“LETTERE DALLA BIRMANIA” … · RACCONTI DI VIAGGIO | Birmania-Myanmar Da un Dolce Burma gruppo...

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56 - Avventure nel mondo 2 | 2017 L a decisione di un viaggio in Birmania, anzi in Myanmar, normalmente non arriva all’improvviso; è uno di quei luoghi che entrano presto nell’immaginario del viaggiatore. L’idea è coltivata nel tempo, alimentata dalle letture e dalle notizie attraverso i giornali, la tv, il web. Prima di tutto c’è la curiosità per un paese che a noi pare rimasto fermo nel suo passato, dopo l’indipendenza dalla dominazione inglese, durata mezzo secolo, seguita dalla dittatura imposta dalla giunta militare, che dal 1988 ha tenuto la Birmania ai margini del mondo fino a oggi. Un paese di cui si è parlato poco nelle cronache internazionali in questi ultimi anni, se non in occasione di notizie riguardanti la repressione del dissenso da parte del feroce regime e in particolare per le vicende della leader carismatica dell’opposizione Aung San Suu Kyi, rimasta per quasi venti anni tra arresti domiciliari e libertà vigilata. Non sappiamo molto della Birmania; si sono letti i racconti di grandi testimoni, dai “Giorni birmani” di Orwell, ai reportage di Tiziano Terzani, con i suoi libri “In Asia” e “Un indovino mi disse”. L’interesse e la curiosità per il Myanmar si sono fatti più vivi negli ultimi anni, dopo le aperture del regime e la liberazione di Aung San Suu Kyi, avvenuta nel novembre 2010, che le ha permesso finalmente di ritirare il Premio Nobel per la pace conferitole nel 1991, di partecipare alle elezioni politiche nazionali dell’aprile 2012 ed essere così eletta al parlamento. Le aperture del regime, le prime riforme, unite all’eliminazione delle sanzioni dell’UE nell’aprile 2012 e la fine dell’embargo americano nel maggio dello stesso anno, seguita dalla visita di Obama nel mese di novembre 2012, hanno stimolato importanti processi di transizione ed hanno accresciuto l’interesse internazionale verso questo paese, con un grande impulso ai movimenti turistici (gli esperti prevedono un aumento del 300/% nel 2012). Quest’aumento dei flussi turistici, se da un lato lascia intravedere possibili benefici economici per la popolazione, dall’altro ha conseguenze non sempre positive dal punto di vista del visitatore e sta provocando per esempio la salita vertiginosa dei prezzi dei servizi Testo e foto del coordinatore Rossano Ossi “LETTERE DALLA BIRMANIA” Viaggio in Myanmar tra passato e presente. Incontro con un popolo gentile, tra migliaia di pagode e il microcosmo del Lago Inle. Da un Dolce Burma gruppo Rossano Ossi www.viaggiavventurenelmondo.it/viaggi/3630 RACCONTI DI VIAGGIO | Birmania-Myanmar

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RACCONTI DI VIAGGIO | East Africa

L a decisione di un viaggio in Birmania, anzi in Myanmar, normalmente non arriva all’improvviso; è uno di quei luoghi che

entrano presto nell’immaginario del viaggiatore. L’idea è coltivata nel tempo, alimentata dalle letture e dalle notizie attraverso i giornali, la tv, il web. Prima di tutto c’è la curiosità per un paese che a noi pare rimasto fermo nel suo passato, dopo l’indipendenza dalla dominazione inglese, durata mezzo secolo, seguita dalla dittatura imposta dalla giunta militare, che dal 1988 ha tenuto la Birmania ai margini del mondo fino a oggi. Un paese di cui si è parlato poco nelle cronache internazionali in questi ultimi anni, se non in occasione di notizie riguardanti la repressione

del dissenso da parte del feroce regime e in particolare per le vicende della leader carismatica dell’opposizione Aung San Suu Kyi, rimasta per quasi venti anni tra arresti domiciliari e libertà vigilata. Non sappiamo molto della Birmania; si sono letti i racconti di grandi testimoni, dai “Giorni birmani” di Orwell, ai reportage di Tiziano Terzani, con i suoi libri “In Asia” e “Un indovino mi disse”. L’interesse e la curiosità per il Myanmar si sono fatti più vivi negli ultimi anni, dopo le aperture del regime e la liberazione di Aung San Suu Kyi, avvenuta nel novembre 2010, che le ha permesso finalmente di ritirare il Premio Nobel per la pace conferitole nel 1991, di partecipare alle elezioni politiche nazionali dell’aprile 2012 ed essere così

eletta al parlamento. Le aperture del regime, le prime riforme, unite all’eliminazione delle sanzioni dell’UE nell’aprile 2012 e la fine dell’embargo americano nel maggio dello stesso anno, seguita dalla visita di Obama nel mese di novembre 2012, hanno stimolato importanti processi di transizione ed hanno accresciuto l’interesse internazionale verso questo paese, con un grande impulso ai movimenti turistici (gli esperti prevedono un aumento del 300/% nel 2012). Quest’aumento dei flussi turistici, se da un lato lascia intravedere possibili benefici economici per la popolazione, dall’altro ha conseguenze non sempre positive dal punto di vista del visitatore e sta provocando per esempio la salita vertiginosa dei prezzi dei servizi

Testo e foto del coordinatore Rossano Ossi

“LETTERE DALLA BIRMANIA”Viaggio in Myanmar tra passato e presente. Incontro con un popolo gentile, tra migliaia di pagode e il microcosmo del Lago Inle.

Da un Dolce Burma gruppo Rossano Ossi

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Testo e foto del coordinatore Rossano Ossi

“LETTERE DALLA BIRMANIA”

turistici.Al di là delle vicende politiche nazionali, l’interesse per il Myanmar nasce in gran parte dalle sue notevoli risorse storiche e artistiche, legate soprattutto all’architettura religiosa e più in generale alla religione, che in questo paese sembra avere un ruolo decisivo nella vita delle persone, talvolta in forme che i nostri occhi impreparati faticano parecchio a capire. Un viaggio in Myanmar offre certamente anche spunti di riflessione ma ci regala soprattutto emozioni e momenti unici: osservare il tramonto sulla sterminata distesa di pagode a Bagan, è uno spettacolo che vale il viaggio. Ci sono poi numerosi altri siti di straordinaria bellezza che meritano sicuramente una visita, come l’affascinante, isolata Kakku o i tanti luoghi di culto e le vestigia storiche di Mandalay e delle vicine antiche città imperiali. Un cenno a parte per il Lago Inle. Si tratta di un ambiente assolutamente speciale, sia dal punto di vista naturale che da quello antropologico. L’escursione in barca sul lago è una sequenza continua di emozioni. I suggestivi scenari che prendono forma con il dissolversi delle nebbie mattutine, i villaggi su palafitte, l’animazione nelle case sull’acqua, gli orti galleggianti, le straordinarie figure dei pescatori che sulle tipiche barche remano con la gamba, i mercati, le tante scene di vita alle quali assistiamo, rappresentano uno straordinario micromondo che ci fa pensare a una sorta di Venezia arcaica. Un altro elemento di grande interesse è costituito dalle numerose etnie che vivono nei sette stati del paese, sebbene i nostri tempi stretti e gli itinerari quasi obbligati, ci abbiano consentito solo un modesto “assaggio” di queste diversità culturali.A completare il piacere di un viaggio in Myanmar, c’è l’incontro con la sua popolazione. Si tratta di un popolo gentile e accogliente, sempre pronto al sorriso, un sorriso coinvolgente e contagioso, che ci ricorda la distanza abissale tra questo mondo “primitivo” e il nostro mondo “progredito”, dove un sorriso spontaneo e un viso sereno sono sempre più rari. Vediamo le misere condizioni in cui essi vivono e ci chiediamo come questo stato d’indigenza e arretratezza possa conciliarsi con i loro sorrisi. C’è da chiedersi se i nostri frettolosi e superficiali sguardi ci restituiscono un quadro vicino alla realtà. Se i nostri occhi provano ad andare oltre l’apparenza, oltre l’aspetto esteriore sorridente dei volti, ci pare di scorgere tanta rassegnazione e un velo di malinconia. Qualcuno sostiene che la religiosità così presente nella vita dei birmani, favorisce questa serenità apparente, aiutandoli ad accettare le povere condizioni della vita quotidiana e persino le vessazioni del regime dittatoriale. Come c’è già capitato per nostri precedenti viaggi in Asia, per cercare di capire meglio la realtà locale, ricorriamo di nuovo all’aiuto delle parole di Tiziano Terzani, che descrive così questo popolo:“Nella tradizione birmana, il potere è sempre stato visto come espressione della volontà divina; per questo i misfatti commessi dai regnanti non hanno mai eccessivamente scandalizzato la gente. Stranamente è così ancor oggi. La dittatura militare

che tiene in pugno il Paese, dopo aver massacrato alcune rnigliaia di persone nel 1988, continua ora ad arrestare, torturare e uccidere i suoi oppositori, ma la massa della popolazione sembra accettare tutto questo come un malanno mandato dal cielo contro il quale c’è poco da fare. A suo modo la storia sembra semplicemente ripetersi………le masse sono come rassegnate a sentire che il loro destino è nelle mani dei potenti, che di solito sono crudeli e spesso semplicemente matti.”.

Ci vengono in mente spesso queste parole di Terzani durante il nostro viaggio e in particolare quando procedendo in bus verso la “Golden Rock”, si presenta improvvisamente ai nostri occhi questa scena: lungo i margini della strada, alcuni uomini con le catene ai piedi lavorano alla manutenzione delle banchine con delle zappe, sotto gli sguardi di soldati armati. Forse le concessioni politiche e le liberalizzazioni economiche del regime e le aperture dell’occidente di cui tanto si parla oggi, sono ancora lontane dal garantire in questo paese qualcosa di simile a una democrazia? Questa sorta di transizione che ci pare comunque di scorgere, verso quale direzione porterà? Il Myanmar seguirà la stessa strada della vicina Thailandia, che porta ai modelli economici e culturali occidentali? Riuscirà il Myanmar a conciliare le legittime esigenze di sviluppo economico con la tutela della propria cultura, delle tradizioni e dell’ambiente? Ovviamente il nostro viaggio, con i suoi tempi ristretti ed esperienze limitate, non ci consente di trovare qualche, se pur vaga, risposta a queste domande.

Il nostro viaggio è avvenuto verso la fine del 2012 ed è durato diciassette giorni. L’itinerario ha compreso alcune delle tappe classiche. Da Yangon a Mandalay e le vicine antiche capitali, cariche di testimonianze storiche e artistiche. Da Mandalay ci siamo trasferiti a Bagan, a bordo della barca lenta utilizzata dalla popolazione locale, un’esperienza di condivisione molto interessante; Bagan rappresenta una tappa obbligata tra le più emozionanti: la magia del tramonto visto dall’alto sulla selva di pagode, è uno spettacolo da sogno. Da qui si è raggiunto il Lago Inle, attraverso paesaggi che avrebbero offerto parecchi spunti a un pittore.

RACCONTI DI VIAGGIO | Birmania-Myanmar

Da un Dolce Burma gruppo Rossano Ossi

Bagan - Panorama

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Il Lago Inle ci ha regalato momenti d’incanto da conservare a lungo nella nostra memoria; si tratta di un luogo indubbiamente speciale, sia per gli scenari naturali, sia per gli insediamenti e lo stile di vita degli abitanti. Un cenno a parte sulla Golden Rock, dove abbiamo terminato il nostro viaggio. Anche questo luogo è normalmente incluso nell’itinerario classico; si tratta di un’interessante testimonianza della fede buddista, non solo birmana. Tuttavia, dopo due settimane di un viaggio caratterizzato fortemente dalla religione, sia nella sua espressione artistica, sia nella vita quotidiana degli abitanti, c’è da chiedersi se si è ancora in grado di apprezzare un altro luogo di culto o se piuttosto non si avrebbe bisogno di una tregua, una pausa di riflessione, o anche di ozio della mente, con un cambiamento drastico di scenario.

Parto da Roma con altri sei compagni: Ornella, Luca, Natalia e Massimo, Tiziana e Tarcisio; in sette partono da Milano: Linda e Vito, Marina e Mariano, Eli, Simonetta, Barbara. Quasi metà del gruppo è composta di amici che hanno già condiviso numerose esperienze di viaggio ed è ogni volta un grande piacere ripartire insieme per una nuova avventura. C’incontriamo tutti a Doha. Durante le due ore o poco più di attesa per il volo per Yangon, nominiamo il cassiere che gestirà la cassa comune (Vito). Il nostro piano voli è ottimo, con voli a orari comodi e senza lunghe attese tra un volo e l’altro ed è inoltre molto innovativo rispetto ai gruppi di Viaggi nel Mondo che ci hanno preceduto, infatti nel nostro caso è stato eliminato lo scalo di Bangkok e questo significa avere ben due giorni in più da trascorrere in Myanmar.

Atterriamo a Yangon la mattina presto. Rapido ritiro

del bagaglio, le formalità d’ingresso sono semplici e veloci, nel moderno, semivuoto terminal dei voli internazionali. All’uscita ci aspetta la nostra guida, “Patric”, un quarantenne di religione cristiana, ex minatore, indossa il tradizionale “longyi”, con la tracolla la tipica borsa rossa in tessuto. All’esterno ci accoglie una vampata di caldo, nonostante

l’ora. Dopo una foto di gruppo scattata da un incaricato dell’agenzia corrispondente, alla quale c’eravamo rivolti dall’Italia per prenotare alcuni servizi, partiamo a bordo del bus riservato, in buone condizioni, con autista e aiutante. In meno di mezz’ora siamo in città; percorriamo gli ampi viali alberati, con edifici di epoca coloniale, alquanto degradati. Ci colpisce la presenza di tanto

verde dappertutto e di alcuni giardini molto ordinati e ben tenuti. Il traffico è abbastanza caotico e anarchico ma ci sorprende l’assenza di motorini; Patric ci dice che nel centro di Yangon sono vietati, insieme alle bici, accusati di provocare troppi incidenti. Poco fa, salendo sul bus e vedendo il ragazzo aiuto dell’autista, ci siamo chiesti quale potesse essere la sua funzione, ma ci rendiamo conto presto della sua importanza alla prima sosta e discesa in una strada a traffico intenso: in Myanmar la maggior parte dei veicoli ha il posto guida sul lato destro (retaggio coloniale inglese) e quindi scendendo dal bus fermo sulla strada dal suo lato sinistro, si rischia di essere investiti dai veicoli che ci sorpassano. Qui entra in gioco il ragazzo, che ci fa scendere vigilando attentamente. Il suo aiuto è inoltre essenziale per l’autista nei sorpassi, quando deve segnalargli i veicoli provenienti in senso inverso, che l’autista non riesce a vedere, soprattutto se ha davanti veicoli ingombranti. Stranezze birmane. Ci fermiamo a lasciare i bagagli allo Yoma Hotel. L’aspetto esterno

e della piccola “reception”, è un po’ malandato. Le stanze da letto non hanno finestre o meglio, hanno delle finestre effetto “trompe oeil”: aprendo quella che sembra una finestra, scopriamo che dietro il vetro c’è solo una luce al neon! Per fortuna l’aria condizionata funziona. Ripartiamo subito in bus, passiamo all’agenzia corrispondente per regolare i conti e ci rechiamo poi al Bogyoke Market (detto anche Scott M.); qui si può trovare ogni genere di merce e una vasta selezione dei prodotti artigianali dei vari stati birmani. Notiamo che il centro dei corridoi del mercato è occupato da tavoli e da una sorta di alberi di metallo su cui sono appesi pacchetti e oggetti di vario genere - richiamano vagamente l’immagine dell’albero di Natale o di quello della “cuccagna” - affiancati da cartelli con delle scritte in birmano; la guida ci dice che si tratta di doni esposti in attesa di essere offerti ai monasteri buddisti e i cartelli riportano con grande evidenza il nome del donatore. Evidentemente fare donazioni ai monaci è un fatto di rilevante importanza sociale, oltre che religiosa. Facciamo un giretto di ricognizione, quasi senza acquisti e dopo mezz’ora si riparte; fa caldo, 34°, con molta umidità. Piacevole pranzo di benvenuto offerto dal corrispondente in un locale accogliente, servizio rapido, cibo buono. La prossima sosta è alla Sule Paya, pochi minuti per qualche foto dall’esterno. Proseguendo in bus osserviamo l’animazione sulle strade, invase da auto, bus, camionette stracariche di persone, trishaw (tipici veicoli a tre ruote, a pedali con funzione di taxi per una/due persone) e da una moltitudine di gente dai tratti diversi; questa città offre evidentemente un grosso spaccato della multietnicità che distingue il paese. In questa folla spiccano le figure colorate dei monaci, ci piace osservarli nel loro incedere lento, oppure vederli fermarsi a una bancarella a fare acquisti o parlare al cellulare; la prima impressione ci fa pensare a comportamenti improntati a una certa “secolarizzazione”. La loro presenza diffusa caratterizza fortemente il paesaggio urbano.

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Non conosciamo il loro numero percentuale nella popolazione, ma sappiamo che ogni birmano è tenuto a farsi monaco per un breve periodo, almeno due volte nella vita. Tentiamo di entrare allo storico Hotel Strand per dare un’occhiata, ma il personale non ci consente l’ingresso. Visitiamo il Chaukhtatgyi Buddha, una delle più grandi statue di Buddha in Myanmar, insediata in un enorme capannone con tralicci di ferro che deturpano il quadro e ne impediscono una veduta integrale pulita. Lungo le pareti del capannone sono schierate statue sormontate da luci psichedeliche che ai nostri occhi non sembrano per niente aggiungere spiritualità all’atmosfera del tempio. Verso le sedici iniziamo la visita alla Shwedagon Paya, monumento simbolo del Myanmar. Al nostro arrivo un filtro di nuvole ci impedisce di ammirare l’enorme complesso monumentale nella sua veste migliore, ma quasi subito le nubi si diradano rapidamente fino a dissolversi e come per incanto il sole riesce presto ad avere il sopravvento, offrendoci la vista della Pagoda in tutto il suo splendore, con la luce più bella di tutta la giornata. Percorriamo lentamente a piedi nudi la lunga piattaforma di marmo intorno al tempio, tra una fitta processione di pellegrini e turisti, mentre altri fedeli sono intenti a celebrare riti di preghiera, a deporre offerte di fiori e frutta nei tanti tempietti, tabernacoli, edicole, nicchie, in un’orgia di decorazioni dai colori sgargianti e un tripudio di stupa dorati. In questo quadro affiora la nostra difficoltà a capire il significato dei fervidi riti attorno a noi e il valore di forme religiose così esteriorizzate, così esuberanti e sfarzose, non tanto nei comportamenti dei fedeli, quanto nelle strutture. Ci sentiamo tuttavia in qualche modo partecipi di quest’atmosfera, ci pare di riuscire a percepire, nonostante tutto, un vago senso di spiritualità; sarà forse complice la stupenda luce del tramonto che inonda tutto con un affascinante velo, sarà forse soltanto…autosuggestione. E’ il nostro primo impatto con la religiosità di questo popolo; chissà se riusciremo a capire qualcosa di più nei prossimi giorni. Torniamo

in albergo e ceniamo presto nel ristorantino ultra spartano sul lato opposto della strada, seduti su sgabelli bassi di plastica a un tavolo improvvisato sul marciapiede, insieme a altri clienti, apparentemente tutti abitanti locali. Il traffico di veicoli si è per fortuna ridotto rispetto a oggi. Alcuni altoparlanti sistemati in un edificio vicino, diffondono ad alto volume una preghiera incessante, che ai nostri orecchi suona come una noiosa, monotona litania, priva di musicalità. Ci portano un buon pesce bollito e tante verdure cotte, spesa irrisoria. Ci ritiriamo in albergo, la litania ci segue anche qui.

Raggiungiamo l’aeroporto in meno di un’ora; il piccolo terminal dei voli nazionali è molto affollato. Dopo la registrazione assistiamo divertiti nella sala d’attesa priva di tabelloni e sistemi elettronici, agli annunci degli imbarchi su cartelli tenuti in mano dal personale. Spicchiamo il volo con un piccolo ATR 72-500 a elica dell’Asian Wings e in poco più di un’ora atterriamo a Mandalay. Ci attende il nuovo bus giapponese, con autista cinese e aiuto birmano. Percorriamo un’autostrada nuova con rari veicoli; una volta entrati in città invece il traffico si fa caotico, con vari mezzi di trasporto e tanti motorini (qui non sono vietati). Arriviamo al Great Wall Hotel, un grande albergo moderno che alla prima impressione ci pare sicuramente migliore di quello di Yangon; c’è anche una postazione internet gratuita. Lasciamo i bagagli; chiedo a Patric di telefonare a Padre John, il prete cattolico birmano con il quale avevo preso contatti dall’Italia per informarlo che avremmo portato medicinali e indumenti per il suo dispensario. Avevo trovato la segnalazione su relazioni di viaggio precedenti, molti gruppi di Viaggi nel Mondo hanno portato materiale; non so da chi e come sia partita l’iniziativa, non ho avuto il tempo di verificare. Fissiamo un appuntamento per la sera in albergo con Padre John e ripartiamo in bus. Arriviamo alla Mahamuni Paya, importante e affollato luogo di culto, con statua di Buddha continuamente ricoperta di lamine d’oro dai devoti, tanto da modificarne la

forma originale. La tappa successiva è proprio uno dei due laboratori di Mandalay, dove sono prodotte tutte le lamine d’oro utilizzate in Myanmar per scopi devozionali. E’ interessante osservare la procedura manuale per ottenere i sottilissimi fogli. Di nuovo in marcia, transitiamo lungo le belle mura di cinta del Palazzo Reale, ovvero di ciò che resta di esso, dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale. Arriviamo allo Shwe Nan Daw Kyaung, bellissimo monastero del XIX sec. in legno di tek, con raffinati intarsi; al suo interno, la penombra e il silenzio favoriscono il raccoglimento. Con la bella luce radente del crepuscolo, arriviamo alla Kuthodaw Paya, forse il momento migliore per apprezzare, quasi in solitudine, questo importante complesso monumentale, con le 729 tavole di pietra su cui sono incise, in lingua pali, le scritture buddiste (Tripitaka), definite il “Libro più grande del mondo”. Rientriamo in albergo, dove incontriamo Padre John e ci rechiamo in bus tutti insieme a cena. Padre John ci racconta qualcosa sulla sua attività a favore degli abitanti di un villaggio a oltre 250 km da Mandalay; al ritorno in albergo gli consegniamo medicinali e indumenti e lo salutiamo. Peccato non aver avuto la possibilità di “toccare con mano” la realtà in cui egli opera.

Dopo una buona colazione, partiamo in bus, in tutta comodità; ieri sera avevo proposto a Patric di partire non oltre le sette e trenta, visto il programma intenso, ma lui aveva risposto che non era necessario e potevamo partire anche verso le otto e trenta. Prima sosta ad Amarapura per visitare un setificio tradizionale; è molto interessante vedere la fase della tessitura con telai sia manuali, sia elettrici. In pochi minuti raggiungiamo il Maha Gandayon Kyaung, un monastero dove vivono oltre mille monaci, è il più grande del Myanmar. Ci fermiamo ad assistere alla sfilata per il pranzo, alle dieci: tra i precetti buddisti c’è anche quello che vieta di mangiare più tardi. Non è facile riuscire a vedere e scattare foto tra una folla di turisti agguerriti e invadenti, con lo stesso nostro

Amarapura - Ponte di U-Bein

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scopo. Si riparte e in poco più di mezz’ora arriviamo in vista di Sagaing. Attraversando il ponte di ferro c’è una bella veduta sulla collina, disseminata di stupa. Ci fermiamo alla base della collina, dove il nostro bus non può proseguire e contrattiamo il prezzo del pick-up per la salita. Ammirato il panorama dalla cima, si discende e si riparte in bus. In una diecina di minuti arriviamo alla Kaunghmudaw Paya; all’esterno c’è un accampamento di pellegrini, Patric dice che sono contadini venuti per una festa religiosa; hanno tende improvvisate, carretti di legno con tetti di bambù curvati e coperti di teli di plastica colorati; ci sono buoi al riposo, fuochi accesi, gruppi di persone impegnate in varie attività: c’è chi riposa, chi mangia, chi discorre, chi si lava con secchi e bacinelle, chi prepara del cibo. Un piccolo monaco imbraccia un fucile mitragliatore di plastica e spara a tutti, si vede che è solo un gioco e che non c’è aggressività nei suoi gesti e nel suo sguardo, ma ci sembra comunque un’immagine un po’ strana, tanto più in una festa religiosa. Non c’è più tempo per vedere l’interno della Paya e ripartiamo. E’ il primo pomeriggio, fa abbastanza caldo (33°). Raggiungiamo l’imbarcadero sul fiume Myitnge, accolti da un gruppo di venditori bambini che ci “assediano” vocianti, brandendo svariati oggetti d’artigianato (cappelli, ventagli, etc.); pronunciano alcune semplici frasi in un italiano approssimativo, tipo “come ti chiami”, “tu sei bellissimo/a”, mentre ci guardano con occhi luminosi e vivaci e sorrisi disarmanti; non è facile sottrarsi alle loro insistenti proposte di vendita. Prendiamo il traghetto che in cinque minuti ci porta sull’altra sponda del fiume ed eccoci ad Ava, l’antica capitale Inwa. Noleggiamo sette calessi di legno con tettoia, trainati ognuno da un cavallo, guidato dal vetturino e ci avviamo su stradine strette e polverose, nel pittoresco scenario naturale, con la vegetazione tropicale lussureggiante, canali e laghetti punteggiati di ninfee bianche, scene di contadini impegnati in attività rurali. Prima sosta al Bagaya Kyaung, bellissimo monastero in tek del XIX sec. Proseguiamo velocemente passando accanto a Nanmyin, la bella torre di guardia pendente. Terminiamo con una rapida visita al Maha Aung Mye Bon Zan Kyaung, monastero in mattoni e stucco costruito nel 1822. Il luogo è piacevole, in silenzioso isolamento, avremmo voluto trattenerci un po’ più a lungo, ma il tempo stringe e non vogliamo rischiare di non assistere al tramonto dall’U-Pein Bridge; se solo fossimo partiti un po’ prima il mattino! Torniamo al molo e riprendiamo il traghetto in senso opposto. Quando il sole si sta avvicinando all’orizzonte, siamo all’U-Pein Bridge, il bellissimo ponte in tek sul lago Taung Tha Man, lungo oltre un chilometro. Restiamo a osservare dal basso la processione di gente sul ponte, con le figure nere in controluce che procedono lente e leggere, come fantasmi scuri. Intanto l’acqua del lago e l’orizzonte si tingono di rosso alla luce infuocata del tramonto. Torniamo in albergo per rinfrescarci; invitiamo Patric a cena, ma lui preferisce ritirarsi nel suo albergo, un po’ distante dal nostro; nel salutarlo gli dico che domattina vogliamo partire prima di oggi, lui replica che non è necessario, aggiungendo che noi di Viaggi nel Mondo vogliamo sempre partire presto, gli rispondo

che preferiamo così, per non trovarsi a correre com’è successo oggi.

Partiamo in bus, sotto un cielo coperto che si libera velocemente delle nubi; ci fermiamo in un grande negozio - Aung Nan - ricolmo soprattutto di oggetti in legno scolpito e intarsiato, alcuni molto belli, facciamo qualche acquisto, prezzi inferiori a quelli del Bogyoke Market di Yangon. Alle nove siamo al molo sul fiume Ayeyarwady (detto anche Irrawaddy), saliamo su una bella, grande barca di legno tutta per noi e salpiamo subito. C’è una piacevole brezza, il cielo ora è del tutto sereno, ci godiamo la mini crociera osservando i bei panorami sulle due sponde del grande fiume, con scene di vita di pescatori, renaioli, contadini. Da lontano, scorgiamo la sagoma della gigantesca pagoda incompiuta di Mingun, sulla riva ovest dell’Ayeyarwady. Quando attracchiamo, siamo accolti da una folla di venditori di souvenir, in gran parte donne, insistenti ma gentili. Visitiamo la Mingun Bell, l’enorme campana definita la più grande del mondo in grado di funzionare, sebbene danneggiata dal terremoto. La nostra visita prosegue con la bianca Hsinbyume Paya. Riprendiamo la barca e poco dopo mezzogiorno siamo di nuovo all’imbarcadero di Mandalay. Ci fermiamo a mangiare nel bel ristorante panoramico sulla riva del fiume, assistendo a un interessante spettacolo di marionette. Si riparte in bus per raggiungere lo Shwe In Bin Kyaung, bel monastero in tek della fine del XIX secolo. Prossima tappa al Palazzo Reale e subito dopo ci fermiamo con il bus alla base della Mandalay Hill. Per il passaggio in pick-up verso la sommità della collina ci chiedono una cifra che ci sembra eccessiva e decidiamo di salire a piedi. C’è chi sceglie la scalinata, chi la strada, che è

abbastanza ripida; comunque ci ritroviamo tutti sulla cima in trenta-quarantacinque minuti. Dalle terrazze del tempio si ammira un vasto, bel panorama alla luce del tramonto. Si torna al bus e si riparte con il buio; decidiamo di cenare prima di rientrare in albergo. Lungo la strada vediamo un locale che ci piace e ci fermiamo: è il coloratissimo Mogok Daw Shan, con cucina a vista, dove si preparano, come dice il nome, specialità Shan. Sia in cucina, sia nell’area pranzo, c’è un esercito di simpatici ragazzi e ragazze sorridenti, allegri, cordiali e disponibili. Il cibo è buono e la cena si trasforma in una divertente serata, con qualche numero del mago Eli. Alle ventuno siamo già in camera, domani levataccia.

Sveglia alle tre e mezza e alle quattro e trenta siamo già sulla barca lenta che ci porterà a Bagan. Siamo saliti quasi per primi, ci sistemiamo sul ponte, sulle sedie di plastica a noi riservate, con sufficiente spazio anche per i bagagli. Dopo una mezz’ora arriva il gruppo Viaggi nel Mondo parallelo al nostro (c’eravamo già visti all’aeroporto di Doha), poi salgono pochi altri turisti di diverse nazionalità e alcuni birmani; vengono caricate le merci in grandi ceste e sacchi; la barca è presto piena, ma si riesce ancora a muoversi sul ponte. C’è chi come noi ha la sedia, chi è accovacciato sul pavimento, chi sta in piedi, in totale promiscuità tra birmani e turisti. Alle cinque e trenta suona la sirena e dopo dieci minuti si salpa; è ancora buio, fa freddo. Sul ponte c’è un piccolo ristoro, dove si vendono bevande calde e poco altro, approfittiamo di un buon caffè bollente che ci riscalda. A bordo c’è anche una donna ambulante che vende frutta, biscotti, semi, patatine fritte, uova di quaglia. Alle nove e trenta c’è il primo attracco al villaggio Mim-Mu. Una

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Gruppo Ossi a Kakku

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folla vociante di passeggeri, venditori e mercanti si raduna sulla riva, in un’atmosfera concitata; una volta che alcuni passeggeri sono discesi dalla barca, sulla sponda uomini e donne carici di merci avanzano in modo disordinato verso la precaria passerella, un rudimentale asse di legno appoggiato da un lato allo scafo, dall’altro al suolo fangoso; l’asse è pericolosamente traballante sotto il peso delle persone e delle merci. Sull’orlo della riva alta, gruppetti di adulti e bambini si stanno godendo lo spettacolo incuriositi, per loro l’arrivo della barca deve rappresentare uno dei pochi eventi che animano la giornata del villaggio. Sul ponte arrivano alcune donne vocianti in abiti colorati con cesti di cibi sulla testa, nel tentativo di vendere qualcosa ai passeggeri. Si riparte; il clima è piacevole, lieve brezza, 28°. La barca avanza lenta, tranquilla e silenziosa, senza rollio; guardando le rive lontane, sembra quasi che siano loro ad allontanarsi dolcemente, mentre noi restiamo immobili in mezzo all’acqua. Solo a tratti il fiume si restringe e si possono distinguere i particolari degli insediamenti e delle attività sulle due rive. A mezzogiorno c’è il secondo attracco, preceduto dal suono della sirena; le scene sono simili al precedente, ma con meno movimento di passeggeri e merci. Nelle due o tre ore successive assistiamo ad altri cinque brevi approdi, più o meno colorati, con movimento di passeggeri più in discesa che in salita. L’ultimo attracco è alle diciassette, quando il sole si abbassa e la luce comincia a cambiare il colore del fiume e dei paesaggi lungo le sponde. Ci godiamo l’affascinante spettacolo del tramonto del sole e al tempo stesso della levata della bella luna piena. Alle diciannove giungiamo finalmente a Bagan. Abbiamo percorso circa centonovanta chilometri, in poco meno di quattordici ore di navigazione. La nostra ansia di scoprire questo luogo tanto immaginato e desiderato, è vivissima. Ci aspetta il bus che ci porta a Nyaung Oo, alla Shwe Nadi Guest House, sistemazione spartana e dimessa ma sufficiente per le nostre esigenze. Usciamo subito a cenare e poi al letto.

Alle sette e trenta partiamo su tredici bici noleggiate presso la guesthouse; abbiamo anche un calesse con vetturino, prenotato ieri sera da Patric, per una nostra compagna e per se. S’inizia con la visita della Shwezigon Paya, seguono Gubyaukgyi Paya, Htilominio Patho, Upali Thein, raggiunte con brevi deviazioni dalla strada asfaltata, su facili sentieri sabbiosi. Verso le dieci stiamo percorrendo la strada

principale, in prossimità dell’Ananda Paya, quando mi accorgo che alcuni compagni non sono più dietro di me, torno indietro e vedo un raggruppamento di persone in mezzo all’asfalto, due auto incidentate, una bicicletta schiacciata da una delle auto contro un albero. Massimo è steso a terra sulla banchina. Momento di grande ansia; i compagni mi dicono che dopo lo scontro frontale tra le due auto, una di queste ha colpito Massimo facendolo sbalzare a terra. Le sue condizioni non sono chiare, è stordito, non si capisce se ci sono fratture o traumi importanti. Ci appare invece subito chiaro che le conseguenze avrebbero potuto essere tragiche se fosse rimasto sulla bici schiacciata contro l’albero dall’auto, o se non ci fosse stato l’albero ad arrestare l’auto dopo che Massimo era stato sbalzato davanti all’auto. Nel frattempo arriva la polizia chiamata da Patric e arriva anche un’auto dell’agenzia corrispondente locale, che porta Massimo in ospedale, accompagnato da Patric. Io resto a parlare con l’autista investitore, un anziano tedesco che vive a Bagan, prendo i suoi dati e fotografo i veicoli, poi con Eli accompagno Natalia in ospedale. Un dottore sta visitando Massimo nel “pronto soccorso” improvvisato, con scarsi strumenti e dotazioni, all’ingresso dell’ospedale. Vi sono anche due turisti inglesi rimasti leggermente feriti nell’altra auto coinvolta. Dopo meno di mezz’ora il medico che ha visitato Massimo, dice che dagli accertamenti non risultano fratture o traumi gravi, pare si tratti solo di contusioni, traumi muscolari, escoriazioni. Massimo è dimesso e lo riportiamo in albergo, un po’ sollevati dall’ansia. Chiamo Viaggi nel Mondo a Roma per comunicare l’accaduto e aprire la pratica con la compagnia assicurativa. Dopo essermi accertato che Massimo e Natalia non avessero bisogno di assistenza, parto in bici con Eli per cercare di raggiungere il resto del gruppo nella zona archeologica. Riusciamo così ad arrivare alla Shwesandaw Paya quando il sole comincia a calare. La ripida salita sul tempio ci riserva uno spettacolo fiabesco. La vista della spianata delle pagode fino a perdita d’occhio ci lascia stupefatti; osservare il tramonto sulla selva sterminata di stupa, è un’emozione che vale il viaggio. La distanza per rientrare a Nyaung Oo è lunga, già si fa buio; percorriamo con un po’ di preoccupazione la strada non illuminata, con traffico di veicoli abbastanza intenso a quest’ora, ma per fortuna riusciamo a raggiungere indenni la guesthouse. Il gruppo esce per cena, io mi trattengo con Massimo e Natalia per il previsto incontro con il tedesco dell’incidente, che

arriva con il proprio avvocato. Si presenta: si chiama Jürgen von Jordan, vive a Bagan, è “presidente di un’importante fondazione che finanzia progetti a scopo umanitario, soprattutto nei settori dell’educazione e della sanità”. Il signor von Jordan ammette subito la sua responsabilità nell’incidente (del resto evidente), e dichiara di essere disposto a un accordo per i danni. Dopo una trattativa abbastanza veloce, Massimo e il tedesco si accordano per un indennizzo dei danni materiali: fotocamera, bici, etc.

Oggi proseguiamo la visita dell’area archeologica; solo in otto ci muoviamo in bici, gli altri sono sdraiati sul camioncino prenotato ieri sera. Si offre di accompagnarci Maungpa, un ragazzo sveglio che frequenta la guesthouse, dice di avere un’agenzia che si occupa di escursioni in bici, non ci chiede nessun compenso. Ci porta in un posto defilato a vedere una bella pagoda in mattoni del XIII sec., dice che è il suo “posto segreto”, non segnalato sulle guide; provo a chiedergli di scrivermi il nome: “Shwe Many Daw” (non mi è stato possibile verificare questo nome); in effetti, è un posto che merita di essere visto e non ci sono altri visitatori. Ora ci dirigiamo al Sulamani Patho, con affreschi interessanti e in seguito visitiamo il Dhammyangyi Patho. Oggi il cielo è coperto, c’è un po’ di umidità, la temperatura è 28°. Dopo la Dhamma Ya Zika Pagoda, cambiamo scenario e ci fermiamo a visitare il laboratorio-negozio di oggetti in lacca Moe Moe. E’ interessante osservare le dimostrazioni della tecnica di lavorazione; apprendiamo quanto questo processo sia lungo, complesso e accurato per ottenere un prodotto di qualità pregiata. Ci fermiamo nel villaggio Mynkaba, per uno spuntino. Terminate le visite dei templi, rientriamo a Nyaung Oo e ci rechiamo al mercato, che sta per chiudere; è abbastanza interessante, ma alcune bancarelle hanno già chiuso e inoltre è un po’ buio; la poca luce che filtra dal cielo nuvoloso, a malapena riesce a insinuarsi tra le fessure dei teloni che coprono il mercato. Rientriamo alla guesthouse e salutiamo Maungpa con una buona mancia. Cena in un bel localino (Weather Spoon), con cucina birmana e qualche piatto internazionale, peccato per l’attesa estenuante.

Partiamo a bordo del nuovo bus con due autisti e un aiuto. Lasciata la città, ci fermiamo in un villaggio, dove si producono, con procedimenti tradizionali, vari derivati dalla palma, sia alimenti, sia oggetti d’uso. Proseguiamo su una leggera salita, con

Gruppo Ossi a Kakku

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fondo stradale ondulato a causa del terremoto del 1975; pioviggina. Si vedono coltivazioni di riso e frutta, tra la bella vegetazione tropicale, con povere case in bambù dai tetti di foglie di palma e qualche rara costruzione in muratura dai tetti in lamiera. Arriviamo al Monte Popa, luogo di venerazione degli spiriti Nat, pratica religiosa di origine animista. Ha smesso di piovere, iniziamo a salire a piedi scalzi sulla scalinata, affollata di persone e scimmie. In circa mezz’ora raggiungiamo lo scalino numero 777: siamo sulla sommità dello sperone di roccia, al tempio Taung Kalat, a circa 730 metri di altitudine, da dove si ammira un bel panorama, in parte nascosto da nebbie, foschie e nuvole basse. Ripercorsa la scalinata in discesa, partiamo, accompagnati di nuovo da una pioggia sottile. Si prosegue attraverso colline coperte da foreste con pochi campi isolati, dove contadini arano la terra con rudimentali aratri trainati da buoi, rari villaggi lungo la strada. Abbandoniamo l’altipiano per inerpicarci su curve e tornanti, con alcuni saliscendi, tra colline e valli verdi, mentre aumenta la pioggia e arriva la nebbia. Il fondo stradale ha lunghi e frequenti tratti dissestati, il traffico è scarso. Approfittiamo di una pausa della pioggia per scendere dal bus e proseguire a piedi per alcune centinaia di metri, per sgranchirci le gambe lungo una foresta di tek. Ricominciano pioggia e nebbia, sta calando il buio (sono le diciassette e trenta). Salendo di quota troviamo file di camion carichi di merci che arrancano, i sorpassi sono difficili e pericolosi, ma il nostro autista ha una guida sicura e prudente. Poco dopo le diciotto arriviamo a Kalaw, a circa 1.300 m s.l.m.; gli autisti e la nostra guida non sanno dov’è l’albergo prenotato, Nature Land; dopo un po’ di giri a vuoto riusciamo a trovarlo, fuori dall’abitato. Il posto sembra piacevole, in mezzo al verde e ai fiori ma pioggia, nebbia e buio ci impediscono di apprezzarlo. Le camere sono carine, grandi, rivestite di legno, ben fornite di accessori, ma molto umide. Ceniamo al ristorante dell’albergo, che pare impreparato a servire tante persone; i giovani addetti a cucina e sala sono volenterosi e gentili ma impacciati e disorganizzati, con lunghi tempi di attesa. Notte silenziosa e buia (e senza corrente).

Ci sveglia il canto dei galli; il cielo è coperto, ma non piove e la nebbia sembra dissolversi rapidamente. La colazione è ricca e buona. Partiamo in bus attraverso un altipiano dai panorami pittoreschi, con le geometrie colorate dei campi coltivati a riso, cavoli, colza, ginger, foraggi, agrumi, senape, grano, mais, the. Si vedono anche belle figure di agricoltori al lavoro, bufali al pascolo, numerose arnie, enormi alberi di ficus. E’ il periodo della raccolta del cavolo e dappertutto vediamo contadini intenti a caricarne enormi quantità su carri e su qualche raro camion. Il fondo stradale è piuttosto disastrato, con asfalto rovinato e tanto fango. Arriviamo al villaggio di Pindaya, c’è un posto di blocco per il pagamento della tassa turistica di accesso all’area. Il nome Pindaya pare voglia dire “ragno morto” e deriva da una leggenda, con un principe che libera una principessa uccidendo l’enorme ragno che l’aveva rapita e nascosta nelle vicine grotte. Facciamo una breve sosta per visitare il mercato, ma non è il giorno

giusto. Si riparte, il cielo è ormai sereno e la nuova luce tersa e intensa inonda tutto, mettendo in risalto gli splendidi colori dei paesaggi che attraversiamo per salire alle famose Grotte di Pindaya. In una quindicina di minuti siamo all’inizio della scalinata, alcuni di noi scendono dal bus e vanno a piedi, altri proseguono, ci ritroviamo tutti all’ingresso delle Grotte, da dove si domina la bellissima vallata, dalle tante tonalità di verde, la terra rossa dei campi, le macchie gialle delle coltivazioni di colza e senape, insomma uno splendido affresco della natura. Visitiamo le grotte, che ospitano alcune migliaia di statue di Buddha dalle varie dimensioni e in materiali diversi. Poco dopo mezzogiorno si riparte, il fondo stradale è buono, con scarso traffico. Scendiamo di altitudine, fino a giungere in vista di un’ampia vallata coltivata e in lontananza si scorge il Lago Inle. Lasciamo le grandi distese di canna da zucchero e avvistiamo i primi orti galleggianti. Ci fermiamo a visitare lo Shwe Yan Pyae Kyaung, bel monastero in tek in stile Shan. Prima di arrivare nell’abitato di Nyaung Shwe (850 m s.l.m.), paghiamo la tassa d’ingresso al lago. Con l’ultima luce del giorno arriviamo al November Hotel, modesto alloggio con diversi problemi, dalle docce non funzionanti alla presenza di animaletti indesiderati in alcune camere, la peggiore sistemazione del viaggio fino a oggi. Mi reco alla vicina postazione pubblica internet e scrivo una mail all’agenzia corrispondente per lamentare la cattiva sistemazione. Ceniamo presto e ci ritiriamo in camera, tra l’abbaiare ininterrotto dei cani, che cessa solo a notte inoltrata.

I cani mi danno la sveglia alle cinque, mi affaccio alla finestra, si vede solo la nebbia. Dopo la colazione partiamo in bus, in mezzo al traffico intenso di veicoli d’ogni tipo, camion, moto, trishaw e pick-up stracolmi di gente; c’è molto movimento anche di pedoni, con tanti bambini che vanno a scuola in uniforme. Arriviamo a Taunggyi, a 1.400 m di altitudine, capitale dello stato Shan. Mentre il gruppo va verso il mercato, vado con Patric all’ufficio turistico per pagare il biglietto d’ingresso e il servizio guida obbligatorio per Kakku; la guida a noi assegnata è una ragazzina minuta in costume tradizionale Pa-O rosso e nero, molto carina, dai modi gentili, conosce poche parole d’inglese, è una studentessa al suo primo giorno di stage. Patric mi dice che lui resta a Taunggyi a fare spese; gli replico che è meglio che lui venga con noi, vista la scarsa possibilità di comunicare con la guida e la sua inesperienza. Raggiungo il gruppo al vivace mercato etnico, molto interessante, scattiamo tante foto. Ripartiamo e procedendo tra paesaggi verdi e coltivazioni arriviamo al villaggio Nan Aye Mya Tain, con belle case in muratura, appartengono a ricchi commercianti all’ingrosso di prodotti agricoli (tabacco, agli, cipolle, etc.). Ci fermiamo per fotografare un bel quadro di vita rurale: contadini, uomini e donne, con i tradizionali cappelli conici di paglia, sono impegnati in lavori agricoli con zappe e pale. Proseguiamo, il cielo è sgombro, la bella luce infonde allegria ed esalta i colori della campagna, con belle casette in bambù in villaggi ordinati, immersi nella vegetazione. A mezzogiorno siamo a Kakku; la vista improvvisa

della selva di stupa addossati uno accanto all’altro è emozionante. Il complesso monumentale, immerso in un bellissimo ambiente naturale, tra grandi alberi frondosi, emana un forte fascino. Il silenzio del luogo e i pochi visitatori, aiutano ad apprezzare meglio il posto. Avvicinandoci al sito siamo accolti dal magico tintinnio dei campanelli sospesi sulla cima degli stupa, scossi dalle improvvise folate di vento. E’ un suono insolito che affascina, nella pace che ci circonda. Il clima è gradevole, con poca umidità. Al termine della visita qualcuno mangia alle vicine bancarelle, altri consumano qualcosa al sacco. Si riparte e prima del tramonto siamo a Nyaung Shwe. Vado a piedi fino al molo, per verificare i tempi di percorrenza, poiché domattina abbiamo l’escursione in barca. La vista del canale a quest’ora è piacevole, con la calda luce radente; c’è molta animazione sia sull’acqua, che per strada. Cena al ristorantino Lotus, cucina Shan, prenotato questa mattina, locale semplice ma accogliente, a conduzione familiare, servizio veloce, cibo buono: la migliore cena del viaggio fino a oggi. Rientriamo in albergo sotto un bel cielo stellato, l’aria è fredda.

Lasciamo a piedi l’albergo poco prima delle sette, in una ventina di minuti siamo al molo e partiamo subito a bordo di tre barche riservate. Sono le tradizionali imbarcazioni di legno, strette e lunghe, dallo scafo basso curvato verso l’alto a prua e a poppa, con il fondo piatto; diversamente dalle originali queste hanno il motore; siamo seduti su sedie mobili in legno. Attraverso il canale, in un intenso traffico di barche cariche di gente e merci, raggiungiamo il lago aperto. Incontriamo i primi pescatori tipici, remano con la gamba, tenendo nelle mani le belle nasse in bambù; ci chiediamo se siano autentici, il loro aspetto ci appare un po’ stereotipato, sono identici tra loro nei colori e nelle fogge degli abiti (paiono in uniforme), le loro manovre sembrano più finalizzate a dare spettacolo che a pescare realmente; ci viene spontanea una domanda: che siano messi lì dalla “pro-loco”? Proseguiamo la navigazione al largo, ci godiamo gli splendidi panorami, incontriamo altri pescatori al remo con la gamba, diversi dai precedenti, sia nell’aspetto, sia nei gesti e questa volta non abbiamo dubbi sulla loro autenticità. Attracchiamo al villaggio Tha Ley; preferiamo saltare la visita della Paung Daw Oo Paya (cominciamo ad avvertire i primi effetti “overdose” da pagode?) e ci rechiamo al vicino mercato generale all’aperto, è vivace e colorato, con tante facce locali interessanti e con merci che ci fanno scattare tante foto. Salpiamo, sotto un sole rovente e in mezz’ora ci fermiamo nel villaggio In Paw Khone; visitiamo il setificio su palafitta, dove si ottiene la seta dal fior di loto, è una produzione pregiata e rara (si vede anche dai prezzi proibitivi dei bellissimi capi in vendita), è molto interessante osservare la lavorazione. Le prossime fermate sono in un’officina del ferro forgiato e poi in una fabbrica artigianale di sigari, tutte su palafitte. Breve sosta pranzo e siamo di nuovo in barca; ora visitiamo una fabbrica di carta dalla corteccia di gelso e un’altra, dove si lavora l’argento. Percorriamo un canale nella zona sud-ovest del lago, nei pressi del villaggio Inthein; attracchiamo e proseguiamo a

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Avventure nel mondo 2 | 2017 - 63

piedi attraverso un bosco, fino a giungere in vista di alcune rovine; ci sono centinaia di stupa tra l’erba alta e gli arbusti che li avviluppano; alcuni degli stupa sono in restauro, con risultati che paiono far rimpiangere il fascino di quelli in rovina. Un grande, lungo colonnato coperto da una brutta tettoia in lamiera, ha un impatto forte e sgradevole sulle affascinanti rovine. Al ritorno percorriamo la galleria sotto il colonnato, che ospita decine di bancarelle dove si vendono oggetti d’artigianato tipico locale, alcuni molto belli e a prezzi accessibili. Si riparte in barca, clima secco, 27°. La prossima sosta è al Nga Phe Kyaung, monastero noto per i “gatti saltanti”, che però hanno sospeso i salti in segno di lutto per la morte di un monaco superiore. Ci fermiamo a vedere alcuni orti galleggianti, Patric ci spiega il procedimento complesso e ingegnoso per crearli e coltivarli. Con la luce che precede il tramonto, il lago si fa sempre più incantevole. Stiamo rientrando; il nostro barcaiolo, che ha stranamente guidato tutto il tempo tenendo la barca inclinata sulla destra, rallenta bruscamente in prossimità di alcune barche di pescatori, la mia sedia si capovolge ed io con lei, batto violentemente le costole, mentre imbarchiamo acqua che finisce su di me e sulla mia fotocamera. Rientrati in albergo cerco di asciugare la fotocamera con l’asciugacapelli, ma non funziona. Ceniamo di nuovo al Lotus. Alle ventuno siamo già in camera; il dolore alle costole non mi facilita il sonno.

Partiamo a piedi in compagnia di Tè Tè e Ton Ton, le nostre due guide locali per il trekking ai villaggi Pa-O; Patric si è preso una giornata libera (senza chiederla preventivamente). Dopo un’ora di cammino su facile sentiero, arriviamo al villaggio Htut I Lower; visitiamo la scuola, piena di bambini di varie età, compresi alcuni piccoli monaci. Lasciamo un po’ di materiale scolastico e alcuni indumenti, tutto è diligentemente registrato. Proseguiamo attraverso piantagioni di canna da zucchero e banani. Giungiamo a una grotta che durante la seconda guerra mondiale era utilizzata dai giapponesi come deposito di armi; da anni è diventata luogo di ritiro spirituale e meditazione, ci sono statue di Buddha, altarini, un monaco che prega in un angolo buio. Riprendiamo la camminata, tra campi e boscaglia, con tratti al sole alternati ad altri in ombra. Tè Tè e Ton Ton ci mostrano alcune varietà di piante, tra cui tamarindo, avocado, custard apple (Annona reticulata), jackfruit (in italiano giaca o catala?), sesamo, cheroot leaf tree, le cui foglie sono usate per avvolgere i sigari. Il sentiero sale, con scorci panoramici sulla valle. Raggiungiamo il punto più alto (980 m), poi inizia la discesa; nel silenzio rotto solo dal rumore dei nostri passi, sentiamo dei canti in lontananza; ci avviciniamo e vediamo un gruppo di uomini e donne al lavoro in un campo; Tè Tè ci spiega che stanno raccogliendo le radici delle piante di banano per farne noodle. Arriviamo nel piccolo villaggio di Lwe Kin, ci sono molti bambini, alcune donne stanno sistemando le pannocchie di mais ad asciugare al sole, una splendida macchia di colore. Ton Ton ci spiega che per i contadini il mais è una risorsa molto importante, dopo la raccolta viene portato al mercato di Nyaung Shwe sui carri o anche a spalla, quando la strada diventa impraticabile per la

pioggia. Prima di mezzogiorno arriviamo al villaggio Kan Daw; ci attende una tavola apparecchiata sotto una tettoia di bambù, dove ci servono riso saltato con verdure e carne, cavolo cotto, pomodori; per finire ci portano dei mandarini e un dolcetto spugnoso di farina e uovo. Ci rimettiamo in marcia; attraversiamo un villaggio dalle belle case di legno su palafitte, alcuni bambini ci salutano festosi. Raggiungiamo la pianura, sostiamo brevemente al monastero Ni Jaw Da, con le tombe dei monaci superiori. Tornati in albergo, usciamo subito e in cinque prendiamo delle bici a noleggio per un lungo giro fino alle terme di acqua calda.

Partiamo presto in bus; il lago è ancora avvolto nella nebbia, che però inizia a dissolversi, lasciando emergere le sagome di cose e persone, in un’atmosfera magica. In meno di un’ora siamo al piccolo aeroporto di Heho; veloci operazioni di registrazione e invio bagaglio; la sala di attesa è

gremita, molti i voli in partenza, anche qui annunciati su cartelli sorretti dal personale; i passeggeri escono liberamente sulla pista ad assistere a decolli e atterraggi. Ci alziamo in volo su un aereo a elica della Myanma Airways, con quasi un’ora di ritardo. Alle undici atterriamo a Yangon, salutati da un caldo soffocante. La consegna fatta a mano del bagaglio è quasi immediata; partiamo subito a bordo del nuovo bus riservato. Breve sosta al cimitero di guerra inglese di Htauk Kyant. Procediamo su un’autostrada a pedaggio a quattro corsie, con grandi rettilinei in una pianura verde. Alle tredici siamo a Bago; lasciamo il bagaglio allo Shwe See Sein Hotel; la

struttura non sarebbe male ma la pulizia qui non pare essere una priorità. Mangiamo qualcosa veloce in un ristorante cinese sulla strada principale. Paghiamo il costoso tributo d’ingresso alla città e iniziamo la visita di Bago. Vediamo la Kyaik Pun Paya, poi la Shwethalyaung Paya, con l’enorme statua di Buddha, davvero bella, peccato che anche qui come a Yangon la struttura di ferro che ospita la statua, disturbi la visione integrale. All’interno del “capannone” si possono vedere anche le belle, ricche decorazioni dei primi del ‘900. Breve visita alla “Pagoda del pitone”; infine assistiamo al tramonto dalla bella Shwemandaw Paya. Nell’insieme queste ultime visite sono state fatte dal gruppo con una certa svogliatezza: c’è da chiedersi di nuovo se la “somministrazione” di pagode sia stata eccessiva.

La colazione è stata forse la parte più piacevole in quest’albergo. Partiamo in bus; percorriamo una pianura intensamente coltivata, con tante risaie,

contadini al lavoro, animali al pascolo; attraversiamo villaggi animati da camioncini stracarichi di persone, bici, moto, carretti, trishaw, bancarelle, uomini e donne che raccolgono offerte in ciotole argentate, cani randagi che attraversano improvvisamente la strada e naturalmente, …..tante pagode e stupa. Ci fermiamo nel villaggio Waw, specializzato nell’essiccazione del pesce d’acqua dolce. Lungo il fiume ferve l’attività di donne intente a sistemare il pesce su grandi graticci di bambù sospesi su palafitte, esposti al sole. Nel fiume gruppi di uomini immersi fino alle spalle stanno pescando con arpioni e ceste. Proseguendo attraversiamo il ponte sul

Gruppo Ossi e volti locali

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fiume Sittaung, uno dei quattro più grandi corsi d’acqua del Myanmar. Poco dopo ai nostri occhi si presenta improvvisa lungo la strada, un’immagine scioccante: un gruppo di uomini con catene ai piedi che lavorano con delle zappe sulla banchina, sotto lo sguardo vigile di soldati armati di mitra. La scena è inquietante e ci chiediamo in cosa consistano le “aperture democratiche” del regime militare, di cui si è parlato negli ultimi mesi. Il nostro viaggio prosegue. Attraversiamo piantagioni di caucciù e tek, l’autista guida prudente e ci attutisce le scosse dei dossi e delle buche. Poco prima delle undici arriviamo a Kyaikto, a 60 m s.l.m., clima piacevole, 29°. Ci fermiamo a Kin Pun, il terminal dei camion per la salita alla Golden Rock. E’ un luogo molto affollato da veicoli e persone. Lasciamo il bagaglio principale sul bus e poco dopo mezzogiorno partiamo con il camion da quarantadue posti, pigiati uno accanto all’altro, in compagnia di alcuni turisti stranieri e pellegrini birmani. Percorriamo in quaranta minuti gli undici chilometri di ripide salite e vertiginosi saliscendi fino al terminal, a circa 800 m di altitudine. Proseguiamo a piedi per una diecina di minuti ed eccoci al Golden Rock Hotel; si trova lungo la salita che porta al famoso, omonimo luogo di pellegrinaggio, appunto Golden Rock. L’albergo è in posizione panoramica, in mezzo al verde. E’ sicuramente la migliore sistemazione del viaggio, sia per le belle camere, sia per i servizi accessori (peccato per la mancanza di postazione internet e wi-fi). Lasciati i bagagli, c’incamminiamo sulla ripida salita, tra bancarelle che vendono di tutto: dai souvenir a frutta e bevande, a serpenti arrostiti, teschi di orso e bizzarrie varie. In poco più di un quarto d’ora (i più lenti in mezz’ora), arriviamo alla sommità, dove paghiamo l’ingresso. La grande terrazza panoramica che porta alla “roccia dorata”, è gremita di pellegrini e turisti,

c’è chi prega, chi siede in silenzio, chi discorre,

chi mangia, chi dorme, chi arriva e chi parte, in un flusso continuo, in una sorta di kermesse da fiera o luna park. I nostri occhi hanno difficoltà a cogliere in questo scenario, quella spiritualità che si addice a un luogo di fede. Ci avviciniamo alla roccia oggetto di culto; gli uomini possono accedere fino a toccarla, mentre le donne si devono accontentare di guardarla a distanza. E’ interessante osservare le scene di preghiera e di devozione dei fedeli. Sulla via del ritorno incrociamo una processione di portantini in divisa che salgono con infradito ai piedi (sconsigliati per noi), trasportando sulle tipiche lettighe di bambù, con tanto sudore, una comitiva di pellegrini tailandesi. Cena piacevole al ristorante dell’albergo (non ci sono comunque alternative).

La notte fredda ha favorito il sonno di alcuni di noi, mentre per altri è stata motivo d’insonnia. Raggiungiamo a piedi il terminal e in meno di mezz’ora partiamo a bordo del camion carico di ragazzini birmani simpaticamente scherzosi e vocianti nei saliscendi da capogiro, affrontati a forte velocità e guida brillante dall’autista, pare d’essere al luna park, sulle montagne russe. Alle otto siamo a Kin Pun, dove troviamo un traffico caotico e un’incredibile ressa di gente che cerca di salire alla Golden Rock. Verso le otto e trenta proviamo a partire, ma avanziamo molto lentamente solo per pochi metri e ci fermiamo, ripartiamo e siamo fermi di nuovo. Lasciamo faticosamente la città, la strada è ancora bloccata nei due sensi dai veicoli, mentre un fiume di gente a piedi proveniente in senso inverso, s’insinua al centro, ai lati e dappertutto sulla strada. Motorini stracarichi (con tre/quattro persone) cercano vie alternative sulla banchina e nella boscaglia; insomma, una vera bolgia e inquinamento dell’aria al massimo livello. Chiedo

a Patric se si tratta di un evento speciale, mi dice

che è una “festa nazionale”; cerco di capire meglio che tipo di festa ma Patric con un gesto rabbioso mi dice che faccio “troppe domande”. Questa sua reazione mi mette a disagio ma non mi sorprende più di tanto; del resto lui ha dimostrato durante tutto il viaggio, la sua “parsimonia” nel fornirci informazioni. In pratica abbiamo sempre dovuto sollecitare risposte alle tante domande che le visite effettuate ci suggerivano. Inoltre, le sue risposte alle nostre domande e più in generale le informazioni che ci dava, erano spesso incomplete e poco chiare e la scarsa chiarezza non credo derivasse soltanto dalla nostra difficoltà a comprendere il suo italiano. Patric ha anche ripetutamente mostrato una certa tendenza a “defilarsi”, adducendo le sue assenze a malesseri che secondo il medico del nostro gruppo che l’ha visitato, erano, nel migliore dei casi, solo fantasie ipocondriache. Alle undici abbiamo percorso pochissimi chilometri e continuiamo a procedere a singhiozzo. Soltanto verso mezzogiorno la strada, quasi improvvisamente, si sblocca. Verso le sedici giungiamo finalmente alla periferia di Yangon: più di sette ore per percorrere meno di duecento chilometri! Facciamo un breve giro al quartiere cinese e poi andiamo allo Yoma Hotel. Scendiamo dal bus ed entriamo nella reception, aspettando di veder comparire Patric per i saluti e la mancia, ci affacciamo fuori e vediamo che il bus è già ripartito. Ci rimaniamo male tutti. Alcuni compagni di viaggio avevano manifestato l’intenzione di non lasciargli la mancia, alla fine li avevo convinti a lasciarla, ed ecco che lui ci ha tolti dall’imbarazzo. Ceniamo alle bancarelle nei pressi dell’albergo, segue brindisi di gruppo con una bottiglia di rum acquistata con i residui di cassa comune, poi tutti a letto presto.

Sveglia alle cinque, in meno di mezz’ora siamo all’aeroporto. Ci accoglie una gentile, giovane e minuta hostess dell’agenzia corrispondente, che ci aiuta a fare la registrazione e ci saluta consegnandoci la foto di gruppo fatta al nostro arrivo e un opuscolo con il programma di visite da noi effettuate. Decolliamo sull’Airbus della Qatar Airways. Prima di mezzogiorno, ora locale, atterriamo a Doha. Nella breve attesa salutiamo i compagni in partenza per Milano e poco prima delle quattordici decolliamo. Alle diciassette e trenta, ora locale, arriviamo a Roma-Fiumicino. La riconsegna del bagaglio è insolitamente veloce. Alle ventuno siamo a Firenze, ci accoglie un’aria polare: il termometro segna 1 grado e cioè ben 33 gradi in meno che a Yangon!

Il viaggio sembra finito qui, ma non è così; nei prossimi giorni, dopo essere rientrati nella realtà quotidiana, la nostra mente inizierà la rielaborazione, con i racconti agli amici curiosi, la visione delle foto scattate e soprattutto, con i ricordi delle tante emozioni provate che ci accompagneranno a lungo. Insomma, il nostro viaggio prosegue!

Bagan - Shwezigon Paya