concezione etica dello Stato che vedeva, nella piattaforma valoriale comune, l'imposizione di una determinata concezione del Bene e del Giusto, concetti giuridici che si identificavano, nelle versioni paternalistiche dello Stato, nelle traduzioni normative delle regole e prescrizioni individuate dalla riflessione morale. In effetti, si assiste in tempi contemporanei al passaggio dalla comunità -- quel gruppo umano che possedeva qualcosa in comune -- alla società -- il gruppo umano che deve tentare di porre e costruire qualcosa in comune. Emerge dunque negli Stati attuali la rivendicazione di una separazione fra la sfera della morale e quella del diritto, una distinzione che consente alle società democratiche di garantire, secondo

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l'ottica del pluralismo, ogni forma ideologica, tentando di conferire pari dignità e riconoscimento alle diverse articolazioni morali, alle differenti Weltanschauung, senza che lo Stato si veda impegnato ad imporne una sulle altre. In tale prospettiva lo Stato diviene garante dell'esercizio della libertà di coscienza ed azione di ciascuno, individuando quelle condizioni di possibilità formali che rendano ciò possibile. Naturalmente si può profilare all'interno di tale pluralismo giuridico la possibilità che le rivendicazioni di alcuni soggetti vadano a ledere la libertà di altri, generando così il bellum omnia contra omnium; proprio tale rischio rappresenta una delle critiche espresse dai fautori del modello statuale giusnaturalistico classico. Un modello questo, che vede la coincidenza della sfera della morale con quella del diritto, per cui ciò che viene ritenuto giusto eticamente, non sulla base di una concordanza contrattuale, ma sulla base di un ordine trascendente che ne tutela l'apoditticità e l'universalità referenziale, deve essere tradotto in termini di justum giuridico. Tale concezione è sostenuta dalla prospettiva confessionale che ritiene inconciliabile la rivendicazione di un'autonomia morale dei singoli con l'esistenza di una società pacifica. In merito allora alle scelte biomediche, il diritto si troverà a dover discutere rispetto al riconoscimento o meno di un determinato diritto rivendicato -- ad esempio quello di morire tramite eutanasia -- verificando al contempo che tale libertà concessa non leda quella di altri che da un punto di vista morale non condividono quella stessa rivendicazione. Si tratterà di stabilire i limiti di intervento dello Stato su tali temi, partendo dall'assunto e dal riconoscimento di una sfera di autonomia personale inviolabile. Specificamente di fronte all'eutanasia allora, il diritto si dovrà interrogare sulla tipologia della richiesta: se essa cioè individui un nuovo diritto o se non rappresenti piuttosto un delitto. Per stabilire quali siano le linee di demarcazione occorrono però paradigmi teorici che il diritto non ha ancora elaborato, o meglio, quelli che già lo costruiscono, appaiono incapaci di legiferare su ambiti al confine fra l'intimità coscienziale dei soggetti e le ricadute collettive di quelle innovative possibilità offerte dall'evoluzione biotecnologica.

Propriamente nel modello del liberalismo giuridico,8 entrato nelle fondazioni statuali a partire dalla seconda metà del Novecento, ed incarnatosi nella pariteticità di incontro e confronto fra diverse impostazioni ideologiche e sociali, si è riconosciuto uno dei valori di cui la bioetica, e più specificamente la biogiuridica, si dovrebbe nutrire. La speculazione intorno alla natura propria ed autonoma del diritto contemporaneo ha offerto la possibilità di estendere tali conquiste culturali al campo dell'etica, terreno intrinsecamente e storicamente caratterizzato da dicotomiche e conflittuali (dunque non fra loro armonizzabili) porzioni di percezione dell'agire umano. Da un punto di vista metodologico si assiste così ad un'inversione di contributi: non più la morale nutre il diritto, ma questi può illuminarla, arricchendone teoreticamente la capacità riflessiva. La centralità del riconoscimento della libertà ed autonomia umane, che sostanziano il rispetto di ogni forma di pensiero e di qualsiasi tipologia di costruzione di percorsi esistenziali, rappresenta e testimonia il principio fondante una bioetica che si dichiari pluralista.

Il tentativo elaborativo di adottare una forma di pluralismo, dunque di integrazione di portati concettuali differenti, anche in etica, è però risultato minacciato da una peculiare interpretazione del laicismo, quella liberale, che altro non individua che una radicalizzazione ed estremizzazione del contributo fondativo che il diritto può in epoca contemporanea rendere all'etica, in special modo a quella biomedica. La versione laicista liberale, partendo dall'assunto che nulla può essere asserito sotto un profilo etico in modo univoco, universale e definitivo, poiché la morale si configura come prodotto storico alla stregua di altre manifestazioni del pensare -- e dunque immanente all'evoluzione delle idee ed espressioni umane, sempre rivedibili e mai date per sempre -- giunge ad una paradossale forma di nichilismo, per la quale ogni formulazione teorica risulta adeguata e responsivamente legittima rispetto ad altre. L'impostazione non può che dimostrarsi paradossale in quanto, se da un lato pretende di assurgere al rango di scienza morale, ovvero a quella forma di teorizzazione dell'agire che, per definizione, dovrebbe fornire paradigmi referenziali dirimenti per il dover essere, e sostrati fondativi determinanti l'essere, giunge dall'altro ad un esito riduzionista di mera applicazione empirica di ciò che convenzionalmente e contrattualisticamente una certa società, in un dato momento storico, ha stabilito essere nella pratica lecito e legittimo. Questa forma di laicismo, rimanendo ancorata a contingenti e storiche coordinate concettuali, rinuncia al progetto propriamente filosofico di elevarsi a fenomenologia antropologica, quella espressione del pensiero che da sempre si è pretesa capace di trascendere i limiti spazio-temporali imposti alla natura umana.

La bioetica laica intesa attraverso tale concezione del pluralismo, finisce così con l'essere una semplice e non più svincolata filiazione di quei codici comportamentali che il diritto ha scelto per identificare il giusto e il bene. Sembra quasi non potersi dare una realtà di autonomia e di parallelo percorso teorico fra le regole strutturanti la morale e quelle costituenti la normazione positiva: o la prima impone i suoi paradigmi alla seconda, facendone così derivare uno Stato paternalistico e dogmatico, o questa detta i criteri attraverso i quali riconoscere ciò che si deve intendere per rettitudine morale.

L'obiettivo ulteriore sul piano teoretico, al fine di formulare adeguati paradigmi per una bioetica laica, dovrà allora incentrarsi -- secondo il parere della redattrice dell'articolo -- sulla possibilità di edificare una forma di etica laica che, accettando la novità del pluralismo scorto nel diritto, pure si radichi nell'ontologia (nell'essere), dunque propriamente nella filosofia. Se infatti abbiamo riconosciuto nella indipendenza ed

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autonomia della giurisprudenza dalla morale uno dei tratti peculiari e positivi della riflessione contemporanea, si ritiene altrettanto positiva e stimolante, la capacità dell'etica di rimanere fedele al compito di fondazione di principi di riferimento generali per determinare la liceità dei differenti atti umani, senza appiattire il dovere morale sull'obbligazione giuridica.

I fini della scienza giuridica e di quella etica, pur nel centrale apporto reciproco per l'inveramento dell'interdisciplinarietà bioetica, non solo sono diversi, ma devono anche esserlo: la giustificazione di un obbligo giuridico codificato, risulta in virtù del potere conferito ad un'autorità che sola stabilisce i confini fra reato e correttezza comportamentale; la giustificazione di un dovere morale, al contrario, proviene da fonti inesauribili di argomentazione razionale che non si reggono sulla base di un potere assunto, ma sulla forza stessa del ragionamento, in tal senso essa implica una relazionalità decisionale paritetica, mentre il diritto consacra una relazionalità impositiva, verticalistica e gerarchica.

6. Conclusioni

All'interno di questa generale formulazione metafisica laica, che dunque accantona impostazioni fondative che fanno capo alla trascendenza -- mai razionalmente argomentabili, non situabili sul terreno di un confronto dialettico -- si deve compiere un ulteriore passo nell'arrestare derive nichiliste etiche, che pure sorgono da un certo modo di interpretare il pluralismo etico. Il sostenere, secondo l'approccio liberale estremo, che ogni teoria è foriera di una sua verità, equivale a dire che non è possibile stabilire alcuna priorità fra valori differenti, né impegnarsi a dimostrare qualche posizione: da ciò deriverebbe -- a mio avviso -- una paralisi sociale che rischia di naufragare nel vuoto motto radicale del «se ogni valore è paritetico all'altro, tutti i valori vanno bene». Il mio approccio, che vuole mediare non solo tra le diverse impostazioni epistemologiche peculiari ai vari saperi coinvolti, ma anche le differenti opzioni teoriche interne alle singole discipline, intende giungere ad una più ampia configurazione antropologica. Ritengo realmente fondante una bioetica laica quella versione del valore della vita costruttivista e antirealista: una formulazione per la quale non esistono i meri fatti, o le cose in sé, ma esiste un soggetto che li percepisce, li struttura e li qualifica come fonti di fenomeni percettivi. Centrando così l'attenzione sul principio dell'autonomia umana e della qualità dell'esistere, si costruirà un pensiero etico laico che guarderà alla realtà più come prodotto culturale che come fatto naturale, più alla biografia umana che alla sua biologia.

Note

1. Cfr. E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 1999.

2. Per un approfondimento di carattere epistemologico sul rapporto che intercorre fra filosofia, etica medica e bioetica, cfr. Anne Maclean, in The Elimination of Morality, Routledge, London 1993.

3. D. Lamb, L'etica alle frontiere della vita, Il Mulino, Bologna 1998, p. 14.

4. La presunta neutralità della scienza contemporanea è ben decostruita, sul piano argomentativo, dal filosofo tedesco Hans Jonas nel testo Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997.

5. Per la comprensione di ciò che si intende con l'espressione «bioetica laica», si rimanda alla famosa definizione data da U. Scarpelli in Bioetica laica, Baldini & Castoldi, Milano 1998.

6. Per un approfondimento sulla natura peculiare del «biodiritto», vedasi F. D'Agostino, «Bioetica e diritto», in Medicina e morale, 4/1993.

7. Per comprendere l'origine del termine e delle sue implicazioni politico-sociali si consulti il famoso Saggio sulla libertà di J.S. Mill.

Il contenuto concettuale innovativo di questo termine può essere ben esemplificato dalla tesi dell'autrice Letizia Gianformaggio: «Così questo modo moderno di fare filosofia morale e giuridica è una forma di razionalismo, [...] che però non tematizza la Ragione, ipostatizzata, al singolare e con la maiuscola, ma le ragioni.»; Id., «Rapporti tra etica e diritto», in C.A. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 153.

Clemente Sparaco

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Postmoderno fra frammentarietà e urgenza etica

1. Introduzione

Se dovessimo sinteticamente connotare il presente, a partire dalla riflessione filosofica sull'oggi, ossia dalla lettura che del presente offre la ragione postmoderna, troveremmo essenzialmente due caratteristiche distinte ma complementari:

1. il presente è la stagione del frammento e della molteplicità dei punti di vista, della differenza, come principio fondamentale che guida l'agire nell'epoca della complessità e della tolleranza come categoria guida del vivere sociale nel rispetto delle diversità;1

2. il presente è la stagione del dopo, del postmoderno, l'epoca che viene dopo, innanzitutto il moderno, ma anche dopo il nichilismo, oltre le ideologie e i miti che hanno caratterizzato a lungo il pensiero dell'Occidente, generando spesso totalitarismi e violenze.

Ma il presente appare anche l'epoca in cui grandi mutamenti in atto premono e pongono nuove domande, sempre più urgenti, a partire dall'etica, comprendendone il versante più intimo e privato (si pensi alla bioetica) e quello pubblico (si pensi alle tematiche economiche e sociali legate al fenomeno della globalizzazione), mentre scelte fondamentali si impongono in modo sempre più pressante.2 Oggi non ci sono più i blocchi di potere a spaventare per la mostruosità degli effetti previsti di un'eventuale guerra, ma l'imprevedibilità di ciò che può accadere dopo l'11 settembre ci pone nella condizione di chi non sa più che cosa ci si possa aspettare da un momento all'altro.3

Di fronte ad una modernità e ad una stagione nichilista che parevano avere estromesso la religione dallo sviluppo storico, dichiarandone la morte e l'estinzione progressiva, riemergono nel mondo presente conflitti epocali e di civiltà che si connotano in modo religioso. Il presente pone, ancora, domande fondamentali che riguardano la vita, la morte e la cura della sofferenza e i fatti epocali, accaduti di recente, aprono nuovi scenari in cui dietro l'angolo c'è il problema del convivere di civiltà diverse, perché non rinasca il rischio di un conflitto di religione.

A queste sfide una filosofia frammentata e disincantata stenta a trovare risposte, mentre riemerge nella solitudine delle coscienze il bisogno di essere riconosciuti, di essere chiamati per nome.

2. La frammentarietà del presente

La prima caratteristica, che pare accompagnare la percezione che la filosofia occidentale ha oggi del presente, è rinvenibile nella constatazione che ormai la frammentarietà fa a tal punto parte dell'oggi da essere divenuta qualcosa di costitutivo e insuperabile. Il pensiero di inizio millennio sembra, infatti, muoversi all'interno di un orizzonte unico in cui le categorie dominanti sono quelle di molteplicità, pluralità e differenza.

Guardando all'arcipelago di filosofie speciali, di stili e di modelli teorici, si ha l'impressione di avere a che fare con qualcosa «che ha perduto la consistenza di una trama compatta e unitaria».4 Si constata che la totalità moderna ha ceduto il posto al frammento postmoderno e che la divisione e la separazione sembrano regnare dove prima era ordine e unità: tutto è divenuto più fluido, discontinuo, interrotto.5 Concepire visioni globali e univoche sembra ormai impossibile e ancor più pare improponibile, a livello etico, riferirsi a valori incondizionati. In questo mondo a pezzi non pare più pensabile un linguaggio, o una teoria, capace di mettere insieme universi che non sembrano più riunibili. Bisogna invece riconoscere la pluralità, la caoticità del reale, l'incomunicabilità ontologica delle sue parti.

Il postmoderno significa, in questa accezione, tutto ciò che ha a che fare con l'eterogeneità, la diversità, la frammentazione, l'indeterminatezza, la sfiducia nei linguaggi universali. Si enfatizza, in un certo senso, la parte volatile, caduca, mobile, effimera, insita nella modernità, mentre quello che si è perduto è la parte di eterno, il nucleo fisso.6 Si disegna, in definitiva, una condizione d'incertezza, in cui la filosofia appare senza fondamenti metafisici, la scienza senza certezza, l'etica senza verità e la politica senza più giustificazione.7

2.1. La filosofia e il problema del fondamento

L'impossibilità di concepire visioni globali e univoche e la generalizzata dispersione e moltiplicazione dei

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discorsi si riconduce a quella che si definisce come crisi dei fondamenti o delle metanarrazioni.8 È accaduto, dopo Nietzsche, che il fondamento del pensiero è esploso in mille pezzi e direzioni, per cui oggi non abbiamo più una sola idea di filosofia, ma riscontriamo la moltiplicazioni dei modi di intendere e usare questa parola. Di conseguenza la frantumazione ha dato luogo ad una pluralità di linguaggi ormai difficilmente riconducibili ad unità.9 L'uomo postmetafisico si trova, perciò, a fare a meno delle categorie forti della metafisica: la nostra esperienza, piuttosto che con strutture eterne a-priori, si trova a fare i conti con la sua storicità, con la sua temporalità e con un'irrimediabile finitezza. E sono quella storicità, temporalità e finitezza che l'uomo esperisce negli orizzonti linguistici che definiscono la sua stessa esistenza.10

Le varie problematiche postmetafisiche confluiscono in un pensiero negativo, in un nichilismo estremo, che può essere ancora efficacemente riassumibile con le parole di Nietzsche: «Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al perché?».11 L'essere viene assunto heideggerianamente come evento, in quanto l'essere, identificandosi nichilisticamente con il tempo, differisce, sottraendosi da se stesso per dissolversi nel divenire, nel suo nulla. L'essere si dà nel tempo: l'essere è il tempo, non si dà come fondamento, come struttura stabile e in sé, ma come Ge-Stell, come differimento sempre oscillante e vacillante, precario ed evanescente, come evento nelle forme transitorie della caducità delle creature e del loro mondo storico.12 L'essere si dà come apparire nelle forme finite, caduche ed effimere del divenire, del nascere e morire. Nessuna struttura stabile ed eterna pare profilarsi all'orizzonte. L'essere e la vita sono declinati nichilisticamente. L'essere, perciò, si confonde con l'apparire e la vita si riduce ad un mobile gioco di apparenze: «Una tale concezione dell'essere, vivente-declinante (cioè mortale), è più adeguata, tra l'altro, a cogliere il significato dell'esperienza in un mondo che, come il nostro, non offre più (se mai l'ha offerto) il contrasto fra l'apparire e l'essere, ma solo il gioco delle apparenze...».13

La si è chiamata epoca delle immagini del mondo,14 e questo anche in riferimento al ruolo sempre più pervasivo che la comunicazione per immagini vi ha assunto. In questo scenario virtuale si realizza una sorta di derealizzazione, di perdita della realtà, nel senso che l'immagine tende a prendere il posto della realtà e l'essere si risolve pienamente nell'apparire. L'attrito esterno con la realtà scompare nel fascio di immagini che invade i nostri monitors. Si sta, in altri termini, perdendo la capacità di scorgere al di là della pletora d'informazione che riceviamo, volti e cose reali, messaggi e spunti per la riflessione personale. La differenza fra realtà e immagine sfuma a tal punto che colpire un bersaglio reale da un cavalcavia può essere confuso col colpire il bersaglio virtuale di un videogame. Nel mondo delle immagini virtuali il riscontro esterno con le cose reali tende a scomparire, ma scomparendo questo, tende a dissolversi anche il senso che oltre le nostre misure, oltre i nostri schemi, ci sia una realtà che ci misuri.15 Immagini e parole diventano informazione che galleggia in superficie, mentre in profondità la coscienza vive un profondo senso di solitudine.

All'interno di questo quadro di caducità estrema e di virtualità, non si dà costruzione assoluta delle cose, non si dà una verità. Di conseguenza la contestualità e la contingenza risultano principi orientativi, in cui si avverte come il legame della ragione postmoderna a orizzonti, tradizioni, e situazioni sia ormai ritenuto inaggirabile. «I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni»16 e non c'è nulla che si ponga al di là dell'orizzonte del detto, di ciò che è contestuale. Come ha scritto Derrida, «non c'è fuori testo».17 Ma se la verità è un'interpretazione, allora ci sono differenti verità, nessuna delle quali può pretendere di assolutizzare se stessa. Più in generale la verità appare rinchiusa all'interno dei diversi orizzonti linguistici che, a loro volta, non rimandano più ad un al di là del linguaggio, ma che risultano essere giochi del tutto risolti in se stessi, all'interno delle proprie regole e delle proprie logiche. Da questi orizzonti linguistici non si esce più, né per indicare un mondo che sta al di là delle parole, né per comunicare con l'altro, che a sua volta pare rinchiuso all'interno di un suo orizzonte linguistico, le cui regole e i cui significati non sono traducibili e comprensibili per noi. Accade così che nell'universo linguistico regni l'incomunicabilità. Il modello di questo sapere, secondo Eco, è significativamente il labirinto.18

È un pensiero debole, congetturale e contestuale, che deve rinunciare a stabilirsi su premesse salde ed indubitabili, su quelli che un tempo erano definiti i fondamenti del sapere. Se un sapere c'è, questo è senza fondamenti. E possiamo aggiungere senza verità. Se, infatti, per verità si intende che troviamo la verità sempre nel contesto di linguaggi e pregiudizi e prospettive, allora non si dà una verità nel senso della possibilità di un confronto esterno, in rapporto al mondo reale, o in rapporto ad altre raffigurazioni ed esperienze del mondo. «Nichilismo vero -- ha scritto A. D'Agostini -- è sapere che il mondo vero non esiste; nichilismo estremo è sapere che non esiste neppure mondo, e che perciò non c'è alcuna verità né falsità.»19 Questa condizione comporta, ormai, l'accettazione della perdita di senso dell'esistenza e la definitiva rinuncia al fondamento. Il pensiero rinuncia anzi anche a cercare e si alleggerisce in questa condizione di rinuncia. Come ha scritto G. Vattimo, «non vi è alcun fondamento per credere al fondamento, e cioè al fatto che il pensiero debba fondare».20

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La possibilità di poter ricomporre la molteplicità dei linguaggi in un unico metalinguaggio complessivo, che possa avere ragione sinteticamente della pluralità contraddittoria della realtà, viene denunciata come illusione. Il pensiero resta debole e la crisi dell'ideologia pare segnare, per alcuni di questi interpreti postmoderni, un punto di non ritorno.21 La problematica del relativismo finisce per essere una sorta di premessa largamente condivisa. Da questo relativismo radicale sono investiti, dopo il fondamento, i vari saperi, a partire dalla filosofia, ma coinvolgendo anche il sapere scientifico-tecnico, e in un modo tutto particolare l'etica e la politica.

2.2. L'ambito scientifico

Un relativismo conoscitivo coinvolge, oggi a differenza di ieri, anche la cultura scientifico-tecnica, in cui la sfida della complessità mette in crisi il vecchio dogma dell'oggetto identico, della sua ripetibilità sperimentale e della sua uniformità. I fatti scientifici, i dati, l'esperienza, sono diventati dipendenti da teorie o paradigmi, schemi concettuali, modelli, linguaggi.22

Con il saggio «La struttura delle rivoluzioni scientifiche»,23 Kuhn (siamo all'inizio degli anni '60) metteva in discussione la visione allora dominante in filosofia della scienza, individuabile nelle tesi empiristico-razionalistiche (Popper o Carnap), e dava l'avvio al dibattito sul relativismo nell'ambito della teoria della scienza e della conoscenza. Kuhn denunciava come insostenibili due aspetti di tali teorie:

1. l'idea di un metodo unico (quello ipotetico-deduttivo) per l'analisi delle teorie, per valutarle, scartarle, confermarle;

2. l'idea che la scienza è avalutativa, ossia la distinzione tra fatti e valori e la pretesa che la conoscenza scientifica sia mera descrizione di fatti, senza implicazione di valori, senza implicazione cioè di motivazioni diverse da quelle strettamente attinenti ai fatti.

Inoltre, nell'analizzare la storia delle scoperte scientifiche, concludeva che:

1. ogni teoria è relativa a un certo paradigma (punto di vista, contesto, «visione del mondo»), e solo all'interno di quel paradigma vale, e non altrove: di conseguenza l'idea di un metodo unico, in base al quale produrre e valutare le teorie, è difficilmente sostenibile;

2. i paradigmi e le teorie che vi appartengono non sono strutture neutrali, ma configurazioni alle quali concorrono motivi di tipo psicologico-sociale, ovvero configurazioni non tanto o soltanto logiche, ma anche storico-retoriche. Il passaggio da un paradigma a un altro avviene, perciò, non per una serie di ricostruibili passi razionali ma per un «salto fideistico», per una sorta di «conversione».24

Le teorie scientifiche sono, allora, «incommensurabili». Non è possibile, in altri termini, confrontare o commisurare le teorie tra di loro, e dunque sceglierle, in quanto non si dà una teoria delle teorie capace di fornire un criterio oggettivo di scelta. La molteplicità, anche in ambito scientifico, sembra non più riconducibile ad unità. Non si parla, infatti, più di un metodo unico, ma di procedimenti scientifici diversi, molteplici e sempre più incerti. Le teorie, poi, vengono giudicate come sempre più simili ad interpretazioni. Nello stesso tempo lo sviluppo di scienze come la microfisica sembra portare alla fine del canone tradizionale del fatto sperimentale e della sua visibilità, percepibilità ed esperibilità. Quando, infatti, si va nell'infinitamente piccolo della microfisica i canoni dell'oggettività dell'osservazione subiscono necessariamente una trasformazione. Ad esempio, l'illuminazione cui è sottoposta una particella osservata, la modifica nell'atto stesso di illuminarla per l'osservazione stessa, per cui non ne avremo mai un'osservazione oggettiva.25 Ma l'influenza dell'osservatore non è solo di questo genere.

Per Feyerabend l'analisi della storia della scienza dimostrerebbe qualcosa di ancor più sconvolgente: la ricerca scientifica sarebbe dominata da «miti e suggestioni emozionali». Feyerabend insinua qui un dubbio radicale circa le procedure cognitive della scienza, perché se in queste stesse procedure diventano fondamentali fattori di ordine irrazionale, viene meno la possibilità di un criterio di valutazione oggettiva di metodi e procedure. In definitiva non può darsi alcun metodo superiore ad un altro, con cui valutare i risultati della ricerca, perché tali metodi «sono soggetti alla stessa variabilità dei risultati che vengono giudicati».26

In conclusione, se le procedure cognitive della scienza non obbediscono ad alcun criterio riconoscibile come oggettivo, allora anche nell'ambito scientifico non ci sono più i fatti (né i metodi né le certezze), ma solo interpretazioni. Si verifica quella che si è definita ermeneuticizzazione della teoria della scienza e si alimenta una situazione d'incertezza più generale. Anche la scienza perde un po' della forza che la ragione moderna le aveva assegnato e si scopre debole e incerta.

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2.3. L'etica e la politica

L'incertezza coinvolge ancor più l'universo etico-politico che dovrebbe fare da sfondo alla difficile convivenza del presente. Anche qui al grande racconto (all'ideologia fondamentale) si sostituisce una pluralità di narrazioni, il cui senso e la cui logica non sono più garantiti da un'idea di fondo o da una verità in qualche modo esterna. Nella prospettiva postmoderna non c'è posto per le grandi narrazioni ideologiche dell'epoca metafisica, in quanto viene meno qualsiasi procedura di legittimazione per stabilire la loro verità. Si assiste, in particolare, all'eclissi di filosofie totalizzanti, come il marxismo, che pretendevano di offrire risposte a ogni domanda di senso a partire da una posizione dogmatica e ideologica, e si assiste al venir meno di ogni progetto di emancipazione delle masse nell'epoca della massificazione.

Sembra, anzi, largamente diffusa e condivisa la convinzione secondo cui la nostra è un epoca contraddistinta da una generalizzata caduta delle tensioni progettuali e ideali, non solo delle prospettive politico-ideologiche, ma anche etiche e religiose. In un certo senso pare oggi imprescindibile abbandonare qualsiasi idea universalistica come presupposto della nostra partecipazione e del nostro impegno in questo mondo. Ciò ha immediatamente riflessi sulla politica che, dovendo rinunciare a fondamenti ideologici, deve farsi sempre più leggera, mediatica e in un certo senso virtuale. È la politica che insegue gli indici di ascolto, che teme i sondaggi e che diventa sempre più videopolitica.27 L'immagine tende, anche qui, a sostituire la realtà, per cui si assiste ad una progressiva spettacolarizzazione della politica: la seduzione dell'immagine del candidato diviene preponderante sulla discussione dei contenuti.

La frammentarietà è percepibile socialmente nello sgretolarsi progressivo delle comunità di appartenenza, di carattere geografico, sociale, religioso, politico, un tempo punti di riferimento. Il partito, la chiesa, il paese, la cerchia di persone con le quali si condivideva la vita quotidiana, sono realtà comunitarie che si erodono ogni giorno di più di fronte all'urbanizzazione, alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, all'omologazione e, insieme, all'isolamento della vita metropolitana.28 La frammentarietà postmoderna, in ambito sociale, si connota come condizione di sradicamento dell'individuo, frammento che fatica ormai a trovare una collocazione sociale. Alla perdita della comunità fisica fa riscontro, infatti, la crisi della comunicazione e della solidarietà.

Contemporaneamente il mondo diviene sempre più piccolo e accade sempre più spesso che uomini provenienti da civiltà, religioni e culture diverse si trovino a convivere insieme e a condividere spazi culturali, professionali e di vita quotidiana. La convivenza di credenze e orientamenti diversi, che si traducono in norme e giudizi morali a volte profondamente contrastanti, determina una pluralità a prima vista insanabile di punti di vista morali, che danno luogo a conflitti profondi e spesso drammatici.

Ma la frammentarietà non è solo un dato spaziale e sociale, è anche percepibile in un senso temporale più intimo alle coscienze. L'epoca postmoderna pare incapace non solo di concepire valori ideali eterni, ma anche stabilità. L'epoca della dissoluzione della modernità coincide, infatti, con l'ingresso nell'età dell'esplosione della contingenza. Scrive Cacciari: «qualsiasi armonia possa prodursi, essa ha in sé il germe del proprio disfacimento e, insieme, la possibilità di nuove armonie...».29 Ognuno si ritrova solo di fronte a scelte difficili e complesse. Vive in un certo senso l'inferno di non essere riconosciuto e di non avere più legami saldi e affidabili. L'individuo è, anche lui, infondato, senza più basi sotto i piedi, alla ricerca di un appiglio. Il relativismo domina in campo morale e gnoseologico e anche nella semplice azione quotidiana. Comporta sempre depauperamento, perché allontana l'individuo dal concreto riferirsi alle cose nella loro realtà imprescindibile, creando immagini inconsistenti, modelli irreali e deresposabilizzanti di comportamento. In un certo senso le situazioni ci interpellano, provocano una nostra risposta consapevole e noi differiamo il confronto, lo rimandiamo o, peggio, lo eludiamo. La perdita della realtà comporta, a livello etico, una strutturale fragilità, che si manifesta nell'incapacità di affrontare le difficoltà delle situazioni, di assorbire i colpi delle inevitabili disillusioni.

Nell'epoca della frammentarietà, nell'illimitata pluralità delle autolegislazioni dei singoli, è destituito di senso tanto il proibire quanto il prescrivere. Al massimo si oppone a tutto questo un buonismo tollerante, che altro non è se non l'assunzione da parte del relativismo morale del principio della differenza e della tolleranza, ma con la perdita di ogni criterio di demarcazione e il conseguente sbriciolarsi di tutto in una pluralità contraddittoria. In altri termini tale atteggiamento morale sconfina nella deresponsabilizzazione, cioè nell'incapacità di assumere responsabilmente una posizione, di sostenere le proprie scelte morali, o forse più in generale di mantenere un'identità. Anche l'identità individuale risulta, infatti, frammentata, indefinita. Si tratta di astenerci dal contrarre impegni a lungo termine, di non giurare eterna fedeltà a nessuno e a nessuna causa, in un certo senso di avere un'identità adottatta al momento, come una veste che si può dismettere e non una pelle, che aderisca «troppo strettamente alla persona».30

Nell'epoca in cui la ragione sembra non dominare più il tutto e la frantumazione è sentimento dominante, la

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strategia vincente sembra essere quella di astenersi dal contrarre impegni a lungo termine e così dal professare una verità e una religione. Quando poi si dirige lo sguardo verso il cristianesimo, se ne considera quasi esclusivamente l'aspetto morale. La ricerca, la ragione non sembra aperta, in specie al trascendente e alla fede: l'una senza l'altra è impoverita e indebolita.31 Nell'interpretazione nichilista -- si legge nella Fides et ratio -- l'esistenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.32 A livello etico si afferma un nichilismo dolce, un «fai da te» relativistico, che «prende origine dalla metamorfosi del principio di autonomia»33 della modernità. Prende origine, dicevamo, ma ne è ormai un riflesso illanguidito.

3. L'oggi come postmodernità

La seconda caratteristica del presente ci pare individuabile nel suo autopercepirsi come epoca del post,34 e cioè del dopo, e, in un senso più negativo, del tramonto e della fine. Col termine postmodernità, che si è imposto negli anni '80 soprattutto in Francia e in Italia, si è cercato in fondo di caratterizzare una «condizione» tipica dell'uomo contemporaneo. Oltre il termine postmodernità, si è cominciato ad usare tutta una serie definizioni accomunate dal prefisso post. Si è parlato, infatti, anche di società postindustriale e postcapitalistica, di ordine postborghese, di postcristianità.35

Più in generale, al compimento del nichilismo pare connettersi una filosofia del «dopo». Con postmoderno s'intende, allora, che siamo dopo la filosofia, dopo la virtù, dopo l'obiettività, dopo le ideologie, e che il nichilismo, il pensiero negativo, il decostruttivismo fanno da guida. Inoltre il postmodernismo si presenta come descrizione di un universo dove la fine del soggetto è un fatto compiuto, insieme alla fine della modernità e alla fine della filosofia. Allo stesso modo si è parlato di fine della storia e di declino dell'etica e dei valori, salvo poi a scoprire l'urgere di problemi etici nel campo, ad esempio, della bioetica.

In questa lettura del presente ci sembrano sintomatiche due cose. La prima è che nel connotarsi come un dopo il moderno troviamo le coordinate del postmoderno e, in un senso lato dell'oggi, e anche le relative ambiguità o contraddizioni. Il dopo può configurarsi sia come continuazione che come fine, e il postmoderno ci pare essere tutte e due le cose assieme. Più in generale il postmoderno manifesta, nella sua stessa definizione, di essere figlio della modernità. Alle spalle del postmoderno c'è, in altri termini, il moderno, di cui il postmoderno si dichiara continuatore distorcente, o se si preferisce declinante, ma verso cui necessariamente si volge per definire la propria identità e il proprio statuto. Il postmoderno viene dal moderno, di esso non può fare a meno, non solo come di un riferimento necessario, ma anche perché ne deriva profondamente, lo porta in sé molto più di quanto dichiari. Il postmoderno, in effetti, sembra differenziarsi dal moderno solo per esserne una propaggine estrema, che, seppure languidamente, ne conserva in sé il corredo genetico.

Certo vedremo che l'oggi prende abbondantemente coscienza dei limiti del moderno, dichiarandone la fine, ma nel farlo identifica il moderno con un aspetto, lo legge cioè secondo una prospettiva, che necessariamente appare parziale.36 Il moderno diventa, nell'interpretazione dei postmoderni, spesso sinonimo di ideologia, si connota come sogno emancipatorio fallito, ad esempio, con il crollo del muro di Berlino, che avrebbe segnato, per l'appunto, «il tramonto dell'ideologia«.37 Ma tutto questo non comporta la negazione o il rifiuto di convinzioni ancora più strutturali. Il postmoderno, infatti, è ancora sulla linea della modernità quando ne prosegue il cammino di allontanamento dall'essere delle cose e dal confronto concreto con il reale. La sostituzione di un'immagine pensata alla realtà corposa è tipica, ad esempio, dell'idealismo, ma è ancor più caratteristica dell'epoca dei media e delle navigazioni virtuali di Internet.

Il «dopo» che la filosofia contemporanea ha di mira (Nietzsche e Heidegger, ma anche Wittgenstein) è più simile allora ad uno «spostamento» (a una deviazione) che a un «superamento» (nel senso progressivo di Hegel). Ci si allontana così dalla dialettica hegeliana (e dall'idea di verità come movimento razionale e ascendente) e si prende congedo dai vincoli della filosofia della storia, cioè dall'idea che il corso storico sia già orientato in senso razionale e dunque anche necessario.

La seconda cosa che ci pare sintomatica è che si sia connotato l'oggi a partire da un'indicazione temporale piuttosto paradossale: l'oggi è un dopo! È sintomatico, perché in questo c'è un sentimento diffuso che sembra accompagnare il presente, un presente che pare vissuto più che come tempo che preannunzi qualcosa di nuovo, tempo aperto al futuro insomma e, quindi, alla speranza, come tempo che si pone dopo un altro, in un certo senso segnandone il tramonto o una propaggine estrema. Il postmoderno rivela in questo di essere l'oggi con i suoi ristretti ambiti, le sue angustie e le sue idiosincrasie. Ed è un oggi che sintomaticamente non trova connotazione migliore per sé che quella di definirsi un dopo, che è più simile ad un tramonto che ad un inizio. È la stagione del dopo, che connota questo suo essere dopo in un senso più negativamente finale, conclusivo, che emancipante o liberatorio. Dopo significa tramonto e fine: nessun

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progetto per il futuro, dunque, ma storia vecchia che si ottunde e distorce nelle continue rivisitazioni ermeneutiche.

Ha scritto F. Gogarten: «Il destino della nostra generazione è di trovarsi fra i tempi. Noi non siamo mai appartenuti al tempo che oggi volge alla fine. Forse apparterremo una volta al tempo che verrà? e anche ammesso che da parte nostra si sia in grado di appartenergli, esso verrà tanto presto? Così ci troviamo nel mezzo. In uno spazio vuoto... Noi ci troviamo fra i tempi».38 La vuotezza del presente è in questo sentimento di ambiguità che accompagna il postmoderno e in questo rapporto ambiguo che esso intrattiene con la modernità. Si denunciano i limiti della modernità, ma si è poi incapaci di dar inizio ad una stagione nuova. Si resta come sospesi fra i tempi, incapaci di prospettare una via d'uscita. Nel commentare il passo di Gogarten sopra riportato, B. Forte ha significativamente scritto: «Questa stagione sta appunto «fra i tempi», oltre la modernità ed oltre l'ideologia, e tuttavia tale da potersi solo indistintamente qualificare come «post-moderna», ancora ammaliata com'è dalla seduzione di interpretazioni totali, pur se nella forma negativa del nichilismo e della rinuncia».39

A questo sentimento di «posteriorità» del presente fanno da sfondo due tematiche:

1. la prima è relativa alla crisi dell'idea di progresso e alla cosiddetta fine della storia,

2. la seconda ha a che fare con il senso del tempo che si ha nella postmodernità.

3.1. La fine dell'idea di progresso e la fine della storia

Il postmoderno intende liberarsi dalla metafisica idealistica del tempo, che congiunge passato, presente e futuro mediante un'unica linea provvidenzialistica.40 I fili risultano invece molteplici: il presente è la matassa in cui siamo impigliati, ma anche il passato è fatto di innumerevoli fili, così come il futuro. Possiamo illuderci di rintracciare il capo e sublimare questa illusione con il nome di verità, dicendo che la verità è proprio il nostro essere presi nel groviglio, e cominciare a ragionare in modo disilluso tenendo ferma tale verità,41 ma resta che non c'è alcuna direzione nella condizione in cui nessuno è diretto da nessuna parte. Gli uomini sembrano muoversi come in un labirinto, in un intrico di vie da percorrere e l'esistenza consiste in questo movimento attraverso le maglie di una rete, di un reticolo di connessioni simili a quello che, con lo sviluppo della comunicazione elettronica, è poi diventato il web, la ragnatela di Internet.

«La storia contemporanea [...] -- ha scritto G. Vattimo -- è, in termini più rigorosi, la storia di quell'epoca in cui tutto, mediante l'uso dei nuovi mezzi di comunicazione, la televisione soprattutto, tende ad appiattirsi sul piano della contemporaneità e della simultaneità, producendo anche così una destoricizzazione dell'esperienza.»42 È storia nella mera dimensione temporale, un grappolo di eventi nel tempo che non costituiscono un percorso. Si pensi, ancor una volta, alla rete mediatica e a alla sua struttura che collega epoche diverse su un piano spaziale, di superficie, dove l'evento conta per l'immediata fruizione che offre al navigatore. I fatti, i personaggi del passato e del presente formano un aggregato di notizie senza spessore e senza connotazione storica, suscitanti curiosità più che interesse. La simultaneità dei processi comunicativi conferisce all'uomo tecnologico una sorta di ubiquità elettronica..43 Prevale la dimensione spaziale (la rete informatica) su quella temporale. «Ora è necessario dire che è precisamente quest'intero nuovo spazio globale originale, straordinariamente demoralizzante e deprimente, il «momento di verità» del postmoderno.»44 Il tempo storico viene ad assomigliare sempre più a una dimensione con caratteri strutturali vicini alla nozione di spazio e risulta come appiattito sui nostri video.

Gli storiografi, in effetti, hanno abbandonato l'idea di un unico tempo storico, lineare e progressivo, e hanno adottato una nozione plurale di tempo, come se esistesse una molteplicità di tempi diversi, corrispondenti alle diverse epoche e culture, che si intrecciano tra loro e si stratificano. Viene scompaginata la linearità, l'idea che il tempo sia una freccia che dal passato va verso il futuro passando attraverso il presente. Un eterno presente, intemporale e vacuo, quello dei rotocalchi e del pettegolezzo, sembra sostituirsi alla storia. Tramontano i grandi racconti che avevano per protagonisti i partiti, le masse, lo Spirito, e l'idea di progresso si trasforma in routine. L'attesa messianica di una trasformazione rivoluzionaria del mondo viene sostituita da un desiderio di novità inessenziale e superficiale.45 Osserva Marramao che il «venir meno delle grandi ideologie trasformazioniste (e del concetto enfatico di Storia a esse correlato) non dà luogo, per i postmoderni, a una istituzionalizzazione adattiva e fredda del processo innovativo, ma piuttosto a una nuova apertura del pensiero e delle pratiche alla dimensione del possibile e del contingente: a una disponibilità a contemplare la fluttuazione, la discontinuità e il coup innovativo dentro una sorta di antimodello del sistema stabile».46

Vivere nel mondo incerto della postmodernità vuol dire, allora, non sentirsi più confortati dalla legge del progresso, in quanto sembrano essere venuti meno le visioni della storia che l'avevano sostenuta. Venute mene, infatti, la prospettiva escatologico-religiosa e quella teologico-laica di matrice illuminista e storicista,

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il progresso si libera da ogni connotazione assiologica, sia positiva sia negativa, e viene concepito come semplice enfatizzazione del nuovo. Il pensiero postmoderno nega la provvidenzialità della storia, l'idea che la storia abbia una direzione, e cioè sia riconducibile ad una direzione unitaria, e rifiuta, di conseguenza, qualsiasi teologia-politica consolatoria.

Come ci sono differenti verità, così ci sono differenti storie. Ma se diverse e differenziate sono le storie allora non c'è propriamente una storia, e cioè una storia per cui possano ancora valere i canoni comuni, o tradizionali, di storia. Nella dissoluzione dell'idea di progresso si situa, allora, anche il senso dell'espressione, oggi di moda, «fine della storia». Se, infatti, «non c'è una storia unitaria, portante, e ci sono solo le diverse storie, i diversi livelli e modi di ricostruzione del passato nella coscienza e nell'immaginario collettivo, è difficile vedere fino a che punto la dissoluzione della storia come disseminazione delle «storie» non sia anche una vera e propria fine della storia come tale».47

Assumere l'espressione fine della storia48 significa, in definitiva, riconoscere l'improponibilità di un modello unitario d'interpretazione storiografica, che sarebbe necessariamente arbitrario nonché violento, perché configurato secondo la visione dei vincitori. Per l'uomo postmoderno, che predilige forme di esistenza sempre più evanescenti e transitorie, sempre meno stabili e definitive, assumere il monopolio della storia equivarrebbe ad assumere il monopolio della verità.49

3.2 Presente, passato e futuro nella coscienza postmoderna

La frammentarietà e il senso di posteriorità fanno sentire i loro riflessi non solo sulla storia grande (le epoche), ma anche sulla storia piccola, quella cioè che ha a che fare con la vita individuale di ciascuno, con la quotidianità, e con la percezione che ciascuno acquisisce della propria identità personale, attraverso le esperienze più o meno significative della propria vita. Nelle storie personali si riflette l'interruzione della continuità dei tempi, la crisi cioè dell'idea che il tempo della nostra esistenza sia orientato, abbia un senso in rapporto ad una missione da compiere, ad un progetto da portare avanti. Il presente disintegrato del tempo postmoderno, ormai frammentato e molteplice, è un presente che non ha più memoria storica del passato e non progetta più il futuro. È un presente che appare impossibilitato ad organizzare passato e futuro in un'esperienza coerente. Si verifica come un senso di schiacciamento sull'immediato, sulla moda, sulla novità fine a se stessa. È «un'attenzione nota per la sua incapacità di concentrarsi, di soffermarsi su un solo oggetto per un tempo superiore al fascino della novità...».50

Anche a livello politico, del resto, è proprio l'assunzione del presente come unico orizzonte storico, e dunque la scomparsa del futuro, che esclude politiche di emancipazione, di liberazione. «Il «venire dopo», sentimento dominante della vita postmoderna, attribuisce una speciale enfasi politica al presente (nonché al «passato del presente» e al «futuro del presente») che se non interviene una catastrofe nucleare, è la nostra eternità».51 Di conseguenza le categorie di tradizione e innovazione risultano inservibili, poiché l'esistenza si dilata a dismisura in un eterno presente, dove il tempo altro non è che «il passaggio dal presente al presente, dalla presenza alla presenza, dallo stesso allo stesso. Non è alienazione, né redenzione, ma transito».52 Ed è questo eterno presente che sembra aver sostituito la storia.

L'appiattimento sul presente, che si riscontra nelle coscienze sradicate e inquiete dell'oggi, è da mettersi in relazione proprio alla perdita della dimensione della memoria (passato) e della speranza, o se si preferisce del progetto orientato verso il futuro. Il futuro sembra ostacolo insormontabile per tale pensiero: il programmare, il progettare grandi mete, non si addice ad un pensiero debole. L'avvenire resta interrogativo senza tentativi di risposte per il pensiero debole timoroso di inoltrarsi nel forte.53 Al compimento del nichilismo pare connettersi, in conclusione, una filosofia del dopo, in cui è messo in questione innanzitutto il significato del futuro, non più considerato luogo utopico della realizzazione di qualcosa che sarebbe insito nella natura dell'uomo. Eticamente, perciò, il futuro non ha più la forma di una meta da raggiungere o di un criterio cui uniformare le condotte.

E la stessa importanza del passato cambia di segno: non si tratta di dimenticare il passato attraverso una specie di tabula rasa, ma di liberarsi da un'idea di passato come di un corso omogeneo e necessario che ci avrebbe sospinto fin qui e che, con lo stesso impeto ci porta necessariamente verso l'avvenire. La memoria «somiglia sempre più al nastro di una videocassetta, cancellato ogni volta che si vuole registrare un nuovo avvenimento: nastro reclamizzato dai produttori proprio per il fatto di poterlo cancellare e registrare all'infinito».54 Il passato diventa simile ad un terreno di saccheggio, ad un baule pieno di possibilità tutte ugualmente valide, in cui pescare pezzi, frammenti, spezzoni. Non si dà più un'immagine omogenea del passato, in quanto non si ha più a che fare con un intero, con un corpo di convinzioni coerenti.55

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4. La domanda filosofica e il presente

Nella crisi della ragione moderna, l'uomo del dopo, l'uomo cioè della postmodernità, sembra avere perduto il privilegio della centralità. Al modello di ragione universale e forte della modernità si contrappone ormai una costellazione di razionalità parziali e di nuovi linguaggi che fanno irruzione nella vita sociale. Foucault l'ha chiamata «morte dell'uomo»,56 altri si sono limitati a parlare di fine della ragione o di fine del soggetto. L'uomo decentrato è cosciente ormai del non senso. In un mondo di immagini e di dissolvenze anche l'uomo, il soggetto, sembra travolto. È un soggetto debole, dalle ragioni deboli ed evanescenti. La novità della debolezza nasce «dalle condizioni attuali dell'uomo che nel suo disporsi storico continuamente deve rinunciare alla forza imperativa della ragione»,57 dalle sue sicurezze e delle sue incertezze. Deve fare da solo. Deve assumersi, in un certo senso, la responsabilità radicale di fronte a se stesso, sia in campo morale che in campo politico, senza più la rete di sicurezza di una dottrina. Deve portare una libertà molto pesante, perché non si lascia più irretire in un'idea già disponibile, in un ideale già presente e con il quale possiamo confrontarci.58

Ma la crisi non è contrassegnata soltanto dal negativo, dal disordine. Essa sembra indice anche di una tensione che mira a trovare nuovi equilibri, nuovi ordini. Il soggetto che si viene a trovare solo, di fronte a se stesso, se da una parte riconosce la propria condizione tragica, d'altra parte non si sofferma nella disperazione o nell'angoscia, ma ne considera le positive conseguenze in termini di libertà. Le molteplici contraddizioni non possono trovare una sintesi dialettica, rassicurante, ma reclamano una nuova trasformazione che pare offrirsi con il ricorso all'etica, alla nostra responsabilità verso gli altri, che significa anche tentativo di uscita da un paradigma egoistico di pensiero, tipico della modernità almeno fin da Cartesio. La debolezza significa anche rinuncia ai totalitarismi politici, religiosi e morali, e comporta la tolleranza come atteggiamento dominante e il rispetto delle differenze: non più, dunque, un'ideologia che tutto e tutti voglia omologare, ma l'accoglimento delle diversità e delle molteplicità.

La crisi delle generalizzazioni teoriche (e delle ideologie) spinge certamente nella direzione di una rivendicazione della concretezza dell'individuo e di un richiamo ai problemi concreti della vita, innanzitutto a quelli che concernono le scelte personali relative alla nascita, la morte, la sofferenza, la cura e le relazioni intersoggettive. Sembrano, anzi, queste le domande più urgenti che l'oggi pone. E sono domande che sembrano riproporre, nell'epoca della cosiddetta fine della filosofia, non solo l'attualità dell'etica, ma anche della filosofia in generale. «In questo trapasso epocale -- ha scritto B. Forte -- riemerge con forza la domanda sull'uomo: essa torna ad imporsi partendo dall'esperienza concreta dell'infinita sofferenza del mondo, nutrita dal desiderio incancellabile dei singoli protagonisti e di intere masse umane di dare senso e valore, qualità e dignità alla propria vita e alla storia comune.»59 Il problema della fondazione e giustificazione dei valori, o forse delle scelte morali, costituisce, in effetti, uno dei problemi essenziali del nostro tempo. È proprio sul piano etico, perciò, che si prospetta l'esigenza di un oltrepassamento della visione frammentaria della realtà e della razionalità. Il rispetto delle differenze da solo non basta, se significa meramente rinuncia a trovare una sintesi teorica.

L'inattualità della filosofia, infatti, come disciplina non elimina l'attualità e l'urgenza dei problemi tipicamente filosofici che si presentano in diversi settori della tecnica e della scienza, e nelle diverse pratiche sociali, come quella del magistrato o del medico o dello scienziato (etica giuridica, bioetiche, deontologie professionali): se forse la filosofia non risponde più alla richiesta umana di verità, deve e può ancora rispondere almeno problematicamente alla richiesta umana di eticità.60

L'oggi non è solo l'epoca della frammentarietà e della fine delle ideologie totalizzanti, ma è anche l'epoca in cui sempre più urgente e necessario appare il prendere decisioni, nella sfera pubblica come in quella privata avendo coscienza che le azioni e le scelte nostre, e così pure le nostre vite, sono in stretta relazione con le azioni, le scelte e le vite degli altri. Il mondo è così interdipendente che le nostre scelte, i nostri standard di vita, i nostri consumi, sono sempre più strettamente intrecciate con quelli degli altri. Ad esempio, non possiamo rimanere oggi moralmente indifferenti rispetto a quanto avviene nel Terzo e nel Quarto Mondo, anche perché questa indifferenza è sempre più percepita come una responsabilità diretta sulle sorti di quegli altri che vivono in mondi economicamente tanto diversi dal nostro, ma la cui economia è comunque condizionata dalla nostra. Insomma è colpevole non solo chi lo è direttamente, ma anche chi resta insensibile. Se inquiniamo il pianeta e ne sperperiamo le risorse dobbiamo sapere che stiamo facendo un danno non solo alla natura, ma anche agli altri, e con questo intendiamo anche a quegli altri che apparterranno alle generazioni future. L'interdipendenza che caratterizza il mondo moderno fa sì che molte azioni un tempo ritenute moralmente indifferenti siano oggi da ritenersi responsabilmente colpevoli. Perciò non si può lasciare agli automatismi spontanei, o al caso, gran parte delle scelte e delle azioni le cui conseguenze ricadono su tutti, concernendo, ad esempio, la manipolabilità delle fonti stesse della vita. Anche questo è un elemento che rende sempre più necessaria l'imposizione di regole, quanto più possibile

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capaci di cogliere esigenze diverse, cioè di farsi carico delle situazioni concrete, reali, sentite.

Indichiamo, a mo' di esempio, senza la pretesa di essere esaustivi, due campi di indagine attualissimi dell'etica, quello relativo alle biotecnologie e quello relativo ai problemi legati alla cosiddetta globalizzazione.

1. Le biotecnologie sono il nuovo campo che si è aperto alla ricerca scientifica e alla manipolazione tecnologica. «Se fino a poco tempo fa i problemi relativi alla malattia, alla sofferenza, alla vita e alla morte, agli interventi medici e chirurgici erano tali da poter essere affrontati e risolti dalla semplice deontologia professionale del medico e dal buon senso dei soggetti in causa, o dai loro parenti prossimi, oggi l'intero ambito dell'azione biologica e medica si è talmente ampliato da esigere un'approfondita riflessione che coinvolga soggetti di diverse competenze: medici, scienziati, filosofi, religiosi, sociologi, psicologi. Le nuove tecniche stanno mutando, in modo radicale e spesso sconvolgente, tutte le nozioni base, elaborate dal senso comune di generazioni e generazioni, relative alla vita, alla morte, alla nascita, alla sessualità, al corpo, all'identità della persona e al suo destino». Dietro tutto questo c'è non solo la sbalorditiva conquista di tecniche e conoscenze che sembravano fino a ieri impossibili, ma anche il rischio di inconcepibili paradossi o di banalizzazioni, magari di tipo consumistico, del senso stesso della vita, della morte, della nascita, delle relazioni fondative dell'identità stessa della persona, come la relazione madre/figlio. L'etica oggi è investita del compito delicato di chiarire, in base a una riflessione seria e razionale, quali sono i confini del lecito, che non coincidono necessariamente con quelli del possibile.61 Sono domande forti in un'epoca di debolezza che reclamano risposte significative. I nuovi problemi della bioetica, le nuove questioni morali legate alla nascita, la cura e la morte pongono, in un'epoca in cui la domanda sul fondamento sembrerebbe tramontata, domande fondamentali sulla vita, sulla persona, sulle relazioni fondanti la persona.

2. Nell'epoca in cui la frammentarietà sembra essere imprescindibile, il mondo diventa sempre più unito e interdipendente. Certo, questo non esclude la diversità e la molteplicità, ma resta che le interconnessioni, gli intrecci e le relazioni all'interno del mondo attuale si fanno sempre più fitti. E questo per forza di cose, perché questa casa di una moltitudine crescente di uomini, è il luogo in cui si devono sapere gestire razionalmente spazi e risorse, che sono limitati e non riproducibili. Si profilano all'orizzonte nuovi problemi che travalicano i confini tradizionali degli stati per coinvolgere, direttamente o indirettamente, tutti gli abitanti del pianeta. S'impone, perciò, una riflessione che riesamini concetti come quello di cittadinanza e di sovranità. «Il primo dev'essere riformulato in modo da tener conto della dimensione planetaria di alcuni problemi: economici, tecnologici, ambientali, ma anche di diritti umani e di loro tutela, di pace e guerra ecc.; il secondo dev'essere pensato in modo da subire limitazioni, che sarebbero incompatibili o addirittura contraddittorie rispetto alla concezione classica dello stato». I processi di globalizzazione, infatti, stanno ormai realizzando un mercato mondiale dell'economia. Ma il fenomeno della globalizzazione sembra portare con sé anche pericoli e squilibri che derivano dall'azione spontanea, non guidata, dei meccanismi economici. «Oggi sembra che la globalizzazione accentui questi fenomeni e questi pericoli, approfondendo la forbice tra ricchezza e povertà che divide il mondo, tra paesi che dispongono del superfluo e paesi che combattono quotidianamente con la fame e la malattia endemica. Ma anche problemi relativi all'adozione di tecnologie che possono arrecare danno all'ambiente, o ai rapporti con le minoranze religiose, etniche, linguistiche, o problemi di diritti, di guerre ecc. si pongono oggi su scala planetaria.»62

Di fronte a queste trasformazioni in atto la scienza, che pure le ha provocate, dice di sé: «mi limito a fare scienza», ma che si debba fare scienza è qualcosa che non risulta dai dati di fatto, ma da una decisione della coscienza. Insomma che la scienza sia da fare o da non fare non lo può dire la scienza, ma l'uomo, e non l'uomo-oggetto con cui la scienza ha a che fare, ma l'uomo soggetto che deve assumersi il rischio della decisione in vista del fare.63 La razionalità pratica, in cui il richiamo della responsabilità personale nella scelta è prioritario, si sforza di offrire, relativamente agli interrogativi legati alle tematiche bioetiche e della globalizzazione, risposte che tengano conto del ruolo del soggetto morale nelle decisioni da prendere. Il nostro mondo, infatti, è un mondo piatto ed impersonale dove la cupidigia del possedere ha trovato nell'organizzazione tecnico-funzionale lo strumento adeguato per sfuggire all'inquietudine della coscienza ed eludere l'autenticità di una vita radicata nel mistero ontologico: «Avevamo pensato che l'uomo potesse semplicemente possedere la potenza ed usarne con piena sicurezza. Attraverso non si sa quale logica delle cose, le quali si sarebbero comportate, nel regno della libertà, in modo altrettanto sicuro che nel regno della natura. Ma non è così».64

La razionalità pratica riemerge allora come ragione altra rispetto alla razionalità scientifico-tecnica, in quanto richiama costantemente la concretezza e si pone sempre in relazione alle situazioni e ai contesti culturali, religiosi e sociali. Facendo questo, l'etica si rende interprete di un'esigenza sentita del presente e si

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rivela come rilevante non solo in quanto filosofia applicata, ma anche relativamente alla definizione generale che oggi si dà di filosofia.65 L'ambito etico è diventato come il terreno privilegiato della prassi filosofica, perché se prima la filosofia si poteva giustificare in quanto si occupava di realtà superiori ed eterne, o in quanto aveva il monopolio dei criteri del pensiero razionale e corretto, oggi deve guadagnarsi la fiducia mostrando di saper suggerire effettivamente chiarificazioni concettuali e argomentazioni adeguate, specie sulle questioni morali che interessano nascita, cura e morte.66

Nel villaggio globale il confronto con giudizi etici radicalmente diversi dai nostri richiede da parte di tutti un esercizio difficile di tolleranza. Ma «il regime democratico di per sé non produce (né tanto meno assicura) la trasformazione della tolleranza in solidarietà, ossia il considerare le sofferenze e le sfortune degli altri come oggetto della nostra responsabilità, e il mitigare o abolire tali sofferenze come un nostro compito».67 Il rispetto delle differenze e delle diversità si deve trasformare in qualcosa di più, in qualcosa di coraggioso e di accogliente, nella solidarietà. Nella postmodernità la pluralità dei linguaggi e dei paradigmi è vista come premessa di una nuova forma di riflessione morale che ponga al proprio centro le nozioni di rispetto, differenza, cura dell'altro, piuttosto che l'egualitarismo dell'universalità etica tradizionale. Ma la pluralità dei linguaggi e dei paradigmi significa anche pluralità di verità, e, quindi, caduta del senso positivo della verità. L'etica postmoderna è, anzi, per sua natura senza verità. Ma la solidarietà, che è una forma di carità, «si compiace della verità» (1 Cor 13, 4), da cui trova le risorse per osare sfidare l'indifferenza e l'egoismo.

Le nuove tematiche etiche denunciano i limiti di una morale costruita su una ragione autosufficiente e totalitaria, ferma e forte, ma incapace di vedere delle differenze e di riconoscere le ragioni degli altri. Denunciano anche i limiti di una ragione tecnico-funzionale basata sulla priorità dell'oggetto e del dato di fatto, ma incapace di riconoscere le singolarità delle coscienze e la dimensione prioritaria che in esse riveste la capacità di essere soggetto delle proprie scelte responsabilmente. Ma la solidarietà richiede una marcia in più, richiede di acquisire in positivo che è immorale costruire una morale solo su stessi, a misura di sé e delle proprie esigenze. Richiede di pensare l'antropologia come necessariamente implicante la relazione con gli altri, al punto tale che senza questa relazione la nostra stessa identità verrebbe annullata. Non solo dobbiamo rispettare gli altri e la loro differenza, ma non possiamo vivere senza gli altri.

Forse, di fronte alla crisi dei fondamenti, la realizzazione della propria essenza sarà affidata, non alle certezze ormai malferme della scienza, ma al rischio della fede.

Note

1. «La differenza è una delle parole d'ordine della cultura postmoderna, soprattutto in campo filosofico e politico. Se esiti del moderno sono l'omologazione dell'esperienza, la comprensione unitaria della realtà in base a un principio fondativo, e, in ambito politico, l'idea di uguaglianza, il postmoderno insiste invece sulla diversificazione, sulla molteplicità, facendone i baluardi contro i rischi della pianificazione e dell'omologazione sociale.» G. Chiurazzi, Il postmoderno, prima ed., Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 12.

2. Si veda E: Lecaldano, La riflessione sulla morale tra bioetica ed etica teorica, in La filosofia italiana in discussione, a cura di F.P. Firrao; prima ed., Bruno Mondatori, Milano 2001, p. 164.

3. Vedi Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, prima ed., Bruno Mondatori, Milano 2002, p. 27.

4. P.A. Rovatti, Introduzione alla filosofia contemporanea, prima ed, Bompiani, Milano 1996, p. 5.

5. Si vedano F. D'Agostini, Analitici e continentali, prima ed., Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.

6. Si veda M. Nacci, Postmoderno, in La Filosofia, a cura di P. Rossi, prima ed., Utet, Torino 1995, p. 365.

7. M. Pera, Il mondo incerto, Prima ed., Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 81-83.

8. J.F. Lyotard l'ha definita anche come fine delle metanarrazioni, cioè dei discorsi che giustificano e fondano le varie scienze: «Semplificando al massimo, possiamo considerare «postmoderna» l'incredulità nei confronti delle metanarrazioni». La condizione postmoderna, 13a ed., Feltrinelli, Milano 1981, p. 5.

9. P.A. Rovatti, Introduzione etc., cit. alla nota 4, pp. 3-10.

10. G. Cantarano, Immagini del nulla, prima ed., Bruno Mondatori, Milano 1998, pp. 195-196.

11. F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, 2a ed., Adelphi, Milano 1964, VIII, II, 12.

12. G. Vattimo, Le avventure della differenza, prima ed, Garzanti, Milano 1980, p. 91.

13. G. Vattimo, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l'ermeneutica, prima ed., Feltrinelli, Milano 1981, p. 19.

14. M. Heidegger, L'epoca delle immagini del mondo, in Sentieri interrotti, prima ed., La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 86-87.

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15. Vedi V. Possenti; Filosofia e Rivelazione, prima ed., Città Nuova, Roma 2000, pp. 112-122.

16. F. Nietzsche, Opere, cit. alla nota 11, VIII, 1, p. 299.

17. J: Derrida, Della Grammatologia, prima ed., Jaca Book, Milano 1989, p. 182.

18. U. Eco, L'Antiporfirio, in Il pensiero debole, prima ed., Feltrinelli, Milano 1983, p. 79.

19. A. D'Agostini, Disavventure della verità, prima ed., Einaudi, Torino 2002, p. 164.

20. G. Vattimo, La fine della modernità, prima ed, Garzanti, Milano 1985, p. 175.

21. Vedi il volume in collaborazione Il pensiero debole, cit. alla nota 18, nonché M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, prima ed., Marsilio, Venezia 1978 e G. Vattimo, Le avventure della differenza, Milano 1979.

22. M. Pera, cit. alla nota 7, p. 64.

23. Per l'edizione italiana, vedi T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 3a ed., Einaudi, Torino, 1995.

24. F. D'Agostini, Analitici etc., cit. alla nota 19, pp. 174-175.

25. «Nella microfisica, dove la scienza è possibile solo grazie alla perfezione degli strumenti messi a disposizione dalla tecnica, l'oggettiva posizione della particella subatomica è indeterminabile, in quanto le condizioni tecniche dell'osservabilità alterano lo star-di-contro, e quindi l'oggettività dell'osservato. La domanda: che cos'è la natura si converte nella domanda: che cos'è la conoscenza. L'oggettività non riesce a costituirsi o, se è concettualmente precostituita, si dissolve, perché il livello d'esperienza è anteriore al differenziarsi di soggetto e oggetto. Se, come dice il principio di indeterminazione di Heisenberg, per «vedere» una particella subatomica occorre illuminarla, e l'illuminazione, cozzando contro la particella, la devia, ciò che si «vede» non è la posizione della particella, ma la collisione che ne deriva e che non consente di stabilire la posizione della particella prima della collisione del raggio luminoso richiesto per osservarla. In questo modo, la posizione della particella è un inosservabile, perché osservabile è la collisione della particella con le condizioni dell'osservabilità.» U. Galimberti, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente, prima ed., Marietti, Torino 1975, p. 135.

26. P. Feyerabend, Contro il metodo, prima ed., Feltrinelli, Milano 1979, pp. 90-91.

27. Vedi G. Sartori, Videopolitica, in «Rivista italiana di scienza politica», n. 19, 1989.

28. M. Moneti, L'etica nel dibattito contemporaneo, in La filosofia italiana in discussione, cit. alla nota 2, pp. 137-138.

29. M. Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, prima ed. Adelphi, Milano 1994, p. 143.

30. Ibidem, p. 98.

31. Vedi Fides et ratio, Prima ed. Paoline, Milano 1998, n. 48, pp. 73-74.

32. Ivi n. 90, p. .

33. V. Possenti, cit. alla nota 15, p. 82.

34. Sulla questione del post si vedano: T. Maldonado, Il futuro della modernità, prima ed. Feltrinelli, Milano 1987, pp. 15-20 e M. Nacci, Postmoderno, in La Filosofia a cura di P. Rossi, prima ed. Utet, Torino 1995, vol. IV, pp. 361-363. Lo stesso termine post-moderno si rivela carico di significati diversi: cf. ad esempio J.-F. Lyotard, La condizione post-moderna, cit. alla nota 8, G. Vattimo, La fine della modernità., cit. . alla nota 20. Il termine è qui usato in riferimento a tutto ciò che segue al superamento dialettico deliro presunzioni totalizzanti della ragione moderna.

35. L. Sichirollo; La fine di tutte le cose, in «Belfagor», IL, fasc. III, 31-5-1994, pp. 353-370.

36. Per Paolo Rossi, gli ermeneutici tendono a vedere il postmoderno come la negazione del moderno e si sentono spesso soddisfatti pronunciando asserzioni definite solo per negazione: I teorici del superamento «estetico» del moderno analizzano un'immagine che non corrisponde alla effettiva. Rorty, Lyotard e Vattimo, in realtà non avrebbero letto i moderni: «I postmoderni pensano che la modernità sia caratterizzabile come l'età dell'autolegittimazione del sapere scientifico e della piena e totale coincidenza tra verità e autoemancipazione. Pensano anche al moderno come all'età del tempo lineare caratterizzata dal «superamento». Pensano anche che il moderno sia l'età di una ragione forte dominata dall'idea di uno sviluppo storico del pensiero come incessante e progressiva illuminazione. Pensando queste cose hanno pensato male. Hanno affermato cose banali che, avendo l'aria di essere epocali, appaiono profonde ai poveri di spirito. Non hanno letto i moderni, ma i manuali che parlano di essi.» P. Rossi, De progressu rerum et visa, in «Iride», VII, 12, maggio-agosto 1994, pp. 353-70. Ma asserire la fine delle grandi narrazioni e prospettare un altro racconto che narri la fine del racconto di cui s'intende mostrare il fallimento appare comunque contraddittorio.

37. Un quadro della condizione spirituale, dopo il crollo del comunismo, l'ha tracciato Claude Lévi-Strauss in un'intervista a Repubblica: «L'odierna difficoltà del mondo occidentale, e pertanto di gran parte del pianeta (visto che la sua ideologia si è imposta quasi ovunque) rimanda allo sprofondamento nell'ultima guerra dei valori spirituali sui quali si fondava: democrazia e laicità. Per non parlare poi del crollo dei paesi dell'Est, che

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pretendevano di essere gli unici veri eredi di quella tradizione, quelli che si erano spinti più avanti e che vedevano più lontano». Siamo stati posti d'improvviso di fronte alla «suprema contraddizione», che nel corso della lotta per la sopravvivenza ci eravamo sforzati di eludere: «incapaci di dare un senso all'universo ed all'uomo, dobbiamo fare come se l'umanità e il mondo esterno un senso ce lo avessero». «Ma allora è un'illusione?» chiede l'intervistatore: «Sì, ma indispensabile, e senza la quale si arriverebbe presto al suicidio o alla scelta dell'eremitaggio. È il compito più difficile di tutti, ma dobbiamo imparare a convivere con questa contraddizione. Sapendo che è insormontabile». «E lei crede davvero che la cosa sia possibile, non dico per l'uomo di pensiero, ma per la gente comune?», insiste l'intervistatore: «Probabilmente no. Ed è questa la ragione prima della rinascita religiosa». (L'intervista di Franco Marcoaldi dal titolo Dio e l'uomo della strada, 1992).

38. F. Gogarten, Fra i tempi, in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Brescia 1976, pp. 502-508.

39. B. Forte, L'Eternità nel tempo, prima ed. Paoline, Cinisello Balsamo [Milano], 1991, pp. 7-8.

40. Già nell'800 a Hegel, che aveva costruito un concetto di razionalità della storia come un percorso ineluttabile che comunque spinge l'umanità (dialetticamente) verso la realizzazione del regno della libertà, Nietzsche aveva contrapposto l'intuizione dell'eterno ritorno la storia è una ruota che gira e il tempo non è una freccia dotata di direzione, come ci illudiamo che sia, bensì un circolo in cui tutto torna e si ripete. Si veda Lowith, Da Hegel a Nietzsche, Torino 1959.

41. P.A. Rovatti, Introduzione, cit. alla nota 4, p. 69.

42. G. Vattimo, La fine della modernità, cit. alla nota 20, p. 18.

43. Vedi G. Vattimo, La società trasparente, prima ed. Garzanti, Milano 1989, p. 11.

44. F. Jameson, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, prima ed. Garzanti, Milano 1989, p. 92.

45. Vedi G. Vattimo, La fine della modernità, cit. alla nota 20, p. 110.

46. G. Marramao, Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, prima ed. Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 156-157.

47. G. Vattimo, La fine della modernità, cit. alla nota 20, p. 17.

48. Vedi F. Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, prima ed. Rizzoli, Milano 1992. Per Fukuyama si ha fine della storia perché la scienza e la tecnica moderna hanno reso omogenee molte società, dove il capitalismo è l'assetto economico prevalente e la democrazia il regime politico meglio compatibile con questo assetto, e perché le democrazie liberali si sono estese negli ultimi anni.

49. L'assunzione di un modello storiografico unico deriverebbe anche dal fatto che la filosofia della storia prevalente in una data epoca si sarebbe sempre configurata come la visione dominante dei vincitori: «Ma i padroni di ogni volta sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. L'immedesimazione nel vincitore torna quindi ogni volta di vantaggio ai padroni del momento». W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Saggi e frammenti, p. 78.

50. Z. Bauman, cit., p. 72.

51. A. Heller, F. Fehér, La condizione politica postmoderna, prima ed. Marietti, Genova 1992, p. 9.

52. M. Perniola, Transiti. Come si va dallo stesso allo stesso, prima ed. Cappelli, Bologna 1985, p. 8.

53. Vedi P. Orlando, Filosofia dell'essere finito, prima ed. Luciano Editore, Napoli 1995, p. 26.

54. Z. Bauman, cit. alla nota 3, p. 30.

55. Vedi M. Nacci, cit. alla nota 6, p. 362.

56. Si faccia riferimento in particolare a: M. Foucault, Le parole e le cose, Milano 1966, e Storia della follia nell'età classica, Milano 1976.

57. P. Orlando, cit. alla nota 53, p. 26.

58. P.A. Rovatti, Introduzione., cit. alla nota 4, pp. 68-69.

59. B. Forte, L'Eternità nel tempo, cit. alla nota 39, p. 8. .

60. Vedi A. D'Agostini, Analitici, cit. alla nota 19, pp. 187-89.

61. Vedi M. Moneti, cit. alla nota 28, pp. 140-41.

62. Ivi, pp. 138-141.

63. Vedi U. Galimberti, cit. alla nota 25, pp. 154-55.

64. R. Guardini, La fine dell'epoca moderna, prima ed. Morcelliana, Brescia 1954, pp. 86-88.

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65. Vedi: F. D'Agostini, Analitici, cit. alla nota 19, pp. 10-11. Questa riabilitazione in sede etica è solo una versione contestualizzata di un più generale movimento di riabilitazione della filosofia (i moderni) con la riapertura di vie come la metafisica, l'ontologia, il soggetto, il realismo.

66. E. Lecaldano, cit. alla nota 2, p. 162.

67. Z. Bauman, cit. alla nota 3, p. 67.

MORTE E SUICIDIO

SULLA MORTE Comprende pienamente la vita solo chi vive anche il pensiero della morte Tabuizzare la morte è rifiuto del limite L’angoscia di fronte alla morte cresce con il crescere dell’individualizzazione

LA STORIA DELLA MORTE 1 – LA MORTE ADDOMESTICATA – fino al 1000 Rassegnazione, familiarità, fiducia mistica Requies/sonno, tra le ombre pagane e i fantasmi del primo cristianesimo, non esiste individualità, inevitabilità del destino si muore avvisati – poema cavalleresco – cerimonia pubblica – cultura d’elite mea culpa – richiesta di perdono per i peccati compiuti commendacio animae – preghiera per la salvezza dell’anima libera – assoluzione del prete influenza di una cultura precristiana, che pone i vivi e i morte sullo stesso piano – plebei prospettiva orizzontale della morte – giudizio universale – Cristo severo 2 – LA MORTE DI SE’- XI/XII sec. Elite – tre rappresentazioni mentali

- Morte - Biografia - Amore per la vita e per le cose terrene

L’individualità del morente emerge Giudizio alla fine di ogni vita, terrorismo psicologico religioso – identificazione della tomba - Cristo pietoso - nascita del Purgatorio Giocchino da Fiore – 1135/1202 dall’Apocalisse calcola 42 generazioni di circa 30 prima del ritorno del Cristo, circa nel 1260. Concetto di – Parusia/ritorno – propagandato da francescani e domenicani. 1 stato – Dio padre guida l’uomo - profeti 2 stato – nuova alleanza – la parola del Cristo guida l’uomo - apostoli 3 stato – Spirito Santo – l’uomo si apre alla realtà spirituale - religiosi

LA PESTE NERA 1347 – assedio di Caffa in Crimea, tartari lanciano i cadaveri, prima guerra batteriologica, ( yersinia pestis – scoperta da Alexander Yersin nel 1898 durante la peste di Tokio – provocata dalle pulci. X/XI sec. Di ignis sacer o ergotismo, provocata da un cereale la segale cornuta se mal conservata, diffusione della lebbra ) 1348 Europa popolazione 54 milioni, attesa di vita 30 anni. 1° peste quella di Giustiniano nel 543 2° peste 1347, si ripete nel 69/76 – 82/84 – rimane endemica dal 1390 al 1450 e oltre. 1200 – prima raffigurazione artistica dei tre morti e dei tre vivi Si ritiene riconducibile ad una tradizione buddista, proveniente dalla Cina. Il Budda incontra: un vecchio, un malato, un morto e un eremita che lo fanno riflettere sulla vanità della vita. 3 – LA MORTE DELL’ALTRO – XIII/XVIII sec. Tempo escatologico fra la morte e la fine dei tempi – ars moriendi Il morente è al centro della scena, Dio come arbitro, nasce la convinzione che un uomo nel

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momento della morte riveda la propria vita Iconografia della morte – la morte a cavallo – peste, carestia, guerra Danza macabra – la morte è uguale per tutti Iconografia – giardino delle delizie, fontana della felicità, albero della cuccagna. Le stufe ( abolite con la Controriforma ) a mezza strada fra le terme e il bordello. 4 – LA MORTE PROIBITA – XIX sec. Morte romantica – è la morte dell’altro – morte bella Eros e thanatos – interesse per la morte dell’altro Dal XX secolo la morte sostituisce la sessualità come tabù Morte in ospedale = morte tecnica Rapidità nel fare sparire il corpo Il lutto troppo visibile è considerato morboso – uomo immortale = tecnica Solitudine del morente – la morte rimossa dalla vita sociale LUTTO Fino al XVIII secolo 1 – riti dei familiari del defunto 2 – compostezza del dolore nella vita privata e sociale Dopo il XVIII secolo Manifestazione pubblica del dolore – lamentazione per l’assenza dell’altro

SUICIDIO E FILOSOFIA

Leopardi – Dialogo di Plotino e di Porfirio L’uomo cerca la felicità ed anche il suicidio è legittimo pur di raggiungerla Hume – Il suicida non nuoce alla società ma cessa solo di fare del bene Il suicidio è un atto di natura Le Sacre scritture non lo condannano, il comandamento – non uccidere – non è estendibile a se stessi Schopenhauer – Ognuno può disporre della propria vita Tuttavia il suicidio abolisce la domanda di coscienza che dovrebbe darci una risposta alla volontà di vivere

DURKHEIM Ogni società, in un determinato momento storico, ha una sua tendenza al suicidio. Fattori extrasociali 1 – disposizioni organico-psichiche 2 – natura dell’ambiente fisico La follia è sia una malattia che un fenomeno sociale: 1 – suicidio maniaco – motivazioni immaginarie 2 – suicidio melanconico – stato di depressione 3 – suicidio ossessivo – idea della morte 4 – suicidio impulsivo o automatico – non motivato, d’impulso Cause sociali e tipi sociali 1 – suicidio egoistico – affermazione dell’io individuale ai danni dell’io sociale – gli uomini non trovano una ragione d’essere nella vita 2 – suicidio altruistico : - la ragione d’essere è fuori della vita

- Suicidio obbligatorio – la morale sociale ritiene nullo l’individuo – popoli primitivi - Suicidio facoltativo – la morale è raffinata e non è subordinata a nulla – popoli colti - Suicidio acuto – suicidio mistico come modello perfetto

3 – suicidio anomico – dipende dal disordine della società – la ragione d’essere non è più

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regolata e provoca sofferenza esistenziale Suicidio e politica

la filosofia greca assume un atteggiamento prevalentemente contrario al suicidio, considerato come il venir meno dell’individuo ai compiti verso la polis. Tommaso – Summa teologica – sul suicidio: 1 – illecito perché contraddice il fine naturale dell’autoconservazione 2 – contrasta con ciò che è dovuto allo stato 3 – è un abuso nei confronti del potere di vita e di morte di Dio Hobbes L’istinto di autoconservazione rappresenta la regola universale dell’agire, la paura della morte è l’unica passione razionale perché sorretta dalla ragione. Il martire che si offre alla morte volontariamente rappresenta il simbolo della disobbedienza e della ribellione allo stato. Il suicida manca nei confronti dello stato. Foucault Il diritto di vita e di morte è il diritto di far morire e lasciar vivere. Nel medioevo il potere esercita un diritto assoluto di vita e di morte, dal Rinascimento s’instaura una nuova tecnica disciplinare ( medicina clinica ).

Suicidio e religione La fede religiosa individuale e la frequentazione degli ambienti religiosi possono proteggere dal suicidio o abbassarne l’accettabilità. La filosofia occidentale pensa per la prima volta la contrapposizione tra essere e niente, ponendo l’uomo di fronte al concetto del divenire e alla morte come annientamento. Nasce l’EPISTEME come sapere che s’impone s’attraverso il concetto di verità nella composizione di un ordine che deve sconfiggere la paura dell’annientamento. Le religioni monoteistiche costruiscono i loro fondamenti su tale concettualità. Dio come risposta alla paura del divenire. Oggi nell’era tecnologico-scientifica la verità garantisce una migliore permanenza nel mondo e non nell’aldilà. ISLAM – stato etico, religione/politica/società sono un unicum, il suicidio egoistico è raro; possibilità del suicidio altruistico ( kamikaze ) finalizzato alla realizzazione del regno di Dio sulla terra. CATTOLICESIMO – la fede preserva dall’istinto suicida ma la relazione con una società laica alimenta costantemente interrogativi e dubbi.

SUICIDIO DI MASSA Tipologie. 1 – etero indotto – una popolazione è assoggettata da un nemico che non le riconosce la dignità umana 2 – auto indotto – visione distorta della realtà Esempi : Guerra giudaica – Masada 73 d.C. – setta dei Vecchi credenti, Russia 1670/90 proteste contro Pietro il Grande, Guyana britannica XVIII secolo suicidi degli indiani Arekuna. Imputazioni: 1 – gruppi isolati o molto coesi internamente 2 – dipendenza da un capo carismatico 3 – aspetto dottrinario 4 – stato d’assedio reale o emotivo 18/11/1978 – people’s temple, reverendo Jones , Guyana 1986 – Giappone, Chiesa amica della verità, mescolanza fra buddismo e cristianesimo,

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1987 – Corea, I cinque oceani 1993 – USA, Texas, Waco, setta cristiana dei Davidiani 1994/95 – Svizzera, Temirio 1997, California, setta Higer source, mescolano Bibbia, UFO e computer, passava la cometa Hale Bopp che conteneva un astronave 2000, Uganda. Movimento per la restaurazione dei 10 comandamenti, sarebbe apparsa la Vergine per condurli in paradiso Sette: 1 – adesione ad un sistema di credenze 2 – alto livello di coesione sociale 3 – rispetto delle norme che organizzano il gruppo 4 – poteri carismatici del capo 5 – classi sociali medio-alte 6 – buon livello culturale 7 – provenienza da famiglie possessive 8 – disagio psicologico

FONTI INTERNET Berni - Biodiritto Enrico Diciotti – Relativismo etico, antidogmatismo e tolleranza Paolo Casalegno – La questione del relativismo fra filosofia e dibattito pubblico Vittorio Fantoni – Modernità, postmodernità e morale Umberto Galimberti – L’etica nell’era della tecnica Leonardo Marchettoni – Verità, pluralismo e realismo Roberto Mordacci – Relativismo, moralità e questioni morali