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[ VISIONI 144 ] Roma
8 maggio 2018 Blog. https://incontridicinema.wordpress.com
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“ La Tartaruga Rossa”
Un silente viaggio sentimentale
Titolo originale: Tortue rouge Regia: Michaël Dudok de Wit Storyboard: Michaël Dudok de Wit, Pascale Ferran Montaggio: Céline Kélépikis Musica: Laurent Perez Origine: Francia, Belgio, Giappone Anno: 2016 Durata: 80 minuti
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Sinossi
Dopo un drammatico e violentissimo naufragio, un uomo si ritrova su un’isola deserta. Il naufrago sembra
disorientato nel doversi adattare alla vita solitaria sull’atollo incontaminato. Le sue giornate si susseguono, infatti, alla
scoperta del meraviglioso nulla naturale che lo circonda, con esplorazioni tra il bambù, le noci di cocco e qualche
granchio invadente. Spinto dalla disperazione l’uomo decide di scappare dall’isola, provando con una zattera costruita
con mezzi di fortuna ad affrontare il mare, in cerca di salvezza. L’arrivo di una misteriosa e magnifica tartaruga rossa,
pronta a tutto per impedirgli la partenza, lo metterà a dura prova, per cambiargli, alla fine, per sempre la vita.
Premio speciale a Un certain regard al Festival di Cannes del 2016, la Tartaruga rossa è il primo lungometraggio
del regista olandese Michaël Dudok De Wit. Prima produzione europea dello Studio Ghibli, la breve opera di
Dudok De Wit ha dalla sua, l’affascinante capacità di unire, in una calda e riuscita fusione, i pregi visivi e ideologici di
due cinematografie d’animazione diverse. La tartaruga rossa, infatti, se per la caratterizzazione estetica dei
personaggi guarda al tratto nordeuropeo di maestri come Hergè (il pensiero arriva immediato a Tintin), nel suo
afflato favolistico, nella sua pura anima “ecologista”, mostra più di un debito allo spirito e alla tradizione d’impegno
dello Studio Ghibli.
Vicino per impostazione visiva e per rarefatta
poesia più a La storia della principessa
splendente che alle ricche pellicole di Miyazaki,
La tartaruga rossa è un’opera che pur con il
suo breve respiro, ha la pazienza di raccontare
una semplice e commovente storia, dove emozioni
e sentimenti, come l’abbandono, la paura, la
morte e la calma felicità, possono essere espressi
solo dai disegni e colori luminosi piuttosto che da
tante pesanti e scontate parole.
Il film di Dudok De Wit ha comunque un
messaggio politico decisamente importante, ma la grazia di non urlarlo contro lo spettatore e l’intelligenza di saperlo
veicolare nel modo più naturale possibile, permette a esso di arrivare al pubblico con una lenta ma implacabile forza.
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Interamente senza dialoghi racconta di un uomo che naufraga su un’isola deserta. Solo, stanco, indebolito e affamato.
Costruisce una zattera per andarsene, ma qualcosa tra le onde glielo impedisce. Tentativo dopo tentativo, capirà che a
sbarrargli la strada c’è una gigantesca tartaruga rossa, che assumerà un’altra forma e accompagnerà un pezzo di vita
dell’uomo sull’isola, che non è sfondo ma vera protagonista. Un paradiso terrestre che può diventare inferno e in cui
l’essere umano passa senza lasciare un segno, insieme a insetti, gabbiani, pesci, granchi, tartarughe. Pesca e nuotate,
passeggiate e sonni in spiaggia. E l’incontro, l’amore, la nascita, l’addio. Il film è stato realizzato con una tecnica mista,
tavole a mano, a carboncino e una penna grafica per animare la zattera e la tartaruga in digitale. Dudok de Wit ha
lavorato sei anni al film, che affronta temi larghissimi: morte, natura, amore, senza fornire risposte né spiegazioni
certe. Proprio per questo è ancor più coinvolgente e stimolante, per gli adulti ma anche per i bambini. Fondamentali le
musiche di Laurent Perez del Mar.
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Trama
Dodici anni fa, grazie al cortometraggio premio Oscar Father and Daughter, Michaël Dudok de
Wit ha conosciuto Isao Takahata, celebre produttore nonché penna dello Studio Ghibli.
Quell'incontro, dopo quasi 10 anni di lavoro, ha generato La Tartaruga Rossa, capolavoro co-prodotto dalla casa
animata giapponese insieme a Vincent Maraval di Wild Bunch.
Presentato al Festival di Cannes 2016 nella sezione Un Certain Regard, The Red Turtle conferma l'unicità produttiva
Ghibli nonché l'abilità animata francese, qui elevata a pura poesia cinematografica da parte di un debuttante, in
qualità di lungometraggi, pronto probabilmente a vincere il suo secondo premio Oscar. Scarna la trama, che vede un
uomo naufragare su un'isola deserta. Solo, affamato, impaurito e debilitato, il naufrago cerca disperatamente di
fuggire a bordo di una zattera da lui costruita, se non fosse che una gigantesca tartaruga rossa glielo impedisca
continuamente. Un incontro, quello con il misterioso animale, che gli cambierà la vita.
Non un dialogo per quasi 90 minuti. Basterebbe
partire da questa incredibile e coraggiosa scelta
di scrittura per soppesare la portata
cinematografica di un simile lungometraggio,
animato tanto in digitale quanto a mano, a
carboncino. Una tecnica mista resa possibile
dall'utilizzo della Cintiq, penna grafica da
utilizzare su una tavoletta ad hoc che permette
di vedere immediatamente il risultato ottenuto,
senza dover fare la scansione di ciascun disegno
separatamente.
Tutt'altra storia con le scenografie, realizzate a mano, in modo artigianale, con zattera e tartaruga rossa animate
invece in digitale. Il risultato, straordinario, è folgorante, grazie anche all'incredibile realismo animato dei personaggi
principali.
Dudok de Wit, che ha lavorato per oltre 6 anni allo script e all'animatic, ha così dato vita ad un film che parla di vita
e di morte, d'amore e magia, lasciando dietro di sé non pochi non detti a cui lo spettatore potrà affidare mirate
risposte. Un ciclo naturale che coinvolge tutti noi, uomini o animali che siano, qui accompagnato dalle meravigliose e
fondamentali musiche di Laurent Perez del Mar, costrette di fatto a 'sostituire' gli assenti dialoghi, trascinando la
narrazione insieme all'ispirato montaggio.
Un luogo lontano dal tempo, quello disegnato dal regista, un Paradiso Terrestre tra sogno e realtà, con assolate
giornate dai colori sgargianti e notti monocrome alla luce della luna, mentre la quotidianità della natura segue il suo
ciclo, che puntualmente coinvolge insetti, gabbiani, granchi, pesci, tartarughe. L'uomo senza nome che vive la propria
intera esistenza in questa Laguna Blu trova una corrispondenza proprio nel mondo animale, qui rappresentato dalla
gigantesca testuggine rossa del titolo, che lo guarda dritto negli occhi e lo segue in spiaggia dopo averlo per l'ennesima
volta 'affondato' in mare aperto. Una vita d'amore nella sua assoluta semplicità, tra pesca e nuotate, passeggiate e
dormite in spiaggia, mentre la Natura, sempre lei, compie il suo compito. Memorabile la scena di uno tsunami, che
travolge tutto e tutti mentre la musica di Perez alimenta drammaticità e ansietà, con l'animazione 'terrestre' di de
Wit che semina poesia filmica, tra romantici balli di coppia in riva al mare, dolorosi addii e abbracci d'amore.
Un'opera dalla bellezza ipnotica e dalla dolcezza infinita, visivamente parlando struggente e
narrativamente audace, nonché esplicitamente 'adulta'.
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Analisi
Portato nella sezione Tutti Ne Parlano della XI Festa del Cinema di Roma e vincitore del premio speciale Un Certain Regard del 69. Festival di Cannes, La tartaruga rossa è un simbolico viaggio all’interno delle tappe della vita dell’uomo, dal disegno occidentale e dalla profondità orientale.
Per Michael Dudok de Wit La Tartaruga Rossa segna il suo ingresso sul grande schermo con lungometraggio, frutto di una serie di collaborazione tra produzioni internazionali tra cui l’amatissimo Studio Ghibli, il prestigioso studio d’animazione cinematografica giapponese fondato da Hayano Miyazaki e Isao Takahata. Ed è lo stesso Studio Ghibli ad aver voluto fortemente il regista all’interno del suo gruppo di lavoro, restando impressionato da uno dei suoi cortometraggi, Father and Daughter (2001).
Nel 2004, in occasione del Festival di Hiroshima, dove Michael Dudok De Wit faceva parte della giuria, che il regista si incontra con Isao Takahata, per poi stipulare, nel 2006, un primo contratto sia per la distribuzione di Father and Daughter che per un possibile futuro lavoro da poter realizzare insieme.
La gestazione de La Tartaruga Rossa non è stata breve e nemmeno semplice, ma i risultati sulla pellicola si vedono, regalando allo spettatore un piccolo gioiello sensibile e profondo. Una storia bellissima. Una pellicola tanto delicata quanto intesa, rivolta più verso un target molto più maturo, proprio perché densa di duplici significati e metafore complesse. La Tartaruga Rossa si interroga sulle diverse forme della vita, ponendo al centro di tutto la doppia essenza della natura. Ciò che la natura da, la natura può togliere. È la consequenziale spietatezza del ciclo della vita, fondamentale affinché ogni forma di vita possa andare avanti nel suo percorso, lungo il suo cammino. Un percorso che lo spettatore si trova a compiere nella pellicola assieme a un naufrago. Non conosciamo il suo nome, né da dove viene o perché si trovi nel bel mezzo della burrasca. Impariamo a conoscerlo nello stesso momento in cui lo vediamo per la prima volta sullo schermo.
L’uomo si ritrova sobbalzato su di un’isola tropicale, animata da tartarughe e uccelli esotici. Costantemente seguito da due piccoli granchi giocherelloni, l’uomo tenterà più e più volte di abbandonare l’isola, costruendosi una zattera. Ma ogni volta che la zattera tocca la superficie dell’acqua viene continuamente ostacolato da una misteriosa presenza marina, una grande tartaruga rossa.
La tartaruga marina è solitaria e pacifica e per lunghi periodi scompare nell’immensità dell’oceano. Dà la sensazione di essere vicina all’immortalità.
Il suo colore rosso intenso le si addice e spicca sul piano visivo.
Abbiamo ragionato a lungo sull’opportunità di mantenere un certo livello di mistero nella storia. È evidente che il mistero può essere magnifico,
ma non deve esserlo al punto da sganciare lo spettatore dalla storia. È importante generarlo in modo sottile…
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Per un attimo si viene quasi portati a pensare che la tartaruga non esista nemmeno. A dire il vero, gran parte della pellicola è giocata tra apparenza e realtà, fantasia e coscienza. L’isolamento dell’uomo lo porta a dover convivere con se stesso, con i suoi limiti e i limiti di quel luogo. Totalmente privo di qualsiasi compagnia e di qualsiasi stimolo.
La voluta assenza di dialoghi, soprattutto per questa prima parte, rende ancora più incisivo il senso di alienazione dell’uomo, trasmettendo allo spettatore lo stesso vuoto e isolamento. Un limbo all’interno di un paradiso terreste dove, la tartaruga, sembra più rappresentare i nostri stessi limiti. Quei demoni, fantasmi interiori, che non siamo in grado di superare e che, quindi, non ci permettono di andare avanti con la nostra esistenza.Eppure la natura agisce in modi imprevedibili. Il destino ha sempre in serbo per noi qualcosa e nulla viene mai lasciato al caso. Quando la rabbia e la frustrazione, la violenza dell’essere umano, prendono il sopravvento sull’uomo,
rendendolo vincitore sulla tartaruga, subentra un nuovo sentimento: il senso di colpa. Di qui un’agonia molto intensa, resa breve dall’improvvisa comparsa di una ragazza dai lunghi capelli rossi.
La conoscenza della nuova “coinquilina” è fatta di lenti gesti, sguardi schivi e un vago senso di curiosità che porta verso la strada della fiducia. Ed ecco che davanti ai nostri occhi si materializza un primordiale Paradiso Terrestre, dove vediamo il nostro Adamo ed Eva interagire tra di loro e fare di quello spazio sconfinato, isolato dal mondo, la loro casa.
La decisione di restare, costruire, ricominciare e cominciare con una nuova vita, dando inizio con una nuova generazione.
In assenza dei dialoghi, la musica svolge un ruolo fondamentale, raccontando sensazioni e stati d’animo. Rappresentando il pensiero e quelle parole non dette dai protagonisti, ma anche della natura stessa. Suoni meravigliosi che riempiono la sala, perfettamente armonizzati sulla storia e che sono stati costruiti proprio attraverso una stretta collaborazione tra Michael Dudok de Wit e Laurent Perez del Mar.
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La tartaruga rossa, a questo punto, e le sue azioni volte ad ostacolare la “fuga” dell’uomo, rappresentano improvvisamente qualcosa di nuovo. Non più il dover affrontare i propri ostacoli, i propri limiti, ma bensì l’importanza di aspettare.
L’uomo e la donna danno inizio a una nuova vita, un nuovo mondo che inizia con loro e continua con la nascita di un bambino. Un’esistenza alternata di giorni sereni e giorni di burrasca, fatta di momenti spensierati e momenti più bui, in cui è necessario prendere delle decisioni, fare delle scelte, a volte irreversibili, ma anche questo fa parte della vita.
Una vita che deve continuare, manifestandosi in modi differenti. Una vita che comincia, un’altra che finisce e un’altra ancora che porta una nuova vita altrove.
Il film racconta la storia in modo lineare e circolare e utilizza il tempo per parlare dell’assenza del tempo, un po’ come la musica può mettere in rilievo il silenzio. È un
film che racconta che anche la morte è una realtà. L’essere umano tende a contrastare la morte, ad averne paura, a lottare per scagionarla e si tratta di un
atteggiamento molto sano e naturale. Eppure si può avere nello stesso momento una bellissima comprensione intuitiva del fatto che siamo pura vita e non abbiamo bisogno
di opporci alla morte. Spero che il film trasmetta un po’ questo sentimento. Particolare è l’uso dei colori, oscillante tra il bianco e il nero e i colori più intensi della tartaruga o del giorno. Una colorazione molto pastello, ma che riesce a rapire, a rimanere impressa nella mente, esattamente come il tratto delicato, quasi abbozzato ma armonioso, dei personaggi.
L’armonia è tra gli elementi più importanti di questo film, lasciando che la sua narrazione scorra, non troppo veloce, adagiando lo spettatore proprio come se
galleggiasse sul mare. Siamo in balia di emozioni molto più grandi di noi, a volte difficili da spiegare e, addirittura, da capire.
Il film offre diversi elementi per poter ritrovare la propria chiave di lettura del film. Una pellicola che non vuole avere unicamente un significato universale, ma dare la possibilità a tutti di tracciare la propria storia. Un viaggio incredibile.
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Intervista al regista
Nel suo silenzio, nell’assenza di spiegazioni puntuali, il film lascia spazio alle interpretazioni
personali di grandi e bambini.
Quando ho iniziato a scrivere la storia sapevo che ci sarebbero state parti rimaste misteriose. Alcuni mestieri sono
bellissimi per me, ma allo stesso tempo da regista tu non vuoi che lo spettatore si senta disconnesso. Per essere sicuro
che il film arrivasse al pubblico abbiamo discusso a lungo con il montatore, che è molto sensibile a questo, e al mio co-
sceneggiatore che era molto consapevole della debolezza e della forza del mistero. All’inizio erano previsti piccoli
dialoghi, non volevo fare un film senza dialoghi. Ma il risultato non mi convinceva e così alla fine li abbiamo tolti. Mi
pare che la storia sia raccontata in un modo che il pubblico a malapena si rende conto dell’assenza di dialoghi, sostituiti
con i gesti, le situazioni. La colonna sonora poi, che è una sorta di respiro del film, rende la storia ancora più fluida.
Sapevo che era comunque una scelta rischiosa, che alcuni avrebbero detto: non ho capito tutto.
In realtà la storia può essere interpretata in molti modi, dipende da chi guarda.
Sono d’accordo. Ho fatto altri cortometraggi senza parole. Ma quando lo fai devi essere sicuro di essere il più chiaro
possibile perché la gente non pensi a errori: questa è la sfida e sono felice del risultato. Che non è venuto subito, ci sono
voluti giorni di discussioni in cui ci chiedevamo, punto per punto: 'È abbastanza chiaro?'.
Poi però bisogna anche lasciarsi andare. In quattro sono venuti a dirmi “ho appena visto il film, mi è piaciuto. All’inizio
mi facevo molte domande: perché questo e quest’altro? Alla fine ho mollato tutti i quesiti e mi sono lasciato andare a
seguire la storia ed è stata una esperienza positiva”.
Ed era esattamente quel che volevo. Se ti fai troppe domande perdi l’esperienza emotiva del film.
Lei come lo descrive il film?
Buona domanda, che nessuno mi aveva fatto. È
una sfida allo spettatore: cosa faresti se restassi
su un’isola, nella natura non per un giorno, un
mese, un anno ma per tutta la vita? Quali pensieri
nascono alla prospettiva di vivere da solo? Molte
persone impazzirebbero. E questa riflessione
racconta molto di noi stessi, di chi siamo. Siamo
abituati a misurare noi stessi nel rapporto con gli
altri. E quando non hai persone intorno a te,
allora devi essere capace di reinventarti, devi
andare alla purezza di ciò che sei veramente.
Questo è il cuore del film, raggiungere l’essenza di
chi siamo.
Com’è nata l’idea base del racconto?
In fretta. Mi hanno chiesto di pensare velocemente a una storia. Un giorno, letteralmente. Cosa vuoi raccontare? Ho
pensato a una storia archetipica: una persona in un’isola deserta. La storia di Robinson Crusoe è una questione che ci
avvince ma io non cercavo quella storia lì, volevo andare oltre. Superata la questione della sopravvivenza. La
questione era la solitudine, il senso di lontananza dalle persone amate. Sono partito da qui. L’altra domanda che mi
sono fatta era sul tipo di emozione che volevo raccontare: ho capito subito che dovevo rifugiarmi nel mio grande amore
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per la natura. Non volevo mostrare qualcuno circondato da animali graziosi ma il confronto con il vento, la pioggia,
l’oceano. E la sua interazione con la natura. E volevo renderla bella, volevo fosse un film bello da guardare: il mare, il
cielo, la foresta, la luce. Abbiamo lavorato moltissimo sulla luce. La bellezza della morte, anche. È una esperienza
difficile e di cui abbiamo paura, ma volevo raccontarla in modo naturale. E poi, cosa che non avevo mai affrontato
finora, l’incontro tra un uomo e una donna. In un corto era difficile farlo, troppo breve. Qui invece ho potuto creare un
uomo, una donna e farli lentamente incontrare.
Com’è stato produrre con lo storico studio giapponese Ghibli, insieme alla Wild Bunch?
Hanno fatto tutto loro. Ho ricevuto una lettera in cui c’era scritto
che avevano ammirato il mio corto Padre e figlia: 'Pensiamo
che sia un film giapponese', cosa che se detta da un giapponese ti
colpisce. 'Hai pensato di fare un lungometraggio?' Nel caso
vorremmo co-produrlo con la Wild Bunch'. Non abbiamo parlato
tanto, ma sapevamo di avere una grande sensibilità comune. Mi
hanno anche detto fin da subito che non sarei dovuto andare in
Giappone ma che avrei potuto realizzarlo in Europa, con una
squadra europea. Sono stato io a chiedere loro consigli, cosa che
li ha sorpresi: ma io ne ho bisogno. Erano molto curiosi.
Ha incontrato anche il grande Hayao Miyazaki?
Ho lavorato con Isao Takahata. Ma sì, ho incontrato anche Miyazaki a fine film. So che è un uomo molto difficile,
critico, negativo. Lo temevo, invece è stato positivo verso La tartaruga rossa. Non che abbia fatto fuori d’artificio,
ma mi ha detto: 'Ben fatto, fantastico. Hai realizzato un film che non sembra giapponese, che è una cosa buona, con una
integrità e un’onestà che apprezzo. E ora vorrei poter lavorare con i tuoi animatori, francesi e italiani…”.
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Critica
Svilita e abusata da un uso eccessivo e scriteriato, la parola «capolavoro» ritrova il suo valore con un film come La
tartaruga rossa che regala allo spettatore (adulto, nonostante la realizzazione a cartoni animati) la bellezza magica
e commovente della poesia. Insieme alla rara esperienza di quella purezza del cinema che non ha bisogno nemmeno
della parola per arrivare al cuore di chi guarda. Primo lungometraggio di Michaël Dudok De Wit, un autore
olandese che lavora tra Inghilterra e Francia, il film è anche la prima coproduzione internazionale del giapponese
Studio Ghibli. Il che dovrebbe già essere un bell’indicatore di qualità.
Nella prima parte, più realistica, il film racconta di un uomo in mezzo al mare che cerca di sopravvivere contro i flutti
in tempesta. Non sappiamo da dove viene né come è capitato in quella situazione: lui resiste a fatica alle onde che lo
sommergono, si aggrappa stremato al relitto di una barca e alla fine si ritrova senza forse sulla spiaggia di un’isoletta
deserta. Il messaggio non potrebbe essere più chiaro: l’uomo visto come naufrago, solo in un mondo abbandonato da
tutti. A fargli «compagnia» solo alcuni simpatici granchietti. L’isola però è coperta da un folto bosco di bambù che offre
la possibilità di costruire una zattera con cui mettersi in mare. Cosa che fa con ingegno e fatica, ma ogni volta che
sembra aver iniziato la sua navigazione qualcosa da sotto le acque arriva a distruggere con forza la sua improvvisata
barca. Al terzo attacco, e al terzo naufragio, scopre che si tratta di una gigantesca testuggine rossa che evidentemente
non vuole che lasci quell’isola, animale su cui sfogherà la sua rabbia quando lo troverà impacciato che si trascina sulla
spiaggia, rovesciandola sul dorso e lasciandola indifesa alla mercé del sole.
È adesso, dopo l’esplosione della violenza dell’uomo, che il film cambia sostanzialmente registro, per diventare
qualcosa che è insieme realistico e fantastico, vero e immaginifico. Senza voler anticipare le tante sorprese che
cambieranno la vita del naufrago sull’isola — e che chiedono allo spettatore almeno un po’ di fiducia nella forza delle
fiabe — il film sembra perdere la sua bussola realistica per diventare qualcosa che oscilla tra la vita quotidiana e il
sogno, tra la concretezza e i desideri. Naturalmente, però, a Dudok De Wit non interessa solo raccontare l’avventura
pur straordinaria di un sopravvissuto, ma guidare lo spettatore dentro un’esperienza più profonda e intensa, che è
quella dell’Uomo e della Natura, del loro legame e rapporto. È il mistero della vita che domina i comportamenti di
entrambi, lungo un percorso dove ogni cosa può ribaltarsi nel suo opposto, come l’improvvisa onda del mare che
arriverà a spazzare l’isola e a lasciarla quasi senza forme e colori, come dovevano essere Hiroshima e Nagasaki dopo
l’esplosione atomica. Qui non c’è stata l’opera dell’uomo ma della Natura eppure l’effetto sembra identico, a ricordare
la finitudine di ogni cosa. Per poi, nell’eterno ciclo delle cose, mostrarci come quella stessa «forza» sia capace di far
tornare la vita e cancellare la monotonia del grigio onnipresente.
Senza mai far ricorso alla parola, usando la testuggine come forma e metafora di quello che manca al naufrago per
ritrovare la voglia di vivere, il film si trasforma scena dopo scena in un conte philosophique sull’Uomo, il suo slancio
vitale e il bisogno di guardare oltre i propri orizzonti, mentre in parallelo la Natura svela agli occhi di chi sa guardare
con la forza dell’immaginazione i misteri del creato, dell’amore e della procreazione. Ma tutto questo perderebbe parte
della sua efficacia se non fosse supportato da un disegno altrettanto delicato e magico che sa mescolare la grazia
dell’acquarello (usato soprattutto per restituire la varietà delle sfumature della Natura) con la trattenuta precisione
della «ligne claire», la sua capacità di restituire con nettezza i contorni dei personaggi senza però sottolineare troppo
la loro distanza dallo sfondo, così da fondere perfettamente l’Uomo e la Natura. Proprio come fa il naufrago con la sua
tartaruga rossa.
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Michaël Dudok de Wit
Abcoude (Paesi Bassi)
15 luglio 1953
Regista, sceneggiatore, animatore e illustratore