Antigone o Della Colpa

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Luca Campione ANTIGONE Storia di una suicida Tragedia in atto unico e undici scene. “Vorrei che questo libro non fosse mai letto” (M. Yourcenar, Fuochi) Tuo nome, tuo esempio, più fulgido di stella, vorrei seguirti ne tuoi lunghi sentieri, o Antigone.

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Testo teatrale. Rielaborazione del mito di Antigone partendo da Sofocle, con estratti di Brecht e Marguerite Yourcenar.

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Luca Campione

ANTIGONEStoria di una suicida

Tragedia in atto unico e undici scene.

“Vorrei che questo libro non fosse mai letto”(M. Yourcenar, Fuochi)

Tuo nome, tuo esempio, più fulgido di stella, vorrei seguirti ne tuoi lunghi sentieri, o Antigone.

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Dramatis Personae

ANTIGONE

CORO DI TEBANI

CREONTE

ISMENE

EMONE

TIRESIA

CAMERAMAN

NOTA SUL CORO: per mantenere l’ambientazione quanto più intima possibile, il Coro non sia composto d’un numero vasto di persone, bensì pochi coreuti (dalle due alle quattro entità) lo formino, di sesso vario, non necessariamente vecchi. Si alternino le voci nelle battute come singole frasi del solo personaggio-coreuta, se non diversamente indicato.

Ecco come si compone la scena; fondo nero, neutrale, ambientazione cupa, prevalentemente. Maggioranza di ombre. Al centro della scena, faro costantemente puntato dall’alto, sta un sarcofago in pietra chiara. Nell’angolo sinistro, in prospezione del pubblico, pende dal soffitto un cappio. Sul lato destro, illuminato soffusamente, un letto sfatto, una bacinella ed uno specchio. Sullo sfondo, un telo bianco ove avverranno le proiezioni video. Luci dovranno essere a colori freddi, quindi bianco neon soprattutto e un solo faro blu puntato sul letto.

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Scena I

Buio. Sulla scena, dall’alto, un faro bianco illumina il sarcofago. Un altro, più tenue, il letto nel quale Creonte riposa, agitato da sogni luttuosi. Si ode il ticchettio, prima lento, poi crescente, di un pendolo. Poi cessa. Musica sacra, lenta, dolente. In un bisbiglio, il Coro apre la tragedia.

CORO. Chi è stato?... Chi è stato?... Cosa accade? Cosa manifesta il profondo del mezzogiorno? L’odio incombe su Tebe come un sole atroce.Siamo tutti ciechi!

I tre coreuti fanno il loro ingresso in scena, da tre punti versi. Indossano neri pantaloni, semplici, e magliette del medesimo colore e altrettanto semplici. Solo delle calze ai piedi, nere anch’esse. Bende sugli occhi, ciechi, si muovono tentoni, cercandosi, parlando.

CORO. Dal tempo della morte della Sfinge, l’ignobile città è priva di segreti: tutto viene alla luce come l’atroce enigma.Sono io che non ci vedo…Le camere non sono più pozzo di oscurità, nascondiglio delle nostre iniquità. I passanti sembrano sonnambuli di un’interminabile notte bianca. Giocasta si è strangolata per non vedere più il sole. Edipo è diventato cieco a forza di manipolarne i raggi cupi. I cuori si sono inariditi come i campi; il cuore del nuovo re è arido come la roccia. Tanta aridità chiama il sangue. L’odio infetta le anime. Chi è stato?... Chi è stato?... Cosa accade?La sola Antigone sopporta le frecce scoccate dalla lampada ad arco di Apollo, come se il dolore fosse per lei un paio di occhiali scuri.

Dalla platea, entra Antigone; indossa un abito di foggia antica, ridotto in brandelli e cenci infangati. Una vecchia collana d’oro e dei bracciali la adornano, senza farla apparire più ricca, bensì come una mendicante folle ne accentuano l’aria sconvolta. Ha lo sguardo spento, spiritato, fisso innanzi a se, vinto dal dolore e dalla stanchezza, i capelli scarmigliati. Fra le braccia, come crocefisso, regge in cadavere di Polinice, suo fratello, ancora in abiti militari, a tratti trascinandolo perché pesante, ma senza mai arrestare il proprio passo, lento, affaticato, ma deciso. Tace.

CORO. Sconvolti, sconvolti dalla guerra fratricida. Sangue contro sangue e la dannazione di Edipo su di noi. Si urla di gioia per ogni proiettile che non colpisce i nostri cari. Cosa ci vela gli occhi? Cos’è questa caligine?Paura; il terrore serpeggia fra le case, come l’ombra che striscia sotto i portici al sopraggiungere del giorno, come l’acqua dolciastra in fondo alle cisterne. Siamo assediati dalla paura. Con fatica ricostruiamo. Con fatica sopravviviamo noi sopravvissuti al disastro. Ah stirpe di Edipo, qual danno!Sono cieco, sono cieco.

Antigone raggiunge il palco, in silenzio, e depone sopra il sarcofago, a vista, il cadavere di Polinice. Lo fa con gentilezza. Lo fa con tutto l’amore che una sorella può serbare per il fratello sfortunato. Delicatamente, attenta a non ferire oltre il già martoriato corpo del congiunto. Lo sistema, lo

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accarezza, lo bacia. Toglie la collana e la pone sul cadavere, in offerta al defunto. Poi, lentamente, esce di scena.

CORO. Benchè vivo, il cadavere ufficiale di Eteocle, raggelato dal successo, si trova già mummificato nella menzogna; è un editto del re!Benchè morto, Polinice esiste come il dolore; non può irrigidirsi, può soltanto imputridire. È un editto del re!In cielo non brillano stelle a guidarci. Si fa nera la notte. Non c’è più luna. Le Leggi del cielo ci sono occultate. Gli uomini sono privi di destino se il cielo è privo di astri. In questo buio, le coscienze sono spente… anche quella del re. Non si uccide la luce, si può soltanto soffocarla.Chi è stato?... Chi è stato?... Cosa è accaduto?Antigone.

Anche il coro esce.

Scena II

La musica cala e si spegne. Riprende il ticchettio del pendolo. Creonte continua ad agitarsi nel sonno, balbettando qualche parola. Sembra quasi voler afferrare qualcuno o qualcosa. Poi, di soprassalto, si sveglia, sudato e stravolto. Porta un pigiama, semplice nell’aspetto, un po’ logoro, non ha l’aspetto di un re. Sul viso ha i segni di grandi fatiche e molteplici angosce.

CREONTE. Oh Dio, signore d’ogni legge e protettore dei reggenti, orribili sogni mi stravolgono la notte ed un incessante battere, un ticchettio raggelante mi tormenta. Gli dèi hanno risollevato la città, dopo averla scossa con violente mareggiate. Con mano ferma cerco di guidare la mia imbarcazione verso porti sicuri, ora che la stirpe di Laio è disfatta, per duplice destino ed empio fratricidio. Su di me grava la reggenza; e ci son volte in cui desidero che mai un simile peso mi fosse piombato addosso (si guarda allo specchio, perplesso e stanco).Ma un re, non può e non deve mai mostrarsi debole agli occhi dei propri sudditi, meno che mai alle altre città, o rischia di essere schiacciato. Rischia l’anarchia. Pertanto, si prosegua con le buffonerie (si sciacqua il viso). Tiriamo il carro, non come guidatore, ma come cavallo, con morso e paraocchi (lega una benda nera sugli occhi)… per non vedere… per non sentire… per non ammorbidire il cuore.

Afferra lo scettro/bastone, e con esso, tentoni anche lui, si alza e si muove per la stanza, finchè non incontra il cadavere di Polinice (lo riconosce toccandolo).

CREONTE. Cos’è questo fetido puzzo di putredine? I cadaveri non hanno smesso di marcire alle porte della città? Chi è? Un corpo? È Polinice, lo sento dalle stelle e dai gradi sul petto della casacca. La mia mano gliele appuntò sul petto, prima del tradimento!Chi l’ha portato qui? Chi ha trasgredito il mio decreto? Chi mette in dubbio la mia autorità? Chi porta fantasmi nella mia casa, nella mia città? Uomini! Vecchi di Tebe, venite, presto! Presto!

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Il coro rientra, cieco, barcollante.

CORO. Che accade, o signore di Tebe? Le vostre grida si sono udite fino ai confini della città, per tutte le sette porte hanno risuonato. Qualche attentato da parte dei Ribelli?

CREONTE. No, eppure mai torto più grave mi fu fatto fino ad oggi.

CORO. Qual torto? Parla, Creonte.

CREONTE. Qui, qui giace sepolto e compianto il cadavere di Polinice quando, per mio decreto, chiaro ne avevo negato ogni onore, condannandolo al banchetto delle bestie. Chi può aver commesso tanto? Chi osa sfidarmi?

CORO. Quando si è privi di Leggi celesti, ci si affida alle Leggi umane. Chi non le rispetta o è un savio o uno brigante e stolto… O magari un dio…

CREONTE. Che cosa insinui?

CORO. Nulla, mio signore, non insinuo nulla, sebbene la cosa appaia assai strana, ai miei occhi; chi è tanto stolto da sfidarti, rischiando la morte? E come fa un corpo tanto noto ad essere arrivato fin qui, non visto? Le guardie sulle mura e alle porte dormivano, forse? O magari, non hai posto una dovuta sicurezza perché il tuo volere fosse rispettato?

CREONTE. Ho messo molti uomini a guardia di quel corpo, fidati e leali.

CORO. Allora deve esserci di mezzo la volontà degli dèi, maestà…

CREONTE. Taci, prima che le tue parole mi esasperino! Cerca di non mostrarti vecchio e stupido allo stesso tempo. Non ti permetto di affermare che gli dèi si prendono cura di questo cadavere. Forse l’hanno seppellito come premio per le sue benemerenze, lui che venne per dare alle fiamme i templi, le colonne e le offerte votive, per devastare la loro terra, per infrangere le loro Leggi? Quando mai gli dèi hanno reso onore ai malvagi? No, non è possibile. È mano d’uomo, l’artefice di questo empio gesto. Sono stati i Ribelli a farlo, in aperta sfida contro di me.Che sia, ancora una volta, chiaro a tutti il concetto: per quel che riguarda Polinice, che ritornò dall’esilio per mettere a ferro e fuoco la sua città natia e devastare gli altari degli dèi, e bramò dissetarsi del sangue fraterno, di Eteocle, re della città, e ridurre noialtri in schiavitù, si fa divieto a questa città di tributargli esequie e lamenti, ma sia lasciato insepolto e sfigurato, pasto di uccelli e cani. Questo è il mio pensiero. Mai da me i malvagi riceveranno più onore dei giusti; onorerò solo chi è devoto a questa città, da vivo e da morto!

CORO. Tale a te piaccia che sia, figlio di Meneceo, la ricompensa per il nemico di questa città. Certo tu hai il potere di adottare qualsiasi misura, sia verso i vivi sia verso i morti. Cos’altro ordini?

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CREONTE. Che sia percorsa tutta la città, spiato ogni buco, controllata ogni fessura, udita ogni voce anche quella più silenziosa. Si scopra la mano che ha compiuto questo gesto infame, quest’atto di libera rivolta verso le Leggi Scritte ed il loro Legislatore. Nessun dorma finché non avremo un nome, un volto ed un corpo da accompagnare a questo!

Creonte, furente, esce di scena.

CORO. (sommessamente) In vero, sa bene il re che in questa città malata, nessuno più dorme da anni.

Escono.

Scena III

Entrano Antigone ed Ismene; la prima sul palco, la seconda, dalla parte opposta, in platea. Reggono entrambe delle torce. Si cercano, si chiamano in bisbigli attenti e nascosti. In Antigone s’avverte decisione. In Ismene un profondo terrore. Tutte le luci sono spente, ad eccezione del faro sul corpo di Polinice.

ANTIGONE. Sorella… Ismene…?

ISMENE. Antigone, dove sei, non ti vedo?

ANTIGONE. Son qua, sull’erta.

ISMENE. Antigone… ti prego, vieni… ho paura.

ANTIGONE. Sorella, io sono qui, alle porte del palazzo.

ISMENE. Antigone, non ti vedo.

ANTIGONE. Sono nel giardino, Ismene cara.

Ismene raggiunge, tentoni, il palco. Anche lei è bendata, come tutti. Antigone le si accosta, la prende per mano, con gentilezza, come si fa con i bambini, e la accompagna presso la tomba ed il corpo di Polinice.

ISMENE. Antigone… Antigone… non ti vedo… dove sei?

ANTIGONE. (Raggiunto il cadavere, posa le mani della sorella sui resti amabili del fratello) Presso il corpo di Polinice, nostro povero fratello.

Ismene ritrae, dapprima, le mani, spaventata. Poi scoppia in lacrime. La sorella l’abbraccia e le toglie la benda dagli occhi.

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ANTIGONE. Sorella, conosci sventura, fra quelle che hanno origine da Edipo, che a noi due sopravvissute Dio non risparmierà? No. Non c’è dolore o rovina, non c’è vergogna o disonore che io non abbia riconosciuto nei miei, nei tuoi mali.

ISMENE. No, no, non dirmi che sei stata tu…

ANTIGONE. Sì, sono stata io.

ISMENE. Non puoi. Hai trasgredito le Leggi di Stato?

ANTIGONE. Sì, l’ho fatto.

ISMENE. Ma conosci l’editto di Creonte, tu sai bene quale sia la sua volontà, tu conosci la pena che ne verrà…

ANTIGONE. Sì, io so.

ISMENE. Allora perché l’hai fatto?

ANTIGONE. Perché Creonte non può tenermi separata dalle persone che amo.

ISMENE. Ahimè sorella, pensa al nostro compianto padre: perì nell’infamia quando la scoperta delle proprie colpe lo spinse a figgersi gli occhi con le sue stesse mani. Pensa a sua madre e sposa, due nomi in uno: si tolse la vita con un cappio. E pensa in fine ai nostri due sciagurati fratelli, che nello stesso giorno la stessa morte l’un l’altro si diedero. Ora noi siamo rimaste sole… dovremo bastarci l’una per l’altra…

ANTIGONE. Tu sei più giovane, hai visto meno mali. Il passato, se tu lo lasci stare, non rimane passato. Non nasconderti dietro vecchie ombre, fingendo che quel che accade non sia loro figlio.

ISMENE. Considera la fine che faremo, miserabile, se violando le Leggi trasgrediremo la volontà dei capi… No, dobbiamo ricordarci che siamo due donne, incapaci di tener testa agli uomini; (riprende la benda, si acceca nuovamente) è nostro dovere obbedire agli ordini, anche se ingrati. Perciò chiedo agli spiriti dei morti di perdonarmi, poiché contro la mia volontà agisco così, io che subisco violenza. Agire di là dei propri limiti è assolutamente insensato.

Antigone si scosta dalla sorella, rivolgendo adesso gli sguardi solo al suo compianto fratello.

ANTIGONE. Non cercherò più il tuo aiuto. Resta pure quale vuoi essere: è bello per me morire in questa impresa. Cara a lui che mi è caro giacerò, per un santo crimine. Ben più a lungo dovrò essere cara ai morti che ai vivi. Laggiù, infatti, riposerò per sempre; fa’ ciò che ritieni più giusto, tu, Ismene cara. Non ti biasimo.

ISMENE. Non è questione di princìpi; io ho paura! Non ho la forza di agire sfidando la città.

ANTIGONE. Nulla v’è di più improprio dell’amor proprio.

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ISMENE. Antigone, crudele! Ti prego, basta! Le tue parole son più terribili delle saette di Dio…. Almeno, non rivelare a nessuno il tuo gesto, come farò io.

ANTIGONE. Hai osservato che i fucilati si ripiegano, cadono in ginocchio? Del tutto rilasciati nonostante le corde, si afflosciano come in un postumo svenimento. Fanno come me. Adorano la morte.

ISMENE. Mostruosi mi arrivano questi tuoi pensieri. Ti prego, non abbandonarmi anche tu, non lasciarmi sola, preda del castigo degli dèi. Da sola non ne sopporterei il peso.

ANTIGONE. Non temere, sarai presto liberata. Non darsi più pena, è darsi ancora. Significa dare il proprio sacrificio.

ISMENE. Parli come una pazza.

ANTIGONE. Io sono pazza. È un difetto che abbiamo noi pazzi, l’ossessione dell’amore.

ISMENE. (s’inginocchia, disperata, ai piedi della sorella, abbracciandone le ginocchia) Perché lo fai, Antigone? Antigone?... NO!... Non dire, non pensare, non agire… resta viva, resta con me…

ANTIGONE. (di colpo diviene crudele, severa; rimprovera una Ismene in lacrime) Se tu parli così, allora io ti odierò sempre di più e sarai in odio al defunto. Basta, vattene, miserevole donna, figlia degenere di nobili genitori; lascia che io, con la mia dissennatezza, affronti questo rischio. La morte che mi toccherà non sarà ignobile.

ISMENE. (ancora a terra, strisciante, cieca, piangente) Allora va’, questo è il tuo irremovibile volere; ma sappi che fino in fondo, anche se li fai soffrire, sempre cara sarai ai tuoi cari, anche se folle.

Ismene va via, gattonando, strisciando, piangendo, prostrata dal dolore e dalla debolezza che le son propri. Antigone resta sola con il cadavere. S’ode il rumore d’una goccia d’acqua che cade.

ANTIGONE. Che silenzio, che vuoto in torno a me; non mi spaventa. Respiro a pieni polmoni l’aria umida della sera. Puzza di fumo, ma non importa. Sono libera di respirare come voglio. È fatta, Antigone. Da questo momento in avanti, non si torna più indietro. Ogni passo misura, senza timore. Sia l’amore a guidarti. Carità, pietà, misericordia servono, non rancore né odio. Solo grande comprensione. Ah come vorrei che diversamente fosse andata, che diversamente vada. Si potesse sdoppiare la mia vita, ed io vivere ancora, e meglio, priva d’affanni e ricolma di gioie!

Ancora la goccia. In video, sullo sfondo, appare Antigone, un’altra Antigone. In medesime vesti; lei scura, su fondo candido. Osserva il pubblico da dietro lo schermo, come spettro o apparizione aerea, dall’alto. Poi lentamente scompare. La vita si sdoppia nell’insieme dei possibili.

ANTIGONE. (si rivolge al cadavere di Polinice; ne prende una mano, la accarezza, la bacia, la poggia su una guancia) Tu potresti sprofondare in blocco in quel nulla dove scompaiono i morti: io mi consolerei se tu mi lasciassi l’eredità delle tue mani. Soltanto le tue mani

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sopravvivrebbero, scisse da te, inesplicabili come quelle degli dèi di marmo diventati polvere e calce della loro stessa tomba. Sopravvivrebbero ai tuoi atti, i gesti miserabili che hai compiuto. Non servirebbero più da intermediarie fra le cose e te: sarebbero mutate loro stesse in cose. Ridiventate innocenti, dal momento che non ci saresti più tu a farle tue complici, tristi come levrieri senza padrone, sconcertate come arcangeli a cui nessun dio dirami più ordini, le tue mani inutili riposerebbero sulle ginocchia delle tenebre. Le tue mani aperte, incapaci di dare o di prendere qualsiasi gioia…

Con uno straccio bianco, un po’ sudicio, che trae fuori dalla tasca, compre il viso del defunto. Poi, con un ultimo saluto in forma d’abbraccio e bacio sulla fronte, gli volta le spalle per andar via.

Scena IV

Antigone, nel silenzio, fa per allontanarsi. Il suo passo però viene arrestato dall’improvvisa entrata del Coro. In fretta, si nasconde alla loro non-vista. Il Coro entra, cieco come sempre; si reggono l’un l’altro: ciechi guidano altri ciechi.

CORO. Fra tutte le creature della terra, alcuna è mirabile più dell’uomo!

ANTIGONE. (celata dal sarcofago, accovacciata, sussurra) Fra tutte le cose più terribili di questo mondo, nessuna è più peggiore dell’uomo…

CORO. Molti sono i prodigi che compie: solca i mari in solido legno, sospinto dai venti del sud, resistendo all’implacabile Ponto.

ANTIGONE. Con artifici, l’astuto uomo cattura le fiere selvagge, più di quelle che può mangiare; fame di denaro, di gloria, di destrezza è la sua. Nulla che sia giusto in questo…

CORO. La terra imperitura infaticabile, con l’aratro solca ogni anno, producendo sapidi frutti. Nobile inventore d’aeree parole e savi pensieri e impulsi civili. Sa egli come fuggire i dardi del gelo e dell’arsura. In tutto ciò non ha confini.

ANTIGONE. Ma un limite gli è imposto, lui che non trova nemici, di sé fa il proprio nemico. Come al toro piega al suo prossimo la nuca; ma il prossimo gli strappa le viscere. Se avanza, calpesta spietato i suoi simili.

CORO. Ogni azione che compie la volge al bene e può volgerla al male; ma certo preferisce, l’uomo saggio, assecondare Giustizia, per questo inventa le Leggi!

ANTIGONE. Per timore d’altro scontro, di rapina del simile fratello egli erige, mai sazio, un muro a cingere la terra che proclama sua.

CORO. Fuor dalla città a imputridire, se per audacia un uomo sfiderà le Leggi; non condivida il mio focolare, non mi sia amico chi agisce in questo modo.

ANTIGONE. Quel muro deve essere abbattuto! E il tetto divelto, aperto alla pioggia! L’umano tiene in conto di nulla. Per questo diventa così terribile a se stesso.

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Cerca allora di fuggire Antigone, ma non s’accorge e sbatte contro uno dei coreuti che, afferrandola, tastandone il volto, la riconosce.

COREUTA. (tenendo stretta la ragazza) Cos’è mai questo prodigio, mandato dagli dèi? La riconosco! È Antigone… oh sventurata figlia di sventurato padre, che mai ci fai tu in questo posto, proprio nei pressi del corpo di Polinice? Non sarai stata tu ad averlo compianto?

CORO. Oh, pietoso cielo, cosa hai fatto? Proprio tu, poi? Povera disperata, come t’è venuto in mente? Non sai che Creonte ti cerca? Vuole il colpevole e non esiterà a punirti con la morte,

adesso. Perché sei tornata qui? Guarda cosa ci costringi a fare, per la tua intemperanza.Dobbiamo condurti dal re, è nostro dovere…No, forse, se fingessimo di non averla incontrata, se lei non ne facesse parola con nessuno, magari potrebbe scampare al suo male e noi al dolore di doverla consegnare…

ANTIGONE. No. Consegnatemi pure a Creonte, più intemperante di me con la sua Ragion di Stato. Non temo la morte e fregio mi faccio delle mie azioni: meglio disobbediente alle Leggi Terrene che a quelle Divine. (gridando) Anzi, si gridi il mio nome ed il mio crimine ai venti, perché tutta la città dalle settuplici porte conosca ora chi ha osato sfidare il potere reggente: sono stata io, Antigone, figlia di Edipo a seppellire mio fratello, macchiandomi del peccato di compassione!

CORO. Ssssst… infelice, oh infelice fanciulla, che cosa ci costringi a fare? Crudele fra tutte le donne, non hai pietà per i tuoi concittadini? Noi non vogliamo che tu muoia.

ANTIGONE. E voi? Voi ne avete avuta per il corpo di mio fratello? Se pietà non darete, pietà non riceverete.

CORO. E sia, amici. Costei forgia da sé il proprio destino; vuol morire, e morte avrà. Conduciamola da Creonte: che non tocchi a noi la stessa sorte di Capaneo, colpito dalla collera di Dio, e noi da quella del sovrano.

In coro, accerchiata Antigone, l’afferra e la trascina via. Non con forza le si impongono, ma quasi sembra che sia lei a guidare e loro a seguire. Schiena ritta, capo alzato e fiero, diversa dai coreuti che, invece, si mostrano mesti e si battono il petto in suono ritmico, dolenti, capo chino. Con una mano trattengono la prigioniera, con l’altra cercano di non inciampare o sbattere contro ostacoli da loro non visti. Usciti di scena, in questa sorta di processione, di conduzione al patibolo o all’altare sacrificale, parte il video. Colori tenui, quasi ovattati, sembra un dipinto. Una spiaggia, il mare che bagna la sabbia. Lì, fra le dune, il cadavere abbandonato di Polinice. Sopraggiunge Antigone, seguita dalla sorella Ismene. Raccolgono i resti del fratello e delicatamente li posano su una lettiga. Puliscono il corpo non ancora putrescente, sanguinante ma integro, ancora umano. Arrivano i cittadini tebani, che con gesto pietoso, depongono fiori sul povero corpo e poi, disponendosi in fila, seguono le due fanciulle in processione funebre. In testa

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sta Creonte che sembra dirigere il coro delle lamentazioni. Non si odono parole, solo suoni naturali delle onde, del vento, il cinguettare degli uccelli e la musica. Antigone depone il suo abito cencioso sul corpo del fratello, restando in tunica candida. Non sembra la donna folle della tragedia, bensì una bellissima ed allegra fanciulla, degna figlia di re. Qui, il video termina e si spegne. Buio e silenzio.

Scena V

Entra Creonte. Stanco più dell’inizio, si regge sullo scettro tastando il terreno, attento che non vi siano buche in cui inciampare, portando sempre una mano avanti a se. Sul capo, quasi comicamente, in modo scialbo, sta la corona del potere, tutta d’oro annerito, ammaccata dalle numerose contese che in torno ad essa si son svolte. Sul pigiama sdrucito e i capelli scarmigliati fa certo la sua gran figura! Raggiunge il letto sul quale si siede, sospirando, stiracchiandosi. Depone lo scettro. Si toglie la benda dagli occhi e si stende, avvoltolandosi nelle coperte, facendo cigolare il letto. Pochi secondi di quiete. Poi il fatidico ticchettio del pendolo ricomincia a suonare, lento, imperturbabile, fatale. Turba ancora il sonno del re stanco che riprende ad agitarsi. Creonte, è costretto a svegliarsi.

CREONTE. Come può essere che quel corpo giaccia ancora lì, compianto, indifferente al mio editto? Sono forse tanto sottovalutato dal mio popolo? È così inudibile la mia voce alla loro volontà, al loro orecchio? … Da quando stringo lo scettro, non poche sono state le parole a levarsi contro di me, in protesta continua: “non sei come Edipo, non sei come Laio” si grida. No, io non sono come loro. Io non sono nato per essere re. Ah, voglio sapere chi sia stato a compiere quel gesto infame. Come ha sviato la vigilanza? Quei Ribelli sono stati, corrompendo le mie guardie col denaro, ne son sicuro. Mai ebbe corso consuetudine tanto deleteria come il denaro, che rovina le città, che scaccia gli uomini dalle loro case, che ammaestra e volge al male le menti degli onesti, incitandoli a vergognosi delitti: è il danaro che insegna ogni misfatto… ma i guadagni illeciti portano più uomini alla rovina che alla salvezza.

Il pendolo cessa di battere. Con passo lento, un po’ per l’insicurezza dovuta alla condizione, un po’ per l’imbarazzo, un po’ per l’indecisione, entra un coreuta.

COREUTA. Creonte… Creonte dove sei?

Creonte, scorgendolo, rapido s’appresta a bendarsi e poggiare, maldestramente, la corona in testa.

CREONTE. Dimmi, amico fraterno, cittadino di Tebe, cosa desideri?

COREUTA. Mio sovrano, non posso dire d’esser giunto trafelato per la fretta. Ho avuto, infatti, molte pause di attenta meditazione e spesso per la via mi voltavo per tornare indietro…

CREONTE. Cosa ti turba? Qualche nuova?

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COREUTA. Non ho cuore di parlare, maestà. Le notizie infauste mettono sempre in imbarazzo.

CREONTE. Coraggio, parla su! Non esasperarmi con farfugliamenti insensati!

COREUTA. Mentr’ero con gli altri anziani, un prodigio –se così si può dire- s’è manifestato a noi. La fiera Antigone, figlia di vostra sorella Giocasta, presa in flagrante: è stata lei a seppellire, pietosa, il corpo di Polinice. Lei non nega nulla, anzi, quasi se ne fa un vanto… carattere fiero come quello del padre…

CREONTE. Ma come? Ti rendi conto di quel che dici?

COREUTA. Me ne rendo conto, sire, ma questo è tutto. E sappiate che non a cuor leggero riferisco i fatti. Piango la sventura di lei, che molto mi è cara. Provo gioia e tristezza al tempo: scampato dalla tua collera, ricado nel dolore nel vedervi precipitare chi mi sta a cuore. Tutto questo mi preme assai meno della mia personale salvezza.

CREONTE. (furioso) Portatela qui!

Scena VI

Cambio d’atmosfera. Fai rossi illuminano tutto il palco. Entrano gli altri membri del Coro che accompagnano, Antigone decisa più di loro ad affrontare lo zio. Si avviano verso il re che, seduto sul letto a mo’ di scranno regale, già interroga la ragazza.

CREONTE. (tono imperioso, collerico) Dico a te, sì a te che nemmeno ora abbassi il capo: neghi o ammetti di aver compiuto il fatto?

Raggiungono il palco. Il Coro la lascia, per porsi, nuovamente integro, dalla parte opposta a quella di Creonte. Antigone, in mezzo, sarà libera di muoversi e mai abbandonerà il cadavere proteggendolo come una leonessa col proprio cucciolo.Gli si avvicina, lo sfiora dolcemente.

ANTIGONE. Sì, sono stata io. Non lo nego.

CREONTE. Dimmi chiaro e senza giri di parole: conoscevi il mio editto che vietava proprio ciò che hai fatto?

Continua, la giovane, a curarsi del corpo. Toglie un bracciale dal proprio polso e lo pone sul petto del fratello.

ANTIGONE. Sì, lo conoscevo; e come potevo non conoscerlo? Era pubblico.

CREONTE. Eppure hai osato trasgredire questa norma.

ANTIGONE. Perché questo editto non fu proclamato né da Dio né da Giustizia. Io non potevo andar contro Giustizia sospinta dalla paura, come voi tutti. Sapevo bene –cosa credi?- che la morte mi attende. Ma se devo morire prima del tempo io lo dichiaro un guadagno: chi,

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come me, vive immerso in tanti dolori, non ricava forse un guadagno a morire? Non provo dolore nella morte; dolore avrei sofferto se avessi lasciato insepolto il corpo di un figlio di mia madre. Paura? Non ho timore. La sofferenza insegna a non temere più nulla. L’opulenza ed il benessere, rendono timorosi. Si dice pazzo di gioia: si dovrebbe dire savio di dolore.

CREONTE. Chi è in mani altrui non si può permettere di fare il superbo. Io non sarei più un uomo se impunemente ti lasciassi andare. Non sia più considerata figlia di mia sorella, né ad alcuno sia legata in questa casa! Costei non sfuggirà alla morte amarissima.

ANTIGONE. (rivolta nuovamente al cadavere. Tono addolcito. Sistema meglio la salma) C’è altro che vuoi da me, oltreché uccidermi?

CREONTE. No, questo solo mi basta!

Antigone prende dal collo del fratello la placchetta di riconoscimento usata dai militari e la indossa.

ANTIGONE. Che aspetti dunque? Non una delle tue parole mi è sopportabile né mai lo sarà! Come acquistare fama più illustre che dar sepoltura al mio caro fratello? E tutti i presenti mostrerebbero di apprezzare il mio gesto, se la paura non sbarrasse loro gli occhi!

CREONTE. Tu sola, fra tutti i tebani, la pensi così.

ANTIGONE. (tono arrabbiato) No, la pensano come me, ma frenano la lingua per compiacerti.

CREONTE. E tu non ti vergogni a distinguerti da loro?

ANTIGONE. Non è una vergogna onorare i consanguinei. Tu temi gli spettri; io non temo nemmeno i vivi. Sono terribili solo perché hanno un corpo.

CREONTE. E non era tuo fratello anche colui che cadde sul fronte opposto? Lo consideri forse alla stessa stregua di quel sacrilego?

ANTIGONE. Ma suo fratello è morto, non una bestia!

CREONTE. Che assalì questa terra, ed Eteocle cadde per difenderla! I criminali non devono ottenere gli stessi onori dei giusti.

ANTIGONE. Fra i morti non esiste distinzione; sono morti, di giustizia ed ingiustizia, non importa più a nessuno nell’Ade.

CREONTE. Il nemico non è mai un amico, neppure fra i morti.

ANTIGONE. (grida) Io sono fatta per amare, non per odiare!

CREONTE. (urla) Allora se vuoi amare, scendi sotterra ed ama i morti!

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Con un grido lacerante, fa la sua comparsa in scena Ismene. Capelli scarmigliati, sguardo sconvolto dal pianto. È priva di benda; ci vede, come la sorella. Piangendo scappa ai piedi di Creonte, abbracciandone le ginocchia, in supplica accorata.

ISMENE. No… grande sovrano, fratello di mia madre… no, ti prego, risparmia la vita di mia sorella. Ti prego.

CREONTE. (impassibile, freddo. Le pone una mano sul capo) Tu, che sei strisciata come una vipera dentro la mia casa per succhiarmi di nascosto il sangue, e io non sapevo di nutrire due mostri, due rovine del mio trono, coraggio, dimmi. Anche tu riconoscerai di aver preso parte al seppellimento? O giurerai di non saperne nulla?

ISMENE. Sono io l’autrice, se la sorella lo consente. Anch’io partecipai, prendo su di me la mia colpa.

ANTIGONE. No, la sorella non acconsente. Lei non voleva. Io non l’ho presa con me.

In ginocchio, Ismene s’interpone fra i due quasi per impedirne uno scontro fisico.

ISMENE. Ma ora che soffri non mi vergogno a soffrire con te.

ANTIGONE. Non mi piace chi ama a parole.

ISMENE. Non è da tutti alzare il capo per primi. Forse l’onore della morte tocca anche ad una come me. (si aggrappa ad Antigone) Non respingermi.

ANTIGONE. Non essermi compagna nella morte: la mia basterà.

ISMENE. E che gioia di vivere mi resta, se tu mi lasci?

ANTIGONE. Chiedilo a Creonte: è di lui che ti preoccupi. (malamente la scosta da sé).

ISMENE. (piange) Perché mi maltratti così?

ANTIGONE. E invece soffro a ridere di te. Tu hai scelto di vivere, e non ti biasimo. Io ho scelto di morire.

ISMENE. Ma io devo fare qualcosa per te. Devo!

ANTIGONE. Mettiti al sicuro: sono gelosa della tua salvezza.

ISMENE. Eppure ti ho assecondata nella colpa.

ANTIGONE. (si abbassa ed abbraccia con forza la sorella) Coraggio! Tu sei viva, quindi continua a vivere. La mia vita si è chiusa per sempre al servizio dei morti, ma muoio nel corpo. Chi ha paura, muore nell’animo.

ISMENE. (a Creonte) O sovrano, a chi sofferse non resta neanche quel tanto di ragione che abbia maturato di sé, anzi scompare completamente.

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Antigone esplode in fragorosa risata di scherno.

ANTIGONE. Come sarebbe stato scialbo essere felici!

CORO. Ridi della tua condizione? Nei malanni fai umorismo?

ANTIGONE. Umorismo? Nel dolore? C’è pure un po’ di sale nelle lacrime.

CREONTE. Basta, non ti sopporto più! (ad Ismene) Vedi? Seppur qualcuno volesse graziarla, come potrebbe farlo vedendosi deriso con tanta sfrontatezza? Compassione per il morto? No, non è compassione la sua; è la morte che brama, non l’amore!

Antigone smette di ridere, di colpo, come fucilata. China per la prima volta il capo e chiude gli occhi.

ISMENE. Che vita mi resta, sola, senza lei?

CREONTE. No, non dir più “lei”: ora non è più.

CORO. La sua morte è decisa, a quel che vedo.

CREONTE. Siamo in due a crederlo. E ora basta con gli indugi. Vada fuori di qui. Legatela. Anche gli audaci cercano di fuggire, quando sentono la morte approssimarsi.

ANTIGONE. (ripresa la spavalderia) Non occorre, vado da sola a chiudermi nelle carceri. Non sia più che dei ciechi mi guidino.

Antigone esce. Ismene, afflitta, la segue. Prima d’uscire, però, s’accosta al cadavere e pone sui suoi occhi la benda nera che copriva precedentemente i propri.

ISMENE. Anche tu, fratello, anche tu eri cieco, come nostro padre. Hai accecato tutti noi.

Esce.

Scena VII

Il Coro si porta sul proscenio, mantenendosi sempre a sinistra dell’ara, in schiera compatta. Creonte, furente, borbottando, si rimette a letto; si dimentica di togliere le bende dagli occhi. Ripone la corona per terra, ai piedi del letto. Ritorna l’atmosfera iniziale. Spenti i fari rossi. Il Coro riprende la parola; si rivolge direttamente al pubblico.

CORO. Amici. Popolo di Tebe. Vedo nuove sofferenze sulle sofferenze dei morti, giungere alla casata dei Labdacidi; da tempo remoto si accalcano. E progenie non libera progenie, ma un dio li prostra e non ha requie la stirpe.

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Eccesso non tocca la vita mortale senza sventura. Per molti è un vantaggio, l’irrequieta speranza; ma spesso si rivela illusione di labili sogni. Ora, il Soffuso Raggio della casa di Edipo, ultima radice, polvere insanguinata sacra agli dèi sotterranei, e cecità, dissennato volere, pauroso delirio, ora la falciano via. Non si uccide la luce, si può soltanto soffocarla: si mette sotto il moggio l’agonia di Antigone. La vista del dolore non piace a nessuno.

Fa il suo ingresso Emone, figlio di Creonte e fidanzato di Antigone. Giovane anch’egli, non porta bende sugli occhi, ma vede chiaramente i mali della sua città. È Antigone e l’amore per lei che lo rendono savio. I suoi colori sono grigio e nero. È scalzo. Anch’egli, sconvolto dalla decisione paterna, cerca con belle e calme parole di addolcire il padre.

EMONE. (Arriva correndo, ma in prossimità del padre s’arresta e incerto gli si avvicina. Lo chiama) Padre… padre mio…

Creonte sobbalza, si sveglia di colpo e rotola giù dal letto in un groviglio di coperte.

CREONTE. Chi è?... ohi la schiena… non vedo niente… è possibile mai che in questa città, in questa casa, non si possa dormire in pace?

Emone soccorre il padre aiutandolo ad alzarsi, tenendolo sottobraccio.

EMONE. Padre… ecco, ti aiuto io… bada a non inciampare alla tua età.

CREONTE. Figlio, oltre il danno anche la burla? Ricordati che invecchierai anche tu un giorno e ti toccherà in sorte la mia stessa sorte.

EMONE. (gli porge con la mano libera il bastone) Ecco lo scettro…

CREONTE. Grazie, grazie caro ragazzo. Gran gioia per me averti come figlio, il più amabile di tutti. Dimmi, Emone, perché sei qui? Hai già udito del verdetto inappellabile che ha dannato la tua fidanzata? Oppure conservo ancora il tuo affetto, qualunque cosa io faccia?

EMONE. Padre, quant’è vera questa parola, io ti appartengo e tu, con i tuoi avveduti consigli mi indichi sempre la via: sempre li seguirò. Non posso odiarti.

CREONTE. (ridendo) Proprio questo volevo sentirti dire (gli da una pacca sulla spalla)… accompagnami al mio trono. Questo principio dovrai sempre tenerlo saldo: assecondare in tutto, la volontà paterna.(si siede).No figlio mio, non perdere la testa per il piacere che Amore ti può dare; ricordati che gelido è l’abbraccio di una compagna indegna.

CORO. Esiste forse piaga più indegna di un legame sbagliato?

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CREONTE. Lascia che costei si cerchi un marito fra i morti. Per nulla al mondo smentirò la mia parola di fronte la città, ma la ucciderò.Come potrei lasciare crescere l’insubordinazione in seno alla mia famiglia? No, chi è saggio verso i propri familiari si mostrerà giusto anche verso i cittadini. Ascolta bene e apprendi per il futuro, o re dei nipoti tebani. A chi la città affida il potere, a costui occorre obbedire. Non c’è male più grave dell’anarchia.

EMONE. (gli siede accanto) Padre la ragione è il bene più grande che Dio abbia concesso all’uomo. Ma lascia, ora, che tuo figlio si curi di te; è mio compito naturale osservare, per il tuo bene, quanto si dice o si fa o si contesta. Il tuo sguardo intimidisce il semplice cittadino come il più forte, impedendogli di esprimere il proprio pensiero. Ma io, tenendomi nell’ombra, posso udire tutto, e so quanto la città lamenta che questa fanciulla, la più innocente fra tutte le donne, debba morire per un atto così nobile. Non è degna, al contrario, dell’onore più splendido?Queste sono le voci che si spargono, oscure, in segreto.

CREONTE. (innervosito) Ah, anche tu ti allontani? Che contraddizione le tue parole.

EMONE. Padre… padre non voltare la testa dall’altra parte. Ascoltami, ti prego. Non trincerarti, no, nell’idea che solo ciò che dici tu, e nient’altro, sia giusto. Quanti presumono di avere sempre ragione, o di possedere una lingua e un animo superiori, ebbene, una volta scrutati a fondo, rivelano il loro vuoto interiore. Ti prego, padre, arrenditi e concedi al tuo animo un qualche cambiamento.

CORO. (parlando fra loro) A mio giudizio, quel che dicono entrambi è giusto. Vedremo se Creonte è una quercia o un giunco innanzi alla tempesta del Fato; fletterà o opporrà durezza a durezza?

CREONTE. Alla mia età, dovrò sentire una predica da un ragazzo?

EMONE. (si alza, si allontana) In nulla che non sia giusto. Se io sono giovane, non dovresti badare all’età quanto al comportamento.

CREONTE. Ed è un bel comportamento aver riguardo per i nemici di tuo padre?

EMONE. Che sia nemica lo nega tutta Tebe!

CREONTE. Sarà dunque la città, i cittadini, a dirmi come devo governare? È la nave a guidare o il pilota?

EMONE. Lo vedi? Sei tu a parlare come un ragazzo. Nessuna città appartiene ad un solo uomo.

CREONTE. Ma non si suol dire: la città è di chi la governa?

CORO. Tu dovresti regnare su un deserto!

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CREONTE. Ami più lei che tuo padre; parli per difendere quella donna!

EMONE. Sì, se tu sei quella donna: perché è di te che mi preoccupo, non solo di lei!

CREONTE. Disgraziato, mettere sottoaccusa tuo padre!

EMONE. Sì, perché credo che offendi Giustizia!

CREONTE. Offendo Giustizia se esercito il mio potere?

EMONE. Ma tu calpesti la Legge degli dèi.

CREONTE. Non la sposerai mai, almeno da viva!

EMONE. E allora Morte sia il ministro di questa unione, fuori dalla tua volontà.

CREONTE. Conducetemi qua l’essere odioso, che come una spada separa il padre dal figlio. Che muoia subito, davanti gli occhi del fidanzato.

EMONE. Davanti a me no, non ci sperare. Non sperare mai più di rivedere il mio volto, Creonte, pazzo. Sfoga s’ora in poi la tua furia su quanti saranno disposti a sopportarla.

Emone esce, fugge via. Creonte grida, sfoga la sua rabbia, tutta la sua frustrazione. Batte il bastone al suolo.

CREONTE. Ah! Faccia come crede!

CORO. È duro, sovrano, sopportare il dolore alla tua età.

CREONTE. Non salverà la ragazza dal suo destino.

CORO. E qual genere di destino intendi dare ad Antigone?Maestà, ti prego, sii caritatevole con lei, non arrecarle altre sofferenza. (un coreuta rimprovera l’altro) Ssst. Sciocco, non farlo adirare di più.

CREONTE. Anche tu ti metti dalla sua parte? Che popolo ingrato, ingrato figlio e ingrate nipoti mi son toccati! Ma questa istigazione alla rivolta che ha radice in Antigone, in ella spegnerò nel più esemplare dei modi. La condurrò in un luogo non calcato da piede umano e viva la murerò in una crepa della roccia. Là, sotto terra, potrà pregare i morti che tanto venera e sperare di restar viva in loro compagnia.

CORO. (mestamente, orribilmente afflitto, ad una voce) Sia fatta la volontà del re.

Il Coro ritorna nella posizione precedente; ritto ed immobile. Frattanto, parte una terza proiezione.

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Si susseguono, qui, le immagini un po’ ovattate di un giardino, una fontana, una panchina su cui Emone ed Antigone siedono; si sfiorano le mani, mangiano, si abbracciano, leggono, ridono, si baciano. La voce del giovane principe, extrascena, recita l’inno ad Eros.

EMONE. Eros, in battaglia invincibile,Eros, tu che sulle bestie ti slancie vigili sulle tenere guance della vergine, tu che valichi il mare e penetrifra i rustici tuguri: non dio immortale, non essere umano, né creatura d’un giorno, fuggire ti può. E delira chi ti possiede…

Termina il video. Buio.

Scena VIII

Suono delle campane a morto, lente, inesorabili. Antigone appare, sola, in fondo alla platea. Avanza con ferma decisione verso il proprio destino. Al collo reca una sciarpa bianca. Il Coro intona, sul medesimo ritmo delle campane, il Meserere.

CORO. MiserereMiserereMiserere, mei Deus,secundum misericordiamtuam;et secundum multitudinem miserationum tuarum deleiniquitatem meam. MiserereMiserere, mei Deus.Amplius lava me Ab iniquitate mea, etA peccato meo munda me.MiserereMiserere, mei Deus.

Creonte si pone al centro del palco, ergendosi a suo modo, tentando di incutere timore e rispetto sulla condannata.Mentre il Coro canta, Antigone si rivolge al pubblico.

ANTIGONE. Amici, cittadini di Tebe, l’estremo viaggio percorro, l’estremo raggio contemplo, per l’ultima volta.

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Viva mi si conduce alle rive d’Acheronte, privata degli imenei. Canto non si leverà per le mie nozze se non luttuoso lamento. Oh, per leggi inaudite, a sepolcrale carcere, a tomba strana mi avvio. Ah, nozze infauste, fratello, avesti in sorte: pur morto me viva hai ucciso.

In tempo per udire la sentenza, giungono sul palco Emone ed Ismene, di fretta l’uno ed agitato, pallida e lacrimante l’altra.

CREONTE. Sia attestata l’irrevocabile sentenza. Io sono il Legislatore, applico la Volontà dello Stato senza parzialità alcuna. Innanzi a me ogni cittadino è uguale; medesimo destino per i colpevoli. Ed ora avanzi, in nome della Legge, questa donna. Via sia condotta; muratela nella sua camera sepolcrale e lì abbandonatela; sola, segregata da tutti, sia che intenda morire sia che voglia sopravvivere nella tomba. Nostro dovere sarà solo quello di fornirle il cibo necessario per non compiere empietà. Nei riguardi di costei, le nostre mani sono pure: ciò di cui la priviamo è il diritto a rivedere la luce del sole.

Buio. Tutti scompaiono ad eccezione di Antigone che si volta ad osservare il pubblico.

ANTIGONE. Senza compianto, senza amici, senza imenei, a questo viaggio imminente, infelice son tratta. Mai più scorgerò l’occhio divino di questa fiaccola celeste. Il mio destino nessun amico lamenta.

Due fari puntati, uno a destra ad illuminare Ismene, l’altro sinistra su Emone. Entrambi sono volati di spalle. Un muro d’incomunicabilità fra chi è nel dolore e chi ne è fuori.

EMONE e ISMENE. Noi siamo qui per te. Ascoltaci.

ISMENE. Eccola procedere in questa notte fucilata dai fari: i suoi capelli da pazza, i suoi cenci da mendicante, le sue unghie da scassinatrice. Fin dove deve giungere la carità di una sorella? Davvero è per carità e amore che agisci così, Antigone?

ANTIGONE. Perché mi poni domande cui m’è duro rispondere?

EMONE. Non vuoi vivere ancora? Hai tanti motivi per farlo. Primo fra essi il mio amore per te…

ANTIGONE. (sorride) Egoista. Il tuo è il difetto del pazzo: quello di preferirti. Questa preferenza mi spaventa. La creatura amata per quelli come te non è più un dio: è appena una cosa. Mi rifiuto di fare di te un oggetto, quand’anche fosse l’Oggetto Amato.

ISMENE. Sei tu l’egoista, Antigone. Tu parti per incontrare la morte che libera. Ma noi ci lasci qui, preda del dolore più grande: la mancanza di te.

ANTIGONE. Nella mia vita non ho conosciuto se non l’adorazione e la depravazione e per quanto io muti, non muta però la mia sorte: è un male volervi porre fine?

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EMONE. In noi hai speranza. In noi hai un porto sicuro contro i mali. Rammenti quando ci conoscemmo, a Capodanno? Io avevo il mio abito più elegante… Mentre tutti erano immersi nella danza o nel chiacchiericcio, tu sedevi in un cantuccio, isolata fra tutti, la più bella del mondo, nelle tue candide vesti, le più semplici della festa. Non avevi bisogno di lustrini, la tua bellezza bastava. Per me, in quell’ora, non vi fu luce più abbagliante, un secondo sole sorse in quella stanza. Rammenti ciò che mi dicesti, dopo il ballo? Amare a occhi chiusi significa amare come un cieco. Amare a occhi aperti forse significa amare come un folle: accettare a fondo perduto… io ti amo come un folle.

ANTIGONE. Io, io, io. Sempre e solo tu protagonista del tuo amore. D’innanzi a te scompaio. Sono invisibile. Non ti accorgi che io ho un corpo.

ISMENE. Anche io soffro, sorella, soffro con te… soffro come te. Cosa provi tu di diverso? Perché i tuoi mali, gli stessi miei mali, ti serbano in sorte dissimile finale, lontano da me?

ANTIGONE. Fra la tua mano destra e quella sinistra intercorrono differenze. Fanno parte di te, ma non sono uguali. Tu scegli di vivere per timore di morire. Io scelgo di morire per timore di vivere ancora.

EMONE. No, tu vivrai ancora, invece. Il mio cuore è tuo, a te l’ho donato per sempre. Se continuerà a battere, tu non morrai.

ANTIGONE. Un cuore, una cosa piuttosto sudicia. Di competenza della vetrina del macellaio.Io morrò, e un cuore si fermerà. Sta a te far sì che sia il mio. L’amore è un castigo. Veniamo puniti per non essere riusciti a rimanere soli.

ISMENE. Non fai tutto ciò né per amore né per giustizia; inutile abbellire con nobili ciarle, tutto m’è chiaro, alla luce del sole. Tu lo fai per te stessa. Tu non ami nessuno all’infuori della Morte.

Ismene scompare nel buio.

ANTIGONE. Ho paura, Ismene. Ho paura di voi… che mi leghiate qui, in mezzo ai mali. Non so più come fare con il mio dolore. Non temere più il futuro. Passerò e smetterai di soffrire. Ci si scorda così facilmente dei morti…

EMONE. Perché? Perché il mio amore non ti salva? Perché sono così impotente davanti a te? La tua immensità mi sovrasta, mi stravolge, mi pietrifica. Provo a capire ma non riesco. Ti amo.

ANTIGONE. Perché così ha voluto Dio. Egli vuole che tu viva e ti ha ordinato di non amarmi più. Non sono brava a sopportare la felicità. Per mancanza d’abitudine. Anche fra le tue braccia calde, non potrei fare altro che morire. Ecco perché mi staccherò da te. Leda diceva: “Non sono più libera di suicidarmi da quando ho comprato un cigno”.

Anche Emone svanisce nell’ombra. Antigone resta sola. Si accende il faro sull’ara di Polinice. Ella s’inginocchia e giunge le mani, come in preghiera. Invoca la sua unica dea: la Morte.

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ANTIGONE. Polinice, ecco il premio che mi spetta per averti seppellito. Non avrei intrapreso questa audacia in altro caso, né per i figli, né per lo sposo. Di questi potrei averne molti finché vivrò, ma di fratelli avevo solo voi due che siete morti. Quanti mali mi circondano; non so più dove girare lo sguardo, tutto mi scivola via dalle dita, non ho più nulla. Non posso perdere nulla. Ho forse violato la giustizia divina? E perché io devo ancora rivolgermi agli dèi? A chi potrei domandare aiuto se il giusto e l’empio vengono ora confusi? No; della mia vita non s’incolpi nessuno. Ma si compia la volontà del Dio, su me ricadano le colpe della stirpe e che il mio sangue mondi la città dalla paura.

Sale sul palco mentre le luci, lentamente, si riaccendono, rivelando gli attori che, come pubblico al processo, la osservano avviarsi al duo destino. E tutti la seguono, la coraggiosa Antigone, in marcia funerea, ad eccezione di Creonte che, ancora una volta, va a letto.

Scena IX

Ricomincia, prima nel silenzio, poi sempre più imperante, il terribile ticchettio del pendolo invisibile. E Creonte che si agita nel sonno. Poi, ancora fuori scena, vacua e distante, quasi echeggiante, la voce di Tiresia, il cieco veggente; cantilena, canzonatoria, acuta, il nome del re, disturbandone il già fragile “sonno”.

TIRESIA. Creonte?... Creonte… Creonte?... Creonte!

Il vecchio, e stanco sovrano si risveglia.

CREONTE. Chi è? Chi mi chiama con tale insistenza? Volete lasciarmi riposare? Rispetto per il vostro re!

Tiresia entra in scena dalla platea, e con voce stridente, canta una canzone stonata e vagamente ridicola. È comodamente adagiato in una cariuola, lo stravagante veggente, guidata da un membro del coro. Diversamente da tutti gli altri, proprio come Antigone ed Emone, anche lui non indossa alcuna benda ma vede chiaramente, sebbene egli sia noto come cieco. Porta abiti bianchi, pantaloni, giacca, camicia. Ai piedi, però, indossa delle zeppe alte, a stivaletto, e sul capo una parrucca ricciuta turchese. In mano stringe un tirso.

TIRESIA. Adagio. Sempre adagio, ragazzo, va’ costante, non farti scuotere dal vino… tu conduci. Colui che conduce, non segua Bacco.

Raggiungono il palco.

TIRESIA. Non si può evitare che precipiti… (il guidatore, ancora una volta, lo rovescia, facendolo ruzzolare a terra) chi leva il piede troppo alto dal suolo. (brancolando come un cieco).E non urtare nelle colonne della vittoria. Questa città è piena di pazzi!

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(scoppia a ridere). Il cieco non segue chi vede, ma uno più cieco di lui.

CREONTE. Oh, ma questa voce, non potrei non riconoscerla. Tiresia, il vecchio indovino cieco. Che cos’è, che cos’è che mormori sul governo e la città?

TIRESIA. Mormoro? Io? Io non mormoro; danzo. E dovresti farlo anche tu!

CREONTE. Dal tono ti giudico ubriaco.

TIRESIA. (rivolto alla bottiglia) Gioia di Bacco. (la bacia). Da buon servitore del dio. L’alcool snebbia. Dopo una bella sorsata di grappa non penso più ai miei problemi: prendi esempio!

CREONTE. Immagino tu non sia venuto qui in visita di piacere.

TIRESIA. Può darsi di sì. Può darsi di no. Dipende dai punti di vista.

CREONTE. Coraggio, allora, dì quel che devi dire, fa’ presto.

TIRESIA. Uhm… va bene, te lo dirò. Ma tu presta fede all’indovino.

CREONTE. Non ti ho mai negato la mia fiducia; grazie a te ho rettamente guidato la mia città, fino ad ora.

TIRESIA. Bene, bene… perché adesso sappi che stai camminando sul filo del destino; un funambolo orbo, poco ci mette a sfracellarsi.

CREONTE. Cosa intendi dire?

TIRESIA. Io non vedo. Ma diritta mi resta la mente. Riconosco le foglie di lauro udendone il solo frusciare.

CREONTE. Su, vecchio, parla, per Dio! E smettila coi tuoi indovinelli. La mia mente è stanca e gli occhi chiedono riposo.

TIRESIA. Come fanno i tuoi occhi ad essere stanchi, se non li usi? Ed io che razza d’indovino sarei se non facessi, per l’appunto, indovinelli? Me lo dici?

Creonte mugugna spazientito. Il veggente beve una sorsata di vino e continua.

TIRESIA. Ho visto cose terribili. Udite ciò che l’auspicio assegna a Tebe: Io sedevo sul seggio antico e avevo innanzi un porto d’ogni sorta d’uccelli. E udii nell’aria uno strano schiamazzo: uno starnazzare, un dilaniarsi con gli artigli tra i volatili in lotta. Saggiai gli altari subito accesi con le vittime di quel bestiale scontro, ma dagli animali il fuoco non si spigionava. Solo il fumo s’alzava oleoso, e i femori gocciolanti nudi apparivano dal grasso che li avvolgeva. (altra sorsata di vino).

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E ora, odine l’infausta spiegazione. Tu, Creonte, sei causa di contagio alla città giacché gli altari e i focolari sono profanati da cani e uccelli che si son saziati del figlio di Edipo, miseramente caduto. Per questo non risuona più il grido augurale degli uccelli, perché pasci del grasso d’un morto. Gli dèi celesti non gradiscono queste offerte. Quindi cedi al morto e non perseguitare chi non c’è più.

CREONTE. (ridendo sarcastico) Ma è mai possibile? Tutti voi fate muro contro di me e non smettete di scagliarmi addosso strali di maldicenze. I tuoi uccelli, vecchio, volano giusto a puntino. Lo so. Non son proprio inesperto dell’arte profetica né degli affari.(con disprezzo gli lancia ai piedi un sacchetto di monete, tratto da sotto il cuscino). Toh, intasca pure il tuo compenso, oro indiano: ma sappi che il traditore non lo farò seppellire. Non temo i contagi del Cielo. Ed ora ascolta tu, o vecchio, il mio vaticinio: tra i mortali, anche i più nobili fanno atroci cadute quando dicono atroci parole in bel modo, per guadagno.

TIRESIA. (con nonchalance intasca il denaro) Io sono troppo vecchio per espormi per così breve tempo.

CREONTE. Nessuno è tanto vecchio che non voglia invecchiare ancora.

TIRESIA. lo so. Ma so ancora di più.

CREONTE. Ancora vuoi parlare? Non ti sei accorto che la tua voce mi infastidisce?

TIRESIA. E il fastidio dove ti punge, nell’orecchio o nell’anima?

CREONTE. Ma perché vuoi precisare la sede del mio fastidio?

TIRESIA. È mio dovere, caro Creonte, fare con te come il tafano con la povera figlia di Inaco; sola differenza, tu non hai le corna… ma siete pazzi entrambi!

CREONTE. Basta, basta per Dio! Basta! Basta! Smettetela di tormentarmi. Non vedete come sono stanco e prostrato?

TIRESIA. E ancora di più avrai a prostrarti, se non cedi alla saggezza.

CREONTE. Sei bravo come indovino; peccato ti vadano a genio solo le disgrazie!

TIRESIA. Ma guarda un po’, che misero uomo sei diventato. Evidentemente, dormire nel letto di Edipo, sul duro cuscino della Ragione di Stato, ti ha reso rigido più che un cadavere. Tu prima hai lodato i miei consigli, grazie ai quali hai guidato la città, ed ora mi si accusa d’avidità?

CREONTE. È quel che fai, mercanteggi e speculi sulle malesorti altrui. Tutta l’arte indovina ama l’argento.

TIRESIA. Si dice che lo offrano i tiranni…

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CREONTE. (urla) Fuori! Fuori! Fuori di qui vecchio gufo!

TIRESIA. Certo, me ne vado… ma non prima d’aver detto tutto quel che ho da dire.

CREONTE. Ed io non ti darò ascolto. (si tappa le orecchie come un bambino) Non ti ascolto! Sappi che non comprerai le mie decisioni.

Tiresia si toglie allora la parrucca e la getta, butta via pure il vino. L’atmosfera cambia, tutto si gela e si fa teso. Tutto attende il responso del profeta. Questi diviene serio, truce in volto, lo sguardo distante e terribile. Si erge come una colonna sovrastando il re.

TIRESIA. E tu sappi che non vedrai rinnovare il prossimo giro di sole senza dar in cambio dei morti un morto nato dalle tue stesse viscere, perché hai gettato sotto la terra una creatura di questo mondo e hai murato indegnamente nella tomba una persona viva, e abbandoni inonorato, insepolto, impuro un corpo consacrato agli dèi sotterranei: esso non ti appartiene né appartiene ai Celesti, che in tal modo tu offendi. Non passerà molto tempo e nella tua casa echeggeranno lamenti di molti uomini e donne. Ascolta e trema, Creonte.

Il re scatta in piedi e, furibondo, col bastone stretto in pugno, fende l’aria cercando di colpire un bersaglio invisibile alla sua cecità.

CREONTE. Infame. Ladro. Traditore. Scellerato. Furfante dalla doppia lingua.

Tiresia abilmente evita un fendente ed il re, sbilanciato, crolla a terra, ai suoi piedi.

TIRESIA. Sarebbe peggio dalla lingua mezza! Ma ora ho avuto la tua risposta ai miei consigli: cioè niente. Ed unisco il niente al niente e grido: (mette le mani intorno alla bocca a mo’ di megafono) il malgoverno reclama uomini grandi, e non ne trova. La durezza vuol durezza: il più vuole sempre di più e finisce in nulla!Se così mi son guardato in dietro e intorno, voi guardate avanti e inorridite!(Riprende far la pantomima del cieco. Si rivolge al coreuta).Ragazzo… ragazzo… portami via.

È tornato Tiresia, il vecchio canuto e cieco. Il coreuta raccatta la parrucca e la bottiglia. Getta tutto nella cariuola e poi, con malagrazia, carica l’indovino ed in fretta se ne vanno, accompagnati dal cantilenare del vecchio.

Scena X

Il battere del tempo riprende. Creonte, rimasto finalmente solo, ritorna strisciando nel letto cigolante di Edipo. Il rumore del pendolo, adesso, sarà l’unico suono udibile. Niente musica. Come un battito che sale dal profondo della terra, si precisa, cresce e s’impone sull’insonnia di Creonte e sul pubblico astante. Domina la scena.

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Entra Antigone. Ritta, capo chino, ma non afflitto. In mano reca la sciarpa bianca come una benda o dono portato in offerta all’Altare. Buio generale. Luce su Antigone e il corpo di Polinice. A spiraglio blu su Creonte. Sorella e fratello sono soli nelle profondità della terra.

ANTIGONE. Niente più paura. Non cadrò. (poggia l’orecchio sul petto di Polinice come per udirne il battito cardiaco).Ho raggiunto il centro. Ascolto il pulsare di chissà quale orologio divino attraverso l’esile parete carnale della vita piena di sangue, di trasalimenti, di respiri. Sono accanto al nocciolo misterioso delle cose come di notte, talvolta, si è accanto a un cuore.(toglie al fratello la giacca militare). Solitudine… io non credo come credono loro, non vivo come vivono loro, non amo come amano loro… morirò come loro. (si spoglia del proprio abito). Cercare di colmare le differenze, questo mi spinge. Trovare un punto di contatto fra me ed il resto del mondo. (toglie i pantaloni al cadavere del fratello). Non c’è più nulla da temere. Ho toccato il fondo. (indossa gli abiti di Polinice ed a questi mette i propri).Non sono stata vinta. Non sono stata vinta se non dalle mie stesse vittorie. Poiché ogni trappola evitata mi rinchiude nell’amore che finirà per essere la mia tomba; la mia vita si conclude in una segreta di vittorie. (Si allontana, va verso l’angolo sinistro del palco dove, sin dall’inizio l’attende il cappio. Armeggia con la corda e le pulegge, saggiandone la resistenza). Solo la disfatta, fra tutte, trova le chiavi d’ogni prigione. La morte non fa che prolungare nell’altro mondo, all’infinito, i corridoi della fuga. (contempla, finito di preparare tutto, l’opera affascinata).Per me la morte sarà di pietra. (si accosta al cadavere, delicatamente lo solleva, come una madre con un bimbo). Eppure conosco i trucchi del Fato, ogni trappola, ogni imbroglio. Non mi ci posso perdere. (sistema il cappio intorno al collo del cadavere, ora divenuto suo alterego, Polinice-Antigone). La Morte, per uccidermi, avrà bisogno della mia complicità. (Tira la corda. Il cappio si stringe ed il morto resta appeso, impiccato).

Durante tutto il monologo, il ticchettio s’è fatto intensissimo; sembra un cuore palpitante. È forte, terribile, fastidioso. Antigone ritorna presso l’ara. Con calma vi si adagia, in silenzio, accompagnata dal battito del tempo. Si stende e resta immobile. Entra Emone, di corsa, stravolto. Vede il cadavere appeso e spalanca la bocca in un grido che non esce, muto. Il più tremendo fra tutti gli urli di protesta: il silenzio. Inizia a piangere. Si copre il viso correndo verso l’impiccato. Lo abbraccia, lo stringe forte a se. Lo bacia in adorazione. Si batte il petto. Tutto in completo silenzio. Poi, sfodera un pugnale dalla cintola. Taglia le corde. Recupera quel corpo martoriato. Cade a terra, senza lasciarlo.Punta sul petto la lama.

EMONE. Basta parole.

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Fra la morte e noi, talvolta, non c’è che lo spessore di una sola creatura. Tolta quella creatura, non resta che la morte. Basta parole. Basta.

Si uccide. Si accascia al suolo, rimanendo eternamente abbracciato a quel corpo tanto amato. Il ticchettio cessa d’improvviso.

ANTIGONE. (distesa, sguardo verso l’alto) Morire per fermare il tempo… Morire, per riavviarlo…

Si copre il volto con la sciarpa bianca. Solenne, inizia a battere l’orologio la mezzanotte, raggelando il mondo, ponendo termine alla vita di Antigone. Nella città paralizzata, il tempo ha ripreso a scorrere.

Scena XI

Creonte si sveglia di soprassalto. Ha la fronte madida di sudore, il battito accelerato, il respiro affannato. L’aspetto stravolto. Ha ancora la benda a coprirgli la vista. Cerca, tastando, il bastone. Si alza di fretta, preda dell’agitazione, mentre l’orologio, ancora, solenne batte.

CREONTE. (grida spaventato) Cittadini… cittadini… cittadini correte, presto… aiuto…

Il Coro, Ismene e Tiresia appaiono, dispersi, sparpagliati in platea; ma non accorrono. Procedono lenti, apparentemente insensibili alla paura del sovrano. Sembrano tante statue inespressive. Vuote. S’arrestano raggiunti i margini del palco. Non vi accedono però, restano distanti dal re, in attesa e osservazione. Si tolgono le bende dagli occhi. Creonte, ancora chiamando, ancora smaniando, cerca tentoni, tasta ogni cosa che gli capita a tiro. Tocca il corpo di Antigone adagiato sul sarcofago di pietra. Trova il capo estremo della corda. La segue, la usa come guida fino a giungere al cappio tagliato. Inciampa sul cadavere del figlio. Cade a terra, gemendo e ancora chiamando, sempre più disperato. Tocca il corpo che si trova innanzi e inorridisce. Trattiene il respiro. Si gela. Poi rapido si strappa la benda dagli occhi, solo per vedersi realizzare la profezia di Tiresia, solo per vedere la disfatta della sua genìa. Scopre che quello che tocca, sul quale è inciampato, non è altri che il cadavere di Emone. Scoppia allora in pianto, un lamento terribile.

CREONTE. Guardate… uccisori e uccisi dello stesso sangue, gli uni accanto gli altri. Ah, figlio, di morte immatura, giovane sei morto –ahimè, ahimè- per mia mano, non per tua, non per tua, per mia follia.Ade, uccidi quest’empio!Ah! Sono… sono… Qualcuno mi colpisca nel petto con una spada affilata! Misero me, misero me, affondato in immenso dolore. Su nessun’altro ricada, ma solo su me la colpa di questo omicidio. È mia ogni colpa. Io, sì, io ti ho ucciso, sventurato.

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Venga, oh, venga a me la morte. Delle morti da me causate si mostri Ade a punizione definitiva, recando il giorno estremo. Venga, oh venga. Che più io non veda giorno a venire. Cittadini! Cittadini di Tebe, accorrete!

Tutti si rianimano. Si rivolgono al re senza, tuttavia, muoversi.

CORO. Quale nuovo dolore è caduto sul nostro sovrano? La casata di Meneceo è sfatta insieme a quella di Edipo?

TIRESIA. (sguardo rivolto verso l’alto) Le stelle… le stelle sono riapparse nel cielo di Tebe.

CREONTE. Mia la colpa. Mia la colpa.

ISMENE. Ahimè, quanto in ritardo riconosci il giusto!

CREONTE. Ah, presto, presto, portatemi via. Portatemi via. Portatemi lontano. Non sono più nulla.

Ismene e Tiresia soccorrono il re. La prima solleva il re, portandolo lontano, fuori scena. Il secondo si occupa del cadavere di Emone. Con delicatezza, lo porta via. Resta solo il Coro che sale anch’egli sul palco. Si dispongono al centro, a copertura del corpo di Antigone. Si rivolgono al pubblico.

CORO. Il Destino è gioviale. Chi presta alla Fatalità chissà che bella maschera tragica non ne conosce i travestimenti teatrali. Un tetro sconosciuto burlone ripete la stessa traccia grossolana fino alle nausee dell’agonia. Aleggia in torno alla sorte un vago odore di camera dei bambini, di bambole e balocchi. I personaggi dei tragici trasalgono, bruscamente disturbati dalla rozza risata del tuono. Prima di essere cieco, Edipo, per tutta la vita, non ha fatto altro che giocare a moscacieca con la Sorte.

Batte di nuovo l’ora, l’invisibile orologio. Il coro si piega a terra e poggia l’orecchio al suolo, udendo il battito di quella mistica pendola sorgere dal ventre della terra. Alle loro spalle, in video, appare Antigone. Viva. Felice. Scambia le fedi nuziali con Emone alla presenza di Creonte che ne officia lo sponsale. Festa di nozze. Il video sembra girato dalla telecamera amatoriale di uno degli invitati. Tutti salutano allegri alla camera, sorridono. Poi, la fanciulla, alle sollecitazioni del cameraman, guarda verso la telecamera, quasi rivolgendosi al pubblico. Parla sorridendo.

CAMERAMAN. Antigone… su, Antigone, guarda l’obiettivo… hai qualcosa da dichiarare, bella sposina?

ANTIGONE. (sorride. Ci pensa un secondo. Parla) Non si costruisce una felicità che su fondamenta di disperazione. Penso proprio che ora posso mettermi a costruire.

L’immagine video si blocca. Subito scompare, sostituita da una scritta bianca su fondo nero:

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“IL TEMPO RIPRENDE IL SUO CORSO AL RUMORE DELL’OROLOGIO DI DIO. IL PENDOLO DEL MONDO È IL CUORE DI ANTIGONE”.

(Marguerite Yourcenar, Fuochi). Qui finisce la nostra tragedia. Buio.

Bibliografia

TESTI DI RIFERIMENTO:

-Sofocle, Antigone in: “Antigone, Edipo re, Edipo a Colono”, traduzione a cura di Franco Ferrari, ed. Fabbri Editori.

ESTRATTI E CITAZIONI:

-Marguerite Yourcenar, Fuochi, ed. Bompiani.

-Bertolt Brecht, Antigone di Sofocle in “Bertolt Brecht, teatro vol. IV”, ed. Einaudi.

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