ANTIPROIETTILE GIUBBETTO
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OPERATORI DELLA SICUREZZA E
GUARDIE PARTICOLARI GIURATE:
PROTEZIONI PASSIVE PERSONALIPROTEZIONI PASSIVE PERSONALIPROTEZIONI PASSIVE PERSONALIPROTEZIONI PASSIVE PERSONALI
di : Fernando COLACI ( Istruttore Tattico e Docente di Difesa Passiva e Attiva – Team Colaci)
PREMESSA
Parlare oggi di sicurezza e di tutte le varie implicazioni tecniche ad essa connesse, è facile
ed allo stesso tempo complicato. Un po’ perché l’argomento è di moda ed un po’ perché il
materiale dedicato dalle varie aziende è tanto, forse, troppo.
Tra i vari prodotti si vuole in questi appunti esaminare il giubbotto antiproiettile, è bene
anticipare però che non rientra negli scopi del presente scritto, fare una esegesi completa di
tutte le caratteristiche tecniche che caratterizzano tali indumenti protettivi, bensì fornire agli
operatori della sicurezza informazioni pratiche sui vizi e virtù di queste particolari protezioni
balistiche.
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INTRODUZIONE
E’ trascorso ormai molto tempo da quando, gli antichi guerrieri medioevali si proteggevano
con rilucenti corazze metalliche. Se una corazza bastava a fermare i dardi, non bastava di
sicuro a fermare i pesanti proiettili lanciati sfruttando la combustione della polvere nera,
quell’invenzione diabolica che ha spazzato via gli ideali della cavalleria e che ha posto in
condizione anche il più pavido fra gli scudieri di battere efficacemente il più prode cavaliere.
Era crollato il mito della invincibilità che da Achille in poi era stato il motivo di vanto e
giustificazione del potere.
L’uso dei materiali tradizionali, acciaio più o meno trattato, ha sempre comportato un netto
svantaggio in fatto di mobilità, peso da sopportarsi, ingombro notevole; l’eterna battaglia tra
chi costruisce corazze e chi proiettili sembrava volgersi a favore dei secondi rispetto i primi.
Solamente la scoperta e la produzione in serie di nuove fibre sintetiche ad altissima
resistenza e l’uso di materiali compositi innovativi ha reso possibile sovvertire il risultato.
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CENNI STORICI
Dalla seconda guerra mondiale si è iniziata a studiare tutta una serie di protezioni più leggere
e moderne di quelle di cui usufruiva il fante del primo conflitto, oberato nelle sue missioni più
rischiose (come quelle di tagliare i reticolati sotto il fuoco nemico) da pesanti corazze
metalliche. Tali studi sono stati resi necessari dal fatto che era vitale cercare di proteggere il
soldato soprattutto dalle lesioni derivanti da schegge di granata e dai frammenti delle bombe
di vario tipo prima che dal fuoco diretto delle armi leggere.
E’ nella guerra di Corea che si è avuto il primo diffuso impiego di indumenti protettivi
assemblati con materiali di sintesi: il nylon balistico e il Doron (fibra di vetro), che hanno
dimostrato sul campo la loro reale validità. Famosa è la foto di un marine vittorioso in
combattimento ravvicinato con un nord coreano che mostra la sua “flack jacket” in nylon e
Doron centrata da una raffica di PPSH in 7,63 Tokarev.
In tale foto c’è anche un altro aspetto interessante: la testimonianza visiva di un effetto
balistico terminale sul corpo, dovuto all’impatto del proiettile e la conseguente estroflessione
della protezione che ha determinato un trauma (back face deformation) sul torace.
Nonostante questa lesione, il marine, non solo è sopravvissuto alla raffica nemica, ma ha
anche vinto lo scontro, motivo questo di riflessione per cercare di dare il giusto peso alla
potenzialità invalidante del “blunt trauma”, termine con cui gli autori d’oltre oceano sono soliti
classificare il trauma indotto dalla deformazione della protezione.
Con la guerra del Vietnam si è avuta una vera e propria generalizzazione dell’impiego delle
protezioni personali a funzione anti-balistica che, all’epoca, venivano realizzate con materiali
diversi, sia di sintesi che ceramici e metallici. Solitamente le “flak vest” realizzate con
protezioni sintetiche, venivano usate dalle truppe appiedate per il loro minore peso e per la
maggiore adattabilità, mentre quelle realizzate con piastre dure, essendo più pesanti ed
impacciando i movimenti, erano appannaggio quasi esclusivo dei piloti di elicottero, dei
serventi delle mitragliere o dei carristi.
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NUOVI MATERIALI
Nel 1965 la ricercatrice dei laboratori della Du Pont, Stephanie Kwolek, scoprì la fibra
aramidica che è, dopo il Nylon, la più importante scoperta nel campo delle fibre sintetiche.
Ma passarono un po' di anni prima che questo materiale venisse utilizzato per la produzione
di articoli di protezione balistica; il balzo di qualità fatto dopo la scoperta del Kevlar (questo è
il marchio che la Du Pont ha dato al suo prodotto) fu sorprendente, grazie all’impressionante
resistenza alla trazione, unita alla densità ridotta (rapporto peso/resistenza) di questo
materiale.A seconda delle caratteristiche si sono prodotti i Kevlar 29 ed il Kevlar 49. La sua
caratteristica principale è quella di essere 5 volte più resistente dell’acciaio, 10 dell’alluminio,
2 del nylon balistico e della fibra di vetro; ciò ha reso possibile la realizzazione di tutta una
serie di protezioni personali di pesi e fogge fino ad allora impensabili.
Attualmente, a questa fibra, se ne è affiancata un’altra, il polietilene orientato che è il 20-
30% più resistente del Kevlar 29 e, pur non vantando la stessa attitudine al calore, è da
qualche tempo materiale di valida alternativa anche al nuovissimo Kevlar 129 che è il 15%
più forte del “vecchio” K 29 pur essendo nel contempo il 15% più leggero ed il 20% più sottile.
La situazione attuale, per quanto riguarda la protezione personale, è quindi il frutto di una
evoluzione e di un costante miglioramento della produzione industriale orientata alla ricerca
di nuovi materiali sempre più leggeri e resistenti e/o all’assemblaggio più opportuno di
prodotti già sperimentati, ottenendo così una sinergia che permette realizzazioni ancora più
efficienti come ad esempio l’abbinamento, nello stesso pannello, di strati di Klevar 129 uniti a
pellicole di polietilene orientato.
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GIUBBOTTI ANTIPROIETTILE
Va innanzitutto detto che, a mio avviso, la dizione “giubbotto antiproiettile” non è del tutto
pertinente per trattare delle realizzazioni indirizzate alla protezione personale, dato che, se
vogliamo essere pignoli, col termine “giubbotto” si intende una categoria di vestiario che ben
poco ha a che fare, ad esempio, con tutte quelle realizzazioni da portare “undercover”, cioè
sottocamicia e la denominazione non è del tutto consona alla realtà in quanto, questi tipi di
protezioni anti-balistiche, non sono “antiproiettile”, ma “resistono” ai proiettili.
Questa differenza, che può sembrare una sottigliezza, ha un suo intrinseco valore e negli
Stati Uniti ha portato a decretare la cancellazione del termine “bullet proof” (impermeabile ai
proiettili) in “bullet resistant” (resistente ai proiettili).
Con il giubbotto antiproiettile si è pensato di sostituire al muro d’acciaio una rete in Klevar
che, in quanto tale, gode di vantaggi e svantaggi. Il vantaggio fondamentale è quello di poter
dissipare elevate quantità di energia in lavoro di deformazione, lo svantaggio è che, come il
pesciolino sfugge alla rete da pesca, un proiettile piccolo ed aguzzo (tipo spitzer) può creare
qualche problema di tenuta. Vale sempre la pena ricordare che l’invulnerabilità non esiste e
che lo scopo di un indumento protettivo è quello di preservare da una gamma di possibili
offese, ampia finchè si vuole, ma pur sempre limitata.
Nel nostro Paese, a complicare il problema, c’è una certa confusione sulla precisazione delle
reali attitudini che deve avere una veste per arrestare un proiettile e per contenere gli effetti
dovuti alla mancata perforazione (blunt trauma). Non sono stati infatti stabiliti i livelli protettivi
in cui includere ed omologare i vari indumenti a seconda del tipo di minaccia. Ciò determina
una situazione non chiara dal punto di vista delle responsabilità, ad esempio del datore dilavoro rispetto ai dipendenti che espletano mansioni di scorta armata o di piantonamento;
soprattutto dopo che la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza nella quale è stata
stabilita la obbligatorietà della fornitura di adeguati mezzi protettivi a chi svolge tali mansioni,
senza però precisare il livello protettivo da adottare.
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Solitamente, per dare un minimo di indirizzo all’acquirente rispetto alla validità dell’indumento,
ci si rifà ad alcuni standards americani: l’NIJ concepito negli anni ‘70 ed il PPAA molto più
restrittivo, che basa la sua logica applicativa su studi recenti dedotti da esperienze ed analisi
di dati reali ed in parte sulla resistenza di tali vesti a minacce del tipo “raffica di pistola
mitragliatrice calibro 9 Para” e “colpi di cartucce Geco Metalpiercing in canna da 6 pollici” con
traumi massimi di 20 mm.
Il tessuto in fibra aramidica, con cui è fatto il giubbotto antiproiettile, non è soggetto ad
invecchiamento, ma è sensibile alla luce ultravioletta (raggi solari), dalla quale sarebbe bene
tenerlo sempre protetto conservandolo sempre nella sua veste esterna. Come tutte le altre
fibre, un’altra piccola pecca dell’aramidica è che, bagnandola abbondantemente (se non
trattata), perde le sue specifiche di resistenza, anche se, una volta asciugata, torna alle
caratteristiche d’origine. Esistono alcuni procedimenti contro l’umidità, l’acqua, l’olio o i
solventi; il più famoso di questi trattamenti è lo Zepel-D a base oleosa che però rende il
tessuto auto lubrificato avvantaggiando l’eventuale perforazione del proiettile. In alcuni Stati
si è fatto obbligo, una volta cucito il Klevar che compone la protezione, di sigillarlo tra due
strati di polietilene tipo quelli neri dei sacchetti della spazzatura, in tal modo si assicura la
perfetta protezione dalle intemperie e dai raggi ultravioletti.
La categoria delle protezioni a funzione antibalistica è composta da 5 tipi fondamentali di
realizzazioni che trovano la loro differenza nella rigidità dei materiali e nella adattabilità alcorpo umano: i soffici, i semi-impregnati, gli impregnati, le piastre fibro-ceramiche e le
metalliche. Dal punto di vista pratico, quando si sceglie una protezione personale anti-
balistica, si dovrebbe fare attenzione non solo al livello dichiarato che è in funzione dei calibri,
dei pesi e della velocità di palla, ma anche ai tipi di munizioni che esso è in grado di fermare.
Si tenga presente che per i proiettili provvisti di nucleo perforante tipo “armour piercing” è
quasi sempre necessario l’uso di piastre metalliche o fibrocomposite rigide, mentre per i
“metalpiercing” e cioè i penetratori incamiciati in acciaio dolce e con nucleo in piombo, i
compositi di adeguato livello protettivo sono i più indicati a neutralizzarli; nel caso si opti per
un indumento soffice, è necessaria la presenza di una apposita piastra perché il numero di
strati necessari per ottemperare a questa minaccia ne sconsiglia la realizzazione pratica per
peso e dimensioni. Anche nei giubbotti antiproiettile di uso comune è spesso presente un
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marsupio anteriore nel quale infilare una piastra di materiale composito (ceramica/fibra
aramidica) per elevare la classe di protezione.
Aspetto per nulla secondario nella scelta del giubbotto antiproiettile è la portabilità
dell’indumento per dimensioni generali, pesi e per la sua idoneità a conformarsi alla
persona. Sarebbe buona norma, in caso di uso continuativo, preferire una misura di taglia
inferiore a quella abitualmente portata perché, la ricerca assoluta del maggiore indice di area
protetta, anche se è di principio cosa giusta, potrebbe penalizzare nel movimento e creare
disagi che potrebbero indurre a portare male ed addirittura non indossare l’indumento. A
titolo informativo si riporta l’esistenza di giubbotti sotto camicia “undercover” che si
indossano direttamente sulla pelle o sopra una T-shirt, ma comunque ben nascosti sotto una
camicia o un maglione. I “sotto camicia” si dividono in due tipi: semi-rigidi e soffici. La
differenza tecnica tra i primi ed i secondi è determinata dal modo di unire il tessuto aramidico:
nel primo caso le pezze vengono sovrapposte ed incollate tra di loro con apposite resine,
mentre nel secondo le pezze vengono normalmente sovrapposte e cucite sul bordo formando
una specie di cuscino. L’unico svantaggio del modello semi-rigido è proprio la sua rigidità per
chi lo indossa; il grosso vantaggio sta nella limitazione del Blunt Trauma.
Come considerazione prettamente personale, si ritiene che l’uso esterno dei giubbotti
antiproiettile dovrebbe principalmente sortire un effetto “deterrente” nelle comuni mansioni
svolte dagli operatori di un istituto di vigilanza, ma dal punto di vista difensivo per serviziparticolari, si ritiene vitale che la protezione indossata sia il più occultabile possibile, per
evitare che il fuoco rivolto alla persona sia appositamente diretto verso le aree scoperte
(testa, collo, bacino).
Negli Stati Uniti, la delinquenza, dopo che la polizia ha adottato i giubbotti antiproiettile
esterni, ha diminuito il calibro delle armi passando dalle grosse 357 Mag. alle 22 LR o alle 22
Magnum mirando alla testa.
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FUNZIONAMENTO DEL GIUBBOTTO ANTIPROIETTILE
Il giubbotto antiproiettile, come già detto, è costituito da diversi strati di tessuto in fibra
aramidica (Kevlar).Per capire in modo semplice ed elementare la funzione del tessuto di Klevar nella protezione
balistica, si deve immaginare una porta di campo da calcio che, anziché usare la normale
rete, ne utilizzi (sovrapponendole) un certo numero (ad es. 10, 16, o 22), con una maglia più
sottile del normale e ben tese. Ora, lanciando in direzione di questa porta un pallone
(all’incirca 5 volte più soffice del materiale con cui sono realizzate le reti) ad altissima velocità
ed immaginando al rallentatore l’effetto dell’impatto del pallone contro la rete, vedremo che si
formerà contro le reti sovrapposte un effetto cono di estroflessione, mentre il pallone,
essendo più soffice, si schiaccerà “effetto fungo” diminuendo in modo decrescente la sua
velocità ed energia. In questo caso, alla fine della sua corsa, la palla sarà, per la sua
leggerezza ed elasticità, rilasciata e rimbalzata all’indietro mentre, contro una protezione
balistica, il proiettile, essendo di materiale solido, dopo la deformazione per l’impatto rimane
generalmente trattenuto “intrappolato” dal tessuto. Questo effetto è chiaramente visibile
osservando un proiettile dopo un impatto contro il Klevar; si noterà una tipica espansione a
forma di fungo.
La velocità limite per un proiettile ordinario, cui la fibra aramidica riesce a resistere è di circa
550 m/s. Una volta tessuto il Kevlar, per la sua tenacità e resistenza, ha la capacità di
intrappolare i proiettili rallentandone progressivamente sia la corsa che l’energia. Secondo la
teoria, l’Energia Cinetica Ec associata ad un corpo in movimento alla Velocità V e dotato di
Massa M è data dalla formula:
Ec = M x V (Forza Viva)
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Agendo sulle due variabili M e V si possono ottenere infinite combinazioni di valori a pari
energia cinetica.
E’ il classico e dibattuto problema della scelta del calibro per ottenere un adeguato arresto
del proiettile (stopping-power): meglio un massiccio e lento calibro 45 o un piccolo e veloce
calibro 9 mm?
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Dal punto di vista dell’esperienza appare chiaro che il solo valore dell’energia non è un
parametro adeguato di giudizio; è impossibile prescindere dalla velocità con cui il fenomeno
avviene.
A riprova di quanto detto si può riportare il seguente paradosso balistico: consideriamo una
piastra di acciaio da corazza (Armour Steel) dello spessore nominale di 6 mm, caratterizzata
da una durezza Brinnel 495. Un colpo di 7.62x51 Nato sparato dal classico Fal con proiettile
di ordinanza Smi da una distanza di 10 m. e ad una velocità di impatto di 839 m/s,
corrispondente a ben 3350 joule di energia, viene trattenuto mentre due colpi ben distanziati
di 5.56x45 Nato sparati dalla distanza di 10 m. con un M16 A1 e con munizionamento M193
ad una velocità variante dai 980 ai 1020 m/s, cui corrisponde una energia di soli 1750 joule,
passano entrambi tranquillamente oltre la piastra.
Il principio secondo il quale ad ogni corpo in movimento sia associata un’onda, così come è
stato intuito dal De Broglie, deve essere esteso al caso dell’urto ed allo studio delle reazioni
che il bersaglio oppone al proiettile collidente e soprattutto alle violente forze risultanti dalla
composizione dei fronti d’onda. In particolare si deve sfatare la convinzione che il bersaglio
possa opporre una sola resistenza passiva: se adeguatamente conformato e di materiale
opportuno, è possibile avere un comportamento attivo.
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BLUNT TRAUMA
Tutti pensano comunemente che il giubbotto antiproiettile sia efficace solo se ferma un
proiettile. Un dato appurato è che si può rimanere feriti anche se la palla non passa ilgiubbotto. Questo effetto è chiamato “BLUNT TRAUMA”.
Il BLUNT TRAUMA è il risultato della distanza che la palla compie dopo l’impatto con il
giubbotto, oppure, in altro modo, la profondità del rigonfiamento interno, anche se la
palla non perfora il giubbotto.
Gli standards industriali e le specifiche del Dipartimento delle Armi Americano responsabile
del settore, hanno stabilito che un giubbotto antiproiettile, per essere immesso sul mercato,
non deve oltrepassare i 44 mm. di BLUNT TRAUMA.
Per diminuire il Blunt Trauma (B.T.) occorre distribuire l’energia della palla su una maggiore
superficie del giubbotto nel minor tempo possibile. Le soluzioni al B.T., adottate in vari modi
da tutte le ditte produttrici di giubbotti antiproiettile sono svariate: dai vecchi cuscini di piume,
alle nuove tecnologie del poliuretano espanso. Quella più largamente usata sino ad oggi è
stata la seguente: sovrapposti gli strati del tessuto aramidico, questi vengono cuciti tra loro
sempre con del filo di Kevlar, incrociando le cuciture e formando piccoli quadri o rombi (più o
meno 3x3 cm.) su tutta la superficie come una specie di rete.
Questo tipo di soluzione ha portato sicuramente a ridurre il B.T., ma con un piccolo
svantaggio: il maggior irrigidimento della protezione.
Altre ditte usano il principio di intrappolare la palla come in una rete. Questo principio avviene
utilizzando diversi tipi di Klevar tessuto con titoli diversi tra loro; una volta sovrapposti e cuciti,
creano una decelerazione del proiettile dopo l’impatto con il giubbotto. Però in questo modo
la palla non si deforma e quindi, a volte, riesce a penetrare il giubbotto. Questo processo di
decelerazione può consentire alla palla di continuare la sua corsa dopo l’impatto, causando
in questo caso maggior danno. Per intrappolare il proiettile è necessario che il Klevar sialibero di muoversi come parte di una rete.
Alcune Ditte (Arnoplastik) interpongono, all’interno del giubbotto, tra l’ultimo strato di Klevar e
la veste che ricopre tutto, una lastra di materia tipo gomma che assorbe velocemente l’onda
d’urto data dal proiettile e la propaga su tutta la sua superficie senza un elevato
rigonfiamento all’interno.
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Chiaramente, il contenere il più possibile l’effetto del B.T., è un fattore importante perché
l’indice di invalidità sia permanente che temporanea per taluni tipi di munizioni, può essere
talmente elevato da causare la messa fuori combattimento di colui che viene attinto.
Inoltre, ci sono stati dei casi mortali senza perforazione dell’indumento, ma le cartucce usate
non erano incluse nella classe per cui il giubbotto antiproiettile era idoneo (erano munizioni
sparate da armi lunghe e dotate di velocità molto elevate e fuori standard), per cui non si è
tratta
to di B.T. con ferite mortali dovute magari all’intervento di costole rotte che hanno
perforato organi vitali o di un violento shock idrodinamico che ha fatto scoppiare grandi
organi cavi, ma di una vera e propria penetrazione della parte a contatto con il corpo in
seguito ad estroflessioni considerevoli (78 mm).
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NORMATIVE E TEST
In Italia non esiste per il momento nessuna normativa riguardo alla protezione balistica (nel
settore privato), negli Stati Uniti, invece, tutto il materiale prima di essere messo inproduzione e commercializzato deve superare severi test di collaudo. Si è già fatto cenno agli
standard NIJ e PPAA di cui tralasciamo in questa sede i raffronti e le relative comparazioni,
vediamo invece cosa dicono le normative americane perché un giubbotto antiproiettile possa
essere classificato, con l’adeguato livello di protezione.
La tabella che segue riporta i valori di riferimento relativi ai calibri ed i loro livelli energetici
abbinati ai vari gradi di protezione, indipendentemente dal materiale impiegato per la loro
confezione.
Classificazione 1, livello di protezione = I,
calibri: .22 LRHV, 40 grs, 1050+fps; .38 special RN, 158 grs, 850+50 fts.
Classificazione 2, livello di protezione = IIA,
calibri: 9 mm FMJ, 124 grs, 1090+50 fps; .357 Mag JSP, 158 grs, 1250+50 fts.
classificazione 3, livello di protezione = II,
calibri: 9 mm FMJ, 124 grs, 1175+50 fps; .357 Mag JSP, 158 grs, 1395+50 fps.
classificazione 4, livello di protezione = IIIA,
calibri: 9 mm FMJ, 124 grs, 1400+50 fps; .44 Mag LSWC, 240 grs, 1400+50 fps.
classificazione 5, livello di protezione = III,
calibri: 7,62 FMJ, 150 grs, 2750+50 fps.
classificazione 6, livello di protezione = IV,
calibri: 30-06 AP, 166 grs, 2850+50 fps.
Esempi e conversioni:
Per la classe IIA, oltre a trattenere tutti i piccoli e medi calibri (es. 22 Lr, 22 Mag., 6,35 Br.,
7,65 Br., .38 Special, ecc.) non deve essere oltrepassato da palle cal. 357 Mag. da 158 grani
ad una velocità di 381 + 15 m/s o da una 9 mm. Para con palla da 124 grani ad una velocità
di 332 + 15 m/s.
Per la classe II, oltre a trattenere i già citati piccoli e medi calibri, non deve essere
oltrepassato da proiettili cal. 357 Mag. da 158 grani ad una velocità di 425 + 15 m/s o da una
9 mm. Para con palla da 124 grani ad una velocità di 358 +15 m/s..
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Il BLUNT TRAUMA non deve superare in entrambi i casi i 44 mm..
Esistono numerosi test classificativi, a seconda del tipo di arma, del grado di incidenza e dei
proiettili sparati con potere di penetrazione variabile, che si omettono in questa sede, ma che
servono a far comprendere la variazione di comportamento delle protezioni balistiche in
funzione del tipo di aggressione.
Per la determinazione del B.T. si fa ricorso a test di omologazione con l’utilizzo di materiale
per niente simile ai tessuti umani direttamente a contatto con l’indumento, e cioè la plastilina
tipo “Roma” che è del tutto priva di elasticità ed ha una densità 1,6-1,8 contro quella media
dei tessuti soffici del corpo umano che è 1,02, senza neanche preoccuparsi di considerare
con precisione la ripartizione degli effetti balistici del campione ai vari distretti del corpo
umano. Si è avuta perciò la creazione di modelli sperimentali che non hanno una totale
corrispondenza con il reale.
Comunque, per fortuna, come è risultato da molte esperienze “sulla strada”, nessun
indumento protettivo, anche il più scadente, ha mai fallito il suo compito non solo per il fattore
di penetrazione, ma anche per il trauma. Considerando anche che lo standard U.S.A. è
decisamente più ottimistico di quello europeo (44 mm contro 20 mm) e che l’uso continuativo
e la mancanza di adeguata manutenzione può causare un deciso scadimento proprio in
questa importante funzione, possiamo affermare che i limiti U.S.A., pur arbitrari, sembrano
sufficienti a preservarci dalla minaccia del B.T.
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CONCLUSIONI
In estrema sintesi è bene ricordare che la scelta di un giubbotto antiproiettile non è da fare a
cuor leggero o sulla scorta di consigli raccolti dal sapientone di turno. Occorre avere ideechiare al riguardo, soprattutto in relazione al tipo di minaccia da affrontare ed alle necessità
legate al tipo di servizio (trasporto e scorta valori, piantonamento, pattugliamento, etc.) che
richiede la vestizione dell’indumento protettivo.
Probabilmente alcuni operatori del settore non potranno trovare tutte le risposte in un unico
capo, ma dovranno prevedere la disponibilità di due o forse più protezioni in virtù delle varie
circostanze da fronteggiare.
In ogni caso non conviene mai lesinare sull’investimento ed acquistare quanto di meglio offre
il mercato sia in termini di qualità che di rapporto costo/efficacia. Orientandosi principalmente
sulle seguenti caratteristiche:
- che sia di un livello di protezione non inferiore alla classe II;
- deve avere la possibilità del marsupio anteriore per aggiungere un eventuale piastra
anti-trauma;
- deve essere comodo da portare;
- deve essere leggero e confortevole;
- deve possedere una struttura soffice e non rigida;
- deve poter abbondantemente proteggere i fianchi, garantendo così una protezione globale
del busto.
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