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1 APPUNTI DI ECONOMIA POLITICA Appunti delle lezioni di Fondamenti di Economia politica di Emiliano Brancaccio Facoltà di Scienze economiche e aziendali Università del Sannio QUARTA VERSIONE Marzo 2013

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APPUNTI DI

ECONOMIA POLITICA

Appunti delle lezioni di

Fondamenti di Economia politica

di Emiliano Brancaccio

Facoltà di Scienze economiche e aziendali

Università del Sannio

QUARTA VERSIONE

Marzo 2013

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Questi Appunti rappresentano sbobinamenti e stralci dalle lezioni di Fondamenti di Economia politica del prof. Emiliano Brancaccio, coadiuvato dal dott. Domenico Suppa. Gli Appunti potrebbero contenere alcuni refusi e imprecisioni. Tali Appunti integrano ma non sostituiscono i manuali di riferimento Scoprire la

macroeconomia e Anti-Blanchard. Ai fini dell’esame, è opportuno rispettare questa sequenza nell’apprendimento: in primo luogo studiare i capitoli 1, 2 e 3 degli Appunti di Economia politica; quindi studiare il manuale Scoprire la macroeconomia, affiancato dal capitolo 4 di questi Appunti e dal manuale Anti-Blanchard.

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INDICE

1. CENNI DI STORIA DELL’ECONOMIA POLITICA

1.1 Un approccio critico alla economia politica 1.2 Gli economisti classici 1.3 Karl Marx 1.4 L’approccio neoclassico-marginalista 1.5 La Grande Crisi e Keynes 1.6 La Sintesi neoclassica e il nuovo mainstream 1.7 Per una critica della teoria economica mainstream

2. ELEMENTI DI TEORIA CLASSICA E MARXIANA

2.1 Il teorema della mano invisibile di Smith 2.2 Il teorema dei vantaggi comparati di Ricardo 2.3 La condizione di riproducibilità nei classici e in Marx

3. MICROECONOMIA E MACROECONOMIA NEOCLASSICA

3.1 La teoria neoclassica della scelta razionale individuale: il caso del

consumatore 3.2 Il vincolo di bilancio del consumatore 3.3 Utilità, ordinamento delle preferenze e curve di indifferenza 3.4 La scelta del consumatore 3.5 La curva di domanda individuale 3.6 Il surplus del consumatore 3.7 La variazione della domanda individuale rispetto al reddito 3.8 Dalla curva di domanda individuale alla curva di domanda di mercato 3.9 La teoria neoclassica dell'impresa 3.10 La massimizzazione del profitto dell'impresa 3.11 L'impresa in concorrenza perfetta 3.12 Rappresentazione grafica dell'equilibrio ottimale dell'impresa 3.13 Domanda, offerta ed equilibrio del mercato di concorrenza perfetta 3.14 L'elasticità della domanda rispetto al prezzo 3.15 Monopolio e oligopolio

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3.16 Dalla microeconomia alla macroeconomia neoclassica 3.17 La domanda di lavoro 3.18 L’offerta di lavoro 3.19 L’equilibrio del mercato del lavoro 3.20 Dal mercato del lavoro al mercato dei beni 3.21 La teoria quantitativa della moneta 3.22 Il sistema di equazioni del modello macroeconomico neoclassico 3.23 La crisi di fiducia secondo i neoclassici

4. DISPENSE INTEGRATIVE DEL MANUALE DI BLANCHARD

4.1 Una specificazione del modello di determinazione della produzione 4.2 Il paradosso del risparmio 4.3 Spesa pubblica, tassazione e teorema di Haavelmo 4.4 Il finanziamento del disavanzo pubblico e il Trattato di Maastricht 4.5 La politica monetaria e il Trattato di Maastricht 4.6 Politica monetaria e speculazione 4.7 Politica monetaria, movimenti di capitale e Tobin tax 4.8 Lo spread, questo sconosciuto

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I

CENNI DI STORIA

DELL’ECONOMIA POLITICA

1.1 Un approccio critico alla economia politica Perché alcuni paesi hanno visto crescere il loro reddito più rapidamente di altri? Per quale motivo negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a una caduta della quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori salariati? E’ vero che la diffusione dei contratti “precari” ha contribuito a ridurre la disoccupazione? Quali sono le cause della crisi economica mondiale esplosa nel 2008? Perché la crisi ha colpito in misura particolarmente accentuata i paesi della cosiddetta zona euro? Per uscire dalla crisi occorre affidarsi alle forze spontanee del mercato o c’è bisogno di un maggiore intervento dello Stato nell’economia? L’economia politica prova a rispondere a queste e a molte altre domande. Si tratta di questioni cruciali, che riguardano il vissuto quotidiano della stragrande maggioranza della popolazione, e dalle quali in larga misura scaturiscono le condizioni del benessere collettivo. A questo tipo di domande si risponde spesso con dei luoghi comuni. Per esempio, è un convincimento diffuso che gli Stati Uniti rappresentino il paese del “sogno americano”, dove anche la persona più umile, se sufficientemente abile e volenterosa, può raggiungere le più alte vette della scala sociale. Ma le cose stanno davvero così? Il grafico posto qui di seguito mostra i tassi di “immobilità

sociale” calcolati dall’OCSE per alcuni paesi. La misura rappresenta in un certo senso un indice della probabilità che può avere un individuo di situarsi in una posizione sociale analoga a quella della famiglia di origine. Essa cioè misura il peso della classe sociale di provenienza sui destini di ciascun individuo. Più alto è l’indice, più è probabile che un figlio, al di là dei meriti individuali, si ritrovi nella stessa posizione sociale dei genitori: il figlio di operai diventa operaio, il figlio di professionisti diventa professionista. Ebbene, contrariamente ai luoghi comuni sul “sogno americano”, si può notare che gli Stati Uniti si caratterizzano per un

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elevato tasso di “immobilità sociale”. Peggio degli USA fanno soltanto il Regno Unito e, purtroppo, l’Italia.

Un altro tipico luogo comune è quello secondo cui il Nord Europa è più produttivo perché si lavora di più, mentre nel Sud Europa mancherebbe una “cultura del lavoro”. Abbiamo più volte ascoltato questa opinione nei dibattiti sulla crisi dell’Unione monetaria europea. Ma quali sono i dati effettivi? Il grafico seguente riporta i dati OCSE 2008 sul numero medio annuo di ore di lavoro

procapite in vari paesi. Ebbene, è interessante notare che mentre un lavoratore tedesco eroga in media 1430 ore annue, un lavoratore italiano ne fa registrare 1802, e un greco arriva addirittura a 2120 ore annue. Evidentemente, quindi, le divergenze economiche tra i paesi del Nord e i paesi del Sud Europa che si sono verificate in questi anni, non si spiegano con il maggiore o minore carico annuo di ore erogate dai rispettivi lavoratori.

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Sempre riguardo alla crisi che l’Europa sta attraversando, si dice spesso che essa è dipesa dal fatto che per lungo tempo alcuni paesi hanno fatto registrare deficit

pubblici annuali eccessivi rispetto alla produzione nazionale, e quindi hanno accumulato debiti pubblici troppo elevati. Il riferimento è ai paesi che oggi si trovano più in difficoltà: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna (i famigerati P.I.I.G.S., secondo una poco lusinghiera definizione di Business Week). In realtà, se guardiamo i dati riportati nella seguente tabella, questi paesi non presentano affatto delle similitudini dal punto di vista dei deficit e dei debiti pubblici. Nel 2007, prima che la crisi scoppiasse, la situazione dei loro bilanci pubblici era molto diversificata. E’ vero, per esempio, che la Grecia presentava un alto deficit e un alto debito pubblico. Ma è altrettanto vero che Spagna e Irlanda facevano registrare addirittura un surplus annuale di bilancio pubblico e che il debito pubblico che avevano accumulato era molto basso. L’Italia, dal canto suo, presentava sì un alto debito pubblico ma faceva anche registrare un deficit pubblico annuale relativamente contenuto. Evidentemente, la crisi in cui questi

cinque paesi versano non si può imputare a un problema di deficit e debiti pubblici alti. Si potrebbe obiettare che nel 2010 tutti i paesi considerati presentavano alti deficit pubblici e debiti pubblici in rapida crescita, ma questo fenomeno può esser considerato una conseguenza della crisi, non una causa. Quale può essere allora un elemento di fragilità che accomunava tali nazioni prima della crisi? Ebbene, se guardiamo nuovamente i dati, possiamo notare che tutti questi paesi presentavano nel 2007 una tendenza ad importare più merci di quante ne esportassero, e quindi ad accumulare deficit verso l’estero. Ma il deficit estero corrisponde ai debiti, non solo pubblici ma anche privati, che ogni anno un paese contrae verso il resto del mondo per importare beni e servizi eccedenti rispetto a quelli esportati. Si tratta di una cosa molto diversa dal deficit pubblico, che corrisponde invece all’eccesso di spesa del settore pubblico rispetto alle entrate fiscali.

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Un'altra idea piuttosto diffusa è che le difficoltà dell’Italia dipenderebbero da una eccessiva presenza del settore pubblico all’interno dell’economia. Troppi dipendenti pubblici, troppa spesa sanitaria pubblica, e così via. In base a questa opinione, vi è chi propone di ridurre le assunzioni pubbliche e di privatizzare il settore sanitario ed altri servizi attualmente erogati dallo Stato. In realtà, come spesso accade, i dati rivelano una situazione più controversa. E’ pur vero che in alcuni settori e in alcune zone i servizi pubblici nazionali risultano scarsamente efficienti e con personale eccedente. Ma è altrettanto vero che in molti altri settori dello Stato il problema è esattamente opposto: pochi finanziamenti e poco personale rispetto alle esigenze del servizio. Le difficoltà dunque sembrano derivare da una errata allocazione delle risorse, non da un eccesso di risorse erogate. Del resto, sul piano quantitativo, se messa a confronto con altri paesi avanzati, l’Italia si caratterizza per un numero non particolarmente elevato di dipendenti pubblici in rapporto alla popolazione attiva e per una bassa spesa sanitaria in rapporto alla produzione nazionale. Si vedano in tal senso i seguenti grafici:

Un’altra idea ricorrente in questi anni è stata quella secondo cui rendere più facili i licenziamenti indurrebbe le imprese ad assumere più lavoratori e quindi contribuirebbe a ridurre la disoccupazione. I dati OCSE tuttavia non confermano questa opinione. Il grafico seguente riporta sulle ascisse il grado di tutele dei lavoratori, incluse le tutele contro i licenziamenti, e sulle ordinate il tasso di disoccupazione. Ogni punto corrisponde a un paese OCSE. Si vede chiaramente che non c’è correlazione statistica tra minori tutele e minore disoccupazione:

0

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30

Occupati sett. pubbl./pop. attiva

(fonte: ILO media 2000-2009)

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USA FRA GER SVE GB OCSE ITA

Spesa sanitaria in rapporto al PIL

(OCSE 2009)

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diversi paesi registrano alte tutele e bassa disoccupazione, e diversi altri basse tutele e alta disoccupazione.

Ed ancora, in Italia negli ultimi anni si è sviluppato un intenso dibattito sulla disponibilità o meno dei giovani a cercare lavoro. Alcuni economisti, nel ruolo di ministri della Repubblica, hanno varie volte rimarcato la scarsa disponibilità degli italiani, specialmente dei più giovani, ad entrare nel mercato del lavoro. Il ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa parlò in questo senso di “bamboccioni”. La ministra del Lavoro Elsa Fornero, più di recente, ha utilizzato l’appellativo di “choosy”, che in inglese sta per “schizzinosi”. I due ministri, in termini più o meno espliciti, suggerivano in sostanza che l’elevata disoccupazione che si registra in Italia sia in misura significativa da imputare a una scarsa

disponibilità ad accettare un lavoro, soprattutto da parte dei più giovani. Ora, che alcuni individui possano meritarsi simili giudizi è facile da ammettere. Il problema, tuttavia, è capire se tali valutazioni riescano a cogliere un comportamento quantitativamente rilevante. In effetti i dati sembrano sollevare dei dubbi sul grado di generalità delle valutazioni dei due ministri. Consideriamo il tasso di posti di lavoro vacanti, calcolato periodicamente dall’ISTAT con riferimento alle imprese industriali e di servizi con almeno 10 dipendenti. Questo tasso indica il numero di posti di lavoro disponibili diviso per il totale dei posti di lavoro, sia disponibili che già occupati. Alla fine del 2012, per esempio, il tasso di posti vacanti era pari allo 0,5%. Sapendo che il numero totale di posti esistenti nelle imprese considerate è pari a circa 7,5 milioni di unità, si può calcolare il numero di posti vacanti disponibili: (0,5%)x7.500.000 = 37.500 posti vacanti disponibili nelle imprese dell’industria e dei servizi con più di dieci dipendenti. Per provare a trarre un dato più generale, facciamo ora l’ipotesi semplificatrice

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che il tasso di posti vacanti nelle imprese industriali e di servizi con almeno 10 dipendenti possa valere a grandi linee per l’intera economia. Considerato che il numero dei posti totali esistenti si aggira intorno a 23 milioni di unità, possiamo effettuare una semplice proporzione (7.500.000:37.500=23.000.000:x) e supporre che i posti vacanti totali in Italia siano circa 115.000. Consideriamo adesso il totale dei disoccupati italiani: alla fine del 2012 erano 2 milioni 875 mila. Tra questi, i giovani disoccupati nella fascia di età tra 15 e 24 anni erano 606.000. Possiamo quindi affermare che alla fine del 2012 il numero di posti di lavoro vacanti, in Italia, non doveva esser molto più del 4% del totale dei disoccupati e del 19% del totale dei giovani disoccupati. Dunque, anche ammettendo che i disoccupati avessero le qualifiche necessarie per svolgere le mansioni richieste, è evidente che i posti disponibili erano di gran lunga inferiori al numero di

persone in cerca di lavoro. I dati evidenziano insomma che il problema della disoccupazione è in primo luogo un problema di pochi posti disponibili. Imputarlo a una scarsa disponibilità a lavorare da parte degli italiani, in particolare dei più giovani, è quantomeno riduttivo. Del resto, l’idea che i giovani italiani siano “choosy” entra in contrasto anche con altre evidenze. La Banca d’Italia, per esempio, ha recentemente rilevato che i giovani laureati italiani tra 24 e 35 anni che hanno accettato lavori a bassa qualifica rispetto ai titoli di studio conseguiti, sono il 40% del totale, contro appena il 18% in Germania. Gli esempi di luoghi comuni messi in discussione dalle analisi dei dati sono innumerevoli e potremmo proseguire a lungo. I casi menzionati sono comunque già sufficienti per chiarire che, attraverso la raccolta dei dati e la loro corretta interpretazione, l’economia politica può contribuire a valutare criticamente certe semplificazioni, a sfatare dei “miti”, e può aiutarci a comprendere meglio le caratteristiche della complessa realtà sociale che ci circonda. E’ bene chiarire che lo sforzo di superamento dei luoghi comuni in campo economico non è giustificato solo dalla necessità di esaminare correttamente l’andamento delle variabili di stretta pertinenza economica. L’economia politica ricade infatti su moltissimi altri aspetti della vita sociale. Le variabili economiche possono esercitare un’influenza sui più svariati comportamenti umani. Basti pensare alle correlazioni esistenti tra disoccupazione e suicidio, tra povertà e criminalità, tra partecipazione delle donne al lavoro ed emancipazione socio-culturale di un paese, tra disuguaglianza sociale e rigidità delle norme morali, e così via.

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La rilevanza della economia politica è dunque evidente. Ma quale potrebbe essere una definizione rigorosa di questa disciplina? In termini del tutto preliminari, possiamo affermare che l’economia politica indaga sui modi in cui una società si organizza per affrontare le seguenti quattro questioni fondamentali: come

produrre, cosa produrre, quanto produrre e come distribuire ciò che si è prodotto. Tale definizione è molto generica, e in questi termini risulta compatibile con qualsiasi indagine economica. Tuttavia nel corso di queste lezioni avremo modo di approfondire il suo significato e scopriremo che ogni scuola di pensiero economico tende a interpretarla in modo particolare. A questo proposito è importante comprendere che esistono diversi modi di concepire l’economia. E quindi esistono anche diversi tipi di manuali attraverso i quali l’economia viene insegnata. I manuali oggigiorno più diffusi sono quelli realizzati da alcuni noti economisti americani. Basti citare, per esempio, i testi di Paul Samuelson, Gregory Mankiw, Joseph Stiglitz, Olivier Blanchard, tra gli altri. Si tratta di libri indubbiamente molto apprezzati, sia per la ricchezza di contenuti che per la immediatezza del linguaggio. Tuttavia questi testi presentano un limite: troppo spesso essi danno agli studenti la sensazione che esista una sola rappresentazione possibile della realtà economica, vale a dire una sola teoria, un solo “modello” universalmente accettato dalla comunità degli studiosi. Ma l’idea che per ogni fenomeno della realtà esista un solo modello interpretativo è contraddetta dal fatto che, in tutti i campi di ricerca, ingenti risorse umane e materiali vengono dedicate alla continua verifica dei diversi modelli esistenti, al fine di valutare quale di essi sia maggiormente in grado di interpretare i fatti concreti. Questo è vero in fisica, in chimica, in biologia, ma lo è ancora di più nell’ambito dell’economia politica, dove i contrasti tra i ricercatori sulla teoria da preferire sono particolarmente accentuati. Lo studente deve pertanto comprendere che il più delle volte l’economia si presenta come un luogo concettuale di contesa

tra interpretazioni alternative della realtà che ci circonda. In questo senso, come vedremo, per tutto il corso della trattazione verranno messi a confronto due indirizzi alternativi di ricerca. Da un lato analizzeremo le versioni passate e presenti del cosiddetto approccio mainstream, cioè dell’approccio attualmente dominante. Il manuale “Scoprire la macroeconomia”, di Olivier Blanchard, costituisce appunto un esempio di questo approccio. Dall’altro lato studieremo il cosiddetto approccio critico, che prende spunto dalle opere di Karl Marx, John Maynard Keynes, Piero Sraffa ed altri per criticare l’impianto concettuale dell’approccio dominante e per indicare una diversa interpretazione dei fatti economici e sociali.

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I due indirizzi di ricerca menzionati forniscono, come vedremo, diverse interpretazioni del funzionamento di un’economia capitalistica. Per esempio, essi suggeriscono due diverse chiavi di lettura della grave crisi economica mondiale che è esplosa nel 2008 e che in molti paesi non è stata ancora superata. L’approccio mainstream, come vedremo, si sofferma soprattutto su una interpretazione della crisi di tipo finanziario: le banche avrebbero erogato troppi prestiti a soggetti che non erano in grado di onorare i debiti. L’approccio critico, pur ammettendo l’esistenza di problemi di natura finanziaria, ritiene che la crisi sia stata provocata da una serie più complessa di fattori, tra cui anche una trentennale riduzione della quota di reddito nazionale spettante ai salari.

Durante questo corso approfondiremo i temi dell’economia politica cercando sempre di confrontare i punti di vista delle diverse scuole di pensiero. Adotteremo a questo scopo un approccio allo studio della materia di tipo storico-critico, ossia basato sull’analisi della evoluzione storica del pensiero economico e delle relative controversie tra gli economisti. Cominceremo in tal senso dallo studio degli economisti classici e di Marx. Quindi passeremo allo studio della teoria microeconomica e macroeconomica neoclassica. In seguito esamineremo la grande crisi e il pensiero di Keynes. Giungeremo così alla cosiddetta sintesi neoclassica e al mainstream di Blanchard, la teoria economica oggi dominante. Infine, nell’Anti-Blanchard, sottoporremo a critica il mainstream.

1.2 Gli economisti classici In genere si ritiene che la nascita di una vera e propria scienza economica sia avvenuta tra il 1760 e il 1830, ossia a cavallo di quella prima Rivoluzione

industriale che in Inghilterra e in altri paesi creò le basi per il superamento definitivo del vecchio modo di produzione feudale e per la piena affermazione del nuovo modo di produzione capitalistico: vale a dire, di quel sistema in cui la classe dei capitalisti detiene il controllo dei mezzi di produzione, mentre la classe dei lavoratori si presenta sul mercato offrendo ai capitalisti la propria forza lavoro in cambio di un salario. Durante la prima Rivoluzione industriale si assiste a un grande processo di innovazione tecnologica, di allargamento dei mercati, di concentrazione dei capitali, di trasformazione di larghe masse di lavoratori in operai salariati e di aumento generalizzato della scala della produzione e della circolazione delle merci. Tali trasformazioni economiche sono accompagnate anche da importanti

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cambiamenti negli assetti sociali e politici. In questa fase si registra infatti il relativo declino politico della classe aristocratica dei proprietari terrieri e prende avvio l’ascesa sociale e politica di una nuova classe di soggetti, quella dei capitalisti proprietari delle moderne imprese agricole e industriali. Il successo dei capitalisti porta a una nuova concezione dello Stato: non più espressione degli interessi del sovrano e dell’aristocrazia fondiaria, l’autorità statale viene chiamata a favorire lo sviluppo del capitale. Nuovo scopo del potere politico è dunque di salvaguardare gli interessi della nuova classe capitalista emergente, in contrapposizione alle istanze provenienti dalla classe dei proprietari terrieri. E’ esattamente in questi scenari che avviene la pubblicazione delle fondamentali opere di due studiosi considerati i padri fondatori della scienza economica moderna: lo scozzese Adam Smith, autore della Ricchezza delle nazioni del 1776; e l’inglese David Ricardo, autore dei Principi di economia politica e della

tassazione del 1817. Smith e Ricardo sono considerati i massimi esponenti della cosiddetta economia classica. Gli economisti classici risultano in larga parte sostenitori del cosiddetto liberismo, o “laissez-faire”. A grandi linee il liberismo è quella dottrina politica basata sull’idea che per favorire lo sviluppo economico e la crescita del benessere di tutti si debbano liberare le forze del mercato dai lacci dell’autorità statale, cioè si debba “lasciar fare” ai capitalisti privati. Sia pure seguendo ragionamenti molto articolati e con diversi accenti e sfumature, Smith e Ricardo in definitiva sostengono le tesi liberiste. Essi infatti ritengono che ci si dovrebbe affidare prevalentemente alle forze spontanee del mercato e della concorrenza tra le imprese private, senza inutili vincoli o intromissioni da parte dello Stato. A questo proposito, Smith elabora il cosiddetto “teorema della mano

invisibile”. Secondo questo “teorema” gli individui agiscono nel libero mercato guidati dal loro egoismo personale, ma proprio seguendo i loro interessi particolari essi inconsapevolmente contribuiscono allo sviluppo economico complessivo, e quindi finiscono per servire l’interesse di tutti. Scrive Smith che «ciascuno è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non era parte delle proprie intenzioni». Le forze del mercato rappresentano cioè una “mano invisibile” che guida i singoli individui egoisti a compiere il bene comune dello sviluppo economico. In questo senso egli aggiunge che «non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci dobbiamo aspettare la cena, ma dal fatto che essi perseguono il proprio interesse». Il motivo per cui secondo Smith il “teorema” funziona è che i capitalisti proprietari delle imprese, in concorrenza tra loro, cercheranno di prevalere gli uni sugli altri producendo esattamente le merci che i consumatori desiderano. Inoltre, i capitalisti cercheranno di adottare i metodi produttivi più efficienti al fine di ridurre al minimo i costi, ed essere quindi più competitivi rispetto ai diretti concorrenti. La riduzione dei costi farà sì che le merci siano vendute ai prezzi più bassi possibili, il che garantirà sviluppo e benessere diffuso. A grandi linee, sono questi i motivi

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per cui secondo Smith è bene lasciare che le forze del mercato e della concorrenza siano tendenzialmente lasciate libere di operare. La visione liberista verrà poi applicata da David Ricardo anche al caso dei rapporti internazionali. Per Ricardo occorre infatti salvaguardare le libertà di mercato non soltanto quando si considerino i singoli capitalisti in concorrenza tra loro, ma anche quando si tratti di nazioni che competono negli scambi commerciali. Ricardo quindi era non soltanto un fautore del liberismo ma anche del “liberoscambismo”. Egli cioè non era semplicemente un sostenitore della libera competizione tra le imprese e tra i singoli individui, ma sosteneva anche il libero scambio tra paesi. Egli elaborò in questo senso il famoso “teorema dei

vantaggi comparati”. Questo teorema ci dice che il libero scambio di merci tra paesi è sempre vantaggioso per tutti. In quest’ottica, anche se un paese fosse il più efficiente di tutti nella produzione di qualsiasi merce, gli converrebbe comunque concentrarsi nella produzione delle merci in cui sia relativamente più efficiente, mentre dovrebbe lasciare la produzione delle restanti merci agli altri paesi. In questo senso Ricardo sostenne che l’Inghilterra avrebbe dovuto specializzarsi nella produzione e nella esportazione di manufatti industriali, mentre avrebbe dovuto importare grano dagli altri paesi. Il consiglio che Ricardo dava all’Inghilterra era quindi di abbandonare il protezionismo commerciale, cioè di rinunciare ai dazi con i quali il paese cercava di proteggere l’agricoltura nazionale dalla importazione di grano proveniente dall’estero. I dazi erano sostenuti dai proprietari fondiari inglesi, che guadagnavano dalla produzione di grano sui loro terreni. Ma per Ricardo la classe dei proprietari terrieri rappresentava un ostacolo allo sviluppo economico. Il paese doveva quindi abbandonare le protezioni, specializzarsi nella manifattura e aprirsi agli scambi internazionali. Gli economisti classici offrivano quindi una interpretazione sostanzialmente positiva del capitalismo e delle leggi della concorrenza che lo governavano. Essi talvolta definivano l’equilibrio concorrenziale determinato dalle forze del mercato con l’appellativo di “equilibrio naturale”. In tal modo sembravano voler dare l’idea che il capitalismo si sviluppasse secondo “leggi naturali”, ossia in un certo senso armoniche ed eterne. I classici tuttavia non nascondevano gli elementi di conflitto insiti nella società capitalista. Non a caso Smith e Ricardo ritenevano che la società fosse divisa in

classi: i proprietari terrieri, i capitalisti e i lavoratori. In varie circostanze essi riconobbero che le classi sociali hanno interessi irriducibilmente contrapposti tra loro. Ricardo, in particolare, riteneva che i salari fossero dati dagli “usi e costumi” vigenti presso una data popolazione in un dato periodo storico. Dati i salari, egli costruì una teoria secondo cui il profitto spettante ai capitalisti va concepito come un “residuo”, come un “surplus” che si ottiene una volta che da una data produzione totale siano state sottratte le merci spettanti spettanti ai lavoratori sotto

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forma di salari (e anche quelle spettanti ai proprietari terrieri a titolo di rendite). Ma allora, se viene inteso un residuo, ciò significa che il profitto è tanto

maggiore quanto minori siano le rendite e i salari, il che mette chiaramente in luce i motivi di contrasto tra le classi sociali nella ripartizione della produzione. 1.3 Karl Marx Proprio sulla concezione del profitto come “residuo”, e più in generale sugli elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl

Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la pubblicazione del Capitale nel 1867 Marx si propone esplicitamente il compito di elaborare una compiuta critica dell’economia politica che era stata elaborata dagli economisti classici. In questo senso sferra un attacco poderoso al teorema della mano invisibile. Egli infatti descrive un sistema tutt’altro che armonico ed eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da perenne instabilità e da crisi ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto complessa e tuttora oggetto di varie interpretazioni. Qui possiamo affermare che nella visione di Marx si intersecano due spiegazioni della crisi: da un lato la tendenza alla caduta del saggio di profitto, dall’altro la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse lavoratrici. Sulla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, in questa sede possiamo limitarci ad affermare che per Marx sussisterebbero forze che tendono nel tempo a ridurre il saggio di profitto medio del sistema economico. La tesi di partenza di Marx è che i capitalisti estraggono il profitto dal lavoro vivo degli

operai, cioè dal lavoro di coloro i quali sono direttamente impiegati nella produzione e non dal lavoro già erogato, incorporato nei mezzi di produzione già prodotti. Egli poi nota che le continue innovazioni tecniche spingono i capitalisti ad accrescere l’impiego di mezzi di produzione rispetto ai lavoratori direttamente impiegati nel processo produttivo. Ma se il rapporto tra lavoratori e mezzi di produzione si riduce, e se si accetta l’idea di Marx secondo cui il profitto deriva dal lavoro vivo degli operai direttamente impiegati nella produzione, allora si deve giungere alla conclusione che si ridurrà anche il saggio di profitto, cioè del profitto totale in rapporto al capitale impiegato per l’acquisto dei mezzi di produzione e per il pagamento dei lavoratori. Una progressiva caduta del saggio di profitto determina tuttavia una crisi generale del modo di produzione capitalistico. Per Marx, infatti, il saggio di profitto rappresenta non solo la remunerazione del capitalista ma anche il motore dell’accumulazione. Una sua precipitazione verso lo zero renderà a un certo punto impossibile la riproduzione del sistema capitalistico e aprirà quindi la via ad un’epoca di rivoluzione sociale.

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Tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è però anche il fatto che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di rivoluzioni tecniche e organizzative che aumentano al massimo la produttività di ogni singolo lavoratore e al tempo stesso riducono il suo salario. Ciò tuttavia implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la

capacità di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario può determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è che il processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso fino al tracollo. Al riguardo Marx scrive: «…La causa ultima di tutte le crisi rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive…» (Capitale, vol. III). Le due tesi descritte si affiancano poi a un’altra tendenza registrata da Marx, quella verso la scomparsa dei capitali più piccoli o la loro acquisizione da parte dei capitali più grandi, la cui proprietà e il cui controllo tenderebbero a concentrarsi in sempre meno mani: nel linguaggio marxiano, si parla di tendenza

verso la “centralizzazione” dei capitali a livello internazionale. La letteratura marxista ha derivato da questa tendenza varie implicazioni, tra cui due contraddizioni: una concorrenza capitalistica che spinge sempre più verso la monopolizzazione dei mercati da parte dei pochi capitali vincenti, e una radicalizzazione del conflitto di classe tra una cerchia ristretta di proprietari e una massa crescente di diseredati.

Alla luce delle tendenze descritte Marx contesta dunque l’idea classica di un capitalismo “naturale” e quindi “eterno”, sostenendo invece la tesi della sua instabilità, della sua contraddittorietà e quindi anche della sua storicità, vale a dire della sua finitezza. Per Marx, l’elemento di maggior contraddizione del capitalismo è che la feroce competizione tra capitali da un lato sviluppa nuove tecniche e nuove forze produttive, ma dall’altro scatena le crisi e quindi genera tensioni nei rapporti di produzione tra le classi sociali. In particolare, la classe lavoratrice si ritrova ad essere l’artefice in ultima istanza dello sviluppo delle forze produttive, poiché quello sviluppo avviene soprattutto in base allo sfruttamento imposto dal comando del capitale sul lavoro. Al tempo stesso, la classe lavoratrice risulta anche la prima vittima della disoccupazione e degli immiserimenti causati dalle ricorrenti crisi del capitalismo. Le contraddizioni del capitalismo ricadono dunque principalmente sui lavoratori salariati, artefici e vittime del sistema. A causa di queste contraddizioni, Marx giudicava il capitalismo un sistema potente ma caotico, “anarchico”, destinato prima o poi ad entrare in una crisi irreversibile e ad esser quindi sostituito da un diverso sistema di organizzazione dei rapporti economici e sociali. L’analisi marxiana potrebbe in

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questo senso essere considerata una indagine sulle condizioni di riproducibilità

del modo di produzione capitalistico, e sulle circostanze che possono pregiudicare quelle stesse condizioni. Quando si dice che in Marx è fondamentale il concetto di storicità, si intende appunto che egli sottolinea il fatto che i sistemi economici non sono affatto eterni ma risultano storicamente determinati, nel senso che cambiano nel tempo. Ad esempio, è noto che la Rivoluzione francese ha effettivamente sancito il passaggio dall’Antico regime feudale (basato sul potere dei proprietari terrieri) al regime di produzione capitalista (in cui il potere è nelle mani dei capitalisti proprietari dei mezzi di produzione, cioè delle imprese). Allo stesso modo, è possibile che il capitalismo a un certo punto imploda nelle sue contraddizioni e ceda il passo a una nuova e diversa modalità di organizzazione dei rapporti sociali. Marx si attendeva in tal senso una svolta rivoluzionaria guidata dalla classe lavoratrice,1 a seguito della quale potesse sorgere un sistema di tipo socialista: vale a dire un sistema non più basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sul lavoratore salariato posto sotto il comando del capitalista, né basato sulla competizione tra capitali e tra lavoratori, ma fondato invece sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sulla pianificazione sociale del

lavoro. In una prima fase il sistema socialista si sarebbe per forza di cose basato sul controllo statale sui mezzi di produzione, sulla divisione del lavoro e sulle retribuzioni. Ma più in prospettiva, a seguito dello sviluppo delle forze produttive e della ricchezza sociale, Marx preconizzava un futuro comunista, nel quale il potere coercitivo dello Stato, la divisione del lavoro e lo stesso concetto di “salario” sarebbero diventati superflui. Nella Critica al programma di Gotha del 1875, egli definì il comunismo in questi termini: «In una fase più avanzata della società comunista, dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro intellettuale e fisico […] dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze collettive scorrono in abbondanza; soltanto allora la società può scrivere sulle sue bandiere: da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni».

1 E’ interessante notare che Marx riteneva tanto più probabile una svolta rivoluzionaria quanto più le contraddizioni del capitalismo fossero state portate alle estreme conseguenze. Per questo nel 1848, in un celebre Discorso sul libero scambio, egli dichiarò di ritenere preferibile il liberoscambismo internazionale al protezionismo. L’apertura dei vari paesi agli scambi internazionali, a suo avviso, avrebbe accelerato i processi di centralizzazione dei capitali, i divari tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse e la caduta tendenziale del saggio di profitto. L’instabilità e le contraddizioni sarebbero quindi giunte a tal punto da rendere inesorabile una svolta rivoluzionaria. Anche il giovane Marx dunque era liberoscambista, ma per motivi decisamente diversi rispetto a Ricardo.

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Naturalmente Marx non fu il primo comunista della Storia. Molti prima di lui avevano sostenuto l’ideale superiorità di un sistema fondato sulla cooperazione sociale anziché sulla competizione individuale, e sulla proprietà collettiva anziché privata dei mezzi di produzione. E in passato non erano nemmeno mancate esperienze di comunismo concreto, come ad esempio quello delle comunità cristiane primitive. Marx tuttavia differiva dai suoi predecessori per un motivo: egli intendeva poggiare la sua visione politica non su basi etico-morali e utopiche, ma su una analisi scientifica delle contraddizioni del capitalismo e della sua fragilità intrinseca. In verità, si potrebbe obiettare che in fondo anche le premonizioni di Marx sull’avvento del socialismo e poi del comunismo fossero implicitamente guidate da un’istanza utopica. Il dibattito, su questo fronte, resta aperto. Resta tuttavia il fatto che l’indagine marxiana ha effettivamente contribuito a porre in evidenza le contraddizioni e l’instabilità del capitalismo, e ha quindi fornito una base analitica alla tesi della sua storicità, ossia del suo non essere necessariamente “eterno”. In ciò risiede la rilevanza scientifica di Marx, che lo distingue nettamente dai comunisti del passato. Ovviamente, una tesi può dirsi in quanto tale “scientifica” solo se può essere verificata o smentita sulla base delle analisi teoriche ed empiriche. A tale riguardo, i marxisti e i loro critici tuttora dibattono. Se si volesse comunque provare a trarre dai dati degli indizi sulla erroneità o meno delle previsioni marxiane, qualche considerazione in effetti la si potrebbe trarre, sia pure molto parziale. Si osservino in tal senso i seguenti grafici. Il primo grafico descrive l’andamento di lungo periodo del saggio di profitto negli Stati Uniti. La dinamica in effetti è controversa: dal 1944 si registra una tendenza alla caduta del saggio di profitto, come preconizzato da Marx, ma se si prende un arco di tempo più lungo l’andamento è più difficile da interpretare; inoltre, guardando alla crisi recente, esplosa nel 2008, essa sembra esser stata preceduta per circa un ventennio da un’ascesa anziché da una caduta del saggio di profitto (il grafico è tratto da uno studio di Gerard Dumenil e Dominique Lévy del 2010).

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La contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse lavoratrici sembrerebbe invece trovare un riscontro, almeno per quanto riguarda l’ultimo trentennio. Il grafico seguente mostra l’andamento, in vari paesi, della quota di reddito nazionale spettante al salari. La tendenza al declino è piuttosto evidente (il grafico, tratto dall’Anti-Blanchard, riporta dati Ameco Eurostat).

Anche la tendenza alla centralizzazione dei capitali appare confermata. Il grafico seguente (tratto da un peculiare studio di Vitali, Glattfelder, Battison del 2011) descrive il grado di concentrazione delle quote proprietarie e di controllo dei principali gruppi multinazionali a livello mondiale. I dati rivelano in effetti un

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processo di centralizzazione dei capitali estremamente accentuato, specialmente nell’ultimo trentennio.

Ad ogni modo, se è vero che ancora oggi ci si interroga sul piano scientifico sulla capacità o meno di Marx di cogliere alcune tendenze di fondo dello sviluppo capitalistico, è altrettanto vero che un fenomeno di ben più ampia portata si verificò verso la fine dell’Ottocento, quando le tesi marxiane divennero il punto di riferimento del movimento operaio, cioè delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori che in quel periodo andavano sviluppandosi e consolidandosi in molti paesi. Probabilmente, il motivo principale per cui l’analisi di Marx aveva all’epoca un tale successo risiedeva nel fatto che quegli elementi di contraddizione, di instabilità e quindi di storicità che egli ravvisava nel capitalismo venivano precipitosamente tradotti in un preciso messaggio politico: comunicare ai lavoratori che con le loro lotte di emancipazione stavano contribuendo a smuovere la Storia, accelerando la crisi del sistema capitalistico e creando le condizioni per una nuova e superiore organizzazione della società. Chiaramente, per molti queste tesi risultavano scomode, pericolose. Rimarcando l’instabilità e la storicità del modo di produzione capitalistico, l’analisi di Marx rappresentava uno sprone per i movimenti rivoluzionari, e una oggettiva minaccia per i proprietari del capitale, principali detentori del potere economico e politico. Che Marx avesse ragione o meno, che avesse o meno saputo afferrare la meccanica profonda e i destini del capitalismo, le sue tesi erano diventate una potenziale leva per il sovvertimento dell’ordine costituito.

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1.4 L’approccio neoclassico-marginalista Per scongiurare le tesi di Marx occorreva dunque sfidarlo sul terreno dell’analisi scientifica dell’economia. Occorreva cioè proporre una chiave di lettura della realtà che fosse alternativa a quella marxiana. Ma per far questo non si poteva

tornare al pensiero dei classici. Infatti, benché Smith e Ricardo esprimessero nella sostanza un giudizio positivo sul modo capitalistico di produzione, le loro teorie mettevano apertamente in evidenza gli elementi di conflitto insiti nei rapporti tra le classi sociali, e quindi somigliavano troppo all’analisi di Marx per potersi dire del tutto estranee e alternative ad essa. Si pose dunque il problema di elaborare una nuova teoria, che non si concentrasse sul carattere conflittuale e instabile del modo di produzione capitalistico ma che al contrario fornisse una convincente rappresentazione armonica del sistema economico. In effetti, proprio intorno al 1870 nasceva una nuova visione, detta teoria neoclassica o marginalista. Jevons, Menger e Walras furono tra i fondatori di questo approccio, seguiti poi da Marshall, Pigou, Wicksell, Pareto, Robbins e molti altri. Del tutto indipendentemente dagli intenti dei suoi ideatori, questa nuova scuola di pensiero registrò ampi consensi nelle università e nei circoli finanziari. La nuova impostazione viene definita “neo-classica”, ma in effetti essa porta con sé ben poco della precedente economia classica e marxiana. I classici e Marx indagavano sui meccanismi di funzionamento del capitalismo, sulle cause della sua capacità di sviluppo ma anche sulla sua tendenza alla crisi, sulle contraddizioni che lo caratterizzano e sui conflitti tra le classi sociali che quelle contraddizioni scatenano. Marx, in particolare, sottolineava la storicità del capitalismo e puntava a una indagine scientifica sulle condizioni di riproduzione o di crisi del modo di produzione capitalistico. Ed ancora, sia i classici che Marx facevano partire le loro analisi direttamente dallo studio delle classi sociali. Completamente diverso è invece l’oggetto di indagine degli economisti neoclassici-marginalisti. I teorici neoclassici rifiutano una analisi della società

basata sulla divisione tra le classi. Ad essa contrappongono il cosiddetto individualismo metodologico. Questo metodo si basa sulla idea che qualsiasi aggregato sociale, inclusa la classe, è in realtà costituito da singoli individui. Stando quindi all’approccio neoclassico, l’analisi scientifica della società deve sempre partire dall’analisi del comportamento del singolo. Inoltre, i neoclassici rifiutano l’idea di doversi occupare di uno specifico modo di produzione, e in particolare del capitalismo. Essi si propongono di elaborare una teoria molto più astratta e generale, che valga per ogni sistema di organizzazione dei rapporti sociali e per ogni periodo storico, e che valga anche per ogni individuo (indipendentemente dalla ricchezza che possiede o dalla funzione

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economica che svolge). In questo senso i neoclassici ritengono che il problema economico fondamentale di ogni individuo e di ogni società sia quello di impiegare al meglio i mezzi scarsi di cui dispone al fine di accrescere più che può il proprio benessere. Questo problema secondo i neoclassici è così importante che definisce in quanto tale l’oggetto stesso della scienza economica. Infatti, nel Saggio sulla natura e sul significato della scienza economica del 1932, lo studioso neoclassico Lionel Robbins definì l’economia come quella scienza «che studia il comportamento umano come una relazione fra scopi classificabili in ordine d’importanza e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Pochi anni dopo un altro economista neoclassico fornì una descrizione ancor più sintetica della disciplina: nel suo celebre Fondamenti di analisi economica del 1947, Paul

Samuelson definì il nucleo di ogni problema economico come «una funzione matematica da massimizzare sotto vincoli», dove i vincoli rappresentano le risorse scarse disponibili e la funzione da massimizzare in genere rappresenta il benessere individuale. Come vedremo, secondo i neoclassici tale benessere può esser misurato attraverso l’utilità, un concetto che essi adoperano molto spesso nelle loro analisi. Per comprendere meglio il significato di queste definizioni, consideriamo il seguente esempio. Per i neoclassici una tipica risorsa scarsa è il tempo, ossia le ore del giorno. Supponiamo allora che un individuo debba decidere come impiegare le sue ore. Tra i possibili usi alternativi egli potrà scegliere di lavorare e ottenere così un reddito che gli darà modo di consumare merci, oppure potrà scegliere di riposare e dedicarsi al tempo libero. Ora, sia il riposo che il consumo di merci accrescono l’utilità dell’individuo, cioè aumentano il suo benessere. Come si fa a decidere quante ore dedicare al riposo e quante ore dedicare al lavoro necessario per ottenere un reddito e consumare? Quale sarà cioè la quantità ottimale di ore da dedicare al lavoro, e quale la quantità ottimale di ore da dedicare al riposo, al fine di massimizzare l’utilità dell’individuo? La risposta dei neoclassici verte sul cosiddetto “calcolo marginale”, cioè su un calcolo effettuato su incrementi piccoli, appunto “marginali”, delle variabili considerate. Questo calcolo si basa sul principio che al crescere del consumo di un qualsiasi bene, l’utilità dell’individuo tende ad aumentare ma con incrementi sempre più piccoli. Il motivo è che mentre le dosi iniziali del bene sono particolarmente gradite all’individuo, le dosi successive lo condurranno verso la sazietà e quindi risulteranno meno “utili”. Tale principio è detto “legge della utilità marginale

decrescente”, ed è alla base di molte analisi neoclassiche. Dunque, nel caso dell’individuo considerato, si tratterà di distribuire le ore del giorno tra lavoro (e conseguente consumo di merci) e tempo libero. La scelta dell’individuo avverrà sapendo che all’inizio il consumo di merci è assolutamente necessario, e quindi conferisce una utilità molto alta; ma al crescere delle ore di lavoro e del consumo, e al conseguente ridursi delle ore di tempo libero, l’individuo tenderà ad essere

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sempre più sazio di merci ma anche sempre più stanco, per cui l’utilità marginale del consumo tenderà a ridursi rispetto all’utilità marginale del tempo libero. Pertanto, se vuole massimizzare l’utilità, l’individuo dovrà seguire questa regola: aumentare il tempo di lavoro fino a quando l’utilità marginale del consumo è maggiore della utilità marginale del tempo libero, cioè fino a quando l’aumento di utilità derivante dal consumo di merci reso possibile dal reddito ottenuto tramite un incremento marginale di tempo di lavoro sia maggiore o al limite uguale alla perdita di utilità causata dalla rinuncia al tempo libero che consegue a quello stesso incremento marginale di tempo di lavoro. Nel momento in cui la utilità marginale del consumo eguaglia l’utilità marginale del tempo libero, l’individuo starà lavorando proprio il numero ottimale di ore. Infatti, se l’individuo aumentasse ulteriormente il tempo di lavoro, la perdita di utilità dovuta alla rinuncia al riposo eccederebbe l’aumento di utilità derivante dal consumo di merci, e quindi egli incorrerebbe in una riduzione netta del suo benessere. Questo tipo di calcolo, effettuato per l’appunto su variazioni “marginali” – ossia molto piccole - delle grandezze considerate, è alla base della teoria neoclassica, che proprio per questo motivo viene anche detta teoria marginalista. E’ bene precisare che questo tipo di calcolo può indifferentemente applicarsi non solo ai lavoratori ma anche ai capitalisti, o a qualsiasi altro soggetto. Ad esempio, il possessore di ingenti ricchezze deve decidere se consumare subito tali ricchezze oppure prestarle ad altri, guadagnando così un tasso d’interesse e potendo quindi consumare maggiori quantità di ricchezza in futuro. Anche in tal caso, dicono i neoclassici, si applica il calcolo marginale: il soggetto distribuirà infatti le sue ricchezze tra consumo immediato e consumo futuro in base al confronto tra le utilità marginali della prima e della seconda opzione. Anche per questo motivo, secondo i neoclassici, l’analisi basata sulla esistenza delle classi sociali è inutile

e per certi versi fuorviante, visto che il comportamento di ogni individuo, indipendentemente dalla classe di appartenenza, può essere esaminato come un problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse di

cui egli dispone, e più specificamente come un problema risolvibile con il calcolo marginale. Inoltre, gli economisti neoclassici ritengono che il principio di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse possa essere applicato a qualsiasi

epoca storica e a qualsiasi società, semplice o complessa che sia. L’oggetto di indagine potrà essere una economia elementare, magari basata su un unico individuo, come ad esempio quella del naufrago Robinson Crusoe raccontata nel famoso romanzo di Defoe. Oppure potrà trattarsi di una economia capitalistica altamente sviluppata, costituita da tanti operatori e da una complessa rete di scambi. In ogni caso entrambe le economie affronteranno problemi analoghi, basati sul principio di massimo vincolato e risolvibili tramite il calcolo marginale.

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Discutere quindi di uno specifico modo di produzione storicamente determinato, come facevano i classici e soprattutto Marx, è da ritenersi errato. Ma al di là del nuovo metodo di analisi adottato, quali furono le conclusioni politiche alle quali i neoclassici giunsero attraverso di esso? Indubbiamente, nella maggioranza dei casi, la nuova teoria perveniva a risultati più rassicuranti per i proprietari del capitale rispetto a quelli esposti dai classici e da Marx. Dall’analisi neoclassica può infatti scaturire l’idea che in condizioni di perfetta concorrenza una economia capitalistica di mercato sia in grado di garantire il pieno utilizzo delle risorse scarse disponibili ed anche una remunerazione delle risorse conforme al contributo di queste alla produzione. In particolare, riguardo alle fondamentali questioni della disoccupazione e dei salari, i neoclassici applicavano ancora una volta il calcolo marginalista. In primo luogo, essi ritenevano che per ogni data quantità di mezzi di produzione disponibili, i lavoratori via via assunti dalle imprese avrebbero fatto registrare una produttività sempre minore: è la “legge

della produttività marginale decrescente” di un fattore produttivo, quando gli altri fattori siano considerati fissi. In base a questa legge, i neoclassici sostenevano che le imprese avrebbero assunto nuovi lavoratori solo se la loro produttività marginale fosse stata maggiore o al limite uguale al costo marginale dell’assunzione, che corrisponde al salario reale (ossia al salario espresso in termini di potere d’acquisto effettivo). Pertanto, se i lavoratori avessero accettato un salario conforme alla loro produttività, sarebbero stati certamente assunti dalle imprese. Vista quindi in quest’ottica, la disoccupazione può dipendere solo dalla libera scelta del lavoratore, che magari si dichiara indisponibile ad accettare un salario equivalente alla sua produttività; oppure la disoccupazione può dipendere dall’azione dei sindacati dei lavoratori, che impediscono di ridurre i salari al livello della produttività marginale, e quindi rendono impossibile l’assunzione di ulteriori lavoratori da parte delle imprese. Se dunque si eliminano le distorsioni causate dai sindacati e si lascia fare alle forze del mercato, si giungerà alla piena occupazione dei lavoratori disposti ad accettare un salario equivalente alla loro produttività. In definitiva, il libero gioco delle forze del mercato conduce a un equilibrio complessivo efficiente e in un certo senso “giusto”: un equilibrio che alcuni teorici neoclassici definiscono “equilibrio naturale”. La teoria neoclassica permetteva in tal modo di elaborare una sorta di nuovo “teorema della mano invisibile”. Da essa si può infatti derivare l’idea che l’economia capitalistica non sia né instabile né conflittuale. In assenza di “distorsioni” causate dalla politica o dall’azione sindacale, le forze spontanee del mercato condurranno il sistema economico verso un equilibrio “naturale”, in cui tutti coloro i quali siano disposti a lavorare al salario vigente troveranno certamente un’occupazione. La nuova teoria pertanto riafferma i principi

cardine del liberismo in termini più netti rispetto a quanto sostenuto dai classici. Essa infatti si fonda su una concezione non più conflittuale ma armonica

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dei rapporti sociali. Ricordiamo che anche Ricardo era liberista. Egli tuttavia interpretava la realtà in base all’idea che per ogni data produzione il profitto fosse calcolato come un residuo al netto dei salari. Stando a questa chiave di lettura il salario e il profitto sono legati tra loro da un rapporto antagonistico, poiché se uno aumenta l’altro diminuisce. Pertanto, nella vecchia ottica classica, tra percettori di profitto e percettori di salari vi è sempre un irriducibile conflitto nella ripartizione della produzione. Invece, nell’ambito della visione neoclassica si stabilisce che il lavoro e tutti gli altri fattori produttivi sono remunerati in base alle rispettive produttività marginali, cioè al contributo dato da ciascuno di essi alla crescita della produzione. Il conflitto svanisce, soppiantato da una interpretazione

armonica della distribuzione del prodotto tra lavoratori e capitalisti. 1.5 La Grande Crisi e Keynes

Tra il 1870 e il 1914 la teoria neoclassica si impose e divenne la visione dominante della scienza economica. L’approccio neoclassico si diffuse nei circoli accademici e della finanza, e le analisi di politica economica che scaturivano da esso trovarono ampio spazio presso la grande stampa. Il successo della teoria era in buona misura dovuto alla capacità di presentare il problema economico in termini asettici, come un generico problema di uso efficiente di risorse scarse. Questa prerogativa dell’approccio neoclassico permetteva a molti studiosi di avvicinarsi all’economia come se si trattasse di una scienza neutra, priva di implicazioni politiche. Inoltre, le versioni più in voga della teoria neoclassica sembravano in grado di descrivere l’economia capitalistica di mercato come un sistema armonico, efficiente e stabile, il che le rendeva estremamente utili nella battaglia ideologica contro il movimento operaio e contro i sostenitori del socialismo. Gli eventi successivi al 1914, tuttavia, misero fortemente in questione l’idea neoclassica di un sistema capitalistico efficiente ed armonico. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, molti sostennero che il conflitto bellico tra nazioni non fosse altro che una versione estrema del conflitto tra capitali. Si diceva in questo senso che il capitalismo tende al cosiddetto “imperialismo”. Secondo questa interpretazione, il modo di produzione capitalistico tende a scatenare una tale competizione sociale da condurre poi inesorabilmente alla guerra militare. Inoltre, nel 1917 si verifica un evento che sembra per certi versi dare ragione ad alcune premonizioni di Marx: in una Russia devastata dalla guerra e dalla miseria si verifica infatti una nuova Rivoluzione. Il partito che la guida si dichiara espressamente marxista, e punterà a riorganizzare i rapporti economici su basi socialiste.

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Ed ancora, la visione armonica del capitalismo suggerita dall’approccio neoclassico subisce un altro duro colpo a seguito della Grande Crisi. Nel 1929, dopo una lunga fase di euforia nei mercati azionari, il crollo della borsa di Wall Street diede avvio a una gravissima crisi economica, che in pochi anni creò 12 milioni di disoccupati negli Stati Uniti, 6 milioni in Germania, 3 milioni in Gran Bretagna e molti altri nel resto del mondo. Inoltre, secondo alcuni osservatori, fu proprio la Grande Crisi a creare le condizioni sociali e politiche per l’avvento del nazismo in Germania e per la Seconda guerra mondiale. In un simile scenario di sconvolgimenti sociali e politici si fa strada il convincimento che la teoria neoclassica non sia in grado di dare un’adeguata rappresentazione del funzionamento reale del capitalismo. Del resto, le chiavi di lettura della crisi suggerite dagli economisti neoclassici apparivano sempre più lontane dalla realtà. Ad esempio, nella Teoria della disoccupazione del 1933, l’economista neoclassico Arthur C. Pigou sostenne che la crisi era dovuta al fatto che i sindacati si opponevano al calo delle retribuzioni. In questo modo, secondo Pigou, i sindacati impedivano il riequilibrio tra salari e produttività marginale del lavoro che sarebbe stato necessario per indurre le imprese ad assumere i lavoratori disoccupati. Questa tesi tuttavia risultava smentita dal fatto che in realtà i salari erano fortemente diminuiti a seguito della crisi, e che ciò nonostante non si era registrato alcun miglioramento sul versante dell’occupazione. I tempi erano dunque maturi per una nuova rivoluzione delle idee in campo economico. Tra i portatori della medesima vi fu l’economista inglese John

Maynard Keynes, autore della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e

della moneta del 1936. Nella sua critica ai neoclassici Keynes sceglie una posizione “intermedia”, nel senso che accetta una parte della loro teoria ma rifiuta un’altra parte. In particolare, Keynes condivide la tesi neoclassica secondo la quale in equilibrio il salario reale coincide con la produttività marginale del lavoro. Egli accetta pure la tesi secondo cui, dati gli altri fattori di produzione, la produttività marginale del lavoro decresce al crescere del numero dei lavoratori occupati. Tuttavia, Keynes aggiunge pure che i neoclassici trascurano un punto fondamentale, e cioè che il numero degli occupati dipende dalla domanda

effettiva di merci. Le imprese cioè assumeranno solo i lavoratori necessari a produrre la quantità di merci effettivamente domandata dal mercato, cioè la quantità che possa essere effettivamente venduta. Questo è il “principio della

domanda effettiva”, ed è alla base della teoria di Keynes. Se dunque la domanda effettiva di merci è bassa, le imprese assumeranno pochi lavoratori e vi sarà quindi una elevata disoccupazione. La domanda effettiva a sua volta dipende dalle aspettative sul futuro. Se tra gli operatori economici si diffonde una ondata di pessimismo, gli acquisti di beni di

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investimento (macchinari, impianti, attrezzature, ecc.) verranno ridotti, il che provocherà una serie di licenziamenti, quindi un calo dei consumi dei lavoratori, quindi ulteriori licenziamenti, e così via in una spirale negativa che può condurre a una crisi generale. Nella teoria keynesiana questo meccanismo cumulativo va sotto il nome di “moltiplicatore”. Keynes riteneva che i neoclassici trascurassero tutti questi problemi, e per questo non fossero in grado di fornire una adeguata rappresentazione del sistema economico. Dal principio della domanda effettiva e dalla teoria del moltiplicatore Keynes faceva anche scaturire una critica al liberismo prevalente tra i neoclassici. Egli infatti riteneva che le forze del mercato, lasciate a sé stesse, non sarebbero mai state capaci di generare una domanda effettiva tale da eliminare la disoccupazione. In questo senso Keynes criticò l’idea di Pigou, secondo il quale la grande crisi dipendeva dal fatto che i sindacati dei lavoratori si opponevano alla riduzione dei salari e quindi impedivano il libero funzionamento del mercato. Al contrario, Keynes sosteneva che la riduzione dei salari non avrebbe risolto la crisi. Anzi, avrebbe potuto aggravarla. La riduzione dei salari avrebbe infatti dato avvio a un lungo periodo di calo dei prezzi delle merci, che avrebbe indotto molti operatori a rinviare gli acquisti in attesa di ulteriori cadute dei prezzi. Il che avrebbe solo accentuato la crisi. Pertanto, non si poteva imputare la depressione economica ai sindacati. Per Keynes il vero problema è che il capitalismo risulta afflitto da una domanda effettiva molto instabile, condizionata dai cambiamenti nelle aspettative sul futuro, e in genere mai sufficiente per garantire la piena occupazione dei lavoratori. Keynes proponeva dunque l’abbandono del laissez-faire. A suo avviso soltanto un massiccio intervento statale nell’economia avrebbe potuto garantire livelli alti e stabili della domanda effettiva, tali da scongiurare le crisi ricorrenti del capitalismo e in grado di condurre sempre alla piena occupazione del lavoro. In questo senso Keynes parlava di «socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento», ossia di un ampio intervento dello Stato per il finanziamento degli investimenti in opere pubbliche, servizi sociali, beni di interesse collettivo.

1.6 La Sintesi neoclassica e il nuovo mainstream

Dalla Seconda guerra mondiale il liberismo uscì perdente. Dopo la guerra era infatti diffusa un po’ ovunque l’opinione che le forze spontanee del capitalismo, lasciate a sé stesse, fossero causa di instabilità, crisi e conflitti. Questa idea era

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ovviamente supportata dall’esperienza recente. Essa inoltre veniva sostenuta dai sindacati dei lavoratori, che in molti paesi uscirono dalla guerra legittimati e rafforzati, anche per le battaglie antifasciste che avevano condotto. Infine, non si poteva trascurare il fatto che tra i vincitori della guerra vi fosse anche l’Unione Sovietica, lo stato socialista nato dalla rivoluzione russa del 1917. Questa presenza costituiva una sfida ulteriore per i fautori del capitalismo. Al termine della guerra le tesi di Keynes trovarono dunque un ambiente propizio per svilupparsi, sia in ambito accademico che politico. Le politiche economiche del dopoguerra furono in varie circostanze ispirate dalla critica della ideologia liberista degli anni precedenti. In particolare, era diffuso il convincimento che l’intervento statale nell’economia fosse in una certa misura necessario per rimediare alla instabilità e alla debolezza della domanda tipiche del capitalismo. In questa fase venne a costituirsi una nuova scuola, detta “sintesi neoclassica”. Tra i suoi esponenti spiccavano i nomi di John Hicks, Franco Modigliani e Don Patinkin. Questi economisti proposero una sintesi, per l’appunto, tra le idee di Keynes e la teoria neoclassica. Dopo vari passaggi teorici, da questa sintesi emerse negli anni Cinquanta un nuovo modello, portatore della seguente soluzione di compromesso: 1) il principio keynesiano della domanda effettiva e il moltiplicatore determinano i livelli della produzione e della occupazione nel breve periodo; 2) l’equilibrio “naturale” del mercato del lavoro e la funzione di produzione determinano i livelli della occupazione e della produzione nel lungo periodo. L’idea di fondo è che le oscillazioni della domanda possono in effetti provocare cambiamenti continui nella produzione e nella occupazione ma ciò può avvenire solo nel breve periodo. Nel lungo periodo, invece, le forze del mercato dovrebbero comunque condurre l’economia al suo equilibrio “naturale” di piena occupazione. Gli interventi di politica economica dello Stato, dunque, non possono cambiare l’equilibrio “naturale” di lungo periodo ma possono essere d’aiuto per ridurre le oscillazioni di breve periodo e favorire la convergenza del sistema economico verso l’equilibrio “naturale”. La cosiddetta Sintesi neoclassica era dunque compiuta. Il problema keynesiano della domanda effettiva non veniva negato, come facevano i vecchi neoclassici, ma veniva ridotto a una questione di “breve periodo”. Il primato neoclassico dell’equilibrio “naturale” di piena occupazione veniva comunque ristabilito nel lungo periodo. La politica economica non era indispensabile, ma poteva aiutare a raggiungere più rapidamente l’equilibrio naturale. Il manuale di macroeconomia di Olivier Blanchard rappresenta la versione didattica più recente e avanzata della cosiddetta Sintesi neoclassica. La novità essenziale apportata da Blanchard è che a differenza dei vecchi neoclassici lui non si riferisce più alla concorrenza perfetta. Per Blanchard le imprese non sono

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necessariamente piccole e prive di potere di mercato, e i lavoratori non contrattano per forza individualmente. Egli piuttosto rileva che le imprese possono avere un potere di monopolio, e che i lavoratori possono riunirsi in sindacati. Queste innovazioni rendono senza dubbio la sua analisi più adatta alla realtà dei nostri giorni. Nella sostanza però i risultati delle sue analisi sono quelle tipiche della Sintesi. Il rischio di una carenza di domanda effettiva può sussistere ma solo nel breve periodo. Nel lungo periodo l’economia dovrebbe tornare spontaneamente all’equilibrio “naturale” di piena occupazione. La politica economica non è indispensabile ma può forse aiutare a raggiungere più velocemente quell’equilibrio. La versione aggiornata della Sintesi neoclassica, suggerita da Blanchard, rappresenta oggi il nuovo “mainstream”, la nuova teoria economica dominante. Tuttavia, come vedremo, c’è chi ritiene che essa sia viziata da una serie di contraddizioni logiche e che abbia travisato e ridimensionato il pensiero originario di Keynes.

1.7 Per una critica della teoria economica mainstream

Nello stesso periodo in cui andava sviluppandosi il nuovo mainstream della Sintesi neoclassica, sorgevano parallelamente dei nuovi filoni di “critica” della teoria economica dominante. L’espressione “teoria critica” riecheggia la critica dell’economia politica di marxiana memoria. Diversi odierni esponenti degli approcci di teoria critica si propongono infatti di recuperare e di aggiornare l’opera di Marx. Alcuni di essi puntano inoltre a recuperare i concetti fondamentali della teoria di Keynes, liberandola dai suoi residui neoclassici. Lo scopo della moderna critica della teoria economica è quello di attingere dai contributi di Marx, di Keynes e di altri pensatori eterodossi per costruire una visione teorica essenzialmente diversa da quella neoclassica. Il proposito dei critici, dunque, non è quello della “sintesi”, ma è quello della “alternativa”. Nel corso del Novecento la critica della teoria dominante ha tratto nuova linfa dal contributo dell’economista italiano Piero Sraffa. Nel suo celebre Produzione di

merci a mezzo di merci del 1960, Sraffa sferrò un nuovo attacco alla teoria neoclassica, ancor più radicale di quello di Keynes. Sraffa considera infatti la teoria neoclassica incoerente sul piano logico. La critica sraffiana è complessa, e non può esser trattata in un corso base di economia. Tuttavia a grandi linee si può affermare che essa rientra in una serie di critiche che sono state da più parti rivolte

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al concetto neoclassico di “capitale”. Proviamo a fornire qualche spunto derivante da tali critiche. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione disponibili in una data epoca. Se si vuole calcolare il capitale nel suo complesso allora occorre prendere in considerazione l’aggregato dei mezzi di produzione. Questi mezzi però sono eterogenei tra loro e quindi per aggregarli è necessario moltiplicare la quantità di ogni mezzo di produzione per il rispettivo prezzo, e poi sommare tutti i valori tra loro. In tal modo si ottiene una misura del capitale “in valore”. Questa dotazione del capitale può quindi essere impiegata nella teoria neoclassica per determinare salari e interessi. Ad esempio, dato il capitale, è possibile ottenere la domanda di lavoro, che può essere quindi intersecata con l’offerta di lavoro per ottenere il salario reale. Inoltre, noto il capitale, è possibile ricavare l’investimento, che assieme al risparmio contribuisce a determinare il tasso d’interesse, e così via. La teoria neoclassica, come vedremo, procede nella sostanza in base a questa sequenza. Il problema è che essa è viziata sul piano logico. Infatti, stando a questa teoria, il salario, il tasso d’interesse, ecc. sono determinati una volta che sia dato il capitale. Ma noi abbiamo detto che per conoscere il capitale occorre conoscere i prezzi dei singoli mezzi di produzione che lo compongono. Ma per conoscere i prezzi bisognerebbe conoscere i costi, cioè occorrerebbe che i salari e i tassi d’interesse fossero già noti. La teoria neoclassica presenta dunque un vizio di circolarità. Le critiche di Sraffa e di altri alla concezione del capitale investono tutte le versioni della teoria neoclassica, inclusa quella della Sintesi. Tali critiche sono state quindi adoperate per contestare anche il nuovo mainstream. Ma le obiezioni alla Sintesi neoclassica non finiscono qui. Tra i suoi critici vi furono pure alcuni amici e allievi di Keynes, tra cui Richard Kahn, Joan Robinson, Nicholas Kaldor, Luigi Pasinetti ed altri. Questi giudicarono la Sintesi come una sorta di “tradimento” delle idee originarie del maestro, e quindi la rifiutarono. Essi proposero una diversa interpretazione di Keynes, che manteneva il principio della domanda effettiva e il moltiplicatore, ma che rifiutava il concetto di equilibrio “naturale” e ogni altro collegamento con la teoria neoclassica Da queste e da altre critiche, alla Sintesi e più in generale a tutte le moderne versioni della teoria neoclassica, si sta cercando di edificare una teoria economica alternativa. La grave crisi mondiale iniziata nel 2008 ha dato nuovi impulsi in questa direzione, segnalando l’opportunità di elaborare una interpretazione del capitalismo che tenga maggiormente conto della sua instabilità e delle sue contraddizioni, e che dunque riprenda e aggiorni gli insegnamenti di Marx e di Keynes.

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II

ELEMENTI DI TEORIA

CLASSICA E MARXIANA

2.1 Il teorema della mano invisibile di Smith

Il “teorema della mano invisibile” di Smith sostiene che gli individui agiscono nel libero mercato guidati dal loro egoismo personale, ma proprio seguendo i loro interessi particolari essi inconsapevolmente contribuiscono allo sviluppo economico complessivo, e quindi finiscono per servire l’interesse di tutti. Uno dei meccanismi attraverso cui questo fenomeno si verifica verte sul fatto che i capitalisti, in concorrenza tra loro, cercano di adottare i metodi produttivi più efficienti al fine di ridurre al minimo i costi, ed essere quindi più competitivi rispetto ai diretti competitori. La riduzione dei costi farà sì che le merci siano vendute ai prezzi più bassi possibili, il che garantirà sviluppo e benessere diffuso. Qui di seguito è riportata una semplice formalizzazione del “teorema”. Consideriamo un’economia semplificata, che produce solo grano. Definiamo con Y il livello di produzione di grano, con P il prezzo monetario del grano, con W il salario monetario erogato ai lavoratori, con N il numero di lavoratori occupati, con r il saggio di profitto spettante ai capitalisti, con K la quantità di grano impiegata ogni anno come capitale, ossia, come input nel processo produttivo. Il valore della produzione, realizzata e venduta, si distribuirà tra lavoratori e capitalisti in base alla seguente equazione:�� = �� + �1 + ���. Dividendo tutto per PN e definendo y = Y/N e k = K/N, otteniamo: �1� = �� �� + �1 + ��⁄ dove (W/P) è il salario reale, cioè è il potere effettivo d’acquisto del salario monetario. A questo punto definiamo i possibili metodi produttivi esistenti esplicitando la funzione: �2� = ����

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Ogni punto della funzione indica una relazione tra il capitale k per unità di lavoro impiegato e la produzione y per unità di lavoro ottenuta. Ipotizziamo, giusto a titolo esemplificativo, che f’(k)>0 e f”(k)<0. A questo punto è possibile tracciare le due equazioni sul medesimo grafico:

Supponiamo che il saggio di profitto r minimo necessario per proseguire l’attività sia dato. Ciò significa che l’inclinazione della retta che descrive l’equazione (1) è data. Essendo in competizione ognuna con l’altra, per riuscire a garantirsi il saggio di profitto minimo le imprese dovranno scegliere il metodo produttivo k più efficiente, che permette di massimizzare y. Il metodo in questione è k*, corrispondente alla tangenza tra la retta che esprime l’equazione (1) e la curva che esprime l’equazione (2). Il metodo k*, guarda caso, è anche quello che consente di minimizzare il prezzo di vendita P della merce e quindi permette di massimizzare l’intercetta della (1) sulle ordinate, che coincide con il salario reale (W/P) erogato ai lavoratori. Gli altri metodi non riescono a fare altrettanto (la retta tratteggiata, per esempio, interseca la funzione (2) in punti che non corrispondono al salario reale massimo). In condizioni di libero mercato, la “mano invisibile” della concorrenza costringe dunque le imprese a impiegare i metodi più efficienti, il che genera ricchezza diffusa.

Esercizio: lo studente verifichi che un risultato simmetrico può essere ottenuto assumendo che (W/P) sia dato. In tal caso si determina il metodo produttivo k che consente di massimizzare il saggio di profitto r. E poiché per i classici più alto è il saggio di profitto maggiore sarà l’accumulazione di capitale e la capacità futura di produrre ricchezza, ecco dimostrato anche in tal caso l’effetto positivo della concorrenza sulla ricchezza di una nazione.

k* k

y

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2.2 Il teorema dei vantaggi comparati di Ricardo

Ricardo discute dei vantaggi del libero mercato dal punto di vista delle relazioni economiche tra nazioni. Supponiamo che il costo di produzione di ogni merce corrisponda alle ore di lavoro necessarie a produrre una unità di quella merce.

L'Inghilterra gode di un vantaggio assoluto nella produzione di entrambe le merci e di un vantaggio comparato nella produzione di tessuto. Stando ai soli vantaggi assoluti sembrerebbe che l'Inghilterra non abbia interesse ad aprirsi agli scambi internazionali. Come vedremo, invece, Ricardo dimostra che sotto date condizioni all'Inghilterra conviene specializzarsi nella produzione ed esportazione di tessuto e importare grano dalla Spagna. Sulla base della tabella, definiamo le ragioni di scambio tra le merci all'interno di ciascun paese nel caso in cui viga autarchia (cioè chiusura agli scambi internazionali). In Spagna 1T = 4G in Inghilterra 1T = 2G Ricardo afferma che condizione sufficiente affinché lo scambio convenga a entrambi i paesi è che la ragione di scambio internazionale (cioè il valore di scambio tra le merci che si impone al momento della apertura dei due paesi alle transazioni internazionali) sia compresa tra le due ragioni di scambio in autarchia. Dimostriamo. Supponiamo che la ragione di scambio internazionale sia: 1T = 3G In tal caso, per ogni esportazione di 1T da parte dell'Inghilterra a fronte di una esportazione di 3G da parte della Spagna avremo:

grano tessuto

Spagna 3 12

Inghilterra 2 4

ore di lavoro necessarie a produrre 1 unità di merce nei due paesi

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La tabella indica il costo delle merci in base alle tecniche prevalenti all'interno di ogni nazione. Si vede che se i due paesi si specializzano e si aprono agli scambi, otterranno entrambi un guadagno in termini di lavoro “risparmiato”. Ricardo inoltre dimostra che il guadagno derivante dall'apertura internazionale è tanto minore quanto più la ragione di scambio internazionale si avvicina a quella di autarchia. Esercizio: se la ragione di scambio che si impone a livello internazionale è uguale a quella dell'Inghilterra in autarchia (cioè 1T = 2G) allora tutto il vantaggio dell'apertura agli scambi andrà ala Spagna è l'Inghilterra non avrà nulla da guadagnarci. Dimostriamo. Se la ragione di scambio internazionale è 1T = 2G (uguale a quella dell'Inghilterra in autarchia) allora:

In tal caso guadagna solo la Spagna, l'Inghilterra non ottiene alcun beneficio dall'apertura. L'esercizio chiarisce pure perché la condizione sufficiente per lo scambio è che la ragione internazionale sia compresa tra quelle interne. Il motivo è semplice: se non lo fosse uno dei due paesi non avrebbe alcun interesse ad aprirsi allo scambio internazionale. Ricardo dunque dimostra la sua tesi liberista e liberoscambista: in generale ai paesi conviene aprirsi agli scambi internazionali e specializzarsi nella produzione in cui godono di un vantaggio comparato. Resta tuttavia aperto un problema: il

Grano Tessuto

Spagna

Inghilterra

ESPORTA 3G corrispondete a 9

ore di lavoro

IMPORTA 1T corrispondente a 12 ore di lavoro

12-9 = 3ore di lavoro

guadagnateIMPORTA 3G corrispondente a 6 ore di lavoro

ESPORTA 1T corrispondente a 4 ore di lavoro

6-4 = 2ore di lavoro

guadagnate

Grano Tessuto

Spagna

Inghilterra

ESPORTA 2G

corrispondete a 6 ore di

lavoro

IMPORTA 1T

corrispondente a 12 ore di

lavoro

12-6 = 6ore di lavoro

guadagnate

IMPORTA 2G

corrispondente a 4 ore di

lavoro

ESPORTA 1T

corrispondente a 4 ore di

lavoro

4-4 = 0ore di lavoro

guadagnate

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teorema dei vantaggi comparati dimostra che l'apertura internazionale conviene poiché implica un guadagno in termini di “lavoro risparmiato”. Ora, in generale questo “risparmio” di lavoro è un indice di maggiore efficienza, senza dubbio. Tuttavia, quanto è realmente importante il risparmio di lavoro quando c'è disoccupazione? Quando un paese è afflitto dalla crisi e dalla disoccupazione il problema principale diventa impiegare e non certo risparmiare lavoro. È chiaro allora che il teorema dei vantaggi comparati ha senso solo se si assume che non vi siano problemi di disoccupazione. Se questi problemi vi sono allora non è detto che la soluzione del liberoscambio e dell'apertura internazionale sia quella preferibile.

2.3 La condizione di riproducibilità nei classici e in Marx Sappiamo che i classici e soprattutto Marx si sono interrogati sulle condizioni di riproducibilità (detta anche “vitalità”) del sistema economico, cioè sulle condizioni della sua esistenza. Attraverso una serie di esempi vediamo in che modo essi esaminavano questo problema. Consideriamo per semplicità una economia che produce come output grano (G) e ferro (F) utilizzando come input il grano e il ferro medesimi. È bene precisare che tra gli input di grano e di ferro necessari alla produzione rientrano anche le quantità necessarie al sostentamento dei lavoratori impegnati nel processo produttivo. Ciò significa, per esempio, che l'input di grano comprende sia il grano impiegato nella semina dei terreni sia il grano consumato dai lavoratori impiegati. Riguardo al ferro, possiamo suggerire che si tratti del ferro contenuto negli attrezzi necessari alla produzione (vanghe, picconi, trattori, ecc.) Consideriamo una economia in cui le tecniche di produzione stabiliscono la seguente relazione tra input e output: 280 G ⊕ 12 F → 400 G 120 G ⊕ 8 F → 20 F Date le tecniche disponibili, il settore del grano è in grado di produrre un output di 400 unità di grano impiegando come input 280 unità di grano e 12 unità di ferro. Il settore del ferro produce un output di 20 unità di ferro usando come input 120 unità di grano e 8 unità di ferro. È facile verificare che questa è una economia di pura sussistenza. Infatti se sommiamo le colonne otteniamo il totale del grano usato come input

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(280+120=400) e il totale del ferro usato come input (12+8=20) all'interno dei entrambi i settori. Si vede chiaramente che gli output di grano (400) e ferro (20) riescono appena a coprire gli input necessari a ripetere la produzione di periodo in periodo. Dunque l'economia di sussistenza è appena in grado di riprodursi. Essa cioè non è in grado di generare un “surplus” (cioè una “eccedenza”, un “residuo”) al di là dello stretto necessario per la riproduzione. Domanda: può mai esistere una economia di mera sussistenza in un regime capitalistico? Ovviamente no. Una economia capitalistica può riprodursi solo se oltre alla stretta sussistenza genera un surplus, un eccedenza, un residuo che serva a remunerare il profitto dei capitalisti. Se l'economia non è in grado di generare un surplus che remuneri il profitto, il meccanismo capitalistico si inceppa. Come si può generare un surplus? In vari modi: apportando innovazioni tecniche che aumentano l'output a parità di input; oppure aumentando lo sforzo produttivo dei lavoratori, il che pure aumenta l'output a parità di input; oppure ancora riducendo l'input attraverso una riduzione dei salari, ecc. Per esempio: 280 G ⊕ 12 F → 500 G 120 G ⊕ 8 F → 30 F ____ ____ 400 G 20 F L'aumento dell'output a parità di input può esser dovuto a innovazioni tecnologiche o all'aumento degli sforzi produttivi richiesti ai lavoratori. Si vede chiaramente che questa è una economia che genera un surplus. Infatti l'input totale di grano è 400 ma l'output ora è 500; l'input totale di ferro è 20 ma l'output ora è 30. Il surplus di 100 G e 10 F consentirà di remunerare i profitti dei capitalisti, i quali potranno poi decidere di consumare questa eccedenza oppure reinvestirla per aumentare la scala di produzione. Esercizio: partendo dalla economia di sussistenza mostra in che modo si può generare un surplus intervenendo sugli input anziché sugli output (ad esempio tramite una riduzione della parte di input che va ai lavoratori sotto forma di salari). Questi esempi chiariscono pure gli elementi di conflitto sociale insiti nella concezione del profitto come surplus (o residuo) tipica degli economisti classici e di Marx. Gli esempi infatti evidenziano che il surplus può essere generato a scapito dei lavoratori, o a seguito di una intensificazione dei loro sforzi oppure a seguito di una riduzione degli input salariali. Al tempo stesso, il surplus è

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indispensabile alla sopravvivenza di una economia capitalistica, che è in grado di riprodursi solo se viene soddisfatto il movente del profitto dei capitalisti. Proviamo a riformulare tutto in termini di coefficienti di produzione. Dividiamo gli input e gli output per i rispettivi output. Otteniamo:

500

280G ⊕

500

12F → ⊕

500

500G

30

120G ⊕

30

8F → ⊕

30

30F

da cui: 0,56 G ⊕ 0,024 F → ⊕ 1G 4 G ⊕ 0,26 F → ⊕ 1F I coefficienti ci dicono che per ottenere 1 unità di grano occorrono 0,56 unità di grano e 0,024 unità di ferro, e per ottenere 1 unità di ferro occorrono 4 unità di grano e 0,26 unità di ferro. Ora generalizziamo: Definiamo aij il coefficiente di produzione che ci dice quante unità di i servono per produrre una unità di j per esempio:

500

280 = 0,56 = aGG che ci dice quante unità di grano (G) occorrono per

produrre 1 unità di grano (G)

500

12= 0,024 = aFG che ci dice quante unità di ferro (F) occorrono per

produrre 1 unità di grano (G) a questo punto, utilizzando i coefficienti di produzione, possiamo dare una rappresentazione generale della condizione di riproducibilità (o vitalità) del

sistema economico. Una economia rispetta la condizione di riproducibilità (o vitalità) se è in grado almeno di riprodurre se stessa, cioè se gli output sono

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almeno in grado di coprire gli input. Possiamo dunque affermare che una economia è riproducibile se esistono dei livelli di output di grano (YG) e di ferro (YF) tali che:

1) YG ≥ YG aGG + YF aGF

2) YF ≥ YG aFG + YF aFF

La prima condizione ci dice che la quantità di grano output YG deve essere maggiore o al limite uguale alla quantità di grano necessaria a produrre 1 unità di grano (aGG) moltiplicata per l'output totale di grano YG, più la quantità di grano necessaria a produrre 1 unità di ferro (aGF) moltiplicata per l'output totale di ferro (YF). Discorso analogo vale per la seconda condizione. In sostanza, entrambe le condizioni ci dicono che l’output di ogni merce deve essere maggiore o al limite uguale alla somma degli input della stessa merce usati nei due settori. Effettuiamo alcuni semplici passaggi: 1) YG (1-aGG) ≥ YF aGF

2) YF (1-aFF) ≥ YG aFG

da cui:

1)F

G

Y

Y≥

GG

GF

a

a

−1

2) FG

FF

a

a−1≥

F

G

Y

Y

quindi occorre che:

FG

FF

a

a−1≥

GG

GF

a

a

−1

ossia: (1-aGG)(1-aFF) ≥ aGF · aFG

Questa è la condizione di riproducibilità ( o di vitalità) del sistema. Se la condizione è rispettata col segno di uguaglianza (=) allora siamo di fronte a una economia di mera sussistenza. Se la condizione è rispettata col segno maggiore

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(>) allora siamo di fronte a una economia che genera surplus (e che dunque, potendo remunerare un profitto, può essere una economia capitalistica). Esercizio: calcola i coefficienti di produzione della economia di sussistenza esaminata in precedenza e verifica che essi rispettano la condizione di riproducibilità con vincolo di stretta uguaglianza. Esercizio: descrivi una economia che non è nemmeno di sussistenza e che quindi non è in grado di riprodursi. Dunque la condizione di riproducibilità del sistema evidenza gli elementi di antagonismo tra le classi sociali. Basti pensare che un modo per rispettarla (cioè per garantire l'esistenza di un surplus che remuneri il profitto) è di ridurre i coefficienti di produzione, per esempio intensificando gli sforzi dei lavoratori oppure riducendo i salari. (ricorda che la riduzione dei coefficienti indica che il rapporto tra input e output si riduce; l'intensificazione degli sforzi aumenta l'output a parità di input, la riduzione dei salari riduce l'input a parità di output).

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III

MICROECONOMIA E MACROECONOMIA NEOCLASSICA

3.1 La teoria neoclassica della scelta razionale individuale: il caso del

consumatore Abbiamo detto che per i neoclassici ogni problema economico è riconducibile a un problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse disponibili. Nel caso del consumatore, si tratterà di scegliere la combinazione di beni di consumo che massimizzano l'utilità, sotto il vincolo del reddito disponibile. Consideriamo un problema molto semplificato: esistono solo due beni di consumo, il bene 1 e il bene 2, che il consumatore può acquistare e consumare nelle quantità x1 e x2. Il consumatore, inoltre, dispone di un reddito pari a m. I prezzi di mercato dei due beni sono p1 e p2. 3.2 Il vincolo di bilancio del consumatore

Il vincolo di bilancio del consumatore sarà dunque dato da:

p1x1 + p2x2 ≤ m

Se per semplicità assumiamo che il consumatore spende tutto m per l'acquisto di x1 e x2 , allora il vincolo di bilancio diventa:

p1x1 + p2x2 = m

la spesa per x1 e x2 deve eguagliare il reddito e non può oltrepassarlo. L'equazione del vincolo di bilancio può essere rappresentata graficamente su un diagramma cartesiano. Sugli assi indichiamo il consumo di x1 e x2. Ogni punto indica una particolare combinazione di consumo (x1 , x2).

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Esprimiamo il vincolo di bilancio esplicitando la sua equazione rispetto a x2:

p2x2 = m – p1x1

12

1

22 x

p

p

p

m=x −

questa equazione è rappresentata dalla retta del vincolo di bilancio del consumatore. Per tracciare la retta sul grafico poniamo prima x1 = 0 così da trovare l'intercetta sull'asse delle ordinate; poi poniamo x2 = 0 per trovare l'intercetta sull'asse delle ascisse.

x1

x2

A(x1A, x2

A)

x2A

x1A

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x1 = 0 → 2

2p

m=x intercetta del vincolo di bilancio sull'asse delle ordinate

x2 = 0 → 12

1

2

0 xp

p

p

m= −

2

12

1

p

m=x

p

p

p1 x1= m

1

1p

m=x intercetta del vincolo di bilancio sull'asse delle ascisse

x1

x2

equazione della retta

coefficiente angolare 2

1

p

p−

1p

m

2p

m

12

1

22 x

p

p

p

m=x −

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Ovviamente la retta di bilancio rappresenta un vincolo. Tutte le combinazioni di consumo al di sotto di essa sono alla portata del consumatore e quindi ammissibili. Le combinazioni di consumo sulla retta sono le massime possibili, dato il reddito di cui dispone il consumatore e i prezzi dei beni. Le combinazioni di consumo situate al di sopra della retta non sono alla portata del consumatore: Come varia la retta di bilancio?

1) un aumento del reddito da m a m' > m: comporta una traslazione verso l'alto e verso l'esterno della retta di bilancio;

2) una riduzione del prezzo da p1 a p1' > p1: comporta una rotazione della

retta di bilancio verso sinistra (l'intercetta verticale resta ferma perché non è variato il prezzo p2 mentre l'intercetta orizzontale diminuisce), cioè un aumento della sua pendenza.

x1

x2

C D

D combinazione di consumo non ammissibile

A, B, C combinazioni di consumo ammissibili

A

B

m/p1

m/p2

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x1

x2

effetto di una riduzione del prezzo da p1 a p1' < p1

m

p1 '

m

p1

2

1

p

'p−

2

1

p

p−

m

p2

x1

x2

effetto di un aumento del reddito da m a m' > m

2p

m'

1p

m'

1p

m

2p

m

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3.3 Utilità, ordinamento delle preferenze e curve di indifferenza Esaminando il vicolo di bilancio abbiamo verificato quali combinazioni di consumo sono alla portata del consumatore e quali non lo sono. Ora però si tratta di capire quali sono le combinazioni di consumo che il nostro individuo preferisce, cioè le combinazioni che gli consentono di massimizzare l'utilità. L'utilità è intesa come l'attitudine di un certo bene (ad esempio l'acqua) a soddisfare un determinato bisogno del consumatore (ad esempio la sete: il bisogno di bere). Generalmente, l'utilità totale che l'individuo ricava dal consumo di una certa quantità di bene è una funzione crescente di tale quantità: via via che il consumatore assume dosi successive del bene (ad esempio bicchieri di acqua aggiuntivi) il suo grado di soddisfazione (l'utilità) aumenta. Ma, gli incrementi di utilità, corrispondenti ad unità successive del bene consumato, sono sempre più piccoli (ogni bicchiere d'acqua aggiuntivo è sempre meno utile) perché il corrispondente bisogno tende a ridursi (la sete si placa). Questo assunto viene detto principio dell'utilità marginale decrescente. Potrebbe anche verificarsi che, se si è soddisfatto completamente il bisogno, il consumo di ulteriori unità di bene facciano ridurre l'utilità totale, poiché ognuna di queste unità aggiuntive presenta una crescente “disutilità” marginale che fa ridurre l'utilità totale (continuare a bere ulteriori bicchieri di acqua, dopo aver soddisfatto la sete, può provocare un malore crescente). Possiamo riportare la quantità del bene consumato x sulle ascisse di un grafico cartesiano, ponendo sulle ordinate la corrispondente utilità totale UT.

x

UT

1 2 3

15

25

30

0

UT

5

10

15

∆x

∆UT

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È possibile rappresentare su un diagramma cartesiano anche le variazioni dell'utilità totale conseguenti all'incremento di ogni piccola quantità di consumo del bene considerato. Otteniamo così una rappresentazione della funzione

dell'utilità marginale ∆x

∆UT

La funzione dell'utilità totale è concava perché, come si è detto (e mostrato nei grafici), l'utilità marginale è decrescente. Consideriamo per semplicità una economia nella quale esistono solo 2 beni, indichiamo con x1 e x2 le rispettive quantità. Come si è visto, esaminando il vincolo di bilancio del consumatore, ogni combinazione di consumo (ogni paniere di consumo) potrà essere rappresentato da un punto del piano cartesiano (positivo) con coordinate (x1, x2). Per descrivere il comportamento del consumatore è necessario ordinare i panieri di consumo in base alle sue preferenze.

x 1 2 3

15

0

5

10

utilità marginale

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Prendiamo ad esempio la combinazione di consumo A e poniamola a confronto con le combinazioni B, C, D, e E. Dividiamo lo spazio in quattro quadranti. Di sicuro: A è preferito a D e a tutte le altre combinazioni di consumo che appartengono al III quadrante: al paniere di consumo A è associato in indice di utilità maggiore rispetto a tutte le combinazioni di consumo che appartengono al III quadrante. B è preferito ad A e tutte le combinazioni del I quadrante sono preferite ad A: al punto A è associato un indice di utilità inferiore rispetto all'utilità associata a tutti i panieri che appartengono al quadrante I. Esisteranno poi delle combinazioni di consumo situate nel II e nel IV quadrante che il consumatore reputa indifferenti rispetto ad A (due di queste potrebbero essere E e C e presentano lo stesso valore dell'indice di utilità di A). Unendo tutti i punti che rappresentano le combinazioni di consumo considerate indifferenti dal consumatore rispetto al paniere A otterremo una curva di indifferenza. Una curva di indifferenza è l'insieme di tutte le combinazioni di beni che danno al consumatore la stessa utilità totale e che dunque egli reputa indifferenti tra loro.

x2

A

x1

B

C

E

D

II

I VI

III

Curva di indifferenza

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Ovviamente panieri di consumo come B e D sii trovano su curve di indifferenza diverse, visto che ad essi sono associati livelli di utilità diversi rispetto al paniere A. In generale, più le curve di indifferenza sono distanti dall'origine degli assi cartesiani, maggiore è l'utilità ad essa associata. Inoltre, esse presentano una pendenza negativa (sono decrescenti) in quanto se il consumatore vuole conservare lo stesso livello di utilità (e restare sulla stessa curva di indifferenza), dovrà compensare ogni riduzione del consumo di uno dei due beni con un incremento dell'altro. Si viene così a costruire una mappa di curve di indifferenza che esprime l'utilità dell'individuo al variare del paniere di consumo. Le curve di indifferenza non possono intersecarsi (in certo senso si può dire che sono tra loro parallele) perché altrimenti esse non esprimerebbero un ordinamento coerente (razionale) dei panieri di consumo. La razionalità del consumatore, infatti, implica che le preferenze devono essere transitive: se il paniere A è preferito al paniere B e il paniere B è preferito al paniere C, allora il paniere A

x1

x2 UT

3

UT2

UT1

UT3

> UT2

> UT1

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deve essere preferito al paniere C. In altre parole, se le curve di indifferenza si intersecano, allora le preferenze del consumatore non sono transitive e quindi viene meno la sua razionalità nella scelta dei panieri di consumo. Verifichiamo questa importante condizione con un esempio. Consideriamo due panieri di consumo A e B tra loro indifferenti (che si trovano sulla stessa curva di indifferenza) e consideriamo una combinazione di consumo C alla quale il consumatore preferisce il paniere B (tra B e C il consumatore preferisce, sceglie, B che comporta un maggior consumo di entrambi i beni). Ciò significa che l'utilità che il consumatore associa al paniere B (e al paniere A che è indifferente a B) è maggiore dell'utilità associata al paniere C (nel grafico dovrebbe aversi UT

1>UT

0). Però, se le due curve di indifferenza si intersecano in

corrispondenza del paniere A, allora i panieri A e C dovrebbero essere tra loro indifferenti e, quindi, per la proprietà transitiva, l'utilità della combinazione di consumo B dovrebbe essere la stessa di quella associata al paniere di consumo C

(poiché si è assunto che A è B sono tra loro indifferenti). Questo risultato è contraddittorio rispetto all'ipotesi che B sia preferito a C. Quindi, se le preferenze

x2

A

x1

B

C

UT0

UT1

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del consumatore sono transitive (cioè sono coerenti), allora le curve di indifferenza non si intersecano. Le curve di indifferenza per beni tra loro in certa misura sostituti (le mele e le pere) sono convesse: dato un certo livello di utilità, muovendosi lungo la corrispondente curva di indifferenza, all'aumentare del consumo di un bene, il consumatore è sempre meno disposto a rinunciare all'altro bene. La convessità della curva di indifferenza è una diretta conseguenza dell'assunto dell'utilità marginale decrescente. Via via che riduce di quote costanti il consumo di uno dei due beni (che diventa sempre più scarso e prezioso in termini di utilità marginale), il consumatore, per non far ridurre il suo livello di utilità, richiederà compensare queste riduzioni mediante il consumo di quote crescenti dell'altro bene (sempre più abbondante e meno prezioso in termini di utilità marginale).

Il grafico mostra che una riduzione del consumo del bene 2 da 20 a 15 unità richiede, per lasciare invariata l'utilità totale a UT

0, un aumento del consumo del bene 1 di una sola unità. Ma, se il consumo del bene 2 si riduce di ulteriori 5

x2

A

x1

E

C

UT0

20

15

10

B

D

2 3 6

5

5

1 3

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unità, allora è necessario un aumento del consumo del bene 1 di bene 3 unità. Ciò è dovuto all'utilità marginale decrescente. La perdita di utilità che il consumatore subisce passando a A a B è relativamente bassa e può essere compensata con una sola unità del bene 1 (dotata di un'alta utilità marginale) che consente di raggiungere il punto C. Invece, lo spostamento da C a D implica una perdita di utilità maggiore (essendo il bene 2 ora più scarso per il consumatore) che, per essere compensata, richiede una incremento di 3 unità di consumo del bene 1 (infatti queste 3 unità sono dotate di una utilità marginale più bassa perché il bene 1 è ora relativamente più abbondante) in modo da raggiungere il punto E. La convessità delle curve di indifferenza può anche essere spiegata da una preferenza del consumatore per la varietà nella composizione del proprio paniere di consumo. Considerati due panieri A e B che risiedono sulla medesima curva di indifferenza, il consumatore preferirà ad ognuno di essi un qualunque paniere C ottenuto come combinazione lineare intermedia dei rispettivi contenuti di A e B. Infatti, se le curve di indifferenza sono convesse, una siffatta combinazione lineare risiederà su di una curva di indifferenza più alta (corrispondente ad un livello di utilità maggiore).

x2

A

x1

C

UT0

x2A

B

x2C

x2B

x1A

x1C

x1B

UT1

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Quando i due beni le cui quantità sono riportate sugli assi cartesiani sono tra loro perfetti sostituti le curve di indifferenza assumono una forma lineare (sono delle linee rette). È questo il caso della benzina offerta sul mercato da due differenti compagnie di distribuzione (Total e Agip ad esempio), evidentemente la maggior parte dei consumatori trovano indifferente rifornirsi dall'uno o dall'altro distributore perché non sussistono differenze apprezzabili tra i due carburanti. Il consumatore potrebbe consumare anche uno solo dei due beni senza incorrere in una riduzione dell'utilità totale.

x2

A

x1

C

UT0

B

x2C

x1C

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Il caso opposto a quello dei perfetti sostituiti riguardi i beni che sono tra loro perfettamente complementari (detti anche beni perfetti complementi; ad esempio i due ingredienti necessari a preparare una particolare bevanda, si pensi allo zucchero e al caffè). In questo caso le preferenze del consumatore assumono una forma ad angolo: aumentando il consumo di uno solo dei due beni (spostandosi dal punto A al punto C) il consumatore non ottiene incrementi di utilità. Per accrescere l'utilità totale è necessario accrescere in misura proporzionale il consumo di entrambi i beni (spostandosi nel punto B).

x2

x1

B

UT0

x2B

x1B

A C

UT1

x1A

x2A

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Il consumatore potrebbe anche essere indifferente al fatto che il proprio paniere di consumo contenga o meno un determinato bene (detto bene indifferente, volendo dire con espressione imprecisa che il consumatore è indifferente rispetto ad esso). Si pensi alla disponibilità di sigarette per un individuo goloso ma non fumatore: il consumo di una maggiore quantità di dolci farebbe aumentare l'utilità di tale consumatore ma egli resterebbe indifferente rispetto all'aumentare del numero di sigarette di cui può disporre. In questo caso le curve di indifferenza sarebbero parallele all'asse sul quale viene misurato il bene indifferente. Il consumatore non otterrebbe nessun vantaggio spostandosi dal punto A al punto C se il bene 1 è un bene indifferente, solo incrementando il consumo del bene 2 potrebbe ottenere un aumento della propria utilità totale (ad esempio spostandosi nel punto B).

x2

x1

B

UT0

x2B

x1B

A C

UT1

x1A

x2A

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In altri importanti casi le curve di indifferenza possono essere crescenti piuttosto che decrescenti. Ciò avviene quando su uno degli assi cartesiani è misurata la quantità di un “male” e non di un bene. Un male corrisponde ad un'attività o ad consumo penoso che comporta, quindi, disutilità. Un esempio classico è fornito dalla scelta tra il reddito di cui può disporre un consumatore-lavoratore e il lavoro (il sacrificio) che è costretto a cedere per conseguire tale reddito.

Red

di

to

Ore di lavoro

UT0

UT1

UT2

UT2 > UT

1 > UT

0

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L'inclinazione della curva di indifferenza è detta saggio marginale di

sostituzione (SMS o MRS). Esso indica la quantità incrementale del bene 2 (indicata con ∆x2) che il consumatore deve ricevere per essere compensato della perdita di una certa quantità del bene 1 (indicata con ∆x1) affinché la sua utilità resti invariata.

1

2

∆x

∆x=SMS − =

1

2

∆x

∆x

Essendo ∆x1 per definizione negativo e ∆x2 in generale positivo (almeno per beni

sostituti), anteponendo al rapporto 1

2

∆x

∆xil segno negativo, oppure prendendolo in

valore assoluto, si ottiene un SMS positivo e decrescete (all'aumentare di x1) lungo tutta la curva di indifferenza. Questa caratteristica del SMS è dovuta alla convessità della curva di indifferenza (per cui al crescere di x1 aumenta il

x2

A

x1

UT0

x2A

B x2

B

x1A

x1B

∆x1

∆x2

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numeratore del SMS si riduce) e, quindi, al principio dell'utilità marginale decrescente. Infine si dimostra che, fissato un certo livello di utilità (e quindi individuata la corrispondente curva di indifferenza), il SMS è pari al rapporto tra le utilità marginali dei due beni considerati. Infatti, se variano x1 e x2 possiamo calcolare la variazione ∆U dell'utilità totale dell'individuo come somma delle variazioni dei consumi moltiplicate per le rispettive utilità marginali (UM):

∆U = UM1 ∆x1 + UM2 ∆x2 ovviamente, restando sulla stessa curva di indifferenza, l'utilità non varia e pertanto ∆U = 0 e quindi:

0 = UM1 ∆x1 + UM2 ∆x2

x2

A

x1

UT0

B

∆x1

∆x2

C D

E

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– UM2 ∆x2 = UM1 ∆x1

2

1

1

2

UM

UM=

∆x

∆x−

SMS =2

1

UM

UM=

∂U

∂ x1

∂U

∂ x2

questa uguaglianza esprime il SMS come rapporto delle derivate parziali della funzioni di utilità (le utilità marginali). Ad esempio, se la funzione di utilità è definita da:

U(x1, x2) = x1x2

allora, fissato il valore dell'utilità a U0, le curve di indifferenza saranno delle iperboli equilatere di equazione:

x2 = U

0

x1

al variare del livello di utilità fissato si potrà costruire tutta la mappa delle curve di indifferenza.

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3.4 La scelta del consumatore Dato il vincolo di bilancio, data la mappa delle curve di indifferenza, il consumatore è in grado di scegliere il paniere di consumo ottimo perseguendo il seguente obiettivo: scegliere la combinazione di consumo che massimizza l'utilità sotto il vincolo delle risorse disponibili. Per il consumatore la migliore combinazione di consumo, quella che massimizza l'utilità sotto il vincolo di bilancio, è rappresentata dal punto E di tangenza tra il vincolo di bilancio e la curva di indifferenza. Infatti il punto D sarebbe preferito a E ma non è raggiungibile perché non è un paniere di consumo ammissibile (si trova al di sopra del vincolo di bilancio). I punti A e C si trovano sul vincolo di bilancio (sono panieri di consumo ammissibili) ma (come il punto B) appartengono ad una curva di indifferenza più bassa (che corrisponde ad un livello di utilità inferiore) rispetto alla curva di indifferenza che passa per il punto E.

x2

E

x1

UT0

x2*

C

x1*

D

B

UT1

UT2

A

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60

Si noti che in corrispondenza del punto E abbiamo che l'inclinazione del vincolo di bilancio (-p1/p2) è uguale alla pendenza della curva di indifferenza passante per A (SMS = - ∆x2/ ∆x1). Cosa che invece non è vera per un punto come C oppure A. Nel punto B, inoltre, a differenza del punto E, non è soddisfatto il vincolo di bilancio (p1 x1 + p2 x2 = m). Dunque la combinazione ottima del consumo al punto nel quale:

SMS =

1

2

∆x

∆x=

2

1

p

p

oppure

∂U

∂ x1

∂U

∂ x2

= 2

1

p

p

Finora abbiamo individuato la soluzione del problema d'ottimo del consumatore in termini grafici, determiniamola ora in termini algebrici. Il consumatore deve risolvere il seguente problema di massimo vincolato: max U(x1,x2)

sub p1 x1 + p2 x2 = m

Un noto metodo di soluzione è quello dei moltiplicatori di Lagrange. Questo metodo consiste nel risolvere il problema d'ottimo (senza vincoli) per una funzione che comprende sia la funzione obiettivo originaria (la funzione di utilità), sia il vincolo: L(x1, x2, λ) = U(x1, x2) – λ(p1 x1 + p2 x2 – m) ← [lagrangiano] dove il termine λ è detto moltiplicatore di Lagrange e il suo ruolo è di garantire che il vincolo di bilancio sia soddisfatto.

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Le condizioni necessarie per individuare la soluzione di questo problema di ottimo si ottengono ponendo uguali a zero le derivate della funzione L (il lagrangiano) rispetto ai suoi argomenti: x1, x2, λ.

0111

=λpx

U=

x

L−

∂∂

∂∂

(1)

0222

=λpx

U=

x

L−

∂∂

∂∂

(2)

02211 =xpxpm=λ

L−−

∂∂

(3)

risolvendo questo sistema di equazioni otterremo la combinazione ottima di x1* e x2* che rende massima l'utilità del consumatore dato il reddito m di cui dispone e i prezzi di mercato p1 e p2 (che sono dati). Si noti che se dividiamo l'equazione (1) per la (2) otteniamo:

∂U

∂ x1

∂U

∂ x2

= 2

1

p

p

che è la condizione di ottimo già ottenuta mediante l'analisi grafica. Un esempio: U(x1, x2) = x1·x2

M = 40

p1 = 4

p2 = 2

max U(x1, x2) = x1·x2

sub 4·x1 + 2·x2 = 40

applichiamo il metodo di Lagrange: L(x1, x2, λ) = x1·x2 – λ(4·x1 + 2·x2 – 40) ← [lagrangiano]

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62

∂ L

∂ x1= x2 – 4 λ = 0

∂ L

∂ x2=·x1 – 2 λ = 0

λ

L

∂∂

=40 – 4 x1 - 2·x2 = 0

Dividiamo la (1) per la (2): x2·/ x1 -2 = 0

x2·/ x1 = 2

x2·= 2 x1

Sostituiamo nella (3): 40 – 4 x1 - 2(2·x1) = 0

40 – 4 x1 - 4·x1 = 0

40 = 8 x1

x1 = 40 / 8 = 5 x2 = 10 La combinazione di consumo che dunque massimizza l'utilità e al tempo stesso rispetta il vincolo è data da x1 = 5 e x2 = 10 Esaminiamo ora un metodo di sostituzione, alternativo a quello di Lagrange Riconsideriamo il problema di massimo vincolato max U(x1, x2) = x1·x2

sub 4·x1·+ 2·x2 = 40

in primo luogo esprimiamo il vincolo in termini di x2 2·x2 = 40 – 4 x1

x2 = 20 – 2 x1

andiamo quindi a sostituire questa equazione nella funzione di utilità: U(x1, x2) = x1·(20 – 2 x1) = 20 x1 – 2 x1

2

a questo punto deriviamo rispetto a x1 e poniamo pari a zero la derivata:

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1δx

δU= 20 – 4 x1 = 0

x1 =20/4 = 5

che sostituito nella equazione x2 = 20 – 2 x1 da: x2 = 20 – 2 (5) =20 -10 = 10

Abbiamo così ottenuto lo stesso risultato con un metodo alternativo. La scelta tra i vari metodi dipende dalle circostanze. Va preferito quello che semplifica di più i calcoli.

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3.5 La curva di domanda individuale Supponiamo che il prezzo di una merce si modifichi e vediamo come cambia la scelta ottima del consumatore. Ricordiamo che la variazione del prezzo implica una “rotazione” del vicolo di bilancio. Ipotizziamo una serie di riduzioni di p1: p1, p1' < p1, p1' ' < p1' individueremo così una serie di punti di ottimo e l'insieme di tutti questi punti di ottimo è definito “curva di prezzo-consumo”. Si noti che al diminuire di p1 la quantità x1 domandata dal consumatore aumenta.

x2

E'

x1 m/p1'

E''

E

m/p1'' m/p1 x1'' x1 x1'

m/p2

curva di prezzo-consumo

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65

Adesso prendiamo i valori di p1 e i corrispondenti valori ottimi di x1 e collochiamoli su di un nuovo grafico, ponendo x1 in ascissa e p1 in ordinata. La curva di domanda è decrescente: essa esprime una relazione inversa tra p1 e x1: al diminuire del prezzo la domanda aumenta all'aumentare del prezzo la domanda diminuisce La forma decrescente della curva di domanda vale per tutti i beni cosiddetti “normali”, e si ritiene che tale relazione sia solitamente valida.

p1

x1 x1'' x1 x1'

p1'

curva di domanda individuale

x1 = x1(p1) p1

p1''

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3.6 Il surplus del consumatore

Data la curva di domanda individuale, è possibile misurare il benessere che l'individuo trae dall'acquisto di un certo quantitativo di merce, ossia il surplus del consumatore. Consideriamo la domanda annua di Tizio di biglietti per concerti:

xT = 15 - 12 p

ovvero p = 0 → xT = 15

xT = 0 → p = 30

supponiamo che il prezzo di mercato di ogni biglietto sia p = 10€. La domanda sarà:

xT = 15 -12 10

xT = 10

Il surplus del consumatore è dato dalla somma delle differenze tra quanto sarebbe stato disposto a pagare per ottenere ogni unità aggiuntiva del bene acquistato e quanto ha dovuto effettivamente pagare (il prezzo di mercato). Nell'esempio, assumendo che il prezzo di mercato sia p = 10 euro allora la domanda del consumatore è pari a 10 biglietti. Dunque la spesa effettiva totale del consumatore è pari a 100. Calcoliamo ora il surplus. Sapendo che la funzione di domanda è:

xT = 15 - 12 p da cui p = 30 – 2xT

possiamo calcolare quanto il consumatore sarebbe stato disposto a pagare. Per xT = 1, la funzione di domanda ci dice che egli sarebbe stato disposto a pagare un prezzo p = 30 – 2 = 28. Per xT = 2, sarebbe stato disposto a pagare p = 26. Per xT = 3, p = 24. E così via. Sommando le spese che il consumatore sarebbe stato

p1

x1 15 10

È facile mostrare che il surplus del consumatore è rappresentato dall'area ABC.

30

10

A

B

C

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disposto a sostenere otteniamo 28 + 26 + 24 + 22 + 20 + 18 + 16 + 14 + 12 + 10 = 190. Dunque, visto che il consumatore sarebbe stato disposto a pagare le 10 unità di merce anche 190 euro, mentre ne ha pagati soltanto 100, allora il suo surplus è pari a 190 – 100 = 90 euro. Il surplus del consumatore può essere determinato anche calcolando l'area del triangolo ABC. Quell’area infatti può essere intesa come la differenza tra le spese teoriche che il consumatore sarebbe stato disposto a sostenere per ciascuna unità del bene, e le spese effettive realizzate al prezzo di mercato vigente. Nell’esempio specifico, l’area del triandolo sarà data da (AC x BC)/2 = 20x10/2 = 100. (N.B. si noti che calcolando l’area si ottiene un valore del surplus del consumatore maggiore di 90; il motivo è che, trattandosi di un bene non divisibile, tale area costituisce solo un'approssimazione per eccesso del surplus del consumatore).

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3.7 la variazione della domanda individuale rispetto al reddito La curva di domanda individuale reagisce anche alle variazioni del reddito del consumatore (ad esempio m varia da m a m' > m). in tal caso, a parità di p1 (che non è cambiato), assistiamo ad un aumento della quantità domandata di x1. La curva di domanda, quindi, trasla verso destra al crescere del reddito.

x2

x1 m'/p1 x1

m'/p2

E' E

m/p2

x1' m/p1

p1

x1 x1

p1

x1'

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3.8 Dalla curva di domanda individuale alla curva di domanda di mercato Per ottenere la curva di domanda di mercato è necessario sommare le quantità domandate dai singoli consumatori per ogni livello del prezzo. curva di domanda di Tizio p = 30 – 2 xT → xT = 15 - 1/2 p

curva di domanda di Caio p = 30 – 3 xC → xC = 10 - 1/3 p

curava di domanda x = xT + xC = 25 – 5/6 p → p = 30 – 6/5 x

di mercato per ottenere la curva di domanda di mercato è quindi necessario esplicitare tutte le domande individuali in termini di x e poi sommarle.

x

p

xT

30

15

p

xC

30

10

p

30

25

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70

3.9 La teoria neoclassica dell'impresa Dopo quanto detto sula scelta ottima dell'individuo (e in particolare del consumatore) passiamo ora ad esaminare il lato delle decisioni dell'impresa inerenti la produzione e i costi. Così come dalla scelta dell'individuo abbiamo ottenuto la domanda delle merci, dalla teoria dell'impresa otterremo l'offerta. LA PRODUZIONE Nell'analisi neoclassica di solito si ritiene che la produzione di una certa quantità Q di merce viene effettuata utilizzando i fattori della produzione L lavoro Q K capitale (di solito inteso come valore dei mezzi di produzione) (L'analisi neoclassica del capitale presenta diversi problemi: es. se K è misurato come valore di tutti i mezzi di produzione, allora bisognerebbe conoscere i prezzi di tali mezzi di produzione. Ma la determinazione dei prezzi dovrebbe essere un risultato dell'analisi non una premessa). Ad ogni modo noi qui non ci occuperemo di questo problema. Anzi, per semplicità riterremo che l'analisi sia di breve periodo per cui K può essere considerato un dato esogeno, fisso. Ciò significa che la funzione di produzione:

Q = Q(K, L) può essere riscritta così:

Q = Q(L) con K fisso Questa funzione di produzione è dunque sottoposta alla legge della produttività marginale decrescente di un fattore produttivo, dati gli altri. Dato il capitale disponibile (Macchine, impianti, etc.), i lavoratori impiegati da un'impresa avranno via via una produttività marginale sempre più piccola.

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La produttività marginale del lavoro (PMGL) corrisponde alla variazione della produzione totale derivante da una piccola variazione del lavoro impiegato. In termini algebrici:

PMGL = ∆L

∆Q

in modo più preciso usando le derivate:

PMGL = δL

δQ

Esempio: se la funzione di produzione è data da Q = L1/2, allora la produttività marginale del lavoro sarà:

PMGL = δL

δQ= 2

1

2

1−

L =

2

1

2

1

L

= L2

1

(nota che al crescere di L la PMGL si riduce) Ovviamente si può anche ragionare all'inverso, calcolando la quantità di L necessaria a produrre una certa produzione Q:

Q

L

10

18

24 28 31 32

1 2 3 4 5 6

Q = Q(L)

L

1

4 3

8

6

10

1 2 3 4 5 6

PMGL

PMGL

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72

L = L(Q) ad es. per Q = L1/2 → Q2 = (L1/2)2 → L = Q2

Passiamo ora ai costi di produzione. I costi totali di produzione sono costituiti dai costi fissi e dai costi variabili: I costi fissi non variano al variare della produzione (almeno nel breve periodo). Essi possono essere identificati con il costo del capitale:

(1 + r) → r K0

I costi variabili variano con la produzione e possono essere identificati con il costo del lavoro:

w L(Q) Dunque i costi totali sono:

CT = r K0 + w L(Q) Nel nostro esempio con Q(L) = L1/2 otteniamo L(Q) = Q2 e quindi

CT = r K0 + w Q2

CT

Q

rK0

CT

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Possiamo dunque calcolare il costo marginale CMG che corrisponde alla variazione del costo totale conseguente a una variazione marginale (piccola) della quantità prodotta:

CMG =δQ

δCT

Nel nostro esempio:

CMG =δQ

δCT= w2Q

È interessante notare che esiste una relazione tra CMG e PMGL. Infatti (ricordando che K è costante):

CMG =δQ

δCT= w

δQ

δL

ma sappiamo che PMGL = δL

δQe quindi possiamo scrivere:

CMG

Q

2w

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74

CMG =

δL

δQ

w=

LPMG

w

Quindi quanto più bassa è la PMGL tanto più alto è il CMG. Infatti nel nostro esempio:

CMG = w2Q ma Q = L1/2 e quindi:

CMG = w2L1/2

che può essere riscritto così:

CMG =

2/12

1

L

w ← il denominatore di questa frazione è proprio la PMGL

infine calcoliamo il costo medio di produzione (CM). Il costo medio è semplicemente il costo totale diviso per le quantità prodotte e ci dice quanto costa in media ogni unità di merce prodotta:

CM = CT

Q = ( )

Q

QwL+rK0

notare per inciso che quindi CT = CM·Q Il costo medio ha un andamento particolare. Esso è prima decrescente e poi crescente. Infatti all'inizio la crescita di Q consente di ammortizzare i costi fissi, cioè consente di ripartire il costo del capitale su più unità prodotte e vendute. Ciò fa ridurre CM. Al tempo stesso l'aumento di Q fa aumentare i costi variabili necessari alla produzione. Ciò fa aumentare i CM. Finché la riduzione dei costi fissi prevale sull'aumento dei costi variabili, il costo medio si riduce. Quando l'aumento dei costi variabili inizia a prevalere, il costo medio aumenta.

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Nel nostro esempio, avendo L = Q2:

CM = CT

Q = Q

wQ+rK2

0 = wQ+Q

rK0

supponiamo che w = 2 e r K0 = 20, abbiamo:

CM = Q+Q

220

Più precisamente il minimo corrisponde a Q = ,2310 ≅ e possiamo verificarlo calcolando il minimo della funzione del costo medio. Condizione necessaria per l'individuazione di un punto di un punto di minimo di una funzione è che la sua derivata sia pari a zero (cioè che la funzione sia “piatta” in quel punto):

0220

2=+

Q=

δQ

δCT− → Q2 = 10 → Q = ,2310 ≅ ← costo medio minimo

Infine, è interessante notare che il costo medio e il costo marginale si intersecano esattamente nel punto di minimo del costo medio. Per verificarlo nell'esempio (con rK0 = 20, w=2 e L= Q2) poniamo CM=CMG :

Q+Q

220

= 2·2Q → Q = ,2310 ≅

l'intersezione tra CM e CMG corrisponde esattamente al CM minimo. Ma perché CMG e CM si incrociano proprio in corrispondenza del CM minimo? La ragione è questa, il CMG costituisce un costo aggiuntivo rispetto alla media dei costi. Finché il costo aggiuntivo è minore della media, la media si riduce (QA).

Q CM

1 222 14

3 12,67

4 13

5 14

6 15,33

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9

0

5

10

15

20

25

Q

CM

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76

Quando il costo aggiuntivo diventa maggiore della media, la media inizia a crescere (QB).

3.10 La massimizzazione del profitto dell'impresa Secondo i neoclassici lo scopo generale dell'impresa è massimizzare il profitto (Π), inteso come differenza tra ricavi totali (RT = p·Q) e costi totali (CT).

Π = RT - CT ← Funzione del profitto L'impresa deve dunque scegliere la quantità Q che massimizza Π. Ossia, occorre derivare rispetto a Q e porre uguale a zero tale derivata:

0=δQ

δCT

δQ

δRT=

δQ

δΠ−

sapendo che CMG = δQ

δCT

e definendo RMG = δQ

δRT

CM,

CMG

Q

CMG

CM

QA QB

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possiamo allora dire che il profitto è massimizzato in corrispondenza di quella quantità Q* tale che:

RMG – CMG = 0

RMG = CMG questa è la condizione del primo ordine per il massimo profitto. Questa condizione è piuttosto semplice da comprendere. CMG è il costo aggiuntivo che l'impresa deve sostenere se decide di produrre una unità in più di merce. RMG è il ricavo aggiuntivo che deriva dalla produzione e dalla vendita di una unità in più di merce. Ora, è chiaro che finché RMG > CMG all'impresa conviene aumentare la quantità prodotta Q perché le unità aggiuntive rendono più di quanto costano e quindi consentono di aumentare il profitto Π. Quando però RMG=CMG conviene fermarsi e non andare oltre poiché ogni unità prodotta ulteriore costerebbe più di quanto rende e farebbero ridurre il profitto totale. Questa regola di massimizzazione del profitto vale in generale. Tuttavia, come vedremo, essa viene declinata in modi diversi a seconda del tipo di impresa di fronte alla quale ci troviamo. Abbiamo infatti tipi diversi di imprese che differiscono in base al tipo di mercato in cui operano e al grado di competizione che fronteggiano. Qui considereremo tre forme di mercato: la concorrenza perfetta, il monopolio e l'oligopolio. 3.11 L'impresa in concorrenza perfetta Il mercato di concorrenza perfetta è quello in cui operano moltissime piccole imprese che producono un bene omogeneo. Queste imprese si presentano sul mercato senza disporre di alcun potere sui prezzi di vendita. È il caso dei piccoli produttori di mele che si presentano sul mercato ortofrutticolo al mattino. Un banditore conta le mele offerte dai produttori e le mele domandate dai fruttivendoli, e fissa il prezzo di equilibrio di mercato che uguaglia domande e offerte. Una volta fissato il prezzo di equilibrio ogni produttore dovrà attenersi ad esso. Se, infatti, prova a vendere a prezzi maggiori nessuno andrà a comprare da lui. E non ha interesse a vendere a prezzi minori visto che al prezzo di equilibrio

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lui sa già che venderà tutta la merce (praticare un prezzo più basso comporterebbe solo una riduzione dei ricavi e degli eventuali profitti). L'impresa in concorrenza perfetta dunque non ha alcun potere sul prezzo di mercato. Si dice che essa è price-taker, cioè “prende”, “subisce” il prezzo fissato dal mercato. In concorrenza perfetta possiamo dunque affermare che il prezzo di mercato è un dato esogeno:

p = p0

Vediamo allora quali sono le implicazioni di un p esogeno sull'obiettivo di massimizzazione del profitto dell'impresa in concorrenza perfetta. Abbiamo detto che:

Π = RT – CT Ovviamente il ricavo totale non è altro che RT = p·Q, cioè il prezzo per la quantità prodotta e venduta. Dunque:

Π = p·Q – CT Imponiamo quindi la condizione di massimo profitto derivando rispetto a Q e ponendo uguale a zero tale derivata. Otteniamo:

RMG = CMG

p – δQ

δCT = 0

p = δQ

δCT

p = CMG

Questa è la condizione di massimo profitto in concorrenza perfetta. Si noti che in concorrenza perfetta il RMG derivante da una unità in più di merce prodotta e venduta corrisponde esattamente al suo prezzo. Ecco perché la condizione generale di massimo profitto RMG = CMG diventa p = CMG.

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Dunque, scopo dell'impresa è di fissare un livello di produzione Q tale che il suo CMG arrivi ad uguagliare il prezzo p (esogeno) di mercato. Se p > CMG conviene aumentare la quantità prodotta e venduta visto che le quantità aggiuntive si venderanno ad un prezzo maggiore del loro costo marginale. Se p < CMG occorre tornare indietro, produrre di meno, perché si sta producendo troppo nel senso che le quantità in eccesso costano più di quanto renderanno all'atto della vendita. Esempio algebrico: CT = r K + w Q2

poniamo: p = 16 w =2 r K = 20 Il profitto è dato da:

Π = RT – CT = p·Q – CT la condizione di massimo profitto per l'impresa in concorrenza perfetta è:

0=δQ

δCT

δQ

δRT=

δQ

δΠ−

p – δQ

δCT = 0

p =δQ

δCT

ossia sostituendo i valori:

16 = 4 Q → Q = 4 Questa è la quantità che massimizza il profitto dell'impresa.

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3.12 Rappresentazione grafica dell'equilibrio ottimale dell'impresa in

concorrenza perfetta Il prezzo di mercato è esogeno, ossia è indipendente dalla quantità che la singola impresa ha deciso di produrre ed offrire sul mercato (pertanto, sul grafico il prezzo è rappresentato da un retta orizzontale, parallela all'asse delle ascisse). Basterebbe che l'impresa aumentasse anche di pochissimo il prezzo p al quale vende il proprio prodotto e si ritroverebbe con una domanda pari a zero (punto A). Al prezzo di mercato l'impresa può vendere tutte la merce che riesce a produrre (naturalmente, considerati i costi di produzione, ad un certo punto dovrebbe fermarsi per non andare in perdita). Disegniamo le curve di costo e la retta orizzontale del prezzo:

p

Q

A

Q0 Q2

p0

Q1

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La quantità Q che massimizza il profitto: non è QA (P > CMG) segmento AB

non è QB (P < CMG) segmento CD

è Q* (P = CMG) punto E

Rappresentiamo graficamente il profitto dell'impresa:

p,

CM,

CMG

Q

CMG

CM

QA QB

p0

Q*

C

D E

B

A

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Il ricavo totale RT = p0·Q corrisponde al rettangolo OQ*Ep0 Sapendo che CM = CT/Q allora CT = CM·Q e quindi possiamo dire che il costo totale corrisponde al rettangolo OQ*FA. È chiaro che il profitto Π = RT – CT corrisponde alla differenza tra i due rettangoli, cioè all'area AFEp0 (area tratteggiata). Ovviamente, poiché questa impresa rispetta la condizione p=CMG, il profitto tracciato nel grafico sarà il massimo possibile. Esercizio: in base ai dati dell'esercizio precedente, calcoliamo il profitto massimo: CT = r K0 + w Q2 p0 = 16 w = 2 r K = 20 Abbiamo già detto che Q* = 4 Quindi RT = p0·Q = 16 * 4 = 64 CT = 20 + 2 (4)2 = 52 Π = 64 – 52 =12 Si verifichi che se cambia la Q non si riesce più ad ottenere un Π così alto.

p,

CM,

CMG

Q

CMG

CM

p0

Q*

E

A F

O

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Ovviamente può anche accadere che il prezzo di mercato si riduca e che l'impresa si ritrovi addirittura a produrre in perdita (se il prezzo scende al di sotto del costo medio). Quando p0 si situa al di sotto del CM l'impresa incorre in una perdita (cioè in un profitto negativo) data da: Π = RT – CT = OQ*Ep0 – OQ*FA = AFEp0 (che è negativo, ossia perdita) Chiaramente l'impresa no può resistere a lungo in una tale situazione. Se p non cresce o se un miglioramento tecnico non le consente di abbassare i costi, l'impresa sarà costretta a ritirarsi dal mercato (con probabile bancarotta visto che non è in grado di ripagare r K0). Ma oltre all'uscita dal mercato delle imprese inefficienti, può anche accadere che si verifichi l'ingresso nel mercato di nuove imprese. Ciò accade soprattutto quando le imprese già presenti sul mercato realizzano profitti positivi. Il fatto che le imprese operanti sul mercato stiano realizzando profitti positivi, stimola l'ingresso di nuovi concorrenti. Ma cosa accade quando entrano nuovi concorrenti? Semplice: la competizione si intensifica e quindi il prezzo di mercato diminuisce.

p,

CM,

CMG

Q

CMG

CM

p0

Q*

E A

F

O

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84

Questa tendenza prosegue fino a quando non si raggiunge l'equilibrio di lungo periodo per il quale p0 = CMG = CMMINIMO dove i profitti sono nulli e quindi nono c'è più incentivo ad entrare nel mercato:

RT = CT = OQEP0 e quindi Π = 0 A questo punto possiamo definire la curva di offerta dell'impresa. La curva di offerta ci dice come varia la quantità prodotta dall'impresa al variare del prezzo di mercato.

p,

CM,

CMG

Q

CMG

CM

p0

Q*

E

O

p'

p''

p,

CM,

CMG

Q

CMG

CM

p2

Q2 O

p0

p1

Q1 Q0

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Ipotizziamo che il prezzo diminuisca e determiniamo i corrispondenti livelli ottimi Q di produzione. Si vede che se il prezzo diminuisce (p2 < p1 < p0), la quantità prodotta ed offerta si riduce (Q2 > Q1 > Q0). Viceversa quando il prezzo aumenta, la quantità prodotta ed offerta aumenta. Sussiste, quindi, una relazione diretta tra p e Q e tale relazione corrisponde esattamente alla curva CMG al di sopra del CM (al di sotto del CM l'impresa a lungo andare non può reggere). Dunque, possiamo affermare che la curva di offerta dell'impresa corrisponde alla curva del CMG dalla intersezione con il CM in su (in realtà sarebbe dal CMV in su). Come si vede l'offerta è crescente, il che indica che all'aumentare di p cresce Q e al diminuire di p diminuisce Q.

p

Q

offerta

dell'impresa

CM

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Così, come avveniva per la domanda, è possibile sommare orizzontalmente le curve di offerta delle singole imprese per ottenere la curva di offerta del mercato: 3.13 Domanda, offerta ed equilibrio del mercato di concorrenza perfetta Dalla teoria della scelta del consumatore sappiamo che la domanda è di questo tipo:

Qd = a - b p ossia se il prezzo aumenta, la quantità domandata diminuisce, se il prezzo diminuisce, la quantità domandata aumenta. Dalla teoria dell'impresa sappiamo che l'offerta è di questo tipo:

Qs = c + d p ossia se il prezzo aumenta, la quantità offerta aumenta, se il prezzo diminuisce, la quantità offerta diminuisce.

p

Q

CMG1

p

Q

CMG2

p

Q

offerta di

mercato

Impresa 1 Impresa 2 ecc.

p

Q

D

p

Q

S

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L'equilibrio di mercato è: I neoclassici sostengono che le forze del mercato, lasciate a sé stesse, conducano automaticamente all'equilibrio tra domanda e offerta. Ad esempio se p' > p*, allora S' > D', vi è un eccesso di merce offerta sul mercato e il prezzo si riduce fino al livello p* per il quale S=D. Algebricamente: Q

d = a – b p

Qd

= c + d p

Imponiamo la condizione di equilibrio Qd = Qs:

a – b p = c + d p

a – c = b p + d p

(b + d) p = a – c

p = d+b

ca −

p

Q

S

D

E

Q*

p*

P'

D' S'

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Andiamo a sostituire p in una qualsiasi delle equazioni originarie

Q = c + d p = c + d (d+b

ca −)

Qd = Q

s = c + d p = c + d (

d+b

ca −)

3.14 L'elasticità della domanda rispetto al prezzo

Quando si vuole conoscere la sensibilità della domanda alle variazioni del prezzo si adopera il concetto di elasticità. L'elasticità della domanda rispetto al prezzo indica la variazione percentuale della quantità domandata conseguente ad una variazione dell'1% del prezzo. Definendo con ∆Q/Q la variazione percentuale della domanda e con ∆p/p la variazione percentuale del prezzo, si ha che l'elasticità εD è data da:

εD =

p

∆p

Q

∆Q

= ∆p

p

Q

∆Q=

Q

p

∆p

∆Q

ricordando che ovviamente ∆p

∆Q< 0 in quanto la domanda è normalmente una

funzione decrescente del prezzo. Quindi:

εD = Q

p

∆p

∆Q che in termini di derivate diventa εD =

Q

p

δp

δQ

Quindi si possono avere due casi estremi: - una domanda perfettamente elastica, ε D = - ∞, dove una piccola variazione di p provoca una enorme variazione di Qd; - una domanda perfettamente rigida, ε D = 0, per le quali anche se p varia molto, la domanda Qd non cambia. Ma, più in generale, ci troveremo di fronte ad una di domanda con elasticità intermedia, 0 < ε D < - ∞.

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Esercizio: sapendo che Qd = 90 – 2 p e che Qs = (3/2) p + 20

1) determinare il valore di equilibrio di p e Q, 2) disegnare le curve sul grafico, 3) disegnare il surplus del consumatore.

Qd = Qs 90 – 2 p = (3/2) p + 20 90 – 20 = (3/2) p + 2p (7/2) p = 70 p = (2/7) 70 = 20 Q = 90 – 2 p = 90 – 2 (20) = 50 Disegniamo: Qd = 90 – 2 p per p=0 → Qd = 90 per Qd = 0 → p = 45

ε D = - ∞

p

Q

p

Q

ε D = 0

p

Q

0 < ε D < - ∞

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90

Qs = (3/2) p + 20 per p = 0 → Qs = 20 per Qs = 0 → p = - 40/3 Calcoliamo anche l'elasticità della domanda (nel punto B di equilibrio tra domanda e offerta):

εD = Q

p

δp

δQ= -2

Q

p= - 2

50

20=

5

4−

p

Q 90 50

surplus del consumatore 45

20

A

B

C

S

D

-40/3

20

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3.15 Monopolio e oligopolio MONOPOLIO (una sola impresa formula l'offerta sul mercato) La differenza fondamentale tra concorrenza perfetta e monopoli risiede nella domanda e nel prezzo. Per l'impresa in concorrenza perfetta il prezzo è un dato esogeno e la domanda è perfettamente elastica. L'impresa infatti è molto piccola: essa sa che se si adegua al prezzo di mercato potrà vendere tutta la merce che desidera (se non si adeguasse al prezzo di mercato, o non venderebbe nulla – praticando un prezzo superiore a quello di mercato - oppure non massimizzerebbe il profitto profitto – praticando un prezzo inferiore a quello di mercato). Per l'impresa in monopolio le cose sono diverse. L'impresa monopolista controlla l'intero mercato, il che significa che essa si trova di fronte alla domanda complessiva del mercato che può rivolgersi solo a lei. Il problema del monopolista è quindi quello di posizionarsi sulla curva di domanda del mercato in modo da scegliere la combinazione (p, Q) che massimizza il suo profitto. Ovviamente il monopolista dovrà tenere conto del fatto che se decide di aumentare il prezzo, i consumatori diminuiranno la quantità domandata. Egli deve quindi fare la sua scelta tenendo conto della reazione dei consumatori (e in particolare della εD). Ad ogni modo, è chiaro che il monopolista prende decisioni sia su Q che su p e quindi non è più un price-taker ma è un price-maker. Esaminiamo ora in dettaglio il comportamento del monopolista. Ovviamente, anche per il monopolista l'obiettivo è di massimizzare il profitto seguendo la regola generale:

RMG = CMG ovvero δQ

δRT= δQ

δCT

Nel calcolo dell'impresa in concorrenza perfetta il ricavo marginale coincideva con il prezzo, per cui si poteva scrivere p = CMG. Infatti, il ricavo derivante da ogni unità in più prodotta e venduta coincide in concorrenza perfetta proprio con il prezzo di ogni unità di merce.

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Ma in monopolio le cose cambiano. Il monopolista infatti fronteggia una domanda di mercato decrescente, per cui egli sa che se vuole produrre e vendere una unità in più di merce dovrà accettare un riduzione del prezzo su tutte le unità vendute per convincere i consumatori a comprare la merce aggiuntiva. Esempio: se il monopolista vuole vendere 5 unità di merce può fissare p = 12€ ma se vuole venderne 6 dovrà farlo fissando il prezzo a p = 11€. Passando da A a B, quindi, il monopolista guadagna altri 11€ ma perde 1€ sulle 5 unità che prima vendeva a 12€ ognuna. Ciò significa che il ricavo marginale derivante dalla produzione e vendita di una merce in più corrisponde in monopolio a:

RMG = p + ∆Q

∆pQ (con

∆Q

∆p< 0)

p

A

Q

D

12

B 11

5 6

p è il prezzo della unità di merce in più prodotta e venduta

riduzione necessaria a convincere i consumatori a comprare una unità in più, moltiplicata per la quantità che il monopolista già poteva produrre e vendere.

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Questo stesso risultato può anche essere espresso in modo più preciso tramite le derivate. A questo riguardo noi sappiamo che: RT = p·Q dove però in monopolio p non è più esogeno ma si trova in relazione con q sulla base della funzione di domanda decrescente (cioè p = p(Q)). Quindi possiamo scrivere: RT = p(Q)·Q se, dunque, vogliamo calcolare

RMG = δQ

δRT dove RT = p(Q)·Q

ci tocca utilizzare la regola di derivazione de prodotto di funzioni: la derivata del primo termine moltiplicata per il secondo termine più il primo termine moltiplicato per la derivata del secondo termine:

RMG = δQ

δRT= δQ

δpQ + p con (

δQ

δRT< 0)

che esattamente lo stesso risultato ottenuto precedentemente mediante le variazioni finite e che adesso è riferito a variazioni infinitesime. Quindi, possiamo dire che la quantità ottima che il monopolista deve produrre ed offrire sul mercato deve soddisfare la seguente equazione:

RMG = CMG ↔ δQ

δpQ + p =

δQ

δCT

Vediamo un esempio. Supponiamo che la domanda di mercato sia data dalla seguente equazione: Q = 100 – 2·p. Supponiamo inoltre che i costi totali del monopolista siano dati da: CT = 10 + 2·Q2. Determiniamo la combinazione (p, Q) che massimizza i profitti del monopolista. Riscriviamo la domanda esplicitandola rispetto al prezzo:

p = 50 – (½)·Q

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Il ricavo totale sarà:

RT = p·Q = [50 – (1/2)·Q]·Q = 50·Q - (½) Q2

RMG = 50 – Q

CMG = 4·Q

la condizione di ottimo è:

RMG = CMG

50 – Q = 4·Q → Q = 50/5 = 10 10 è la quantità che il monopolista deve vendere per massimizzare i profitti. Inoltre notiamo una cosa: Noi ipotizziamo che esiste una relazione tra CMG e PMGL, nel senso che:

CMG = LPMG

w

la condizione di massimo profitto del monopolista può quindi essere scritta anche così:

RMG = CMG

δQ

δpQ + p =

w

PMGL

p

Q

δQ

δp+p 1 =

w

PMGL

Ma sappiamo pure che:

εD = Q

p

δp

δQ

e quindi possiamo scrivere:

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95

Dε+p

11 =

LPMG

w

da cui si ricava:

L

D

PMG

w

ε+

=p

11

1

il termine

Dε+

11

1rappresenta il mark-up sul costo unitario di produzione e il

temine LPMG

wè il costo unitario di produzione (in realtà, come si è detto prima,

sarebbe uguale al costo marginale ma con rendimenti costanti di scala le due configurazioni di costo tendono a coincidere, ciò è ammissibile in considerazione del fatto che le imprese monopoliste sono generalmente imprese di grosse dimensioni che sfruttano largamente le economie di scala). Quest'ultima equazione ci fa capire in che modo si determina il prezzo per un'impresa dotata di potere di monopolio: il prezzo corrisponde al costo unitario di ogni merce moltiplicato per un mark-up (ricarico, o margine di profitto) che sarà tanto maggiore quanto meno elastica è la domanda dei consumatori. Notiamo inoltre che in monopolio p > CMG cioè è maggiore del prezzo concorrenza. Rappresentiamo graficamente l'equilibrio del monopolista: Come abbiamo detto il monopolista ha di fronte l'intera domanda di mercato. Inoltre, possiamo tracciare la curva del RMG sotto la curva di domanda. Perché il RMG si traccia al disotto della curva di domanda?

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In concorrenza perfetta l'impresa poteva aumentare la Q di una unità e come RMG otteneva il prezzo “pieno” della unità in più venduta. Quindi in concorrenza perfetta D ≡ RMG. Invece in monopolio l'impresa ottiene RMG < p, poiché per vendere deve ridurre il prezzo sulle altre unità. Per cui, visto che la domanda esprime il prezzo, RMG si situa sotto di essa. Il che risulta chiaramente anche dall'esempio di prima: p = 50 – (1/2)·Q domanda RMG = 50 – Q Ricavo marginale

p

Q

D

50

50 100

RMG

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Per determinare l'equilibrio del monopolista, aggiungiamo ora, alle curve di domanda e del RMG, le curve di costo che non cambiano rispetto alla concorrenza perfetta. Il punto di ottimo E è determinato dall'intersezione del CMG e del RMG. Esso individua la quantità prodotta ed offerta che consente di massimizzare il profitto, dato il prezzo che la domanda di mercato è disposta a pagare per questa quantità e i costi di produzione. Il massimo profitto coincide con l'area rettangolare p*BFA che è la differenza tra i ricavi totali p*BQ*O e i costi totali AFQ*O. È da notare che il surplus del consumatore è HBp* ed è più piccolo di quello che si avrebbe in concorrenza perfetta (dove i consumatori pagherebbero un prezzo pc pari al CMG di produzione in cambio di una quantità maggiore di Q* e corrispondente all'ascissa del punto C). Confrontiamo dunque il punto E e il punto C. Rispetto all'impresa in concorrenza il monopolista dunque: 1) produce meno; 2) vende ad un prezzo più alto; 3) gode i un profitto superiore; 4) riduce il surplus

p,

CM,

CMG

Q

CMG

CM p*

Q*

B

A

E

O

F

D RMG

H

C pc

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del consumatore. Per tutti questi motivi alcuni neoclassici ritengono che il monopolio danneggi l'economia e che vada quindi contrastato con opportune leggi anti-trust. Ma esistono casi nei quali il monopolista può essere soggetto a fenomeni di concorrenza da parte di altre imprese? Si. Si parla in tal caso di concorrenza monopolistica. In queste circostanze il monopolio è solo temporaneo. Il monopolista infatti non è protetto da barriere all'entrata e quindi può accadere che dei concorrenti entrino nel mercato. La conseguenza è che la domanda (la curva D) si abbassa fino a quando il profitto diventa pari a zero: Π = 0. Equilibrio di lungo periodo della concorrenza monopolistica:

p,

CM,

CMG

Q

CMG

CM

pE

QE

E

O

D

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OLIGOPOLIO L'impresa in concorrenza perfetta e l'impresa monopolistica presentano una caratteristica comune: non si pongono problemi di strategia, cioè problemi nei quali le azioni di ognuno dipendono anche da ciò che si prevede che facciano gli altri. Il problema della strategia e del complesso rapporto tra azioni e reazioni diventa invece fondamentale nel caso in cui il mercato sia caratterizzato da una situazione di oligopolio, cioè di poche grandi imprese. Per analizzare il comportamento della impresa oligopolista si adopera una tecnica particolare, detta teoria dei giochi, elaborata, tra gli altri, dal premio Nobel per l’economia John Nash. Si tratta di una teoria che si propone di analizzare le strategie delle imprese oligopoliste nei rapporti di concorrenza ma anche i giochi (come gli scacchi) oppure le strategie militari o diplomatiche, etc. Applichiamo la teoria dei giochi al caso di due imprese: la RAI e MEDIASET, la cui attività consiste nel vendere spazi pubblicitari nei propri palinsesti. Il problema per RAI e MEDIASET è di scegliere se adottare una strategia

conflittuale oppure cooperativa. La strategia conflittuale consiste in:

1) ingenti spese per mettere in palinsesto film e spettacoli che attirino il pubblico

2) prezzi di vendita degli spazi bassi pubblicitari bassi per attirare le imprese 3) fare lobbying per ottenere legislazioni favorevoli a sé e dannose per gli

l'avversario. La strategia conflittuale è molto costosa, ma se coglie impreparato l'avversario può dare notevoli vantaggi. La strategia cooperativa invece consiste:

1) nell'accordarsi son il “nemico” (che diventa “partner”) per spartirsi il mercato senza conflitti (la strategia cooperativa costa poco ma espone al rischio di un attacco da parte del “partner”).

Supponiamo che RAI e MEDIASET si trovino ad esempio nella situazione descritta dalla seguente tabella. I valori, detti pay-off, indicano i profitti attesi da RAI e MEDIASET a seconda delle situazioni:

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100

La matrice dei pay-off indica i profitti attesi dalle due aziende a seconda delle strategie adottate. Ad esempio: se RAI coopera e MEDIASET confligge, RAI ottiene profitti pari a zero e MEDIASET 10 miliardi. E così via. Si può dimostrare che il conflitto, sotto date condizioni, è la strategia dominante, cioè quella che sarà preferita da ciascuno indipendentemente dalle scelte dell'altro. Infatti dal punto di vista della RAI: se MEDIASET confligge → alla RAI conviene confliggere se MEDIASET coopera → alla RAI conviene confliggere Lo stesso discorso vale per MEDIASET. Risultato: entrambe le imprese sceglieranno il conflitto. L’equilibrio corrisponderà dunque alla combinazione (2, 2). Questo è detto equilibrio non cooperativo di Nash. È interessante notare che si perviene a questo equilibrio nonostante che esso generi per entrambe le imprese un risultato peggiore rispetto al caso della cooperazione. In certi casi tuttavia il risultato non-cooperativo è inevitabile, poiché la tentazione di defezione da un accordo o anche solo la paura della defezione dell'altro giocatore spinge entrambi al conflitto. Se tuttavia il gioco è “ripetuto” le cose possono cambiare: la cooperazione può diventare più probabile.

MEDIASETconflitto cooperazione

RAIconflitto 2, 2 10, 0

cooperazione 0, 10 6, 6

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101

3.16 Dalla microeconomia alla macroeconomia neoclassica Abbiamo detto che mentre i classici e Marx facevano partire le loro analisi direttamente dallo studio del comportamento delle classi sociali, al contrario i neoclassici fondavano le loro teorie sull'individualismo metodologico. Essi quindi partivano sempre dallo studio del comportamento del singolo individuo: il singolo consumatore, il singolo lavoratore, la singola impresa, ecc. Finora, studiando i neoclassici, abbiamo fatto esattamente questo: abbiamo infatti visto in che modo il singolo consumatore punta a massimizzare l'utilità, in che modo la singola impresa punta a massimizzare il profitto, ecc. Il fatto però che i neoclassici si concentrino sul comportamento dei singoli non gli impedisce di gettare uno sguardo sul funzionamento complessivo dell'intero sistema economico. Infatti, è vero che i neoclassici partono sempre dalla microeconomia, cioè dallo studio del comportamento dei singoli individui e dalle singole imprese. Ma è anche vero che essi ritengono possibile passare dalla

microeconomia alla macroeconomia, cioè allo studio dei grandi aggregati sociali e dell'economia nel suo complesso. Il passaggio dal micro al macro per i neoclassici consiste nella sommatoria dei comportamenti individuali (qualcosa del genere l'abbiamo già intravista esaminando il passaggio dalla domanda individuale alla domanda di mercato, ecc.). Si vengono così a creare i cosiddetti agenti rappresentativi, che sono espressione delle sommatorie dei comportamenti individuali. Seguendo questo intento diventa possibile costruire un modello neoclassico di tipo macroeconomico, che ci consente di studiare l'economia nel suo complesso, e che quindi ci permette di esaminare l'andamento di variabili importantissime come la disoccupazione, l'inflazione, i salari, i tassi d'interesse, ecc.

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Il modello macroeconomico che studieremo è ispirato alla teoria della disoccupazione di Arthur C. Pigou del 1933. Come vedremo, questo modello perviene a risultati tipicamente liberisti, che saranno poi criticati da Keynes. L'analisi viene qui effettuata sulla base di quattro ipotesi semplificatrici:

1) concorrenza perfetta: i singoli agenti (le imprese, lavoratori, etc. ...) sono troppo “piccoli” e troppo numerosi per avere un potere di mercato.

2) Consideriamo l'economia di una nazione autarchica, cioè chiusa agli scambi con l'estero.

3) Si produce un solo bene (es. grano). 4) Studiamo solo il cosiddetto breve periodo (cioè consideriamo un periodo

di tempo limitato, un anno o poco più, in cui la quantità di capitale è data). Ovviamente tali ipotesi semplificatrici possono essere rimosse (alcune le rimuoveremo), ma per ora le manterremo per non complicare l'analisi. Il modello macroeconomico neoclassico esamina il sistema economico di una nazione, preso nel suo complesso, suddividendolo in quattro grandi mercati:

− mercato del lavoro − mercato dei beni − mercato dei titoli (cioè dei prestiti) − mercato monetario.

3.17 La domanda di lavoro Iniziamo l'analisi del mercato del lavoro, esaminando la domanda di lavoro delle imprese. Attenzione: in economia il gergo è opposto rispetto al senso comune, nel senso che le imprese domandano lavoro e i lavoratori offrono lavoro. Definiamo: Y produzione nazionale, P prezzo della merce prodotta, W salario

monetario dei lavoratori, N numero dei lavoratori occupati. Da notare che W/P indica il salario reale dei lavoratori, cioè il potere d'acquisto del salario. Es. se il salario mensile è W = 1000 € e se il prezzo di un kg di grano è P=10 € allora i lavoratori ogni mese possono comprare W/P = 1000/10 = 100 kg di grano. Tracciamo ora la funzione di produzione di una ipotetica impresa “rappresentativa” data dalla sommatoria di tutte le imprese della nazione:

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103

La funzione di produzione ha la solita forma dettata dalla legge della produttività marginale del lavoro decrescente, dato il capitale K. Dalla funzione di produzione si può ricavare appunto la curva della produttività marginale (PMGL) decrescente. Ora, è facile dimostrare che la curva della PMGL decrescente corrisponde

esattamente alla domanda di lavoro delle imprese. Noi sappiamo che in concorrenza perfetta le imprese massimizzano il profitto solo se:

P = CMG Ma sappiamo pure che il CMG = W/PMGL per cui possiamo scrivere:

P = LPMG

W → P·PMGL= W

da cui:

PMGL = P

W

L'impresa continua ad assumere finché i lavoratori aggiuntivi rendono più di quanto costano, cioè fino a quando PMGL > W/P, e raggiunge il livello ottimale

di assunzioni nel momento in cui il lavoro rende esattamente quanto costa: PMGL = W/P. Se l’impresa andasse avanti con le assunzioni, si troverebbe con lavoratori che costano più di quanto rendono, il che non converrebbe.

Y

N

10

18

24 28 31 32

1 2 3 4 5 6

Y = Y(N)

N

1

4 3

8

6

10

1 2 3 4 5 6

PMGL

PMGL

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Ora, sappiamo che in concorrenza perfetta le imprese sono piccole e numerose e quindi non hanno potere di mercato. Esse sono price-takers. Il mercato dunque determinerà i prezzi P e i salari W di equilibrio e le imprese si adegueranno ad essi. Dunque, nel grafico che esprime la PMGL possiamo fissare un ipotetico W/P dato esogenamente dal mercato: Quale sarà il numero di lavoratori che l'impresa domanderà? È chiaro che sarà N1. Per N0 → PMGL > W/P conviene aumentare N (c'è ancora margine) Per N2 → PMGL < W/P conviene diminuire N (si produce in perdita) Per N1 → PMGL = W/P è soddisfatta la condizione di massimo profitto Abbiamo così dimostrato che la curva della PMGL corrisponde esattamente alla curva di domanda di lavoro delle imprese: ND = PMGL. Quindi la domanda di lavoro ND è decrescente rispetto al salario reale: se W/P aumenta allora ND si riduce, se w/P diminuisce allora la ND aumenta.

3.18 L'offerta di lavoro degli individui Consideriamo un individuo “rappresentativo”, “sommatoria” di tutti i lavoratori della nazione. Su un grafico poniamo sugli assi l’offerta di lavoro N e la quantità

N

PMGL2

PMGL0

PMGL1= w/P

N0

N1

N2

PMGL

w/P, PMGL

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105

di prodotto che i lavoratori possono comprare Y, e tracciamo le curve di indifferenza del lavoratore. L'ipotesi è che abbiamo a che fare con un bene (le merci prodotte e acquistate Y) e con un male (la fatica derivante dal lavoro N). Dunque lo scopo dei lavoratori è di massimizzare l'utilità situandosi il più possibile in alto a sinistra. Sullo stesso grafico tracciamo pure la retta del vincolo di bilancio dei lavoratori. È chiaro che questi potranno acquistare un ammontare di beni Y che dipende dalla quantità di lavoro N erogato e dal salario W/P, secondo l'equazione: Y = (W/P)·N vincolo di bilancio dei lavoratori Il livello del salario reale W/P è determinato in modo esogeno dal mercato: anche i lavoratori non hanno potere di mercato, e quindi sono price-takers. Il vincolo di bilancio ci dice che, a parità di W/P, se N aumenta ciò implica un incremento della produzione Y acquistabile e consumabile dai lavoratori (si tratta di un movimento lungo la retta di bilancio). Oppure, se a parità di N aumenta W/P, allora i lavoratori potranno acquistare più merce senza bisogno di aumentare la quantità di lavoro erogato (la retta di bilancio, in questo caso, ruota verso sinistra e verso l'alto, in senso antiorario con centro nell'origine degli assi).

N

Y

w/P

Y = (w/P)·N

N*

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106

Come si vede dal grafico precedente, dato il vincolo di bilancio (e quindi dato il livello di W/P determinato dal mercato), i lavoratori possono determinare la

quantità di lavoro (N*) che massimizza la loro utilità, cioè che li colloca sulla curva di indifferenza più alta possibile. Il punto ottimo è quello in cui la curva d’indifferenza è tangente al vincolo di bilancio.Vediamo ora cosa accade se si verifica un aumento esogeno del salario reale W/P:

N

Y

(w/P)0

Y = (w/P)1·

N

N

w/P

Y = (w/P)0·

N

(w/P)1

N0

N1

N0

N1

Ns

(w/P)1

(w/P)0

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L'aumento del salario reale da (w/P)0 a (w/P)1 fa ruotare il vincolo di bilancio in senso antiorario e modifica quindi il punto di ottimo. La conseguenza è che i lavoratori si rendono disponibili a offrire più lavoro (da N0 a N1). Possiamo quindi riportare i livelli del salario reale e i corrispondenti livelli di lavoro offerto dagli individui su di un grafico sottostante. Otteniamo così la curva di offerta di lavoro (Ns) da parte di lavoratori. La curva di offerta è crescente: se w/P aumenta, allora Ns cresce, se w/P diminuisce, allora Ns si riduce. In tal caso, cioè, un aumento del salario reale induce le famiglie a rinunciare al tempo libero per lavorare di più e poter quindi consumare di più. Si dice al riguardo che al crescere del salario reale prevale l’effetto di sostituzione del tempo libero con il consumo. Questo risultato, si badi, dipende dalla forma della funzione di utilità. Se l’utilità avesse una forma diversa, potrebbe anche accadere che al crescere del salario reale le famiglie decidano di riposare di più. In questa diversa circostanza si direbbe che prevale l’effetto reddito: avendo un salario più alto le famiglie preferiscono aumentare il tempo libero. In un caso del genere l’offerta di lavoro diventerebbe decrescente. Esercizio: lo studente verifichi che con una diversa forma delle funzioni di utilità l’offerta di lavoro può risultare decrescente anziché crescente. 3.19 L'equilibrio del mercato del lavoro

N

w/P

E

N*

NS

(w/P)*

ND

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I neoclassici sostengono che le forze del libero mercato, lasciate a sé stesse,

porteranno automaticamente a quel salario reale (w/P)* che garantisce l'equilibrio tra domanda (ND) e offerta (NS) di lavoro. L’equilibrio così determinato, è detto equilibrio naturale. Supponiamo infatti che il salario reale di mercato sia (w/P)0. In corrispondenza di questo salario si ha un eccesso di offerta di lavoro rispetto alla domanda di lavoro:

(w/P)0 → NS > ND

Questa è una situazione di disoccupazione. I lavoratori che si offrono al salario reale vigente sono NS

0 ma le imprese assumono solo ND0. C'è quindi un numero di

disoccupati involontari pari al segmento NS0-N

D0.

N

w/P

E

N*

NS

(w/P)*

ND

ND

0 NS

0

(w/P)0

A B

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Questi disoccupati si dicono involontari perché al salario di mercato vigente

(w/P)0 essi vorrebbero lavorare ma un lavoro non lo trovano. Per i neoclassici

tuttavia questa situazione è solo temporanea. Il meccanismo di mercato condurrà spontaneamente il sistema all'equilibrio nel punto E. I lavoratori disoccupati, infatti, sono in concorrenza tra loro e con i lavoratori occupati, e quindi eserciteranno una pressione verso il basso sui salari, che farà aumentare la domanda di lavoro ND e diminuire l'offerta NS fino all'equilibrio. La riduzione di W/P provoca:

− un aumento della domanda di lavoro ND: riducendosi il costo del lavoro le imprese possono assumere lavoratori aggiuntivi, che hanno una produttività marginale inferiore.

− Una riduzione dell'offerta di lavoro NS: alcuni lavoratori, vedendo che il salario si riduce, ritengono che il gioco non valga la candela e scelgono di ritirarsi dal mercato.

In corrispondenza dell'equilibrio (E) la domanda di lavoro ND è uguale all'offerta NS (cioè E → ND=NS ). Tutti i lavoratori disposti a lavorare (ad offrire lavoro) al salario reale vigente (w/P)* troveranno una corrispondente domanda di lavoro e quindi la caduta del salario si arresta. Si noti che in corrispondenza di E non ci sono più disoccupati involontari: le forze spontanee del mercato hanno

permesso di riassorbire la disoccupazione involontaria. Restano però dei disoccupati volontari, ossia coloro che al salario vigente non sono disposti a lavorare ma che si renderebbero disponibili ad un salario maggiore: si tratta del segmento NS

0-N*. I neoclassici tuttavia sostengono che i disoccupati volontari hanno liberamente

scelto di non lavorare. E quindi essi non dovrebbero costituire una priorità, né sul piano analitico né su quello politico. L'importante per i neoclassici è che il mercato sia in grado di assorbire spontaneamente la disoccupazione involontaria, cioè sia in grado di garantire un posto a tutti i lavoratori disposti a lavorare al salario di mercato di equilibrio. Visto che in equilibrio il sistema riesce ad eliminare la disoccupazione involontaria, allora si può affermare che l’equilibrio naturale neoclassico è un equilibrio di piena occupazione. E’ bene tener presente che questo risultato dipende dalle inclinazioni delle funzioni di domanda e di offerta di lavoro. Se le inclinazioni cambiano, può accadere che il meccanismo spontaneo del mercato non sia più in grado di determinare l’equilibrio. Per esempio, se prevale il cosiddetto effetto reddito, allora un aumento del salario reale provoca una riduzione dell’offerta di lavoro delle famiglie: in questo caso, anche l’offerta di lavoro ha un andamento

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decrescente rispetto al salario.2 Ora, se l’offerta di lavoro è anche più “piatta” della domanda di lavoro, può accadere che con un salario reale più alto del salario di equilibrio si abbia che l’offerta è minore della domanda, e quindi, anziché diminuire, il salario aumenta ulteriormente. Si parla in questo caso di un equilibrio instabile. In tal caso, è evidente che le forze spontanee del mercato non sono in grado di determinare l’equilibrio, e quindi non possono eliminare la disoccupazione involontaria. Per escludere questa scomoda circostanza i neoclassici solitamente assumono che l’effetto sostituzione prevalga sempre sull’effetto reddito delle famiglie. Esercizio: lo studente verifichi che se la curva di offerta di lavoro è decrescente ed è più “piatta” della domanda di lavoro, le variazioni del salario reale non consentono di raggiungere l’equilibrio. In che modo il modello neoclassico spiegava la Grande Depressione degli anni ’30? Come è noto, Pigou elaborò questo modello nel 1933, allo scopo di fornire una interpretazione neoclassica del fenomeno della crisi che in quella fase storica attanagliava le economie occidentali. In particolare, bisognava spiegare la presenza di tanti disoccupati, che in Gran Bretagna erano passati dal già elevato 10% del 1929 al 20% del 1933, e negli Stati Uniti da un basso 3% nel 1929 alla enorme cifra del 25% nel 1933. Per Pigou, ovviamente, non li si poteva considerare tutti disoccupati volontari. A suo avviso, dunque, il problema verteva sul comportamento dei sindacati. Secondo Pigou, le forze sindacali impedivano che il salario si riducesse fino al livello di equilibrio. I sindacati cioè

“inchiodavano” il sistema economico nel punto A del grafico precedente bloccando il libero operare delle forze del mercato e generando disoccupazione involontaria pari ad AB. Secondo la visione di Pigou, dunque, la disoccupazione

involontaria corrisponde a un fenomeno di squilibrio tra domanda e offerta di lavoro. Questa spiegazione tuttavia sembra contrastare con il fatto che negli anni della grande crisi il potere dei sindacati non fu così pervasivo come Pigou sosteneva: per esempio, negli Stati Uniti i salari monetari diminuirono in tutti i settori, il che solleva dubbi sulla effettiva capacità di “resistenza” delle forze sindacali. In difesa di Pigou, si potrebbe obiettare che in quel periodo i prezzi diminuirono anche più dei salari monetari, con un conseguente aumento dei salari reali. Ma non andò esattamente così. In realtà i salari reali diminuirono in agricoltura e in diversi altri settori. E in altri paesi il calo salariale fu anche più accentuato e diffuso.

2 La tesi secondo cui un aumento del salario reale potrebbe ridurre l’offerta di lavoro risale addirittura al XVII secolo. Alcuni esponenti di una corrente pre-classica, detta “mercantilista”, in particolare, ritenevano che un aumento delle retribuzioni avrebbe indotto i lavoratori “al vizio e all’ozio”, e li avrebbe resi meno produttivi e meno partecipi al lavoro.

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Gli esponenti contemporanei della teoria neoclassica, come Edward Prescott ed altri, hanno allora cercato di proporre una interpretazione alternativa della elevata disoccupazione degli anni ’30. L’analisi di questi studiosi è detta dell’equilibrio

continuo del mercato. A loro avviso, in sostanza, un punto come A non rappresenta un punto di squilibrio, ma indica sempre un punto di equilibrio, cioè un punto di intersezione tra le curve di domanda e offerta verso il quale l’una e l’altra si sono mosse. Nella sostanza, possiamo affermare che questo tipo di analisi assume che negli anni della crisi le curve di offerta e di domanda di lavoro si siano spostate. Per esempio, si può supporre che la curva di offerta abbia subito una traslazione verso sinistra e verso l’alto, a causa di un cambiamento nelle

funzioni di utilità delle famiglie che implica una maggiore preferenza verso il tempo libero. In altri casi questi studiosi parlano di spostamenti della domanda di lavoro causati da shock nella produttività. Questo tipo di spiegazioni, per certi versi sorprendente, ha goduto di un certo successo in campo accademico e ha consentito a Prescott di conquistare il Premio Nobel nel 2004. Tuttavia essa ha pure suscitato accese critiche. Interpretata in termini estremi, infatti, l’impostazione dell’equilibrio continuo pretenderebbe di ricondurre qualsiasi cambiamento nei livelli di occupazione a mutamenti nelle preferenze degli individui o a shock nella produttività. In quest’ottica, il mercato del lavoro si trova sempre in un punto di intersezione tra domanda e offerta, per cui la

disoccupazione involontaria viene sempre esclusa. Inoltre, è interessante notare che questa interpretazione esclude tutte le possibili cause alternative della disoccupazione. Vengono cioè negati, anche in via solo temporanea, i problemi derivanti da un crollo della domanda di merci e dalla conseguente necessità delle imprese di licenziare. Ma in sostanza viene anche negata la rilevanza dei sindacati nel generare la crisi, sulla quale invece si soffermavano i vecchi neoclassici. La teoria dell’equilibrio continuo dei neoclassici contemporanei risulta oggi minoritaria in ambito accademico. L’attuale mainstream , cioè la visione oggi prevalente, si basa sui contributi degli esponenti della moderna “sintesi neoclassica”, come Olivier Blanchard ed altri. Come vedremo in seguito, questi studiosi ritengono che le fluttuazioni della domanda di merci abbiano effetti sulla disoccupazione, sia pure temporanei. Inoltre essi ritengono che anche in condizioni di equilibrio possa esservi una situazione di disoccupazione involontaria, a causa di una serie di imperfezioni del mercato. Vedremo in seguito che questa tesi costituisce per certi versi una novità sia rispetto ai vecchi che ai nuovi neoclassici.

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112

3.20 Dal mercato del lavoro al mercato dei beni Prima di approfondire gli sviluppi successivi, occorre però completare l’analisi del modello neoclassico di Pigou. Si pone infatti il problema di chiarire i legami tra l’analisi del mercato del lavoro e l’analisi degli altri mercati. A questo scopo, partendo dall’occupazione di equilibrio determiniamo il livello di produzione corrispondente:

N

w/P

E

N*

NS

(w/P)*

ND

N

Y

N*

Y = Y(N)

Y*

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113

Una volta determinato l'equilibrio sul mercato del lavoro, è noto il numero dei lavoratori occupati N*. Noto il numero degli occupati, in base alla funzione di produzione Y=Y(N) si può determinare il livello di produzione Y* di equilibrio. Una volta determinato il livello di produzione, si pone il problema fondamentale: cosa garantisce che l'intera produzione Y* venga assorbita dalla domanda? Chi ci assicura cioè che le imprese riescano a vendere tutta la merce prodotta. La questione è cruciale: è chiaro infatti che l'equilibrio di pena occupazione può reggere solo se Y* viene venduto interamente. I neoclassici rispondono a questo interrogativo attraverso due proposizioni: 1) per ogni data produzione Y realizzata le imprese distribuiscono alle famiglie dei lavoratori e capitalisti un reddito Y di importo equivalente (attenzione: ciò significa che Y rappresenta sia la produzione nazionale sia il reddito nazionale). 2) Le famiglie di lavoratori e capitalisti, una volta ricevuto il reddito Y, lo

spendono interamente per l'acquisto della produzione. Ora, se le famiglie dei lavoratori e dei capitalisti spendessero tutto il loro reddito per l'acquisto di beni di consumo, non vi sarebbe alcun problema. Ma nella realtà le famiglie spendono per consumi (C) solo una parte del reddito, mentre un'altra

IMPRESE FAMIGLIE

Y

reddito Y

produzione

spesa di tutto il reddito

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parte la risparmiano (S). Dunque poiché una parte del reddito nazionale viene risparmiata, a quanto pare una parte della produzione resterà invenduta. Infatti, visto che produzione e reddito sono equivalenti la produzione sarebbe interamente acquistata solo se tutto il reddito venisse speso. I neoclassici reagiscono a questo problema sostenendo che la parte di reddito che le famiglie risparmiano verrà interamente prestata alle imprese che useranno questo reddito per fare

investimenti (I), cioè per acquistare mezzi di produzione (macchine, impianti, ecc.). Dunque, ricapitolando: dall'equilibrio del mercato del lavoro emerge un livello di produzione Y corrispondente alla piena occupazione. Tale produzione sarà interamente venduta solo se viene rispettata questa condizione:

produzione = domanda Y = C + I

C + S = C + I S = I

Ma chi ci garantisce che S e I saranno uguali? Dopotutto si tratta di decisioni

prese da soggetti diversi. La risposta dei neoclassici è che il tasso di interesse i garantirà il perfetto equilibrio tra S e I. Infatti: - Le famiglie decidono tra C e S in base a i. Se i aumenta le famiglie riducono i consumi e S aumenta. - Le imprese decidono I in base al costo dei prestiti i. Se i aumenta, allora I si riduce. Quindi possiamo tracciare due funzioni, S e I. Le forze spontanee del mercato, lasciate a sé stesse, garantiranno un tasso di interesse di mercato i tale che S=I.

S, I

i

E

I*=S*

S

i*

I

I0 S0

i0

A B

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Dunque così come il salario reale W/P garantisce l'equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, così il tasso di interesse i garantisce l'equilibrio tra risparmi S e investimenti I (ossia, C+S = C+I e Y = C+I). Con ciò i neoclassici dimostrano che l'equilibrio di piena occupazione è stabile, visto che la produzione di piena occupazione sarà interamente assorbita dalla domanda, o come domanda di C o come domanda di I. Se si lascia fare al mercato, non sussiste alcun rischio di

merci invendute. 3.21 La teoria quantitativa della moneta Le conclusioni del modello macroeconomico neoclassico possono esser definite di stampo “liberista”. Le forze del mercato, lasciate a sé stesse, garantiscono il pieno impiego dei lavoratori e l'acquisto dell'intera produzione realizzata. L'intervento statale al fine di aumentare l’occupazione è dunque considerato inutile: se c'è disoccupazione, la responsabilità è dei sindacati. Non solo: i neoclassici puntano a dimostrare che l'intervento delle autorità di politica economica può anche essere dannoso. Un esempio in questo senso è dato dalla teoria neoclassica della moneta, detta teoria quantitativa, elaborata da Irving Fisher (1911). Per esaminare questa teoria definiamo: M quantità di moneta (banconote) creata dalla Banca Centrale. V velocità di circolazione della moneta (numero di volte che ogni banconota passa di mano in un anno P livello dei prezzi Y produzione Definiamo quindi: con MV la quantità di moneta complessivamente offerta in un anno. Infatti, se moltiplichiamo il numero di banconote per il numero delle volte che ogni banconota passa di mano, è chiaro che calcoliamo il totale della moneta offerta e scambiata in un anno. Con PY definiamo il valore della produzione offerta e scambiata, cui corrisponde ovviamente una quantità equivalente di moneta domandata in cambio. Possiamo dunque stabilire che:

MV = PY

Questa al momento è una mera tautologia, cioè una ovvietà contabile. È chiaro infatti che a fronte del totale della moneta MV scambiata corrisponderà il valore della produzione PY scambiata (che coincide con il totale della moneta

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domandata). I neoclassici tuttavia trasformano la tautologia in una teoria imponendo delle ipotesi: M è data dalle autonome decisioni della banca centrale V è data dalle abitudini di pagamento della produzione Y è data dall'equilibrio di piena occupazione sul mercato del lavoro. L'unica incognita dell’equazione, dunque, è il livello dei prezzi P:

PY = MV

MY

V=P

Questa equazione ci dice che, dati V e Y, se la banca centrale decide di aumentare M, l'unico effetto di questa decisione sarà un aumento del livello dei prezzi P. L’azione di politica monetaria della banca centrale crea solo inflazione. Il risultato dipende strettamente dall'ipotesi di piena occupazione. Infatti, se la Banca Centrale aumenta M in circolazione, gli individui disporranno di più moneta. Essi quindi useranno la moneta per comprare merci. Ma essendo la produzione già al livello di piena occupazione allora non potrà aumentare. Di conseguenza, di fronte all'incremento di domanda di merci le imprese finiranno per aumentare P. L'intervento politico della Banca Centrale, magari finalizzato a stimolare la domanda, ad aumentare Y e l'occupazione N, in realtà è inutile (Y è già al pieno impiego) ed è pure dannoso (poiché genera inflazione). Le conclusioni del modello sono ancora una volta liberiste: - neutralità della moneta: cioè irrilevanza della moneta ai fini della determinazione delle variabili “reali”, ossia le variabili fisiche, come la produzione e l’occupazione; - e si può trarre anche un orientamento restrittivo della politica monetaria, visto che si può ottenere una riduzione dei prezzi senza determinare effetti negativi sulla produzione e sull’occupazione. 3.22 Il sistema di equazioni del modello macroeconomico neoclassico Riportiamo il modello macroeconomico neoclassico completo. Esso è costituito dalle seguenti 9 equazioni in 9 incognite:

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NS = NS (W/P) ND = ND(W/P) NS = ND

Y = Y(NS) S = S(i) I = I(i) S = I MV = PY W = (W/P)·P Esempio: l’economia è descritta dalle seguenti equazioni. NS = 60 + (W/P) ND = 120 – 2 (W/P) NS = ND

Y = (NS)1/2

S = 2 + i I = 11 – 2 i S = I 45 · 2 = P·Y W = (W/P)·P Soluzione: 60 + (W/P) = 120 – 2 (W/P) 3 (W/P) = 120 – 60 W/P = 60/3 = 20 NS = 60 + 20 = 80

Y = (80)1/2 = 980 ≅ S = I → 2 + i = 11 – 2 i → 3 i = 9 → i = 9/3 = 3 S = I = 2 + 3 = 5 P·Y = 45·2 = 90 → P·9 = 90 → P = 90 / 9 = 10 w = (w/P)·P = 20 * 10 = 200

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3.23 La crisi di fiducia secondo i neoclassici Notiamo un'ultima cosa. Supponiamo che si verifichi una crisi di fiducia delle imprese, che determina un peggioramento delle aspettative di profitto futuro. Di conseguenza, gli imprenditori riducono gli investimenti I. Per i neoclassici, il gioco delle forze del mercato e il connesso movimento del tasso di interesse rimetterà in equilibrio il sistema. Infatti il tasso di interesse si ridurrà portando in equilibrio il risparmi e investimenti. Alla riduzione dei risparmi corrisponderà subito un aumento dei consumi che compenserà la riduzione degli investimenti. Il che significa che la domanda complessiva di merci non si riduce, e quindi la produzione e l’occupazione rimangono ai livelli di equilibrio naturale.

S, I

i

S

I

I'

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Ma se volessimo tornare ai livelli di investimento precedenti? Basterà che l'orientamento al risparmio delle famiglie aumenti: con l'aumento dei risparmi delle famiglie (la curva dei risparmi S ora si sposta verso destra) si ridurrebbe il tasso di interesse e quindi aumenterebbero gli investimenti. La virtù della

parsimonia è dunque considerata la giusta risposta a una crisi, e più in generale il fattore chiave dell'accumulazione e dello sviluppo economico.

S, I

i

S

I

I'

S'

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120

IV

DISPENSE INTEGRATIVE DEL MANUALE DI BLANCHARD

4.1 Una specificazione del modello di determinazione della produzione di

equilibrio Nei primi tre capitoli del libro di Blanchard avete studiato il modello di determinazione della produzione di equilibrio, in funzione del livello della domanda di merci. Blanchard ritiene che questo modello valga solo nel breve periodo, e sotto condizioni piuttosto restrittive. Noi pensiamo invece che tale modello abbia una valenza esplicativa più vasta, e quindi riteniamo opportuno approfondirne qui le caratteristiche. Come sapete, la struttura di partenza del modello è questa. La domanda complessiva di merci è data dalla spesa per beni di consumo, dalla spesa per beni d’investimento e dalla spesa pubblica:

GICZ ++= Dove la spesa per consumi è data da:

)(10 TYccC −+=

mentre investimenti, spesa pubblica e tasse possono essere considerati esogeni, cioè dati dalle decisioni autonome delle imprese e del governo. La condizione di equilibrio tra produzione e domanda è dunque:

ZY =

Ricordiamo che il termine Y sta ad indicare sia il livello della produzione di merci realizzata, sia il reddito distribuito. Produzione e reddito infatti sono sempre

equivalenti, dal momento che il valore della produzione venduta finisce

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interamente, sotto forma di reddito, nelle mani dei capitalisti e dei lavoratori che hanno concorso a realizzarla. Dunque un aumento della produzione realizzata e venduta deve sempre corrispondere ad un aumento equivalente del reddito distribuito ai capitalisti e ai lavoratori che hanno concorso alla sua realizzazione. Ecco perché, nel definire Y, noi useremo indifferentemente sia il termine “produzione” che il termine “reddito”. Detto ciò, torniamo alla condizione di equilibrio tra produzione domanda Y = Z. Effettuando le sostituzioni e dopo qualche passaggio matematico:

TcGIcYc

TcGIcYcY

GITYccY

GICY

101

101

10

)1(

)(

−++=−

−++=−

++−+=

++=

alla fine si ottiene:

)(1

1)1( 10

1

TcGIcc

Y −++−

=

che è appunto l’equazione di equilibrio sul mercato dei beni, vale a dire dell’equilibrio tra produzione e domanda. Il termine tra parentesi è detto spesa autonoma (poiché include le componenti della spesa dette autonome, nel senso che non dipendono dal reddito), mentre il termine 1/1-c1 è detto moltiplicatore della spesa autonoma. Conoscendo i livelli delle variabili esogene che concorrono a determinare la domanda di merci (cioè I, G, T, c0 e c1), questa equazione consente di determinare il livello di equilibrio della produzione Y. Ovviamente l’equazione può essere modificata per calcolare non i livelli ma direttamente le variazioni. Si può cioè ipotizzare che le componenti della domanda si modifichino, e si può desiderare di calcolare la variazione della produzione che ne consegue. In tal caso l’equazione diventa:

)(1

1)2( 10

1

TcGIcc

Y ∆−∆+∆+∆−

=∆

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Chiaramente può ben darsi che tra le variabili che compongono la domanda solo una si modifichi mentre le altre rimangono costanti. Supponiamo ad esempio che si verifichi una “crisi di fiducia” da parte delle imprese sulle loro aspettative di profitto. Gli imprenditori risultano cioè sfiduciati sull’andamento futuro dell’economia, temono che venderanno poco e quindi ritengono che riusciranno a conseguire ben pochi profitti. In tal caso essi non avranno alcuna intenzione di espandere la loro attività, e quindi decideranno di ridurre gli investimenti (cioè decideranno di ridurre la domanda di nuovi macchinari e impianti).3 Ciò significa che gli investimenti si riducono (quindi ∆I<0), mentre c0, G e T per ipotesi restano costanti (e quindi ∆c0 = ∆G = ∆T = 0). L’equazione (2) allora diventa:

Ic

Y ∆−

=∆11

1

Ovviamente, poiché abbiamo assunto che la variazione degli investimenti sia negativa, anche la variazione della produzione lo sarà: ∆Y<0. Il termine ∆Y indica dunque la riduzione della produzione causata da una riduzione della domanda di beni d’investimento. Date queste equazioni, possiamo adesso effettuare alcuni esempi numerici.

ESEMPIO N.1: determinazione della produzione di equilibrio, date le componenti della domanda. Ipotizziamo, a scopo puramente esemplificativo, che le componenti autonome della domanda di merci e la propensione al consumo all’interno del paese esaminato assumano i seguenti valori:4

3 E’ sempre importante distinguere tra investimenti produttivi e investimenti finanziari. Nel linguaggio corrente quando si parla genericamente di “investimenti” di solito ci si riferisce agli investimenti finanziari, cioè all’acquisto di titoli da parte dei risparmiatori. Invece, salvo specificazioni, quando parlano di “investimenti” gli economisti si riferiscono agli investimenti produttivi, cioè agli acquisti di nuovi macchinari, impianti e attrezzature da parte delle imprese. In questo caso stiamo dunque parlando di investimenti produttivi delle imprese. 4 Le componenti autonome della domanda c0, I, G, T sono espresse in miliardi di euro. La propensione al consumo c1 indica invece la quota del reddito Y che viene consumata, e quindi può essere espressa come una frazione (ad esempio c1=0,5=1/2 significa che i cittadini del paese esaminato tendono a consumare il 50% del loro reddito e a risparmiare il restante 50%).

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123

2/15,0

100

100

200

50

1

0

==

=

=

=

=

c

T

G

I

c

Sostituendo questi valori nella equazione (1), otteniamo il livello di equilibrio della produzione:

600

)300(2

)100)2/1(10020050(2/11

1

=

=

−++−

=

Y

Y

Y

ESEMPIO N.2: la crisi di fiducia. Supponiamo ora che si verifichi una “crisi di fiducia” sulle prospettive di profitto, e quindi che gli investimenti delle imprese si riducano. Ipotizziamo ad esempio che adesso I = 150. Ciò significa che, rispetto al valore precedente, gli investimenti si sono ridotti di 50 miliardi. Possiamo dunque usare l’equazione (1) per calcolare il nuovo livello della produzione, tenendo conto del nuovo livello di I. Avremo:

500

)250(2

)100)2/1(10015050(2/11

1

=

=

−++−

=

Y

Y

Y

La produzione è adesso pari a 500 miliardi, rispetto ai 600 realizzati prima della crisi. Alternativamente possiamo anche calcolare direttamente la variazione ∆Y, senza bisogno di calcolare i livelli. Sapendo che gli investimenti si sono ridotti di ∆I = − 50, mentre per ipotesi ∆c0 = ∆G = ∆T = 0, sostituendo questi valori nella equazione (2) otteniamo:

100

)50(2

)50(2/11

1

−=∆

−=∆

−−

=∆

Y

Y

Y

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La produzione dunque si è ridotta di 100 miliardi (che corrispondono appunto alla differenza tra il valore iniziale di 600 e quello successivo alla crisi di 500). Insomma, la crisi innesca una caduta della domanda di merci, la quale costringe le imprese a ridurre la produzione. Ed è chiaro che questo dovrebbe implicare anche una serie di licenziamenti e quindi una riduzione del numero degli occupati. Il calo della domanda comporta dunque un calo della produzione e un aumento della disoccupazione. Si noti che, a fronte di una riduzione iniziale della domanda di merci (e in particolare di beni d’investimento) pari a 50, alla fine si assiste ad una riduzione della produzione di 100. La produzione cioè varia più di quanto sia variata inizialmente la domanda. Si ricordi che questo fenomeno è dovuto al moltiplicatore della spesa autonoma. Il moltiplicatore tende ad accentuare la variazione iniziale della spesa autonoma. Il meccanismo tramite il quale esso agisce è il seguente: nel momento in cui la domanda di macchinari si riduce, le imprese che producono i macchinari non riescono a venderli e quindi sono costrette a licenziare; i lavoratori divenuti disoccupati non disporranno più di un reddito, e quindi ridurranno a loro volta i consumi; ciò provocherà una serie di licenziamenti anche presso le imprese che producono beni di consumo; ci saranno pertanto altri lavoratori disoccupati costretti a ridurre le loro spese, il che provocherà ulteriori cali di produzione e licenziamenti, e così via. Alla fine di questo processo cumulativo il calo della domanda e della produzione risulterà per l’appunto “moltiplicato” rispetto al calo iniziale degli investimenti. 4.2 Il paradosso del risparmio

Abbiamo appena esaminato una caduta degli investimenti e quindi della produzione e dell’occupazione. Alcuni economisti di stampo liberista talvolta hanno affermato che per rimediare a un calo degli investimenti occorre aumentare i risparmi. L’idea è che le famiglie consumano troppo e quindi forniscono poco risparmio alle imprese per il finanziamento degli investimenti. Secondo questa visione, solo se la popolazione riduce il consumo e decide di rendere disponibili maggiori risparmi per le imprese, queste ultime potranno usarli per aumentare gli investimenti in nuovi macchinari e attrezzature e rendere così più efficiente e produttiva l’economia. Stando a questa concezione – che era molto in voga tra gli economisti liberisti dell’Inghilterra “vittoriana” di fine ‘800 e che oggi pare tornata di moda - è solo attraverso le virtù della parsimonia e dell’astinenza dai

consumi, che si può uscire da una crisi e sviluppare l’economia.

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Questa visione è stata fortemente criticata da John Maynard Keynes, autore della Teoria generale del 1936. Keynes, che scriveva in un’epoca di grave crisi economica mondiale, sostenne che il tentativo di risollevare l’economia riducendo i consumi per aumentare i risparmi avrebbe soltanto peggiorato la situazione economica. In particolare, Keynes mise in luce l’esistenza di un “paradosso del

risparmio”, che andava contro i luoghi comuni dei teorici dell’astinenza: il paradosso infatti evidenzia che se si riducono i consumi la produzione non aumenta ma si riduce, ed inoltre i risparmi non aumentano ma restano invariati. Per comprendere il senso della critica di Keynes, applichiamo la ricetta dei liberisti e vediamo cosa accade. Supponiamo che per uscire dalla crisi si decida di ridurre il consumo autonomo c0. Si spera che in tal modo i consumi si riducano, i risparmi aumentino e quindi vi siano più risorse finanziarie per riattivare gli investimenti delle imprese e per rilanciare la produzione. Ma al di là degli auspici, quali saranno gli effetti reali di questa riduzione del consumo autonomo? Come vedremo, gli effetti sono due: la domanda, la produzione e il reddito si riducono, mentre il risparmio resta invariato. Dimostriamo questi risultati riprendendo l’equazione (1) della produzione di equilibrio:

)(1

1)1( 10

1

TcGIcc

Y −++−

=

Da questa equazione rileviamo facilmente che la riduzione di c0 implica una riduzione della domanda di merci e quindi anche della produzione, dell’occupazione e del reddito. Si viene pertanto a determinare un effetto esattamente opposto a quello auspicato, e questo per una ragione molto semplice: gli economisti che intendono applicare le ricette dell’epoca “vittoriana”, e che propongono quindi la riduzione dei consumi e l’aumento dei risparmi per risollevare l’economia, non tengono conto del fatto che se si riducono i consumi si determina un calo ulteriore di domanda, di produzione, di occupazione e di reddito, e quindi un aggravamento della crisi. Ma c’è di più. E’ possibile infatti dimostrare che, contrariamente alle attese, la riduzione del consumo autonomo non riesce nemmeno a provocare un aumento dei risparmi. Il che in effetti sembra strano, nel senso che di fronte a un calo dei consumi pare naturale attendersi un aumento corrispondente dei risparmi. Per spiegare questo apparente “paradosso” prendiamo l’equazione del risparmio S. Questo è dato dal reddito al netto delle tasse, meno i consumi:

CTYS −−=

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da cui, sostituendovi l’equazione del consumo, otteniamo:

))(1(

)(

10

10

TYccS

TYccTYS

−−+−=

−−−−=

Da quest’ultima equazione possiamo trarre le seguenti considerazioni. Vediamo subito che la riduzione del consumo autonomo dà luogo a due effetti contrastanti: da un lato essa provoca effettivamente un aumento diretto del risparmio S; dall’altro lato, però, come abbiamo visto prima, al diminuire di c0 si verifica pure una riduzione della domanda, quindi una riduzione della produzione e del reddito Y e dunque anche un calo del risparmio S. Il che dopotutto è ovvio: la caduta dei consumi provoca cali di produzione e di occupazione, ed è chiaro che se aumentano i disoccupati questi si ritroveranno senza reddito e quindi anche senza possibilità di risparmiare. La riduzione del consumo autonomo produce dunque due effetti contrastanti sul risparmio: uno diretto che è positivo, e l’altro mediato dalla domanda e dal reddito che invece è negativo. Ma quale dei due effetti tende a prevalere? Alla fine si dimostra che i due effetti si elidono a vicenda, e quindi il risparmio non subisce alcun mutamento in seguito alla riduzione del consumo autonomo. Infatti, partendo dalla equazione dell’equilibrio tra produzione e spesa:

GICY ++= Sottraendo a destra e a sinistra T e C, otteniamo:

TGICTY −+=−− Ma il termine a sinistra corrisponde proprio al risparmio S, e quindi possiamo scrivere:

TGIS −+= Ora, si vede chiaramente che in equilibrio il risparmio dipende esclusivamente dagli investimenti delle imprese e dalla spesa pubblica al netto delle tasse. Ma questi come è noto sono tutti dati esogeni. Per cui, se questi dati non si modificano, nemmeno il risparmio può modificarsi, nonostante che il consumo autonomo si sia ridotto. Ecco dunque dimostrato il paradosso del risparmio.

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ESEMPIO N.3: il paradosso del risparmio. Il fatto che la riduzione del consumo autonomo non riesca a risollevare l’economia, ma provochi al contrario un calo di produzione e lasci pure del tutto invariato il risparmio, può essere verificato tramite un esempio numerico. Supponiamo che, dopo la crisi di fiducia e la caduta degli investimenti, si cerchi di risollevare l’economia tramite una riduzione di c0 da 50 a 40 miliardi. I dati dunque sono:

2/15,0

100

100

150

40

1

0

==

=

=

=

=

c

T

G

I

c

Calcoliamo la produzione di equilibrio:

480

)240(2

)100)2/1(10015040(2/11

1

=

=

−++−

=

Y

Y

Y

Rileviamo subito che la riduzione del consumo autonomo, anziché migliorare la situazione, ha provocato un ulteriore calo della produzione. Vediamo infine cosa è accaduto al risparmio. Data l’equazione del risparmio riportata in precedenza: ))(1( 10 TYccS −−+−=

calcoliamo innanzitutto il livello del risparmio prima della riduzione del consumo autonomo, cioè con c0 = 50 e Y = 500:

150)100500)(2/11(50 =−−+−=S Ricalcoliamo quindi il risparmio dopo la riduzione del consumo autonomo, cioè con c0 = 40 e Y = 480:

150)100480)(2/11(40 =−−+−=S Come si vede, la riduzione del consumo autonomo non ha provocato alcun effetto sul risparmio, visto che il calo di c0 è perfettamente compensato dal calo di domanda e quindi di Y. Il “paradosso” è dunque confermato. Per uscire dalla crisi occorre cercare altre strade. Ad esempio, come vedremo, la politica espansiva.

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4.3 Spesa pubblica, tassazione e teorema di Haavelmo sul bilancio in pareggio

ESEMPIO N.4: una politica di espansione della spesa pubblica. E’ chiaro che la crisi di fiducia, e la conseguente riduzione della domanda e della produzione, avranno scatenato un’ondata di licenziamenti, e avranno quindi accresciuto la disoccupazione. In tal caso le autorità politiche potrebbero cercare di effettuare politiche espansive, al fine di aumentare la domanda di merci ed uscire così dalla crisi. Supponiamo ad esempio che le autorità di governo decidano di aumentare la spesa pubblica. Ad esempio, possiamo assumere che la spesa pubblica diventi G = 150, ossia aumenti di ∆G = 50 rispetto al suo valore iniziale di 100. Dunque ora abbiamo:

2/15,0

100

150

150

50

1

0

==

=

=

=

=

c

T

G

I

c

Utilizzando sempre l’equazione (1), possiamo calcolare il nuovo livello di equilibrio della produzione:

600

)300(2

)100)2/1(15015050(2/11

1

=

=

−++−

=

Y

Y

Y

Si noti che, grazie all’aumento della spesa pubblica, il governo è riuscito a riportare l’economia al livello di produzione antecedente alla crisi. Ovviamente lo stesso calcolo poteva essere direttamente effettuato sulle variazioni, senza passare per il calcolo dei livelli. Sapendo che ∆G = 50, e assumendo sempre per ipotesi che ∆c0 = ∆I = ∆T = 0, usando la (2) otteniamo:

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100

)50(2

)50(2/11

1

=∆

=∆−

=∆

Y

Y

Y

che corrisponde esattamente all’aumento della produzione dal livello di 500 causato dalla crisi al nuovo livello di 600 generato dall’espansione della spesa pubblica. Si noti che il moltiplicatore della spesa autonoma funziona non solo “in negativo”, come nel caso precedente, ma anche “in positivo” come in questo caso. Infatti, al governo è bastato un aumento di spesa pubblica di 50 per ottenere un aumento finale della produzione di 100. Posto ad esempio che il governo abbia speso 50 miliardi per la costruzione di nuovi edifici scolastici, evidentemente avrà impiegato nei cantieri dei lavoratori che precedentemente erano disoccupati e quindi nullatenenti. Questi lavoratori, essendo occupati, adesso dispongono di un reddito e quindi potranno aumentare a loro volta i consumi, il che farà aumentare l’attività delle imprese produttrici di beni di consumo, e dunque anche l’occupazione di ulteriori lavoratori presso di esse, e così via. Alla fine l’aumento della spesa complessiva, e conseguentemente anche della produzione e degli occupati necessari a realizzarla, è maggiore della spesa pubblica iniziale. Si noti che il moltiplicatore, rappresentato dal termine 1/1-c1, genera effetti tanto più intensi quanto maggiore è la propensione al consumo. Ad esempio, se c1 aumenta da 1/2 a 2/3 il motiplicatore 1/1-c1 aumenta da 2 a 3 e quindi tende ad accentuare la variazione iniziale della spesa autonoma. La spiegazione è semplice: se i lavoratori hanno una forte propensione a consumare, allora nel momento in cui vengono assunti e retribuiti tratterranno poco reddito per fini di risparmio e tenderanno a spenderne molto per consumi. Ciò significa che solo una piccola parte del reddito resterà giacente nei portafogli, mentre la maggior parte verrà rimessa nel circuito economico, il che darà luogo ad un elevato effetto moltiplicativo sulla domanda e sulla produzione. ESEMPIO N.5: una politica di riduzione della tassazione. In effetti, per stimolare la domanda di merci e uscire così dalla crisi, il governo potrebbe anche ridurre le tasse anziché aumentare la spesa pubblica. Le tasse sono fondamentali per finanziare l’amministrazione dello Stato e i servizi essenziali come l’ordine pubblico, la sanità, l’istruzione, ecc. Al tempo stesso però esse sottraggono reddito ai singoli cittadini, e quindi tendono a deprimere le loro spese per consumi privati. Abbattendo la tassazione, il governo può quindi lasciare ai privati una maggiore disponibilità di reddito, e permette ad essi di accrescere la domanda di merci. In sostituzione di ∆G = 50, il governo può dunque decidere di ridurre le

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130

tasse di ∆T = − 50. Senza bisogno di calcolare il livello, soffermiamoci direttamente sulla variazione della produzione che consegue alla riduzione delle tasse. Sapendo che ∆T = − 50, e che per ipotesi ∆c0 = ∆I = ∆G = 0, sostituendo questi valori nella equazione (2):

)(1

110

1

TcGIcc

Y ∆−∆+∆+∆−

=∆

otteniamo che:

50

)25(2

))50)(2/1(000(2/11

1

=∆

=∆

−−++−

=∆

Y

Y

Y

A questo punto è fondamentale notare una differenza tra la politica precedente, di espansione della spesa pubblica, e la politica appena esaminata, basata sulla riduzione delle tasse. L’aumento di spesa pubblica pari a 50 aveva infatti provocato un aumento complessivo della produzione pari a 100. In questo caso, invece, una riduzione delle tasse di 50 (ovvero una riduzione di pari entità rispetto all’aumento della spesa pubblica) provoca un aumento della produzione di soli 50 miliardi, ossia molto minore. Dunque la politica basata sulla espansione della spesa pubblica G risulta più efficace della politica fondata sulla riduzione delle tasse T. Quali sono le cause di questa diversa efficacia? La risposta può essere individuata osservando nuovamente l’equazione (2):

)(1

110

1

TcGIcc

Y ∆−∆+∆+∆−

=∆

Da questa equazione si rileva chiaramente che mentre le variazioni di G si scaricano interamente sulla produzione Y, invece solo la percentuale c1 delle variazioni di T si ripercuote su Y. La ragione è che se il governo aumenta ad esempio G di 50 miliardi, questi si trasformeranno interamente in maggiore spesa (es. per la costruzione di edifici scolastici, di strade, ecc.) e quindi anche in maggiore produzione e in maggiore reddito per i lavoratori che partecipano alla produzione. Al contrario, se il governo riduce T di 50 miliardi, i cittadini effettivamente si ritroveranno con un reddito disponibile maggiore, ma di questo maggiore reddito essi ne spenderanno soltanto una parte. Ad esempio, se la propensione al consumo è c1 = 1/2, questo significa che i cittadini spendono solo il 50% dei loro redditi a fini di consumo, mentre accantonano l’altro 50% sotto forma di risparmio. Dunque, se a seguito di una riduzione delle tasse i cittadini si

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trovano con 50 miliardi in più di reddito disponibile, essi ne spenderanno solo 25 e quindi alla fine questa politica darà luogo ad un aumento di domanda e di produzione inferiore rispetto a quella basata sulla spesa diretta del governo. La maggiore efficacia di G rispetto a T può essere formalizzata attraverso il cosiddetto teorema di Haavelmo sul bilancio in pareggio. Per descrivere il teorema, partiamo dalla seguente ipotesi: per evitare di aggravare il disavanzo pubblico il governo intende finanziare tutti gli aumenti di spesa pubblica con uguali incrementi della tassazione. Il disavanzo (detto anche deficit) di bilancio pubblico è dato infatti dall’eventuale eccesso di spese dello Stato G rispetto alle entrate fiscali T. (3) Deficit pubblico = G - T Se si vuole evitare questo disavanzo, se cioè si vuole mantenere il bilancio pubblico in pareggio, occorre che G e T siano uguali e si muovano assieme. Ossia, partendo da una ipotetica situazione di pareggio, per mantenerla occorre che: ∆G = ∆T. A prima vista si potrebbe pensare che questo tipo di politica non provochi alcun effetto sul livello di equilibrio della produzione Y. Si può infatti presumere che l’espansione della domanda di merci causata dall’aumento di G venga perfettamente neutralizzata dalla riduzione della domanda causata dal pari aumento di T. In realtà, contrariamente alle apparenze, il teorema di Haavelmo dimostra che la politica basata sul bilancio in pareggio (cioè su ∆G = ∆T) dà luogo a un incremento di Y. Per dimostrare questo teorema partiamo dalla equazione (2), che ci dice di quanto varia Y al variare delle componenti autonome della domanda, cioè nel nostro caso al variare di G e di T:

)(1

110

1

TcGIcc

Y ∆−∆+∆+∆−

=∆

Se assumiamo che gli investimenti e i consumi autonomi non mutino, allora si ha che ∆c0 = ∆I = 0 e quindi possiamo riscrivere l’equazione nel seguente modo:

)(1

11

1

TcGc

Y ∆−∆−

=∆

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Ma noi sappiamo pure che, per ipotesi, il governo sta effettuando una politica di bilancio in pareggio, per cui ∆G = ∆T. Possiamo quindi sostituire il termine ∆T con ∆G e ottenere:

Gc

cY

Gcc

Y

GcGc

Y

∆−−

=∆

∆−−

=∆

∆−∆−

=∆

1

1

11

11

1

)1(

)1(1

1

)(1

1

da cui, semplificando numeratore e denominatore della frazione, si ottiene:

GY ∆=∆ Abbiamo dunque dimostrato che, con ∆G = ∆T, le due politiche non si neutralizzano a vicenda ma hanno invece un effetto positivo sulla produzione. Più precisamente, l’aumento di Y sarà esattamente pari all’aumento iniziale di

spesa pubblica. Ma perché l’aumento delle tasse, pur essendo identico all’aumento della spesa pubblica, non riesce a neutralizzare quest’ultima? La ragione è sempre la stessa. L’aumento di spesa pubblica ∆G si traduce interamente in spesa e quindi in un aumento della produzione. Invece l’uguale aumento delle tasse ∆T, pur rappresentando una sottrazione di reddito ai privati, se fosse rimasto nelle tasche di questi sarebbe stato speso non interamente ma solo in parte, ossia nella percentuale data dalla propensione al consumo c1. Alla fine dunque l’effetto espansivo della spesa prevale sull’effetto restrittivo delle

tasse, e quindi domanda e produzione aumentano. 4.4 Il finanziamento del disavanzo pubblico e il Trattato di Maastricht

Abbiamo appena esaminato una politica basata sull’obiettivo di mantenere il pareggio di bilancio pubblico, finanziando gli incrementi di spesa pubblica G con uguali incrementi delle entrate fiscali T. E’ possibile tuttavia che un governo possa essere spinto ad effettuare delle spese in disavanzo (detto anche deficit). Dall’equazione (3) noi sappiamo che il deficit pubblico si viene a creare quando la spesa pubblica eccede le entrate fiscali. Ci sono varie ragioni per cui questo eccesso di spesa può venirsi a creare. In primo

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luogo, è possibile che le autorità politiche siano indotte ad effettuare maggiori spese per tentare di stimolare l’attività produttiva e quindi l’occupazione. Inoltre, più in generale, i governi possono essere sottoposti a vari tipi di pressioni politiche. Alcuni gruppi sociali chiederanno infatti di accrescere la spesa pubblica (magari per migliorare i servizi sanitari, scolastici, i trasporti pubblici, ecc.), altri reclameranno una riduzione della tassazione. Di conseguenza è possibile che di fronte a simili spinte contrastanti le autorità politiche finiscano per generare deficit pubblici, ossia eccessi sistematici delle spese sulle entrate. Quando uno Stato si trova in una situazione di deficit, può finanziare le spese eccedenti in due modi. Il primo modo consiste nel farsi prestare denaro dai privati, ossia nell’indebitarsi con i privati vendendo loro titoli del debito pubblico (esempio tipico sono i BOT); in tal caso si avrà una emissione di nuovi titoli, e quindi un aumento del debito pubblico, che qui definiremo con il termine ∆B. Il secondo modo di finanziamento verte sulla creazione di nuova moneta, ossia sulla stampa di banconote da parte della banca centrale; in tal caso si avrà un aumento dell’offerta di moneta, che qui definiremo con ∆M. Dunque, in linea di principio, dato un certo livello del deficit pubblico G - T, si potrà finanziarlo con una pari variazione del debito pubblico, o della quantità di moneta, oppure di una combinazione dei due:

MBTG ∆+∆=− Fino alla seconda metà degli anni ’70, era prassi abbastanza consolidata favorire l’espansione della spesa pubblica al di là delle entrate fiscali attraverso l’aumento del debito e la creazione di moneta. Questo orientamento ha indubbiamente dato luogo a un’espansione dell’apparato burocratico dello Stato. D’altro canto esso ha pure consentito ai governi di finanziare politiche di espansione della spesa pubblica per accrescere la domanda e quindi la produzione e l’occupazione. Inoltre, la medesima impostazione ha favorito lo sviluppo del cosiddetto “stato sociale”, vale a dire dell’istruzione e della sanità pubblica garantita a tutti i cittadini, e dei sistemi di previdenza e di assistenza sociale per i meno abbienti. Tuttavia a partire dagli anni ’80 si è imposto un diverso orientamento, talvolta definito “liberista”, teso ad impedire le politiche espansive e a contrastare la crescita del bilancio statale attraverso l’introduzione di rigidi vincoli all’aumento

del debito pubblico e della massa monetaria. Il Trattato di Maastricht del 1991, che ha dato avvio al progetto della moneta unica europea, è stato fortemente ispirato da questa impostazione liberista. Infatti, tra le altre cose, ai paesi membri dell’Unione monetaria europea il Trattato

impone i seguenti divieti: 1) il divieto per la Banca centrale europea di finanziare i deficit pubblici tramite creazione di moneta, un divieto che può essere facilmente espresso in termini algebrici nel seguente modo:

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0=∆M

e 2) il divieto per gli stati membri dell’Unione monetaria di finanziare i deficit pubblici tramite emissione di titoli oltre il vincolo del 3% del Pil (che corrisponde al livello di produzione Y). Questo secondo divieto può essere espresso algebricamente nel modo che segue. Partiamo dalla definizione del deficit pubblico. In tal caso esso coincide con la sola emissione di nuovi titoli del debito pubblico, visto che il Trattato esclude il finanziamento tramite creazione di moneta:

BTG ∆=− dividiamo tutto per il Pil, ossia per il livello di produzione Y:

Y

B

Y

TG ∆=

Infine, introduciamo il vincolo del 3% imposto dal Trattato di Maastricht:

%)3(03,0 ≤≤∆

=−

ossiaY

B

Y

TG

ESEMPIO N.6: verifica del rispetto o meno del vincolo del 3% del Trattato di Maastricht. Se prendiamo i dati del terzo esempio precedente - nel quale si cercava di rimediare a una crisi di fiducia tramite la spesa pubblica – si può verificare se quella situazione rispetti o meno il vincolo del Trattato. Sapendo che G = 150, che T = 100 e che il livello di equilibrio della produzione è Y = 600, otteniamo:

%3,8083,0600

100150==

−=

−Y

TG

Dunque ci troviamo di fronte a un livello del deficit pubblico che in base al Trattato dovremmo considerare “eccessivo”, poiché esso andrebbe ben al di là del limite del 3% previsto dagli accordi europei. Anziché accrescere la spesa pubblica il paese dovrà dunque ridurla per rientrare nei limiti del Trattato, nonostante la già bassa domanda causata dalla crisi. L’esempio chiarisce che il vincolo del Trattato può mettere in seria difficoltà un paese attraversato da una crisi, poiché impedisce di rimediare ad essa tramite l’espansione della spesa pubblica.

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Gli economisti di orientamento liberista tendono a difendere i divieti al finanziamento dei deficit pubblici imposti dal Trattato di Maastricht. Molti di essi infatti auspicano che i divieti del Trattato comprimano il bilancio pubblico e quindi riducano la presenza dello Stato nell’economia. Altri economisti, talvolta ispirati dalle opere eterodosse di Marx e di Keynes, hanno invece criticato i divieti imposti dal Trattato di Maastricht. Essi ritengono che tali vincoli impediscano di effettuare politiche espansive e quindi costringano i paesi membri dell’Unione monetaria europea in una situazione di bassa domanda e quindi di bassa produzione e occupazione. Gli stessi economisti ritengono inoltre che tali divieti, restringendo il bilancio statale, provocheranno una drammatica riduzione della produzione di beni e servizi pubblici destinati ai cittadini europei, e soprattutto ai lavoratori e alle fasce sociali più deboli. Viene dunque sollecitata una riforma del Trattato di Maastricht, che elimini o almeno attenui i vincoli vigenti. La grave crisi economica in corso potrebbe in effetti dare man forte alle loro tesi, costringendo le istituzioni europee a rivedere almeno le clausole più controverse del Trattato. 4.5 La politica monetaria e il Trattato di Maastricht Fino a questo momento abbiamo assunto che, a seguito di una crisi di fiducia e di una conseguente caduta degli investimenti delle imprese, il governo intervenga attraverso una politica di espansione della spesa pubblica e/o di riduzione delle tasse. Tuttavia è anche possibile che in una situazione del genere intervenga la banca centrale al posto del governo (o al limite in concerto con esso). Ad esempio, in Europa la Banca centrale europea (BCE) potrebbe esser chiamata a un intervento per contrastare la crisi, negli Stati Uniti questo compito spetta alla Federal Reserve (FED), ecc. Quando c’è una crisi la banca centrale interviene con una politica monetaria

espansiva, cioè con un aumento della quantità di moneta M in circolazione. La banca centrale può decidere di aumentare M al fine di ridurre il tasso d’interesse. La riduzione dei tassi d’interesse rappresenta infatti una riduzione del costo dei prestiti e può quindi stimolare le imprese a chiedere finanziamenti alle banche per riattivare gli investimenti, e con essi la domanda di merci e quindi la produzione e l’occupazione. Ma qual è la relazione che lega un aumento della quantità di moneta in circolazione a una riduzione del tasso d’interesse? La spiegazione grafica - basata sulla intersezione tra la curva di domanda di moneta e l’offerta di moneta - è

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molto semplice, e può essere facilmente rintracciata nel capitolo 4 del manuale di Blanchard. Qui però ci soffermiamo sulla spiegazione economica, cioè concreta, del fenomeno. La procedura solitamente adottata dalla banca centrale per modificare la quantità di moneta circolante è la cosiddetta operazione di mercato aperto, che non è altro che una operazione di compravendita di titoli e di moneta sul mercato finanziario. La banca centrale entra cioè in relazione con gli operatori privati che agiscono su quel mercato. Ad esempio, se l’obiettivo è di ridurre il tasso d’interesse e stimolare così l’economia, allora la banca centrale dovrà da un lato offrire moneta e dall’altro domandare titoli. In questo modo infatti la banca centrale crea un eccesso di domanda di titoli sul mercato che farà aumentare il

prezzo dei titoli stessi (come accade per i prezzi di tutte le merci, anche i prezzi dei titoli aumentano se c’è un eccesso di domanda, mentre diminuiscono se c’è un eccesso di offerta). Assumiamo ora che i titoli sul mercato siano “a reddito fisso”. Un caso tipico di titoli a reddito fisso sono i titoli di Stato, emessi dai governi per farsi prestare denaro dai privati (per esempio in Italia abbiamo i BOT). Un titolo a reddito fisso è definito così poiché alla scadenza di fine anno chi lo ha emesso è tenuto a pagare sempre la stessa somma al proprietario del titolo, ad esempio 100 euro. Dunque il tasso d’interesse su questo titolo sarà dato dalla differenza tra rendimento e costo del titolo, cioè sarà dato dalla cedola di 100 euro che il proprietario ottiene alla scadenza di fine anno, meno il prezzo al quale il proprietario ha acquistato il titolo, il tutto diviso per il medesimo prezzo:

T

T

P

Pi

−=

100

Questa formula ovviamente può essere riscritta così:

1100

−=TP

i

Per esempio, se un operatore privato compra al prezzo di 95 euro un titolo che a fine anno darà una cedola fissa di 100 euro, è chiaro che il tasso di interesse del titolo sarà pari a i = 100/95 – 1 = 0,052 = 5,2%. La formula chiarisce la relazione inversa tra prezzo del titolo e tasso d’interesse: una operazione di mercato aperto basata su una maggiore offerta di moneta e su una maggiore domanda di titoli da parte della banca centrale, farà aumentare il prezzo di mercato PT del titolo e quindi (visto che il denominatore della frazione

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aumenta) farà diminuire il tasso d’interesse i. Il che del resto è ovvio: l’operazione espansiva della banca centrale fa aumentare il prezzo di mercato del titolo, ma al tempo stesso il rendimento assoluto che il titolo garantisce è rimasto fisso a 100 euro. Pertanto, dopo l’operazione della banca centrale accade che chi compra il titolo sul mercato lo paga di più, ma alla fine ottiene sempre la stessa somma di cento euro. Pertanto è chiaro che il tasso d’interesse – cioè il rendimento percentuale del titolo rispetto al prezzo - si riduce. In generale possiamo quindi scrivere che le operazioni di mercato aperto della banca centrale possono essere: Operazioni espansive

La banca centrale offre moneta e domanda titoli

Conseguenza: eccesso di domanda di titoli

PT ↑ i ↓

Operazioni restrittive

La banca centrale domanda moneta e offre titoli

Conseguenza: eccesso di offerta di titoli

PT ↓ i ↑

Abbiamo dunque chiarito il rapporto intercorrente tra quantità di moneta,

prezzo dei titoli e tasso d’interesse. Più in particolare, abbiamo mostrato in che modo la banca centrale può aumentare la moneta in circolazione, aumentare il prezzo dei titoli, ridurre il tasso d’interesse e cercare così di stimolare gli investimenti per far uscire l’economia da una situazione di crisi. Tuttavia, così come accadeva per le manovre sulla spesa pubblica e sulla tassazione, anche la politica monetaria risulta oggigiorno fortemente vincolata. Il Trattato di Maastricht, infatti, non solo vieta alla Banca centrale europea di finanziare i deficit pubblici con moneta, ma più in generale le impone di

perseguire politiche fortemente restrittive, al fine di contenere il più possibile l’inflazione. Il risultato è che la Bce difficilmente potrà decidere di espandere la moneta in circolazione al fine di ridurre i tassi d’interesse per dare sostegno alla domanda e alla produzione. Anche per questo motivo il Trattato di Maastricht è oggetto di numerose critiche.

4.6 Politica monetaria e speculazione Ma se anche i vincoli del Trattato venissero eliminati o attenuati, la politica monetaria espansiva potrebbe incontrare altri tipi di ostacoli in grado di renderla comunque inefficace.

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Un primo ostacolo risiede nel comportamento degli speculatori, vale a dire di quegli operatori privati che effettuano compravendite sul mercato finanziario al fine di lucrare guadagni dalle variazioni dei prezzi dei titoli. Gli speculatori cercano infatti di comprare quando ritengono che i prezzi dei titoli siano bassi e siano quindi destinati ad aumentare, e cercano invece di vendere quando ritengono che i prezzi siano alti e siano pertanto destinati a cadere. Gli speculatori cercano dunque di prevedere l’andamento futuro dei prezzi dei titoli, in modo da poter lucrare su di essi. A seconda che prevedano rialzi o cadute dei prezzi, essi si dividono in rialzisti (detti anche “tori”) e ribassisti (detti “orsi”). Qui di seguito sono riportati due esempi di strategie speculative, rispettivamente dei rialzisti e dei ribassisti: Caso A: I rialzisti scommettono su un aumento futuro di PT

Caso B: I ribassisti scommettono su una riduzione futura di PT

1) Mi faccio prestare 100∈ al tasso del 10% (quindi dovrò restituire 110∈) 2) Compro 50 titoli al prezzo corrente PT=2∈ 3) Attendo che il prezzo dei titoli aumenti 4) Rivendo i 50 titoli al nuovo prezzo PT=3∈ 5) Dalla vendita ricavo 150∈ 6) Restituisco i 110∈ dovuti al prestatore 7) Ed ottengo dunque 150 – 110 = 40∈ di guadagno speculativo netto.

1) Mi faccio prestare 50 titoli al tasso del 10% (quindi dovrò restituire i titoli più il 10% del loro valore corrente) 2) Vendo i 50 titoli al prezzo corrente PT=3∈ ed ottengo quindi 150∈ 3) Attendo che il prezzo dei titoli diminuisca 4) Ricompro i 50 titoli al nuovo prezzo PT=2∈ spendendo quindi 100∈ per l’acquisto 5) Restituisco i titoli al proprietario e pago anche un interesse di 15 (cioè il 10% dei 150∈ che valevano all’inizio) 6) Alla fine mi restano 150 – 100 - 15 = 35∈ di guadagno speculativo netto

Chiaramente questi esempi si riferiscono a situazioni in cui gli speculatori vedono confermate le loro attese. Ben diversa sarebbe la situazione se l’andamento dei prezzi non confermasse le previsioni di tali operatori. ESEMPIO N.7: speculazioni errate. Si calcoli il risultato netto del rialzista nel caso in cui il nuovo prezzo di mercato del titolo sia PT = 1∈ anziché PT = 3∈. Si calcoli poi il risultato netto del ribassista nel caso in cui il prezzo di mercato del titolo rimanga al livello iniziale PT = 3∈ anziché diminuire a PT = 2∈. Si

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verificherà che in queste diverse circostanze gli speculatori conseguono delle perdite in conto capitale. Descritto a grandi linee il comportamento degli speculatori, si tratta ora di capire in quale circostanza questi possono rendere inefficace una politica monetaria espansiva. La circostanza in questione è quella in cui sul mercato prevalgono

nettamente i ribassisti. Questi soggetti sono convinti che i titoli siano destinati a deprezzarsi, e quindi non vedono l’ora di liberarsi degli stessi non appena troveranno un acquirente. Pertanto, nel momento in cui la banca centrale interviene sul mercato offrendo moneta e domandando titoli, essa si ritroverà con una gran massa di operatori pronti a venderle tutti i titoli di cui dispongono. Questo significa che l’offerta di titoli da parte dei ribassisti sarà tale che non si verrà a creare nessun eccesso di domanda. La conseguenza è che il prezzo dei titoli non aumenta e il tasso d’interesse non diminuisce. La politica della banca centrale risulta quindi inefficace a causa dell’interferenza degli speculatori. In letteratura questo caso va sotto il nome di trappola della liquidità. Il nome indica quelle situazioni in cui molti operatori finanziari vanno a caccia di moneta liquida e cercano invece di liberarsi delle scorte di titoli, poiché ritengono che questi siano destinati a perdere valore. Essendo convinti di un prossimo ribasso dei prezzi dei titoli, gli operatori cercano di venderli e di ottenere in cambio moneta, detta anche liquidità. 4.7 Politica monetaria, movimenti di capitale e Tobin tax Esaminiamo ora alcuni problemi di economia aperta. Blanchard dedica alla questione parti importanti del suo libro. Tra i vari temi di economia aperta esaminati, vi è la possibilità o meno di attuare politiche monetarie espansive finalizzate a ridurre i tassi d’interesse. Questa possibilità, come vedremo, si riduce notevolmente quando sussiste libera circolazione internazionale dei capitali. Gli speculatori e gli altri operatori sui mercati finanziari, infatti, oltre a fare scommesse sui prezzi futuri sono anche alla continua ricerca sul mercato mondiale di titoli che assicurino il tasso d’interesse più elevato. Nel dopoguerra la ricerca da parte degli operatori privati di titoli ad elevato rendimento era comunque limitata a causa dell’esistenza di norme che ponevano rigidi vincoli e controlli ai movimenti di capitale da un paese all’altro. Tuttavia, con il passare degli anni questi vincoli sono stati via via rimossi. La conseguenza è che oggi sussiste quasi in tutto il mondo una situazione di libera circolazione dei capitali. E’ chiaro allora che in condizioni di piena libertà di movimento, i

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capitalisti finanziari cercano di spostare le loro ricchezze in quei paesi che

garantiscono i maggiori vantaggi, e in particolare assicurano tassi d’interesse più elevati rispetto agli altri. Tali movimenti di capitale si arrestano solo nel momento in cui i titoli dei vari paesi offrono il medesimo rendimento, al netto delle variazioni attese del tasso di cambio. La condizione sotto la quale gli spostamenti di capitale si interrompono, e che mette dunque in equilibrio i mercati, è proprio la condizione di arbitraggio o condizione di parità scoperta

dei tassi d’interesse. Blanchard ci dice che tale condizione è data da:

e

t

ttt

E

Eii

1

*)1(1+

+=+

dove la parte sinistra indica il rendimento i che si ottiene acquistando titoli nazionali, mentre la parte destra indica il rendimento i* derivante dall’acquisto di titoli esteri. Questo secondo rendimento, si badi, è calcolato includendo le eventuali variazioni del tasso di cambio nominale E.5 Finché la parte sinistra risulta inferiore alla parte destra dell’equazione, allora conviene spostare i capitali all’estero per acquistare titoli stranieri, che rendono di più. Viceversa, nel caso in cui la parte sinistra sia maggiore, conviene tenere i capitali in patria. Si comprende pertanto che se la banca centrale vuole evitare fughe di capitali

all’estero, dovrà sempre fissare un tasso d’interesse interno in grado di rispettare la condizione di parità scoperta, dati ovviamente il tasso prevalente all’estero e il tasso di cambio atteso. ESEMPIO N.8: il tasso minimo per evitare fughe di capitale. Assumendo che il tasso di cambio corrente sia dato da Et = 1,08$/1∈, che il tasso di cambio atteso sia Et+1 = 1$/1∈, e che il tasso d’interesse sui titoli USA sia i* = 0,1 (ossia il 10%), calcoliamo il tasso d’interesse i che la Banca centrale europea dovrà fissare per evitare fughe di capitale all’estero:

5 Attenzione: qui si fa l’ipotesi che il tasso di cambio nominale E sia definito in termini del prezzo della moneta nazionale in termini di moneta estera, dove per “nazionale” intendiamo l’Italia e più in generale l’Europa, mentre per “estero” intendiamo prevalentemente gli Stati Uniti. Cioè, dal punto di vista di noi italiani (ed europei), definiamo il cambio come prezzo di un euro in termini di dollari. Ad esempio, potremmo avere che E = 1,20$/1Є. Le versioni più recenti del manuale di Blanchard usano esattamente questa convenzione. Se invece si usa la definizione alternativa del cambio, come prezzo della moneta estera in termini di moneta nazionale, oppure se per “nazionale” si intendono gli USA (come accadeva nelle prime versioni del manuale di Blanchard tradotte in italiano), allora la formula della condizione di parità va invertita.

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188,11

1

08,1)1,01(1

=+

+=+

t

t

i

i

da cui si ricava che il tasso d’interesse europeo necessario ad evitare fughe di capitale negli Stati Uniti dovrà essere almeno pari a it = 0,188, cioè al 18,8%. Si noti che si tratta di un interesse più elevato di quello americano, che è pari al 10%. La ragione per cui in questo esempio la Banca centrale europea, se vuole evitare le fughe, deve fissare un tasso superiore a quello USA, è dovuta al fatto che ci si attende un deprezzamento dell’euro, ossia una sua perdita di valore rispetto al dollaro. Questa previsione incentiva gli operatori finanziari a spostare ricchezze negli Stati Uniti. Per indurli a non spostare le ricchezze occorre quindi che il tasso d’interesse europeo sia più alto di quello americano così da compensare la perdita che ci si attende dal deprezzamento del cambio. Chiaramente l’opposto avverrebbe se ci si attendesse un apprezzamento dell’euro: in tal caso la BCE potrebbe rispettare la condizione di parità anche con un tasso d’interesse inferiore a quello USA. Al di là dell’esempio specifico, è chiaro che l’esigenza di rispettare la condizione di parità scoperta dei tassi d’interesse costituisce un grave ostacolo per la politica economica nazionale, e in particolare per politica monetaria delle banche centrali. Queste infatti non potranno ridurre i tassi d’interesse a piacimento, visto che c’è sempre il rischio di provocare fughe di capitale. Una conseguenza è che in molte circostanze le banche centrali di paesi afflitti da crisi economiche interne non solo non hanno potuto ridurre i tassi d’interesse per tentare di stimolare l’economia, ma hanno addirittura dovuto aumentarli per evitare fughe di capitale (col rischio di aggravare ulteriormente la caduta della domanda interna e quindi la crisi). I vincoli alla politica monetaria espansiva causati dal pericolo di fughe di capitale hanno assunto in molte circostanze storiche un rilievo drammatico, a seguito del ripetersi di crisi valutarie ed economiche. Negli anni ’90 abbiamo avuto crisi valutarie e fughe di capitali in Europa, in Asia e in America Latina. Più di recente abbiamo registrato problemi simili in varie parti del mondo, inclusa nuovamente l’Europa. Sono state pertanto avanzate delle proposte per tentare di dare maggiore libertà di manovra alla politica monetaria dei singoli paesi. In particolare, è stata suggerita la reintroduzione di limiti, più o meno stringenti, alla circolazione dei capitali nel mondo. Una ben nota proposta in tal senso è la cosiddetta Tobin tax. Il nome deriva dal suo ideatore, il premio Nobel per l’economia James Tobin, che la propose per la prima volta nel 1972. Si tratta di un’imposta su tutti gli scambi tra valute finalizzata a rendere costosi, e quindi a disincentivare, gli spostamenti di capitale da un paese all’altro. Secondo Tobin, questa imposta avrebbe ridotto i

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movimenti speculativi internazionali di capitale e avrebbe dato alla politica monetaria di ogni paese maggiori margini di manovra. ESEMPIO N.9: la Tobin tax agevola la riduzione del tasso d’interesse interno. Supponiamo che l’Europa stia attraversando una fase di crisi e quindi di disoccupazione. La Banca centrale europea può esser dunque chiamata ad intervenire con una espansione monetaria, al fine di ridurre i tassi d’interesse, stimolare gli investimenti e quindi la domanda, la produzione e l’occupazione. Ipotizziamo che la situazione sia quella già descritta nell’esempio precedente. Come abbiamo visto, il tasso d’interesse necessario ad evitare le fughe di capitale è del 18,8%. Tuttavia per stimolare la domanda bisognerebbe ridurre ulteriormente il tasso d’interesse interno. Può l’introduzione di una Tobin tax rendere possibile tale riduzione? Per rispondere dobbiamo innanzitutto modificare la condizione di parità scoperta dei tassi d’interesse al fine di contemplare l’imposta. A questo proposito, noi sappiamo che l’acquisto di un titolo americano prevede i seguenti passaggi: in primo luogo la conversione da euro a dollari, quindi l’acquisto del titolo in questione ed infine, alla data di scadenza del medesimo, la riconversione da dollari ad euro del guadagno ottenuto. La Tobin tax è un’imposta sulle transazioni valutarie. Essa quindi si applicherà in due momenti: all’atto della conversione iniziale da euro a dollari, e all’atto della conversione finale da dollari ad euro. Posto che t sia l’aliquota d’imposta applicata ad ogni conversione, la condizione di parità scoperta diventa:

ttE

Eii

e

t

t

tt −−+=++

)1()1(11

*

Adesso inseriamo nella nuova condizione di parità i valori assunti dalle variabili. Immaginiamo in primo luogo che l’aliquota della Tobin tax venga fissata dalle autorità al livello t = 0,01 = 1%. Inseriamo inoltre i valori dell’esercizio precedente relativi al tasso d’interesse americano (i* = 0,1) e ai cambi corrente e atteso (rispettivamente Et = 1,08 ed Et+1 = 1). L’unica incognita rimasta è il tasso d’interesse interno it, che rappresenta il tasso minimo necessario ad evitare le fughe di capitale all’estero. Sostituendo le cifre alle variabili otteniamo:

166,11

01,0)01,01(1

08,1)1,01(1

=+

−−+=+

t

t

i

i

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E’ facile a questo punto verificare che, grazie all’introduzione della Tobin tax, il tasso interno necessario ad evitare le fughe di capitale si è ridotto, essendo diventato it = 0,166 = 16,6%. Dunque un’imposta dell’1% sul valore di tutti gli scambi di euro contro dollari e viceversa, renderà costosi gli spostamenti di capitale da un luogo all’altro, e quindi dovrebbe permettere alla Banca centrale europea di ridurre il tasso d’interesse interno dal livello iniziale del 18,8% al nuovo livello del 16,6% senza il rischio di una fuga di capitali verso l’estero. Ovviamente, il ragionamento può essere anche ribaltato. Supponiamo cioè che la Banca centrale europea intenda calcolare quella aliquota di imposta t che le consenta di mantenere il tasso interno esattamente al medesimo livello del tasso estero del 10% fissato dalla banca centrale americana. In tal caso si tratta di esprimere la condizione di parità isolando il termine t. Dopo semplici passaggi la condizione diventa:

e

t

t

t

t

E

Ei

it

1

* )1(

)1(1

+

+

+−=

Prendendo i dati del nostro esempio, e ponendo it = it* = 10%, si scopre che per mantenere i due tassi d’interesse al medesimo livello nonostante la svalutazione attesa dell’euro, l’aliquota della Tobin tax dovrebbe essere pari a t = 0,075 = 7,5%. L’istituzione di una Tobin tax a livello internazionale è stata caldeggiata da molti, sia in ambito accademico che politico. La Commissione europea, tra gli altri, propone la sua adozione. Tuttavia l’ispirazione originaria di Tobin è stata in parte dimenticata. Oggi infatti si propone l’adozione internazionale di questa imposta non tanto per disincentivare i movimenti di capitale e dare quindi maggiore autonomia alla politica monetaria, quanto piuttosto per ricavare gettito fiscale dalle transazioni finanziarie. In effetti, lo stesso Tobin ammise la possibilità di utilizzare la sua imposta anche a fini di prelievo fiscale, ma precisò che quello del gettito costituiva solo un lieto effetto collaterale. L’obiettivo prioritario doveva essere quello di disincentivare i movimenti di capitale per dare alle banche centrali maggiori possibilità di ridurre i tassi d’interesse. Oltretutto, esiste un conflitto potenziale tra il disincentivare gli spostamenti di capitale e il ricavare gettito fiscale: il primo obiettivo richiede un’aliquota d’imposta alta perché mira a scoraggiare le transazioni, il secondo la richiede più bassa perché lo scopo non è di scoraggiarle.6

6 L’argomento può essere formalizzato nel seguente modo. Definiamo l’aliquota della Tobin tax con t, i movimenti internazionali di capitale con M = a - bt, e il gettito fiscale derivante dalla

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Ad ogni modo, al di là dei suoi obiettivi, la Tobin tax è stata pure contestata da più parti. Gli economisti di ispirazione liberista l’hanno sempre considerata un’interferenza rispetto al libero operare delle forze del mercato. Gli studiosi di orientamento critico, ispirati dalle opere di pensatori eterodossi come Marx e Keynes, ritengono invece che la Tobin tax rappresenti uno strumento troppo

debole per contrastare i continui movimenti di capitale sui mercati mondiali. Secondo questa visione, per liberare la politica monetaria dalla minaccia delle fughe non basta semplicemente tassare gli spostamenti di capitali. Bisognerebbe piuttosto sottoporli a più rigidi vincoli, e al limite vietarli del tutto quando si tratta di spostamenti a breve termine, come del resto già avveniva all’epoca dei ferrei controlli vigenti nel dopoguerra. Tra le ragioni per cui gli economisti critici ritengono che gli spostamenti di capitali andrebbero vincolati in maniera più stringente, vi è il fatto che tali spostamenti non solo alimentano le dinamiche speculative e creano problemi alla politica monetaria, ma determinano effetti negativi più generali sull’intera economia mondiale. Infatti, se i capitali possono scorazzare liberamente da un paese all’altro, è chiaro che essi si muoveranno verso le nazioni che offrono loro i massimi vantaggi economici. Ed è chiaro che i vantaggi economici potranno essere di varia natura. In condizioni di libera circolazione dei capitali, infatti, i vari paesi non si limitano semplicemente a tenere i tassi d’interesse alti in modo da evitare fughe di capitale, ma si faranno concorrenza tra loro su molti altri piani, soprattutto sulla disciplina fiscale, finanziaria e del lavoro, in modo da attirare la massima quantità di capitale. I governi delle diverse nazioni ad esempio ridurranno le spese sociali in modo da ridurre la tassazione, adotteranno aliquote fiscali particolarmente basse sui possessori di capitale, garantiranno il segreto bancario a tutela dei grandi capitali, introdurranno norme di sicurezza sul lavoro più blande in modo da ridurre i costi per le imprese, imporranno forti vincoli al diritto di sciopero e alle organizzazioni sindacali in modo da contenere le rivendicazioni salariali, eccetera, e tutto questo per indurre i proprietari del capitale a investire dalle loro parti. Tutti questi provvedimenti ovviamente faranno aumentare i tassi d’interesse e più in generale i margini di profitto a livello globale, mentre probabilmente comporteranno una riduzione dei salari e delle spese sociali. Insomma, la libertà di movimento dei capitali può indurre i vari

paesi ad adottare politiche orientate a favore dei proprietari di capitale, e spesso a detrimento degli interessi dei lavoratori. Anche per questo alcuni economisti hanno sostenuto che la globalizzazione dei mercati avrebbe

Tobin tax con G = tM. Sostituendo, il gettito diventa: G = t(a – bt) = at – bt

2. Se l’obiettivo è massimizzare il gettito, l’aliquota ottima sarà data dalla condizione del primo ordine per un massimo: dG/dt = 0, ossia a – 2bt = 0, da cui t = a/2b. Se invece lo scopo è minimizzare i movimenti di capitale, allora si deve imporre M = 0 e l’aliquota quindi deve essere t = a/b (che è maggiore di t = a/2b).

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determinato una specie di “dittatura del capitale finanziario”, poiché gli interessi del capitale incidono più fortemente che in passato sulle decisioni politiche. In quest’ottica, dunque, i controlli sui movimenti di capitale vengono incoraggiati anche allo scopo di ridimensionare l’influenza sulle decisioni di governo esercitata in questi anni dalle lobbies finanziarie. 4.8 Lo spread, questo sconosciuto La condizione di arbitraggio, o condizione di parità scoperta dei tassi d’interesse, consente anche di gettare una luce sulla attuale crisi dell’Unione monetaria europea. Questa crisi sta colpendo molti dei paesi che hanno adottato l’euro come moneta comune. In particolare, il Portogallo, l’Italia, l’Irlanda, la Grecia e la Spagna hanno fatto registrare una tendenza all’aumento dello spread, che è dato dalla differenza tra i tassi d’interesse sui titoli emessi da questi paesi e i tassi d’interesse sui titoli della Germania, il paese più forte dell’Unione. Secondo un’opinione diffusa, la crescita dello spread viene considerata un indice di sfiducia degli operatori finanziari sulla sostenibilità del deficit e del debito pubblico di questi paesi. Se non c’è fiducia, gli investitori esigono tassi d’interesse più alti per coprirsi contro l’eventuale fallimento degli stati. In realtà, come abbiamo visto nel paragrafo 1.1, questi paesi in difficoltà non si somigliano molto dal punto di vista dei deficit e dei debiti pubblici. L’elemento comune sembra essere invece una tendenza ad importare più di quanto esportino, e quindi ad accumulare debiti verso l’estero, non solo pubblici ma anche privati. Alcuni economisti prevedono che proprio a causa di questa tendenza tali paesi

potrebbero a un certo punto decidere di abbandonare l’euro. Uscendo dalla zona euro e tornando alle valute nazionali, i paesi più in difficoltà potrebbero utilizzare di nuovo lo strumento del deprezzamento, che oggi viene precluso. Il deprezzamento della valuta consentirebbe di accrescere la competitività, di aumentare le esportazioni e i redditi, e potrebbe aiutare questi paesi a fronteggiare la crisi. Questa interpretazione della crisi europea, in effetti, sembra trovare una conferma nella condizione di parità scoperta dei tassi d’interesse. Tale condizione chiarisce in quale caso il rendimento dei titoli nazionali eguaglia il rendimento dei titoli esteri, e quindi i movimenti di capitale si stabilizzano, nel senso che non c’è incentivo a spostare capitali da un luogo all’altro. La condizione, come abbiamo già visto, è espressa dalla seguente formula:

e

t

ttt

E

Eii

1

*)1(1+

+=+

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Esaminiamo ora tale condizione nell’ambito dei rapporti tra i paesi membri della Unione monetaria europea, detta anche “zona euro”. Tra questi paesi vige la moneta unica: un euro emesso in Italia si scambia sempre con un euro emesso in Germania, e quindi ovviamente il tasso nominale di cambio tra i paesi che appartengono alla zona euro è dato da E = 1. Ora, se gli operatori finanziari prevedono che in futuro nessun paese abbandonerà l’euro, allora avremo che anche il tasso di cambio atteso sia pari a Ee

= 1. Tuttavia, se così fosse, stando alla condizione di parità scoperta il tasso d’interesse i di ciascun paese dovrebbe risultare uguale al tasso d’interesse i

* della Germania. In realtà, come abbiamo detto, attualmente sui mercati finanziari si registra uno spread, cioè un differenziale tra i titoli dei paesi in difficoltà e i titoli tedeschi, per cui: i > i

*. Come si può spiegare questo spread? Ebbene, si può supporre che molti operatori finanziari prevedano un’uscita dall’euro e un conseguente deprezzamento delle valute nazionali da parte dei paesi in difficoltà. Sapendo che il cambio nominale rappresenta il prezzo della moneta nazionale in termini di moneta estera, la conseguenza è che ci vorrà meno moneta estera, in tal caso tedesca, per ogni unità di valuta nazionale, ossia: E

e < 1.7 In tal caso, come è facile rilevare dalla

formula, affinché la condizione di parità sia rispettata occorre che i > i*. Il che è

esattamente quello che si registra oggi sui mercati finanziari. In altri termini, gli investitori temono che l’Italia a un certo punto deciderà di uscire dall’euro, di ritornare alla lira e di deprezzarla. Essi quindi prevedono che i titoli italiani saranno denominati in lire e verranno pertanto deprezzati. Per questo motivo, si sentono disposti a comprare titoli italiani solo se la parità scoperta è rispettata, cioè solo se i titoli italiani rendono un interesse maggiore di quelli

tedeschi. Se invece la parità scoperta non è rispettata, gli investitori smetteranno di comprare i titoli italiani e assisteremo a delle fughe di capitale dall’Italia verso la Germania. La parità, e la relativa stabilizzazione dei flussi di capitale, richiede insomma che i > i

*. Stando dunque a questa interpretazione, la causa dello spread risiede nella volontà degli investitori di cautelarsi non tanto contro il rischio di fallimento degli stati più deboli, quanto piuttosto contro il rischio che questi a un certo punto decidano di abbandonare l’euro. Approfondimento. Abbiamo detto che gli operatori finanziari prevedono che l’Italia esca dall’euro, e quindi che il tasso nominale di cambio atteso dell’Italia diminuisca. Abbiamo affermato che questa previsione dipende dal fatto che l’Italia e gli altri paesi in difficoltà della zona euro potrebbero avere interesse ad

7 Per esempio, possiamo partire da una situazione in cui E = 1€/1€ = 1. Quindi possiamo immaginare che la zona euro entri in crisi, e che in Germania inizi a circolare un euro tedesco, indicato con €G, mentre in Italia circolerà un euro italiano, indicato con €I. Inizialmente avremo che E = 1€G/1€I = 1. Se però ci aspettiamo che l’Italia decida di deprezzare la propria valuta, ad esempio del 50%, allora possiamo prevedere che Ee = 0,5€G/1€I = 0,5.

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abbandonare la moneta unica e a svalutare per contrastare la tendenza ad accumulare eccessi di importazioni sulle esportazioni e conseguenti deficit verso l’estero. Ma, come si spiega questa tendenza? Una possibile risposta verte sui diversi andamenti dei prezzi nei paesi della zona euro. Osserviamo i seguenti dati sull’andamento dei prezzi in Germania, in Francia, e nei paesi della zona euro che tendono più degli altri ai deficit verso l’estero:

Country 2012 2005 1999

Germany 107,0 100,0 95,5

Ireland 95,7 100,0 78,6

Greece 115,3 100,0 82,5

Spain 111,9 100,0 78,6

France 112,7 100,0 89,3

Italy 112,4 100,0 85,9

Portugal 110,5 100,0 83,3 Fonte: Ameco Eurostat

Dal 1999, anno di nascita dell’euro, al 2012, la crescita dei prezzi in Germania è stata pari a: (107,0 – 95,5)/95,5 = 0,12 = 12%. In tutti gli altri paesi è stata significativamente superiore; per esempio, in Italia è stata del 30,8%. Evidentemente, anche grazie a una maggiore capacità di contenere i salari monetari e di accrescere la produttività del lavoro, la Germania ha fatto registrare un’inflazione minore rispetto ai suoi concorrenti, è risultata più competitiva ed è quindi riuscita ad accumulare eccessi di esportazioni sulle importazioni e conseguenti surplus verso l’estero. Al contrario, gli altri paesi, meno competitivi, hanno accumulato deficit esteri. Come si collega questa divergenza dei tassi d’inflazione al rischio di uscita dall’euro e di conseguente aumento dello spread tra i tassi d’interesse? Per rispondere, bisogna tener presente che il tasso d’interesse monetario può essere inteso come prodotto tra il cosiddetto tasso

d’interesse reale r e il tasso d’inflazione atteso πe. Ossia: (1+i) = (1+ r)(1+πe).

Ricordando che il tasso di cambio reale è dato da: ε=EP/P*, è possibile effettuare

le sostituzioni e riscrivere la condizione di parità scoperta nei seguenti termini: (1+rt) = (εt/ε

et+1) (1+rt

*). Se si assume che i tassi d’interesse reali siano uguali tra

i due paesi, la parità richiede che il tasso di cambio atteso sia uguale a quello corrente. Ma, se i prezzi tra i due paesi divergono, l’uguaglianza tra i cambi reali richiede un mutamento del cambio nominale E

et+1. Cioè richiede un

abbandono dell’euro da parte dei paesi caratterizzati da maggiore inflazione.