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3.2.5/1 APPENDICE 5 3.2.5. INTERVISTE 441 Ezio Minelli, Conversando con Riccardo Zandonai, «Il Tirso» VIII/40, 15.10.1911 - p. 3, col. 2-3-4 C’è forse bisogno ch’io presenti Riccardo Zandonai, il simpatico operista trentino, ai cortesi lettori? Non lo credo. Riccardo Zandonai è ormai fra i giovani musicisti italiani uno dei più noti e dei più meritevoli di considerazione. Il Grillo del focolare, l’opera in cui egli si presentò or son pochi anni al giudizio del pubblico italiano, ebbe il più lieto successo, non solo fra noi ma anche all’estero; recentemente a Nizza essa veniva giudicata un piccolo capolavoro. E un piccolo capolavoro è davvero: quella musica sottile di pretta ispirazione italiana che come una linfa purissima scorre dal principio alla fine e vivifica tutte le pagine dello spartito, quella musica non poteva non estasiare l’anima del pubblico e non ridestare in esso le impressioni lasciate dai grandi capolavori dell’arte lirica moderna. Conversando ieri con Riccardo Zandonai gli rammentavo il successo di quella sua prima opera e m’accorgevo che tale ricordo gli tornava oltremodo gradito. -E perché – domando all’autore – questo primo saporitissimo frutto del vostro ingegno musicale non è stato ancora presentato al pubblico della città vostra, della vostra Trento simpatica e gentile? -È vero – mi risponde – il Grillo del focolare non è stato là ancora rappresentato; sembrava dovesse esserlo qualche tempo fa ma a causa di un complesso artistico un po’ scadente la Casa Ricordi non permise la rappresentazione. Quest’opera dello Zandonai ha già una vita assicurata: so che molti teatri d’Italia la metteranno in scena nella prossima stagione invernale e molto probabilmente nel futuro anno verrà rappresentata anche a Parigi. Mi congratulo col giovane autore per l’onore che gli vien fatto e gli domando intanto qualche notizia intorno a Conchita, la nuovissima opera che andrà in scena al nostro teatro Dal Verme. -Conchita – mi vien risposto – è un’opera di carattere tutt’affatto differente dal Grillo del focolare. Il realismo vi sovrabbonda; anzi, per essere più precisi, essa è tutto realismo, con una cornice però di grazia, di soavità. È tutto un profumo sottile di gentilezza squisita che s’innalza e si espande dal realismo dell’azione scenica. L’opera è in quattro atti e sei quadri ed è tolta dal romanzo di Pierre Louys [sic] “La femme et le Pantin” che Maurizio Vaucaire e Carlo Zangarini hanno adattato alla scena. L’azione si svolge in Ispagna. Conchita è una sigaraia addetta alla “fabbrica” di Siviglia. Un giorno rivede Mateo, suo antico protettore che una volta la difese dalle ire di una vecchia gitana e appena lo riconosce se ne innamora e acconsente a fuggire con lui. Ma poi accorgendosi ch’egli la tratta come una donna cui si paga l’amore, lo disprezza, fugge con la madre e si mette a fare la danzatrice prendendosi a compagno Morenito col quale si presenta nei palcoscenici. Mateo insegue la bella fanciulla e una sera, incontratala, la trae a sé. Conchita finge di riamarlo e si fa dare la chiave di una casetta silenziosa circondata da una foresta; là a mezzanotte ella aspetterà Mateo come un amante misterioso. Conchita infatti va a dimorare nella bella casetta in compagnia però del fido Morenito. Quando Mateo giunge e crede di poter entrare nel desiato nido e trascorrere con la bella creatura dolci ore d’amore, questa lo respinge e chiama Morenito, il suo amante e ambedue scompaiono allacciati in un abbraccio mentre Mateo, rantolando di dolore e di rabbia, cade a traverso la cancellata. Conchita finalmente si pente di aver così disprezzato l’uomo che tanto l’ha amata e tanto ha fatto per lei; va a ritrovarlo e gli chiede perdono, gli dice inoltre ch’ella è pura come una vergine, che la scena del cancello fu un’impostura, che non ha mai avuto amanti e che non ha adorato che lui, lui solo. E le due anime si uniscono in un amplesso pieno di dolcezza e di felicità.

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APPENDICE 5 3.2.5. INTERVISTE

441 Ezio Minelli, Conversando con Riccardo Zandonai, «Il Tirso» VIII/40, 15.10.1911 - p. 3, col. 2-3-4

C’è forse bisogno ch’io presenti Riccardo Zandonai, il simpatico operista trentino, ai cortesi lettori?

Non lo credo. Riccardo Zandonai è ormai fra i giovani musicisti italiani uno dei più noti e dei più meritevoli di considerazione. Il Grillo del focolare, l’opera in cui egli si presentò or son pochi anni al giudizio del pubblico italiano, ebbe il più lieto successo, non solo fra noi ma anche all’estero; recentemente a Nizza essa veniva giudicata un piccolo capolavoro.

E un piccolo capolavoro è davvero: quella musica sottile di pretta ispirazione italiana che come una linfa purissima scorre dal principio alla fine e vivifica tutte le pagine dello spartito, quella musica non poteva non estasiare l’anima del pubblico e non ridestare in esso le impressioni lasciate dai grandi capolavori dell’arte lirica moderna.

Conversando ieri con Riccardo Zandonai gli rammentavo il successo di quella sua prima opera e m’accorgevo che tale ricordo gli tornava oltremodo gradito.

-E perché – domando all’autore – questo primo saporitissimo frutto del vostro ingegno musicale non è stato ancora presentato al pubblico della città vostra, della vostra Trento simpatica e gentile?

-È vero – mi risponde – il Grillo del focolare non è stato là ancora rappresentato; sembrava dovesse esserlo qualche tempo fa ma a causa di un complesso artistico un po’ scadente la Casa Ricordi non permise la rappresentazione.

Quest’opera dello Zandonai ha già una vita assicurata: so che molti teatri d’Italia la metteranno in scena nella prossima stagione invernale e molto probabilmente nel futuro anno verrà rappresentata anche a Parigi.

Mi congratulo col giovane autore per l’onore che gli vien fatto e gli domando intanto qualche notizia intorno a Conchita, la nuovissima opera che andrà in scena al nostro teatro Dal Verme.

-Conchita – mi vien risposto – è un’opera di carattere tutt’affatto differente dal Grillo del focolare. Il realismo vi sovrabbonda; anzi, per essere più precisi, essa è tutto realismo, con una cornice però di grazia, di soavità. È tutto un profumo sottile di gentilezza squisita che s’innalza e si espande dal realismo dell’azione scenica.

L’opera è in quattro atti e sei quadri ed è tolta dal romanzo di Pierre Louys [sic] “La femme et le Pantin” che Maurizio Vaucaire e Carlo Zangarini hanno adattato alla scena.

L’azione si svolge in Ispagna. Conchita è una sigaraia addetta alla “fabbrica” di Siviglia. Un giorno rivede Mateo, suo antico protettore che una volta la difese dalle ire di una vecchia gitana e appena lo riconosce se ne innamora e acconsente a fuggire con lui. Ma poi accorgendosi ch’egli la tratta come una donna cui si paga l’amore, lo disprezza, fugge con la madre e si mette a fare la danzatrice prendendosi a compagno Morenito col quale si presenta nei palcoscenici. Mateo insegue la bella fanciulla e una sera, incontratala, la trae a sé. Conchita finge di riamarlo e si fa dare la chiave di una casetta silenziosa circondata da una foresta; là a mezzanotte ella aspetterà Mateo come un amante misterioso. Conchita infatti va a dimorare nella bella casetta in compagnia però del fido Morenito. Quando Mateo giunge e crede di poter entrare nel desiato nido e trascorrere con la bella creatura dolci ore d’amore, questa lo respinge e chiama Morenito, il suo amante e ambedue scompaiono allacciati in un abbraccio mentre Mateo, rantolando di dolore e di rabbia, cade a traverso la cancellata. Conchita finalmente si pente di aver così disprezzato l’uomo che tanto l’ha amata e tanto ha fatto per lei; va a ritrovarlo e gli chiede perdono, gli dice inoltre ch’ella è pura come una vergine, che la scena del cancello fu un’impostura, che non ha mai avuto amanti e che non ha adorato che lui, lui solo. E le due anime si uniscono in un amplesso pieno di dolcezza e di felicità.

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-M’auguro – soggiunge Zandonai – che non mi si vorrà accusare d’aver calcato le orme di Bizet per aver scelto un soggetto di colore spagnuolo; alcuni forse, specialmente quelli che usano giudicare un’opera d’arte molto superficialmente, non si periteranno di dire che Conchita è ispirata all’opera del celebre musicista francese. Ciò mi recherebbe invece il più intenso dolore, poiché in quest’opera, senza preoccuparmi del facile gusto del pubblico, ho avuto di mira un solo scopo: serbarmi originale e personale. Vi sarò riuscito?

Lo dirà il pubblico. Sono stato in Ispagna ed ho voluto attingere alle fonti vive della realtà per non cadere in errori e in falsità che avrebbero finito per nuocere all’opera mia; e con la visione di tutto quello che potei vedere e con tutte le impressioni che potei raccogliere nel bel suolo spagnuolo andai a ritirarmi nella mia amata Pesaro ch’è per me una seconda patria e mi accinsi alla musicazione del libretto con fervore e con speranza. Ed ora sono qui ad attendere il sereno giudizio del pubblico milanese che già altra volta fu con me incomparabilmente cortese.

Riccardo Zandonai mi parla poi degli interpreti della sua opera ed ha parole di vivo elogio per Tarquinia Tarquini.

-Essa – mi dice – è una Conchita veramente straordinaria. Già conoscevo il valore di questa cantante per averla udita a Trento nella Butterfly; nella mia opera la Tarquini ha superato sé stessa e di ciò le sono in sommo grado riconoscente. Mateo sarà il tenore Schiavazzi ed anche in questa parte non avrei potuto desiderare un interprete più efficace, più valoroso.

Altro vorrei chiedere a Riccardo Zandonai ma francamente della sua cortesia mi accorgo di avere troppo abusato: saluto quindi il giovane musicista ed auguro a lui che anche in questa battaglia della scena gli sorrida piena e incontrastata la gioia della vittoria.

442 La “Francesca” del maestro Zandonai, «La Tribuna», 14.11.1912 - p. 3, col. 6

Milano, 13. - Il maestro Zandonai, alla vigilia della première di Melenis, parlando con un redattore del Corriere della Sera a proposito della Francesca da Rimini che egli va componendo, ha detto:

-Il primo atto è finito, e subito dopo la rappresentazione di Melenis mi ritirerò in un paesetto fra i nativi monti del Trentino per completar quello che ho già pensato nel 2. e nel 3.

-L’opera sarà in cinque atti come la tragedia? -No, in quattro atti, perché il 4.o ed il 5.o saranno legati insieme da un breve intermezzo

musicale. -Musicherà il poema di D’Annunzio nella sua integrità? -No: appunto sorsero le difficoltà principali quando chiesi al poeta per me la tragedia.

D’Annunzio in massima acconsentiva, ma mentre era d’accordo sulla necessità di portare al poema molti tagli, avvertì prima che non avrebbe modificato un solo verso. Chi si mise al lavoro fu Tito Ricordi che riuscì a sfrondare di ben 1200 versi il poema senza che per ciò avesse a soffrirne l’azione e di questo parere fu lo stesso D’Annunzio quando il Ricordi gli presentò a Parigi la sua riduzione; tanto che egli vuole che il nuovo libretto porti assieme al suo nome quello di Tito Ricordi.

-Quanto conta, maestro, di aver finito l’opera? -Non saprei dirlo con precisione, ma spero per l’anno prossimo. Dal Zandonai, che è un lavoratore fenomenale, un siffatto tour de force non ci meraviglia

affatto...

443 Franco Raineri, L’opera nuova di Zandonai: “La via della Finestra” - Conversando con l’autore di “Conchita” e di “Francesca”, «Il Giornale d’Italia», 28.2.1915 - p. 3, col. 3-4-5

-E così, Maestro, il “virginia” non tira, tanto per fare una cosa nuova!

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-Tirerà, non dubitare – afferma Zandonai con l’abituale tranquilla pacatezza. – Tutto deve andar bene su questa terra, perfino il sigaro: basta saper volere, con tenacia e con fede. Vedi queste mie Impressioni sinfoniche1? Io non so se e quanto al pubblico piaceranno; ma intanto ormai con poche prove questa vostra meravigliosa orchestra romana me le ha talmente capite e gustate che io, come autore, non potrei desiderar di meglio.

-E come direttore? -Ah, come direttore non posso giudicarmi: sono un po’ fuor del mio mestiere. Però me la cavo,

in fondo, senza grave impaccio: ricordi a Pesaro? Poi, del resto, se ammazzo qualche cosa, si tratta di roba mia: parricidio che diventa in tal caso meritevole delle attenuanti...

-Son cinque, vero, queste tue Impressioni? -Cinque. Ed esauriscono, nel mio concetto, il quadro della primavera che ho voluto affrontare.

Adesso però sono tentato da un più vasto disegno... -Allora è segno che lo attuerai. Zandonai non parla invano: tutto quel che dice, fa. Almeno sino

ad oggi... -E se mi guastassi col crescere?... Dicevo che ho una certa intenzione di allargare lo sguardo nel

tempo e di tradurre in musica le mie impressioni dell’estate, dell’autunno, dell’inverno, dopo quelle della primavera. Le quattro stagioni insomma...

-Come Haydn... -Be’, non facciamo paragoni! Ma t’immagini che tentazione per un artista, montanaro per giunta,

esprimere la fragorosa e tremenda imponenza della valanga? Oppure il silenzio del ghiacciaio? -Musicare il silenzio? -Ma certamente: il silenzio del ghiacciaio è fatto di poesia profonda e penetrante, e la poesia è

musica... -E l’opera nuova? -L’opera non verrà tanto presto, sta tranquillo. Che gusto affrettarsi, quando l’unico teatro che

oggi interessa il pubblico è quello della guerra? -Così che? -Così che si lavora ma con serenità e con calma: rappresenteremo La via della finestra dopo la

guerra. -Una commedia musicale, vero? -Sì: commedia musicale, opera semiseria, opera comica addirittura... La chiamerete un po’ come

vorrete, dopo averla vista e sentita. Ti posso dire, frattanto, solo questo: che ho inteso proseguire, ne La via della finestra, le forme dei nostri classici italiani, avvivandole col gusto moderno. Il soggetto stesso del resto dimostra, a me pare, le mie intenzioni, dal momento che l’ho scelto io. Figurati che anche per quel che riguarda l’orchestra, desidero fare una partitura per la quale non occorrano più di una quarantina di professori. E poi, come volevano e facevano i nostri vecchi, i veri maestri di giocondità a teatro, ha da essere un’opera di canto.

Siamo in Italia, e propriamente in Toscana. Epoca: non importa precisarla. Mettiamo a un dipresso il 1830. La scena è in campagna, in una villa ch’è limitrofa ad altri ameni poderi, dove soggiornano ricche e nobili famiglie. Pensa che i miei due protagonisti, lui e lei, sono assai giovani e, non certo per merito mio, sono due bei ragazzi, ben provvisti a denari ed a salute. Per completare il quadro, aggiungeremo che hanno sposato da un paio di mesi e che trascorrono in villa – la villa, bada, è di proprietà di lui – la loro luna di miele. Tu stai dicendo fra te e te: ecco due persone veramente felici... Aspetta, e non ti fidare.

-Non mi muovo. -Siamo sul punto nel quale arriva dalla città, per trattenersi alcuni giorni a respirar quest’aura di

delizie, uno zio dello sposo, vecchio gentiluomo pieno di arguzia e di esperienza mondana. Egli si incontra con la fattoressa, scaltra e bonaria donna, affezionatissima al suo padrone, e poiché la conversazione gli sembra piacevole, pensa che sia interessante saper da lei qual vita si conduca nella casa e qual contegno convenga di tenere; tanto più che presso gli sposi abita anche la vecchia marchesa, madre di “lei”...

1 Sta parlando di Primavera in Val di Sole, che presenterà in prima esecuzione il 28 febbraio con i complessi dell'Augusteum - cfr. Quaderni zandonaiani 1 (1987), pp. 57-65.

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-Ecco la commedia: vedo una suocera... -... E questa marchesa è una antica conoscenza dello zio, una conoscenza della quale il ricordo

non è troppo gradito, perché l’incontro dei due vecchi, quando erano... giovani, costituì per lui un fiasco: e lo zio di fiaschi ne ricorda ben pochi! Dunque, chiacchierando con la fattoressa, il nostro vieux marcheur viene a cogliere una circostanza di fatto che gli sembra stranissima: la fattoressa reca un biglietto della sposina allo sposo. Un biglietto, capisci? “Ma perché si scrivono, i ragazzi?” chiede lui. “Oh bella! Perché non si parlano: abitano distanti” risponde lei. “Distanti? Dopo due mesi di matrimonio?” “Ma sì. Voi non sapete che diavolerio è successo. Poveretti, non vanno d’accordo. C’è stato fin anche un tentativo di suicidio”. Apriti cielo! Immagina il vecchio che contava di riscaldare al fuoco d’amore dei suoi nipotini le ceneri delle sue memorie preferite!

-Ma insomma mi sembra una tragedia! -Senti. Sopraggiunge lo sposo e nelle braccia dello zio, ormai deciso a metter bene in chiaro le

cose, narra il... fattaccio. In breve: sua moglie e lui vivevano in felicità perfetta nei primi giorni, se non che una certa capricciosa fierezza di lei, una certa fastidiosa ed insistente contraddittorietà, alimentate dalle mene della marchesa, eran venute a poco a poco a turbar il sereno e s’eran avute le prime schermaglie. Lui voleva andar a fare una visita, e lei no; lui accettava un invito per una caccia a cavallo, e lei non voleva accompagnarlo, eccetera, eccetera. Finalmente un brutto giorno si produsse la scena terribile. Litigavano: lui, deciso a non farsi soverchiare, alzava la voce; lei piangeva, disperata di non poter vincere. Ad un certo punto, dopo aver invano sfidato suo marito avvertendolo che se non avesse ceduto ella avrebbe fatta qualche sciocchezza, la sciocchezza la fece sul serio e, corsa sul balconcino, la sposina si buttò di sotto.

-Che orrore! Dunque il soprano è bell’e morto? -Macché. Ventura volle che sotto la finestra stesse fermo un gran carro di fieno, di modo che la

sposina non si fece alcun male ed anzi si rialzò tutta fragrante di profumo di prato. Capirai però che dopo una faccenda simile, dato il caratterino di lei, i rapporti fra gli sposi non si rimediavano facilmente: e infatti s’era subito proceduto alla separazione “di mensa e di toro” [sic]. “E adesso?” chiede lo zio, perplesso. “Adesso io non vivo più e penso d’ammazzarmi.” - “Senza carro di fieno?” - “Senza”. - “Ma sei sicuro che tua moglie quando s’è buttata dalla finestra non sapesse che sotto c’era il carro provvidenziale.” - “Zio, ti pare!” - “Eh, caro mio, le donne le conosco meglio di te!” - “Allora dammi un consiglio: mia moglie, per fare pace, vuole che vada in forma ufficiale a chiederle perdono.” - “Non ci mancherebbe altro! È la marchesa che glie l’ha suggerito: la conosco io, quella!” - “Ma io non posso vivere senza di lei!” - “T’ha scritto, lei, per darti il suo ultimatum? Ebbene, tu scrivile il tuo: faremo la pace quando ritornerai a me per la via donde sei uscita.” - “Per la finestra?” - “Sissignori.”

-Terribile, il vecchio! -Non fare commenti, per ora almeno. Per essere breve, ti dirò che il giovane, fidandosi un po’ a

malincuore della esperienza di suo zio, accetta di proporre lo strano ultimatum, e lo scrive. Frattanto, la casa continua ad essere sottosopra: tutto subisce l’influsso del temporale scoppiato fra i due padroncini. Dovrebbe aver luogo una festa per le nozze d’argento dei fattori, ma è stata rinviata. Ebbene, lo zio ottiene che il nipote ordini daccapo la festa, e vada alla caccia a cavallo, e vada a far le visite progettate. Nel medesimo tempo lui si trattiene volentieri presso la marchesa e sua figlia, disperate di rabbia e di dolore, per convincerle che realmente lo sposo, suo nipote, ha tutti i torti ed è anzi un pessimo uomo, caparbio insolente cattivo. Poi, quando ha condotto le cose al punto che la marchesa giura non si accomoderanno mai più, scende in cerca della fattoressa e combina con lei il piano. La brava donna deve usare tutte le sue buone arti di persuasione per decidere la ragazza a riconquistarsi il marito. “Vedete, dice, com’io son felice ancora, oggi dopo venticinque anni da che ho sposato il fattore? Dopo tutto che cosa vi chiede vostro marito, in cambio di quel po’ di scene che gli avete fatto?” - “Che io salga per la finestra, figuratevi!” - “Ma con la scala o senza?” - “Oh bella! con la scala, credo bene!” - “E allora? Pensate che io per riaver mio marito, se lo avessi perduto, salirei anche senza scala!”.

-Brava fattoressa! -Il fascino dei canti nuziali, che sorgono nel vespro per celebrare la rinnovata felicità dei fattori,

le buone e sagge parole della donna, l’amore infine che non è spento ma anzi riarde tra la battaglia

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dei capricci, compiono il miracolo. E al terzo atto, in una situazione scenica che mi sembra originale ed indovinata, vediamo la sposina sospinta dalla fattoressa, arrampicarsi fino al balconcino, piangendo e ridendo insieme, mentre lo sposo, pentito della sua fierezza e incredulo di tanta felicità, è a malapena trattenuto dallo zio, il quale non vuole che un gesto di pietà interrompa l’espiazione. Credi a me: questa è una scena gustosa e, o io mi sbaglio, piena di novità e di poesia.

-E la commedia finisce con un abbraccio? -Un tenerissimo abbraccio, mentre il vecchio zio, che con un pretesto ha fatto sopraggiungere la

marchesa, gode di poterle dire, con perfetta galanteria: “Ricordate, tant’anni fa? Mi scacciaste. Ebbene, guardate: questa è la mia vendetta!...”

-E la musica, com’è? -La musica verrà: non ho scritto (te lo dico in confidenza) quasi niente, ma non importa. La

sento già. Quando sarà il momento giusto, in sei mesi ed anche meno saremo a posto. -Vie nuove, dunque? -Credo di fare un’opera... meritoria preparando al pubblico, per dopo la guerra, una cosa tenue

ed allegra. Ci sarà tanto bisogno d’allegria, allora! Poi, magari...

444 Silvius, Un colloquio con Riccardo Zandonai, «L’idea nazionale», 10.3.1918 (con una fotografia di Zandonai)

Malgrado la fama raggiunta, Riccardo Zandonai è rimasto un giovane pieno di modestia. Non si è dato e non si dà arie di superiorità, non ha pose ed accoglie chi lo va a trovare con una cordialità così semplice, con una cortesia così squisita che si è presi subito da una vivissima simpatia per l’illustre autore della «Francesca».

Ha conservato le sue abitudini di buon figliuolo e di ardente patriota trentino pensando sempre alla sua e nostra terra ed alla sua casa di Sacco nei pressi di Rovereto, dove è nato e dove sono le sue memorie più care, i suoi sogni più nostalgici.

Siamo andati ieri a trovarlo al suo albergo dopo la fatica delle prove all’“Augusteo” per il concerto che dirigerà domani2, ed acconsentì molto volentieri ad un colloquio da riferire ai nostri lettori.

Zandonai è un musicista nato? No, lo dice egli stesso. Cominciò a studiare il violino a sette anni nella nativa Sacco. Poi frequentò il ginnasio di

Rovereto dove una bocciatura in latino lo fece mutar strada, o forse gli fece prendere quella via alla quale era destinato. Così a dodici anni andò alla “Scuola musicale” di Rovereto, dove ebbe le prime lezioni dal maestro Gian Ferrari [sic]. Ed anche i primi e buoni consigli. Difatti, terminati gli studi a Rovereto, per consiglio del Ferrari si recò nel ’98 al “Liceo musicale” di Pesaro che allora era diretto da Pietro Mascagni. A Pesaro in tre anni compì egregiamente i nove corsi di composizione e così si chiude, diciamo così, il primo periodo della sua vita di musicista: il periodo dello studio e della preparazione che poi lo doveva portare sulla via non facile della notorietà.

Da Pesaro si recò a Milano dove un giorno si presentò all’editore Ricordi con alcune composizioni. Piacquero; ma non erano sufficienti per affermarsi e per farsi largo nell’arringo musicale dove tanti sono gli arrivati ed i concorrenti.

La visita a Ricordi indusse Riccardo Zandonai a dedicarsi intensamente al lavoro e così venne alla luce la sua prima opera, «Il grillo del focolare», che fu data a Torino per l’inaugurazione del Teatro Chiarella – se non erriamo nel 1908.

Il primo passo vittorioso era fatto. Si trattava di continuare. E Zandonai compose «Conchita» che si diede al Dal Verme di Milano. Un anno dopo «Melenis» ed infine «Francesca da Rimini» di cui tutti ricordano il successo grandissimo e che mise il compositore trentino in prima linea fra i musicisti moderni.

2 Sulle recensioni della stampa del concerto del 10 marzo, cfr. Quaderni zandonaiani 1 (1987), pp. 70-5).

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-Che cosa ha fatto, maestro, dopo la «Francesca»? -Ho finita e pronta «La via della finestra», una commedia musicale che Giuseppe Adami trasse

dallo Scribe. Ho tentato di fare un lavoro che, pur mantenendosi nelle linee della nostra gloriosa opera comica, avesse contenuto e procedimenti moderni.

-E perché non la fa rappresentare? -Perché il lavoro ha una trama musicale tenue, con scene comiche, gioconde ed avrebbe bisogno

dell’attenzione calma e serena del pubblico, il quale è invece oggidì nervoso e preoccupato da ben altre cure e pensieri. Si rappresenterà dopo la guerra.

Noi francamente non siamo dell’avviso che la guerra abbia per conseguenza di interrompere il libero svolgimento artistico della nazione e perciò speriamo che «La via della finestra» vedrà presto la luce della ribalta. Non si è dato durante la guerra «Lodoletta», «La rondine»? E non si daranno presto al Costanzi i tre nuovissimi lavori in un atto di Puccini?

Prima di congedarci dal maestro illustre gli domandiamo qualche notizia sul concerto di domani. «La patria lontana» [sic] è una “suite” in quattro tempi che hanno anche i loro titoli: «Canti

nostalgici», «Colloqui rusticani», «Vespro sul monte» e «Mattino di caccia». È un lavoro che trae l’ispirazione dalla vita passata dal maestro nel Trentino. I quattro tempi sono dei piccoli quadri di ambiente in cui è soffuso del “folklore” trentino. Osservò sorridendo il maestro: adesso c’è la tendenza nella musica di andare verso la pittura...

Inoltre domani sarà eseguito del Rossini in gran parte inedito: “La sinfonia del viaggio a Reims” che è pochissimo conosciuta e che deve essere del periodo del «Barbiere», e poi «Il canto dei titani», l’ultimo lavoro del Rossini. È un lavoro nobile, serio, per coro di bassi con accompagnamento di orchestra.

Infine possiamo dire che Riccardo Zandonai ha promesso ad Arrigo Serrato [sic] di scrivergli una “Sonata” per violino3. Altri lavori? Per il momento niente. Sta cercando un soggetto e sarà felice se un poeta gli darà un lavoro in cui la sua fantasia possa liberamente espandersi e cantare come nella “Francesca da Rimini”.

445 Raffaello de Rensis, Conversando con Riccardo Zandonai - In attesa de “La via della finestra”, «Il Messaggero», 31.1.1920 - p. 2, col. 5

Abbiamo avuto la fortuna, ieri mattina, d’incontrarci per via Nazionale col maestro Riccardo Zandonai, mentre si dirigeva verso il Costanzi. Era arrivato da poco con un treno – come egli ci raccontava – accolto alla stazione da una salva di fischi, perché giunto, da buon treno... crumiro, prima della fine dello sciopero.

-Questi fischi, maestro, non erano indirizzati a voi. Ne foste convinto fin dal primo istante. Questi fischi si trasformeranno in calorosi applausi a La via della finestra lunedì sera.

-Me lo auguro sinceramente, se non altro per la generosa intenzione di allietare lo spirito e l’animo degli ascoltatori, che dopo tante stragi e tanti lutti sentiranno pure il bisogno di sorridere un po’.

-Sicché la vostra opera comica è stata generata da una urgente reazione. -No, amico mio. La via della finestra è stata da me composta subito dopo la Francesca, fin dal

1914, ed all’unico scopo di tentare un genere ingiustamente abbandonato dai musicisti moderni. Né comprendo perché noi giovani autori non seguiamo le orme dei nostri gloriosi predecessori che chiedevano alla loro musa, indifferentemente, direi alternatamente, lagrime e sorrisi, dolore e gioia insieme.

-Forse perché più ardua l’impresa di scrivere una commedia ora che la tecnica s’è così appesantita di sonagli da non lasciar più muovere agilmente, fluidamente l’ispirazione.

-Può darsi. Infatti io ho scritto la mia operina per immergermi in un bagno d’acqua limpida, per alleggerirmi di tutto il bagaglio impostomi dal quasi esagerato progresso culturale e tecnico della

3 Il pezzo per Serato sarà poi il Concerto romantico.

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scienza musicale, per riposare e godere tra gli ondeggiamenti morbidi, semplici, ingenui della melodia nostrana. Vorrei che voi, per mezzo del diffusissimo Messaggero, avvertiste il pubblico, che lunedì sera verrà a giudicarmi, che la mia Via della finestra è una piccola commedia senza pretensione, è un tentativo sincero per richiamare in vita, s’intende trasformata ed adattata alle esigenze moderne, una forma d’arte teatrale che fu già nostra gloria e che tanta somma di gioia può recare ai nostri animi travolti dalle non liete vicende attuali.

-Del resto voi, maestro, non siete del tutto nuovo allo stile leggero e brioso e la vostra prima opera, Il Grillo del Focolare, se non è precisamente una commedia musicale, a questa molto si avvicina.

-Verissimo; e vi confesso che sentivo, da tempo, come un’interna nostalgia verso un qualunque soggetto che mi avesse, per un momento, allontanato da azioni tragiche e sanguinose. Questo soggetto me lo ha offerto il poeta Giuseppe Adami, che a sua volta lo ha tratto, almeno nel suo nucleo principale, dal noto vaudeville di Scribe: La femme qui se jette par la fenêtre. Al pubblico di Pesaro è piaciuta la mia commedia sia nei rapporti del libretto che della musica, ed è stata ripetuta una dozzina di volte con crescente successo. Ma io attendo l’autorevole verdetto definitivo di Roma, ch’è città a me prediletta e che è l’ardente aspirazione, il sogno dorato di tutti gli artisti.

[-]Ho poi una gran fiducia nella esecuzione, alla quale prendono parte le tre donne, Juanita Caracciolo, Elvira Casazza e Maria Avezza, che già contribuirono, con la loro intelligente interpretazione, al successo di Pesaro, e della quale è amorevole, sapiente e sagace concertatore e direttore lo stesso maestro Vitale che condusse la mia opera al fortunato battesimo pesarese.

-... e che la condurrà alla solenne consacrazione romana, aggiunsi io. Intanto ci avvicinavamo a via Torino ed io non volevo salutare il maestro senza avergli carpito

qualche segreto. -Dite un po’, maestro, non lascerete La via della finestra senza una compagna, non

abbandonerete la via della giocondità per imboccare nuovamente i foschi e tortuosi laberinti della tragedia?

-Ecco, vi dirò – mi rispose Zandonai senza misteri – non ho alcuna intenzione di piantar in asso un genere che ritengo di sicuro avvenire, ma per il momento mi affascina un soggetto tutto italiano, che dà sostanza ad una tragedia immortale di immortale poeta e che non è stato affrontato da nessun musicista nostro4. Lo penso e lo accarezzo da qualche anno, ma occorre superare ancora qualche difficoltà. Occorre che il poeta incaricato della riduzione a testo per musica faccia un’opera degna e tale da rispondere ad alcuni miei particolari intendimenti.

-Per quanto mi sforzi, caro maestro, non riesco a indovinare. -Ve lo dico senz’altro. Si tratta della meravigliosa istoria di Giulietta e Romeo, che nella visione

musicale di Gounod a me sembra non s’elevi alla altezza poetica dell’episodio. -Un musicista nostro, se ben ricordo, ha tentato accostarsi alla patetica avventura... -Già, il buon Marchetti, ma... A questo punto ci trovammo di fronte alla piccola porta di servizio del Costanzi, ove s’accalcava

una folla di professori d’orchestra, coristi, artisti e curiosi, in attesa di entrare per la prova di mezzogiorno. Compresi che bisognava interrompere il gradito colloquio. Chiesi al maestro quanto tempo intendesse permanere a Roma.

-Non a lungo, e in questi pochi giorni lavorerò intorno al mio Concerto romantico per violino e orchestra che Arrigo Serato, al quale l’ho dedicato, dovrà eseguire in aprile all’Augusteo5. Indi mi recherò a Venezia per mettere in iscena la Francesca.

Il colloquio fu qui bruscamente troncato dal maestro Vitale, dal Pick-Mangiagalli e da altri, che, appena scorto l’attesissimo Zandonai, lo circondarono affettuosamente e scomparvero con lui entro il teatro.

446

4 Non si comprende la natura di questo riferimento fatto da Zandonai, che peraltro sarà smentito nelle righe successive. 5 Il Concerto romantico sarà invece eseguito solo il 30 gennaio 1921 da Remy Principe.

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Raimondo Collino-Pansa, Dov’è nata la “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «Noi e il mondo» XII/1, gennaio 1922 - pp. 55-8 - con le seguenti fotografie: -p. 55: “Dove vive e lavora Riccardo Zandonai” (veduta di Sacco); Ritratto di Zandonai; -p. 56: “Zandonai e... un artista” (in compagnia di uno dei suoi cani); “Il maestro a Rovereto”; “Rovereto, l’italianissima, patria di Zandonai” (veduta panoramica); -p. 57: “Rovereto - Un angolo ridente ed eroico” (i bastioni del castello); -p. 58: “Pass6 punta le beccacce”; riproduzione di un frammento di manoscritto autografo dell’opera («Salir come un rosaio a primavera»)

............................ e l’era tanto el ben che i se volea che no gh’è omo, no gh’è pianta o fior no gh’è mar, no gh’è Adese che va in çerca de paesi e de çità, che possa dirlo!......... .............................

Così Berto Barbarani canta Verona e dice di Giulietta e del so’ Romeo. E drio all’Àdese che va

mi pongo anch’io. Mi pongo anch’io, non in cerca di Verona Scaligera, ma di Giulietta e Romeo in persona e di

Rovereto italiana. Perché in Rovereto italiana rincantucciato in qualche angolino pittoresco vive Riccardo Zandonai dando anima alle due lontane figure di amanti che per virtù sua verranno dinanzi a noi senza atteggiamenti schekeasperiani [sic] ma vivi nel loro gentil sangue latino.

Dinanzi a noi, o meglio, dinanzi al pubblico del Costanzi, nel prossimo febbraio. L’auto fila. Il paesaggio non ha mollezza di clivi veronesi. È aspro. Anche l’Adige saldamente

incanalato nelle sapienti dighe dà al paesaggio un non so che di ferreo e di militaresco. A lasciar sbrigliar la fantasia vien voglia di dire che è un fiume che marcia per quattro come un

battaglione alpino. Sì, questo è l’Adese dei foschi tempi quando Giulietta e Romeo vivevano, e quando

i se spetava per saltarse adosso, pronti alla spada, ma al cortel più pronti pur che se veda còrar sangue rosso, pur che se senta tombolar da i ponti qualche morto ne l’Àdese, che va in çerca de paesi e de çità..........

***

Ma cerchiamo di Zandonai. Ecco Rovereto che sorride italianamente coi palmizi dei suoi

giardini pubblici, e piange dalle ferite di cui è ancora crivellata sebbene lentamente risani. Villa Zandonai? -A Borgo Sacco. Ecco Borgo Sacco. Fabbriconi, stabilimenti, vie strette, poi, all’improvviso, una piazza solitaria,

un orto di canonica, una vite che rosseggia... anche il paesaggio pare che... zandoneggi. Ma niente villa. Saliamo la scala d’una modesta casa di paese. Qualche vaso di quei gerani che

fiammeggiano solo fra i cocci delle finestre popolane. Un biglietto da visita dice su una piccola porta: “Riccardo Zandonai”.

Lo studio di Riccardo Zandonai è di un’eleganza raccolta che fascia l’anima di dolcezza. Un piano a coda è presso la finestra che guarda sulla quiete dell’orto. Spicca sul rosso antico di un damasco un’acqua-forte del Conconi: “l’Arco di Tito” buttata dagli austriaci in cantina e che ora

6 [sic]: ma Pax.

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mostra i segni del peccaminoso contatto colle botti di vino. Su per le pareti, pregevoli acqueforti di Zara (dono di artisti triestini), la maschera di Beethoven, l’effige di Litz [sic] e di Wagner. Un violino, opera d’un liutaio roveretano, pende dallo scaffale. Su di un leggìo è la partitura della Primavera in Val di Sole.

Sul tavolo un fascio di crisantemi, di quei crisantemi semplici dalla corollina rotonda come fiorivano negli orti dei nostri nonni, e come fortunatamente pare crescano ancora negli orti di Borgo Sacco. Hanno il tono rame, oro, rossigno dei boschi autunnali illuminati dal sole. Averne un fascio è come rievocare un tratto di faggeta goduta nel sole.

Finalmente il maestro giunge... dal regno dei sogni. La nostra intempestiva visita l’ha svegliato: dormiva. Riccardo Zandonai si sveglia verso le 16. Lavora tutta la serata, parte della notte, e si alza di buon mattino. Poi a mattinata inoltrata riprende il riposo.

-Dunque, maestro, è contento della sua fatica? Il maestro è lietissimo e racconta volentieri. Da anni pensava alla Giulietta, ma mancava il

librettista. Poi un bel giorno s’imbatté in Arturo Rossato, che, liberatosi dalle pastoie giornalistiche, si librava verso più spirabili aere.

-Rossato ed io lavoravamo – dice il maestro – ad un soggetto nordico. Rossato era già avanti nella sua opera quando fummo avvertiti che il lavoro era già impegnato e non se ne poteva trarre un libretto d’opera italiana.

[-]Così abbandonai i cieli nordici e ritornai col cuore ai miei colli veneti. Così è nata Giulietta e Romeo.

-È da un pezzo che vi lavora? -Dal maggio. Fu iniziata a Pesaro. Son luoghi quelli..., come questi del resto, ove si lavora per

idrofobia; badi, non fraintenda, luoghi solitari ove l’animo ama raccogliersi per accogliere il sogno. -In quanti atti la Giulietta? -In tre. -E la première? -Al Costanzi, in febbraio. Incalzo il maestro con una fuga di domande, ma sui particolari della nuova opera Zandonai non

vuole sbottonarsi: offre una sigaretta, dona un aneddoto, vi assale a sua volta con una domanda. Insomma si difende: e bisogna convenirne, molto bene.

La colpa (gli assenti hanno sempre torto) pare sia di Rossato. È lui che vuole mantenere il segreto. Tuttavia, questo mi dice il maestro, nella Giulietta è accentuato proprio il carattere della musica zandonaiana. Ed è forse la più ricca di melodie di tutte le sue opere.

Il libretto nel suo genere è nuovissimo. Il dramma vi si snoda ben diversamente che non nel racconto sckesckesperiano [sic].

Rossato ha tratto le movenze del libretto dalla novellistica italiana. Ed ha sfrondato, sfrondato. Poi il maestro s’accinge a raccontare un punto saliente, il duetto dal balcone, l’immortale scena,

che avrà nel nuovo lavoro un ampio profumo di squisita gentilezza, quando avviene un colpo di scena.

Si spalanca una porta ed entrano correndo due snelle figurine d’artiste, seguìte da una piccola creatura esotica: sono Dot, Lolita, Pass7.

Tre (non faccio dell’ironia) autentiche cagnette, le predilette del maestro. Con disinvoltura da persone avvezze a stare in società saltano, (pardon) seggono sul divano accanto a noi. Ed incomincia la conversazione, o meglio parla per loro il maestro, perché Dot, Lolita, Pass sono artiste dell’arte muta... tacciono sulla scena.

Riccardo Zandonai ne tesse gli elogi. -Vede, son meravigliose da ferma. Questa la più piccola, un ispaner coccher [!], punta già alla

beccaccia, come Pass, vera celebrità in tutta la regione. E si parla di caccia. Zandonai è seguace di Nembrotte. Tutte le mattine se ne esce col fucile,

terrore, dice lui, dei tordi e di beccacce. Non ama la caccia per la caccia. Ama sostare nei silenzi montani dove il merlo zirlisce invisibile tra i pini che lascian filtrare il sole come attraverso una

7 Vedi nota 6.

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smisurata cortina di verde. Non accetta gli inviti alle battute nelle ricche riserve dei piccoli feudatari trentini che lo vorrebbero nelle partite di caccia.

-Non amo – egli risponde – cacciare nei pollai. E va solo pei greppi, ancor oggi come da fanciullo, quando marinava la scuola di latino tra la

costernazione del vecchio maestro tabaccoso. A quest’ultimo l’arte, il gran pubblico, tutti gli ammiratori di Zandonai dovrebbero essere

profondamente grati. Le sue disastrose bocciature furono quelle che decisero Riccardino (allora si chiamava così) a

dire recisamente al padre che rosa rosarum era buon pel prevosto, e non per lui. Naturalmente fu uno scandalo. Ma Zandonai raccontando l’aneddoto dice: -Ero un caratterino... E il caratterino la vinse, come più tardi l’ingegno di Riccardino, divenuto il

“Maestro”, su tutte le ostilità subdole e dichiarate, su tutte le difficoltà di cui è seminato lo spinoso cammino dell’arte.

Ma abbiamo divagato. Torniamo nello studio che ha anch’esso la sua piccola tragica storia e vide i comandi militari austriaci farvi gazzarra, sin quando lo squillo della nostra vittoria non li spedì, armi e bagagli, al di là del Brennero.

Quando Zandonai, riconducendo con infinita tenerezza i suoi vecchi alla nativa Rovereto, rientrò dopo gli anni fortunosi nella piccola casa paterna, tutto era scomparso.

Le poltrone ricoperte di cuoio erano rimaste colla sola imbottitura. Dei libri restavan gli scaffali, e neppur tutti.

-Per fortuna il pianoforte l’ho ritrovato – dice il maestro. [-]Vado in Municipio, lo scorgo fra cento e cento cose requisite, ricuperate, sequestrate. E l’ho

riconosciuto grazie a certe macchioline d’inchiostro che reca sui tasti. Le guardi. Son di quando componevo la Francesca. Quella fu la prova lampante.

E con atto di amore Zandonai si china sulla tastiera come per difenderla. Le sue mani pure accarezzano i tasti. E nel silenzio raccolto esce limpida, vigorosa, trionfale la musica della Giulietta e Romeo che risuona d’armi, ruggisce di passione, stornella d’amore e piange.

447 m[atteo] i[ncagliati], Conversando col M.° Zandonai - La nuova opera: “I Cavalieri di Ekebù”, «Il Giornale d’Italia», 8.2.1924 - p. 3, col. 3-4

Riccardo Zandonai è giunto oggi a Roma, accettando l’invito di assistere domani sera, venerdì, alla ripresa della sua Giulietta al “Costanzi”.

Giulietta e Francesca, senz’altro, sono i titoli semplificati, e ormai familiari al pubblico, delle sue maggiori opere; nelle quali le due eroine d’amore, così diverse fra loro, hanno finalmente trovata una tipica figurazione musicale dopo che in passato musicisti famosi, che sempre vi si cimentarono, non raggiunsero l’intento.

È d’uopo ripeterlo? Riccardo Zandonai – le cui tappe sono state lente ma sicure, ostacolate prima dall’incomprensione del grosso pubblico e poi forse dalla critica quando al pubblico si è decisamente accostato come in Giulietta – raccoglie ormai dalle mani di Mascagni e Puccini la fiaccola verdiana del successo in teatro e, inventando melodie e italianamente cantando come essi hanno fatto, sembra destinato a propagare nel gran pubblico dell’opera italiana il gusto e il godimento del sinfonismo moderno. Nel quale sinfonismo, fra parentesi, altri ingegni nostri, forti e cospicui, oggi producono senza però riuscire a prendere contatto con l’anima della folla, forse appunto perché, se pure inventano nella maniera loro, ben poco essi cantano.

A questa necessità della melodia cantabile – essenziale perché una musica sia largamente accettata e compresa in teatro – risponde genialmente la produzione di Zandonai ma soprattutto l’ultima sua opera Giulietta e Romeo.

-Si sbagliano forse, maestro – gli ho chiesto oggi durante una piacevole conversazione – coloro che affermano essere Giulietta la più "cantabile" delle vostre opere?

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Zandonai, che è un fumatore arrabbiato ed aspirava il fumo della ennesima sigaretta, non subodorò l’intervista né in questa mia prima domanda né in quelle successive, e si lasciò andare a rispondere scherzosamente:

-Perché mi volete denigrare le altre opere?... Ricordate quando apparve Francesca, sono quasi dieci anni?... “Non c’è melodia, non c’è canto... Zandonai è un abile strumentatore...”. I più benevoli mi qualificarono sinfonista. Ora tutti si sono accorti che in Francesca vi sono anche melodie da portare a casa dopo il teatro...

-Ma c’è voluto del tempo per riconoscerlo. Invece i motivi di Giulietta già si fischiettano in giro...

-La verità è che l’amore ingenuo, di un lirismo semplice e puro come quello di Giulietta e di Romeo, mi ha naturalmente, inconsapevolmente portato a spiegare liricamente il canto in disegni più chiari e rettilinei e senza bisogno di gravarlo col commento psicologico in orchestra; mentre l’amore intenso, pieno di tutto il sensualismo d’annunziano mi ha indotto in Francesca ad approfondirlo con la musica anche nei suoi sottintesi.

[-]È questione di soggetto e di libretto per chi come me sente, non tanto per proposito estetico quanto per istinto, la necessità di far aderire la musica al soggetto e di creare un carattere, un colore, un sentimento particolare per ogni mia opera. Chi conosce Conchita e paragona a Francesca, e quella a questa, a Giulietta o la Via della Finestra può riconoscerlo.

[-]Il soggetto di Giulietta e Romeo, tratto dalla novella cinquecentesca, era convenzionale in varie situazioni. Il mio librettista, Arturo Rossato, non poteva mutarle, come non poté nemmeno Shakespeare. Avrò avuto torto io a scegliere un simile soggetto per la scena moderna, ma una volta scelto – poiché mi ero invaghito appunto del carattere ingenuo nella passione dei due giovani amanti veronesi – è giusto ora riconoscere che Arturo Rossato, vera tempra di poeta oltreché espertissimo librettista, ha saputo creare anche per quelle situazioni convenzionali un contorno romantico di buona lega e tale un interesse vivo per lo spettatore moderno che, come l’esperienza di numerosi teatri va dimostrando, l’azione drammatica di Giulietta incatena il pubblico dal principio alla fine dello spettacolo.

[-]Di questo gran merito nel successo teatrale dell’opera – lasciando a ognuno la libertà dei giudizi estetici – io non intendo defraudare l’ingegno del mio fedele collaboratore.

-E del libretto della vostra nuova opera – I Cavalieri di Ekebù – potreste darmi una buona garanzia anticipata?

-Ecco: da me volete troppo come anticipo. Lasciatemi dire soltanto che sto facendo del mio meglio nel comporre la musica e che, non trascurando l’Arte con l’A maiuscola, spero di dare un’opera interessante, dirò anzi divertente, al teatro italiano. Lo spero, ma impegni in materia non assumono [?]: il teatro è terreno infido. Quanto al libretto, anch’esso ideato, e a mio giudizio bene ideato, da Arturo Rossato, abbiamo già una prima garanzia nel soggetto originale: il romanzo di Selma Lagerlöw [sic] – Gösta Berling – vincitore a suo tempo del premio Nobel. Interessantissimo. Tutti possono leggerlo non fosse che... per dir male poi, questo si sa, del libretto, del povero libretto, capro espiatorio del teatro lirico moderno.

-E a che punto è il lavoro di composizione? Quando sarà finito? -Sarebbe già terminato, se non fossi stato distolto da altri impegni. Ho dovuto fra l’altro, dal

dicembre a tutto gennaio, dirigere una buona dozzina di repliche di Giulietta al “Carlo Felice” di Genova. I genovesi fanno una passione per lei; ed ora per la stessa ragione devo recarmi al Teatro “Comunale” di Piacenza, al “Grande” di Brescia e al “Regio” di Torino, poi forse al “Bellini” di Catania”. Han tanto osteggiata, quando nacque, la mia Giulietta, che io mi spendo volentieri per lei, anche a danno della nuova opera.

[-]Ma i Cavalieri di Ekebù saranno pronti in quest’anno. I cavalieri sono una specie di bohémiens nordici, tipi di stravaganti avventurieri e di gaudenti, in mezzo ai quali spicca la figura centrale di Giosta Berling, o semplicemente Giosta. Il “Cavaliere dei Cavalieri”, giovane, bello, poeta, audace e perciò caro alle donne, con un passato un po’ dubbio: era pastore e predicatore sacro, ma lo avevano scacciato dalla remota parrocchia sperduta fra le nevi perché beveva troppo per trovare ogni dì nel bicchiere le ebbrezze della primavera. Lo salvò dal suicidio in quel momento tragico della sua giovinezza la Comandante, altra magnifica figura del romanzo e del libretto.

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Anche lei ha un passato un po’ dubbio di donna, ebbe la maledizione di sua madre, ma ora, nel suo castello di Ekebù, in mezzo alle operose ferriere cui ella comanda, raccoglie i maledetti della società e ne fa i suoi “Cavalieri” forse per redimerli, certo per dar loro ogni sorta di gioia e di piaceri. In questo ambiente singolarmente originale si svolge, tra episodi reali e fantastici – da cui emerge anche la figura di Sintram che si camuffa spesso da diavolo e come tale agisce in mezzo ai cavalieri spesso ubbriachi creduloni – , si svolge, dico, l’appassionata vicenda d’amore di Anna, ingenua fanciulla, che è respinta dalla onesta casa paterna perché invaghitasi perdutamente di Giosta.

[-]Ho già musicato tre dei quattro atti dei Cavalieri di Ekebù. Il terzo atto è diviso in due quadri. Tra l’estate e l’autunno avrò composto l’ultimo atto e compiuto l’orchestrazione; e per la ventura stagione lirica di Carnevale l’opera sarà pronta per la scena.

-Dove la prima rappresentazione? è vero che avrà luogo alla “Scala”? -Questo non mi risulta. Dovrei anzi ritenere che io con la mia musica non sia troppo in odore di

santità presso quell’ambiente estetico. Ma il tempo è galantuomo ed io non manco di fede nemmeno in me stesso. Frattanto batto come posso la mia strada, anzi, quando posso, mi batto da me le mie opere – le quali, a quanto pare, sono richieste da tutti gli altri teatri d’Italia...

-... E anche fuori – io soggiunsi subito, per ringraziare con un sincero complimento Riccardo Zandonai... di quanto non mi aveva taciuto... - E arrivederci domani sera al “Costanzi”.

448 Alberto Gasco, “I Cavalieri di Ekebù” di Zandonai. Il folklore scandinavo - Modernismo e sincerità, «La Tribuna», 10.2.1924 (con la riproduzione di un passo dell’opera: «Vecchia terra d’Ekebù», e autografo di Zandonai)

Riccardo Zandonai si trova in un periodo di attività spasmodica. Corre da un teatro all’altro per dirigere la sua Giulietta e Romeo, raccoglie applausi clamorosi, fa incetta di corone d’alloro (ormai per i suoi poveri colleghi non ne restano quasi più), si fa riverire, accarezzare, adulare, ottiene doni di valore... A Genova gli hanno regalato, in occasione della sua serata d’onore, anche un cane: sissignori, un magnifico "Setter" con il pelo lungo un palmo. L’amabile quadrupede gli è stato offerto coram populo, cioè alla ribalta, nel momento dell’apoteosi. Non è a dirsi quanto lo Zandonai – cacciatore alacre di starne e beccaccie – sia rimasto commosso per il singolare dono. Però gli artisti che circondavano il maestro, all’apparire del cane, si sono allontanati, per dimostrare di non avere nulla in comune con esso. Misura di prudenza e atto di elementare dignità...

Iersera, al “Costanzi”, il musicista insigne non ha ricevuto, dai suoi ammiratori romani, regali della specie. Nessuna bestia, domestica o feroce. Invece rose e garofani in copia e acclamazioni vibranti di fraterna tenerezza. Egli era giustamente felice per il successo di Giulietta e noi, vedendolo in favorevoli disposizioni di spirito, gli abbiamo chiesto qualche notizia sulla sua nuova opera I cavalieri d’Ekebù, attesa con eccezionale interesse.

-Il lavoro è a buon punto – ci ha detto lo Zandonai – poiché ho già scritto per intero i primi due atti e una parte del terzo.

-Di quante parti si compone l’opera? -Quattro atti e cinque quadri, ma non vi spaventate: l’opera durerà poco più della Giulietta e

qualcosa meno della Francesca. -Ma come mai ella ha pensato a questi Cavalieri o, per meglio dire, ha concepito l’idea di trarre

dalla famosa Leggenda di Gösta Berling gli elementi per un dramma lirico? Il romanzo di Selma Lagerlöf è mirabile, ma ha un carattere rapsodico e appare, più che altro, un aggregato di novelle che si intrecciano fantasiosamente. Ci sono molti personaggi che ogni tanto scompaiono, poi si ripresentano all’improvviso e infine dileguano nella nebbia, per sempre. L’umano e il sovrannaturale sono mescolati in un modo bizzarro. Per un librettista c’è da perdere il capo...

-Vi assicuro che Arturo Rossato non si è affatto smarrito nella selva fittissima. A gran colpi d’ascia egli ha abbattuto le piante inutili e ora si cammina rapidamente, senza bisogno del filo d’Arianna. Il suo libretto, a parer mio – e di quanti l’hanno letto – è un miracolo di snellezza.

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L’interesse non languisce mai e ciò che v’ha di essenziale nell’aureo libro della Lagerlöf è stato rispettato. Naturalmente, soltanto alcune delle deliziose figure disegnate dalla scrittrice svedese si ritrovano nel libretto del Rossato. Le altre sono state soppresse...

-Ahimè! -Era inevitabile. Resta la “Comandante di Ekebù”, la padrona della fucina, lavoratrice

infaticabile, fiera e generosa, che vien discacciata dal tetto coniugale dopo un’odiosa scena provocata dai “Cavalieri”, buontemponi, spregiudicati, amanti del vino e delle donne, nemici della quotidiana fatica; resta “Sintram”, lo spirito del male, strana personificazione del demonio delle leggende nordiche; c’è poi – bene inteso – Gösta Berling, l’eroe scavezzacollo, il prete spretato, l’idolo delle ragazze del Vermland, anima corrotta e pur capace di commoventi slanci affettivi.

-E di tutti gli intrighi amorosi di “Gösta”, quale è stato sceneggiato dal librettista? -Ecco: le varie innamorate di Gösta Berling sono fuse in una sola, in “Anna”, che ha un vigoroso

rilievo. Comunque la figura che campeggia nel dramma è quella della “Comandante”. L’opera incomincia appunto con l’episodio in cui costei raccoglie nella neve Gösta Berling ubbriaco d’acquavite e oppresso dai rimorsi e termina con la scena in cui ella, prossima a morte, vaticina un nuovo periodo di splendore per le fucine di Ekebù, cadute in rovina a causa delle tristi imprese dei “Cavalieri”.

-C’è un duetto d’amore di vaste proporzioni? -No. Ci sono varie scene amorose, ma nessuna ha l’importanza dei duetti della Francesca e della

Giulietta. Il Rossato ed io ci siamo sforzati di “fare esclusivamente del teatro”, rinunziando alle digressioni ed alle amplificazioni liriche. Nulla di ozioso. Per conto mio, ho evitato di scrivere preludi, intermezzi o perorazioni orchestrali ingombranti. Lo stretto necessario e nulla più. Mi sono imposto una dura disciplina per lasciare al dramma il primato.

-Però immagino che ella, maestro, avrà ornato la partitura dei suoi “Cavalieri” di qualche pagina descrittiva, valendosi di motivi popolari scandinavi...

-Ma che! Dopo di aver raccolto un cospicuo materiale folkloristico svedese e norvegese, ho dovuto rinunziare a valermene.

-E perché? -Perché i canti popolari della Scandinavia hanno caratteristiche debolissime e possono dirsi, più

che altro, una derivazione della musica popolare tedesca. A tal riguardo, vi dirò che il mio studio, lungo e accurato, ha servito – se non altro – a farmi valutare tutta l’importanza del Grieg. Quanti hanno creduto – e credono tuttora – che questo squisito musicista nordico sia stato, più che altro, un abile sfruttatore delle melodie colte sulle labbra dei contadini della Norvegia e delle arie di danza udite sulle rive dei fiordi meravigliosi! Invece è proprio il Grieg che ha dato al suo paese un nuovo schema di melodia popolaresca. Egli è, perciò, un inventore autentico e genialissimo. Oggi per noi la musica scandinava si identifica con quella di Grieg. E io stesso, per dare ad alcuni motivi dei Cavalieri d’Ekebù un sapore nordico, ho dovuto – bon gré, mal gré – accostarmi allo stile di quel musicista; se avessi riprodotto, tali e quali, i motivi popolari della Svezia o della Norvegia, avrei fallito il mio scopo: il pubblico li avrebbe trovati insignificanti e, sopra tutto, troppo... tedeschi.

-C’è qualche novità, nei suoi “Cavalieri”, rispetto alla partecipazione dell’orchestra al dramma? -Sì, nel senso che la strumentazione della mia nuova opera sarà molto più leggera che quella

della Francesca e della Giulietta. Mi sono convinto che bisogna fare... macchina indietro. I compositori moderni hanno avuto il torto di sguinzagliare gli strumenti dell’orchestra, come una torma di lupi, contro i cantanti. Il palcoscenico è stato preso d’assalto e i poveri artisti sono stati costretti a rovinarsi l’ugola per farsi sentire, fra i gridi laceranti delle trombe, i muggiti dei tromboni e il diabolico rullare dei timpani. Ascoltavo ieri la Salomè di Strauss e mi rendevo ben conto che, procedendo su quella via, il dramma musicale avrebbe corso il rischio di finire per... l’afonia dei cantanti! Infatti, lo Strauss, che è un artista pieno di genialità e di esperienza, ha retroceduto a poco a poco ed ora vuol addirittura tornare alla commedia mozartiana. So anche che Igor Strawinsky ha scritto una partitura teatrale per soli dodici strumenti. Si sente dunque il bisogno di ricondurre l’orchestra al suo primitivo ufficio, impedendole di usurpare più oltre i diritti dei cantanti.

-Dopo il barocchismo, l’Arcadia, con i pastorelli che zufolano... -E perché no? Sarebbe un po’ il riposo per i nostri nervi.

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-E quanto al tessuto armonico della sua opera, che cosa può dirci, maestro? Ha ella aderito definitivamente al modernismo?

-Per me non esiste modernismo o anti-modernismo. Si deve essere figli dei propri tempi, ma ciò non implica un’adesione a quel sistema di esasperazione armonica che alcuni hanno voluto adottare. Io penso che le armonie più complicate, più dissonanti, più crudeli, possano essere opportune ogni qual volta si tratti di rendere sensazioni eccezionali e momenti di spasimo tragico. Ma, quanto alle partiture orchestrali in cui, da cima a fondo, non v’ha un istante di tregua e ovunque cozzano fra loro, stridendo, accordi appartenenti a tonalità diverse, confesso che io non posso approvarle. Dove il sistema è chiaro e la premeditazione evidente, non può esservi sincerità né vera bellezza. Per taluni compositori italiani votati all’estremismo, c’è il pericolo di finire in un triste luogo... Sarebbe terribile che, un giorno, accanto alla “Casa di riposo dei musicisti” fondata dal grande Verdi, dovesse sorgere un “Manicomio per i giovani musicisti”!

-I freniatri sarebbero felici di poter allargare il campo delle proprie esperienze... -Non intendo però di essere un “soggetto” interessante per gli alienisti e perciò vi assicuro che i

Cavalieri di Ekebù nulla avranno in comune con il Pierrot lunaire di Schönberg... -Purché essi ci portino un corredo di melodie pittoresche e passionali, noi li accoglieremo come

amici venuti dalla Svezia per apprendere le dolcezze del canto italiano, sotto la guida di un musicista a noi particolarmente caro. Benvenuti dunque questi Cavalieri! Faremo loro un ricevimento di lusso. E quanto dovremo ancora aspettarli?

-Pochi mesi. Alla fine dell’anno l’opera mia sarà compiuta e pronta ad essere dilaniata da quei critici che hanno, sotto la zampa di velluto, artigli forti come quelli delle tigri del Bengala...

449 Augusto De Angelis, Stasera si dànno alla Scala “I Cavalieri di Ekebù” - Quel che dicono Zandonai, Rossato e Forzano, «Il Giornale d’Italia», 8.3.1925 - p. 7, col. 1-2-3 (con foto di Zandonai, Forzano, Crimi)

Milano, 7 marzo. Diego Angeli, qualche giorno addietro, parlando con competenza di critico, con passione di

scrittore, con simpatia di amico – di quale persona e personaggio, noto in ogni campo, non è amico Diego Angeli? – ha descritto con plasticità piena di colore il duro paese del Wärmland, nel quale Selma Lagerlöw [sic] è nata e dove si svolge l’azione del suo romanzo: La leggenda di Gösta Berling.

Ebbene, io ho intervistati Zandonai e Rossato proprio in quel duro paese, tra quei monti di ferro e quegli specchi di ghiaccio sul palcoscenico della Scala, alla prova generale della nuova opera.

Perché non vi è rimedio, quando su questo palcoscenico si ricostruisce un paese, lontano o vicino, sperduto nei monti o nei mari, oppure nei tempi, sia esso pure fantastico, ricco di fuochi e torrenti, le cose qui le fanno sul serio, e la ricostruzione è tanto mirabile che persino gli spettatori hanno freddo per i ghiacci, paura per le notti buie, e vampate di caldo alle fiamme. Figuratevi quindi a trovarcisi in mezzo, nel pericolo imminente di una martellata su di un piede o di una cantinella fra capo e collo.

Ma tutti quei cavalieri, ubriaconi e dissoluti, buontemponi virtuosi nelle arti del canto e del suono, prodighi e spenderecci coi denari di quell’ottima “Capitana” – un padrone delle Ferriere senza barba e con un frustante scudiscio in compenso – mi avevan dato coraggio. Poi venne Arturo Rossato a trarmi d’impaccio e il sorriso fanciullesco di Riccardo Zandonai a conquistarmi.

Il sorriso di Zandonai è interessante. Se il tempo e lo spazio non mi urgessero, farei la disamina psicologica di quel sorriso luminoso, in quel volto rettangolare, solcato da cento segni, tutti come sorretti dal profondo sguardo scintillante.

Ma non c’è modo di abbandonarsi a divagazioni fisiopsicologiche, tra i monti di pietra e ferro che circondano il castello di Ekebù o nella taverna rosso-verde, ricca di fiamme infernali, dove i cavalieri gozzovigliano, più moderni e avveniristi di ogni frequentatore del luogo di ritrovo artistico che Bragaglia conduce.

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Ma quel sorriso con cui Zandonai suol chiedere grazia ad ogni importuno fu il mio conforto e la mia perdita! Sorrise, mi conquistò e... non si fece intervistare.

-Dica lei quel che vuole! Inventi... -Potrei anche farlo, maestro, se la conoscessi... -E non mi conosce? Son tutto qui! -Vedo... ma non basta! Potrei dare ai miei lettori uno Zandonai diverso dal reale. -Ah! perché lei vuol proprio darmi in pasto ai suoi lettori? -Metaforicamente! Sorrise e io tacqui; intanto l’orchestra attaccava. Dovetti staccarmi io. Ma, fuggendo, rapii

Arturo Rossato. Non invidiatemi l’avventura, lettrici concupiscenti. Intendo dire: di firme sugli albums. Rossato

forse appone firme; ma è pronto, vigile, armato quanto Zandonai è indifeso e bucolico. Infatti, quegli è un poeta. Oggi i poeti son furbi. Erato si è scaltrita, per bisogno di denaro, forse. Inoltre, Rossato è un giornalista e come tale non ha alcuna musa a proteggerlo. È un commediografo, e quanto Talia sia sempre stata pronta e lesta ognuno sa, che l’ha vista vagabondare anche con Tatiana Pavlowa. Ma è un ottimo confidente, certo:

-Vuoi far l’intervista con Zandonai? Falla con me. Ti parlerò io di lui. Anzitutto ti dirò che, per un librettista, egli è l’ideale dei compositori. Quando gli piace, si prende il suo bravo libretto, se lo porta nel suo giardino di Pesaro e non ti si fa più vivo, se non ad opera compiuta. Non muta quasi nulla e se qualche verso non gli piace o non si adatta alla sua musica, egli lo cambia e poi te lo dice, timidamente, dolcemente: Sai? ho cambiato queste poche parole; ma naturalmente nel libretto stampato tu lascia le tue. Io metto le sue, invece. È il meno che possa fare per un simile uomo! Le qualità sue di musicista è inutile che te le dica io. Tutti le conoscono oramai. Egli è in primissima linea. Gli ultimi successi sicuri lo affermano. Giulietta e Romeo è ora una delle opere più popolari in Italia.

-I Cavalieri... -Sì, credo proprio che I Cavalieri di Ekebù varranno sempre al riconoscimento universale del

suo valore. Egli ha "sentito" l’opera con tutta la passione. Ha reso il dramma di Giosta, la tragedia spasmodica della “capitana”, l’allucinazione cosciente dei cavalieri, il patetico dolore sconsolato di Anna. Ha reso “tutto” quello che v’era nel romanzo della Lagerlöw e che io ho potuto serbare nel libretto. Compositore, Zandonai ha la vena facilissima. Istrumentatore, possiede una tale maestria tecnica da strumentare dieci pagine di partitura al giorno, che, come tu sai, è un “récord”.

-Non lo sapevo, scusami! Rossato sorride e mi narra la vita quotidiana di Zandonai. Il maestro si leva, al mattino, all’alba

delle undici, e se ne va nel suo giardino. Ha la passione del giardinaggio e della caccia. Ma della caccia adoperata anche a svagare. Va bighellonando pei campi e spara; uccide perché è un perfetto tiratore, ma se non uccide, meglio, perché è buono. I suoi due cani li adora.

-Se lo vuoi far felice, parla dei suoi cani! E io ne parlo. Tanto più che è singolare questa passione di un compositore di opere pei cani...

Ma quelli che ora uggiolano in attesa del padrone, nel giardinetto di Pesaro, non cantano, sono belli, a quattro gambe, docili e affettuosi. Due femmine: “Lolita” e “Dea”. “Dea” ha una vera passione per la musica e quando il maestro compone non si muove dal divano della sua stanza, distesa a contemplarlo. Nel crescendo si scuote e va a mettersi tra le gambe del padrone, sfregandosi ai suoi pantaloni dolcemente.

Adesso Zandonai ha aggiunto ai due cani un gatto d’Angora: “Ekebù”, dono di Carlo Clausetti, cavaliere, certo. Sornione e godereccio. Rossato mi afferma che Ekebù ha un’anima contemplativa. Io gli credo.

Alle 17 si leva, si muove pel suo studio ancora assonnato, legge il libretto, medita, scrive. Dopo il pranzo, chiacchiera coi suoi fino alle 22. Va a letto.

-Ma quando compone? -Ah! allora non dorme più. Perché a letto medita le sue trovate musicali e di giorno le realizza al

pianoforte e sulla carta. Che sia un grande musicista, conclude Rossato, lo diranno gli altri e meritatamente; io ti dico che Riccardo ha un’anima semplice, buona, grande. E tutti gli vogliono

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bene. Nel paese suo e dei suoi, Sacco di Rovereto, lo adorano. Una strada porta il suo nome. Ma non sono i soli suoi conterranei ad aver per lui una così sincera ammirazione. A Pesaro, nel teatro Rossini, una lapide ricorda la prima rappresentazione della sua Via della finestra. Che vuoi sapere ancora? Aspetta... Ecco: Zandonai ha un’opera in un atto: La coppa del Re, che è inedita. La compose molto tempo addietro. E poi...

-Come cominciò? -Ah! Sì. La storia è comune a parecchi grandi artisti. Sortito da umili natali, per virtù di ottimi

genitori, brava gente amante della quiete campagnuola, il Riccardo studiò latino e non lo apprese. Per placare l’ira del suo pedagogo, un buon prete di Sacco, compose un oratorio. Fu una rivelazione. Poi un atto musicale, L’uccellino, che fu rappresentato nella sagrestia della chiesa paesana. Allora, sebbene a malincuore, i genitori lo mandarono a Pesaro ed egli studiò composizione sotto Mascagni8. Quel che abbia fatto uscito dal Conservatorio, a cominciare da Il grillo del focolare per finire a I cavalieri, i tuoi lettori sanno perfettamente.

*** Rossato ha finito. -Un momento. Adesso parlami di te. -Eh?!! -No. Voglio dire: che hai pronto? -Qualche libretto. Don Giovanni per il maestro Lattuada, La bisbetica domata pel maestro

Persico, Madama di Challant pel maestro Guarino, Graziella pel maestro Bucceri, Juan José per maestro Benvenuti...

-E poi?! -Sì: sono molti! Ma basta. Adesso lavoro per me. Sto facendo una commedia e ho quasi

terminato il mio romanzo: I miei tempi. -Quelli della tua fanciullezza? -No, quelli della mia virilità. Io fingo di essere giunto agli ottant’anni e racconto quello che è

avvenuto in questi nostri anni correnti. -Tutto?! Rossato sorvola: -È un romanzo piacevole, vedrai. Quel mio io di ottant’anni ha un suo humour bonaccione, che

spero lo renderà simpatico. E così le interviste sono fatte. Ma il lettore non si meravigli, avendomi letto fin qui, ch’io abbia

posto [il] nome di Giovacchino Forzano accanto a quello del musicista e del librettista de I Cavalieri di Ekebù, senza averlo poi fatto apparire. Quando si rappresenta un’opera alla Scala, anche se non se ne parla, Forzano c’è sempre.

Se per virtù di Toscanini l’orchestra suona come sapete e i cantanti cantano come potete andare a sentire – è per le miracolose virtù di Giovacchino Forzano che le masse si muovono, gli effetti tecnici si producono, il miracolo della più bella messa in iscena del mondo si avvera.

Davvero questo toscano, dinoccolato e cordiale, ha i mille diavoli del teatro nel corpo. Sul palcoscenico della Scala si prodiga sino all’esaurimento, badando a tutto, prevedendo tutto, rendendosi collaboratore degli autori. Come autore, egli stesso non conosce insuccessi. E poi scrive libretti e mentre iersera era a Milano per la prova generale de I Cavalieri, stasera è a Torino per il Nerone...

Ha risolto il problema di essere un artista e in pari tempo una macchina. Diremo, dunque, un artista d’acciaio. Il teatro italiano moderno ha in lui una forza viva formidabile. Non vi è palcoscenico che lo ignori.

Tranne quello della politica.

8 Dalla ricostruzione di Rossato sembra di capire che la fiaba musicale L’uccellino d'oro era stata composta da Zandonai prima

del 1898, data in cui egli si trasferì a Pesaro. In realtà è abbastanza certo che l’operina fu scritta nel 1905-06; va però ricordato che lo stesso Zandonai in un'intervista (Riccardo Zandonai narrato da se stesso, «Comœdia», 15.7.1928) sosteneva di averla composta intorno ai 15 anni. Quanto all’“oratorio” eseguito per la chiesa di Sacco, non si ha idea di cosa si tratti. Per questi aspetti di datazione, cfr. D. Cescotti, Riccardo Zandonai - Catalogo tematico, Lucca, LIM 1999.

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Ma su quel palcoscenico neppure lui riuscirebbe a mettere un certo ritmo estetico. Per questo non ci prova!

450 Giorgio Barini, Con Riccardo Zandonai alle prove dei “cavalieri d’Ekebù”, «L’Epoca», 29.3.1925 - p. 3, col. 3-4 (con un ritratto di Zandonai)

Nel teatro semibuio dieci o dodici persone: Carlo Clausetti va e viene; dalla platea corre sul palcoscenico, si appressa al gruppo dei Cavalieri per precisare un gioco scenico, un movimento, una posa; riappare in fondo alla platea, e subito dopo è ancora dietro le quinte per disporre in miglior modo il tronco d’albero in cui di celerà “Giosta”; e poi, ancora, a dare istruzione al volubile sciame delle fanciulle; discute con l’elettricista per ottenere più delicata gradazione di luci: va e viene, e pare abbia il dono dell’ubiquità. Arturo Rossato, seduto in una poltrona, approva soddisfatto la attuazione della vicenda drammatica, i singoli artisti, gli aggruppamenti della massa corale, la visione scenica: ogni tanto si alza per scambiare qualche osservazione con Nicola d’Atri su qualche particolare, per concludere che tutto va a seconda di quel che egli desidera.

Riccardo Zandonai non si muove: osserva, ascolta, si compiace. -Vedo che sei guarito: ne ho gran piacere. -Guarito perfettamente ancora no, ma sto meglio. Pensa che nel viaggio da Milano a Pesaro, con

una temperatura glaciale, son capitato in un treno senza riscaldamento, non so per quale guasto: sono arrivato a casa gelato, e mi sono messo a letto con un raffreddore tremendo. Presto rimessomi, sono corso a Roma per assistere alle ultime prove dei Cavalieri: ma anche qui ho trovato inattesi sbalzi di temperatura e giornate di freddo acuto, per cui ho avuto una ricaduta non lieve: appena ho potuto uscire dall’Albergo sono corso al teatro, ben lieto di sentire l’opera mia eseguita ottimamente: Vitale fa miracoli; gli artisti sono tutti a posto, sicuri, volonterosi: il Costanzi, meno vasto della Scala, fa apparire più raccolto e misurato il lavorìo della esecuzione; sembra perfino che, favorite dal teatro, certe cose assumano un rilievo più nitido e proporzione perfetta.

-Dimmi un po’: come ti è venuta l’idea di prendere per soggetto l’epico romanzo della Lagerlöf? -Il soggetto, predisposto per l’adattamento scenico e musicale, era stato presentato alla Casa

Ricordi. Adami e Rossato ne avevano tracciato lo scenario; ma più di un maestro, attratto da prima dalla originalità e dall’interesse del caratteristico dramma, aveva esitato di fronte ai problemi estetici che esso presenta per il musicista: anche il povero Puccini, cui I Cavalieri piacevano tanto, non si sentì di affrontarne la realizzazione musicale. E poi si diceva vi fosse una difficoltà pregiudiziale: cioè che il soggetto era già impegnato: infatti sembra che avesse ottenuto il privilegio un maestro francese, tanto che l’Adami se ne disinteressò completamente. Questa fu la ragione per cui scrissi Giulietta e Romeo.

-Sicché si tratta di uno scenario che datava da più anni... -Precisamente: e fu appunto perché mi assicurarono essere quel soggetto impegnato con altro

musicista, mentre intendevo darmi tutto al lavoro, che io ebbi a risolvermi per la Giulietta. Lo spartito fu rapidamente scritto e rappresentato; ma subito dopo ripensai ai Cavalieri: un amico trovò modo di rivolgersi direttamente a Selma Lagerlöf; l’impegno con l’altro musicista sembra non fosse molto serio, e potei avere io il permesso di ricavare da La leggenda di Gösta Berling un libretto d’opera. Arturo Rossato con instancabile assiduità e straordinaria pazienza è riuscito nel difficilissimo intento di schematizzare sinteticamente il soggetto: rinunziò ad una quantità di particolari, a una folla di individui, cercando sempre di mantener vivi gli elementi essenziali, di riunire in una sola persona tratti ricavati da più figure del romanzo: per due anni ha continuato nel faticoso lavoro, eliminando e riassumendo, finché poté consegnarmi il libretto nella sua forma definitiva.

-Ci lavorasti per lungo tempo? -No: la partitura completa fu pronta dopo circa quindici mesi di lavoro: l’ho scritta senza

esitazioni, senza pentimenti, sebbene essa abbia un carattere che la differenzia dalle precedenti opere. Ed ora mi riposo...

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-Possibile che tu non faccia nulla? -Ecco, per me il riposo significa studio e preparazione: mentre, quando ho scelto un soggetto ed

ho il libretto pronto, non riesco a distrarmi dal lavoro e non ho posa finché non ho condotto a termine lo spartito, dopo che l’ho compiuto mi limito a far ricerche e leggo senza posa, per poter scegliere bene e fissare con sicurezza quello che dovrà essere il nuovo lavoro: ed a questo mi dedico con una costanza instancabile.

-Che cosa hai in vista per l’avvenire? -Ancora non so: cerco e leggo. Intanto mi interesso per la sorte de I cavalieri di Ekebù: lo

spartito è chiesto da molti teatri d’Italia e dell’estero: e mi ha fatto gran piacere apprendere che è desiderato in città della Scandinavia: da Copenaghen si insiste molto.

-E come potrà, a tuo avviso, essere apprezzato il tuo spartito, nei paesi evocati nel libretto e commentati dalla tua musica?

-Non so: certo è che, prima di mettermi al lavoro, volli avere piena cognizione del carattere della musica svedese, sopra tutto settecentesca, dei tempi in cui si suppone l’azione dei Cavalieri, ma fu una delusione: quella è musica di riflesso, esemplata principalmente sull’arte musicale tedesca di quel tempo, della quale assume la fisionomia: mi son dovuto convincere che la musica così detta nazionale di Edoardo Grieg è essenzialmente creazione sua personale. Per ciò preferii fare astrazione da ogni preconcetto di colore locale artificiale e lasciar parlare la mia fantasia, animata e suggestionata dal soggetto prescelto, dai caratteristici suoi eroi.

D’altronde, è inutile illudersi: si ha un bell’avere sicura coscienza di esser rimasto fido alle migliori tradizioni nazionali, di aver trovato riflessi di sicura italianità nell’opera propria: ci sarà sempre chi vi troverà invece espressioni assolutamente inattese, stupefacenti. Pensa che proprio ora si è eseguita per la prima volta in Germania (ad Altenburg) la mia Francesca da Rimini, accolta con molto favore di pubblico e di critica: ma i critici hanno scoperto che con quell’opera io mi sono staccato nettamente dalle tradizioni melodiche italiane: tanto che uno di essi, nella Berliner Zeitung am Mittag, mentre loda con entusiasmo lo spartito, dichiara senza esitare che la mia “è una musica terribilmente severa e straordinariamente tedesca!”.

-Mattacchione!... -Zitto: si riprende la prova, e Vitale è al suo posto: come ha ben compreso e sentito il mio lavoro

e nel complesso e nei particolari! E con quale impegno esso e i cantanti lo hanno studiato e lo eseguiscono!

Comincia il quarto atto...

451 Raffaello De Rensis, “Giuliano” la nuova opera di Zandonai - Durante la mostra del '900, «Il Giornale d’Italia», 15.4.1927 - p. 3, col. 2-3-4 (con un ritratto di Zandonai e la riproduzione di un antico dipinto sul tema della leggenda di San Giuliano)

Bologna, 12 aprile. La sfilata dei compositori italiani, dinanzi all’assemblea giudicatrice del “Comunale” e della

Sala Bossi, è agli ultimi gruppi e procede con alterna fortuna, ma indubbiamente utile per la miglior conoscenza delle forze musicali di cui oggi disponiamo. [...]

Tra l’una e l’altra di queste sedute sperimentali ho avuto il piacere di incontrarmi con Riccardo Zandonai, disceso da Pesaro per far atto di solidarietà e colleganza con i colleghi della mostra.

Giuliano l’ospitaliero Naturalmente l’ho bloccato per strappargli dalla viva voce le più estese ed esatte notizie della

sua nuova opera. -A che punto siete del lavoro? -Sono alla fine del secondo atto e non mi resta, in questi mesi, che musicare, con tutto l’agio,

l’epilogo. -Il libretto?

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-È di quello squisito poeta, Arturo Rossato, che in un prologo, due atti e un epilogo ha condensata la suggestiva e drammatica istoria di “S. Giuliano l’ospitaliero”, magnifica figura di eroe e di santo tramandataci dal “Libro aureo” delle leggende cristiane.

-Volete narrarmela per i lettori del «Giornale d’Italia», che vi saranno molto grati? Zandonai tirò un sospiro e cominciò: -Giuliano, giovinetto amantissimo della caccia, col suo arco infallibile seminava la strage tra gli

uccelli e le belve della foresta, anch’esse creature di Dio. Una volta che, ferita mortalmente una cervia, aveva ucciso anche i suoi cerbiatti, vide nel buio della selva i due occhi della cervia farsi grandi e di bragia, mentre una voce terribile gli gridava: “Ucciderai tuo padre e tua madre!”. Il giovinetto atterrito credette al prodigio e, giurando a sé stesso di non più toccare arco e saetta, fuggì per sempre dalla terra nativa per non aver più mai l’occasione d’avvicinare i suoi genitori adorati, che la tremenda predizione faceva sue vittime designate.

Girò quindi per il mondo e compì, per riscattarsi, gesta eroiche e di pietà; finché nella remota Occitania gli capitò di sfidare e uccidere un tristo barbaro che opprimeva la contrada.

La bella reginetta La bella Reginetta del luogo fu subito e ardentemente presa d’amore per il salvatore e questi la

riamò con eguale passione e la fece sua sposa. La Reginetta ignorava il suo passato, lo vedeva di continuo malinconico e pensoso. Un giorno

che Giuliano, con mal celato desiderio di caccia, guatava dal balcone una fiera sbucata dalla selva, ella, per indurlo a svagarsi, porgendogli l’arco con dolce insistenza, risvegliò improvvisamente nel cacciatore la sopita passione.

Giuliano uscì fuori; inseguì la fiera; questa ed altre ancora ne uccise rinnovando, come un tempo, nella selva, la strage di creature di Dio. Sempre più accecato dall’antico furore sanguinario, rientrò nella stanza nuziale a guisa di forsennato in odio a se stesso.

Dietro l’alcova, nell’ombra, scorge nel letto due corpi. -Con chi giace la sua donna? Con chi? Non fu lei a spingerlo fuori alla caccia maledetta? È lei qui col suo drudo?

Tormentato da tali pensieri, impugna il coltello da caccia, si avventa sui due dormienti e li uccide.

Ma è appena uscito dall’alcova, che ecco gli viene incontro sorridente Reginetta: -Tuo padre, tua madre, ella gli dice, sono giunti... Stanchi del lungo viaggio riposano là, sul nostro letto.

Giuliano, all’orrenda novella, cade tramortito. Riavutosi, egli abbandona di nuovo il mondo e gli affetti per rifugiarsi nella preghiera e per meritare il perdono del cielo. Eremita in un luogo squallido, egli ospita e ristora i pellegrini.

Una sera la voce di uno sconosciuto ammantellato lo chiama. È un lebbroso: “Ospitami, chiede l’infermo, fammi bere... riscaldami... coricami nel tuo letto... abbracciami!...” Giuliano, nel fervore dell’espiazione, ebbraccia il lebbroso pur sapendo che questi gli darà la morte. E la morte viene.

Il lebbroso è il Redentore che l’accoglie nella gloria dei cieli. Così, con la visione raggiante del Redentore, mentre tra canti celestiali la natura tutta intorno

s’illumina e fiorisce, avviene la beatificazione di “Giuliano”, che la leggenda cristiana chiamò l’“ospitaliero”.

-È un vero e proprio “mistero”. -Presso a poco. Infatti questa mia nuova opera si chiamerà appunto “mistero”, in quanto ricorda,

sotto forma moderna si capisce, nel soggetto, nello spirito, nella vicenda scenica, nello spettacolo, le antiche sacre rappresentazioni dei "misteri", che con situazioni ed effetti del resto prettamente teatrali riproducevano all’occhio del pubblico adunato i fatti della religione rivelandone gl’intimi insegnamenti.

-Sicché voi, maestro, vi proponete un fine prevalentemente religioso? -Più che un fine religioso, tanto io che il poeta ci proponiamo di fare dell’arte, nobilmente,

intorno a un grande soggetto, che offre situazioni reali e passioni umane unite ad elementi mistici, che formano materia di alta poesia.

Alcuni momenti musicali

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-Sono indiscreto se chiedo qualche dettaglio della musica? -Ormai ci siamo, dice Zandonai che non riesce a dissimulare il sacro fervore che lo pervade, e

continuo... a sbottonarmi. L’opera procederà, nell’azione scenica e nella realizzazione musicale, rapida, efficace, senza

soprastrutture, senza diversioni o sosta alcuna. Il prologo presenta la selva, in pieno meriggio, allietata dal canto che tutte le creature, gli uccelli, le piante, le acque innalzano al Signore. Solo personaggio, Giuliano, contro il quale si abbattono il prodigio della cervia e la fatale predizione.

Il primo atto contiene l’episodio di Giuliano che, liberata la città assediata, galoppa verso di questa, ansiosamente atteso.

-La cavalcata di Romeo? -Certo è un quadro di formidabile progressione sonora, ma di carattere alquanto diverso dalla

cavalcata di Romeo. Questo primo atto si chiude con la scena d’amore tra Giuliano e Reginetta. -Vale a dire un duetto. Zandonai annuisce e prosegue: -Il secondo atto ha luogo nella camera nuziale e costituisce il punto centrale di tutta l’azione

drammatica. Contiene la scena che chiamerò dell’incitamento alla caccia da parte di Reginetta; l’episodio gentile e caratteristico dell’arrivo di due vecchietti che sono i genitori di Giuliano; la canzone dell’usignolo e la tragica scena finale dell’uccisione.

L’epilogo, che al levarsi della tela presenta Giuliano, eremita, in atto di preghiera nella sua caverna, si apre col passaggio di pellegrini che vanno verso Roma intonando una laude alla cristianità.

Dal gruppo dei pellegrini si stacca una donna, è Reginetta, che riconosce Giuliano e gli si avvicina. Ma Giuliano non è più di questa terra. Votatosi alla penitenza, consola la donna e la allontana dolcemente.

Seguono l’apparizione del Redentore, sotto le spoglie del lebbroso, e l’episodio della morte di Giuliano...

Queste ed altre cose mi ha detto Zandonai, acceso da una fiamma di commozione che ha investito tutto il mio essere.

Mi dichiaro soddisfatto ed orgoglioso di aver potuto riferire con maggiore ampiezza di quanto non s’è fatto finora della nuova opera di Riccardo Zandonai, erede genuino e robusto della nostra tradizione, e di poter annunziare anche che l’opera sarà pronta per la prossima stagione lirica. Son sicuro che la notizia sarà lietamente accolta nel mondo artistico.

In ultimo ho chiesto all’autore: -In quale città sperate di far rappresentare il vostro «Giuliano»? -Non saprei. Dipenderà dalle circostanze e anche dagli impegni della Casa Ricordi, che come di

tutte le mie opere è l’editrice anche del “Giuliano”. -Io mi auguro che possa rappresentarsi a Roma, al “Costanzi”, dove tornerà a brillare la vostra

“Conchita”, che finalmente ha trovato nella Cristoforeanu una intrepida protagonista9. -Così potrete giudicare la prima e l’ultima tappa del mio cammino... fin’oggi...

452 Conversando con Riccardo Zandonai, «Il Messaggero», 8.12.1927 - p. 2, col. 2 (con una foto di Zandonai)

All’Augusteo Riccardo Zandonai sta provando, con la consueta sua diligenza, la prima Sinfonia dello Schumann, compresa nel programma che dirigerà domenica prossima: l’orchestra segue e seconda, attenta e premurosa, l’instancabile maestro che vuol raggiungere la maggior possibile sicurezza e vivezza di esecuzione.

9 In realtà Conchita non approderà a Roma prima del 1930.

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Dopo la prova, possiamo scambiare qualche parola, intrattenendoci da prima sul programma del suo concerto; rilevo con piacere che esso si allontana simpaticamente dai programmi di repertorio, comprendendo composizioni non sfruttate, tra cui alcuni lavori suoi, uno dei quali, nella forma attuale, è nuovo.

-Ho pensato – mi dice – che si poteva ricavare un lavoro orchestrale riunendo due pagine essenzialmente sinfoniche di Giulietta e Romeo: l’estate scorsa, dopo aver diretto un concerto a Pesaro, mi sono dedicato esclusivamente alla composizione: ho terminato il mio nuovo spartito «Giuliano» ed ho elaborato il pezzo da concerto in cui si uniscono e si fondono la musica della «Danza del torchio» e l’intermezzo della «cavalcata» di Romeo.

-Qui dirigerà un secondo concerto mercoledì prossimo: ripeterà il programma di domenica? -Vi porterò molti cambiamenti: nel primo, oltre la “Sinfonia” di Schumann, v’è uno dei poemi

sinfonici di Smetana, raccolti sotto il titolo «Dalla mia patria», e prende il nome da un antico castello boemo, «Vysehrad», che ha una sua caratteristica leggenda; di cose mie, il «Concerto romantico», eseguito dalla signora Ferrari, una eccellente violinista, che lo ha fatto applaudire a Vienna, a Budapest e in altre città; la «Serenata medioevale» e il pezzo sinfonico da «Giulietta e Romeo». Nel secondo concerto comprenderò la sinfonia dell’opera «Faniska» di Cherubini, anch’essa non eseguita da gran tempo; una «Pastorale» del Sammartini orchestrata da Giuseppe Martucci; tre tempi della mia suite «Primavera in Val di Sole»; un interessantissimo «Concerto» del Locatelli per quattro violini solisti, archi e organo, finora non eseguito in concerti moderni; e qualche pezzo dal programma di domenica10.

-Dopo il silenzio per compire il «Giuliano», ha però ripreso contatto col pubblico: abbiamo appreso con piacere che la sua “Conchita” da lei diretta ha ora avuto un successone a Bologna, ove si eseguiva per la prima volta.

-Sicuro; e ciò mi ha fatto piacere: ora andrò a Genova per dirigervi la mia «Francesca da Rimini», poi a Mantova, ove metterò in scena “Giulietta e Romeo”; finalmente a Napoli, nella grande stagione del San Carlo dirigerò ancora “Conchita” e, ai primi di febbraio, il mio nuovissimo spartito “Giuliano”.

-Mi pare di aver visto che Rossato, il suo librettista, non abbia tratto il soggetto dalla celebre novella del Flaubert.

-Infatti, egli si è direttamente ispirato alla pura e poetica fonte della «Leggenda aurea» di Jacopo da Varagine: ed ha saputo dare una linea assai interessante al soggetto, la cui essenza religiosa, l’elemento fantastico, si affermano soltanto nel prologo e nell’epilogo, come a formare una cornice mistica ai due atti del dramma, nei quali ferve il sentimento umano e si agita la vita.

-E a Roma, nella stagione lirica ufficiale, che ci sarà di suo? -Nulla... E qui Riccardo Zandonai ha posto termine bruscamente alle notizie della sua attività musicale

avvenire, e la conversazione amichevolmente scambiata ha continuato su altri temi.

453 [Augusto] Cart[oni], Conversando con Zandonai sul suo “Giuliano”, «Corriere d’Italia», 13.12.1927 (con una foto di Zandonai)

Credo che l’unico momento di riposo durante il soggiorno romano sia stato, per il Maestro Riccardo Zandonai, il riposo obbligatorio dei dieci minuti d’intermezzo alla prova generale. Allora soltanto mi è stato possibile coglierlo a volo sebbene stesse seduto in una di quelle rosse poltrone dell’“Augusteo” che, come gli uomini, nell’andar degli anni vanno imbianchendo. Invitare un autore a parlare della propria opera proprio alla vigilia della sua andata in iscena, c’è pericolo di vedersi fare una brutta faccia, ed è per questo che il tema è stato preso un po’ alla larga, come suol dirsi, facendolo precedere dalle felicitazioni di rito per l’ottimo stato di salute del maestro, per la

10 Per le recensioni di questi due concerti, v. Quaderni zandonaiani 1 (1987), pp. 77-85.

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sua prodigiosa attività, per concludere naturalmente con amichevoli auguri per il Giuliano, auguri che per solito costituiscono il ponte di passaggio da un tema all’altro.

-Giuliano, altra vostra creatura diletta, maestro, che vi procurerà grandissime consolazioni come tutti i figliuoli ai quali si vuole un bene dell’anima ed a cui si è dedicata gran parte delle proprie cure per non dire della propria esistenza.

Zandonai sorride. -Tutto pronto non è vero, maestro? Partitura terminata, dico bene? -Assolutamente terminata. L’opera si sta stampando a Milano. -Sicché non c’è che aspettare il primo febbraio? -Precisamente i primi di febbraio a Napoli, al “San Carlo”. -Voi naturalmente il direttore: e gli artisti? -Il tenore Lo Giudice per la parte di Giuliano. Per quella di Reginetta [sic] non ho ancora

definitivamente scelto il soprano. La decisione però sarà di questi giorni. -Oltre questi due personaggi quali altri agiscono nella vostra opera? -Due ancora; ma di minore importanza: i vecchi genitori di Giuliano. Ma l’azione s’impernia

sopra i due primi che sono i veri protagonisti dell’opera. -Nella quale il coro assume grande importanza, vero? -Notevolissima nel prologo e nell’epilogo. Come sapete, l’azione si suddivide in quattro episodi:

il prologo, il primo e il secondo atto e l’epilogo. Il prologo, che potrebbe chiamarsi per quei concetti ai quali mi sono ispirato il canto della natura, perché la scena si svolge in un bosco dove Giuliano corre appresso alla selvaggina, costituisce una composizione sinfonica-corale a sé. È qui che Giuliano colpisce a morte la cerva e i suoi cerviotti e dove riceve la terribile profezia della strage che farà un giorno dei genitori. Ma anche nell’epilogo il coro ha una grandissima importanza, anzi assai maggiore, avendovi un predominio assoluto. Si inneggia alla beatificazione di Giuliano che, dopo la tragica quanto mai involontaria uccisione dei genitori, avvenuta inconsapevolmente per sua mano, come narra l’antica leggenda cristiana alla quale il Rossato si è inspirato, viene accolto nel Regno dei cieli tra il canto degli angeli e dei serafini. Come comprenderete, in questi due episodi il genere della musica assume un carattere ben differente da quello che riveste il dramma vero e proprio. Qui più che di musica drammatica devesi parlare di musica elegiaca, che si riporta alle tradizioni di una musica religiosa, alla serenità del canto, fonte di infinita commozione. Ma, del resto, in tutta l’opera mi sono prevalentemente attenuto ad un tipo di musica che chiamerò lineare, cioè melodica, serena.

Quando il dramma scoppia in tutto il suo terrore il misticismo musicale subitamente riappare. Come un fiume – là dove il corso viene ostruito da macigni s’infrange, si spezza, l’acqua spumeggia per poi riprendere il suo melodioso andare. Non è l’impressione di un momento – è la vita di un istante. Perché ciò che è il sentimento di colui che dell’opera è il personaggio predominante, direi essenziale, e intorno al quale altri personaggi ed altri sentimenti si muovono ed agitano, deve dare la... come potrei dire...

-Intonazione, maestro. -Vada per intonazione – trattandosi di musica – del dramma musicale. Ora Giuliano, che per

destino colpisce a morte, inconsapevolmente, i suoi stessi genitori che da anni erano alla ricerca del figlio ed ai quali la sposa aveva ceduto per una notte di riposo il talamo regale, e che fugge poi sulle rive di un fiume a traghettare da una sponda all’altra i pellegrini che si recano a Roma, Giuliano è un’anima che ha fede e che nella fede unicamente cerca conforto implorando perdono.

[-]Quindi inutilmente si cercherebbe nella mia nuova opera quel tipo di musica che molti chiamano sensuale. Ho scritto, ripeto, della musica lineare.

-O meglio, unicamente... musicale. -Se preferite. Del resto io penso che quando si ha l’intenzione di scrivere della musica non si

deve fare che della musica vera e propria. -D’accordo. Ma adesso chiunque tenti il teatro lirico parla sempre di concetti speciali, di generi

nuovi che poi svaniscono alle luci verdastre dell’orchestra. Quante belle intenzioni e quanti buoni propositi si perdono per via. Voi invece che vi siete proposto di attenervi alla più limpida semplicità avrete in premio, per questo Giuliano, corone di alloro.

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-... è questione di sapersi... adattare, risponde sorridendo il maestro. -Ma voi già ci avete fatto l’abitudine. Riccardo Zandonai allarga le braccia stringendo nel pugno destro la bacchetta. -Il pubblico, mio caro, è sempre il pubblico. -Con il quale voi avete sempre grande dimestichezza. -Venitelo a vedere di lassù – e indica il podio verso il quale adesso si avvia –, venite a vederlo e

poi ne riparleremo.

454 F. Lo Giudice, Conversando con Riccardo Zandonai - mentre si attende il “Giuliano”, «Il Messaggero», 18.4.1928 - p. 3, col. 1-2-3 (con una foto di Zandonai e una che riproduce lo scenario dell’atto I)

Vedo Riccardo Zandonai nella penombra in cui è immersa la platea del Teatro dell’Opera, mentre i macchinisti lavorano febbrilmente per allestire la scena del primo atto del Giuliano; pochi intimi gli sono vicini; la sua gentile signora ha trovato subito il modo di fargli portare senza indugio una buona tazza di caffè.

-Bisogna fermarsi per lunghe ore, mentre si pensava dovessero bastare rapidi colloqui per risolvere ogni difficoltà, eliminare ogni dubbio: e questo anche qui, coi mezzi eccezionali di cui dispone il teatro. Però si lavora volentieri quando si vede che si può giungere a risultati concludenti. Tu ricordi bene come ero soddisfatto degli elementi di cui disponevo al San Carlo di Napoli, mentre preparavo la prima esecuzione del mio Giuliano: e anche qui ho trovato masse orchestrali e corali che procedono a meraviglia.

-Però non bisogna dimenticare che le masse ti seguono a dovere perché le conduci con sicura efficacia.

Qui interviene il maestro Marinuzzi, il quale fa rilevare la grande abilità direttoriale di Riccardo Zandonai, per concludere che sarebbe molto desiderabile fossero da lui dirette ora altre opere: l’astuta mossa del Marinuzzi, il quale sarebbe felice se potesse dividere con un così valoroso maestro il peso non lieve della chiusa di questa stagione lirica intensamente attiva, non attacca: Zandonai ride di gusto e Marinuzzi gli fa eco; però, quando cerco di avere notizie dei progetti musicali del compositore trentino, egli mi fa osservare che gli impegni direttoriali da lui assunti lo assorbono tanto.

Ma torniamo subito al Giuliano e alla sua imminente apparizione sulle scene del massimo teatro romano, dopo la vittoriosa affermazione di Napoli.

-La rappresentazione del Giuliano a Napoli, che mi ha dato tante soddisfazioni, è anche riuscita preziosa come insegnamento significativo: la prima esperienza ha rivelato la necessità di modificazioni nella realizzazione pratica delle figurazioni sceniche: e qui vedrai quella intima rispondenza tra le intenzioni dell’autore e la loro attuazione di cui già mi facesti parola a Napoli. Il ripetersi in forma quasi identica della visione celestiale alla fine del prologo e nell’epilogo dava allo spettatore una sensazione di troppo stretta somiglianza, quasi d’identità nei due quadri solenni, che, a torto, pareva riflettersi nella estrinsecazione musicale dei due finali. Qui le due espressioni si differenziano nettamente; la prima è il profetico augurio di redenzione del peccatore pentito; la seconda è l’assunzione dell’anima redenta nella celeste schiera dei beati. Nella chiusa del prologo s’intravedono vaghe figure angeliche, simboleggianti la promessa divina; nella chiusa dell’epilogo è lo splendore del Paradiso, è la glorificazione dell’Ospitaliero: e Pieretto Bianco ha voluto che la trionfale raggera d’oro richiami alla mente dello spettatore la visione del Paradiso quale rifulge nelle divine luci del Beato Angelico: quella raggera rutilante, tutta contesta di luci dorate e splendenti, suggella trionfalmente la glorificazione di Giuliano. Del resto Pieretto Bianco ha preparato tutta una serie di scenari ammirevoli.

-Benissimo: sono proprio lieto di trovare eliminata quella ragione che fece apparire a Napoli meno perfetta la tua nobilissima creazione: non solo, ma da quel che ho potuto vedere e sentire, comprendo come sia giusta la tua affermazione, che cioè l’esperienza prima è stata preziosa

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consigliatrice di perfezionamenti utilissimi alla perfetta comprensione e valutazione dell’opera d’arte.

-Debbo anche ricordare che hai colto nel segno assai bene ricordando i magnifici affreschi trecenteschi che si distendono come fastosi arazzi sopra una parete della cattedrale di Trento, nei quali è rappresentata la leggenda di San Giuliano l’Ospitaliero: quelle figurazioni che colpirono profondamente la mia anima di fanciullo hanno tenuto viva nella mia mente la suggestiva immagine del Santo, finché ho potuto rievocarla con gli elementi della mia arte. Pensa che nel prossimo giugno avrò la gioia di dirigere a Trento, nella mia Trento italiana, il mio Giuliano, nella stessa sede in cui la sua poetica storia è così nobilmente glorificata nella cattedrale. Poi avrò un’altra grande soddisfazione: dirigerò a Stoccolma, ospite di quel Teatro Reale, il mio spartito I cavalieri di Ekebù, nel venturo autunno; ma prima di allora, e proprio nel prossimo maggio, sarò là per conferire dell’epica Leggenda di Gösta Berling, da cui è ricavato il libretto, [con] la scrittrice mirabile cui a ragione fu conferito il premio Nobel, e prendere con lei accordi per la perfetta realizzazione della sua creazione d’arte.

-Ne sono molto lieto; come ne saranno lieti tutti gl’italiani che amano tanto la tua arte schiettamente italiana; e, al pari di me, formulano voti fervidi per il trionfo dell’opera tua. E in Italia dove si riprenderà il Giuliano?

-In agosto, a Rimini o a Pesaro; non so ancora quale delle due città saprà ottenere la precedenza, per cui c’è viva competizione11: ed io sarò ben lieto di condurre ancora una volta il mio spartito alla ribalta, là dove è sinceramente desiderato.

Il maestro deve tornare al lavoro: mi stringe la mano, corre al leggìo, impugna la bacchetta e la prova riprende.

** Ripassiamo intanto il libretto del Giuliano. Come è noto, il maestro Zandonai, quando le prime

volte parlò del suo spartito, dichiarò che il soggetto era direttamente ricavato dalla Leggenda aurea di Jacopo da Varagine e non dal noto racconto del Flaubert; così come il libretto di Giulietta e Romeo era stato tratto dalla novella del Da Porto e non dalla tragedia dello Shakespeare; ma la possente creazione shakespeariana trovò riflessi nel libretto, e il racconto del Flaubert ha insinuato i suoi elementi nel libretto che Arturo Rossato ha elaborato per la musica dello Zandonai, sopratutto nell’avvivamento della figura del protagonista, il quale assume così grande vibratezza passionale.

Le linee del dramma sono segnate con ingegnosa abilità: una cornice in cui predomina l’elemento soprannaturale limita e chiude col prologo e l’epilogo l’azione umana che si svolge fremente nei due atti. [...]12

455 Una nuova opera di Zandonai?, «Mom-Mus» I/10, 20.12.1928 - p. 1, col. 4

In un’intervista concessa a un redattore dello Svenska Dagblad di Stoccolma, Riccardo Zandonai così ha parlato intorno alla musica d’avanguardia:

«Quanto alla mia posizione di fronte alla musica moderna, cosa che si vuol discutere da parecchi, appare abbastanza chiara nel passaggio atonale che si trova nel secondo quadro dei cavalieri di Ekebù. Parte della musica che accompagna l’azione scenica dei Cavalieri in quel punto è stata da me inserita come una piccola caricatura dei molti bluffatori del giorno d’oggi.

«La modernità per la modernità l’ho sempre detestata e osteggiata». Circa l’esito della sua visita in Svezia, il maestro Zandonai si è proposto di gettare le basi, al suo

ritorno in Italia, per uno scambio di forze fra le scene liriche nostre e quelle svedesi, avendo osservato che l’“Opera” di Stoccolma non ha nulla da invidiare alla “Scala” in quanto a risorse artistiche.

11 L’esecuzione sarà al Teatro Rossini di Pesaro (4.8.1928). 12 Qui segue il racconto dettagliato del libretto.

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«Chi sa – ha conchiuso il Maestro – che la mia nuova opera, la nona, non sia inspirata anch’essa a una leggenda romantica e nordica. Ho la nostalgia di tornare a godere dal podio di Stoccolma nuovi giorni gloriosi».

456 r[affaello] d[e] r[ensis], Riccardo Zandonai annuncia al “Giornale d’Italia” due opere nuove: “La Partita” e “La farsa amorosa” (Nostra intervista col Maestro), «Il Giornale d’Italia», 26.6.1932 - p. 5, col. 2-3-4

Ieri sera, dalla stazione di Roma, è stato trasmesso ai radio amatori Il Grillo del Focolare, la prima opera con la quale Riccardo Zandonai, nel 1908 poco più che ventenne, entrò nel campo dell’arte, preannunziandosi vigorosamente.

Il Grillo del Focolare, concertato e diretto dallo stesso autore, ha rivelato agli ascoltatori di ieri sera i segni di un vero talento operistico, i germi fecondi degl’immancabili futuri sviluppi che condussero a Conchita, Francesca, Giulietta.

Appunto ieri sera m’intrattenni con Zandonai ed ebbi con lui uno di quei cordiali e simpatici colloqui, in cui la grandezza dell’artista s’integra e si completa con l’uguale grandezza morale dell’uomo. Unità non consueta.

Non lo vedevo dall’inverno scorso, quando diresse all’“Augusteo” la prima esecuzione dei suoi Quadri di Segantini col successo che tutti ricordano. Gli chiedevo allora non senza intenzioni se in lui bisognava ormai salutare il sinfonista dato che l’operista da lungo tempo taceva. le sue risposte erano evasive, ambigue, ma mi lasciavano sospettare che qualche segreto celassero, e lo celassero specialmente a me, probabile anzi sicuro propalatore.

Questa volta son tornato sull’argomento e con tale fortuna che non lascio passare neppure dodici ore per comunicarla ai lettori.

In questi anni di apparente silenzio Zandonai, tra l’una e l’altra delle sue brillanti incursioni nel campo sinfonico, non ha mai allontanato il suo pensiero e il suo amore per l’opera (e come poteva, se questa è sua stessa natura?) ed ha sempre ricercato i motivi migliori che lo ispirassero e lo seducessero.

Da gran tempo accarezzava l’idea di un’azione drammatica, da stringersi in un solo atto, per porlo accanto alla Via della finestra ridotta a due atti, e l’idea di un’azione sanamente e schiettamente comica, anzi giocosa.

Le due cose, lo credereste (il segreto dunque covava), sono una realtà completa ed assoluta. Zandonai finalmente si è sbottonato; non molto, perché ieri sera faceva freddo, ma abbastanza

per la mia e l’altrui soddisfazione. Figuratevi che neppure i più intimi amici erano informati della cosa e che soltanto giorni or sono lo furono gli editori Ricordi.

Vita spagnola del Seicento Le due nuove opere, che saranno prontissime per la rappresentazione nella ventura stagione

lirica, benché di genere diverso, sono state composte simultaneamente; non resta che la strumentazione d alcune parti, nella quale, come si sa, Zandonai è fantasticamente veloce.

La prima, su un forte libretto in un atto di Arturo Rossato, ha per titolo La partita [sic] e svolge serratamente un tragico episodio della vita spagnola seicentesca, in quel singolare ambiente di cavalleria decadente e di spavalda galanteria nel quale si affidava talora alla sorte cieca del gioco delle carte ogni fortuna.

In questo libretto son di fronte due cavalieri, desiderosi di misurarsi. L’uno, dopo aver perduto in una disperata partita ogni suo avere, è invitato dall’altro a mettere come posta di una totale rivincita la donna amata. Accetta e perde ancora, cosicché, per pagare il debito d’onore, è costretto a cedere l’amante. Seguono vaste e vibranti scene tra costei, donna di nobili passioni, e il vincitore della partita a carte, che non sarà altrettanto fortunato nella partita d’amore. L’epilogo sale ad impressionanti altezze tragiche.

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L’opera, in dialoghi incisivi e situazioni efficaci, ingemmata da una serenata poetica e suggestiva, quasi simbolo d’un grande amore, dura qualche minuto meno di un’ora.

Ritorno alla tradizione italiana L’altra opera è in tre atti, divisi da cinque quadri con due intermezzi sceneggiati. Zandonai, che si

era così felicemente provato con La via della finestra, seguendo l’esempio dei nostri gloriosi operisti che seppero con tanta umanità alternare il pianto al sorriso, mi dichiara che si è enormemente appassionato alla composizione della sua ultima opera. Ha provato tanto diletto, che ha viva fiducia che altrettanto ne proverà il pubblico.

-Quale pubblico? – ho chiesto. -Mi auguro che sia il pubblico romano, che ha dato il battesimo a parecchie opere mie, tanto più

che il Teatro Reale ha già sperimentato il palcoscenico girante, che sembra fatto apposta, pur senza mio proposito, per la mia opera.

S’intitola La farsa amorosa del villano e il podestà, o, se piacerà meglio, semplicemente La farsa amorosa, ed il libretto è anche del poeta Rossato, che l’ha tratto dalla novellistica popolare più divertente.

Non è agevole riferire in breve la trama, come accade per tutte le opere comiche; d’altra parte, a questo punto della conversazione Zandonai ha sentito il bisogno d’infilare i bottoni nelle asole della giacca. Ed ha detto:

-Preferisco che il libretto, naturalmente ricco di svariati episodi, venga conosciuto, nell’insieme e nei particolari, alla vigilia della rappresentazione. Posso dire che, lungi dal mirare volutamente ad eccentricità ed a stranezze inverosimili, si riallaccia alla tradizione più robusta e vivida dell’opera buffa italiana, ch’ebbe carattere essenzialmente popolare. Si tratta di una gustosa vicenda della campagna lombarda, al tempo della dominazione spagnola. Gli ambienti ora rustici ora sfarzosi, le figure caratteristiche dei personaggi principali e secondari, i sentimenti schietti e freschi, mi sembra abbiano fornito ottima materia anche ad una creazione musicale moderna, ad un tipo d’opera giocosa, spero, divertente.

Zandonai, nella sua modestia, dice spero; invece tutti siamo sicuri ch’egli non vien meno alle sue promesse.

Divertire, ecco ciò che oggi attendono ansiose le folle, alle quali l’opera d’arte, specie quella teatrale, è destinata.

457 Fidia Mengaroni, Le due opere nuove di Riccardo Zandonai nel pensiero dell’autore, «Il Popolo di Roma», 14.1.1933 - p. 3, col. 2-3

PESARO, gennaio. Il vetturale, un giovane bruno con un berretto alla russa di finto astrakan, quando ha saputo che

doveva portarmi da Riccardo Zandonai mi ha detto che l’indirizzo che gli davo non era quello buono.

-Il Maestro è ancora al S. Giuliano. Poi, vista la mia faccia preoccupata, per incoraggiarmi mi ha avvertito che il S. Giuliano “è a

due passi” fuori di Porta Rimini. Traballando, la carrozza rumorosa ha attraversato le strade solitarie, intristite da una nebbia

leggera leggera, ha oltrepassato il ponte sul fiume Foglia, ha affrontato per ultimo una ripida salita. La Villa che il Maestro ha battezzato S. Giuliano, e che Nino Cantalamessa ha deficito “rifugio”,

è davvero a due passi, in una posizione incantevole, dove ancora il verde degli alberi è tanto, e solo qua e là appena ingiallito dall’inverno che comincia.

Un cartello inchiodato in un albero avverte di “fare attenzione ai cani”. Il Maestro, poi divertito, spiega che quella è l’unica bugia di cui si serve, ché i cani hanno una voglia matta di fare festa al visitatore. Tant’è vero che l’ospite, oltre alla sincera e affettuosa accoglienza del Maestro e della

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signora Tarquinia, si guadagna anche le espressioni di “Giosta”, di “Lolita” e di “Pax”, i tre fortunati e magnifici “amici” del Maestro.

-Era mai venuto qui? Sì ero venuto, ma la notte e l’inverno danno alla realtà un fascino nuovo, e la vallata del Foglia,

la città illuminata e infreddolita, il porto dove si indovina il lavoro dei marinai che partiranno per la pesca della notte, vedute di quassù in quest’ora sembrano diversi e misteriosi come quadretti di maniera.

Anche la villa del povero Ercole Luigi Morselli, tutta bianca e silenziosa, fa pensare con maggiore riverenza al dolce poeta pesarese.

In questo incanto il Maestro mi parla di fantasmi artistici, di scenari, di cantanti, di rappresentazioni, di Scala, di Teatro Reale dell’Opera. E quando vede ch’io prendo appunti mi domanda comicamente spaventato:

-Che cosa fa? Poi mi batte una mano sulla spalla e mi dice: -Entriamo. le interviste hanno bisogno del termosifone.

*** Attorno al Maestro e alla signora sono il maestro Romolo Angelotti, il “fedelissimo” antico

compagno di scuola di Zandonai, e Antonio Conti, il giovane commediografo pesarese che ha la specialità di vincere tutti i concorsi teatrali ai quali partecipa. E naturalmente, personaggi importanti: Lolita, Pax e Giosta che se la fanno da padroni da divano a poltrona.

-Quali sono Maestro i suoi impegni per quest’anno? -Ho fatto una scappata da Milano, dove sto dirigendo alla Scala “Giulietta e Romeo”, una delle

mie due novità per quel teatro. -Ma era ancora «Giulietta» una novità per Milano? -Era un’opera nuovissima, e ci sono voluti dieci anni prima che questa sorella di “Francesca”

arrivasse alla Scala. Questa volta il primo teatro del mondo è stato l’ultimo, in ordine di tempo, a rappresentare “Giulietta e Romeo”.

-Le ragioni di tutto questo? -Si dice, caro Mengaroni, che in passato nell’ambiente scaligero non spirasse aria favorevole a

Zandonai. Ora che alla Scala spira “aria marchigiana e veneta” sembra che le cose prendano un altro indirizzo13.

-Eppure “Giulietta” è una brava ragazza che non ha fatto male a nessuno... -Anzi, ha fatto molto bene alle tasche di qualche impresario... E anche l’amministrazione della

Scala non si è pentita di avere pensato alla mia opera... -E dopo le recite di «Giulietta» dove andrà? -Il 13 gennaio farò una scappata a Torino dove l’Eiar trasmetterà a tutto il mondo l’ultimo atto

dei miei Cavalieri di Ekebù, e questa volta il pubblico torinese potrà presenziare alla speciale esecuzione. Poi tornerò a Milano per assistere alle prove della mia opera nuovissima La Partita [sic], che andrà in scena alla Scala il 19 gennaio.

-Dirigerà lei Maestro? -Dirigerà Sergio Failoni, che stimo e ammiro moltissimo. -Come sono distribuite le parti principali? -Rosa Raisa sarà disputata da Nino Piccaluga e dal giovane baritono Piero Biasini. -Mi può dire Maestro qualche cosa su questo atto unico? -Che cosa vuol sapere? -La trama, e poi tutto quello che può interessare il pubblico. -Mi dispiace di non avere più nessuna copia del libretto, e d’altra parte questa bella e riuscita

fatica di Arturo Rossato non è fatta per raccontarsi. Le posso dire che la vicenda è drammatica e ci trasporta nel 600 spagnuolo, e cioè in un ambiente cavalleresco e spavaldo.

13 Probabile allusione alla passata gestione Toscanini e alle attuali presenze alla Scala di Nino Catozzo e del suo

collega Fabbroni.

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Due famosissimi spadaccini, Don Giovanni de Marana e Don José Sandova, giuocatori impenitenti, si trovano di fronte e dopo essersi giuocati fino all’ultimo centesimo finiscono per giuocarsi una donna, Emanuela, un tipo interessante di spagnola tutta fierezza e nobiltà.

Il perno del lavoro è nel finale, dove esistono motivi interessanti e cioè un duello e una serenata. C’è anche una fiala di veleno ma questo non lo dica altrimenti diranno che ho fatto un melodramma giallo.

-E invece che cosa ha fatto? -Ho fatto un’opera romantica, perché il romanticismo è sentimento e si adatta all’arte nostra e al

nostro temperamento. Se il romanticismo è una colpa, sono reo confesso... -Il suo Don Giovanni ha parentele con Don Giovanni Tenorio? -È un altro personaggio, eterno amatore anche questo, ma diverso. Don Giovanni de Marana

infatti confessa nelle ultime battute di essere vincitore ma... sconfitto. -Dopo la Scala dove andrà? -Andrò subito a Roma dove dirigerò al Teatro Reale dell’Opera l’altra mia opera nuovissima, La

farsa amorosa, anche questa scritta su libretto di Arturo Rossato. [-]Qui siamo in un campo completamente opposto da La partita. Ho voluto fare un’opera di

teatro, senza arzigogoli e senza preoccupazioni cerebralistiche. Teatro per il teatro, e infatti io e Rossato abbiamo chiamato quest’opera “scene popolaresche” anche per giustificare certi quadri di folklore nostrano.

-Insomma ha seguito la tradizione dell’opera comica italiana. -Perfettamente, e l’unico scopo nostro è divertire. vedremo se ci siamo riusciti e fino a quale

punto. Come forma l’opera è a "pezzi", e intreccio e melodia sono molto chiari e con intenzioni evidenti. L’ambiente contadinesco si presta alle macchiette paesane, ai tipi umoristici. E in questo senso La farsa amorosa è molto ricca.

-Di dove Rossato ha tratto l’ispirazione per il libretto? -Dalla celebre novella di D’Alarcon, Il cappello a tre punte, che ha dato argomento a molti

lavori stranieri. Ma la Spagna nella vicenda non c’entra: l’azione infatti si svolge in Lombardia, in una epoca imprecisata della dominazione spagnola e l’unico rappresentante iberico è un bel tipo di Podestà.

-Dirigerà lei a Roma? -Sì, e sono molto contento d’avere scelto come interpreti la Mafalda Favero, il tenore Nino

Bertelli e il baritono Carmelo Maugeri, e cioè tre cantanti che hanno la voce e sanno servirsene con buon gusto e intelligenza.

-Quando andrà in scena La farsa amorosa? -Non è fissato il giorno preciso, ma calcolo che avvenga nella terza decade di febbraio. -E dopo ha ancora altri impegni? -I primi di marzo andrò a Genova a dirigere al “Carlo Felice” delle recite di Giulietta e Romeo.

Da Genova partirò per Catania, dove sarà rappresentata La farsa amorosa. -Eppoi? -Eppoi spero di essermi guadagnato il diritto ad un po’ di pace e di potere tornare qui a rivedere

il S. Giuliano in aprile con la fioritura dei mandorli e dei peschi. ***

Fuori lo stesso scenario e le stesse ombre di due ore fa, ma soltanto ora mi accorgo che nel porto le luci bianca, rossa e verde dei fari giuocano a nascondersi con ritmica malinconia.

458 Matteo Incagliati, “La Farsa amorosa” di Zandonai - Quattro chiacchiere col Maestro tra una prova e l’altra, «Il Messaggero», 7.2.1933 - p. 3, col. 6-7

Entrato per caso per via Firenze nel Teatro Reale dell’Opera, poco dopo mezzogiorno – l’ora delle prove in orchestra –, mi giunse piacevole all’orecchio il suono di una musica gaia e melodiosa.

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Fui invogliato a inoltrarmi nella sala. E con sorpresa, perché ignoravo che fosse a Roma, vedo agitarsi sul podio direttoriale, con la bacchetta in mano, la breve e caratteristica figura di Riccardo Zandonai. Faceva leggere per la prima volta all’orchestra la partitura della nuovissima sua opera, La farsa amorosa, il cui titolo, simpaticamente, ci dice che aspira a metterci, grazie a Dio, buon umore.

Naturalmente mi son fermato un po’ ad ascoltare, a pregustare, per quanto le frequenti sospensioni dell’orchestra per ripetere le battute o i passi difficili, e l’assenza dei cantanti, sostituiti in ognuna delle loro parti dal canticchiare a mezza voce, piuttosto rauca, dell’illustre autore-direttore, riducessero al minimo la mia comprensione, lasciandomi presso a poco all’oscuro della nuova opera, salvo la prima impressione di una musica fluida e briosa.

Attesi che le lampadine rosse – segnale convenuto – s’illuminassero alle due estremità della ribalta per indicare il quarto d’ora di riposo all’orchestra e al direttore. Ed ecco Zandonai, rivolgendosi, non mostrarsi gradevolmente sorpreso nello scorgere in sala un uditore della sua musica e della sua mezza-voce; ma, riconosciutomi, rabbonì il viso e mi venne incontro dicendomi:

-La mia musica è quella che è, ma la mia voce, vi avverto, è migliore di questa che avete udito. Sono raffreddato. Vi prevengo anzi che diverrò afono, se foste capitato qui per farmi... cantare sulla mia opera, anticipando qualche intervista. Manca parecchio all’andata in scena.

-Caro Maestro e amico – replicai. Prima di tutto sincerità. La vostra infreddatura non è che un trucco. Quanti cantanti, semplicemente infreddati, cantano lo stesso e bene? La verità è, caro Zandonai, che la vostra voce è finita. Nel mondo lirico è notorio, ormai, che soffrite di faringite cronica per eccesso di spesa quotidiana in sigarette. Quante ne fumate? Cinquanta, settanta al giorno?...

-Questa è una calunnia di amici troppo zelanti i quali si occupano della mia salute. Voi, come critico, limitatevi a calunniare la mia musica.

-Calunnia? È storia, caro Maestro, storia passata alle stampe... La prima pagina dello spartito per canto e piano della vostra ultima opera, La Partita [sic], datasi lo scorso mese con tanto schietto successo alla Scala... senza che nessun critico la calunniasse... reca il vostro ritratto in foto-incisione, dove siete immortalato da una lunga sigaretta fra le labbra...

-Toccato! – confessò il Maestro –. Preferirei, se mai, che l’immortalità mi venisse non dalla prima, ma dalle altre pagine dello spartito.

-Non lo escludo, ma non posso, come vorrei, darvene uguale profetica assicurazione. D’altronde La Partita è un lavoro in un atto solo e preferirei sbilanciarmi con la profezia dell’immortalità nell’occasione più importante di una opera in tre atti, cinque quadri e due intermezzi scenici come la Farsa amorosa: opera di genere comico per giunta, nella quale spavaldamente vi cimentate per la prima volta, rompendola con la esclusiva reputazione di compositore drammatico regalatavi da eroine riconoscenti quali Francesca e Giulietta.

-Ahi! Vedo che battete sulla Farsa amorosa... Mi volete per forza far cantare. Ma sto in guardia. Dico soltanto che non mi son sentito nuovo, come credete, al soggetto comico. La mia Via della finestra è un’opera semiseria, e I Cavalieri di Ekebù contengono scene assolutamente burlesche. Comunque, è nella grande tradizione degli operisti, alla quale tento di far onore, il trattare anche l’opera comica, da Rossini a Wagner, da Verdi a Mascagni, a Puccini a Giordano.

-Toccato io questa volta! Ma non è di tutti i giorni trovare un buon libretto comico. -È vero, ma come il mio collaboratore e poeta, Arturo Rossato, mi ha dato per la Partita,

traendolo abilmente da un famoso dramma di Alessandro Dumas padre, un libretto drammatico che ha "preso" il pubblico scaligero, così spero mi abbia apprestato per La Farsa amorosa, traendolo da un piccolo capolavoro della letteratura spagnuola, un soggetto divertente. D’altronde, in fatto di libretti, l’andazzo è di dirne male. Ricordate quel che si disse del libretto dell’Iris? E sta in piedi da oltre trent’anni con la sua originalissima musica che, come tale, neppure fu risparmiata. Ricordate quel che fu detto dei libretti – e anche della musica – di Tosca e di Madama Butterfly, opere le quali non girerebbero il mondo se l’azione scenica non le sorreggesse? Ma, si sa, uno spettatore intelligente può approvare una musica, giammai un libretto. Il tempo poi fa spesso giustizia di lui, rendendola al povero librettista.

-D’accordo. Ma insomma, Maestro, quando andrete in scena con La farsa amorosa?

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-Il “calendario” del Teatro Reale fissa la prima rappresentazione per la sera del 22 di questo mese; e io, conducendo innanzi la concertazione intrapresa, procurerò di tener fede al “calendario”.

-E gli interpreti sono stati scelti, com’è fissata la data della “prima”? -Tutti e bene. Una compagnia coi fiocchi, che Govoni, con la sua bravura incontestata di regista

e col buon gusto, sta già addestrando. Saranno noti fra breve i cantanti, e saranno bene accetti. Ma io non li nomino per non dare il menomo appiglio a vantarvi di avermi fatto cantare, ad onta della mia gola avariata, sulla Farsa amorosa. Addio, ricomincia la prova d’orchestra.

Una stretta di mano, e poi la gola di Zandonai s’infervora al canto, nonostante, come dice lui, sia avariata.

459 Raffaello De Rensis, Musica e libretto della “Farsa amorosa” in un colloquio con Zandonai e Rossato, «Il Giornale d’Italia», 19.2.1933 - p. 3 (con un ritratto di Zandonai e uno di Rossato)

-Be’, ho chiesto a Riccardo Zandonai e ad Arturo Rossato, come procedono le prove della Farsa amorosa? Si andrà in iscena giovedì?

-Procedono con nostra grande soddisfazione e, salvo imprevisti, andremo in iscena giovedì – mi han risposto in un duo melodioso. Poi, per non affaticarli nella sincronia vocale, ho pensato di farli cantare uno per volta. A mia domanda, Rossato narra le origini e le vicende, veramente originali e gentili, del libretto.

Il libretto conteso Il libretto della Farsa amorosa, o meglio le scene popolaresche in tre atti, cinque quadri e due

intermezzi scenici sono tratti, come ormai si sa, dal famoso piccolo romanzo di Pietro Antonio De Alarcón El sombrero de tres picos, ritenuto un capolavoro della letteratura umoristica spagnola dell’Ottocento...

-Quello a cui s’è ispirato De Falla per il suo balletto omonimo Il cappello a tricorno... -Precisamente, ma non solo De Falla: anche un altro maestro spagnolo ha composto una

zarzuela, Tambien la corregidora es guapa; anche Hugo Wolf, quello del lied, ha scritto El corregidor y la Molinera, che spesso trasmette la radio di Berlino, ed altri. Ma essi han dovuto servirsi di un’antica canzone popolare e non del romanzetto di De Alarcón, poiché questi in una clausola testamentaria dichiara la volontà precisa di non permettere alcuna utilizzazione per teatro. Ed il figlio di De Alarcón rispetta tenacemente questa volontà e nessun argomento lo commuove. Tempo addietro anche un illustre compositore italiano s’era innamorato del Cappello a tre punte, ma non riuscì ad ottenere l’autorizzazione.

La scena in Italia

-E come siete riusciti, voi e Zandonai, a strappare l’autorizzazione? -Noi, in verità, non ci siamo preoccupati di questo ostacolo e ci siamo invece messi

entusiasticamente al lavoro, io alla stesura del libretto e Zandonai della musica. Nel frattempo io ho fatto qualche indagine sulle fonti storiche del racconto popolare, a fine di opporle in caso di contestazione e di giudizio. Compiuta l’opera nel più gaio e reciproco fervore, soltanto per scrupolo e senza speranza avvertimmo il figlio ed erede del romanziere indirizzandogli qualche frase patetica. Ebbene, lo credereste? La fortuna ci ha soccorso. Il buon figliolo s’è intenerito e s’è inchinato dinanzi al nome di Zandonai.

-Ha chiesto un compenso? -Questo sì. Ha chiesto... le nostre fotografie con dedica e lo spartito con autografo del maestro

per deporli tra i preziosi ricordi del Museo paterno, che in quest’anno centenario della nascita di P. A. De Alarcón sarà aperto al pubblico. Anzi dirò di più, non è escluso che La farsa amorosa venga rappresentata in quest’anno stesso in Ispagna.

Ora un’ultima domanda, e termina l’interrogatorio del primo imputato. -Per quale motivo voi, Rossato, avete trasmessa l’azione dalla terra d’origine in Italia?

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-Per evitare di cadere nel solito e sfruttato spagnolismo, per costruire un ambiente italiano popolaresco, per dar modo al musicista di far vibrare la sua calda anima natìa, per stabilire un contrasto tra la pomposità spagnola (il Podestà e la podestessa) dominante nella Lombardia del Seicento e la ingenuità fresca e sorridente del contadino lombardo, cioè di Renzo e Lucia.

-Perché l’avete chiamata La farsa amorosa? -Amorosa perché c’è un intreccio d’amore, farsa perché quest’intreccio ha carattere buffo, fino

al punto che nell’elenco dei personaggi figurano Ciccio e Checca, due somarelli innamorati che, vedrete, canteranno a perfezione.

Ritorno alla tradizione Ed ora sentiamo Zandonai: -Ecco, ho sentito il bisogno innanzitutto di allietare la mia fantasia dopo tante creazioni

drammatiche, ed anche con la speranza di recare un po’ di gioia nell’animo del pubblico attuale, che forse la reclama. Ho voluto riprendere decisamente la tradizione della nostra opera buffa, così ricca di capolavori, pur senza rinunziare, e si capisce, ai valori tecnici ed estetici proprii della mia arte e quindi del mio cuore.

[-]Riprendo l’uso del recitativo naturalmente con le virtù espressive che il progresso suggerisce e restituisco al canto quei contorni strofici, chiusi, conclusi (del resto da me mai ripudiati) che procurano tanto godimento alle collettività. Duetti, terzetti, filastrocche, brindisi, concertati, intermezzi si succedono in perfetta adesione con lo sviluppo della farsa. Il nucleo di questi canti deriva spessissimo da temi creati sulle antiche canzoni dell’Alta Italia. Tutto l’ambiente è schiettamente paesano, campagnolo, nostrano. Quanto allo strumentale siamo lontanissimi dal polifonismo di Francesca ed anche di Giulietta: esso scorre semplice, trasparente, intinto di coloriti e d’ornamenti che direi raffinati ma sempre leggeri e vaporosi. L’orchestra, anche perché siamo nel campo dell’opera buffa dove la parola e il dialogo devono emergere, è sempre sottomessa alle esigenze del canto. Insomma, restaurazione totale del canto italiano.

E la sinfonia? Osservo: -Propositi splendidi degni di Riccardo Zandonai, ma perché la nuova opera possa dirsi una vera

e propria opera buffa manca una cosa... -Quale? -Che diamine! La sinfonia. Nello spartito stampato non c’è. Zandonai prorompe in una delle sue simpatiche e scoppiettanti risate: -È vero. Me n’ero dimenticato; ma, durante le prove, tanto io che i miei valenti professori

d’orchestra ne andavamo via via lamentando l’assenza. Cosicché, proprio in questi giorni, nella mia camera d’albergo, l’ho composta senza fatica, allegramente, con i temi dell’opera, come una impetuosa necessità. L’ho strumentata e l’orchestra giovedì sera la eseguirà sul manoscritto.

Ed a questo punto libero anche Zandonai, non senza dargli, ottocentescamente, l’augurale: in bocca al lupo.

460 m[atteo] i[ncagliati], “Orazi e Curiazi” nuova opera di Zandonai per il teatro di masse all’aperto, «Il Messaggero», 17.10.1937 - p. 3

Gli avevo promesso di tenere il segreto, almeno per un certo tempo; ma la notizia va trapelando in qualche ritrovo musicale, e a me pesa ormai di tacerla ai lettori, che mi saranno grati della primizia. Non se ne dorrà, spero, nemmeno il maestro Zandonai.

Gustosa primizia, poiché dall’autore di Francesca il pubblico – che lo stima e lo sa genialmente operoso e fecondo – non fu mai deluso nelle sue aspettative: alla Francesca infatti seguirono, per non citarle tutte, opere come Giulietta e Romeo, I Cavalieri di Ekebù (che riavremo finalmente

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nella prossima stagione al Reale) e La Farsa Amorosa, le quali opere, di vario genere ma di pari valore, tennero alta la sua reputazione e viva la sua popolarità.

La settimana scorsa, quando il maestro era a Roma per dirigere Giulietta e Romeo alla radio (due esecuzioni, sotto la sua bacchetta, tra le più riuscite della stagione dell’Eiar), seppi per caso che egli era stato visto aggirarsi nelle Terme di Caracalla, là dove si svolsero, l’estate scorsa, le rappresentazioni all’aperto. Lo accompagnava un autore ben noto di libretti e squisito poeta, Claudio Guastalla; i due perlustravano, pareva anzi studiassero quel luogo che diverrà il più suggestivo teatro per grandiosi spettacoli lirici.

Era facile sospettare che qualcosa essi tramassero, s’intende artisticamente. E poiché da tempo si sente domandare -che fa Zandonai? possibile che non lavori a una nuova opera? – procurai d’incontrarlo. Lo interrogai, naturalmente; e interrogai poi anche Claudio Guastalla. Interrogatorii laboriosi in sulle prime, ma in grazia della buona amicizia ebbi le confidenze che le circostanze, come dissi in principio, m’invogliano ora, senza alcun danno, a tradire.

Riccardo Zandonai lavora dunque ad un’opera che è destinata alle rappresentazioni all’aperto, concepita cioè per il “Teatro di masse” quale fu indicato dal Duce fra le sue grandi direttive.

-Me ne ha offerto materia – mi ha detto il maestro – Claudio Guastalla con un libretto largo di concezione e di linea, ma rapido nell’azione e dai potenti contrasti. Un’ora forse di spettacolo, quanto basterà a un esperimento che osiamo tentare per un "teatro di popolo", un teatro che è una novità antichissima. Il soggetto? L’epica leggenda degli Orazi e Curiazi che è fra le più belle e note della nostra tradizione e può idealmente ricollegarsi all’attualità italiana, perché documento del vivo patriottismo, dello spirito guerriero e dell’alto sentire dei romani dei primi secoli. “Non c’è altro fatto dell’antichità più nobile di questo” dice scultoriamente lo stesso Tito Livio che ce lo narra. È noto che l’eccelso poeta francese Corneille ne ha tratto una delle tragedie più potenti e famose di quel suo teatro che fu ed è scuola di grandezza d’animo. E ne trasse già un melodramma, ai suoi tempi applauditissimo, il nostro Mercadante, beninteso nelle forme superate del primo Ottocento.

Dell’ottocento taluni celebri melodrammi hanno dimostrato nell’estate scorsa tanta vitalità da resistere anche nei vasti ambienti all’aperto, così diversi da quelli per cui furono creati. Perché non dovremmo oggi noi tentare l’opera concepita per tali ambienti, inspirata e composta per il teatro di masse, per quelle folle innumerevoli, così pronte nelle loro impressioni e così schiette nelle manifestazioni, che abbiamo visto, nell’estate ultima, accorrere in tutti i teatri all’aperto?

[-]Dalle rappresentazioni dell’agosto alle Terme di Caracalla si usciva, in chi si dedica al teatro, con l’anima accesa e volta a nuovi orizzonti. Sperimentiamoci – ci siamo detti il librettista e io – in una composizione teatrale che abbia, a mo’ di esempio, per scenario un monumento vero, con le sue mura, i suoi ruderi secolari e eloquenti, nel quale il coro possa avere parte quasi protagonistica e che forse si avvalga anche di qualche sussidio modernissimo per la chiara audizione in ambienti enormi. Né occorre aggiungere che a un’azione immaginata per una scena di grande architettura possa e debba corrispondere una musica con forme e mezzi di espressione modernamente adeguati.

Alla mia domanda se la nuova opera sarà pronta per la stagione prossima estiva dei teatri all’aperto, Zandonai ha risposto che confidava fermamente di sì; -confido, ha aggiunto, che né tempo né lena mi vengano a mancare di fronte ai problemi tecnici ed estetici non semplici che mi si presentano.

Ma ad un operista già temprato dai grandi soggetti, ad un compositore rapido e fecondo quale Riccardo Zandonai, né tempo né certamente la lena potranno mancare: tutti augurano che alla cospicua sua produzione presto si aggiunga quest’altra opera, per vari caratteri nuovissima, che sono lieto di essere primo ad annunziare14.

461 Fidia Mengaroni, L’avvenire del Conservatorio Rossini in una intervista con Zandonai - Un programma minimo e un programma massimo - Zandonai incaricato di un corso di

14 v. Appendice III, nota 13.

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perfezionamento per laureati in composizione, «Il Popolo di Roma», 21.12.1940 - p. 2, col. 1-2-3 (con un grande ritratto fotografico di Zandonai) (Dal nostro inviato)

PESARO, settembre. - La Scuola musicale pesarese, si chiami Liceo o Regio Conservatorio, rimane legata alla città, una specie di sintesi di gloria, di interessi e di problemi.

Quando il Liceo Rossini ha perduto prestigio ed ha vivacchiato nelle ristrettezze finanziarie e artistiche, l’intera vita cittadina è calata di tono. La Scuola celeberrima, sanguigna ai tempi di Mascagni (un Mascagni trentenne e quindi vulcanico e dispotico) era diventata spaventosamente anemica: senza l’intervento del Regime, e cioè senza la regificazione, il Liceo Rossini avrebbe conosciuto altre decisive amarezze.

Voi sapete come il problema è stato radicalmente risolto: la Scuola è passata dalle mani del Comune a quelle dello Stato e a dirigere il nuovo R. Conservatorio musicale Rossini è stato chiamato Riccardo Zandonai. Si è in questo modo esaudito l’ardentissimo voto delle generazioni della guerra e della rivoluzione, che da decenni invocavano per il vecchio e caro Liceo la mano risanatrice di Zandonai che per essere... Zandonai, pesarese non soltanto ad honorem, allievo del Liceo, [era] il solo che avesse tutti i numeri per dare alla scuola di piazza Olivieri la linfa per diventare l’organismo vivo del quale Pesaro ha assoluta necessità.

*** Zandonai da qualche anno ha abbandonato la vecchia e piccola casa di Porta Fano, dove sono

nate Francesca, Giulietta e tutte le altre eroine che hanno reso celebre il Maestro trentino, e vive quasi costantemente in un rifugio incantevole, San Giuliano, che sorge all’inizio del monte San Bartolo, poco lontano dalla villa bianca del povero Ercole Luigi Morselli (che Pesaro dovrebbe degnamente ricordare).

Zandonai ha creato lassù un angolo incomparabile: i due corpi della villa sono uniti da un arco e la scalinata, il pozzo quattrocentesco, la festa di fiori e di verde fanno pensare appunto a Francesca. Al cancello c’è scolpita la frase musicale del Giuliano “Ogni pianta apre il suo cuore e canta” e le piante, nel dolcissimo crepuscolo settembrino, avvolgono il visitatore come in un sogno. Pesaro appare dal poggio vicinissima e irreale per il giuoco dei colori: il mare azzurrissimo a sinistra, in fondo il Monte Ardizio, a destra la placida e morbida valle del Foglia, e laggiù l’occhio gode le verdi ondate dei monti senza cime e senza asprezze che sembrano facciano da coro alla solennità del Monte Carpegna.

Zandonai è innamorato dell’incomparabile paesaggio che presenta, a me pesarese, con espressioni colorite e entusiastiche: da questo belvedere il Maestro mi parla dell’avvenire del Conservatorio.

*** -Non posso fare anticipazioni, e d’altra parte il mio programma è allo stesso tempo molto

semplice e complesso. Mi propongo di dirigere una scuola che sia all’altezza della tradizione, capace di preparare le masse studentesche che vogliono intraprendere la carriera musicale. Tutte le materie avranno un grande insegnante: i professori li ho scelti, come si dice, nel mazzo, e rappresentano il meglio che esiste in Italia. Nomi non ne posso fare, ma scrivete con completa convinzione che il Conservatorio avrà una massa insegnante d’eccezione, esecutori di gran lustro che saranno la base per l’intensa attività sinfonica e teatrale che mi prometto di sviluppare. Io voglio che il Conservatorio pesarese sia, fra tutti, quello specializzato a indirizzare i giovani al teatro lirico: il Ministero, che ha pienamente approvato il mio programma, ha concesso che la Scuola intitolata a Rossini abbia una cattedra speciale alla quale potranno inscriversi i laureati di tutti i conservatorii italiani. Questo corso di perfezionamento che mi è stato affidato è della massima importanza e penso sarà accolto con particolare interesse. Una cattedra di tal genere darà a Pesaro un compito preciso che potremo sviluppare, oltre che con gli interventi ministeriali, con la rendita dell’eredità Rossini.

Pesaro meritava un così importante privilegio sopratutto perché i concittadini dell’autore del Barbiere di Siviglia hanno avuto dal Padre Eterno un invidiabile gusto musicale. Nel Teatro il pubblico è il vero protagonista e quindi in nessun posto come a Pesaro era giusto che l’Italia

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musicale istituisse una cattedra del genere. Aggiungete che qui l’attrezzatura è sotto ogni aspetto di eccezione: abbiamo cioè un Teatro Rossini che è un capolavoro di acustica e di perfezione, e un Conservatorio che ha la sede ideale per ospitare qualunque avvenimento musicale.

L’impostazione del problema non potrebbe essere più chiara. Zandonai ha naturalmente stabilito che tutti i settori del quale il teatro lirico ha bisogno siano completamente in efficienza a cominciare dalla scuola corale che dovrà dare le masse indispensabili per le rappresentazioni liriche.

-In questo modo – dice il Maestro – obbediremo alle disposizioni testamentarie di Rossini che voleva appunto che la scuola pesarese curasse in particolar modo la composizione e il canto.

*** Conoscitore profondo di Pesaro e di tutti i suoi problemi, Zandonai oltre al programma,

diciamo minimo, che consiste nel florido funzionamento del Conservatorio, ha in mente un programma massimo la cui risoluzione dipenderà da altissimi interventi.

Secondo Zandonai, insomma, Pesaro deve diventare per Rossini quello che Salisburgo ha saputo diventare per Mozart. Il Festival musicale di Salisburgo da gran tempo ha saputo interessare una, diciamo, clientela europea e mondiale. Ogni anno per il Festival intitolato a Mozart, Salisburgo raduna una imponente massa di ascoltatori attratti da un programma operistico e sinfonico. In questi programmi si rappresenta in gran parte Mozart ma non si dimenticano né Rossini né Verdi. Salisburgo si è attrezzata a ricevere tanti ospiti ai quali offre oltre che le serate musicali infiniti ricordi di Mozart, raccolti in museo.

-Pesaro deve fare altrettanto – mi dice Zandonai –. Rossini con la sua inesauribile vena ha creato una produzione unica, sufficiente ad alimentare per decenni programmi... nuovissimi. Io lavorerò perché i festeggiamenti rossiniani avvengano ogni anno e siano per gli interpreti una specie di “università rossiniana”. Un così vasto problema non può dimenticare l’allestimento di un museo esclusivamente dedicato a Rossini. Né bisogna dimenticare il problema degli alberghi di cui Pesaro difetta. Come vedete, il discorso porta anche fuori del campo strettamente musicale e investe una grande mole di lavori.

Ho lasciato Zandonai sempre più convinto che gli artisti, quando ci si mettono, insegnano agli uomini anche la virtù di realizzare i sogni...