Appunti da Segalla e Vanni SEGALLA Giuseppe, L...

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Fonti 2 relazione 25 settembre 1 Appunti da Segalla e Vanni SEGALLA Giuseppe, L’esperienza spirituale nella tradizione giovannea, in FABRIS Rinaldo (a cura di), La spiritualità del Nuovo Testamento, Roma, Borla 1985, 339-397 Introduzione Il prologo della prima lettera di Giovanni può introdurre all'esperienza spirituale, tipica della tradizione giovannea, come ci è stata conservata nel quarto vangelo e nelle tre lettere: «Ciò che era fin dall'inizio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato riguardo al Verbo della vita - e la vita si è rivelata e abbiamo visto e testimoniamo e annunciamo a voi la vita eterna che era presso il Padre e che fu rivelata a noi - ciò che abbiamo visto e udito annunciamo anche a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi: Sì, perché la comunione che abbiamo è con il Padre e il Figlio suo .Gesù Cristo. E queste cose noi scriviamo affinché la nostra gioia sia compiuta» (1Gv 1,1-4). Ciò che maggiormente impressiona in questo prologo è la quantità dei verbi usati per indicare azioni dei sensi umani: vedere, udire, toccare - vi ricorrono ben sette volte - in funzione della testimonianza storica e dell'annuncio, in modo da pervenire, mediante la comunione con il testimone alla comunione col Padre e il Figlio, e sperimentare la presenza della salvezza nella «gioia compiuta». Viene così delineato l'itinerario storico dell'esperienza spirituale giovannea: parte dall'esperienza storica di Gesù, rivissuta dal «discepolo amato» come un modello per tutti. Comunicata da un testimone privilegiato che sta all'origine della tradizione giovannea, tale esperienza continua a vivere nel tempo della chiesa. Verso la fine del I secolo la comunità giovannea, che vive la sua esperienza spirituale radicata nella fede ricevuta «fin dall'inizio», subisce un duplice attacco: dall'esterno con la persecuzione e dall'interno per la secessione di un gruppo che insegna una spiritualità apparentemente più elevata di quella tradizionale. Delineeremo dapprima la traiettoria storica dell'esperienza spirituale giovannea per riassumere, in una seconda parte, gli elementi unificanti, che sono essenzialmente la fede e l'amore nel loro mutuo rapporto. 1. Dall'esperienza singolare del discepolo amato a quella di una comunità Parliamo di «esperienza» in senso spirituale, quindi integrale, non nel senso puramente empirico o sperimentale della fenomenologia e della scienza. «Spirituale più che l'oggetto indica il modo personale di rapportarsi ad esso e il cambiamento che interviene nella persona in questo rapporto». Parliamo di «esperienza» anche per significare che non è un'esperienza religiosa qualsiasi del trascendente, ma principia da una esperienza storica: l'esperienza del Gesù terreno, unico mediatore per Giovanni di un'autentica esperienza di Dio Padre: «Dio nessuno l'ha mai visto. L'Unigenito Dio che è nel seno del Padre l'ha rivelato» (1,18). Con tale perentoria asserzione, ripetuta nella nota relazionale di 6,46, l'evangelista escludeva nettamente tutta quella tradizione apocalittica giudaica, allora così fiorente, che pretendeva esibire grandi personaggi del passato (Enoch, Mosè, Elia, Baruch ...) come rivelatori. Essi sarebbero saliti al cielo con ascensioni, di cui quella di Elia era il modello; avrebbero visto Dio e i suoi piani sulla storia umana fino alla sua conclusione con la vittoria dei «santi» sulle potenze antidivine. Per questo Giovanni afferma ancora drasticamente nel commentare il colloquio di Nicodemo con Gesù: «Nessuno è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo» (4,13; cf anche 6,62). L'unica via praticabile per sperimentare il mistero di Dio è accogliere nella fede la persona e la rivelazione storica del Figlio dell'uomo, unico ad essere disceso veramente dal cielo con la sua incarnazione e ad aver posto la sua tenda in mezzo agli uomini, portando a compimento la presenza di Dio in mezzo al suo popolo con la shekinà: «E il verbo si fece carne e dimorò fra noi e abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (1,14) - esclama Giovanni, che appartiene a quel gruppo che vide i segni meravigliosi operati da Gesù e ascoltò le sue rivelazioni folgoranti. All'origine dell'esperienza spirituale di Giovanni vi è quindi una persona storica che rivela il mistero del Padre: quel mistero che nessuno mai aveva autenticamente rivelato. L'unica visione possibile di Dio è quella che passa attraverso la visione della gloria del Figlio Unigenito. Per questo che iniziamo col ricordare l'esperienza singolare del testimone privilegiato, il discepolo amato. 1. L'esperienza spirituale di Giovanni nel tempo di Gesù L'esperienza spirituale del «testimone» è l'esperienza immediata del Gesù terreno, che vide, ascoltò, toccò con le proprie mani, di cui gustò la bellezza e la bontà divina, che conobbe in modo familiare. La condizione necessaria per fare questa esperienza «cristiana» è la fede.

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Fonti 2 relazione 25 settembre 1

Appunti da Segalla e Vanni SEGALLA Giuseppe, L’esperienza spirituale nella tradizione giovannea, in FABRIS Rinaldo (a cura di), La spiritualità del Nuovo Testamento, Roma, Borla 1985, 339-397 Introduzione Il prologo della prima lettera di Giovanni può introdurre all'esperienza spirituale, tipica della tradizione giovannea, come ci è stata conservata nel quarto vangelo e nelle tre lettere:

«Ciò che era fin dall'inizio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato riguardo al Verbo della vita - e la vita si è rivelata e abbiamo visto e testimoniamo e annunciamo a voi la vita eterna che era presso il Padre e che fu rivelata a noi - ciò che abbiamo visto e udito annunciamo anche a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi: Sì, perché la comunione che abbiamo è con il Padre e il Figlio suo .Gesù Cristo. E queste cose noi scriviamo affinché la nostra gioia sia compiuta» (1Gv 1,1-4).

Ciò che maggiormente impressiona in questo prologo è la quantità dei verbi usati per indicare azioni dei sensi umani: vedere, udire, toccare - vi ricorrono ben sette volte - in funzione della testimonianza storica e dell'annuncio, in modo da pervenire, mediante la comunione con il testimone alla comunione col Padre e il Figlio, e sperimentare la presenza della salvezza nella «gioia compiuta». Viene così delineato l'itinerario storico dell'esperienza spirituale giovannea: parte dall'esperienza storica di Gesù, rivissuta dal «discepolo amato» come un modello per tutti. Comunicata da un testimone privilegiato che sta all'origine della tradizione giovannea, tale esperienza continua a vivere nel tempo della chiesa. Verso la fine del I secolo la comunità giovannea, che vive la sua esperienza spirituale radicata nella fede ricevuta «fin dall'inizio», subisce un duplice attacco: dall'esterno con la persecuzione e dall'interno per la secessione di un gruppo che insegna una spiritualità apparentemente più elevata di quella tradizionale. Delineeremo dapprima la traiettoria storica dell'esperienza spirituale giovannea per riassumere, in una seconda parte, gli elementi unificanti, che sono essenzialmente la fede e l'amore nel loro mutuo rapporto. 1. Dall'esperienza singolare del discepolo amato a quella di una comunità Parliamo di «esperienza» in senso spirituale, quindi integrale, non nel senso puramente empirico o sperimentale della fenomenologia e della scienza. «Spirituale più che l'oggetto indica il modo personale di rapportarsi ad esso e il cambiamento che interviene nella persona in questo rapporto». Parliamo di «esperienza» anche per significare che non è un'esperienza religiosa qualsiasi del trascendente, ma principia da una esperienza storica: l'esperienza del Gesù terreno, unico mediatore per Giovanni di un'autentica esperienza di Dio Padre: «Dio nessuno l'ha mai visto. L'Unigenito Dio che è nel seno del Padre l'ha rivelato» (1,18). Con tale perentoria asserzione, ripetuta nella nota relazionale di 6,46, l'evangelista escludeva nettamente tutta quella tradizione apocalittica giudaica, allora così fiorente, che pretendeva esibire grandi personaggi del passato (Enoch, Mosè, Elia, Baruch ...) come rivelatori. Essi sarebbero saliti al cielo con ascensioni, di cui quella di Elia era il modello; avrebbero visto Dio e i suoi piani sulla storia umana fino alla sua conclusione con la vittoria dei «santi» sulle potenze antidivine. Per questo Giovanni afferma ancora drasticamente nel commentare il colloquio di Nicodemo con Gesù: «Nessuno è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo» (4,13; cf anche 6,62). L'unica via praticabile per sperimentare il mistero di Dio è accogliere nella fede la persona e la rivelazione storica del Figlio dell'uomo, unico ad essere disceso veramente dal cielo con la sua incarnazione e ad aver posto la sua tenda in mezzo agli uomini, portando a compimento la presenza di Dio in mezzo al suo popolo con la shekinà: «E il verbo si fece carne e dimorò fra noi e abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (1,14) - esclama Giovanni, che appartiene a quel gruppo che vide i segni meravigliosi operati da Gesù e ascoltò le sue rivelazioni folgoranti. All'origine dell'esperienza spirituale di Giovanni vi è quindi una persona storica che rivela il mistero del Padre: quel mistero che nessuno mai aveva autenticamente rivelato. L'unica visione possibile di Dio è quella che passa attraverso la visione della gloria del Figlio Unigenito. Per questo che iniziamo col ricordare l'esperienza singolare del testimone privilegiato, il discepolo amato. 1. L'esperienza spirituale di Giovanni nel tempo di Gesù L'esperienza spirituale del «testimone» è l'esperienza immediata del Gesù terreno, che vide, ascoltò, toccò con le proprie mani, di cui gustò la bellezza e la bontà divina, che conobbe in modo familiare. La condizione necessaria per fare questa esperienza «cristiana» è la fede.

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Il rifiuto della fede impedisce infatti di «vedere» Gesù, anche se lo si vede con gli occhi del corpo, anche se si fosse testimoni diretti dei suoi miracoli (6,26): impedisce di «ascoltare», anche se si sentono le sue parole di rivelazione; impedisce di «riconoscerlo», anche se lo si conosce storicamente. È quello che afferma lo stesso evangelista a conclusione della prima parte del vangelo per spiegare il rifiuto della fede da parte della massa, citando Is 6,10:

Per questo non potevano credere, perché Isaia disse anche: Ha accecato i loro occhi e ha incallito il loro cuore affinché con gli occhi non vedano e col cuore non comprendano e così non si convertano e io non li guarisca» (12, 39-40; cf At 28, 26-27)

Seguiamo dunque l'esperienza spirituale del «testimone» nelle sue varie espressioni storico-spirituali che hanno in comune la primarietà dell'aspetto passivo su quello attivo. In altre parole si tratta di un'esperienza «accolta» più che «cercata». «Accogliere» è un verbo che già nel prologo indica la fede (1,12). La stessa ricerca di Gesù deve tener conto di questa legge fondamentale. Se infatti diviene ricerca di sé o della propria esperienza, invece che un lasciarsi coinvolgere nell'esperienza della persona di Gesù, allora è destinata a fallire. La folla che cerca Gesù dopo la moltiplicazione dei pani, lo cerca «perché hanno mangiato i pani a sazietà» (6,26); per questo non ascolterà la parola di Gesù e alla fine si allontaneranno da lui perfino i discepoli (6,60-66). La fede ha quindi come corrispettivo l'amore primo di Dio che ha mandato il Figlio suo nel mondo perché l'uomo in Lui lo possa vedere e incontrare. Non l'uomo, ma Dio è colui che determina e qualifica l'esperienza. In tutti i vari aspetti di questa esperienza ci imbatteremo quindi nella primarietà del dono del Figlio e come primo passo la necessità di accoglierlo nella fede. Vedere «Vedere» è la prima categoria per esprimere l'esperienza spirituale di Gesù. È già rimarchevole il numero di volte che compaiono i due verbi che significano «vedere»: horan compare 31 volte nel vangelo ed 8 nelle lettere contro le 13 di Mt, le 7 di Mc e le 14 di Lc; theasthai ricorre 6 volte nel vangelo e 3 nelle lettere contro le 4 in Mt, le 2 in Mc e le 3 in Lc. Anche theôreîn è tipico di Giovanni: vi ricorre 24 volte sulle 58 in tutto il NT; ma è meno legato al vedere storico; blépein invece non è tipico di Giovanni: vi ricorre 17 volte contro le 20 di Mt e le 15 rispettivamente di Mc e Lc. Per Giovanni è perciò importante «vedere Gesù». Non è però solo un vedere fisico, anche se deve passare attraverso la visione con gli occhi del corpo. È un vedere in profondità, un intuire nella visione di Gesù il mistero della sua persona. La sintesi è offerta dalla solenne proclamazione del prologo, già ricordata: «e abbiamo visto (etheasámetha) la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (1,14). La gloria, che i testimoni vedono, è insieme rivelazione del Padre («Unigenito del Padre») e salvezza per l'uomo («pieno di grazia e di verità»). Il primo incontro con Gesù Propiziati dalla duplice testimonianza del Battista, i primi due discepoli, presentati come modello di ogni discepolo, si avvicinano a Gesù e gli domandano con trepidazione: «Rabbì... dove abiti?» (1,38). La domanda «dove abiti?» non intende certo chiedere il luogo, la casa dove Gesù abita, ma piuttosto quell'ambiente personale, in cui egli vive: egli vive «nel Padre» (14,10, dove viene usato lo stesso verbo ménein, che viene usato qui e che abbiamo tradotto con «abitare»). «Dove abiti?» quindi significa: «Qual è la tua vita? In cosa consiste l'affascinante mistero della tua persona?». La risposta di Gesù è altrettanto breve: «Venite e vedrete». Li invita a fare un'esperienza personale diretta, espressa col verbo «vedere» (horan). Promette con ciò una rivelazione futura («vedrete»). Il racconto continua: «Vennero dunque e videro dove abita - notare questo presente, che indica l'abitare abituale di Gesù nel Padre - e abitarono presso di lui - l'abitare in lui è l'ideale del credente secondo 15,1-8: l'allegoria della vite e i tralci - tutto quel giorno» (1,39). Il luogo in cui Gesù abita è legato alla sua stessa persona. Anche il rimanere - abitare - presso di lui è un «rimanere» personale per ricevere da lui la rivelazione del mistero della sua persona. Ciò che dissero non ha importanza. Importante fu la loro visione storico-spirituale di Gesù, la loro permanenza presso di lui, che li convinse ad aver fatto la scoperta più sensazionale per un ebreo: «Abbiamo trovato il Messia» - annuncia Andrea a suo fratello Simone (1,41). Esperienza parallela è quella di Filippo, che, chiamato, si mette subito al seguito di Gesù. Chiamato, egli chiama a sua volta Natanaele, cui rivolge lo stesso invito che Gesù aveva rivolto ai primi discepoli, dopo che Natanaele si era dimostrato scettico per l'oscuro luogo di origine di Gesù: «Vieni e vedil» (anche qui col verbo horan) (1,46). Ed anche Natanaele «vede» e proclama che Gesù è «il Figlio di Dio, il re d'Israele» (1,49).

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E Gesù conclude, annunciando una rivelazione più meravigliosa di quella, sperimentata da Natanaele: «Vedrai cose più grandi di queste»; e segue l'altro detto di Gesù: «In verità, in verità vi dico - introduzione solenne giovannea -: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio ascendere e discendere sul Figlio dell'uomo» (1,51). Il richiamo alla scala di Giacobbe (Gn 28,12) e al «Figlio dell'uomo» danielico (Dn 7,13-14) significa che Gesù è il mediatore fra Dio e l'uomo, è la nuova scala di Giacobbe, per cui Dio discende all'uomo e l'uomo ascende a Dio. In altre parole è la via per incontrare Dio. La samaritana ripeterà l'esperienza dei primi discepoli. Qui il dialogo viene magistralmente riportato e, dopo la rivelazione conclusiva: «Sono io che ti parlo (il Messia)» (4.26), ella corre in città annunciando: «Su, venite a vedere - sempre col verbo horan - un uomo, che mi ha detto tutto ciò che ho fatto. Che non sia lui il Cristo?» (4,29). La visione storica dell'uomo Gesù si orienta alla visione di fede in lui del Cristo. Vedere i segni Gesù aveva annunciato a Natanaele che avrebbe visto rivelazioni più grandi. E queste iniziano col primo «segno» - è questo il nome dato da Giovanni ai «miracoli» per significare in tal modo il loro carattere epifanico -, il segno di Cana, dove «si rivela la gloria di Gesù» (2,11). Dopo il primo incontro con Gesù, dopo la prima esperienza «visiva» di lui, questa si approfondisce col vedere i segni, in cui Gesù si rivela come il Salvatore. Il discepolo credente vede nei sette segni lo sposo delle nozze messianiche, il pane di vita, la luce del mondo, la risurrezione e la vita. La vista dei miracoli-segni non porta però necessariamente alla fede. Solo la visione spirituale conduce al contatto personale con Gesù. È un'opzione. È credere. Gesù rimprovera proprio per questo coloro che lo cercano dopo la moltiplicazione dei pani: «Mi cercate, non perché avete visto dei segni ma perché avete mangiato dei pani a sazietà» (6,26). Alle volte la visione fisica senza la fede viene contrapposta a quella unita alla fede. Un caso tipico è quello registrato in 6,36.40 con un parallelismo antitetico: «Ma io vi dissi che avete visto e non credete... Questa è infatti la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia vita eterna». Chi vede in Gesù il Figlio, crede. Chi lo guarda con gli occhi «della carne» (6,36), vede in lui solo «il figlio di Giuseppe» (6,42). Anche nel segno della risurrezione di Lazzaro sono ricordati i due modi di vedere Gesù: «Molti dei giudei... che avevano visto ciò che aveva fatto - cioè la risurrezione di Lazzaro - credettero in lui» (11,45). Ma subito dopo i sacerdoti-capi e i farisei, riconoscendo che Gesù «compiva molti segni» e perciò vi era il rischio che tutti credessero in lui, decidono di ucciderlo (11,48-50). L'opzione personale, necessaria per vedere spiritualmente nella fede in Gesù il Figlio, viene annunciata solennemente alla conclusione della guarigione del cieco nato: «Per una discriminazione sono venuto in questo mondo: perché coloro che non vedono ci vedano e coloro che vedono diventino ciechi» (9,39). La visione puramente naturale, che diviene cecità spirituale, viene raccontata nel processo del cieco nato guarito davanti al sinedrio che vorrebbe negare perfino l'evidenza. Solo la visione spirituale di fede riesce quindi ad intuire nel miracolo il segno, nelle opere di Gesù le opere del Padre e nel figlio di Giuseppe il Figlio di Dio. La fede superficiale, che nasce dal desiderio di vedere prodigi, viene criticata. È il tentativo di un'esperienza di Gesù, destinata a fallire, perché non si accetta la fede come dono del Padre (6,29.44.65), e come risposta ad una rivelazione dell'amore gratuito. Si esige il prodigio per credere. Di qui si comprende lo strano rimprovero mosso da Gesù all'ufficiale regio: «Se non vedete segni e prodigi, voi proprio non credete» (4,48). È questa sete di prodigi che spinge i giudei a chiedere un segno a Gesù che purifica il tempio (2,18) e a domandargli: «Quale segno fai tu perché vediamo e crediamo in te?» (6,30). Solo una visione, accolta come dono gratuito apre alla fede e quindi all'esperienza spirituale di Gesù. Perfino i parenti di Gesù interpretano i suoi miracoli nel senso esibizionistico del successo mondano (7,3) invece che come «opere di Dio in lui» (9,3). I due testi si corrispondono come interpretazione errata (7,3) e giusta (9,3) delle «opere» di Gesù nella grande unità letteraria di 7-9. Anche Tommaso viene rimproverato dal Signore risorto per aver esigito la visione, mentre viene da lui beatificato «chi non ha visto ed ha creduto» (20,29). Solo in due testi la visione spirituale ha come condizione previa la fede. Ma, in questo caso, l'oggetto della visione va al di là del fatto storico, che rispetto alla realtà metastorica acquista la funzione di simbolo. Davanti al sepolcro di Lazzaro Gesù dice a Marta: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?» (11,40). Al contrario, chi non ha fede non può contemplare in Gesù il volto del Padre: «37E il Padre che mi ha mandato lui mi ha reso testimonianza. Voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, 38 e non avete la sua parola che rimane in voi perché voi non credete a colui che egli ha mandato» (5, 37-38).

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È ancora l'occhio credente del «testimone» che riesce a vedere in Gesù crocifisso, colpito dalla lancia, l'agnello pasquale e il servo del Signore, ricordando la profezia di Zaccaria 12,10: «Guarderanno a colui che hanno trafitto» (19,37). Una testimonianza di fede, che intende suscitare la fede: «affinché anche voi crediate» (19,35). Vedere in Gesù il Padre Solo attraverso la visione spirituale di Gesù i discepoli possono vedere il Padre. A conclusione del libro dei segni Gesù proclama solennemente: «Chi crede in me, non crede in me, ma in Colui che mi ha mandato, e colui che vede me, vede colui che mi ha mandato» (12,44-45). Il secondo testo - questa volta col verbo horan, più storico, perché riferito ai testimoni - è la risposta a Filippo, che gli chiede ingenuamente: «Mostraci il Padre e ci basta!» (14,8). Gli dice Gesù: «Tanto tempo sono con voi, e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (14,9). Il fondamento ultimo di tale identificazione è che il Figlio e il Padre sono «una cosa sola» (10,30). In questa prospettiva i miracoli sono considerati «opere del Padre» (5,19-30; 10,37-38; 14,11). Vedere e credere nella risurrezione L'esperienza storico-spirituale di Gesù raggiunge il suo culmine con la risurrezione. Anche in questo caso visione e fede si danno la mano. I due discepoli, Pietro e «l'altro discepolo che Gesù amava» (20,2), chiamati da Maria Maddalena, corrono al sepolcro vuoto: «Allora entrò anche l'altro discepolo, che era arrivato per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora capito la Scrittura: che egli doveva risuscitare dai morti» (20,8-9). Maria Maddalena non riconosce Gesù risorto, vedendolo (20,14). Lo riconosce solo alla sua voce (20,16): la voce del Pastore. Però poi annuncia ai discepoli: «Ho visto il Signore» (20,18). La visione rinnovata del Signore risorto porta pace e gioia: «Si rallegrarono i discepoli, vedendo il Signore» (20,20). E poi ripetono a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore» (20,25). Ma Tommaso non accetta la mediazione della testimonianza e pretende vedere Gesù, proprio quello crocifisso (20,25). È alla luce della risurrezione che i discepoli comprendono veramente la persona e l'opera di Gesù (2,17.21-22; 12,33; 13,7; 18,32; 20,9). L'esperienza unica del Gesù terreno è espressa dunque in primo luogo con la categoria del «vedere»: un vedere insieme storico e credente, per cui i discepoli vedono in Gesù il Messia aspettato, nei segni riconoscono il Salvatore, nelle opere il Figlio inviato dal Padre, nel Risorto vedono il Signore, che era stato crocifisso. Questa visione di Gesù non è solo un fatto storico, ma è già un'opzione, perché implica la fede. È solo la visione credente che attinge l'esperienza del Padre in Gesù, Figlio suo, inviato nel mondo per donare all'uomo la vita. Ascoltare La seconda categoria con cui Giovanni esprime l'esperienza storico-spirituale di Gesù è quella dell'«ascoltare» (akoúen). Il verbo ricorre 58 volte nel vangelo e 16 nelle lettere. («Ascoltare» non è così tipico di Giovanni come i verbi «vedere». Lo è invece quando ha per oggetto la parola di Gesù per il discepolo e la parola del Padre per lo stesso Gesù). E fa parte del vocabolario di rivelazione: 22 volte infatti ha come oggetto la persona di Gesù, la sua parola - le sue parole -, la sua voce, e quattro volte il Padre o la voce del Padre. Non basta udire materialmente Gesù - akoúein con l'accusativo -. Bisogna ascoltarlo - akoúein col genitivo -. Gesù è il primo testimone diretto del Padre. «Colui che viene dal cielo - è sopra di tutti - Egli testimonia ciò che ha visto e udito» (3,31c-32), rivela «la verità che ha udito da Dio» (8, 40). Non è come il profeta che ascolta la profezia. Egli ha udito la verità, cioè la rivelazione personale di Dio. Il discepolo è colui, che, a sua volta, ascolta la parola di Gesù, primo testimone. L'ascolto della parola di Gesù non è solo l'inizio della fede, ma un elemento sempre essenziale alla fede. Ne è il suo oggetto primo. I samaritani, dopo l'esperienza di Gesù per due giorni, dicono alla donna samaritana: «Non crediamo più per il tuo discorso. Noi stessi infatti abbiamo udito e sappiamo che è veramente lui il salvatore del mondo» (4,42). Tale ascolto accogliente ed intelligente viene qualificato come «credere mediante la sua parola» (4,41). Gesù stesso afferma, nel capitolo seguente: «In verità, in verità vi dico: Chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna» (5, 24). Essere discepolo di Gesù significa quindi seguirlo ed ascoltare con attenzione la sua parola. Chi non crede e si allontana da lui, motiva la sua decisione in questo modo: «Questa parola (di Gesù) è dura. Chi la può ascoltare?» (6,62). Solo l'ascolto credente permette di accogliere e capire la parola di Gesù e di entrare così in rapporto personale con lui. Il rapporto personale e familiare con Gesù che si instaura con l'ascolto della sua parola viene messo in maggior luce, quando oggetto dell'ascolto non è la parola, ma la voce.

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Due simboli illustrano l'ascolto della voce di Gesù: quello del pastore e quello dello sposo. La voce del buon pastore presuppone un legame personale tra colui che chiama e colui che risponde all'appello, seguendolo. Tale legame è espresso anche dal riconoscere la voce. Le pecore raccolte nel recinto, quando il guardiano apre: «ascoltano la sua voce e - il pastore - chiama le proprie pecore per nome e le fa uscire» (10,3). «4 Quando ha spinto fuori tutte le proprie, cammina davanti a loro, e le pecore lo seguono - la sequela di Gesù -, perché conoscono la sua voce. 5 Non seguiranno affatto un estraneo, ma fuggiranno lontano da lui, perché non conoscono la voce degli estranei» (10,4-5). E più avanti continua: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco e mi seguono» (10,27; cf anche 18,37). La voce di Gesù come sposo viene percepita da Giovanni Battista, quando sente dai suoi stessi discepoli «che tutti vanno a lui» (3,26), cioè credono. E il Battista a questa notizia reagisce con gioia: «Colui che ha la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che gli sta vicino e l'ascolta è ripieno di gioia per la voce dello sposo» (3,29). Maria Maddalena, che cercava Gesù presso la tomba vuota, non lo riconosce con i suoi occhi, ma lo riconosce quando egli pronuncia il suo nome come il buon pastore che chiama per nome le sue pecore: «Maria!». Maria Maddalena rappresenta quindi la pecorella che riconosce la voce del suo buon pastore, ma anche la sposa che riconosce la voce del suo Diletto (Ct 2,8; 5,2; 8,13). Il simbolo del pastore che chiama le sue pecore e quello dello sposo che fa udire la sua voce alla sposa esprimono in modo più ricco e personale l'ascolto credente della parola di Gesù, facendo percepire le risonanze profonde di una verità, che dall'intelligenza scende nel cuore, per trovarvi la sua dimora. Chi non crede, chi non appartiene all'ovile di Gesù, non ascolta la sua parola e la sua voce. Toccare Le due categorie del «vedere» e dell'«ascoltare» si prestano meglio a definire la dimensione spirituale e credente dell'esperienza di Gesù. Ma i testimoni di Gesù hanno anche «toccato Gesù con le loro mani» (IGv,1,1), sono venuti a contatto fisico con lui. Ancor più che le due categorie precedenti, quest'azione del senso del tatto sottolinea il realismo dell'incarnazione ed il carattere storico dell'esperienza spirituale dei discepoli. È Gesù stesso che tocca gli occhi del cieco nato con un gesto che ricorda quelli più frequenti che leggiamo nel vangelo di Marco (5,27.31; 6,56; 7,33; 8,22; 10,13): «sputò per terra, fece del fango con la saliva e spalmò il fango sugli occhi di lui» (9,6). Nell'ultima cena Gesù si china sui piedi dei suoi discepoli per lavarli con un gesto di umile servizio, che simboleggiava la prossima passione e morte (13,1-12). Ma anche le persone che amano Gesù lo vogliono accostare per esprimergli il loro affetto o per constatare la sua realtà di Signore risorto. Maria, a Betania, si accosta a Gesù, gli unge i piedi con un profumo molto prezioso e glieli asciuga con i capelli (12,3). Il discepolo amato, nell'ultima cena, è però il simbolo più significativo dell'esperienza intima di Gesù «si china con semplicità verso il petto di lui» (13,23.25). È il contatto personale-simbolico con l’umanità di Gesù, da cui il testimone primo del vangelo attinge la sua esperienza spirituale e la comunica. Nel racconto della passione il contatto col corpo di Gesù si esprime nella violenza (18,22; 19,3) che finisce solo dopo la sua morte col colpo di lancia che ne apre il petto, facendo uscire sangue ed acqua. Ma l'ultimo insegnamento su questo punto ci viene da due scene del Signore risorto. Maria Maddalena, riconosciuto Gesù, si getta ai suoi piedi e li vuole abbracciare. Ma Gesù le dice: «Non mi toccare - o trattenere -, perché non sono ancora salito al Padre» (20,17). Gesù si sottrae, perché lo slancio possessivo verso la sua umanità si trasformi in slancio con lui ed in lui verso il Padre; e per ricordarle che la sua gioia di incontrare il Signore risorto non deve rinchiudersi in un godimento personale; si deve aprire alla missione verso i fratelli: «Va' piuttosto ai miei fratelli e di' loro: - Salgo al Padre mio e Padre vostro e al Dio mio e Dio vostro» (20,17). Tommaso invece vuol vedere e toccare Gesù come crocifisso per poter credere: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo fianco, non crederò affatto» (20,25). Gesù si concede a Tommaso nella sua umanità crocifissa e gloriosa. E Tommaso comprende, solo allora, il suo grande errore. Constata anche l'inutilità di toccare Gesù e confessa: «Signore mio e Dio mio!» (20,28). Dopo la risurrezione, il Signore si concede al contatto familiare con i suoi discepoli; ma, sottraendosi, fa capire che ormai egli resterà presente nella comunità solo più mediante la fede senza la visione (20,29), continuando sempre ad attrarre a sé i credenti per portarli al Padre mediante il dono dello Spirito Paraclito. Conoscere Vedere, ascoltare, toccare sono le tre vie dell'esperienza terrena di Gesù, che corrispondono ai tre sensi della vista, dell'udito e del tatto, toccati dalla luce della fede e dalla voce dell'amore. Cercare di scoprire qualche traccia degli altri due sensi, il gusto e l'odorato come fa il Mollat, anche se suggestivo, mi sembra alquanto artificioso (Giovanni maestro spirituale, Roma 1980, 104-107).

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Invece un'ultima categoria esprime l'esperienza storica di Gesù, ed è quella del conoscere esperienziale. Anche il verbo «conoscere» (ghinôskein) è tipico di Giovanni: lo usa 56 volte contro le 20 di Mt, le 12 di Mc e le 28 di Lc. Da notare che ricorre 26 volte nelle lettere giovannee. Il carattere di comunicazione personale, di apertura, di dialogo è tipico del «conoscere» giovanneo. E ha rapporto col «vedere» e «ascoltare», e reciprocamente col «credere», per cui il conoscere è un conoscere credente. Lo evidenzia molto bene lo H.Schlier: «La conoscenza come compimento dell'ascoltare e del vedere è la conoscenza data dalla fede. La conoscenza si manifesta nella fede e la fede si manifesta nella conoscenza. La fede però trova anche nella conoscenza il suo compimento come pure la conoscenza nella fede. E infine la fede si consolida nella conoscenza, nella quale prende dimora e sussiste, come pure viceversa. La conoscenza riceve dalla fede la sua intima forza e fermezza» (Fede, conoscenza e amore nel Vangelo secondo Giovanni, in: Riflessioni sul NT, Brescia 1969, 370. 354 La prima volta che incontriamo il «conoscere» in un testo narrativo è nell'incontro di Natanaele con Gesù, parallelo all'incontro dei primi due discepoli e di Simone, dove domina invece il verbo «vedere» (1,39). Nell'incontro con Simone, è Gesù che per primo lo guarda con interesse personale e poi, cambiandogli il nome, gli parla della sua futura missione (1,42). Nell'episodio di Natanaele è Gesù che per primo dimostra di conoscerlo. Il conoscere Gesù è quindi una conoscenza seconda. All'elogio di Gesù: «Ecco un autentico israelita, in cui non c'è falsità» (1,47) Natanaele risponde piuttosto scettico: «Donde mi conosci?» (1,48). «Gli rispose Gesù: Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto il fico» (1,48). Segue la confessione finale di Natanaele: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Re di Israele» (1, 49). Gesù dunque conosce Natanaele prima che egli conosca Gesù. Lo ha visto sotto il fico: una visione spirituale, che implica però la conoscenza personale e l'amore. Non è quindi una banale «visione». È in questo spazio, aperto dalla conoscenza amorosa di Gesù, che entra la conoscenza personale dei suoi discepoli. E la conoscenza personale non può essere che dialogica e non può non coinvolgere. Nel caso considerato il dialogo comincia proprio da Gesù, come appare anche dall'allegoria del buon pastore, dove il «conoscere» è coniugato con l'«ascoltare la voce» del buon pastore: «Io sono il buon pastore, e conosco le mie (pecore) e le mie conoscono me, come il Padre conosce me ed io conosco il Padre... Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco e mi seguono» (10,14-15.27). Il conoscere Gesù è una risposta al suo conoscere per primo, un conoscere che si rivela nella storia personale e nel suo amore fino a donare la vita (10,15; 15,13). Questo «conoscere», proprio perché personale e dialogico, presuppone la decisione di fede ed il discernimento. Tale discernimento della persona di Gesù è a sua volta condizionato da una sincera ed autentica adesione alla volontà di Dio, alla ricerca della sua gloria e non della propria (7,17; 5,44). «La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato. Se uno vuol fare la sua volontà, conoscerà riguardo alla dottrina se è da Dio o se parlo da me stesso» (7,16b-17). Il conoscere Gesù implica il riconoscere che egli è dal Padre e che la sua rivelazione è rivelazione del Padre. La conoscenza talora viene dopo la fede (6,68-69; 8,30-31; 10,37-38). Dice Simon Pietro a Gesù: «Signore, da chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e abbiamo riconosciuto che tu sei il santo di Dio» (6,68-69). La conoscenza della fede non è però superamento della fede come lo è nella gnosi e in ogni misticismo, che si sgancia dal Gesù terreno. La conoscenza della fede ha come suo oggetto la persona stessa di Gesù, e in lui del Padre, che lo ha mandato. Ma è un oggetto che si può percepire solo nell'amore, per cui «conoscere» equivale a «sapersi e sentirsi amati»: «E noi abbiamo conosciuto ed abbiamo creduto l'amore che Dio ha per noi» (1,4,16): un amore che si è rivelato nella storia di Gesù e che il discepolo prediletto ha sperimentato di persona. Anche il «conoscere» - come il «vedere», il «sentire» e il «toccare» - passa attraverso il contatto con la persona terrena di Gesù: col suo conoscere e col suo amare. Per conoscere bisogna essere conosciuti, per amare bisogna sapere di essere amati. È questa la meravigliosa esperienza che ha fatto l'apostolo prediletto, il testimone del quarto vangelo. Vedere la persona di Gesù e in lui il Padre, ascoltare la sua parola che ha il timbro della verità e dell'amore come quella del buon pastore; accostarlo per sperimentare in lui la fonte della vita; conoscere colui che per primo lo ha conosciuto ed amato: questa è l'esperienza sconvolgente di Giovanni, testimone di una persona storica, vista con gli occhi della fede, compresa con un'intelligenza acutissima e passata attraverso il cuore. È da questa fonte che è sgorgata la spiritualità giovannea. L'esperienza sconvolgente dell'amore Nel vangelo di Giovanni, rispetto ai tre sinottici, è singolare la testimonianza diretta del discepolo prediletto, proprio nella storia della passione e morte di Gesù. Essa inizia dalla cena, in cui Gesù lava i piedi ai suoi discepoli. È qui che Giovanni ha conosciuto e creduto all'amore (1Gv 4,18); è sullo sfondo di questo episodio unico, che la comunità ha qualificato il suo «fondatore», «l'altro» discepolo, come «il discepolo che Gesù amava» (13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20). È questa esperienza personalissima dell'amore di Gesù, rivelato in modo straordinario nelle ultime ore della sua vita terrena, che egli

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intende e riesce a comunicare attraverso una tradizione viva, che ha avuto origine da lui e ha trovato la sua redazione nel vangelo. Ci riferiamo, in particolare, a tre episodi, introdotti dalle parole dell'evangelista: «Prima della festa di Pasqua, sapendo Gesù che era venuta la sua ora per passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino al compimento» (13,1). I tre episodi che assurgono a simbolo dell'amore di Gesù per i «suoi» sono: la lavanda dei piedi, l'intimità col discepolo amato e il colpo di lancia dopo la morte. La lavanda dei piedi ai discepoli è un fatto che sconvolse non solo Simone Pietro, ma tutti i discepoli. Gesù capovolgeva radicalmente il costume ebraico: invece dello schiavo non ebreo o del discepolo che lavava, però spontaneamente, i piedi del maestro, era il maestro che lavava i piedi ai suoi discepoli, dimostrando così concretamente il suo amore umile e servizievole. Nel racconto giovanneo vi è un sottile rapporto simbolico fra il «depone (títhêsin) il mantello» (13, 4), «riprese (élaben) il suo mantello» e il detto di Gesù, che conclude l'allegoria del buon pastore: «Per questo il Padre mi ama, perché io depongo (títhêmi) la mia vita per riprenderla (lábô) di nuovo. Nessuno me la toglie, ma io la depongo (títhêmi) da me stesso. Ho il potere di riprenderla (labéîn)» (10,17-18). (Nella traduzione italiana abbiamo intenzionalmente mantenuto sempre il verbo «deporre» per lo stesso verbo greco títhêmi, in modo da rilevare più facilmente la- corrispondenza fra i due testi). Nel gesto storico-simbolico di Gesù l'evangelista legge in prospettiva la sua prossima morte come espressione dell'amore supremo del pastore per le pecore (10,15) e del maestro per i suoi amici (15,13). È dall'esperienza di questo amore sconvolgente che viene l'invito nella seguente parenesi (13,13-17) a seguire il suo esempio, amandosi gli uni gli altri con lo stesso amore umile e servizievole: «Se capite queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (13,17). La verifica dell'esperienza dell'amore «nuovo» di Gesù va letta nella prassi dell'amore, alla sua sequela. Non misticismo astratto, ma esperienza dell'amore concretato nella storia di ogni giorno. In questo orizzonte va letto anche il secondo episodio simbolico: quello dell'esperienza personale del discepolo amato, che segue immediatamente la lavanda dei piedi: «21Detto questo. Gesù fu turbato interiormente e rese testimonianza e disse: - In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà - 22I discepoli si guardavano gli uni gli altri, non riuscendo a capire di chi egli parlava. 23Uno dei suoi discepoli, quello che Gesù amava, stava adagiato proprio accanto a Gesù (lett: nel seno, come Gesù è nel seno del Padre 1,18).24 Allora Simone Pietro gli fa cenno di chiedergli chi fosse quello di cui parlava.25 Egli, chinatosi delicatamente sul petto di Gesù, gli dice: Signore, chi è? 26 Gesù risponde: È quello a cui porgerò il boccone che sto per intingere» (13,21-26). Il discepolo amato, il testimone che sta all'origine della tradizione del quarto vangelo, appare come tale proprio durante l'ultima cena, in un momento di intimità, carico di tragedia. È il momento, in cui Gesù rivela, in modo misterioso, il tradimento di uno dei discepoli. L'intimità del discepolo amato viene utilizzata da Simone Pietro per sapere chi era il traditore. L'amore di Gesù per il discepolo prediletto e la corrispondente intimità di lui, che gli permette di chiedere un segreto così tragico, esprimono, nel modo migliore, la caratteristica di questa esperienza di amore, che si realizza, non in un rapimento mistico, ma nel dono della vita; e in una maniera così singolare qual è il tradimento di un discepolo. Il discepolo della luce e quello della notte (13, 29) vengono contrapposti come due risposte antitetiche alla conoscenza personale di Gesù. Al centro di questa antitesi sta la croce come segno concreto dell'amore. Entriamo così nel terzo episodio: il colpo di lancia (19,31-37). Dopo il racconto della morte, quest'ultimo episodio ai piedi della croce, ne rivela il profondo significato ed insegna l'atteggiamento ideale del discepolo, rappresentato ancora dal «prediletto»: «Venuti (i soldati) da Gesù, siccome lo videro già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con un colpo di lancia gli trafisse il fianco e ne uscì subito sangue ed acqua. E colui che ha visto ha testimoniato e la sua testimonianza è verace e lui sa che dice ciò che è vero, affinché anche voi crediate. Questo avvenne infatti affinché si adempisse la Scrittura: - Non gli sarà spezzato alcun osso -; e ancora un'altra scrittura dice: - Guarderanno a colui che hanno trafitto -» (19,33-37). Il discepolo prediletto invita a credere coloro che ascoltano o leggono la sua testimonianza di prima mano: una fede contemplante ed intelligente ai piedi del Crocifisso dal cuore squarciato. Il fatto apparentemente episodico del colpo di lancia, in ogni caso singolare rispetto al costume di tagliare le gambe ai crocifissi per accelerarne la morte invita a penetrare nel profondo mistero di quel Crocifisso. La lancia che apre il petto di Gesù apre simbolicamente anche il senso profondo e salvifico della sua morte. Compiendosi il rito dell'agnello pasquale - «non gli sarà spezzato alcun osso» - per il fatto che a Gesù non viene praticato il crurifragio, Gesù viene identificato con «l'Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo» (1,29). Innalzato e trafitto dal colpo di lancia, attrae a sé lo sguardo credente per riconoscere in lui il servo del Signore-Messia, predetto da Zaccaria (12,10) che riformula la tradizione del Servo (Is 53). Il cristiano è invitato a seguire spiritualmente il colpo di lancia e penetrare nel segreto del cuore di Cristo: il suo amore che salva. Il sangue e l'acqua, che ne sgorgano, possono avere diversi significati, tra cui i sacramenti, in particolare il battesimo cristiano, che dona lo Spirito (1Gv 5,7-8).

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È bevendo questo sangue, nell'eucaristia, che si partecipa la sua vita (6, 53-56). Quest'ultimo episodio sintetizza le categorie dell'esperienza storica del discepolo amato: egli vede, contempla Gesù crocifisso con l'occhio della fede, ascolta un'eco della sua parola in quella dell'Antico Testamento, tocca Gesù con la lancia che apre al mistero della persona di Gesù e del suo amore salvifico; viene a conoscere chi è Gesù e qual è il significato della sua morte. Se il discepolo prediletto viene identificato con «l'altro discepolo» (18,25), allora egli è l'unico discepolo a seguire Gesù lungo tutto l'itinerario della sua passione fino ai piedi della croce e al sepolcro nuovo. Colui che è penetrato più profondamente nel mistero di Gesù è colui che più da vicino l'ha vissuto: vicino a Gesù nell'ultima cena come discepolo prediletto, vicino a Gesù fino alla croce. Egli così diviene per la sua comunità il modello del discepolo, che lo segue nella sua stessa esperienza spirituale. Giovanni nell'intimità dell'amore di Gesù trova la forza per seguirlo sulla via dell'amore umile e sacrificato fino alla croce. È una esperienza spirituale profondamente radicata nella storia, ma altrettanto profondamente penetrata dalla fede e dall'amore. È la storia dell'amore che si sacrifica sulla croce e nella croce trova il suo compimento e la sua rivelazione suprema. Giovanni invita a contemplare Gesù che lava i piedi ai discepoli e il crocifisso dal petto squarciato. È in questa contemplazione di fede e di amore che ci si potrà avvicinare alla persona di Gesù fino a sentire il battito del suo cuore, come il discepolo amato. L'esperienza spirituale nella comunità giovannea I due orizzonti, quello del testimone oculare e quello dell'evangelista, nel quarto vangelo si fondono, ma non si confondono Ciò permette di distinguere l'esperienza spirituale nella comunità giovannea da quella del testimone, il discepolo prediletto, che ne sta all'origine. Ad essere più precisi, bisognerebbe distinguere le espressioni in cui le due esperienze, del testimone e del credente di ogni tempo, si fondono da quelle in cui esse vengono intenzionalmente separate. Alla prima serie appartengono, ad esempio, i discorsi di addio (13-17), rivolti non solo ai discepoli, ma a tutti i credenti, anche a quelli che subiranno persecuzione nel tempo della chiesa (16,1-4a). I testi che riflettono solo il tempo della chiesa sono ad esempio 10, 16 e 12. 7-8. La prima caratteristica dell'esperienza di Gesù nel tempo della chiesa è che essa è necessariamente mediata; inoltre è personale - contro quindi una spiritualità, volta ad immergersi nel tutto -, ma anche comunitaria; e trova la sua conclusione presso il Padre, nella visione della gloria di Cristo. Come nasce dalla storia di Gesù, vista con gli occhi della fede, così si riflette nella storia, incarnando, per così dire, in essa, il verbo, fattosi carne (1,14). Esperienza mediata Dove non c'è più esperienza diretta di Gesù, divengono necessari mediatori e mediazioni. Le mediazioni dell'esperienza spirituale possono a loro volta essere storiche o trascendenti: le prime legate all'istituzione storica della comunità ecclesiale, le seconde al legame spirituale del cristiano con le tre persone divine: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Le mediazioni istituzionali sono quelle della parola e dei sacramenti. Gesù aveva pregato nella solenne preghiera al Padre: «Non prego solo per costoro, ma anche per coloro che crederanno in me mediante la loro parola» (17,20). Gesù aveva consegnato ai «Dodici» la sua parola, che era la parola del Padre (17,14). Dopo il suo ritorno al Padre, dovranno trasmetterla allo scopo di suscitare la fede in Gesù. Anche il quarto vangelo, nel suo insieme, fu composto allo stesso scopo (20,31). È una mediazione fatta di parole che contengono una profonda esperienza di Gesù ed un messaggio per chi legge. È la parola del testimone che ha fatto l'esperienza storica di Gesù; per questo gli si può fare credito. La fede in Gesù, fondamento di ogni esperienza cristiana, non può nascere che dalla parola: la sua parola vivente che arriva a noi mediante gli apostoli e i loro successori. Tra queste parole hanno particolare importanza i comandamenti di Gesù, la cui osservanza è indispensabile e previa ad ogni esperienza cristiana (14,15.21.23; 1Gv 3,23-24): il comandamento di credere in lui e quello di amarsi scambievolmente (1Gv 3,23). Non basta la fede nella parola. Sono necessari anche i sacramenti, quasi una continuazione dei «segni», in cui si esperimentava la presenza salvifica della persona di Gesù. Ne sono ricordati due, o forse tre, alla luce della tradizione posteriore: il battesimo con l'acqua e lo Spirito (3,5), l'eucaristia come carne e sangue di Gesù «per la vita del mondo» (6,51-58) e la remissione dei peccati con la mediazione di coloro cui viene donato lo Spirito dal Signore glorificato (20,21-23). Il battesimo viene presentato come «nascita dall'alto» o «ri-nascita» - per il duplice senso di ánôthen -. La nuova nascita, che dà una vita diversa da quella naturale è nascita «dall'acqua e dallo Spirito» e permette di «vedere il regno di Dio» (3,3). «Vedere» è un verbo dell'esperienza; significa perciò esperimentare nella propria vita la realtà del regno (3,36; 8,51); e corrisponde all'espressione parallela di 3,5: «entrare nel regno di Dio». Il regno, che sta al centro della predicazione di Gesù nei sinottici, compare solo qui in Giovanni (Ricomparirà come «regno di Gesù», ma «non

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di questo mondo» nel .processo davanti a Pilato 18,36). E significa entrare nella famiglia di Dio, partecipare della sua vita, che non teme più la morte (8,51). Anche l'eucaristia è mediazione di esperienza spirituale: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (6,54); il verso corrispondente è ancora più esplicito: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui» (6,56); e subito dopo: «chi mangia me, vivrà grazie a me» (6,57). L'immanenza in Gesù e la vita per mezzo suo passa attraverso la partecipazione al banchetto del pane di vita, disceso dal cielo. L'eucaristia è la continuazione dell'incarnazione nella storia e l'attualizzazione della morte salvifica di Cristo: «La mia carne per la vita del mondo» (6,51c) ricorda infatti sia l'incarnazione - «II Verbo si è fatto carne» - sia la croce; il «per / hypér» significa la pro-esistenza e la pro-morte di Gesù. L'eucaristia rappresenta quindi la possibilità del contatto più profondo col mistero stesso del verbo incarnato. Infine, il potere di rimettere i peccati, dato al gruppo apostolico dal Signore glorioso: «A chi rimetterete i peccati sono loro rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti» (20,22b-23). Al gruppo apostolico vien dato lo Spirito per trasmettere l'esperienza di pace, che Gesù porta con la sua risurrezione (20,21). Tutti e tre i sacramenti ricordati sono legati al dono dello Spirito (3,3.5; 6,63; 20,21-23), che viene dato con la glorificazione (7,39), la morte (19,30) e risurrezione (20,22b) di Gesù; e perciò sono chiaramente per il tempo della chiesa, che è il tempo dello Spirito. - Alle mediazioni istituzionali della parola e del sacramento, di carattere comunitario, anche se accolte dalle singole persone nella fede, vanno aggiunte le mediazioni interiori, più strettamente personali, che uniscono il credente con le tre persone divine: il Padre, il Figlio e lo Spirito-Paraclito. Nel discorso sul pane di vita: alle mormorazioni dei giudei, che non riescono a vedere in Gesù, figlio di Giuseppe, il Figlio di Dio disceso dal cielo, egli risponde, rivelando non la sua origine, ma quella della fede: «Non mormorate fra di voi. Nessuno può venire a me - cioè credere, in senso attivo -, se il Padre che mi ha mandato non lo attira» (6,43b-44). A conferma porta una citazione del profeta Isaia: «È scritto nei profeti (cioè nel libro dei profeti): - E saranno tutti istruiti da Dio - Colui che ha ascoltato ed ha accolto il suo insegnamento, viene a me» (6,45). Il testo di Isaia 54,13 (LXX) viene universalizzato - «tutti» in luogo di «tutti i tuoi figli (di Sion)» - per significare che ogni uomo viene attratto dal Padre. L'attrazione interiore viene spiegata come l'ascolto di un insegnamento del Padre sul Figlio; e perciò in termini di esperienza spirituale. Non è indicato l'oggetto dell'insegnamento, ma solo l'effetto: andare da Gesù, cioè credere. Questo insegnamento del Padre potrebbe essere anche l'Antico Testamento inteso come «rivelazione di Gesù» interiorizzata (5,45-47; 8,56; e tutte le citazioni espresse dall'AT). Alla fede arriva solo chi rinuncia alla ragione e all'esperienza naturale come unico metro di verità ed ascolta l'insegnamento interiore del Padre, che rende testimonianza al Figlio. Subito dopo però l'evangelista nega drasticamente che l'uomo possa vedere il Padre; lo vede solo il Figlio (6,46; cf 1,18). Perciò l'esperienza di cui ha parlato, l'attrazione interiore del Padre, non va intesa nel senso di «visione diretta» o di esperienza diretta del Padre. Infine, in 6,65 l'attrazione del Padre viene qualificata come dono: «Nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre». La possibilità di andare a Gesù, di affidarsi a lui, di credere in lui è perciò configurata come grazia, come dono gratuito del Padre; ma anche come esperienza, in quanto è percepita come invito ed attrazione alla persona di Gesù, una specie di simpatia spirituale. Oltre all'attrazione del Padre, è necessaria anche quella del Figlio per giungere alla fede e quindi all'esperienza cristiana. Però, mentre l'attrazione del Padre non è legata ad un momento storico particolare, quella del Figlio è invece strettamente collegata al suo innalzamento alla croce ed alla gloria: «E quando io sarò innalzato da terra, attrarrò tutti a me» (12,32). L'innalzamento sulla croce, espressione più alta dell'amore per gli amici o «per i suoi», diviene nello stesso tempo passaggio alla gloria del Padre, centro perenne di attrazione. Quest'attrattiva di Gesù in 8,28 viene interpretata in termini di conoscenza: «Quando innalzerete il Figlio dell'uomo, allora riconoscerete che io sono e che non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, queste cose dico». L'innalzamento di Gesù sulla croce, che rappresenta la sua sconfitta umana più cocente, diviene paradossalmente il momento della sua massima rivelazione: la rivelazione del suo «essere dal Padre» e «nel Padre». Ma la mediazione più importante, nel tempo della chiesa, è l'azione dello Spirito-Paraclito. Qui prendiamo in considerazione solo l'attività dello Spirito in relazione ai discepoli e non quella nei riguardi di Gesù (15,6; 16,8.14). Il Paraclito - è il nome specifico dato da Giovanni allo Spirito - rimarrà con i discepoli (14,16-17), insegnerà loro e richiamerà loro alla memoria quanto disse Gesù (14,26), li guiderà verso la verità totale (16,13). Leggiamoli, nell'ordine in cui compaiono nei discorsi di addio. «E io pregherò il Padre e un altro Paraclito vi darà, affinché sia sempre con voi, lo Spirito di verità, che il mondo non può accogliere, perché non lo vede né lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora presso di voi e sarà in voi» (14, 16-17). «Paraclito» dal verbo parakaleîn, può significare o «colui che consola» o «colui che sta vicino» per aiutare in un processo, cioè l'avvocato

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Il Paraclito, lo Spirito di verità, è dunque il sostituto di Gesù presso i discepoli («un altro Paraclito»), quando egli sarà tornato al Padre. Fino alla sua morte Gesù era stato il consolatore e il difensore dei suoi discepoli. Tutta la descrizione dell'attività futura del Paraclito è calcata su quella del Gesù terreno. Come Gesù, anch'egli è presso i discepoli e «rimane in loro» (14,15 e 14,17); come Gesù non può essere accolto dal mondo (5,43) così lo Spirito di verità non può essere accolto dal mondo (14,17); motivo ne è il fatto che non lo vede e non lo conosce: due verbi questi che esprimono anche l'esperienza del Gesù terreno. Naturalmente visione e conoscenza, in questo caso, sono solo spirituali. I discepoli invece lo conoscono come una persona familiare, con cui si è abitualmente in contatto intimo. Il secondo testo parla di un'attività particolare del Paraclito presso i discepoli: quella di insegnare. Egli sarà il maestro: «Queste cose vi ho detto, mentre rimango presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà tutto e vi farà ricordare ciò che (io) vi ho detto» (14,25-26). Si passa dalla rivelazione storica di Gesù - «Queste cose vi ho detto» - a quella dello Spirito Santo, che la continuerà nel tempo della chiesa. L'insegnamento dello Spirito ha però come centro e principio la persona stessa di Gesù. È il Padre che lo manda; però «nel suo nome». Lo Spirito farà ricordare «ciò che io vi ho detto», «da me prenderà e ve lo annuncerà» (16,14). L'insegnamento dello Spirito Santo è volto a testimoniare Gesù (15,26 e 16,8-11) e a glorificarlo (16,14). L'attività didattica dello Spirito è in ordine alla rivelazione. «Egli vi insegnerà tutto». Egli continuerà ciò che faceva Gesù con i discepoli. Anch'egli impartiva insegnamento (7,16-17) e insegnava (6,59; 7,14.35; 8,2.28; 18,20), per quanto il suo insegnamento fosse dal Padre (7,16-17; 8,28). I discepoli non potevano però portare sulle loro deboli spalle tutto quello che Gesù aveva in cuore di rivelare loro (16,12). Ed ecco che lo Spirito continua la medesima rivelazione di Gesù. La seconda attività dello Spirito è quella di «far ricordare». Non si tratta di un semplice «far venire in mente», ma di far comprendere ciò che Gesù aveva rivelato, penetrare il senso profondo delle sue parole (2,17-22; 12,16; 16,13-15). L'azione dello Spirito è quindi in parte volta al futuro, alla rivelazione completa; in parte è volta al passato per comprendere la rivelazione storica di Gesù. Il terzo testo esplicita l'azione dello Spirito in relazione alla verità e al futuro della chiesa: «Quando verrà lui, lo Spirito di verità, vi guiderà in tutta la verità. Non parlerà infatti da se stesso, ma quanto sentirà dirà e vi annuncerà le cose venture» (16,13). In questa profezia di Gesù l'attività dello Spirito Santo viene descritta con tre verbi: «condurrà» sulla via, che è Gesù, verso la verità totale ossia verso la rivelazione completa. Quest'attività sarà un «parlare» cioè una comunicazione personale. Infine si tratta di una rivelazione di carattere profetico-apocalittico, indicata con l'«annunciare le cose venture». Nella letteratura apocalittica giudaica ciò non indica una nuova rivelazione, ma l’interpretazione di una profezia antica, rimasta oscura e misteriosa: nel nostro caso la persona e la parola di Gesù. Oggetto dell'annuncio sono le cose future: il futuro di Gesù, cioè la sua morte e risurrezione (20,9), le future persecuzioni della chiesa e tutta la storia futura fino al ritorno di Gesù. «Annunciare» è in realtà comprendere tutta questa storia orientata all'eschaton. I due ultimi testi citati dicono sostanzialmente la stessa cosa: 1) all'«insegnare tutto» del primo corrisponde «la guida in tutta la verità» del secondo; 2) al «far ricordare» del primo corrisponde «l'annunciare le cose venture» del secondo. La prima attività intende continuare la rivelazione di Gesù, la seconda interpretare la rivelazione di Gesù, illuminando con essa anche la storia. La rivelazione oggettiva si è chiusa con gli apostoli cui Gesù direttamente si rivolge; ma la comprensione della rivelazione storica continua sempre anche nel tempo attuale della chiesa. Lo Spirito è quindi insieme soggetto attivo di rivelazione e persona di cui il credente ha esperienza personale, in quanto egli continua nel tempo della chiesa la presenza e l'azione di Gesù. L'esperienza di Gesù, quindi, nel tempo, della chiesa, è un'esperienza, mediata dalla parola degli apostoli e dai sacramenti che donano la nuova vita: la vita stessa di Gesù; è mediata anche dall'azione interiore del Padre che attrae a Gesù; da quella del Figlio, che attrae a sé con l'innalzamento alla croce ed alla gloria; e soprattutto dall'attività dello Spirito Paraclito: insegnare, far comprendere ricordando e interpretando la rivelazione stessa di Gesù e la storia alla luce di essa. Esperienza personale progressiva La fede nella parola di Gesù, mediata dagli apostoli, e la nascita dall'acqua e dallo Spirito fanno iniziare nel credente una nuova vita, «dall'alto», animata dall'amore. Il dono della vita all'uomo, che si presuppone l'abbia perduta per causa del diavolo (8,44), è lo scopo della venuta di Gesù: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (10,10b); lo stesso vangelo è stato scritto: «perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (20,31). Leggiamo la stessa affermazione nella prima lettera di Giovanni: «E questa è la testimonianza che Dio ci ha dato la vita eterna, e questa vita è nel Figlio suo» (1Gv 5,11).

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«Vita» e «vita eterna» compaiono in tutto il NT, ma è un tema caratteristico di Giovanni. «Vita» ricorre infatti 36 volte nel quarto vangelo, di cui circa la metà con l'aggettivo «eterna»; se vi aggiungiamo le 13 volte della 1Gv, le 17 volte che compare il verbo «vivere» e 3 «far vivere», il tema ricorre complessivamente circa 70 volte negli scritti giovannei. «Vita» e il suo contrario «morte» rimandano a realtà sopraterrestri: il Dio vivente e colui che è omicida fin dal principio (8,44), per cui vita e morte sono dei simboli, che rivelano un'esperienza spirituale, come dice G. Stemberger. «Sotto il simbolo della vita è... espressa l'intima esperienza di Dio e di Cristo... La vita ha una sua propria dinamica ed indica una messa in questione di tutto il proprio essere intero. Perciò morte e vita come fatti di esperienza, appartenenti al nostro mondo, divengono espressione di una realtà superiore: la vera vita presso Dio e la sola vera morte nel peccato» (La symbolique du bien et du mal selon saint Jean, Paris 1970,51) «Vita» e «morte» rimandano perciò al di là dell'esperienza terrena. Uno può essere morto, anche se fisicamente vive, mentre può vivere di vita eterna, anche se fisicamente muore. Il motivo fondamentale, secondo Mussner è che la vita eterna del cristiano è partecipazione della vita gloriosa di Cristo, che ha già vinto la morte (Zôê. Die Anschauung vom Leben im vierten Evangelium, München 1952,140.144). Il credente possiede quindi la vita, perché è unito a Cristo, il quale ha la vita in se stesso come il Padre (5,26) e perciò la può donare come il Padre dona la vita e risuscita i morti (5,21). Lazzaro, nel sepolcro, che ascolta la voce solenne di Gesù che lo richiama alla vita, è segno di quello che è Gesù per tutti i credenti «che ascoltano la sua voce»: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se è morto, vivrà; e colui che vive e crede in me, non morrà in eterno» (11,25-26). Queste parole, dette da Gesù a Marta, sono enunciate, nel tipico discorso di rivelazione, come una norma generale. La parola di Gesù dà la vita mediante la fede (6,68), e la sua persona, accolta nell'eucaristia, è sorgente della vera vita (6,57). La qualifica di «eterna» data alla «vita», ricevuta da Gesù, non riguarda il tempo, ma la sua qualità superiore rispetto alla vita naturale. La vita eterna apparirà in tutto il suo splendore, svelata, solo nella visione della gloria di Gesù presso il Padre (17,24). È la vita dei «figli di Dio» nel Figlio, che aspettano la loro rivelazione nella visione futura di Dio (1 Gv 3, 2). La vita eterna che il cristiano possiede è la comunione più intima con Gesù, fonte di vita, e, per mezzo suo, col Padre vivente. Di qui la gioia, segno concreto della salvezza presente (1Gv 1,4). Ma come il credente ha coscienza di questa vita? Attraverso la conoscenza personale di Dio, Padre di Gesù Cristo, attraverso la mutua immanenza e la rivelazione interiore del Padre e del Figlio nello Spirito. Nella grande preghiera di Gesù al Padre si ha una specie di definizione di vita eterna: «Questa è la vita eterna, che conoscano te, il solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (17,3). Il riconoscimento di Dio era stato annunciato per l'epoca messianica dal Deutero-Isaia (43,10 LXX). E Gesù lo preannuncia pure come un fatto che si realizzerà col suo ritorno al Padre: «Quando innalzerete il Figlio dell'uomo, allora riconoscerete che io sono» (8,28); e nel discorso di addio: «In quel giorno conoscerete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi» (14,20). La vita eterna dunque consiste nella conoscenza del Padre nel Figlio. Il Padre è visto e conosciuto nel Figlio. Per i profeti il culmine dell'esperienza religiosa consisteva nell'esperienza concreta dell'unica maestà di Dio Signore. Per Giovanni quest'esperienza è resa possibile per mezzo dell'accettazione di Cristo in quanto rivelatore di Dio, di Cristo in quanto formante un'unità inseparabile con Dio; e il culmine di tutto questo processo si ha quando esperimentiamo la nostra unione con Cristo in Dio. A questo punto siamo costretti ad ammettere che la distinzione tra essere in Cristo e il sapere di essere in Cristo è semplicemente formale: la conoscenza si è trasformata di fatto in unione». La conoscenza personale di Dio, unione con la vita, e quindi vita, porta ulteriormente alla mutua conoscenza ed alla mutua immanenza. Gesù è mediatore della conoscenza e dell'immanenza in Dio. Percorriamo i testi principali che sono: 15,1-17; 17,20-23 e 1Gv 2,24. In Gv 15,1-17 il discorso di Gesù è impostato sull'allegoria della vite e dei tralci, che devono «portar frutto» a gloria del Padre, l'agricoltore. Sono due i temi trattati in questo brano: la mutua immanenza di Gesù nel cristiano e del cristiano in Gesù (15,1-8) e l'invito a «rimanere nel suo amore» (15,9-17). L'imperativo precede sempre l'indicativo, per cui viene sottolineato fortemente l'aspetto dinamico ed attivo dell'immanenza. Non è possesso mistico e stabile per sempre né assorbimento impersonale del cristiano in Cristo, ma attività apostolica in funzione di un frutto da maturare; attività che può essere interrotta per la rottura del legame vitale con Gesù. Di qui il monito conseguente: «Rimanete in me ed io in voi» (15,4a). La spiegazione procede in una duplice sequenza parallela. La prima è di carattere figurativo-catechetico: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così nemmeno voi..., se non rimanete in me» (15,4). La seconda è espressa in termini reali: «Chi rimane in me ed io in lui, questi porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla» (15,5). «Rimanere in lui» significa credere in lui, nella sua parola ed amarlo. Infatti Gesù si esprime negativamente in questo modo: «Se uno non rimane in me, fu gettato fuori come un tralcio e si disseccò» (15,6). Ora, questa terminologia è usata in 6, 37 in relazione al «credere» e in 14,24 in rapporto all’«amare». Fede ed amore quindi realizzano l'immanenza in Gesù, anche se l'espressione «rimanere in me»

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indica una realtà personale più profonda, in cui si radicano fede ed amore. Il corrispondente «Gesù rimane in noi» è più misterioso; ma, alla luce dell'allegoria della vite e del tralci, significa ricevere da Gesù la linfa vitale: la sua parola e la sua stessa vita, feconda di frutti. Nei v. seguenti la mutua immanenza di Gesù nel cristiano e del cristiano in lui una nuova formulazione dell'alleanza, viene specificata in due modi diversi: come immanenza delle sue parole in noi e come nostra immanenza nel suo amore: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, domandate pure quello che volete e vi sarà fatto» (15,7). La parola di Gesù è quella interiorizzata, è quella divenuta parola nostra, vita della nostra vita, principio interiore di azione ed espressione del nostro stesso essere. Ciò si realizza mediante la fede vissuta. Poco dopo si ha una seconda formulazione dell'immanenza: «Rimanete nel mio amore! Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (15,9b-10). In luogo di «rimanere in me» si ha «rimanere nel mio amore». La condizione concreta per rimanere nel suo amore è osservare i suoi comandamenti, seguendo Cristo nell'obbedienza al Padre. Gesù ha osservato il comandamento del Padre fino alla morte. Il suo discepolo deve avere la stessa disponibilità. L'amore di Gesù per il discepolo viene espresso con la categoria dell'amicizia, quello dei discepoli tra loro con il suo stesso comandamento: «Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di questo: rimetterci la vita per i suoi amici. Voi siete miei amici se fate quello che vi comando» (15,12-14). Nella preghiera di Gesù al Padre ritorna la formulazione tipica della mutua immanenza in funzione dell'unità fra i credenti, che deve modellarsi sull'unità tra il Figlio e il Padre (17,20-23). È attraverso l'immanenza nel Figlio che i credenti vengono introdotti al Padre. La mutua immanenza di Gesù nel discepolo e del discepolo in lui è personale al massimo grado, legata com'è alla mediazione della persona storica di Gesù. Essa implica un impegno etico, in quanto esige l'osservanza dei comandamenti, che arrivano fino a chiedere il sacrificio della propria vita. Non è quindi un'immanenza mistica, estranea al mondo, ma impegnata per l'uomo concreto. È infine strettamente dipendente dal fatto dell'amore di Cristo, rivelato nella sua vita e nella sua morte di croce. Il contenuto dell'immanenza da parte di Gesù è: la sua parola, il suo amore sacrificato, la sua vita, il suo comandamento, il suo esempio; da parte dei discepoli: la fede nella parola vissuta, l'amore a Gesù che si esprime concretamente nell'osservanza dei comandamenti, il seguire il suo cammino, il portare molto frutto a gloria del Padre. La mutua immanenza fa spazio all'amore e chiama a raccolta i discepoli. Questo spazio dell'amore ed all'amore l'ha creato Gesù per iniziativa del Padre. I discepoli non hanno che da accogliere l'invito ad entrare in questo spazio mediante la fede vissuta e l'amore attivo. Che questa mutua immanenza abbia carattere personale, etico e progressivo lo si può dedurre da un altro testo, che è stato spesso oggetto di meditazione amorosa nella tradizione spirituale. È quello in cui Gesù parla della sua venuta col Padre mediante lo Spirito nella vita del discepolo amante, come in una tenda: la tenda della presenza salvifica di Dio in mezzo al suo popolo nel deserto, la skekinà. Dalla mutua immanenza cristologica passiamo così a quella trinitaria. Il testo di 14,15-24 è noto. Gesù parla dapprima dello Spirito, poi di sé, infine del Padre in ordine ad un'esperienza spirituale, volta a continuare quella del contatto personale dei discepoli con lui. Anche se vi parla del Paraclito e del Padre, il centro rimane comunque lui, Gesù come mediatore. Il tema è quello dell'amore (14,15.24), che si concreta nell'osservanza dei suoi comandamenti (14,15.24). Gesù, nell'imminenza della sua «partenza», promette ai suoi discepoli di ritornare: «Non vi lascerò orfani, ritornerò a voi. Ancora un po' e il mondo non mi vedrà più, ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi riconoscerete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi» (14,18-20). La mutua immanenza in Gesù è qui attratta all'immanenza nel Padre verso il momento escatologico - «in quel giorno» -, in cui avverrà la rivelazione suprema. Mentre fino al v. 20 Gesù parla agli apostoli rivolgendosi a loro col «voi», nei v. 21-24 invece parla al singolare in terza persona del singolo cristiano e quindi di ogni cristiano, nel lungo tempo della chiesa. E mentre in 14,18-20 il discorso era applicabile all'esperienza unica e irripetibile della risurrezione, in 14,21-24 l'esperienza spirituale di cui parla si realizza nel tempo della chiesa: «Chi ha i miei comandamenti e li osserva, è lui che mi ama. Colui che mi ama sarà amato dal Padre mio ed io lo amerò e manifesterò me stesso a lui. - Gli dice Giuda (non l’lscariota): - Signore, ma che è mai successo che tu stai per manifestare te stesso a noi e al mondo? - Gli rispose Gesù: - Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui» (14,21-23). In questo testo tutta l'attenzione è concentrata sulle conseguenze dell'amore, che si concretizza nell'osservanza dei comandamenti di Gesù, su quell'esperienza interiore, negata al mondo, che non ama Gesù, perché non osserva i suoi comandamenti (14,23.24). Le conseguenze dell'amore concreto a Gesù sono: 1) l'amore del Padre, 2) l'amore del Figlio, 3) l'autorivelazione di Gesù, 4) e la venuta e dimora delle persone divine del Padre e del Figlio nella persona amante ed amata. A giudicare dalla domanda di Giuda, che divide i due interventi di Gesù, centro di interesse è la manifestazione personale di Gesù a colui che lo ama, osservando i suoi comandamenti. Egli manifesterà se stesso come Figlio del Padre, come buon pastore che conosce le sue pecore, come luce che illumina i problemi

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più cruciali dell'uomo, come vita che vivifica... Oggetto di questa rivelazione è lui stesso: «e manifesterò me stesso a lui». Sia dall'insolito verbo (emphanízein), usato solo qui in Giovanni, sia dall'oggetto (emautón) si comprende trattarsi di una rivelazione personale più che di conoscenza concettuale. La manifestazione personale di Gesù risorto al discepolo che lo ama con coerenza di vita nel secondo intervento viene riespressa come venuta e dimora: due verbi che significano pure un'esperienza personale. Quando uno viene in casa nostra e vi si ferma, diviene familiare, una persona, che, appunto perché vicina, si conosce sempre più a fondo, perché nella vicinanza di vita manifesta il mistero della sua persona e della sua bontà. Mi sembra venga qui meglio spiegata anche la mutua immanenza: il rimanere di Gesù in noi con il Padre è conseguenza di un venir a dimorare, è un manifestarsi con la sua stessa presenza familiare e salvifica. A questa manifestazione - quasi una «comparizione», tenendo conto del senso del verbo emphanízein - di Gesù risorto corrisponde certamente, da parte di chi lo ama, una conoscenza esperienziale, accompagnata da gioia e pace interiore (14,2-28) come nelle apparizioni ai discepoli del Signore risorto (20,19-20). Il linguaggio spaziale - venire, dimorare – vuol essere un linguaggio esistenziale. È lo spazio immenso dell'amore, creato da Gesù, che permette la dimora nel cristiano delle persone divine. La mutua immanenza appare come conseguenza del mutuo amore, che porta ad una rivelazione progressiva di Gesù a colui che ama. Questo testo, in cui l'amore del Padre e del Figlio è subordinato a quello concreto dell'uomo per Gesù, pone il problema della priorità dell'amore di Dio su quello dell'uomo. Il problema è però solo apparente. Emphanízein nei vangeli compare solo una volta in Mt 27,53 per i morti che risorgono e «compaiono» in Gerusalemme alla morte di Gesù. Poi ricorre ancora negli Atti con significato giudiziario di «comparire» davanti ad un tribunale (23,15.22; 24,1; 25,2.15). Infine, ricorre due volte nella lettera agli Ebrei (9,24; 11,14). L'ambiente culturale è perciò decisamente ellenistico. L'amore del Padre, che si rivela in modo sublime nel verbo incarnato, precede ovviamente l'amore dell'uomo, ed è universale (3,16; 6,44-45; 14,9-10). Però, affinché quest'amore divenga effettivo e raggiunga la persona umana nel suo intimo, è necessaria la risposta di fede vissuta e di amore pratico dell'uomo interpellato. Di questo si parla appunto in 14,15-24. L'amore a Gesù, che si rivela autentico nell'osservanza dei comandamenti, è una risposta all'amore «primo» di Dio (1Gv 4,9-10). L'esperienza personale si rivela perciò nella conoscenza del Padre nel Figlio da lui inviato, nella mutua immanenza del discepolo in Gesù e di Gesù nel discepolo, che implica la mutua conoscenza e il mutuo amore. E il mutuo amore attira la presenza familiare delle persone divine e propizia una progressiva manifestazione personale di Gesù a chi lo ama. Esperienza comunitaria Oltre all'esperienza personale del mistero trinitario in Cristo, si può parlare anche di un'esperienza spirituale comunitaria, in quanto una certa forma di amore è possibile solo come imitazione ed effetto dell'amore cristologico e intertrinitario, per cui questo genere di amore diviene espressione concreta dell'intima unione con Dio (1Gv 3,11-24). Si potrebbero riassumere le caratteristiche di questo tipo di amore: nella reciprocità (13,34-35; 15,12.17; 1Gv 3,11.23; 4,7.11.12), nel sacrificio di sé fino alla morte (13,15.34; 15,12) e nella unità (17,11.21-23). L'amore scambievole è oggetto del comandamento nuovo, dato da Gesù, che passa nella catechesi primitiva (Rm 13,8; 1Ts 4,9; 1Pt 1,22); trova il suo modello - «come» - in Gesù stesso, soprattutto nel suo esempio di servizio (13,15) e del dono di se stesso fino alla morte (13,34; 15,12-13; 1Gv 3,16). Praticando quest'amore scambievole, che si modella su quello di Gesù per noi e di noi per lui, si arriva all'unità, desiderio ardente di Gesù ed oggetto della sua preghiera al Padre. Anche l'unità ha il suo modello trascendente in quella tra il Padre ed il Figlio, fondamentale in tutto il vangelo (17,11.21-23). Così anche la mutua immanenza del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre dev'essere il modello della mutua immanenza dei discepoli nel Padre e nel Figlio, «in noi» (17,22). Sia l'amore scambievole sul modello di Gesù sia l'unità sono un segno evidente della presenza del Padre e della sua azione mediante il Figlio così da divenire un argomento per identificare la comunità di Gesù (13,35) e credere nella missione del Figlio dal Padre (17,23). L'esperienza dell'amore comunitario è l'espressione dell'unione intima col Padre e il Figlio, e diviene anche la ragione della fede in Gesù. Per la futura fede quindi non basta la mediazione della parola. Ci vuole anche la mediazione della vita, segno dell'efficacia della parola di Gesù, interiorizzata nella fede e praticata nell'amore. Che non si tratti di un semplice fatto morale, ma di una realtà più profonda ce lo dicono due testi: uno del. vangelo ed uno della prima lettera di Giovanni. Il primo è la conclusione della preghiera di Gesù al Padre: «E ho fatto loro conoscere il tuo - del Padre - nome e continuerò a farlo conoscere; affinché l'amore (agape), con cui tu mi hai amato sia in me ed io in loro» (17,26). Il secondo parla dell'amore concreto al fratello: «Se qualcuno possedesse dei beni del mondo e vedesse il suo fratello nell'indigenza e gli chiudesse il cuore, come rimane in lui l'amore (agape) di Dio?» (1Gv 3,17). L'amore di

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Dio in noi (agape) è quindi il fondamento dell'amore fraterno e la risposta all'amore di Gesù «In questo abbiamo conosciuto l'amore (agape), che lui ha posto la sua vita per noi; e anche noi dobbiamo porre la nostra vita per i fratelli» (1Gv 3,16). La fede vissuta ci fa sperimentare l'amore di Cristo, e l'amore di Dio in noi diviene una forza interiore, che ci rende capaci di imitarlo. Così l'autentico amore scambievole, fatto di servizio, di dono di sé, di sacrificio della propria vita è la forma autentica dell'esperienza cristiana. Sia colui che lo pratica sia colui che lo vede praticare sperimentano il mistero dell'amore di Dio. Per Giovanni però non è possibile la vera esperienza dell'amore che tra fratelli di fede, anche se tali sono potenzialmente tutti gli uomini (11,52; cf. 3,16). Il mondo invece, nel senso negativo, e cioè gli uomini che rifiutano positivamente Gesù, è sotto l'impero dell'odio (15,18-19; 17,14; 1Gv 3,12-13), e non ha l'amore di Dio in sé (5,42). L'amore comunitario è pertanto una forma dell'esperienza di Cristo, perché lega a lui ed è imitazione di lui, perché è, in ultima analisi, segno della presenza dell'agape di Dio. In tal modo l'esperienza del rapporto interpersonale tra i fratelli viene inserita nel rapporto personale fra il cristiano e il Padre nel Figlio da lui inviato per rivelare e portare l'amore, per creare quello spazio di amore, in cui tutti gli uomini abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza (10,10). L'esperienza presente, preludio della vita futura L'esperienza cristiana, per quanto esaltante, rimane pur sempre un'esperienza di fede e quindi oscura. Della vita futura Giovanni parla con i simboli dell'esperienza presente. Nel discorso di addio Gesù esorta i discepoli a non temere e a credere in lui e in Dio (14,1). A conferma continua: «Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore (mónai); se no, vi avrei forse detto che vado a prepararvi un posto? E quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi» (14,2-3). Gesù promette un posto presso di sé nelle dimore del Padre - secondo la concezione apocalittica - per realizzare il desiderio dell'uomo di essere con l'amico. Ora, questa vita futura viene descritta da Gesù con lo stesso simbolo della dimora monên - ménein = rimanere - con cui viene descritta la presenza del Padre e del Figlio nel cristiano («e faremo dimora presso di lui: 14,23). Mentre il Padre e il Figlio pongono la loro dimora nel discepolo, dopo la morte egli avrà una dimora nella casa del Padre, dove vedrà la gloria di Gesù. Nella preghiera sacerdotale ricorre ancora il desiderio di Gesù di portare con sé i suoi amici, i discepoli nella sua gloria futura: «Padre, ciò che tu mi hai dato, voglio che dove sono io siano anch'essi con me, perché contemplino la mia gloria che tu mi hai dato, perché mi hai amato prima della creazione del mondo» (17,24). Gli apostoli avevano visto il riverbero della gloria divina del Figlio nei segni e nel Signore risorto, ma la gloria eterna non l'avevano contemplata neppure loro. Gesù vuole che vedano la sua gloria divina, dopo il suo ritorno al Padre. Essere con Gesù nella vita futura è contemplare la sua gloria, che rapisce e dà gioia e pace. Nella prima lettera di Giovanni si parla pure della vita futura del cristiano, non però nel quadro cristologico dell'amicizia con Gesù, ma in quello teologico della figliolanza divina. I cristiani sono figli di Dio senza conoscere pienamente la realtà che già possiedono: un possesso di Dio ancora oscuro, che rivelerà la sua bellezza e ricchezza solo nella vita futura: «Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non si è ancora manifestato che cosa saremo. Sappiamo che quando si manifesterà, saremo simili a lui perché lo vedremo com'egli è» (1Gv 3,2). Tale speranza è un forte motivo di continua purificazione spirituale: «E colui che ha questa speranza in lui, purifica se stesso come quegli è puro» {1Gv 3,3). La futura rivelazione di Dio è quindi oggetto di speranza; la futura visione di Dio manifesterà la realtà nascosta dei figli di Dio. Proprio perché «simili a lui», lo potranno vedere «com'egli è». Due perciò sono le categorie per esprimere la futura vita con Dio: l'essere insieme con Gesù nella casa del Padre, e la visione della gloria del Figlio incarnato come anche la visione di Dio. La futura vita dei «figli di Dio» nel Figlio si riflette dunque nella vita presente come possesso prezioso, ma nascosto, come promessa coltivata nella speranza, come desiderio ancora inappagato, che anima la fedeltà nella prova e stimola alla purificazione del cuore, perché solo «occhi puri» potranno vedere «colui che è puro». Lo sguardo alla vita futura con Dio ha quindi grande importanza per la vita spirituale presente. Tempo di Gesù e tempo della chiesa A questo punto stimiamo opportuno sintetizzare brevemente l'esperienza spirituale nel tempo di Gesù e in quello della chiesa. Nel tempo di Gesù, le persone che lo incontrano e lo accostano, in particolare i discepoli, lo vedono, lo sentono, lo possono toccare e conoscerlo personalmente. Di fronte a Gesù, che invita a credere in lui, si attua una divisione fra chi crede e, chi rifiuta di credere. È il dramma della decisione di fede e della conseguente discriminazione. Il che vuol dire che l'esperienza storica di Gesù in quanto tale né allora né ora porta necessariamente alla fede. La fede, in altre parole, non è una necessaria conseguenza logica della conoscenza storica di Gesù. Ma a chi si decide per la fede in lui e nella sua parola, si apre la via ad un altro genere di esperienza, quella spirituale, cioè quella che si pone sul piano dello Spirito ossia sul piano trascendente di Dio. Allora egli vede in Gesù l'inviato del Padre e il Padre stesso,

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sente nelle sue parole la voce del Padre, e viene a conoscere in modo personale lui e il Padre, ottenendo luce, gioia e pace: insomma, una nuova vita, una nuova esistenza. È quello che hanno sperimentato gli apostoli col dono dello Spirito Paraclito dopo la risurrezione di Gesù. Nel tempo della chiesa il contatto con Gesù non è più possibile se non attraverso la mediazione dei primi testimoni, attraverso la traccia lasciata da Gesù in loro: nelle loro parole e nella loro vita. La fede però è possibile anche senza la visione, l'ascolto, il contatto fisico col Gesù terreno o col Signore risorto. Questa è anzi la condizione normale del cristiano, beatificata da Gesù: «Beati coloro che credono senza vedere» (20,29c). Anche questa fede sulla parola dei primi testimoni, mediata dalla chiesa e dall'attrazione interiore del Padre, la parola e la vita del Figlio, e la guida dello Spirito, porta ad una visione spirituale di Gesù nella sua comunità e nella contemplazione della sua vita terrena; porta ad un ascolto spirituale della parola di Gesù, che risuona e viene interpretata nella comunità ecclesiale, che è l'ovile e il gregge di Gesù; porta ad un contatto spirituale con lui in particolare nei sacramenti del battesimo e dell'eucaristia, ricevendo da lui la vita. In tal modo si conosce personalmente Gesù e in lui il Padre. Questa fede, se progredisce ed è coerentemente vissuta con l'osservanza dei comandamenti di Gesù, cioè di tutto il suo insegnamento, porta ad un'esperienza più intima, qualificata come familiarità, amicizia e rivelazione personale di Gesù ai «suoi». Attraverso l'esperienza dell'amore del Padre, contemplato nella vita e morte del Figlio alla luce dello Spirito si attua anche l'amore fraterno, radicato nell'immanenza e nell'unità vitale delle persone del Padre e del Figlio. Essendo la comunità cristiana una realtà insieme storica e trascendente la storia, rivela in sé al mondo la persona di Gesù, che agisce in essa in ordine all'amore servizievole e sacrificato ed all'unità. E perciò porta all'interno della storia umana l'esperienza di una persona, di una verità, di un amore, che vengono dall'alto mediante il Figlio glorificato, che dona continuamente il suo Spirito. L'esperienza cristiana di intima comunione con Gesù nel Padre mediante lo Spirito trova il suo approdo finale nella visione di Dio, della gloria eterna del Figlio incarnato, nella dimora del Padre insieme con l'amico divino. L'amicizia coltivata sulla terra con la persona invisibile, ma presente, di Gesù trova lassù il suo compimento nella visione serena ed amante, nella comunione definitiva. 3. Il confronto critico ossia la verifica dell'esperienza cristiana nelle lettere di Giovanni Verso la fine del I secolo i cristiani delle comunità gio-vannee attraversarono una profonda crisi. La loro serena e fervorosa esperienza spirituale della fede in Gesù e della carità fraterna rischiava di naufragare nella mistica. Tale nuova esperienza, predicata dai falsi profeti, si presentava come una spiritualità superiore, che abbandonava in sostanza il mondo e il terreno della storia alla ricerca di una conoscenza e visione diretta di Dio, attraverso cui si arrivava alla perfezione stabile; e si superava così la necessità della mediazione di Cristo, Figlio di Dio incarnato, che ci ha purificati dai peccati col suo sangue (1Gv 1,8; 4,2; 5,6). L'interpretazione errata del kérygma cristiano da parte degli anticristi (1Gv 2,18), chiamati anche bugiardi (1Gv 2,22) e falsi profetici Gv 4,1) dev'essere stata abbastanza diffusa in modo da creare una reale minaccia alla comunità, richiamata ripetutamente da Giovanni alla fedeltà del kérygma ricevuto «fin dall'inizio» (1Gv 2,7.13.14.24.24; 3,8.11; 2Gv 5-6). È difficile configurare i contorni di questo errore, anche perché non ne abbiamo fonti dirette; e con probabilità, nella presentazione polemica, viene enfatizzato nei suoi aspetti negativi. Esso proveniva da un fronte spirituale, che pretendeva conoscere e vedere Dio direttamente (1Gv 4,12.20; 3Gv 11), e di amarlo in modo più puro dei cristiani comuni. Con Weiss possiamo così sintetizzarne gli elementi essenziali: 1) destoricizzazione della teologia (cristologia); 2) pretesa di una conoscenza diretta e visione diretta di Dio; 3) disprezzo della tradizione; 4) la coscienza di essere perfetti, senza peccato; 5) negazione conseguéntemente dell'azione soteriologica del sangue di Cristo; 6) disattenzione alla morale - i comandamenti - fondata sul modello e l'insegnamento di Gesù; soprattutto non praticando il comandamento «nuovo» dell'amore fraterno (K. WEISS, Die «Gnosis» im Hintergrund und in Spiegel der Johannesbriefen, in: K.W. TRÖGER (ed.), Gnosis und Neues Testament, Berlin 1973, 341-356 (p. 353). In questa situazione di confusione dottrinale e pratica era assolutamente necessario il discernimento degli spiriti: «se sono da Dio...» (1Gv 4,1). Il criterio che l'autore della lettera utilizza non è né carismatico né quello dell'esperienza personale dello Spirito. Ma piuttosto quello più obiettivo dello Spirito, che suscita l'autentica professione di fede cristologica e l'amore fraterno, in stretta comunione con la tradizione viva dei testimoni originari (1Gv 1,1-4; 3,16-18.23). È lo stesso criterio che offre Matteo per discernere i falsi profeti, presenti pure nella sua comunità: «dai frutti li riconoscerete» (Mt 7,16). Criteri fondamentali sono dunque: la fede autentica secondo la tradizione apostolica, e l'amore concreto al fratello, che mira alla comunione e non alla divisione. I falsi profeti, dividendo Gesù dal Cristo e dal Figlio di Dio (1Gv 2, 22; 4,3; 2Gv 7), dividevano anche la comunità. Negando l'incarnazione del Figlio di Dio (1Gv 4,2; 2Gv 7), negavano conseguentemente anche l'impegno concreto di amore agli altri (2Gv 2,9.11; 3,15-18). Si potrebbe quindi dire che questa esperienza spirituale si configurava come una esperienza elitaria, ispirata, genericamente parlando, alla mistica greca, una mistica vicina a quella che si riflette nell'ermetismo.

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L'autenticità della spiritualità cristiana si doveva quindi misurare sull'accettazione credente dell'umiliazione di Dio con l'incarnazione e la redenzione mediante il sangue del Figlio suo (1Gv 2,1-2; 5,6-8); e con l'amore concreto al fratello, l'aiuto scambievole in cui si esprime l'amore scambievole. Inoltre, non deve rinchiudersi nella superba coscienza della propria superiorità - «Non abbiamo nessun peccato»: 1Gv 1,8, - ma confessare i propri peccati per averne il perdono per mezzo del sangue di Gesù e per poter progredire in un cammino duro e difficile. È una spiritualità adatta a tutti e offerta a tutti, come il Figlio di Dio, facendosi uomo, si è sacrificato per tutti (1Gv 2,2; 3,16), e vuole che tutti abbiano la vita eterna (1Gv 5,20). L'anima della spiritualità giovannea è perciò lo Spirito «da Dio» che, come tale, confessa l'incarnazione e la redenzione del Figlio di Dio e l'impegno per la carità fraterna. Incarnazione e redenzione vengono lette come «Dio che ci ha amato per primo» e come la rivelazione storica del Dio «che è amore» (1Gv 4,8). È solo credendo a questa rivelazione storica dell'amore impensabile di Dio, che il cristiano trova la forza di amare il prossimo, dimostrando così concretamente di amare Dio (1 Gv 4, 20). Di qui possiamo trarre alcuni criteri fondamentali per giudicare l'autentica spiritualità giovannea: 1) autentica esperienza spirituale è fondata sulla fede nell'incarnazione del Figlio di Dio e nella redenzione col suo sangue come segno storica che Dio è amore ed amore primo; 2) essa è ancorata alla tradizione storica vivente, che risale ai primi testimoni; 3) si deve esprimere nella carità concreta verso il fratello, osservando il comandamento nuovo e il modello, offertici da Gesù; 4) non deve avere alcuna pretesa di raggiungere Dio direttamente, ma accettare la necessaria, unica mediazione della persona storica di Gesù Cristo, Figlio di Dio come rivelazione ed incarnazione dell'amore di Dio. La visione di Dio è riservata al futuro (1Gv 3,2); 5) è una esperienza spirituale che si fonda sulla coscienza di essere «figli di Dio» (1Gv 3,2) e perciò fratelli (1Gv 5,2). La vita spirituale cristiana può essere minacciata dalla menzogna, dalla falsa profezia, da coloro che si oppongono a Cristo - anticristi - e che tuttavia pretendono di essere cristiani di rango superiore, perché con una conoscenza ed esperienza superiore intendono superare la fede comune. La trascendenza divina che caratterizza tutta la spiritualità giovannea, fondata sulla nascita dall'alto, dallo Spirito, non va intesa quindi come una fuga dalla storia né come una demondanizzazione mal intesa, in senso gnostico. Il cristiano è chiamato piuttosto ad incarnarsi. Il suo movimento spirituale dev'essere dall'alto verso il basso e non l'inverso, dove «dall'alto» è il dono di Dio accolto nella fede e il «verso il basso» è la verifica pratica che questo dono è stato accolto, portando frutti di amore. Deve perciò assumere questo mondo, trasformandolo però con una dinamica opposta a quella del mondo, riassunta nella triplice concupiscenza: «la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della ricchezza» (1Gv 2,16). La nuova dinamica dev'essere quella della fede e dell'amore: l'amore stesso di Dio, incarnato nel cristiano. A somiglianza di Gesù, che si è incarnato, anche il cristiano dovrà incarnare il suo amore nel mondo per trasportarlo nella sfera dello Spirito di Cristo, sfera e spazio creati dalla fede e dall'amore, 384 che portano comunione e gioia piena (1Gv 1,3-4). La vita spirituale è vita vissuta nello Spirito di Gesù in questo mondo e per questo mondo fino a donare le proprie cose e la propria vita per i fratelli (1Gv 3,16-18). Non si sottolineerà mai abbastanza questo aspetto storico-incarnazionista della spiritualità giovannea, dove fede autentica ed amore autentico sono legati indissolubilmente insieme per cui la fede nell'amore di Dio è sorgente di amore e l'amore concreto è verifica dell'amore a Dio e dell'autentica unione con lui. Niente di più vicino, ma anche niente di più lontano da qualsiasi spiritualità ascetico-mistica. Di qui la necessità del discernimento per i cristiani di allora e per i cristiani di oggi. 2. Linee di forza della spiritualità giovannea Dopo aver percorso l'itinerario storico della esperienza spirituale giovannea nelle tre tappe successive: il tempo di Gesù, il tempo della chiesa e il tempo della crisi, ci sembra utile presentare, sincronicamente, le linee di forza, che ne accompagnano lo sviluppo storico. In tal modo apparirà più chiaramente la sua unità nella varietà delle espressioni storiche. La teologia spirituale di Giovanni si potrebbe qualificare, nel suo insieme, come «simbolica», nel senso etimo-logico del termine: «simbolo» significa «mettere insieme», e quindi ridurre ad unità significante la varietà dei dati storici. Ma soprattutto mettere insieme il divino e l'umano, partendo dal mistero fondamentale dell'incarnazione del Verbo. La ricerca continua dell'unità è infatti l'elemento comune alle varie linee di forza che metteremo in luce. Lo dimostra l'insistenza di Giovanni sull'hen - una sola cosa -: Gesù è una sola cosa col Padre (10,30); mediante la sua morte i figli di Dio dispersi vengono raccolti in unità (11,52); i discepoli devono realizzare nella loro comunione e comunità questa unità, divenendo una sola cosa nel Padre e nel Figlio, e come loro (17,11.21-23). Nello stesso senso va l'uso del pronome neutro ho - quello che -, usato in senso personale: «ciò che il Padre ha dato al Figlio» (6, 37.39; 17, 2.24...). L'unità della comunità nell'unica autentica fede è anche lo scopò che si prefiggono le lettere di Giovanni contro i primi sintomi di divisione, causati dai «falsi" profeti». L'unità della comunità nella fede è correlativa all'unità stessa di Gesù col Padre e quindi all'esclusività della sua mediazione storica, essendo egli l'unica via al Padre e quindi alla vita (20,30-31; 15,20).

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1. La singolare centralità della persona di Gesù La prima linea di forza della spiritualità giovannea è la centralità della persona di Gesù. In nessuno dei quattro vangeli si può staccare la persona di Gesù dal suo messaggio. Ma ciò è vero al massimo grado per il quarto vangelo, dove Gesù si definisce «Io sono la via, la verità e la vita» (14,6). Per questo la dottrina spirituale di Giovanni non si può ridurre ad una «via spirituale», insegnata da Gesù né tanto meno ad una mistica, cioè ad un modo di fare esperienza diretta di Dio ed essere così in lui trasformati. La via si identifica con Gesù stesso, con la sua persona. E non è possibile arrivare al Padre se non passando attraverso di lui. I segni e i discorsi di rivelazione, le professioni di fede sono volti ad illustrare il mistero della sua persona e la ricchezza insondabile della sua opera di salvezza. E, nonostante tutto questo sforzo concentrato a presentare ed illuminare la persona di Gesù, l'evangelista è convinto di non aver comunicato che una minima parte di quello che è e che ha fatto Gesù: «Gesù in presenza dei suoi discepoli fece naturalmente molti altri segni, che non sono scritti in questo libro (cioè il vangelo)» (20,30). Sembra voglia anche dire che in altri libri sono comunicati 387 altri fatti ed altre parole di Gesù. E comunque ciò che Gesù è e ciò che ha compiuto è al di là di ogni comprensione ed esperienza umana, la quale rimane sempre un pallido riflesso della persona reale di Gesù. È ancora più forte in questo senso la conclusione del secondo redattore del vangelo, alla fine del cap. 21: «Ci sono anche molte altre cose che Gesù fece: se si scrivessero a una a una, penso che non basterebbe il mondo intero a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (21,25). Questo pensiero conclusivo è l'umile confessione dell'impossibilità di descrivere ciò che Gesù ha fatto, non tanto in senso materiale quanto in senso spirituale per gli uomini e il mondo. La sua figura è così gigantesca che l'evangelista si sente incapace di comprenderla; e lo stesso vangelo di Giovanni non appare che un modesto tentativo di illustrare con alcuni esempi la persona e l'opera di Gesù per portare gli uomini alla fede in lui e quindi alla vita. L'autore della finale del vangelo, che riflette il pensiero di Giovanni, anche se scrive dopo la sua morte, ha avuto ragione, perché Gesù è la persona di cui più si è scritto e si è parlato nella storia e di cui ancor più si scriverà e si parlerà nel futuro. Tutto il messaggio del vangelo viene ricondotto coerentemente al centro, che è la persona di Gesù: il mondo (cf. il prologo del vangelo), gli uomini, il cristiano, la chiesa, i sacramenti e la prassi dell'amore. La preoccupazione continua dell'evangelista è che tutto ciò che è e che ha la comunità cristiana venga legato intimamente a lui come il tralcio alla vite. Perciò l'esperienza spirituale di Giovanni, prima col Gesù terreno e poi nella chiesa primitiva, è un'esperienza essenzialmente cristologica. Fede, amore, vita, rapporti umani, rapporti interecclesiali, tutto parte dalla e ritorna alla persona di Gesù e in lui al Padre. Egli è la vite, in cui sono inseriti i tralci. L'unica esperienza che salva è l'esperienza di Cristo o quella che a lui può essere ricondotta. Ogni esperienza di Dio al di fuori di Cristo è impossibile, perché Dio nessuno l'ha mai visto (1,18; 6,46) e l'uomo è arrivato a conoscerlo veramente «com'egli è» solo mediante il Figlio inviato dal Padre nel mondo per salvarlo. Gesù è colui che raccoglie nel suo ovile gli uomini dispersi come pecore senza pastore (Gv 10). Li raccoglie intorno a sé e in sé per donare loro la vita e una vita in abbondanza (10,10): una vita ricca di frutti (15,1-8). Essendo «figli di Dio» li riconduce alla casa del Padre (14,1-3;17,24-26). L'unità dell'uomo e degli uomini va quindi cercata in Cristo. Eppure egli è anche colui che divide, chiedendo la decisione di fede. Si comprende allora che questa unità, che Gesù porta con la sua persona, non è di natura metafisica, e non distrugge la libertà dell'uomo. L'uomo è chiamato ad un'unione personale; e tale chiamata esalta al massimo la sua stessa libertà, perché egli comprende che nella sua risposta si decide la sua stessa esistenza. In Gesù si realizza quell'unità di vita e di amore, che riconduce gli uomini al focolare primo dell'unità: quella delle persone divine del Padre del Figlio e dello Spirito. Fuori di lui e contro di lui non vi possono essere che menzogna, dispersione, odio e morte. 2. Fede e storia Per Giovanni la fede non è vera se non è fede storica «nel verbo, che si è fatto carne» (1,14), in Gesù Cristo venuto nella carne (1Gv 4,2; 2Gv 7), e «mediante l'acqua ed il sangue» (1Gv 5,6). La storia di Gesù, d'altra parte, non è vera storia se non è compenetrata dalla fede, che la fa comprendere. In nessun autore del NT fede e storia sono così intrecciate come in Giovanni, tanto da crearne un'unità inscindibile. Non però senza distinzione dei tempi, come appare dai commenti dell'evangelista alla tradizione storica (2,17.21-22; 6,46; 11,51-52; 12,16; 20,9). La comprensione piena della storia di Gesù si attua solo dopo la risurrezione col dono dello Spirito. Il Gesù terreno però non scompare di fronte al fulgore del Signore glorioso; ma viene solo circondato come da un'aureola dalla luce che proviene dalla risurrezione e glorificazione. Non vi è quindi confusione, ma solo fusione e compenetrazione di tradizione storica di Gesù e fede pasquale ecclesiale, per cui l'esperienza storica di Gesù si riflette sull'esperienza della chiesa e la fede della chiesa si riflette sulla persona del Gesù terreno.

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La fedeltà storica per Giovanni va ben al di là di una fedeltà ai fatti obiettivi, in senso positivistico. La vera fedeltà è dinamica e personale: è fedeltà ad una persona unica e singolare, di cui ha fatto un'esperienza unica. È fedeltà al senso che ha per lui e per la comunità di cui e per cui vive. Gesù, se va posto nel passato come memoria storica, rimane però vivente non solo nel ricordo, ma anche in una presenza «nuova»: è il Signore glorioso, che continua a vivere nella chiesa mediante il suo Spirito, la sua parola, i suoi sacramenti. Lo Spirito Paraclito ha un ruolo tutto speciale nel continuare l'opera salvifica di Gesù, nel testimoniarla e nell'aiutare la comunità cristiana a coglierne progressivamente tutta la ricchezza di verità e di amore. 3. La radicalità antropologica Di fronte alla singolarità e centralità della persona di Gesù: del Figlio incarnato che diviene il Signore glorioso, l'uomo è chiamato a prendere una decisione radicale, che riporta ad unità la sua vita in Cristo, che lo fa uscire dalle sue tenebre per lasciarsi illuminare dalla luce della rivelazione e camminare in essa. Gesù richiede una fede ed un amore assoluti alla sua persona; e in tal modo l'uomo è chiamato ad una conversione radicale. La fede infatti è un'opzione vitale ed una conversione radicale (3,19-21). Chi accetta di credere in lui, deve donarsi completamente fino ad accettare per questo anche la persecuzione e la morte. Chi ha una fede superficiale e non coerente è un uomo diviso a metà fra Cristo ed il mondo; e finirà per cedere al mondo. Chi rifiuta la fede è perché vuoi nascondere nelle tenebre le sue opere malvagie (3,19). Gesù vuole tutto l'uomo. Per questo non comanda azioni particolari, ma gli chiede fede ed amore, che prendono la persona nel suo aspetto più profondo come persona che ha un'intelligenza per la verità, una volontà ed un cuore per l'amore, e che tutta deve affidarsi a lui, mettendosi a sua disposizione. Giovanni pone l'uomo di fronte a Gesù in modo che sia costretto a prendere posizione, a prendere quella decisione definitiva, da cui dipende vita o morte, salvezza o perdizione, esistenza autentica o vuota e perduta. L'uomo è chiamato a scegliere tra Dio in Gesù e il mondo capeggiato dal «principe di questo mondo», tra la propria vita naturale, ripiegata su se stessa, e la vita eterna, tra fede ed incredulità, tra morte ed odio, tra luce e tenebre. Con Gesù è scoccata l'ora della decisione definitiva. Egli vuol unificare in sé l'uomo, dargli un dinamismo interiore di fede e di amore, che proietta luce e calore sul mondo; e che diviene una sorgente di vita così alta da non trovare la sua ultima dimora che nelle persone divine e nell'eternità. L'uomo che rifiuta la fede non può rimanere buono a livello naturale; tenderà ad essere dominato dalla sfera delle tenebre, dell'egoismo, della menzogna, dell'odio. Rimarrà così diviso nella molteplicità dei desideri del mondo e del mondo avrà la labilità, col mondo è destinato ad esser condannato ed a scomparire (1Gv 2,17). Non solo il singolo uomo, ma anche gli uomini nella loro consistenza socio-religiosa non possono più illudersi e continuare a camminare inconsciamente nella notte delle tenebre. La luce ormai ha rotto le tenebre e gli uomini sono divisi in due gruppi: coloro che preferiscono le tenebre e coloro che vengono alla luce perché amano la luce (3,19-21). Ma la volontà del Padre e il desiderio ardente di Gesù è che l'umanità dispersa sia radunata nella fede e nell'amore, raccolta nell'unico ovile, dove trova vita e salvezza. La divisione degli uomini è un effetto secondario della missione di Gesù. Egli non vuole che la vita, anche se vi è chi la rifiuta. Vuole un'unica umanità raccolta nella casa del Padre, anche se molti uomini rifiutano Gesù e combattono la luce di verità che è venuto a portare e la vorrebbero sopraffare. Il dualismo antropologico, conseguente alla risposta positiva o negativa alla fede, fu constatato amaramente dallo stesso Giovanni (12,37-50). La volontà del Padre però nell'inviare il Figlio rimane sempre la salvezza del mondo (3,16-17). L'unità dell'uomo e dell'umanità nella fede e nell'amore a Gesù, scopo dell'opera di Giovanni, risponde ad una concezione radicale dell'uomo e risulta l'esaltazione più alta della sua libertà, che nell'accogliere la verità arriva alla sua vera liberazione (8,32-36). Nello stesso tempo perciò che esalta la libertà umana, ricorda anche la necessità assoluta e primaria del dono del Padre e del Figlio per passare alla decisione di fede (6,29.44-45.65; 12,32-33). E la guida dello Spirito per crescere nella verità e nell'amore. Il conflitto tra libertà dell'uomo e volontà di Dio viene superato col dono di Dio, offerto alla libertà umana, perché si decida ad accogliere il Figlio, che da all'uomo luce e vita. Tutta la vita dell'uomo dipende da questa decisione fondamentale, opera unitaria di Dio e dell'uomo. 4. Il processo di interiorizzazione La radicalità antropologica trova la sua spiegazione ultima nella interiorizzazione dell'esperienza di fede, che tende a creare l'unità interiore della persona umana. Diversi sono i termini usati per esprimere questo processo di interiorizzazione. È anzitutto la parola di Gesù, che viene interiorizzata. Essa diviene una realtà interiore, dinamica, che mediante l'azione dello Spirito sta a fondamento della vita cristiana e delle sue espressioni. La parola di Gesù è rivelazione. Mediante la sua parola egli rivela il Padre. Questa parola non deve rimanére esterna all'uomo, e neppure ridursi ad un possesso intellettuale; ma deve diventare una realtà personale con la forza di purificare (15,3.7), di vincere il maligno (1Gv 2,14) e il peccato (1Gv 3,9). È considerata quasi una realtà esistenziale, in

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cui i credenti devono rimanere (15,7;1Gv 2,24) come devono rimanere in Gesù (15,1-8). È, infine, posta in parallelismo con la verità. Verità e parola non sono in colui che afferma di non aver peccato (1Gv 1,8.10). Di conseguenza anche la verità è una realtà interiore. «Verità» (alêtheia) indica in Giovanni la rivelazione, che il Padre offre all'uomo mediante e nel Figlio incarnato e inviato nel mondo. Ora, la rivelazione mediante la persona e la parola di Gesù è in funzione della vita (1Gv 1,2). Il senso di «verità» non è quindi solo intellettuale; e la rivelazione storica di Gesù non ha solo lo scopo di dissipare le tenebre dell'errore, ma di dare una nuova esistenza. Per questo vivifica (8,51), libera dalla schiavitù del peccato (8,32), santifica (17,17) e nello stesso tempo dev'essere praticata (3,21; 1Gv 1,6). Amare nella verità (1Gv 3,18) significa perciò amare in quella verità, che ci rivela l'amore di Dio nella persona di Gesù e ci spinge a praticarla. La verità vive quindi nel credente in quanto rivelazione di Gesù, accolta e divenuta principio interiore di vita. La verità ha il volto di Gesù (14,6); lo Spirito, che conduce in tutta la verità è Spirito di verità (14,17), è anzi lui stesso verità come Gesù (1Gv 5,6) perché continua la rivelazione di Gesù e a interpretare la sua parola. Un termine più misterioso per indicare la vita interiore del credente è quello di chrisma o «unguento», che ricorre due volte nella prima lettera di Giovanni (1Gv 2,20.27). Esso indica la parola in quanto accolta nella fede sotto l'azione anteriore dello Spirito Santo. Perciò il cristiano ha un maestro interiore, che gli insegna tutto (1Gv 2,20) ed egli deve permanere in questo insegnamento interiore della verità, non lasciandosi sviare dai maestri di menzogna. La parola di Dio è anche «semente», che, secondo la parabola evangelica, viene gettata nel cuore dell'uomo per portarvi frutto (Mt 13,3). Ora, in Giovanni la parola di Gesù, ricevuta nell'annuncio e nella seguente catechesi, diventa una semente interiore: «Tutto ciò che è nato da Dio non fa peccato - non cade cioè nell'inter-pretazione errata del kerygma - perché la sua semente rimane in lui e non può peccare, perché è nato da Dio» (1Gv 3,9). La testimonianza data a Gesù non è solo quella sostenuta di fronte al mondo con la valida assistenza del Paraclito (15,26-16,4), che anzi essa non è che l'espressione di quella interiore dello Spirito (1Gv 5,6). «Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è più grande, poiché questa è la testimonianza di Dio, che ha testimoniato riguardo al Figlio suo: chi crede nel Figlio ha la testimonianza (di Dio) in se stesso» (1Gv 5,9-10a). La testimonianza è quindi la rivelazione interiorizzata nella fede. Tale testimonianza ritorna alla sua origine: la vita nel Figlio. «E questa è la testimonianza, che Dio ci ha dato la vita eterna, e questa vita la si trova nel Figlio suo» (1Gv 5,11). La parola, che è verità, crisma, semente, testimonianza è rivelazione accolta nel cuore con la fede; mediante lo Spirito dona la vita, mantiene nella verità e la testimonia di fronte al mondo. Non solo la parola-verità, ma anche la vita e l'amore, che ne sono la conseguenza, vengono interiorizzati. La vita eterna, che nella tradizione sinottica è proiettata nel futuro escatologico, in Giovanni invece è già possesso presente, interiore, per cui anche la morte fisica perde ogni suo significato: «In verità, in verità vi dico – dice Gesù - se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno» (8,51). Anche l'amore non è solo un fatto morale, ma una realtà interiore, posta da Dio nel credente (5,42; 17,26; 1Gv 2,5.15b; 3,1.17; 4,7). Anche per l'amore, come per la parola di Gesù, viene usata la formula di reciprocità, tipica del rapporto interpersonale e dell'alleanza con Dio: «Colui che vive nell'amore, rimane in Dio e Dio in lui» (1Gv 4,16). L'agape vive nel cristiano e il cristiano deve vivere nell'agape. Così Dio stesso abita in lui (14,21-23). Il credente quindi pensa, ama, agisce, vive con una vita interiore nuova: la parola di Dio interiorizzata dallo Spirito nella fede, la vita divina ricevuta nella nascita da Dio, l'amore. La sua vita esteriore nel mondo, la sua vita di testimonianza di fede, di osservanza dei comandamenti, di opere di carità, che può essere molto complessa e varia, è espressione di una vita interiore, di un principio unitario, che tutto anima. È Gesù stesso e per il suo amore, proveniente in ultima analisi dal Padre (17,26). Non è più l'uomo che agisce; è Dio che agisce in lui e per mezzo di lui, perché l'uomo ha permesso a Dio di piantare nel suo cuore il seme della parola, che purifica, santifica è porta frutti copiosi. 5. Contemplazione e azione Nella vita cristiana vi può essere il pericolo che la fede si riduca a contemplazione e l'amore a sola azione so-ciale. Questo pericolo, presente, specie il primo, anche nelle comunità giovannee, era superato nella spiritualità giovannea dall'intima unione tra fede cristologica ed amore attivo. La vera azione del cristiano, quella che vince il peccato ed il mondo, nasce dalla parola di Gesù interiorizzata, dalla vita divina vissuta nell'amore. La fede non si ferma alla decisione iniziale, ma si approfondisce interiorizzando la rivelazione del Padre nel Figlio. La lunga ed amorevole contemplazione dell'opera salvifica di Gesù, del suo amore; l'ascolto interiore ed attento della sua parola non è una contemplazione solipsistica, volta ad una gratificazione personale; ma spinge necessariamente ad amare e ad imitare colui che contempla. Su questa sequela ed imitazione di Cristo insiste sia il discorso dell'ultima cena (13-17) sia la prima lettera di Giovanni. La contemplazione è perciò in ordine all'azione. L'amore di Gesù, anche quello più intimo e personale (14,21-23), è sempre infallibilmente legato all'osservanza dei comandamenti, della sua parola. Non si riduce mai a bei sentimenti; si deve tradurre in fedeltà, in servizio concreto, in attività di amore, se vuoi dimostrarsi autentico e quindi vero. Così l'amore al fratello non deve ridursi a belle parole (1Gv 3, 18), ma deve concretarsi nell'aiuto al fratello indigente, nel servizio umile sull'esempio di

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Gesù, che lava i piedi ai suoi discepoli, nel dono di sé e della propria vita. La contemplazione dell'amore di Dio con gli occhi della fede porta all'azione concreta della verità e della carità. L'azione però, a sua volta, non è autentica se non è animata dalla parola interiore della verità. L'unità dell'amore di Dio e del prossimo e il loro confrontarsi continuo per una verifica di autenticità sono il segno più evidènte dell'intimo rapporto tra azione e contemplazione: un'azione, l'amore concreto al prossimo, che sgorga come da pura sorgente dalla contemplazione dell'amore di Dio rivelatesi nel Figlio suo; ed una contemplazione di amore che cesserebbe di essere tale se non si prolungasse concretamente nell'amore al fratello. Ritorniamo così alla tesi iniziale: caratteristica fondamentale dell'esperienza spirituale giovannea è la ricerca dell'unità a tutti i livelli: all'interno dell'uomo, all'interno della comunità umana, nel rapporto dell'uomo con Dio. Il catalizzatore di questa unità profonda è la persona di Gesù. È nella decisione di fede in lui che l'uomo ritrova se stesso, la sua unità interiore. Nella contemplazione del Figlio innalzato e in lui del Padre e del suo amore per noi, il credente trova il modello e la forza di amare. In lui, unico rivelatore e salvatore, l'umanità dispersa è chiamata a raccolta per formare un solo gregge alla guida di un solo pastore, per formare l'unica possibile famiglia, la famiglia del Padre, in cui tutti gli uomini dovrebbero essere «figli di Dio» e fratelli: divenirlo con la fede e dimostrarlo con l'amore. L'annuncio, accolto nella fede, animato dallo Spirito, dev'essere vissuto in purezza e in dedizione totale nella carità. L'inabissarsi sempre più mediante la rivelazione personale di Gesù nella vita del Dio Padre Figlio e Spirito Santo si rivela corrispondentemente nella disponibilità alla sua volontà di amore, che domanda il sacrificio della stessa vita. È quindi la vita nel mondo, la vita per i fratelli il banco di prova dell'autentica vita cristiana come la fede nell'incarnazione è la prova dell'autentica fede.

PAOLO, PROTAGONISTA E ISPIRATORE DI VITA CONSACRATA 1. Introduzione Paolo è modello di vita consacrata come ispiratore e protagonista di dedizione totale, lascia intravedere un tipo di vita che supera decisamente i ristagni, i compromessi, le superficialità che possono insidiare la vita consacrata. 2. Il battesimo, fondamento della vita consacrata Sbilanciato e sconvolto nell'incontro con Cristo sulla via di Damasco, viene battezzato e qui nasce il vero Paolo. Egli rifletterà sulla sua esperienza battesimale e la comprenderà; in Rm 6,1-11 esprimerà il frutto maturo delle sue riflessioni. Parte dalla sua esperienza e ne fa un messaggio per tutti. Il battesimo è innanzitutto un contatto diretto con la morte di Cristo, un contatto vitale, quasi un'osmosi, con la morte e risurrezione di Cristo. «Voi che siete stati battezzati, non sapete che siete stati battezzati nella morte di Cristo?» (Rm 6,3). La morte di Cristo segna la distruzione di ogni peccaminosità umana: «Dio, avendo inviato il proprio Figlio in quella che fu l'espressione sensibile della carne del peccato e in rapporto al peccato [si tratta della crocifissione], condannò il peccato nella carne» (Rm 8,3). È la carne di Cristo crocifisso. La morte, la «distruzione» fisica di Lui comporta l'azzeramento totale del peccato. La sua condanna, la sua distruzione comporta, - e questo è una caratteristica propria di Dio, sempre impegnato in una «nuova creazione» - un rifacimento continuo, che elimina e colma la lacuna procurata. L'applicazione della morte di Cristo, intesa con questo fascio di valenze dinamiche che avviene nel battesimo e si mantiene costante, assicura al cristiano una situazione permanente di positività. Il fossato del peccato è stato saltato. Mediante Cristo s'instaura una forza travolgente di liberazione, di rifacimento. «Chi è morto [facendo propria la morte di Cristo] è già stato e rimane giustificato (dedikaiotai) dal peccato» (Rm 6,7). Questa situazione positiva del cristiano esige una coscientizzazione coraggiosa. Il peccato venuto in contatto con la morte di Cristo operante nel cristiano battezzato non esiste più, è uno zero. È fuori posto un ripensamento ulteriore, anche la richiesta ripetuta di un perdono già pienamente applicato. Costituirebbe un ripiegamento ozioso, un incartocciamento nel circuito chiuso di se stessi, che impedirebbe, o limiterebbe seriamente, lo slancio fiducioso che la liberazione dal peccato tende a procurare. È difficile, ma vitale per il cristiano credere davvero che i suoi peccati, una volta perdonati, non esistono più. Quando le sue debolezze e le sue incoerenze, la sua fragilità lo spaventeranno, si tratterà di praticare uno slancio di fede-fiducia nell'efficacia liberante della morte di Cristo. Il contatto con Cristo al di sopra di tutto lo rimetterà in forma, facendogli prendere atto che non potrà contentarsi di evitare il male, ma seguendo l'impulso dello Spirito, dovrà essere un protagonista ardito di bene. Vivrà così adeguatamente la sua situazione di redento.

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La redenzione in questa vita non lo rende ancora impeccabile: ciò avverrà nella pienezza escatologica. Dovrà quindi mantenere, mediante un'apertura totale a Cristo da rinnovarsi ogni giorno attraverso un contatto con la sacramentalità, la situazione positiva in cui si trova, eliminando con decisione e radicalità tutti gli elementi anticristici che incontrerà nel suo cammino. La morte di Cristo ci viene applicata insieme alla sua risurrezione che costituiscono il binomio inscindibile del mistero pasquale. L'applicazione della vitalità di Cristo risorto al cristiano battezzato è particolarmente importante, ma anche notevolmente complessa. Paolo si sforza di illustrarne gli aspetti fondamentali. Comincia con una constatazione: mediante il battesimo il cristiano è come innestato in Cristo, diventa con lui una sola pianta. Tutto ciò che è proprio di Cristo raggiunge e aggancia il cristiano; ne consegue che,«come Cristo risuscitò dai morti attraverso la gloria del Padre, così anche noi dovremo comportarci in una novità di vita» (Rm 6,4). La novità di vita, veicolata «dalla partecipazione alla risurrezione di Cristo», ha soprattutto un carattere oblativo: è un «vivere per», un «vivere a». «[Cristo] in quanto morì, morì al peccato una volta per tutte; in quanto vive [da risorto], vive a Dio» (Rm 6,10). La situazione di Cristo, trasferita nel cristiano, comporta una presa di coscienza adeguata e un impegno in parallelo: «Valutate voi stessi come morti al peccato, ma viventi a Dio, in unione con Cristo Gesù» (Rm 6,11). La partecipazione alla vitalità di Cristo risorto verrà poi precisata ulteriormente da Paolo come una condivisione dello Spirito. Lo Spirito costituisce infatti il dono pasquale per eccellenza. Egli è «agente di cristificazione», suggerendo in ogni circostanza della vita la verità-valore appropriata, insieme alla forza per realizzarla. In sintesi, il dono permanente e continuato del battesimo come partecipazione aderente alla morte e risurrezione di Cristo è la radice operativa di tutta la vita cristiana e della vita religiosa che ne è come una condensazione offerta da Dio tramite una vocazione specifica. Sull'onda della partecipazione alla morte di Cristo, il cristiano potrà essere liberato dagli aspetti lacunosi rispetto alla sua vocazione. Si sentirà sempre peccatore, insufficiente, ma un peccatore perdonato e rifatto, ri-creato. La partecipazione alla risurrezione farà scattare in lui la spinta al dono di sé, caratteristica fondamentale della sua novità di vita. Questa spinta, denominatore comune di ogni vocazione, troverà nella vita religiosa consacrata delle piste proprie di realizzazione. Qualunque sia la situazione umana in cui possa trovarsi - gioia o dolore, fatica o riposo, comprensione o incomprensione, serenità o turbamento, salute o malattia -, il cristiano troverà sempre, sotto la guida dello Spirito, la forza di uscire da sé verso Dio, per essere dono, come Cristo, come Paolo. 3. La vocazione formula la vita religiosa di Paolo La situazione in cui il battesimo colloca Paolo e ogni cristiano contiene un potenziale dinamico enorme: la liberazione dalla pesantezza del peccato e lo slancio nella vita nuova di amore ablativo. La risposta al dono è la vocazione che è propria di ogni cristiano e consiste in «una chiamata per nome» (klesis), di Dio. Questa è detta anche «scelta, determinazione, separazione, elezione». Paolo lo dice con evidente commozione: «Quando piacque a Colui che mi aveva determinato fin dal seno di mia madre e mi aveva chiamato per nome in forza della sua benevolenza, di rivelare in me suo Figlio» (Gal 1,15-16). All'origine c'è il movimento della bontà di Dio, una compiacenza gioiosa: è la gioia dell'artista che sente nascere dentro un progetto, un sogno da attuare e che guarda con gioia e stupore. La chiamata per nome è l'attribuzione di questo progetto. Il nome non è denominativo, ma qualificativo: dà alla persona i tratti del sogno di Dio che la riguarda in un contesto tipico di reciprocità. Dio attribuisce il nome, con tutte le sue potenzialità dinamiche in dialogo che attende una risposta. Questa verrà dall'accoglienza grata del nome stesso e dall'esecuzione delle sue implicazioni, un'accoglienza ed esecuzione fatte sempre guardando a Dio, rispondendo a lui, quasi faccia a faccia con lui. Dio attribuisce a Paolo il nomadi apostolo. Paolo si definisce per ben due volte «chiamato a essere apostolo» (Rm 1,1; 1Cor 1,1). Il «nome» che riceve investe tutta la sua persona, il suo essere e il suo agire; si colloca nel dinamismo dello Spirito che Paolo si sforzerà sempre di seguire. La concretizzazione storica, spazio-temporale del nome ricevuto comporta innanzitutto per lui dei presupposti di fondo, quasi una serie di scelte a monte, che costituisce la sua struttura portante personale; comporta l'attività apostolica nel suo svolgimento dettagliato; comporta un filo che attraversa in una sintesi unificante sia la struttura portante di base sia i vari aspetti della sua attività. La vocazione quale attribuzione e specificazione del «nome nuovo» che Dio dà a ciascuno si esprime pure nella vita consacrata. Essa è un «nome nuovo», con un contenuto specifico, che la persona percepisce con gioia. Paolo, che percepisce l'apostolato come il contenuto del suo «nome nuovo» vi coinvolgerà tutte le sue energie migliori, tutte le sue risorse umane, in una visione compatta: più sarà apostolo, più sarà libero (cfr 1Cor 9), più sarà uomo, e viceversa. Porterà tutto l'uomo nell'apostolato, con le implicazioni, senza dispersioni. La vocazione alla vita consacrata possiede questa compattezza totalizzante: tutte le energie umane della persona vanno convogliate alla comprensione e alla realizzazione gioiosamente creativa del «nome nuovo» ricevuto. Il nome nuovo ricevuto nella vocazione aderisce strettamente alla persona. Paolo rivendica con energia anche drastica la sua appartenenza al gruppo degli apostoli, si sente in una comunione di condivisione a tutto campo

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con tutti, ma sottolinea le sue caratteristiche personali, convinto che la realizzazione personale del suo nome nuovo costituisce un coefficiente che qualifica la sua oblatività apostolica. Non si sente per nulla un anonimo, un semplice numero ecclesiale. Qualunque carisma di vita consacrata comporta una vocazione nella vocazione: la persona singola avrà sempre la responsabilità indelegabile d'interpretare e fare propri, sotto la guida dello Spirito, i valori che Dio le presenta. 4. La struttura portante della vita religiosa di Paolo: l'«obbedienza della fede» II primo aspetto che emerge nel nucleo delle scelte e dei valori a monte che determina l'apostolato di Paolo è quello che egli chiama «obbedienza della fede» (Rm 1,5), un espressione percorre il «Corpus paulinum». Vi sono tre termini: il verbo «obbedire» (hypakouo), il sostantivo «obbedienza» (hypakoe) e l'aggettivo «obbediente» (hypakoos). Il verbo hypakouo, «obbedire», ricorre volte su un totale di 21 ricorrenze in tutto il NT. Il significato di base è quello di un contatto con un principio da cui scaturisce una spinta operativa, che viene accolta ed eseguita. Secondo le diverse ricorrenze, il principio da cui si riceve e si accetta l'impulso operativo potrà essere di tipo negativo o positivo. Si potrà così obbedire alla propria passionalità sfrenata (Rm 6,12 ecc.), al Vangelo (Rm 10,16), a Paolo (Fil 2,12; 2 Ts 3,14), ai genitori, e perfino ai padroni (Ef 6,l ecc.). Il quadro, già significativo, acquista ancora più risalto nel sostantivo. Le ricorrenze di hypakoe, «obbedienza», in Paolo sono di 11 su 15 di tutto il NT. La statistica indica già un'attenzione particolare. Le ricorrenze in Paolo sono particolarmente significative e offrono un'elaborazione teologica caratteristica, tipica di un Paolo. Posta l’obbedienza in un parallelo sorprendente con la fede: «per mezzo del quale ricevemmo la grazia e l'apostolato per l'ob-bedienza della fede da parte di tutte le genti» (Rm 1,5). Il Vangelo che è chiamato ad annunciare richiede un'accoglienza che è appunto la risposta della fede. Questa è un'apertura incondizionata e radicale da mantenersi costantemente al contenuto del Vangelo che è il Cristo morto e risorto. L'obbedienza, messa strettamente in parallelo con la fede - si potrebbe tradurre: «l'obbedienza che consiste nella fede» -, perché comporta ciò che è proprio della fede, cioè l'accoglienza di Cristo, del mistero pasquale, comporta una spinta operativa, accolta ed eseguita. Si può dire: il Cristo del mistero pasquale, una volta accolto dalla persona mediante il sì incondizionato della fede, diventa nella persona stessa un principio operativo che preme su tutta la fascia esecutiva della vita. Paolo, proprio come fa con la fede, mette l'obbedienza sulla linea della giustificazione: questa si realizza tramite l'obbedienza (Rm 6,16). L'accoglienza del Vangelo, propria della fede, si traduce in un comportamento che farà pareggio tra la formula propria del cristiano - essere un'immagine di Dio che, attraverso i tratti di Cristo, diventi «somiglianza» - e la sua vita spazio-temporale. Paolo loda i Romani perché la forma della loro obbedienza si diffonde a raggio universale, in corrispondenza con la supremazia di Roma, mettendo in luce con il nuovo tipo di vita improntato ai valori conseguente all'apertura a Cristo propria della fede. È proprio questo nuovo genere di vita che produce stupore e ammirazione. C'è di più. L'obbedienza non solo ha una sua radice cristologia, ma è addirittura praticata da Cristo. Alla disobbedienza di Adamo (par-akoe), con tutte le conseguenze negative, Paolo contrappone l'«obbedienza» (hypakoe) di Cristo (Rm 5,19). L'obbedienza di Cristo va vista nel suo rapporto ineffabile con il Padre. Il Padre costituisce per lui il suo principio operativo: in contatto con il Padre e tutto disponibile al Padre come Figlio, Cristo accoglie pienamente quanto il Padre gli suggerisce e lo realizza. È quanto troviamo in hypakoos, «obbediente», il terzo termine del nostro gruppo semantico. «Obbediente» è detto proprio di Cristo nel grande contesto del cosiddetto inno cristologico (Fil 2,5-11). In un contesto caldo di condivisione con la comunità di Filippi con la quale si sente particolarmente in sintonia (Fil 2,1-4), esorta i cristiani di Filippi ad avere lo stesso movente di fondo, la stessa aspirazione che si rileva in Cristo Gesù. Gesù afferma: «Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita come riscatto per molti» (Mc 10,45). Questa scelta caratterizza tutta la vicenda e la missione di Gesù quale Nuovo Adamo, scelta antitetica a quella dell’antico Adamo. Servire è uscire da se stessi, dalle proprie esigenze, dal proprio tornaconto: richiede un adeguamento all'altro, un vero esproprio. Gesù lo realizza e lo realizza fino in fondo, donando sempre tutta la sua vita, fino al sacrificio supremo sulla croce, diventando «il modello degli uomini» (Fil 2,7), sempre in dialogo ineffabile con il Padre. Quello che il Padre desidera e progetta, il suo amore per gli uomini, la sua volontà di salvezza è in Gesù una spinta ad agire di conseguenza. Ecco Gesù «obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8), a cui fa seguito la gloria della risurrezione (Fil 2,9-11). Pertanto il Gesù obbediente è il Gesù che realizza il mistero pasquale. Questo illumina l'obbedienza della fede. La spinta operativa che scaturisce nel cristiano dal mistero pasquale che accoglie credendo, si chiarisce e si precisa: si tratta di realizzare una continuazione storicizzata, quasi un prolungamento ramificato nel tempo e nello spazio, della scelta fondamentale di Gesù, con tutto il contesto che l'accompagna. Il cristiano obbediente fa sua l'obbedienza di Lui. L'obbedienza cristiana comporta tutta una costellazione di valori collegati in maniera irrinunciabile tra di loro e costituisce un'accoglienza totale, un'apertura incondizionata al Cristo del Vangelo e, tramite lui, al Padre. Il contatto che si realizza con questa apertura spinge il cristiano a un impegno di azione animata dal movente di fondo di Cristo obbediente: l’amore.

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È questo amore-esproprio-servizio il più importante tra i presupposti dell'apostolato che Paolo vive. Costituisce come un contenitore ideale all'interno del quale si situano tutte e singole le iniziative. Questo vale in pieno per la vita consacrata di oggi. Il quadro dell'obbedienza si è sviluppato da venti secoli è una ricchezza immensa e l'intuizione teologica di Paolo costituisce sempre una radice feconda e un parametro stimolante di verifica. Anche le mediazioni - soprattutto quella di Pietro - aiutano Paolo a scoprire sempre più e a praticare il Vangelo che predica. Così esorta i Corinzi, che a essere «obbedienti in tutto» (2 Cor 2,9); loda Filemone e si dice fiducioso nella sua «obbedienza» (Fm 1,21). I Corinzi e Filemone mettono in pratica quanto Paolo dice e testimonia. Essi sanno di ricevere da lui delle indicazioni indispensabili per la pratica integrale del Vangelo: indicazioni che risalgono al «Signore» e al Padre. Perciò le accettano con gioia e gratitudine. 5. «Al Signore senza divisioni» (1 Cor 7,35) La verginità ideale della comunità cristiana trova una sua concretizzazione esponenziale nella scelta della verginità. Paolo ne parla diffusamente e a cuore aperto. Mentre l'appartenenza a Cristo in un vincolo di amore riguarda tutti i cristiani indistintamente, la scelta specifica della verginità è una grazia specifica. Al riguardo Paolo non ha un comando del Signore (1Cor 7,25). «Ciascuno ha il proprio dono di grazia (charisma) da parte di Dio, chi in un modo chi in un altro» (1Cor 7,7). Proprio all'interno del dono di grazia personale nasce la scelta della verginità. Per Paolo, come per Matteo (Mt 19,10-11), questa scelta si situa chiaramente nella reciprocità tra Dio, Cristo e la singola persona come un segreto geloso, un'intesa ineffabile, un piacersi vicendevole che sfugge a qualunque razionalizzazione, ha solo la logica dell'amore. È quanto ha sperimentato Paolo: «Voglio che tutti gli uomini siano come sono io» (1Cor 7,7). L'amore per la Legge si era rivelato anche nell'ambito giudaico e rabbinico talmente coinvolgente da risultare totalizzante anche rispetto al matrimonio. È stato il caso di Rabbi Simone Ben Azzai (intorno al 110 d.C.) che, tutto dedito allo studio della legge, diceva: «Io respiro la Torah»; aveva esplicitamente rinunciato al matrimonio. Anche nel Paolo ancora giudeo l'amore della Legge e l'impegno a praticarla è stato particolarmente forte. Come dichiara egli stesso apertamente, la Legge è uno dei suoi grandi valori, ci tiene a precisare: «Secondo la giustificazione che si trova nella Legge ero diventato irreprensibile» (Fil 3,6). E anche da cristiano, conserverà per la Legge un amore costante e tormentato. Questo può averlo messo sulla via del celibato. Ma c'è di più. Nel Paolo cristiano emerge una reciprocità a caldo nei riguardi di Dio, che certamente era iniziata e si era sviluppata anche prima. È un appassionato, un innamorato di Dio. Ogni volta che ne parla ha luogo uno scatto di entusiasmo da vertigine. Per lui Dio è sempre il suo assoluto, «il mio Dio» (Rm 1,8; 1Cor 1,4; 2Cor 12,21; Fil 1,3; Fm 4). La reciprocità nei riguardi di Dio fa sintesi con quella nei riguardi di Cristo. L'incontro con Cristo è stato determinante, ha segnato un capovolgimento di tutto: Paolo ritiene i suoi valori ora li una perdita disprezzabile in confronto alla positività di Cristo (Fil 3,8). Si tratta di valori che incidono talmente su di lui fino a coinvolgere tutte le sue risorse personali. È afferrato da Cristo e lo insegue, per poterlo afferrare a sua volta (Fil 3,12). C'è tra Cristo e Paolo una reciprocità dinamica che si sviluppa a ritmo crescente; l'amore di Cristo spingerà sempre Paolo (2Cor 5,14), fino a fargli affermare una coestensione ardita: per lui «vivere è Cristo» (Fil 1,21). La reciprocità di Paolo nei riguardi di Dio e di Cristo non potrebbe essere più totalizzante. Il segreto della scelta del celibato da parte di Paolo sta tutto qui. Riflettendo poi su questa reciprocità, la vede come un contatto diretto tra se stesso, nella sua relatività alle prese con i valori penultimi, e l'assoluto di Cristo e di Dio (1Cor 7,29-31). E quando parlerà dei valori propri della verginità, darà uno specchio di se stesso: «Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore» (1Cor 7,32). La reciprocità con il Signore è totalizzante. Paolo parlando della verginità è convinto di spingere nella giusta direzione, verso ciò che è «conveniente e degno di un faccia a faccia (eyparedron) con il Signore senza divisioni» (1Cor 7,35). Non è un vuoto psicologico; la scelta della verginità comporta una sua pienezza, addirittura trabocca. Il Cristo vivo, palpitante, coinvolgente in maniera irresistibile che Paolo presenta nel suo apostolato è un Cristo che ama ed è amato «follemente», al di sopra di ogni schema e di ogni misura. 6. «Libero da tutto, mi sono fatto schiavo di tutti» La povertà è per Paolo una categoria teologica. Riprende la linea dell'AT con l'aggancio molteplice anche terminologico, con la traduzione dei LXX, la fa propria e la reinterpreta creativamente. La fiducia risposta solo in Dio, accompagnata da una situazione materiale d'indigenza spesso stimolata da essa, diventa un esproprio di sé, uno spazio totale fatto a Cristo. Cristo, occupando tutto lo spazio di accoglienza che la persona gli presenta, la trasforma a sua misura; la spinge a condividere quello che Paolo osa chiamare il movente di fondo che ha animato Cristo stesso, venuto «non per essere servito, ma per servire» (Mc 10,45). Questo movente trova la sua attuazione culminante nella dedizione della «morte di croce» (Fil 2,8) e diventa paradigmatico (Fil 2,7). Questa elaborazione teologica guida tutta la pratica di Paolo come in tre cerchi concentrici. Il primo cerchio è l'aspetto sociale. Proveniente da una famiglia benestante, esercitava un lavoro di un certo livello artigianale: come i coniugi suoi amici Aquila e Priscilla, era «fabbricatore di tende», e le tende servivano soprattutto ai soldati romani. Manterrà questa sua occupazione nella sua vita di apostolo. Paolo cristiano e apostolo non fa una scelta di povertà che attiri l'attenzione per la sua radicalità anche a livello sociale; non fa

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suo né il modello di rottura di Giovanni Battista, che certamente egli conosceva e apprezzava, né il modello dei filosofi «cinici mendicanti», che trovava nell'ambiente ellenistico; ma dichiara esplicitamente: «So privarmi ed essere nell'abbondanza. In ogni tempo e in tutti i modi, sono stato iniziato a essere sazio e a soffrire la fame, a vivere nell'agiatezza e nelle privazioni» (Fil 4,12). Si è adattato sempre alle circostanze concrete. A Corinto «lavora con le proprie mani» (1Ts 2,9), per «donare il Vangelo senza ricompensa» (2Cor 11,7; 1Cor 8,18), mentre accetterà con gratitudine dalla chiesa di Filippi, con la quale ha un'intesa particolare, ogni genere di aiuti, e perfino una persona, Epafrodito, tutto dedicato al suo servizio. È amico di persone influenti e ricche e, contemporaneamente, dei loro schiavi, come nel caso di Filemone. Maneggerà somme anche rilevanti di danaro, come le collette raccolte nelle chiese greche per Gerusalemme. Vista sotto il profilo di una fenomenologia sociale, la povertà di Paolo non ha rilievo e rischia di sfuggire all'attenzione. La sua vita non è stata certo comoda. Egli stesso ci ricorda in maniera impressionante quante difficoltà ha dovuto affrontare per annunciare il Vangelo. In un contesto polemico con gli altri apostoli e costretto a difendere il suo apostolato, dichiara: «Sono ministri di Cristo? Lo dico da stolto, io più di loro! Molto di più per le fatiche, molto di più per la prigionia, infinitamente di più per le percosse. Ho rasentato spesso la morte. Cinque volte dai giudei ho ricevuto quaranta colpi meno uno; tre volte battuto con le verghe, una volta lapidato, tre volte naufragato, ho trascorso un giorno e una notte sull'abisso. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di ladri, pericoli dai connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, digiuno frequente, freddo e nudità» (2Cor 11,23-27). In effetti la sua - è il secondo cerchio concentrico - si colloca soprattutto all'interno della sua persona: «Essendo libero da tutti, mi sono fatto schiavo di tutti, per guadagnare il maggior numero: mi sono fatto giudeo con i giudei, per guadagnare i giudei; sottomesso alla Legge, pur non essendo sotto di essa, con quelli sottomessi alla Legge, per guadagnare quelli che sono sottomessi alla Legge; senza legge, pur non essendo senza legge di Dio, ma nella legge di Cristo, con quelli senza legge, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare in ogni modo qualcuno. E tutto faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1Cor 9,19-23). Il testo, scaturito proprio dal cuore di Paolo, parla da solo. Si proclama «libero da tutti» e «libero da tutto». Paolo non ha mai fatto sua la distanza dalle persone e dalle cose, l’«indifferenza» cinica, non ha mai pensato di mortificare e di ridurre la sua sensibilità, che lo metteva in un rapporto sempre aderente e coinvolgente con gli altri. Nella Lettera ai Galati, afferma che «per la libertà Cristo ci ha liberati» (Gal 5,1). L'assoluto è Cristo, in senso assertivo ed esclusivo; a livello di Lui non ci può stare nessuno. Tutto ciò che è impulso passionale, ricerca del proprio vantaggio e di se stesso, tutto ciò che, in una parola, si può chiamare «carne» viene come fagocitato dall'accoglienza di Cristo. Si esige, proprio per Cristo come assoluto, uno spazio vuoto corrispondente, realizzato nell'interiorità della persona. Questo esproprio è solo una relativizzazione radicale e non comporta nessun annullamento: rimangono tutte le risorse personali, rimangono le altre persone che occupano tutte il livello di prima. Solo Cristo è cresciuto. La libertà di cui parla Paolo è squisitamente cristologia: Cristo, entrato nella sua vita, è il referente assoluto, davanti al quale e in forza del quale egli si riconosce libero, spoglio di tutti e di tutto. La preminenza assoluta di Lui che così si realizza non rimane isolata. È proprio Cristo che, mediante il suo amore, esercita la pressione che gli è tipica. Paolo lo riconosce esplicitamente, quando afferma: «L'amore di Cristo [quello che Cristo ha per Paolo] ci spinge» (2Cor 5,14). È l'amore di un Assoluto. Paolo allora, proprio perché è libero da tutti e da tutto, sarà in grado di rendersi «schiavo di tutti». La sua sarà una disponibilità illimitata, com'era quella degli schiavi: ogni persona sarà accolta così come è; sarà compresa, aiutata, amata; giungerà allora a donare il Vangelo. Paolo esemplifica alcuni aspetti del suo farsi «tutto a tutti», passando in rassegna alcune categorie di persone che lo hanno particolarmente impegnato e interessato nel suo apostolato: i giudei, i pagani, i deboli. L'esproprio di sé, da una parte, e la volontà di condividere la ricchezza del Vangelo, dall'altra, lo portano a immedesimarsi nei problemi, nei «vissuti» delle persone con le quali viene in contatto, lontano da qualunque tatticismo epidermico. Lo fa con il cuore e in profondità, perché il Vangelo attecchisce solo nelle radici esistenziali delle persone. È il terzo cerchio concentrico. Lo spazio radicale dell'esproprio è fatto a Cristo come al valore supremo, assoluto, e scatta quando si è raggiunti dall’amore di Cristo, accogliendolo e comunicandolo secondo il suo dinamismo di oblatività, facendosi tutto a tutti, come lui. È il vertice della povertà paolina. Quindi la povertà di Paolo è la gratuità di una vita tutta aperta a Cristo, occupata da lui e donata sotto l'impulso suo per il Vangelo. È una povertà serena, addirittura gioiosa: «c'è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). L'articolazione nelle tre fasi - apertura totale a Cristo, immedesimazione, dono - è irrinunciabile: ogni fase suppone e trascina le altre due. Se si salta la prima, la povertà potrebbe diventare l'orgogliosa enfatizzazione dell'austerità dei filosofi cinici. Se si salta la seconda fase, l'esproprio di se stessi, non si ha una seria accoglienza di Cristo, e l'attenzione agli altri, la loro accoglienza diventa con ciò stesso limitata, inevitabilmente superficiale. Essa potrebbe addirittura divenire una disponibilità pigra e indifferenziata ai capricci e alle esigenze egoistiche. Invece, la disponibilità agli altri è sempre finalizzata al «Vangelo della salvezza» (Rm 1,16), alla

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«salvezza», è la realizzazione piena del meglio della persona, secondo l'impronta del «codice genetico» immesso in essa da Dio. La povertà, così com'è presentata oggi nella fioritura quasi all'infinito delle tante forme di vita consacrata, ha modalità concrete che sviluppano quelle di Paolo e spesso vanno anche oltre. Il confronto con la radice paolina è comunque sempre illuminante e ispirativi; la «costellazione» che troviamo in Paolo è un importante test di verifica. La povertà della vita consacrata dovrà essere sempre serena, di lungo respiro, libera, aperta, umilmente disponibile agli altri e costruttiva; dovrà soprattutto esprimere, condividendo il movente oblativo di Cristo, la gioiosa gratuità della sua vita. 7. La vocazione condivisa Tra i grandi valori che stanno a monte di tutta l'attività apostolica di Paolo, nella quale si realizza la sua vocazione, emerge la dimensione comunitaria. Paolo, come carattere e capacità, era e si sentiva una guida, un trascinatore. Non fu facile per lui dopo la gioia reciproca della prima sorpresa collocarsi nella quotidianità delle comunità cristiane con cui veniva in contatto negli «anni oscuri» della sua vita, anni che intercorsero tra la sua vocazione-conversione sulla via di Damasco e la sua presenza attiva nella comunità di Antiochia. In questi anni - una decina - lo troviamo nel «deserto dell'Arabia», a Gerusalemme e a Tarso. Questo è per Paolo un periodo di approfondimento e di maturazione, in cui impara a essere cristiano insieme agli altri. Le tensioni che si verificheranno anche in seguito - con Barnaba, con Pietro, con gli altri apostoli, con intere comunità come i Galati e i Corinzi - non lo isoleranno mai; dopo lo scontro troverà sempre una formula di accettazione reciproca. Per non rischiare di «correre invano» (Gal 2,2), occorre muoversi insieme. La lunga esperienza di approfondimento trova una sua espressione in Ef 4. Il brano inizia proprio con un richiamo alla vocazione da vivere insieme. Paolo, per vivere pienamente la sua, ha dovuto affrontare anche le catene: «Vi esorto perciò io, il prigioniero per il Signore, a condurre una vita degna della vocazione alla quale siete stati chiamati» (Ef 4,1). Camminare insieme degnamente è tutt'altro che facile. Paolo, sensibilissimo ai grandi valori che qualificano la vita cristiana, non è mai un sognatore nebuloso: ha il coraggio del realismo cristiano, che accetta sempre sia le luci sia le ombre, senza mai negarle o minimizzarle. È convinto che i cristiani formino insieme come una nuova famiglia e, con un'insistenza che gli è caratteristica, li chiama «fratelli» proprio in questo senso. Tuttavia, quando si riferisce ai cristiani come famiglia, insiste enfaticamente sulla dimensione trascendente, parlando dei «propri familiari nella fede» (Gal 6,10). Nel cammino della vocazione c’è la gioia della condivisione di ciò che si riesce a mettere in comune e l'impegno realistico di accettare le diversità con tutta la fatica che questo comporta: «Con tutta umiltà, dolcezza e longanimità, sopportandovi a vicenda con amore, preoccupati di conservare l'unità dello spirito con il vincolo della pace» (Ef 4,2-3). Vale la pena. L'impegno laborioso a camminare insieme, mettendo in comune ciò che si ha di meglio, sopportando nell'amore le eterogeneità, porta a scoprire e riscoprire con sorpresa i valori stupendi che sono la struttura portante della nostra unità: «Un solo corpo e un solo spirito, così come siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra tutti, agisce per mezzo di tutti e dimora in tutti» (Ef 4,4-6). La reciprocità ecclesiale non è mai oziosa. L'impegno attivo della chiesa deriva tutto da un dono di Cristo, dato a ciascuno secondo una modalità, secondo «una misura» (Ef 4,1; 1Cor 7,7). Il che comporta, di conseguenza, un massimo di amore, che è la «misura» tipica di Cristo. L'amore rimane sempre la lingua propria della chiesa a tutti i livelli. Il dono di Cristo esige un impegno nella reciprocità ecclesiale che si concretizza nel servizio. Questa vocazione specifica, la «vocazione nella vocazione», è proposta come dono a ogni cristiano. Paolo altrove (1Cor 7,7) la chiama «carisma», e il termine charisma in greco indica «un risultato di benevolenza», la benevolenza (charis) di Dio che si specifica nella persona che ne è oggetto, abilitandola a prestazioni qualificate. Ogni cristiano ha le sue. Paolo ne dà un elenco esemplificativo: «È lui che ha donato alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori» (Ef 4,11). È una chiesa attiva, in cui tutti hanno una loro capacità di servizio secondo le qualità e la storia personale di ciascuno. Tutti sono necessari al bene comune e non esistono vuoti. L’impegno convergente di tutti per tutti assorbe le migliori energie di ciascuno. E tutto, tranne il peccato, è materia preziosa di dono: gioie, sofferenze, lavoro, preghiera. Nella vita del cristiano, comunque si svolga, non ci sono mai dei vuoti, delle zone morte. Questo dono orizzontale di tutti per tutti assume la dimensione verticale. Siccome la chiesa è il «corpo» di Cristo, la sua concretezza relazionale, il bene fatto alla chiesa ridonda tutto su Cristo. Paolo osa dire che c'è uno sviluppo di Cristo stesso, una sua crescita, che si realizza nella crescita propria della chiesa. I carismi dei singoli sono tutti finalizzati, nel loro esercizio concreto, «per preparare i santi al ministero, per la costruzione del corpo di Cristo, fino a che arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all'uomo perfetto, a quello sviluppo che realizza la pienezza del Cristo» (Ef 4,12-13). Tutto questo è esaltante e ci fa toccare con mano la dignità altissima e la responsabilità del cristiano. Per gestire in maniera adeguata tale responsabilità, il cristiano, rimanendo incondizionatamente aperto alla novità stimolante di Cristo, deve guardarsi dalle improvvisazioni estemporanee ed epidermiche che trova facilmente nel

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suo ambiente culturale: improvvisazioni che, sia quando guardano pigramente indietro, sia quando si lanciano in avanti in maniera avventuristica, costituiscono un atteggiamento infantile, frutto della debolezza e della malizia. Per vivere davvero 1'«ebbrezza nello Spirito», si richiede l'atteggiamento responsabile dell'adulto che accoglie la verità di Cristo, la vive e la realizza nell'amore. Il cristiano adulto si sente e si sa in un atteggiamento di crescita a tutto campo. Non una crescita capricciosa o selvaggia, ma una crescita tutta orientata verso Cristo: «affinché non siamo più dei bambini sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina prodotto dell'inganno umano. Facendo invece la verità, cresciamo nell'amore in tutto verso di lui, Cristo, che è il capo» (Ef 4,14-15). Nel quadro del divenire di Cristo nella storia si colloca il contributo specifico della vita consacrata. Essa è tutta collocata nella chiesa, in funzione della chiesa, in contatto con la chiesa. Rispetto alla chiesa la vita consacrata costituisce un «resto d'Israele», con la missione di approfondire i valori essenziali, per poi irradiarli. Ciò comporta anche un certo distacco; ma se questo diventasse isolamento, risulterebbe nella vita consacrata in negativo il girare oziosamente su se stessa. C'è sempre un «di più verticale» di Cristo da accogliere e da seguire, ma c'è sempre anche «un di più orizzontale» di Lui da ricevere e dare nella nostra reciprocità ecclesiale. La vocazione alla vita consacrata, come qualunque altra vocazione - nella spinta di crescita che viene impressa da tutta la chiesa alla crescita di Cristo nella storia -, trova la sua espressione più bella nella sintesi vissuta che offre Paolo: «Facendo la verità, cresciamo nell'amore in tutto verso di lui, Cristo, che è il capo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere, in modo da edificare se stesso nell'amore» (Ef 4,15-16). 8. L'«ebbrezza nello Spirito»: una costante nella vita vissuta di Paolo Un ultimo sguardo a una modalità tipica con cui Paolo vive la sua vocazione: l'«ebbrezza nello Spirito». Paolo esprime con la metafora «ebbrezza nello Spirito» la docilità incondizionata alla guida dello Spirito, sotto il profilo della vita cristiana individuale e apostolica. Nel ripensamento tormentato dei rapporti tra la Legge dell'AT e «la legge dello Spirito» - usa questa espressione sintetica in Rm 8,1 -, propria del NT, Paolo reinterpreta il rinnovamento dell'alleanza promesso da Dio in Geremia e in Ezechiele. Si riferisce a entrambi in un testo noto: «Voi mostrate che siete la lettera di Cristo, servita da noi, scritta dentro non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente; non su tavole di pietra, ma su tavole che sono i cuori di carne» (2Cor 3,3). Pertanto la legge tipica del NT ha un'articolazione che le è tipica. Parte dal Padre, autore della lettera. Da lui deriva il dono più bello fatto all'uomo: il dono di Cristo, che entra nella sua vita e la trasforma. Cristo infatti rappresenta il contenuto della lettera. I Corinzi, accogliendolo nella loro vita, saranno addirittura capaci di esprimerlo. Lo Spirito porta i tratti tipici di Cristo nella comunità, facendo fiorire nella coscienza di ciascuno i valori di Cristo da vivere e applicare secondo le circostanze concrete della vita. Lo Spirito ha la funzione propria dell'inchiostro in una lettera: fissa e visualizza i tratti tipici di Cristo. Questa articolazione trinitaria costituisce la legge dello Spirito e si muove tutta nell'ambito dell'interiorità della persona. Le tavole di questa legge non sono più quelle di pietra del Sinai, ma i «cuori di carne», l'interiorità dell'uomo rinnovata secondo la promessa di Dio che troviamo in Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo. Toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e vi metterò un cuore di carne. Metterò il mio Spirito dentro di voi; farò sì che osserviate i miei decreti e seguiate le mie norme» (Ez 36,26-27). Il Cristo che lo Spirito ci porta e di cui suggerisce l'attualizzazione nella vita ha sempre la novità e la freschezza della «stella luminosa del mattino» (Ap 2,28; 22,16). Quando viene accolto pienamente, provoca una reazione gioiosa di sorpresa e di stupore, fa saltare gli schemi usuali: Paolo la denomina «ebbrezza nello Spirito». Questo atteggiamento serenamente rivoluzionario, meta-concettuale, di entusiasmo, di gioia anche sofferta, di gratitudine, di dedizione incondizionata e controcorrente, accompagna costantemente Paolo. Ma lo stato di slancio proprio dell'ebbrezza nello Spirito non toglie il peso delle difficoltà. Paolo sente il bisogno di parlarne, le guarda in faccia e non esita a rivolgersi, anche con un'insistenza ripetuta, al Signore perché gliele tolga. Tipico e istruttivo è il caso che egli espone dettagliatamente in 2Cor 12. Parla qui di una «spina nella carne, un emissario di Satana» che lo schiaffeggia. Allude probabilmente a una malattia che gli impedisce di realizzare i progetti di apostolato, che pure sente suggeriti dallo Spirito. Afferma: «Perché non insuperbissi per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata data una spina nella carne, un emissario di Satana che mi schiaffeggi, perché non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me. Mi rispose: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza si perfeziona nella debolezza"» (2Cor 12,7-9). La risposta del Signore conferisce a Paolo lo slancio, il coraggio apostolico. Si sente amato. La «grazia» che basta a lui è la benevolenza attiva, l'amore di Cristo che parla, e questo amore lo spinge, gli da le ali. Come quella di Paolo, anche la vita consacrata di ogni tempo è un innamoramento, una specie di fidanzamento prolungato e ripetuto che non si può spiegare a parole e ha solo la logica del «primo amore» (Ap 2,4). Paolo, sentendosi amato da Cristo, comprende che attraverso il canale delle sue insufficienze passa la forza misteriosa di Cristo che, portata dallo Spirito, lo raggiunge e lo trasforma, rovescia la prospettiva. Le sofferenze fisiche e morali faranno sentire ancora il loro peso, ma in esse vi è uno spiraglio misterioso di assoluto; le sofferenze permettono un'accoglienza nuova di Cristo: «Mi glorierò quindi volentieri delle mie debolezze, perché

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inabiti in me la potenza di Cristo. Mi compiaccio quindi delle infermità, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni, delle angustie, a motivo di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte» (2Cor 12,9b-10). Lo slancio di Paolo è anzitutto verticale ed è permanente. Egli è sempre in ginocchio nella preghiera di ringraziamento, lode, benedizione, richiesta, secondo le circostanze della vita. Tutto rapporta al Padre. La preghiera è il segreto di tutto, come lo era per Gesù. La preghiera è innanzitutto individuale, fino a diventare una liturgia continuata, la liturgia della vita. È difficile precisare le forme concrete della sua preghiera. Avrà recitato ogni giorno, come Gesù, le splendide preghiere quotidiane dei giudei. Tra esse spicca l'Ascolta, o Israele, recitato tre volte al giorno: «Ascolta, o Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la forza» (Dt 6,4-5). Matura le sue scelte nella preghiera personale, la sa orientare anche a beneficio degli altri, delle sue chiese. I suoi ideali nei loro riguardi, i suoi sogni diventano allora preghiera. Un brano ci fa gustare l'orizzonte di Paolo in preghiera: «Piego le mie ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni famiglia in ciclo e sulla terra prende nome» (Ef 3,15). A contatto con Cristo il cristiano impara a pregare e ad impegnarsi nell'amore verso gli altri. Scopre che proprio nell'amore sta la radice che dà fecondità alla vita, il fondamento che la rende solida. Proprio l'amore verso gli altri, praticato con tutto l'impegno, dilata la sua comprensione per un amore che nelle varie dimensioni che assume non finirà mai di stupirlo: l'amore di Cristo: «perché vi conceda, secondo i tesori della sua gloria, di irrobustirvi grandemente nell'uomo interiore mediante il suo Spirito, di ospitare il Cristo nei vostri cuori per mezzo della fede, affinché, radicati e fondati nell'amore, riusciate ad afferrare, insieme a tutti i santi, la larghezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e a conoscere l'amore del Cristo che trascende ogni conoscenza, e così vi riempiate di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,16-19). Paolo ha osato molto nella sua preghiera; ma avverte che Dio quasi sfida a sognare per realizzare ancora di più: «A colui che, per la forza che opera in noi, ha potere di fare molto di più di quanto chiediamo o immaginiamo, a lui la gloria nella chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni e per sempre. Amen» (Ef 3,20-21). L'intensa preghiera personale per gli altri diventa spontaneamente preghiera condivisa. L'importanza attribuita da Paolo alla Cena è caratteristica. Se essa non è celebrata degnamente, l'effetto vivificante del corpo e del sangue di Cristo non scatta. Come conseguenza inevitabile si ha uno stato di astenia spirituale, che può rasentare la morte. Tra le forme di preghiera condivisa che Paolo apprezza, s'impone all'attenzione l'uso dei salmi, radicato nella sua esperienza di preghiera da giudeo. Essi hanno contribuito in modo particolare a comunicargli quel senso acuto di Dio che lo accompagnerà per tutta la vita: «Che fare dunque, o fratelli? Quando vi radunate e ciascuno ha un salmo, una dottrina, una rivelazione, e l'uno ha il dono delle lingue, l'altro il dono d'interpretarle, si faccia tutto per l'edificazione» (1Cor 14,26). «La parola del Cristo abiti in voi con tutta la sua ricchezza. Istruitevi e consigliatevi reciprocamente con ogni sapienza. Con salmi, inni e cantici ispirati cantate a Dio nei vostri cuori con gratitudine» (Col 3,16). Lo slancio verticale della preghiera, individuale e condivisa, si traduce in slancio orizzontale che accompagna costantemente Paolo nella pratica concreta del suo apostolato. Un quadro ce lo da egli stesso in Atti, parlando agli anziani di Efeso: «Voi sapete come fin dal primo giorno in cui io arrivai nella provincia di Asia mi sono sempre comportato con voi, servendo il Signore in ogni genere di umiliazione, nelle lacrime e tra le prove che le insidie dei giudei mi hanno procurato. Non v'è nulla che vi potesse giovare che io abbia trascurato di predicare e insegnarvi in pubblico e nelle case. Ho scongiurato giudei e greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ora ecco che, avvinto dallo Spirito, sto andando a Gerusalemme, non sapendo ciò che là mi potrà succedere. So soltanto che lo Spirito Santo di città in città mi avverte che mi attendono catene e tribolazioni. Ma non do alcun valore alla mia vita, purché io termini la mia corsa e il ministero, che ho ricevuto dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al Vangelo della grazia di Dio [...]. Perciò vegliate, ricordandovi che per tre anni, notte e giorno, non ho cessato di ammonire, piangendo, ciascuno di voi. Ora io vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che può edificare e dare l'eredità con tutti i santificati. Io non ho mai desiderato argento, oro o vesti di nessuno. Voi sapete che alle mie necessità e a quelle di coloro che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In ogni occasione vi ho dimostrato che è così, lavorando, che occorre prendersi cura dei deboli, ricordandosi della parola del Signore Gesù che disse: "C'è più gioia nel dare che nel ricevere"» (At 21,18-24.31-35). Paolo ci presenta una sintesi vissuta e applicata delle sue scelte di fondo. È davvero uno slancio che va oltre ciò che è scontato. Vive «l'ebbrezza nello Spirito». È lo Spirito che lo coinvolge, che lo «avvince», che lo guida e lo segue, preparandolo a tutto. È lo Spirito che gli dà la forza di un'oblatività che meraviglia. Un ultimo tratto caratteristico di «ebbrezza nello Spirito» è l'atteggiamento costante di uno slancio audace di gioia. Si tratta di una gioia motivata, anche se si colloca nella meta-concettualità della fede. La motivazione di questa gioia è data dalla vicinanza del Signore: «Siate sempre gioiosi nel Signore. Ve lo ripeto: siate gioiosi! La vostra serenità sia conosciuta da tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non angustiatevi in nulla, ma in ogni necessità, con la supplica e con la preghiera di ringraziamento, manifestate le vostre richieste a Dio. E la pace di Dio, che sorpassa ogni mente umana, veglierà, in Cristo Gesù, sui vostri cuori e sui vostri pensieri» (Fil 4,4-7).

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Il Signore è vicino a noi tutti i giorni: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino al perfezionamento ultimo del mondo» (Mt 28,20). Sotto la spinta dello Spirito, i diversi dettagli della vita - occupazioni, preoccupazioni, gioie, dolori - vengono tutti rapportati a lui. La preghiera di offerta della liturgia della vita, il ringraziamento, le richieste di aiuto, la confessione delle paure e delle angosce costituiscono come delle istanze che, partendo dal livello assillante del vissuto, si muovono tutte in direzione: Cristo. Egli, presente e attento, risponde, attivando ed esplicitando la reciprocità di «primo amore» che ci lega a lui. Tutto rimane - gioie, dolori, assilli e problemi -, ma noi siamo cresciuti di livello. Ci troviamo più in alto, con lui, al di sopra della morsa della quotidianità, senza mai dimenticarla. Accanto a lui, partecipiamo, in reciprocità, del suo assoluto di misericordia e di bontà, in cui ci coinvolge portandoci all'assoluto di Dio, il «Misericordioso». L'assoluto di Cristo e di Dio, anche se raggiunto solo parzialmente, è sempre una fonte di gioia. Paolo lo sperimenta con un paradosso apparente: «Sovrabbondo di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7,4). La tribolazione non è certo gioiosa, fa sentire tutta la sua pressione; Paolo ne emerge, orientando tutto, anche la stessa tribolazione, a Cristo, suo assoluto, cercando di raggiungerlo. Cristo raggiunto risponde in termini di gioia. La serenità di chi sa cogliere queste punte di assoluto è una caratteristica irrinunciabile della vita consacrata, che vuole davvero realizzare e condividere con il resto della chiesa «l'ebbrezza nello Spirito». Lungi da chiudersi in nella «ottusità paciosa» lamentata da Susanna Tamaro, chi ha il carisma della vita consacrata si ispirera a Paolo. Allora tutto - gioie, dolori, angosce, problemi, ideali, successi e fallimenti degli uomini - li interessa, li coinvolgerà di persona. Sa piangere con chi piange e gioire con chi gioisce. Ma ha per sé e per gli altri il coraggio di accogliere il grande messaggio di Paolo: «Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio» (1Cor 3,22-23). Quando si è davvero di Cristo e di Dio e lo si sa, non si può non essere felici. In conclusione: Paolo, unico tra gli autori del NT, prima di presentare il messaggio di Cristo, si coinvolge di persona. Il messaggio così arriva carico di un'esperienza al vivo. È il Vangelo è di Dio, ma lo personalizza. Sa comunicare ciò che vive, coinvolge nell'esperienza che comunica e ne è consapevole. Può dire ai Corinzi: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Questa sua capacità di osmosi si realizza in modo particolare riguardo a Cristo. Guidato dallo Spirito, realizza quello stato di amore radicale, di dono senza limiti, tipico di Cristo. La sua «ebbrezza nello Spirito» è il suo entusiasmo per Lui, di cui scopre ogni giorno aspetti nuovi, con stupore e con gioia. Anche noi condividiamo la ricchezza di Cristo, di un Cristo che prende, appassiona e, sempre nuovo e inedito, spinge in avanti. Giovanni Crisostomo, uno dei migliori conoscitori di Paolo, diceva che il cuore di Paolo è il cuore di Cristo: «"Ma vive in me Cristo". Dunque il cuore di lui [Cristo] era il cuore di Paolo» (In Epistolam ad Romanos: PL 155.60.680; PG 61). Accogliendo Paolo in profondità, anche noi arriveremo a dire con lui: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1,21), scopriremo con gioia che, seguendo i criteri di valutazione propri di Cristo, «abbiamo la mente di Cristo» (1Cor 2,16). Allora anche il nostro cuore sarà affine a Cristo. VANNI Ugo, L’ebbrezza nello Spirito. Una proposta di spiritualità paolina, Roma AdP 2008, 165-190

PAOLO, PROTAGONISTA E ISPIRATORE DI VITA CONSACRATA 1. Introduzione Paolo è modello di vita consacrata come ispiratore e protagonista di dedizione totale, lascia intravedere un tipo di vita che supera decisamente i ristagni, i compromessi, le superficialità che possono insidiare la vita consacrata. 2. Il battesimo, fondamento della vita consacrata Sbilanciato e sconvolto nell'incontro con Cristo sulla via di Damasco, viene battezzato e qui nasce il vero Paolo. Egli rifletterà sulla sua esperienza battesimale e la comprenderà; in Rm 6,1-11 esprimerà il frutto maturo delle sue riflessioni. Parte dalla sua esperienza e ne fa un messaggio per tutti. Il battesimo è innanzitutto un contatto diretto con la morte di Cristo, un contatto vitale, quasi un'osmosi, con la morte e risurrezione di Cristo. «Voi che siete stati battezzati, non sapete che siete stati battezzati nella morte di Cristo?» (Rm 6,3). La morte di Cristo segna la distruzione di ogni peccaminosità umana: «Dio, avendo inviato il proprio Figlio in quella che fu l'espressione sensibile della carne del peccato e in rapporto al peccato [si tratta della crocifissione], condannò il peccato nella carne» (Rm 8,3). È la carne di Cristo crocifisso. La morte, la «distruzione» fisica di Lui comporta l'azzeramento totale del peccato. La sua condanna, la sua distruzione comporta, - e questo è una caratteristica propria di Dio, sempre impegnato in una «nuova creazione» - un rifacimento continuo, che elimina e colma la lacuna procurata. L'applicazione della morte di Cristo, intesa con questo fascio di valenze dinamiche che avviene nel battesimo e si mantiene costante, assicura al cristiano una situazione permanente di positività. Il fossato del peccato è stato saltato. Mediante Cristo s'instaura una forza travolgente di liberazione, di rifacimento. «Chi è morto [facendo propria la morte di Cristo] è già stato e rimane giustificato (dedikaiotai) dal peccato» (Rm 6,7).

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Questa situazione positiva del cristiano esige una coscientizzazione coraggiosa. Il peccato venuto in contatto con la morte di Cristo operante nel cristiano battezzato non esiste più, è uno zero. È fuori posto un ripensamento ulteriore, anche la richiesta ripetuta di un perdono già pienamente applicato. Costituirebbe un ripiegamento ozioso, un incartocciamento nel circuito chiuso di se stessi, che impedirebbe, o limiterebbe seriamente, lo slancio fiducioso che la liberazione dal peccato tende a procurare. È difficile, ma vitale per il cristiano credere davvero che i suoi peccati, una volta perdonati, non esistono più. Quando le sue debolezze e le sue incoerenze, la sua fragilità lo spaventeranno, si tratterà di praticare uno slancio di fede-fiducia nell'efficacia liberante della morte di Cristo. Il contatto con Cristo al di sopra di tutto lo rimetterà in forma, facendogli prendere atto che non potrà contentarsi di evitare il male, ma seguendo l'impulso dello Spirito, dovrà essere un protagonista ardito di bene. Vivrà così adeguatamente la sua situazione di redento. La redenzione in questa vita non lo rende ancora impeccabile: ciò avverrà nella pienezza escatologica. Dovrà quindi mantenere, mediante un'apertura totale a Cristo da rinnovarsi ogni giorno attraverso un contatto con la sacramentalità, la situazione positiva in cui si trova, eliminando con decisione e radicalità tutti gli elementi anticristici che incontrerà nel suo cammino. La morte di Cristo ci viene applicata insieme alla sua risurrezione che costituiscono il binomio inscindibile del mistero pasquale. L'applicazione della vitalità di Cristo risorto al cristiano battezzato è particolarmente importante, ma anche notevolmente complessa. Paolo si sforza di illustrarne gli aspetti fondamentali. Comincia con una constatazione: mediante il battesimo il cristiano è come innestato in Cristo, diventa con lui una sola pianta. Tutto ciò che è proprio di Cristo raggiunge e aggancia il cristiano; ne consegue che,«come Cristo risuscitò dai morti attraverso la gloria del Padre, così anche noi dovremo comportarci in una novità di vita» (Rm 6,4). La novità di vita, veicolata «dalla partecipazione alla risurrezione di Cristo», ha soprattutto un carattere oblativo: è un «vivere per», un «vivere a». «[Cristo] in quanto morì, morì al peccato una volta per tutte; in quanto vive [da risorto], vive a Dio» (Rm 6,10). La situazione di Cristo, trasferita nel cristiano, comporta una presa di coscienza adeguata e un impegno in parallelo: «Valutate voi stessi come morti al peccato, ma viventi a Dio, in unione con Cristo Gesù» (Rm 6,11). La partecipazione alla vitalità di Cristo risorto verrà poi precisata ulteriormente da Paolo come una condivisione dello Spirito. Lo Spirito costituisce infatti il dono pasquale per eccellenza. Egli è «agente di cristificazione», suggerendo in ogni circostanza della vita la verità-valore appropriata, insieme alla forza per realizzarla. In sintesi, il dono permanente e continuato del battesimo come partecipazione aderente alla morte e risurrezione di Cristo è la radice operativa di tutta la vita cristiana e della vita religiosa che ne è come una condensazione offerta da Dio tramite una vocazione specifica. Sull'onda della partecipazione alla morte di Cristo, il cristiano potrà essere liberato dagli aspetti lacunosi rispetto alla sua vocazione. Si sentirà sempre peccatore, insufficiente, ma un peccatore perdonato e rifatto, ri-creato. La partecipazione alla risurrezione farà scattare in lui la spinta al dono di sé, caratteristica fondamentale della sua novità di vita. Questa spinta, denominatore comune di ogni vocazione, troverà nella vita religiosa consacrata delle piste proprie di realizzazione. Qualunque sia la situazione umana in cui possa trovarsi - gioia o dolore, fatica o riposo, comprensione o incomprensione, serenità o turbamento, salute o malattia -, il cristiano troverà sempre, sotto la guida dello Spirito, la forza di uscire da sé verso Dio, per essere dono, come Cristo, come Paolo. 3. La vocazione formula la vita religiosa di Paolo La situazione in cui il battesimo colloca Paolo e ogni cristiano contiene un potenziale dinamico enorme: la liberazione dalla pesantezza del peccato e lo slancio nella vita nuova di amore ablativo. La risposta al dono è la vocazione che è propria di ogni cristiano e consiste in «una chiamata per nome» (klesis), di Dio. Questa è detta anche «scelta, determinazione, separazione, elezione». Paolo lo dice con evidente commozione: «Quando piacque a Colui che mi aveva determinato fin dal seno di mia madre e mi aveva chiamato per nome in forza della sua benevolenza, di rivelare in me suo Figlio» (Gal 1,15-16). All'origine c'è il movimento della bontà di Dio, una compiacenza gioiosa: è la gioia dell'artista che sente nascere dentro un progetto, un sogno da attuare e che guarda con gioia e stupore. La chiamata per nome è l'attribuzione di questo progetto. Il nome non è denominativo, ma qualificativo: dà alla persona i tratti del sogno di Dio che la riguarda in un contesto tipico di reciprocità. Dio attribuisce il nome, con tutte le sue potenzialità dinamiche in dialogo che attende una risposta. Questa verrà dall'accoglienza grata del nome stesso e dall'esecuzione delle sue implicazioni, un'accoglienza ed esecuzione fatte sempre guardando a Dio, rispondendo a lui, quasi faccia a faccia con lui. Dio attribuisce a Paolo il nomadi apostolo. Paolo si definisce per ben due volte «chiamato a essere apostolo» (Rm 1,1; 1Cor 1,1). Il «nome» che riceve investe tutta la sua persona, il suo essere e il suo agire; si colloca nel dinamismo dello Spirito che Paolo si sforzerà sempre di seguire. La concretizzazione storica, spazio-temporale del nome ricevuto comporta innanzitutto per lui dei presupposti di fondo, quasi una serie di scelte a monte, che costituisce la sua struttura portante personale; comporta l'attività

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apostolica nel suo svolgimento dettagliato; comporta un filo che attraversa in una sintesi unificante sia la struttura portante di base sia i vari aspetti della sua attività. La vocazione quale attribuzione e specificazione del «nome nuovo» che Dio dà a ciascuno si esprime pure nella vita consacrata. Essa è un «nome nuovo», con un contenuto specifico, che la persona percepisce con gioia. Paolo, che percepisce l'apostolato come il contenuto del suo «nome nuovo» vi coinvolgerà tutte le sue energie migliori, tutte le sue risorse umane, in una visione compatta: più sarà apostolo, più sarà libero (cfr 1Cor 9), più sarà uomo, e viceversa. Porterà tutto l'uomo nell'apostolato, con le implicazioni, senza dispersioni. La vocazione alla vita consacrata possiede questa compattezza totalizzante: tutte le energie umane della persona vanno convogliate alla comprensione e alla realizzazione gioiosamente creativa del «nome nuovo» ricevuto. Il nome nuovo ricevuto nella vocazione aderisce strettamente alla persona. Paolo rivendica con energia anche drastica la sua appartenenza al gruppo degli apostoli, si sente in una comunione di condivisione a tutto campo con tutti, ma sottolinea le sue caratteristiche personali, convinto che la realizzazione personale del suo nome nuovo costituisce un coefficiente che qualifica la sua oblatività apostolica. Non si sente per nulla un anonimo, un semplice numero ecclesiale. Qualunque carisma di vita consacrata comporta una vocazione nella vocazione: la persona singola avrà sempre la responsabilità indelegabile d'interpretare e fare propri, sotto la guida dello Spirito, i valori che Dio le presenta. 4. La struttura portante della vita religiosa di Paolo: l'«obbedienza della fede» II primo aspetto che emerge nel nucleo delle scelte e dei valori a monte che determina l'apostolato di Paolo è quello che egli chiama «obbedienza della fede» (Rm 1,5), un espressione percorre il «Corpus paulinum». Vi sono tre termini: il verbo «obbedire» (hypakouo), il sostantivo «obbedienza» (hypakoe) e l'aggettivo «obbediente» (hypakoos). Il verbo hypakouo, «obbedire», ricorre volte su un totale di 21 ricorrenze in tutto il NT. Il significato di base è quello di un contatto con un principio da cui scaturisce una spinta operativa, che viene accolta ed eseguita. Secondo le diverse ricorrenze, il principio da cui si riceve e si accetta l'impulso operativo potrà essere di tipo negativo o positivo. Si potrà così obbedire alla propria passionalità sfrenata (Rm 6,12 ecc.), al Vangelo (Rm 10,16), a Paolo (Fil 2,12; 2 Ts 3,14), ai genitori, e perfino ai padroni (Ef 6,l ecc.). Il quadro, già significativo, acquista ancora più risalto nel sostantivo. Le ricorrenze di hypakoe, «obbedienza», in Paolo sono di 11 su 15 di tutto il NT. La statistica indica già un'attenzione particolare. Le ricorrenze in Paolo sono particolarmente significative e offrono un'elaborazione teologica caratteristica, tipica di un Paolo. Posta l’obbedienza in un parallelo sorprendente con la fede: «per mezzo del quale ricevemmo la grazia e l'apostolato per l'ob-bedienza della fede da parte di tutte le genti» (Rm 1,5). Il Vangelo che è chiamato ad annunciare richiede un'accoglienza che è appunto la risposta della fede. Questa è un'apertura incondizionata e radicale da mantenersi costantemente al contenuto del Vangelo che è il Cristo morto e risorto. L'obbedienza, messa strettamente in parallelo con la fede - si potrebbe tradurre: «l'obbedienza che consiste nella fede» -, perché comporta ciò che è proprio della fede, cioè l'accoglienza di Cristo, del mistero pasquale, comporta una spinta operativa, accolta ed eseguita. Si può dire: il Cristo del mistero pasquale, una volta accolto dalla persona mediante il sì incondizionato della fede, diventa nella persona stessa un principio operativo che preme su tutta la fascia esecutiva della vita. Paolo, proprio come fa con la fede, mette l'obbedienza sulla linea della giustificazione: questa si realizza tramite l'obbedienza (Rm 6,16). L'accoglienza del Vangelo, propria della fede, si traduce in un comportamento che farà pareggio tra la formula propria del cristiano - essere un'immagine di Dio che, attraverso i tratti di Cristo, diventi «somiglianza» - e la sua vita spazio-temporale. Paolo loda i Romani perché la forma della loro obbedienza si diffonde a raggio universale, in corrispondenza con la supremazia di Roma, mettendo in luce con il nuovo tipo di vita improntato ai valori conseguente all'apertura a Cristo propria della fede. È proprio questo nuovo genere di vita che produce stupore e ammirazione. C'è di più. L'obbedienza non solo ha una sua radice cristologia, ma è addirittura praticata da Cristo. Alla disobbedienza di Adamo (par-akoe), con tutte le conseguenze negative, Paolo contrappone l'«obbedienza» (hypakoe) di Cristo (Rm 5,19). L'obbedienza di Cristo va vista nel suo rapporto ineffabile con il Padre. Il Padre costituisce per lui il suo principio operativo: in contatto con il Padre e tutto disponibile al Padre come Figlio, Cristo accoglie pienamente quanto il Padre gli suggerisce e lo realizza. È quanto troviamo in hypakoos, «obbediente», il terzo termine del nostro gruppo semantico. «Obbediente» è detto proprio di Cristo nel grande contesto del cosiddetto inno cristologico (Fil 2,5-11). In un contesto caldo di condivisione con la comunità di Filippi con la quale si sente particolarmente in sintonia (Fil 2,1-4), esorta i cristiani di Filippi ad avere lo stesso movente di fondo, la stessa aspirazione che si rileva in Cristo Gesù. Gesù afferma: «Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita come riscatto per molti» (Mc 10,45). Questa scelta caratterizza tutta la vicenda e la missione di Gesù quale Nuovo Adamo, scelta antitetica a quella dell’antico Adamo.

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Servire è uscire da se stessi, dalle proprie esigenze, dal proprio tornaconto: richiede un adeguamento all'altro, un vero esproprio. Gesù lo realizza e lo realizza fino in fondo, donando sempre tutta la sua vita, fino al sacrificio supremo sulla croce, diventando «il modello degli uomini» (Fil 2,7), sempre in dialogo ineffabile con il Padre. Quello che il Padre desidera e progetta, il suo amore per gli uomini, la sua volontà di salvezza è in Gesù una spinta ad agire di conseguenza. Ecco Gesù «obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8), a cui fa seguito la gloria della risurrezione (Fil 2,9-11). Pertanto il Gesù obbediente è il Gesù che realizza il mistero pasquale. Questo illumina l'obbedienza della fede. La spinta operativa che scaturisce nel cristiano dal mistero pasquale che accoglie credendo, si chiarisce e si precisa: si tratta di realizzare una continuazione storicizzata, quasi un prolungamento ramificato nel tempo e nello spazio, della scelta fondamentale di Gesù, con tutto il contesto che l'accompagna. Il cristiano obbediente fa sua l'obbedienza di Lui. L'obbedienza cristiana comporta tutta una costellazione di valori collegati in maniera irrinunciabile tra di loro e costituisce un'accoglienza totale, un'apertura incondizionata al Cristo del Vangelo e, tramite lui, al Padre. Il contatto che si realizza con questa apertura spinge il cristiano a un impegno di azione animata dal movente di fondo di Cristo obbediente: l’amore. È questo amore-esproprio-servizio il più importante tra i presupposti dell'apostolato che Paolo vive. Costituisce come un contenitore ideale all'interno del quale si situano tutte e singole le iniziative. Questo vale in pieno per la vita consacrata di oggi. Il quadro dell'obbedienza si è sviluppato da venti secoli è una ricchezza immensa e l'intuizione teologica di Paolo costituisce sempre una radice feconda e un parametro stimolante di verifica. Anche le mediazioni - soprattutto quella di Pietro - aiutano Paolo a scoprire sempre più e a praticare il Vangelo che predica. Così esorta i Corinzi, che a essere «obbedienti in tutto» (2 Cor 2,9); loda Filemone e si dice fiducioso nella sua «obbedienza» (Fm 1,21). I Corinzi e Filemone mettono in pratica quanto Paolo dice e testimonia. Essi sanno di ricevere da lui delle indicazioni indispensabili per la pratica integrale del Vangelo: indicazioni che risalgono al «Signore» e al Padre. Perciò le accettano con gioia e gratitudine. 5. «Al Signore senza divisioni» (1 Cor 7,35) La verginità ideale della comunità cristiana trova una sua concretizzazione esponenziale nella scelta della verginità. Paolo ne parla diffusamente e a cuore aperto. Mentre l'appartenenza a Cristo in un vincolo di amore riguarda tutti i cristiani indistintamente, la scelta specifica della verginità è una grazia specifica. Al riguardo Paolo non ha un comando del Signore (1Cor 7,25). «Ciascuno ha il proprio dono di grazia (charisma) da parte di Dio, chi in un modo chi in un altro» (1Cor 7,7). Proprio all'interno del dono di grazia personale nasce la scelta della verginità. Per Paolo, come per Matteo (Mt 19,10-11), questa scelta si situa chiaramente nella reciprocità tra Dio, Cristo e la singola persona come un segreto geloso, un'intesa ineffabile, un piacersi vicendevole che sfugge a qualunque razionalizzazione, ha solo la logica dell'amore. È quanto ha sperimentato Paolo: «Voglio che tutti gli uomini siano come sono io» (1Cor 7,7). L'amore per la Legge si era rivelato anche nell'ambito giudaico e rabbinico talmente coinvolgente da risultare totalizzante anche rispetto al matrimonio. È stato il caso di Rabbi Simone Ben Azzai (intorno al 110 d.C.) che, tutto dedito allo studio della legge, diceva: «Io respiro la Torah»; aveva esplicitamente rinunciato al matrimonio. Anche nel Paolo ancora giudeo l'amore della Legge e l'impegno a praticarla è stato particolarmente forte. Come dichiara egli stesso apertamente, la Legge è uno dei suoi grandi valori, ci tiene a precisare: «Secondo la giustificazione che si trova nella Legge ero diventato irreprensibile» (Fil 3,6). E anche da cristiano, conserverà per la Legge un amore costante e tormentato. Questo può averlo messo sulla via del celibato. Ma c'è di più. Nel Paolo cristiano emerge una reciprocità a caldo nei riguardi di Dio, che certamente era iniziata e si era sviluppata anche prima. È un appassionato, un innamorato di Dio. Ogni volta che ne parla ha luogo uno scatto di entusiasmo da vertigine. Per lui Dio è sempre il suo assoluto, «il mio Dio» (Rm 1,8; 1Cor 1,4; 2Cor 12,21; Fil 1,3; Fm 4). La reciprocità nei riguardi di Dio fa sintesi con quella nei riguardi di Cristo. L'incontro con Cristo è stato determinante, ha segnato un capovolgimento di tutto: Paolo ritiene i suoi valori ora li una perdita disprezzabile in confronto alla positività di Cristo (Fil 3,8). Si tratta di valori che incidono talmente su di lui fino a coinvolgere tutte le sue risorse personali. È afferrato da Cristo e lo insegue, per poterlo afferrare a sua volta (Fil 3,12). C'è tra Cristo e Paolo una reciprocità dinamica che si sviluppa a ritmo crescente; l'amore di Cristo spingerà sempre Paolo (2Cor 5,14), fino a fargli affermare una coestensione ardita: per lui «vivere è Cristo» (Fil 1,21). La reciprocità di Paolo nei riguardi di Dio e di Cristo non potrebbe essere più totalizzante. Il segreto della scelta del celibato da parte di Paolo sta tutto qui. Riflettendo poi su questa reciprocità, la vede come un contatto diretto tra se stesso, nella sua relatività alle prese con i valori penultimi, e l'assoluto di Cristo e di Dio (1Cor 7,29-31). E quando parlerà dei valori propri della verginità, darà uno specchio di se stesso: «Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore» (1Cor 7,32). La reciprocità con il Signore è totalizzante. Paolo parlando della verginità è convinto di spingere nella giusta direzione, verso ciò che è «conveniente e degno di un faccia a faccia (eyparedron) con il Signore senza divisioni» (1Cor 7,35). Non è un vuoto psicologico; la scelta della verginità comporta una sua pienezza, addirittura trabocca. Il Cristo vivo, palpitante, coinvolgente in maniera irresistibile che Paolo presenta nel suo apostolato è un Cristo che ama ed è amato «follemente», al di sopra di ogni schema e di ogni misura.

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6. «Libero da tutto, mi sono fatto schiavo di tutti» La povertà è per Paolo una categoria teologica. Riprende la linea dell'AT con l'aggancio molteplice anche terminologico, con la traduzione dei LXX, la fa propria e la reinterpreta creativamente. La fiducia risposta solo in Dio, accompagnata da una situazione materiale d'indigenza spesso stimolata da essa, diventa un esproprio di sé, uno spazio totale fatto a Cristo. Cristo, occupando tutto lo spazio di accoglienza che la persona gli presenta, la trasforma a sua misura; la spinge a condividere quello che Paolo osa chiamare il movente di fondo che ha animato Cristo stesso, venuto «non per essere servito, ma per servire» (Mc 10,45). Questo movente trova la sua attuazione culminante nella dedizione della «morte di croce» (Fil 2,8) e diventa paradigmatico (Fil 2,7). Questa elaborazione teologica guida tutta la pratica di Paolo come in tre cerchi concentrici. Il primo cerchio è l'aspetto sociale. Proveniente da una famiglia benestante, esercitava un lavoro di un certo livello artigianale: come i coniugi suoi amici Aquila e Priscilla, era «fabbricatore di tende», e le tende servivano soprattutto ai soldati romani. Manterrà questa sua occupazione nella sua vita di apostolo. Paolo cristiano e apostolo non fa una scelta di povertà che attiri l'attenzione per la sua radicalità anche a livello sociale; non fa suo né il modello di rottura di Giovanni Battista, che certamente egli conosceva e apprezzava, né il modello dei filosofi «cinici mendicanti», che trovava nell'ambiente ellenistico; ma dichiara esplicitamente: «So privarmi ed essere nell'abbondanza. In ogni tempo e in tutti i modi, sono stato iniziato a essere sazio e a soffrire la fame, a vivere nell'agiatezza e nelle privazioni» (Fil 4,12). Si è adattato sempre alle circostanze concrete. A Corinto «lavora con le proprie mani» (1Ts 2,9), per «donare il Vangelo senza ricompensa» (2Cor 11,7; 1Cor 8,18), mentre accetterà con gratitudine dalla chiesa di Filippi, con la quale ha un'intesa particolare, ogni genere di aiuti, e perfino una persona, Epafrodito, tutto dedicato al suo servizio. È amico di persone influenti e ricche e, contemporaneamente, dei loro schiavi, come nel caso di Filemone. Maneggerà somme anche rilevanti di danaro, come le collette raccolte nelle chiese greche per Gerusalemme. Vista sotto il profilo di una fenomenologia sociale, la povertà di Paolo non ha rilievo e rischia di sfuggire all'attenzione. La sua vita non è stata certo comoda. Egli stesso ci ricorda in maniera impressionante quante difficoltà ha dovuto affrontare per annunciare il Vangelo. In un contesto polemico con gli altri apostoli e costretto a difendere il suo apostolato, dichiara: «Sono ministri di Cristo? Lo dico da stolto, io più di loro! Molto di più per le fatiche, molto di più per la prigionia, infinitamente di più per le percosse. Ho rasentato spesso la morte. Cinque volte dai giudei ho ricevuto quaranta colpi meno uno; tre volte battuto con le verghe, una volta lapidato, tre volte naufragato, ho trascorso un giorno e una notte sull'abisso. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di ladri, pericoli dai connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, digiuno frequente, freddo e nudità» (2Cor 11,23-27). In effetti la sua - è il secondo cerchio concentrico - si colloca soprattutto all'interno della sua persona: «Essendo libero da tutti, mi sono fatto schiavo di tutti, per guadagnare il maggior numero: mi sono fatto giudeo con i giudei, per guadagnare i giudei; sottomesso alla Legge, pur non essendo sotto di essa, con quelli sottomessi alla Legge, per guadagnare quelli che sono sottomessi alla Legge; senza legge, pur non essendo senza legge di Dio, ma nella legge di Cristo, con quelli senza legge, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare in ogni modo qualcuno. E tutto faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1Cor 9,19-23). Il testo, scaturito proprio dal cuore di Paolo, parla da solo. Si proclama «libero da tutti» e «libero da tutto». Paolo non ha mai fatto sua la distanza dalle persone e dalle cose, l’«indifferenza» cinica, non ha mai pensato di mortificare e di ridurre la sua sensibilità, che lo metteva in un rapporto sempre aderente e coinvolgente con gli altri. Nella Lettera ai Galati, afferma che «per la libertà Cristo ci ha liberati» (Gal 5,1). L'assoluto è Cristo, in senso assertivo ed esclusivo; a livello di Lui non ci può stare nessuno. Tutto ciò che è impulso passionale, ricerca del proprio vantaggio e di se stesso, tutto ciò che, in una parola, si può chiamare «carne» viene come fagocitato dall'accoglienza di Cristo. Si esige, proprio per Cristo come assoluto, uno spazio vuoto corrispondente, realizzato nell'interiorità della persona. Questo esproprio è solo una relativizzazione radicale e non comporta nessun annullamento: rimangono tutte le risorse personali, rimangono le altre persone che occupano tutte il livello di prima. Solo Cristo è cresciuto. La libertà di cui parla Paolo è squisitamente cristologia: Cristo, entrato nella sua vita, è il referente assoluto, davanti al quale e in forza del quale egli si riconosce libero, spoglio di tutti e di tutto. La preminenza assoluta di Lui che così si realizza non rimane isolata. È proprio Cristo che, mediante il suo amore, esercita la pressione che gli è tipica. Paolo lo riconosce esplicitamente, quando afferma: «L'amore di Cristo [quello che Cristo ha per Paolo] ci spinge» (2Cor 5,14). È l'amore di un Assoluto. Paolo allora, proprio perché è libero da tutti e da tutto, sarà in grado di rendersi «schiavo di tutti». La sua sarà una disponibilità illimitata, com'era quella degli schiavi: ogni persona sarà accolta così come è; sarà compresa, aiutata, amata; giungerà allora a donare il Vangelo. Paolo esemplifica alcuni aspetti del suo farsi «tutto a tutti», passando in rassegna alcune categorie di persone che lo hanno particolarmente impegnato e interessato nel suo apostolato: i giudei, i pagani, i deboli. L'esproprio di sé, da una parte, e la volontà di condividere la ricchezza del Vangelo, dall'altra, lo portano a immedesimarsi nei problemi, nei «vissuti» delle persone con le quali viene in contatto, lontano da qualunque tatticismo

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epidermico. Lo fa con il cuore e in profondità, perché il Vangelo attecchisce solo nelle radici esistenziali delle persone. È il terzo cerchio concentrico. Lo spazio radicale dell'esproprio è fatto a Cristo come al valore supremo, assoluto, e scatta quando si è raggiunti dall’amore di Cristo, accogliendolo e comunicandolo secondo il suo dinamismo di oblatività, facendosi tutto a tutti, come lui. È il vertice della povertà paolina. Quindi la povertà di Paolo è la gratuità di una vita tutta aperta a Cristo, occupata da lui e donata sotto l'impulso suo per il Vangelo. È una povertà serena, addirittura gioiosa: «c'è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). L'articolazione nelle tre fasi - apertura totale a Cristo, immedesimazione, dono - è irrinunciabile: ogni fase suppone e trascina le altre due. Se si salta la prima, la povertà potrebbe diventare l'orgogliosa enfatizzazione dell'austerità dei filosofi cinici. Se si salta la seconda fase, l'esproprio di se stessi, non si ha una seria accoglienza di Cristo, e l'attenzione agli altri, la loro accoglienza diventa con ciò stesso limitata, inevitabilmente superficiale. Essa potrebbe addirittura divenire una disponibilità pigra e indifferenziata ai capricci e alle esigenze egoistiche. Invece, la disponibilità agli altri è sempre finalizzata al «Vangelo della salvezza» (Rm 1,16), alla «salvezza», è la realizzazione piena del meglio della persona, secondo l'impronta del «codice genetico» immesso in essa da Dio. La povertà, così com'è presentata oggi nella fioritura quasi all'infinito delle tante forme di vita consacrata, ha modalità concrete che sviluppano quelle di Paolo e spesso vanno anche oltre. Il confronto con la radice paolina è comunque sempre illuminante e ispirativi; la «costellazione» che troviamo in Paolo è un importante test di verifica. La povertà della vita consacrata dovrà essere sempre serena, di lungo respiro, libera, aperta, umilmente disponibile agli altri e costruttiva; dovrà soprattutto esprimere, condividendo il movente oblativo di Cristo, la gioiosa gratuità della sua vita. 7. La vocazione condivisa Tra i grandi valori che stanno a monte di tutta l'attività apostolica di Paolo, nella quale si realizza la sua vocazione, emerge la dimensione comunitaria. Paolo, come carattere e capacità, era e si sentiva una guida, un trascinatore. Non fu facile per lui dopo la gioia reciproca della prima sorpresa collocarsi nella quotidianità delle comunità cristiane con cui veniva in contatto negli «anni oscuri» della sua vita, anni che intercorsero tra la sua vocazione-conversione sulla via di Damasco e la sua presenza attiva nella comunità di Antiochia. In questi anni - una decina - lo troviamo nel «deserto dell'Arabia», a Gerusalemme e a Tarso. Questo è per Paolo un periodo di approfondimento e di maturazione, in cui impara a essere cristiano insieme agli altri. Le tensioni che si verificheranno anche in seguito - con Barnaba, con Pietro, con gli altri apostoli, con intere comunità come i Galati e i Corinzi - non lo isoleranno mai; dopo lo scontro troverà sempre una formula di accettazione reciproca. Per non rischiare di «correre invano» (Gal 2,2), occorre muoversi insieme. La lunga esperienza di approfondimento trova una sua espressione in Ef 4. Il brano inizia proprio con un richiamo alla vocazione da vivere insieme. Paolo, per vivere pienamente la sua, ha dovuto affrontare anche le catene: «Vi esorto perciò io, il prigioniero per il Signore, a condurre una vita degna della vocazione alla quale siete stati chiamati» (Ef 4,1). Camminare insieme degnamente è tutt'altro che facile. Paolo, sensibilissimo ai grandi valori che qualificano la vita cristiana, non è mai un sognatore nebuloso: ha il coraggio del realismo cristiano, che accetta sempre sia le luci sia le ombre, senza mai negarle o minimizzarle. È convinto che i cristiani formino insieme come una nuova famiglia e, con un'insistenza che gli è caratteristica, li chiama «fratelli» proprio in questo senso. Tuttavia, quando si riferisce ai cristiani come famiglia, insiste enfaticamente sulla dimensione trascendente, parlando dei «propri familiari nella fede» (Gal 6,10). Nel cammino della vocazione c’è la gioia della condivisione di ciò che si riesce a mettere in comune e l'impegno realistico di accettare le diversità con tutta la fatica che questo comporta: «Con tutta umiltà, dolcezza e longanimità, sopportandovi a vicenda con amore, preoccupati di conservare l'unità dello spirito con il vincolo della pace» (Ef 4,2-3). Vale la pena. L'impegno laborioso a camminare insieme, mettendo in comune ciò che si ha di meglio, sopportando nell'amore le eterogeneità, porta a scoprire e riscoprire con sorpresa i valori stupendi che sono la struttura portante della nostra unità: «Un solo corpo e un solo spirito, così come siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra tutti, agisce per mezzo di tutti e dimora in tutti» (Ef 4,4-6). La reciprocità ecclesiale non è mai oziosa. L'impegno attivo della chiesa deriva tutto da un dono di Cristo, dato a ciascuno secondo una modalità, secondo «una misura» (Ef 4,1; 1Cor 7,7). Il che comporta, di conseguenza, un massimo di amore, che è la «misura» tipica di Cristo. L'amore rimane sempre la lingua propria della chiesa a tutti i livelli. Il dono di Cristo esige un impegno nella reciprocità ecclesiale che si concretizza nel servizio. Questa vocazione specifica, la «vocazione nella vocazione», è proposta come dono a ogni cristiano. Paolo altrove (1Cor 7,7) la chiama «carisma», e il termine charisma in greco indica «un risultato di benevolenza», la benevolenza (charis) di Dio che si specifica nella persona che ne è oggetto, abilitandola a prestazioni qualificate. Ogni cristiano ha le sue. Paolo ne dà un elenco esemplificativo: «È lui che ha donato alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori» (Ef 4,11).

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È una chiesa attiva, in cui tutti hanno una loro capacità di servizio secondo le qualità e la storia personale di ciascuno. Tutti sono necessari al bene comune e non esistono vuoti. L’impegno convergente di tutti per tutti assorbe le migliori energie di ciascuno. E tutto, tranne il peccato, è materia preziosa di dono: gioie, sofferenze, lavoro, preghiera. Nella vita del cristiano, comunque si svolga, non ci sono mai dei vuoti, delle zone morte. Questo dono orizzontale di tutti per tutti assume la dimensione verticale. Siccome la chiesa è il «corpo» di Cristo, la sua concretezza relazionale, il bene fatto alla chiesa ridonda tutto su Cristo. Paolo osa dire che c'è uno sviluppo di Cristo stesso, una sua crescita, che si realizza nella crescita propria della chiesa. I carismi dei singoli sono tutti finalizzati, nel loro esercizio concreto, «per preparare i santi al ministero, per la costruzione del corpo di Cristo, fino a che arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all'uomo perfetto, a quello sviluppo che realizza la pienezza del Cristo» (Ef 4,12-13). Tutto questo è esaltante e ci fa toccare con mano la dignità altissima e la responsabilità del cristiano. Per gestire in maniera adeguata tale responsabilità, il cristiano, rimanendo incondizionatamente aperto alla novità stimolante di Cristo, deve guardarsi dalle improvvisazioni estemporanee ed epidermiche che trova facilmente nel suo ambiente culturale: improvvisazioni che, sia quando guardano pigramente indietro, sia quando si lanciano in avanti in maniera avventuristica, costituiscono un atteggiamento infantile, frutto della debolezza e della malizia. Per vivere davvero 1'«ebbrezza nello Spirito», si richiede l'atteggiamento responsabile dell'adulto che accoglie la verità di Cristo, la vive e la realizza nell'amore. Il cristiano adulto si sente e si sa in un atteggiamento di crescita a tutto campo. Non una crescita capricciosa o selvaggia, ma una crescita tutta orientata verso Cristo: «affinché non siamo più dei bambini sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina prodotto dell'inganno umano. Facendo invece la verità, cresciamo nell'amore in tutto verso di lui, Cristo, che è il capo» (Ef 4,14-15). Nel quadro del divenire di Cristo nella storia si colloca il contributo specifico della vita consacrata. Essa è tutta collocata nella chiesa, in funzione della chiesa, in contatto con la chiesa. Rispetto alla chiesa la vita consacrata costituisce un «resto d'Israele», con la missione di approfondire i valori essenziali, per poi irradiarli. Ciò comporta anche un certo distacco; ma se questo diventasse isolamento, risulterebbe nella vita consacrata in negativo il girare oziosamente su se stessa. C'è sempre un «di più verticale» di Cristo da accogliere e da seguire, ma c'è sempre anche «un di più orizzontale» di Lui da ricevere e dare nella nostra reciprocità ecclesiale. La vocazione alla vita consacrata, come qualunque altra vocazione - nella spinta di crescita che viene impressa da tutta la chiesa alla crescita di Cristo nella storia -, trova la sua espressione più bella nella sintesi vissuta che offre Paolo: «Facendo la verità, cresciamo nell'amore in tutto verso di lui, Cristo, che è il capo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere, in modo da edificare se stesso nell'amore» (Ef 4,15-16). 8. L'«ebbrezza nello Spirito»: una costante nella vita vissuta di Paolo Un ultimo sguardo a una modalità tipica con cui Paolo vive la sua vocazione: l'«ebbrezza nello Spirito». Paolo esprime con la metafora «ebbrezza nello Spirito» la docilità incondizionata alla guida dello Spirito, sotto il profilo della vita cristiana individuale e apostolica. Nel ripensamento tormentato dei rapporti tra la Legge dell'AT e «la legge dello Spirito» - usa questa espressione sintetica in Rm 8,1 -, propria del NT, Paolo reinterpreta il rinnovamento dell'alleanza promesso da Dio in Geremia e in Ezechiele. Si riferisce a entrambi in un testo noto: «Voi mostrate che siete la lettera di Cristo, servita da noi, scritta dentro non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente; non su tavole di pietra, ma su tavole che sono i cuori di carne» (2Cor 3,3). Pertanto la legge tipica del NT ha un'articolazione che le è tipica. Parte dal Padre, autore della lettera. Da lui deriva il dono più bello fatto all'uomo: il dono di Cristo, che entra nella sua vita e la trasforma. Cristo infatti rappresenta il contenuto della lettera. I Corinzi, accogliendolo nella loro vita, saranno addirittura capaci di esprimerlo. Lo Spirito porta i tratti tipici di Cristo nella comunità, facendo fiorire nella coscienza di ciascuno i valori di Cristo da vivere e applicare secondo le circostanze concrete della vita. Lo Spirito ha la funzione propria dell'inchiostro in una lettera: fissa e visualizza i tratti tipici di Cristo. Questa articolazione trinitaria costituisce la legge dello Spirito e si muove tutta nell'ambito dell'interiorità della persona. Le tavole di questa legge non sono più quelle di pietra del Sinai, ma i «cuori di carne», l'interiorità dell'uomo rinnovata secondo la promessa di Dio che troviamo in Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo. Toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e vi metterò un cuore di carne. Metterò il mio Spirito dentro di voi; farò sì che osserviate i miei decreti e seguiate le mie norme» (Ez 36,26-27). Il Cristo che lo Spirito ci porta e di cui suggerisce l'attualizzazione nella vita ha sempre la novità e la freschezza della «stella luminosa del mattino» (Ap 2,28; 22,16). Quando viene accolto pienamente, provoca una reazione gioiosa di sorpresa e di stupore, fa saltare gli schemi usuali: Paolo la denomina «ebbrezza nello Spirito». Questo atteggiamento serenamente rivoluzionario, meta-concettuale, di entusiasmo, di gioia anche sofferta, di gratitudine, di dedizione incondizionata e controcorrente, accompagna costantemente Paolo. Ma lo stato di slancio proprio dell'ebbrezza nello Spirito non toglie il peso delle difficoltà. Paolo sente il bisogno di parlarne, le guarda in faccia e non esita a rivolgersi, anche con un'insistenza ripetuta, al Signore perché gliele tolga. Tipico e istruttivo è il caso che egli espone dettagliatamente in 2Cor 12. Parla qui di una «spina nella carne, un emissario di Satana» che lo schiaffeggia. Allude probabilmente a una malattia che gli impedisce di realizzare i progetti di

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apostolato, che pure sente suggeriti dallo Spirito. Afferma: «Perché non insuperbissi per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata data una spina nella carne, un emissario di Satana che mi schiaffeggi, perché non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me. Mi rispose: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza si perfeziona nella debolezza"» (2Cor 12,7-9). La risposta del Signore conferisce a Paolo lo slancio, il coraggio apostolico. Si sente amato. La «grazia» che basta a lui è la benevolenza attiva, l'amore di Cristo che parla, e questo amore lo spinge, gli da le ali. Come quella di Paolo, anche la vita consacrata di ogni tempo è un innamoramento, una specie di fidanzamento prolungato e ripetuto che non si può spiegare a parole e ha solo la logica del «primo amore» (Ap 2,4). Paolo, sentendosi amato da Cristo, comprende che attraverso il canale delle sue insufficienze passa la forza misteriosa di Cristo che, portata dallo Spirito, lo raggiunge e lo trasforma, rovescia la prospettiva. Le sofferenze fisiche e morali faranno sentire ancora il loro peso, ma in esse vi è uno spiraglio misterioso di assoluto; le sofferenze permettono un'accoglienza nuova di Cristo: «Mi glorierò quindi volentieri delle mie debolezze, perché inabiti in me la potenza di Cristo. Mi compiaccio quindi delle infermità, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni, delle angustie, a motivo di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte» (2Cor 12,9b-10). Lo slancio di Paolo è anzitutto verticale ed è permanente. Egli è sempre in ginocchio nella preghiera di ringraziamento, lode, benedizione, richiesta, secondo le circostanze della vita. Tutto rapporta al Padre. La preghiera è il segreto di tutto, come lo era per Gesù. La preghiera è innanzitutto individuale, fino a diventare una liturgia continuata, la liturgia della vita. È difficile precisare le forme concrete della sua preghiera. Avrà recitato ogni giorno, come Gesù, le splendide preghiere quotidiane dei giudei. Tra esse spicca l'Ascolta, o Israele, recitato tre volte al giorno: «Ascolta, o Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la forza» (Dt 6,4-5). Matura le sue scelte nella preghiera personale, la sa orientare anche a beneficio degli altri, delle sue chiese. I suoi ideali nei loro riguardi, i suoi sogni diventano allora preghiera. Un brano ci fa gustare l'orizzonte di Paolo in preghiera: «Piego le mie ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni famiglia in ciclo e sulla terra prende nome» (Ef 3,15). A contatto con Cristo il cristiano impara a pregare e ad impegnarsi nell'amore verso gli altri. Scopre che proprio nell'amore sta la radice che dà fecondità alla vita, il fondamento che la rende solida. Proprio l'amore verso gli altri, praticato con tutto l'impegno, dilata la sua comprensione per un amore che nelle varie dimensioni che assume non finirà mai di stupirlo: l'amore di Cristo: «perché vi conceda, secondo i tesori della sua gloria, di irrobustirvi grandemente nell'uomo interiore mediante il suo Spirito, di ospitare il Cristo nei vostri cuori per mezzo della fede, affinché, radicati e fondati nell'amore, riusciate ad afferrare, insieme a tutti i santi, la larghezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e a conoscere l'amore del Cristo che trascende ogni conoscenza, e così vi riempiate di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,16-19). Paolo ha osato molto nella sua preghiera; ma avverte che Dio quasi sfida a sognare per realizzare ancora di più: «A colui che, per la forza che opera in noi, ha potere di fare molto di più di quanto chiediamo o immaginiamo, a lui la gloria nella chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni e per sempre. Amen» (Ef 3,20-21). L'intensa preghiera personale per gli altri diventa spontaneamente preghiera condivisa. L'importanza attribuita da Paolo alla Cena è caratteristica. Se essa non è celebrata degnamente, l'effetto vivificante del corpo e del sangue di Cristo non scatta. Come conseguenza inevitabile si ha uno stato di astenia spirituale, che può rasentare la morte. Tra le forme di preghiera condivisa che Paolo apprezza, s'impone all'attenzione l'uso dei salmi, radicato nella sua esperienza di preghiera da giudeo. Essi hanno contribuito in modo particolare a comunicargli quel senso acuto di Dio che lo accompagnerà per tutta la vita: «Che fare dunque, o fratelli? Quando vi radunate e ciascuno ha un salmo, una dottrina, una rivelazione, e l'uno ha il dono delle lingue, l'altro il dono d'interpretarle, si faccia tutto per l'edificazione» (1Cor 14,26). «La parola del Cristo abiti in voi con tutta la sua ricchezza. Istruitevi e consigliatevi reciprocamente con ogni sapienza. Con salmi, inni e cantici ispirati cantate a Dio nei vostri cuori con gratitudine» (Col 3,16). Lo slancio verticale della preghiera, individuale e condivisa, si traduce in slancio orizzontale che accompagna costantemente Paolo nella pratica concreta del suo apostolato. Un quadro ce lo da egli stesso in Atti, parlando agli anziani di Efeso: «Voi sapete come fin dal primo giorno in cui io arrivai nella provincia di Asia mi sono sempre comportato con voi, servendo il Signore in ogni genere di umiliazione, nelle lacrime e tra le prove che le insidie dei giudei mi hanno procurato. Non v'è nulla che vi potesse giovare che io abbia trascurato di predicare e insegnarvi in pubblico e nelle case. Ho scongiurato giudei e greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ora ecco che, avvinto dallo Spirito, sto andando a Gerusalemme, non sapendo ciò che là mi potrà succedere. So soltanto che lo Spirito Santo di città in città mi avverte che mi attendono catene e tribolazioni. Ma non do alcun valore alla mia vita, purché io termini la mia corsa e il ministero, che ho ricevuto dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al Vangelo della grazia di Dio [...]. Perciò vegliate, ricordandovi che per tre anni, notte e giorno, non ho cessato di ammonire, piangendo, ciascuno di voi. Ora io vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che può edificare e dare l'eredità con tutti i santificati. Io non ho mai desiderato argento, oro o vesti di nessuno. Voi sapete che alle mie necessità e a quelle di coloro che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In ogni occasione vi ho dimostrato che è così, lavorando, che occorre prendersi cura dei deboli,

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ricordandosi della parola del Signore Gesù che disse: "C'è più gioia nel dare che nel ricevere"» (At 21,18-24.31-35). Paolo ci presenta una sintesi vissuta e applicata delle sue scelte di fondo. È davvero uno slancio che va oltre ciò che è scontato. Vive «l'ebbrezza nello Spirito». È lo Spirito che lo coinvolge, che lo «avvince», che lo guida e lo segue, preparandolo a tutto. È lo Spirito che gli dà la forza di un'oblatività che meraviglia. Un ultimo tratto caratteristico di «ebbrezza nello Spirito» è l'atteggiamento costante di uno slancio audace di gioia. Si tratta di una gioia motivata, anche se si colloca nella meta-concettualità della fede. La motivazione di questa gioia è data dalla vicinanza del Signore: «Siate sempre gioiosi nel Signore. Ve lo ripeto: siate gioiosi! La vostra serenità sia conosciuta da tutti gli uomini: il Signore è vicino. Non angustiatevi in nulla, ma in ogni necessità, con la supplica e con la preghiera di ringraziamento, manifestate le vostre richieste a Dio. E la pace di Dio, che sorpassa ogni mente umana, veglierà, in Cristo Gesù, sui vostri cuori e sui vostri pensieri» (Fil 4,4-7). Il Signore è vicino a noi tutti i giorni: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino al perfezionamento ultimo del mondo» (Mt 28,20). Sotto la spinta dello Spirito, i diversi dettagli della vita - occupazioni, preoccupazioni, gioie, dolori - vengono tutti rapportati a lui. La preghiera di offerta della liturgia della vita, il ringraziamento, le richieste di aiuto, la confessione delle paure e delle angosce costituiscono come delle istanze che, partendo dal livello assillante del vissuto, si muovono tutte in direzione: Cristo. Egli, presente e attento, risponde, attivando ed esplicitando la reciprocità di «primo amore» che ci lega a lui. Tutto rimane - gioie, dolori, assilli e problemi -, ma noi siamo cresciuti di livello. Ci troviamo più in alto, con lui, al di sopra della morsa della quotidianità, senza mai dimenticarla. Accanto a lui, partecipiamo, in reciprocità, del suo assoluto di misericordia e di bontà, in cui ci coinvolge portandoci all'assoluto di Dio, il «Misericordioso». L'assoluto di Cristo e di Dio, anche se raggiunto solo parzialmente, è sempre una fonte di gioia. Paolo lo sperimenta con un paradosso apparente: «Sovrabbondo di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7,4). La tribolazione non è certo gioiosa, fa sentire tutta la sua pressione; Paolo ne emerge, orientando tutto, anche la stessa tribolazione, a Cristo, suo assoluto, cercando di raggiungerlo. Cristo raggiunto risponde in termini di gioia. La serenità di chi sa cogliere queste punte di assoluto è una caratteristica irrinunciabile della vita consacrata, che vuole davvero realizzare e condividere con il resto della chiesa «l'ebbrezza nello Spirito». Lungi da chiudersi in nella «ottusità paciosa» lamentata da Susanna Tamaro, chi ha il carisma della vita consacrata si ispirera a Paolo. Allora tutto - gioie, dolori, angosce, problemi, ideali, successi e fallimenti degli uomini - li interessa, li coinvolgerà di persona. Sa piangere con chi piange e gioire con chi gioisce. Ma ha per sé e per gli altri il coraggio di accogliere il grande messaggio di Paolo: «Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio» (1Cor 3,22-23). Quando si è davvero di Cristo e di Dio e lo si sa, non si può non essere felici. In conclusione: Paolo, unico tra gli autori del NT, prima di presentare il messaggio di Cristo, si coinvolge di persona. Il messaggio così arriva carico di un'esperienza al vivo. È il Vangelo è di Dio, ma lo personalizza. Sa comunicare ciò che vive, coinvolge nell'esperienza che comunica e ne è consapevole. Può dire ai Corinzi: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Questa sua capacità di osmosi si realizza in modo particolare riguardo a Cristo. Guidato dallo Spirito, realizza quello stato di amore radicale, di dono senza limiti, tipico di Cristo. La sua «ebbrezza nello Spirito» è il suo entusiasmo per Lui, di cui scopre ogni giorno aspetti nuovi, con stupore e con gioia. Anche noi condividiamo la ricchezza di Cristo, di un Cristo che prende, appassiona e, sempre nuovo e inedito, spinge in avanti. Giovanni Crisostomo, uno dei migliori conoscitori di Paolo, diceva che il cuore di Paolo è il cuore di Cristo: «"Ma vive in me Cristo". Dunque il cuore di lui [Cristo] era il cuore di Paolo» (In Epistolam ad Romanos: PL 155.60.680; PG 61). Accogliendo Paolo in profondità, anche noi arriveremo a dire con lui: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1,21), scopriremo con gioia che, seguendo i criteri di valutazione propri di Cristo, «abbiamo la mente di Cristo» (1Cor 2,16). Allora anche il nostro cuore sarà affine a Cristo. VANNI Ugo, L’ebbrezza nello Spirito. Una proposta di spiritualità paolina, Roma AdP 2008, 165-190

LA SPIRITUALITÀ DI PAOLO 2. Il punto di partenza: Paolo fariseo protagonista di spiritualità

Paolo stesso ci parla di una sua spiritualità di fariseo, in una confessione a cuore aperto: «Se qualcuno, qualche altro pensa di poter basarsi e aver fiducia nella carne, io di più: sono stato circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, secondo la Legge fariseo; ho perseguitato con ardore la chiesa; secondo la giustificazione che si trova nella Legge ero diventato irreprensibile» (Fil 3,4b-6). Non si vergogna del suo passato. Ne parla quasi con fierezza, dicendo che, qualora il discorso rimanesse tutto nell'ambito farisaico, egli avrebbe dei titoli di vanto superiori a quelli dei suoi contemporanei. È da rilevare l'insistenza dell'espressione tipica «io di più», riferita a tutto il contesto farisaico, che era per Paolo un'interpretazione globale di tutto l'AT. Essa ridimensiona l'immagine falsa di un Paolo che, divenuto cristiano, misconosce i valori realizzati quand'era fariseo; di un Paolo che spiritualmente sarebbe nato soltanto sulla via di Damasco; di un Paolo insomma che sarebbe passato come al di fuori o in superficie rispetto a tutta la ricchezza

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spirituale che gli presentava l'AT. Paolo che si potrebbe vantare del suo passato fa pensare al Paolo giovane che ha passato lunghi anni a Gerusalemme «ai piedi di Gamaliele» (At 22,3). In questo tempo dovette partecipare con entusiasmo al movimento liturgico che trovava il centro nel tempio. Dovette assistere, e ripetutamente, alle celebrazioni delle feste, alle celebrazioni quotidiane, secondo i vari ritmi che comportavano. Dovette cantare i salmi, come si cantavano nel tempio, e conserverà anche dopo questa abitudine (At 16,25). Dovette insomma immergersi tutto nel patrimonio religioso giudaico che gli veniva presentato. Non si può allora supporre un Paolo indifferente ai grandi valori spirituali di cui il giudaismo era allora portatore, specialmente nel movimento farisaico. Quel senso acuto e appassionato di Dio lo dovette attingere dalla sua esperienza giudaico-liturgica di Gerusalemme. Esso rimarrà per lui un'acquisizione permanente, la più importante e la più bella di tutta la sua vita. Non possiamo immaginare un Paolo perplesso, indeciso e, molto meno, ostile nei riguardi della Legge. Ha amato la Legge; ha dedicato al suo studio buona parte della sua vita; è riuscito anche a osservarla. Afferma, in un contesto polemico in cui ogni esagerazione potrebbe essere subito contraddetta dagli avversari, che, per quanto riguarda l'osservanza della Legge, più esattamente la «giustizia che deriva dalla Legge», era diventato «irreprensibile». Quindi dovette osservare con successo apprezzabile anche all'esterno tutta la Legge, pure in quella congerie di prescrizioni applicative con cui era presentata e sentita nella scuola farisaica del tempo. Il primo quadro della sua spiritualità lo possiamo riassumere in questi termini: intravediamo in lui un uomo che, tutto preso da Dio, quasi perduto appassionatamente nel mistero divino, cerca di vivere le istanze di Dio espresse nella Legge con tutta la coerenza possibile. E di fatto ci riesce. 3. La «crisi» della conversione

«Ma quelli che per me erano dei valori, li ho ritenuti e li ritengo una perdita dannosa, a causa di Cristo. Proprio così! Ritengo che tutto sia una perdita, a causa del valore eccedente della conoscenza di Cristo mio Signore, per il quale ho perso tutto - e lo ritengo dello sterco! -, per trovare il valore di Cristo e ritrovarmi in lui, non avendo la mia giustizia, quella che mi viene dalla Legge, ma quella che mi deriva dalla fede in Cristo: la giustizia di Dio, basata sulla fede» (Fil 3,7-9). La negatività precisa, tagliente, addirittura volgare, di questo giudizio tradisce uno stato d'animo agitato. Non è la semplice valutazione fredda di un errore. Quando afferma di ritenere questi «suoi valori» una perdita disonorevole, tradisce un malcontento latente, forse una vera e propria crisi che si è determinata in lui fariseo e l’ha portato alla conversione. Egli è riuscito a costruire la sua identità, una realizzazione appagante di se stesso, una sua «giustizia», ottenuta proprio attraverso la pratica della Legge. Ma ora non esita a qualificare questa realizzazione di sé come «giustizia secondo la carne». «Carne» ha qui quella carica negativa che ricorre spesso in lui: indica l'uomo che prende se stesso, il suo egoismo, come l'assoluto, un idolo della vita. Dopo aver costruito se stesso, questa sua immagine, ha dovuto avvertirne i limiti, fino a trovarcisi davvero a disagio. Considerando le varie prescrizioni della Legge, intendendole e interpretandole con la casistica appassionata, ma minuziosa, che caratterizzava la sua scuola, si è dovuto sentire legato, impacciato, certo non aiutato in quel rapporto verticale con Dio e in quel rapporto orizzontale di accoglienza verso gli altri che gli erano congeniali e che poi appariranno come le sue caratteristiche più belle. Vi è una tensione interiore, una crisi. Il linguaggio forte, sproporzionato, che egli usa, tradisce un disappunto interiore che forse si è protratto a lungo, un aspetto della sua spiritualità da non trascurare. Proprio l'impegno totale, senza risparmio di forze, senza limitazioni, con cui si dedicò all'osservanza minuta della Legge - Legge di Dio, finita nelle mani dell'uomo come interpretazione e applicazione - dovette insegnargli molto, fargli sentire l'esigenza di un rapporto pieno, appassionato e coerente con Dio. Dovette al tempo stesso ridimensionare la sua occupazione prevalente: l'interpretazione casuistica, tutta frutto dell'ingegno dell'uomo, di una Legge diventata un assoluto. Ma l'assoluto è sempre e solo Dio, al di sopra di qualunque schema umano, anche di quelli costruiti dagli uomini sulla sua Parola. Paolo si accorge di essersi servito del materiale assolutizzato della Legge, per costruire un se stesso che ora gli appare uno pseudo-assoluto, quasi un idolo. Giungerà ad esprimersi in termini molti forti, addirittura drammatici: la Legge di Dio, assolutizzata e manipolata di fatto dall'uomo, è la «lettera che uccide», in contrapposizione allo «Spirito che dà la vita» (2Cor 3,6).

4. Dalla spiritualità farisaica alla spiritualità cristiana

In Galati afferma: «Avete sentito quella che è stata la mia condotta un tempo nel giudaismo, come senza nessuna misura perseguitavo la chiesa di Dio e cercavo di distruggerla e sorpassavo nel giudaismo abbondantemente i miei

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coetanei, essendo più di loro difensore appassionato delle tradizioni dei Padri. Quando piacque a Colui che mi aveva determinato fin dal seno di mia madre e mi aveva chiamato per nome in forza della sua benevolenza, di rivelare in me suo Figlio perché lo annunciassi alle genti, immediatamente non aderii a carne e sangue, né andai a Gerusalemme presso coloro che erano apostoli prima di me, ma mi recai nell'Arabia e di nuovo a Damasco» (Gal 1,13-17). Il brano mette chiaramente in luce e sottolinea alcuni elementi di grande interesse. Due volte Paolo usa il termine «giudaismo», indicando con esso tutto quel sistema di vita morale, religiosa e civile che lo aveva interessato e preso prima. È nel giudaismo che egli ha trovato una prima realizzazione della sua spiritualità. In questo contesto giudaico e in dipendenza da esso, è un persecutore accanito della chiesa. Diversamente dai suoi contemporanei aveva intuito che in quel gruppo socialmente irrilevante di persone che si riferivano a Cristo morto e risorto si nascondeva una minaccia seria. Egli insiste sulla sua passione giudaica al di sopra della media. Sembra insinuare che, proprio perché era un giudeo eccezionale, particolarmente dotato e particolarmente aderente alle tradizioni dei Padri, si era accorto del pericolo che il cristianesimo costituiva per tutto il giudaismo ed era corso immediatamente ai ripari. Il pericolo era grave, perché insidioso. Il cristianesimo non attaccava il giudaismo sul fronte dell'ufficialità pubblica, né su quello della pratica liturgica. Il punto che divideva così drammaticamente cristiani e giudei stava al di fuori dell'ambito del patrimonio giudaico, ma lo condizionava: i cristiani invece di costruire loro la propria giustizia, la propria identità, come aveva fatto Paolo, osservando la Legge e quasi strumentalizzandola, si affidavano sorprendentemente a un personaggio che affermavano morto e risorto e al quale lasciavano tutta l'iniziativa, addirittura la gestione della loro vita. A loro premeva essere «in Cristo Gesù», muoversi, vivere, svilupparsi nel contesto di Cristo, in contatto con lui, appartenendo a lui; tutto il resto diventava per loro sconcertantemente secondario. Il contrasto perciò era proprio su un piano spirituale. Alla spiritualità antropocentrica di Paolo, costruita servendosi della Legge, i cristiani contrapponevano una spiritualità cristocentrica, affidata a Cristo come a un assoluto. Il passaggio di Paolo dallo stato di giudaismo a quello cristiano è stato determinato fondamentalmente da questa scoperta di Cristo. Incontratosi in Cristo con il Cristo morto e risorto (Fil 3,10; Gal 1,16 ecc.), è stato come preso, «afferrato» da lui, e ora avverte che la sua vita è cambiata: i nuclei della sua personalità si sono messi in movimento e stanno trovando un assestamento nuovo. Mentre prima, preoccupato dalla realizzazione di se stesso, della «sua giustizia», aveva cercato di portarla avanti a tutti i costi, eliminando violentemente gli antagonisti, i cristiani, ora si mette coraggiosamente dalla parte loro. Ma non lo fa per poter così combattere i giudei ai quali apparteneva: la sua è una scelta interiore e che va in profondità. È una concezione antropologica diversa, addirittura rovesciata. Il Paolo dopo Damasco è veramente un altro. L'elemento più tipico di questo rovesciamento sta proprio nel fatto che, mentre prima si sentiva il responsabile, il gestore attivo, il protagonista determinante della sua vita, adesso, sorprendentemente, si affida a Dio, riconosce che è stato proprio Dio a «metterlo da parte» fin dal seno di sua madre, per «rivelare in lui suo Figlio» (Gal 1,15-16). La sua conversione è indubbiamente una vocazione: riceve la missione di annunciare il Vangelo tra i pagani (Gal 1,16). Ma anche qui si è spostato un nucleo della sua personalità: non pensa a organizzare lui, come aveva fatto prima, la missione affidatagli; si ritira nel nascondimento, passa probabilmente lunghi anni di approfondimento, di preghiera, d'interiorizzazione nel «deserto dell'Arabia», intorno a Damasco (Gal 1,17). È in questo periodo di deserto che matura le nuove costanti, che poi si svilupperanno in lui.

5. Paolo nel dinamismo di Cristo

La Lettera ai Filippesi, scritta probabilmente una ventina di anni dopo l'evento di Damasco, ci presenta come uno spaccato di riflessione che Paolo fa sulla sua situazione, fa come un bilancio della sua vita spirituale. Parlando di se stesso dopo Damasco, si definisce «uno che è stato afferrato da Cristo» e che, proprio in quanto tale, lo «insegue», nella speranza di raggiungerlo, di afferrarlo a sua volta. In questa immagine emerge tutto il dinamismo che, a partire dalla sua vocazione-conversione, lo animerà in tutta la sua vita. S'incontra con Cristo morto e risorto. Questa affermazione è particolarmente significativa per capire l'orizzonte della sua esperienza spirituale: «Per ritrovarmi in lui, non avendo la mia giustizia, quella che mi viene dalla Legge, ma quella che mi deriva dalla fede in Cristo: la giustizia di Dio, basata sulla fede, in modo da conoscere lui [Cristo] e l'energia della sua risurrezione e la condivisione delle sue sofferenze, prendendo la forma della sua morte, per poi incontrarmi con la risurrezione dai morti» (Fil 3, 9-11). Lasciando la sua «giustizia», si apre completamente a quella giustizia che ancora non conosce e che rimane un segreto di Dio e di Cristo, ma che gli giunge attraverso l'apertura costante della fede.

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Proprio attraverso questa breccia nel suo sistema - breccia prodotta dalla fede -, è in grado di accogliere la morte di Cristo, non in una condivisione emotiva, ma nel senso più profondo di una liberazione dalla peccaminosità, che mediante l'accoglienza di questa morte si realizza in lui. Accogliendo, sempre attraverso la breccia della fede, anche la risurrezione di Cristo, s'immette in un giro dinamico, in un'orbita nuova, che lo porterà alla fine a condividere in pieno la risurrezione di Cristo con lo stesso grado di verità con cui, al presente, ne condivide la morte. La centralità cristologica della sua spiritualità è tutta qui, almeno come germe e fondamento. Poi farà penetrare gradualmente in tutto l'ambito della sua vita la presenza della morte della risurrezione di Cristo; si sentirà coinvolto dalla vitalità di Lui; si sentirà preso totalmente dal suo amore e dall'esigenza di contraccambiarlo. Sempre sul filo di un Cristo da capire e realizzare maggiormente, si dedicherà in pieno alla chiesa, nella quale riconoscerà, quasi con stupore, un Cristo in divenire: la chiamerà «il corpo di Cristo». Perciò la centralità cristologica della spiritualità paolina costituisce la sua novità più affascinante. È proprio il riferimento costante e universale di tutto a Cristo, e di Cristo a tutto, che d'ora in poi darà l'impronta a tutta la vita di Paolo. Un fenomeno di questo genere non s'incontra mai nell'ambito del giudaismo. Anzi, come avrà modo più volte di sottolineare, anche con enfasi, esso mina quel tipo di giudaismo in cui egli si era reso eccellente. Mettendo al di fuori di sé, affidando a un altro - a Cristo - il baricentro della propria personalità, rovescia completamente quello che era stato il suo atteggiamento di giudeo e quello che rimarrà l'atteggiamento di molti giudei contemporanei (Rm 11-13). L'assimilazione di Cristo morto e risorto, iniziata con l'apertura dell'affidamento incondizionato di fede e concretizzatasi nel rito del battesimo, accompagnerà Paolo in crescendo per tutta la vita. Egli non allude mai al rito del suo battesimo, né si riferisce esplicitamente alla sua prima esperienza di fede. Insiste molto su un secondo livello di fede: portare il contenuto di Cristo morto e risorto, accettato nel primo livello di fede, in tutti gli aspetti della vita e della persona per una «omogeneizzazione» progressiva: «Vivo; ma non sono io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). Questa affermazione è sorprendente. Paolo prende atto di «vivere», cioè di amare e di apprezzare la vita, di organizzarla con passione e con tenacia. Accanto a questa vita a livello umano, che riconosce e ama come sua, c'è, parallela e combaciante, un'altra vita, quella di Cristo: una vita di cui Cristo stesso è il soggetto, ma che compete a Paolo. Si tratta di due vite, quella di Paolo e quella di Cristo, che rimangono distinte, ma che si attraggono a vicenda, al punto da poter giustificare l'espressione ardita: «Vivo; ma non sono io che vivo, è Cristo che vive in me». Con il senso di concretezza che sempre lo distingue, fa subito una precisazione. La presenza della vita di Cristo nell'ambito della sua vita non fa di lui un esaltato, uno «spiritualista» fanatico. Si dà premura di spiegare subito l'enigma dell’esistenza bivalente che conduce, assorbendo nella sua la vita di Cristo: «La vita che conduco nella carne, la vivo nella fede, la fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La sua vita conserva la concretezza limitata di una vita umana, rimane una «vita nella carne». Ma in questa vita condotta a livello umano, da uomo feriale, si apre come una finestra verso l'alto: è l'accettazione di Cristo in termini di fede, di quella fede prolungata, molteplice e duttile, che gli permetterà di assimilare i valori, i principi, la verità di Cristo, addirittura la sua personalità, per tutta la vita. Proprio nell'ambito di questa duttilità della fede è difficile precisare se l'espressione «la fede del Figlio di Dio» vada intesa come «fede nel Figlio di Dio», oppure se debba essere intesa come «fede - nel senso di fiducia, abbandono, volontà di dono - realizzata personalmente da Cristo» e che Paolo poi assume. Questi due aspetti non sono distinti: si affida pienamente a Cristo, crede in lui, come afferma ripetutamente: Cristo è l'oggetto della sua fede. Ma questa fede è uno spazio di accoglienza e ha come oggetto tipico il Cristo morto e risorto con tutte le sue implicanze. Credendo in Cristo, Paolo accoglie il Cristo a cui si affida. Cioè, accogliendo in pieno tutta la realtà di Cristo, segnatamente il Cristo che muore e si dona per lui, accoglie la capacità di dono, la capacità di «essere per»; in una parola accoglie la capacità di amore propria del Cristo, Figlio di Dio, e che appare in modo particolare nella crocifissione. È questo atteggiamento globale di Cristo che entra nella sua vita e tende a trasformarla tutta. La rende, in un senso preciso una vita spirituale: «Sono stato e rimango crocifisso con Cristo» (Gal 2,19). La partecipazione all'evento pasquale di Cristo inizia sempre con l'appropriazione e la condivisione della crocifissione, ma sbocca sempre in una condivisione della risurrezione in termini di vitalità, vitalità di Cristo risorto che è animata dallo Spirito. Consapevole di possedere lo Spirito di Dio e di Cristo risorto (1Cor 7,40; Fil 1,19), Paolo si sente spinto verso un'oblatività sempre maggiore. E questa spinta di dono, di amore per gli altri fa emergere un altro aspetto tipico della sua spiritualità: la libertà.

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«Libero da tutto e da tutti, mi sono fatto schiavo di tutti per guadagnare il maggior numero: mi sono fatto giudeo con i Giudei per guadagnare i Giudei; sottomesso alla legge, pur non essendo sotto di essa, con quelli soggetti alla legge, per guadagnare quelli che sono soggetti alla legge; senza legge, pur non essendo senza legge di Dio, ma nella legge di Cristo, con quelli senza legge, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare in ogni modo qualcuno. Tutto faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1Cor 9,19-23). Paolo ci apre una finestra su se stesso, svela un suo segreto. Si sente libero, ma la sua libertà non consiste in un'equidistanza dal male e dal bene, che con un atto di volontà egli possa superare in una direzione o nell'altra, bensì, a imitazione della libertà di Dio e di Cristo, consiste tutta e solo nella capacità di amare. Proprio in proporzione diretta con la sua libertà, capovolgendo intenzionalmente il linguaggio usuale, Paolo afferma di essere diventato schiavo di tutti. Più è libero, più sente di dover dipendere per amore, di dover essere a servizio degli altri. La libertà è per lui la capacità di un amore totale, continuo, di dedizione, di adattamento agli altri. Tutto questo lo attua nell'ambito del suo ministero apostolico. La sua spiritualità della libertà è improntata nello stesso tempo all'amore e alla missione da svolgere. Questa libertà ardita di amore lo porta a un'accoglienza cordiale di situazioni diverse dalla sua, non per un tatticismo che gli ripugnerebbe, ma per un bisogno, richiesto proprio dall'amore, di raggiungere in profondità le persone che ama. A lui non basta una presentazione qualunque del Vangelo. Questa presentazione, se è animata dalla libertà, cioè dalla capacità di amare, raggiunge gli altri come sono, scende negli spazi interiori delle persone, viene messa a contatto con il nucleo più segreto e più prezioso - i propri valori, le proprie scelte, i propri ideali, i propri amori - che ogni persona porta con sé.

6. Il dinamismo apostolico

La spiritualità di Paolo è decisamente apostolica. Fin dalla sua conversione ha sentito chiaramente la vocazione - iniziativa da parte di Dio che lo ha chiamato per nome - a portare l'annuncio del Vangelo specie fuori della Palestina. Fin dall'inizio della sua vita cristiana era consapevole di questa missione. Lungi dal prendere iniziative precipitose o premature, ha aspettato con tranquillità adulta il segno di Dio: segno che ha tardato ad arrivare. Ha dovuto abituarsi alla vita delle prime comunità, a un dialogo con i fratelli cristiani non sempre facile né per lui né per loro. È ad Antiochia, a Tarso. Proprio ad Antiochia emerge inaspettatamente e nel modo più semplice l'invio, quando, in un'assemblea liturgica, lo Spirito Santo, parlando per bocca di uno dei presenti, dice: «Separatemi Saulo e Barnaba per un'opera alla quale li ho chiamati» (At 13,2). Capisce subito che da questo momento comincia una nuova fase della sua vita. Dovrà muoversi, viaggiare, affrontare innumerevoli disagi. Non parla volentieri di questi disagi; quando è costretto dalla pressione polemica dei suoi avversari, lo fa con una chiarezza che lascia impressionati. Per apprezzare la robustezza della sua spiritualità apostolica, basta leggere 2Cor 10-13. Fa delle puntualizzazioni circa il suo apostolato. La sua missione specifica è l'annuncio del Vangelo che lo assorbe tutto, senza lasciargli tregua. Afferma: «Se evangelizzo, non è per me un titolo di vanto: incombe su di me una forza che mi necessita. Guai a me se non annunciassi il Vangelo!» (1Cor 9,16). Nella Lettera ai Galati insiste nel dire, con energia quasi drastica, che il Vangelo che egli annuncia non è suo, ma gli è stato affidato. Dio ne rimane sempre l'unico autore, l'unico garante, l'unico responsabile. Paolo prende atto di questa trascendenza del Vangelo che deve annunciare; giunge a dire che qualunque altro Vangelo,

anche se annunciato da lui stesso, sarebbe falso. Il Vangelo, di cui è portatore, gli dà il brivido dell'assoluto. Questa dimensione del Vangelo, di cui è consapevole, non gl'impedisce di annunciarlo agli uomini, prendendoli e amandoli come sono. Nella Prima lettera ai Tessalonicesi troviamo questa frase sorprendente: «Vi volevamo dare non solo il Vangelo di Dio, ma anche la nostra vita, tanto ci siete diventati cari» (1Ts 2,8). Il Vangelo, mantenendo la sua trascendenza irrinunciabile, è vivo, amato, suo. Parlerà con compiacenza del «mio Vangelo» (Rm 2,16), che come contenuto esprime tutto l'amore di Dio e di Cristo nei riguardi degli uomini, e non può essere annunciato se non in sintonia con questo amore verso gli uomini. La sua spiritualità di evangelista oscilla perciò tra questi due poli: da una parte, un senso sempre più acuto della trascendenza di Dio e, quindi, dell'intangibilità del Vangelo; dall'altra, l'amore di Dio verso gli uomini, con il quale il Vangelo stesso dev'essere annunciato. Sempre nel quadro del suo dinamismo apostolico di annunciatore del Vangelo, Paolo fa altre precisazioni, che troviamo in modo particolare nella Seconda lettera ai Corinzi, che, date le circostanze in cui fu scritta,

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rappresenta la lettera che più rispecchia dal di dentro il suo stato d'animo di evangelista: «Abbiamo questo tesoro in contenitori di creta, in modo che l'eccezionalità della potenza sia di Dio, e non da parte nostra» (2Cor 4,7). A giudizio comune dei commentatori, il «tesoro» di cui Paolo parla qui è proprio il Vangelo da annunciare; il «vaso di creta» è lui stesso. Poi precisa il senso di questa immagine: avverte una sproporzione stridente tra se stesso e il Vangelo di cui è portatore. È questo un aspetto «cretaceo» del suo ministero di evangelista: si sente esposto a persecuzioni che vengono dal di fuori, a dubbi che vengono dal di dentro, ad ansie, a perplessità senza fine. Pur avvertendo il peso di tutto questo insieme di negatività, fa leva su un elemento di fede: Dio, che gli ha affidato il tesoro del Vangelo, gli darà la forza necessaria per superare le avversità. È una persuasione di fede che diventa piano piano abituale in lui, che può esprimersi in termini paradossali: tutte le tribolazioni che incontra sono una forma di morte. Le sente così, ma non si ferma all'aspetto negativo: la morte, che gli viene quasi presentata in frammenti da questo insieme di difficoltà pesanti, lo fa sentire in sintonia con la morte affrontata da Cristo. È la «capacità di morte» (nekrosis) di Cristo, la capacità di dono, che viene stimolata da queste situazioni-limite in cui si trova e che, proprio come la morte oblativa di Cristo, qualifica il suo apostolato. Il dono della morte in Cristo è sempre accompagnato dalla vita. Paolo ne fa l'esperienza. Accogliendo nel suo apostolato questi elementi di morte che lo stimolano a una volontà di dono, a quella capacità di morire che egli ammira in Cristo e che vuole ricopiare in se stesso, si accorge che il suo ministero produce sorprendenti effetti positivi.

Giunge ad affermare: «In noi è attiva la morte, in voi è attiva la vita» (2Cor 4,12). Dal mistero pasquale rivissuto nel dinamismo dell'apostolato gli deriva un'accentuazione caratteristica: anche il suo apostolato è una vita secondo lo Spirito. Parla dello Spirito di Cristo, mettendolo chiaramente in rapporto con la libertà, caratteristica fondamentale della sua spiritualità apostolica. Infatti, in 2Cor 3,17 afferma: «Il Signore è lo Spirito, e dov'è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà». Nel suo servizio di amore e libertà Paolo si sente animato dallo Spirito del Signore, dalla vitalità di Cristo risorto. Proprio come effetto della pressione che Cristo esercita su di lui è in grado di esercitare con ammirabile dedizione il suo servizio apostolico: un «servizio dello Spirito» (2Cor 3,8), determinato e svolto nello Spirito. Precisa ulteriormente questo aspetto fondamentale scrivendo ai Corinzi e polemizzando con i suoi avversari: non ha bisogno di una lettera di presentazione; la sua lettera sono i Corinzi stessi, lettera che egli porta nel cuore. Proseguendo lo sviluppo dell'immagine, afferma: «Voi mostrate che siete la lettera di Cristo, servita da noi, scritta dentro non con l'inchiostro, ma mediante lo Spirito del Dio vivente; non su tavole di pietra, ma su tavole che sono i cuori di carne» (2Cor 3,3). L'azione dello Spirito fa sì che i tratti di Cristo prendano consistenza nella comunità. Come l'inchiostro così lo Spirito serve a fissare, a determinare, rendendoli leggibili, questi tratti di Cristo nella vita della comunità. Nel presentare e realizzare i tratti di Cristo, lo Spirito raggiunge le persone dal di dentro: scrive una legge, non più la legge pietrificata di Mosè, ma quella scritta dentro, secondo l'intuizione di Ger 31,33, scritta nel cuore che, come esplicita Ez 36,26, è il «cuore di carne». C'è tutto un giro, di cui è protagonista attivo lo Spirito, che porta a realizzare Cristo, e cioè il contenuto del Vangelo, nella comunità. In questo giro Paolo ha una funzione di mediazione: la lettera è «servita» da lui. Essendo protagonista attivo lo Spirito, questo servizio dev'essere fatto necessariamente in sintonia con lui, in collaborazione, lasciandosi muovere, condurre, illuminare, guidare da lui. Per cui afferma: «La nostra capacità viene da Dio, il quale ci abilita come servitori del NT, non della lettera, ma dello Spirito. La lettera infatti uccide, lo Spirito da la vita» (2Cor 3,5b-6). Un ultimo aspetto che colpisce nel dinamismo apostolico e nella spiritualità di Paolo è la situazione di avversità: afferma più di una volta che il cristiano vive una situazione conflittuale. Nell'esperienza di Paolo assume il valore di bipolarità tra forza e debolezza lungo tutto l'arco della sua vita. Ci sono però dei momenti in cui essa emerge completamente in primo piano, ad esempio in 2Cor 12,1-10. Costretto a «vantarsi», parla delle rivelazioni particolari. Ne parla in termini sobri, lo fa proprio per dimostrare ai suoi oppositori di non aver preso alla leggera né la crisi che lo ha portato ad abbandonare la pratica giudaico-farisaica, né il nuovo contesto cristiano in cui è venuto a trovarsi. La «rivelazione del Figlio» (Gal 1,16) in lui non è solo frutto di una sua meditazione personale prolungata, non è soltanto il risultato di una sua preghiera, ma viene direttamente dall'alto, in maniera eccezionale, al di fuori degli schemi abituali di comunicazione tra la trascendenza e l'immanenza. Paolo ha avuto delle

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rivelazioni, ha avuto un contatto ripetuto e prolungato con la trascendenza, ed è lì che ha compreso, fino al massimo grado possibile a un intelletto umano, il mistero di Dio e di Cristo, che poi egli annuncerà. Ma non è questo l'aspetto che mette più in risalto. Egli afferma esplicitamente che, quasi come contrappeso, perché queste rivelazioni non lo portino a una sopravvalutazione irreale e fanatica di se stesso, ha le «sue debolezze» (cfr 2Cor 12,5-10). Precisa di più: si tratta di una «spina nella carne» (2Cor 12,7). Questa è da interpretarsi con tutta probabilità come una malattia molesta, che doveva impedire o almeno limitare in misura notevole la sua attività. Paolo non si rassegna subito di fronte a questo limite trasversale che incontra nel suo cammino. La spina nella carne lo ferisce, ed egli vorrebbe che gli fosse tolta. Per questo, secondo uno stile che gli è abituale, ricorre alla preghiera: prega «tre volte» (2Cor 12,8). Si deve intendere non una preghiera ripetuta materialmente più volte, ma un crescendo in intensità fino al massimo. Paolo parla con Dio di questa difficoltà che lo comprime, lo coarta nella attività che Dio stesso gli ha assegnato. Ne parla con passione, con insistenza, si crea indubbiamente - come altre volte, quando parla di «lotta» con Dio nella preghiera (Col 4,12) - una tensione tra lui e Dio. Questa tensione dev'essere durata a lungo, alla fine Paolo ha come un guizzo che illumina di luce nuova tutta la sua situazione: questa malattia fastidiosa e limitante lo spinge ad affidarsi completamente a Dio, al di là di quelli che sarebbero i suoi piani, che la malattia rende puntualmente inattuabili. Si affida a Dio, si apre ancora di più; allora, con sorpresa gioiosa, si accorge che proprio attraverso quest'apertura incondizionata passa una forza misteriosa, un'energia che dà efficacia al suo apostolato e che egli chiama la «forza di Cristo» (2Cor 12,9). Può interpretare questa sua complessa esperienza spirituale in una forma dialogica. Fa intervenire Dio che alle sue pressanti richieste dà una risposta apparentemente incongruente: «Ti basta la mia grazia» (2Cor 12,9). «Grazia» non nel senso di un'iniezione corroborante di energia, ma in quello più profondo di «benevolenza»: è l'amore di Dio. A lui che si dibatte tra tante difficoltà a livello orizzontale, accentuate ed esasperate dalla sua salute malferma, non viene dato un supplemento di forza per districarsi da questo groviglio, ma gli è indicato un punto di riferimento superiore a tutto il suo darsi da fare anche apostolico: Dio lo ama, e questo gli deve bastare.

7. La liturgia della vita

Paolo si è interessato molto alle feste liturgiche che si svolgevano nel tempio. Divenuto cristiano, non dimentica il tempio: ve lo ritroviamo più di una volta a pregare, a sciogliere i voti (At 21,26-30; 22,17). Il tempio rimarrà sempre per lui un punto di riferimento stimolante e suggestivo. Non sostituirà al tempio di Gerusalemme un tempio cristiano, né concentrerà la vita religiosa e spirituale sul tempio di Gerusalemme. Per lui la predicazione è un vero culto, non meno di quello che si svolge nel tempio: un culto che presta a Dio nello Spirito (Rm 1,9). Sente che tutta la sua vita apostolica è come un profumo offerto continuamente a Dio (2Cor 2,14). Chiama addirittura «liturgica» l'attività burocratica e contabile della raccolta dei fondi per i poveri di Gerusalemme (2Cor 9,12). Tutto questo è significativo. Nel suo contatto con Cristo ha trovato quello che da giovane trovava nel tempio. Ha raggiunto Dio, può stare in contatto con lui; ha - per usare una sua espressione precisa - «un approccio a Dio» (Rm 5,1), che il contatto con Cristo non riduce a tempi, ritmi, feste, come quelle del tempio di Gerusalemme, ma è continuo e si ramifica in tutti i dettagli della vita. Avverte che tutta la sua vita è davvero una liturgia continuata. È questo uno degli aspetti più caratteristici della sua spiritualità. Una volta incontratosi con Cristo, è preso da lui in permanenza, in tutta la vita, dal primo momento la sua vita è pervasa gradualmente dalla presenza del Cristo che lo plasma dal di dentro, lo spinge ad annunciare il Vangelo, lo assiste e lo consola, gli dà il suo Spirito, che gli permette di vivere i valori fondamentali di Cristo. Così Paolo giungerà ad affermare che la sua vita è Cristo (cfr Fil 1,21). Da questa cristificazione della vita derivano tutti gli aspetti della sua spiritualità. Afferrato da Cristo, si lancia nell'apostolato, si fa tutto a tutti, ama, si dona, soffre, gioisce e, nel fare questo, scopre di nuovo un Cristo che viene trovato nella sofferenza, nella gioia, nelle persone a cui annuncia il Vangelo. In lui c'è come un movimento pendolare: l'amore di Cristo lo spinge verso gli altri (cfr 2Cor 5,14); l'amore verso gli altri lo spinge verso Cristo.

8. L'esperienza condivisa diventa messaggio

Paolo non è pensabile isolato e solitario. C'è in lui - anche visto come persona - una spinta che lo porta a contatto con gli altri con i quali vuole condividere i valori di cui è annunciatore e portatore. C'è in lui come

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un'esigenza endogena di transitività. All'indicativo segue di solito un imperativo. E la sua esperienza personale, una volta condivisa, diventa anche messaggio fino ad affermare: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Per questo la sua spiritualità è trasferibile, condivisibile, assimilabile dagli altri senza limitazione. Paolo è un uomo unitario, omogeneo con se stesso, pur nelle discontinuità di umore e di situazioni. Non esiste un Paolo cristiano divisibile dal Paolo apostolo. Quanto insegna, lo vive a tutti i livelli: nel suo apostolato accolto con entusiasmo a Tessalonica, nelle tensioni verificatesi a Corinto che lo costringono addirittura a fuggire, nei pericoli affrontati con coraggio e fatica, come pure nell'attività silenziosa e «sommersa» dei lunghi tempi dedicati alla preghiera. Vive simultaneamente la sua dimensione umana, cristiana e apostolica. Per questo i valori di cui si fa portatore possono essere fatti propri da tutti, senza la necessità di traduzione o di adattamenti sostanziali. Si presenta validamente come un modello universale: una sua esperienza appare subito significativa e proponibile anche agli altri. In definitiva, la pressione di amore che lo porta a evangelizzare lo spinge verso la condivisione dei suoi valori, condivisione resa possibile in senso pieno per il fatto che egli si sente ed è davvero in sintonia con qualunque altra esperienza.