Ansia e rabbia - Alessandro Geloso Counselling · 3-La rabbia funzionale alla sopravvivenza: una...

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Tesina 1° anno master per counselor professionista in Analisi Transazionale Ansia e rabbia di Alessandro Geloso Tutor Anna Massi 25-26/11/2006 1

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Tesina 1° anno master

per

counselor professionista in Analisi Transazionale

Ansia e rabbiadi

Alessandro Geloso

Tutor

Anna Massi

25-26/11/2006

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Indice

Introduzione

1- John Bowlby analista cognitivo

2- La rabbia nei bambini: esempi e casistiche

3- La rabbia funzionale alla sopravvivenza: una spiegazione etologica

4- Da Bowlby a Freud

5- Strumenti teorici di analisi del processo rabbia/ansia

6- Da Freud a Berne

7- La rabbia in Analisi Transazionale

Bibliografia

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Introduzione

Con questo breve lavoro ho voluto mostrare come il sentimento di rabbia si manifesti

nel periodo natale e post natale e quali conseguenze possano derivare da contesti non

sicuri.

Per far questo ho usato come strumenti parte della casistica riportata da Bowlby

(Bowlby 1980) e la teoria dell'attaccamento materno.

Ho ripreso le sue considerazioni sull'origine della rabbia inquadrandole in un contesto

storico che unisce Freud a Bowlby e Berne secondo lo schema qui sotto riportato;

entrambi questi ultimi, ne sono a mio avviso i prosecutori , anche se si differenziano

sotto molti aspetti.

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Bowlby psicoanalista/cognitivista

Obiezioni: Scarsa ripetitività

Teoria degli istintiPulsioni/istinti

Verso una teoria completa degli istintiIstinti che si strutturano in copioniIstinto come utilizzo pieno delle nostre capacitàFreud

Triade io es super io Berne

psicoanalista/Analista transazionale

Obiezioni: Lunghezza dell’analisiPoca praticità

Analisi Transazionale

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Bowlby evidenzia gli istinti che si cristallizzano in atteggiamenti sociali, Berne invece i

copioni che sono fondati da spinte emotive, ma in entrambi i casi tutto ruota intorno al

bisogno di carezze e al modo di procurarsele.

Nell'osservazione di casi di abbandono di bambini, sembra esistere una correlazione fra

la rabbia e l'ansia che si esplica attraverso una parabola discendente che passa

attraverso 4 stadi, secondo lo schema qui riportato.

E' possibile notare come la teoria dell'attaccamento possa dare delle buone spiegazioni

delle paure profonde che animano i copioni; in questo senso il capitolo 3° cerca di

analizzare l'origine delle paure e angoscie secondo le scoperte teoriche e

neurofisiologiche da Freud in poi.

Il capitolo 4° è un caso clinico di Novellino in cui viene trattata una paziente che ha

inizialmente uno stato di ansia, successivamente nella terapia subentra l'angoscia,

infine la collera e la rabbia, riconducibili alla sua visione del rapporto materno.

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Qui sono mostrati gli strumenti dell'Analisi Transazionale direttamente sul campo, senza

ulteriori spiegazioni, ma usando il caso clinico come conferma a ritroso del percorso

sopra descritto, come una sorta di prova del nove.

La semplicità e brevità dell'esempio mi è parsa bastevole all'argomento, che tuttavia

avrei voluto sviluppare ulteriormente, soprattutto nella transizione istinto /attaccamento

materno - tipi psicologici/tipologie di copione.

Le 3 appendici finali facoltative vanno in questa direzione, esse costituiscono una parte

aggiuntiva che implementano alcuni temi che qui per brevità non sono rientrati e che

avrebbero meritato approfondimenti.

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1 - John Bowlby: un analista cognitivo

John Bowlby ha contribuito a dimostrare come lo sviluppo armonioso della personalità

del bambino dipenda da un adeguato attaccamento alla figura materna e influenzato dal

contesto culturale e scientifico degli anni ‘50-’60, fortemente impregnato dai progressi

della biologia evoluzionistica, dell’etologia e della cibernetica, ha fissato le radici del

futuro sviluppo del "costrutto dell’attaccamento".

Bowlby teorizza che l’attaccamento nasce come manifestazione pulsionale, ma si

sviluppa, in seguito, come fenomeno interazionale. Alcuni comportamenti istintuali,

(succhiare, stare attaccati, piangere) riconducibili biologicamente alle necessità di

accudimento e di protezione del neonato, successivamente evolvono in un legame di

attaccamento verso una specifica figura materna attraverso l’interiorizzazione dei

sentimenti e delle modalità affettive di tale figura e l’organizzarsi di "modelli operativi

interni", che si fondano su processi mentali di attenzione, percezione, memoria,

selezione di affetti e di risposte comportamentali, all’interno di relazioni significative.

Secondo Bowlby, aver sperimentato figure di accudimento sensibili e disponibili verso gli

altri, favorisce la maturazione di un atteggiamento globalmente fiducioso nei riguardi

delle relazioni umane e di un sentimento di sé positivo; al contrario, aver avuto figure di

accudimento inadeguate genera scarsa fiducia in sé e negli altri e aspettative negative

riguardo alle relazioni intime.

I principi della teoria dell’attaccamento formulati da Bowlby furono successivamente

verificati da Mary Ainsworth, che iniziò i suoi studi sull’argomento influenzata dalla

Security Theory di William Blatz. Uno dei principi più importanti della Security Theory

affermava che i bambini nella prima e seconda infanzia devono sviluppare una

dipendenza sicura dai genitori prima di affrontare situazioni non familiari in cui devono

agire da soli. La dipendenza sicura fornisce le basi per una fiducia in se stessi tale da

permettere una sicura autonomia dai genitori, che successivamente dovrebbe essere

sostituita da una dipendenza sicura dai pari e infine da un partner eterosessuale. In

particolare, si deve alla Ainsworth l’elaborazione di due scale di valutazione: la prima

mirava a stimare, mediante colloqui, la sensibilità materna ai segnali del bambino, la

seconda, "Strange Situation Procedure", si proponeva di analizzare l’organizzazione

dell’attaccamento nel bambino, valutando l’equilibrio tra comportamenti di

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attaccamento e comportamenti di esplorazione in una situazione di stress. Attraverso

quest’ultima scala, la Ainsworth ha individuato tre patterns principali di attaccamento:

"attaccamento ansioso-evitante", "attaccamento sicuro" e "attaccamento ansioso-

resistente". Più recentemente Main e Solomon hanno descritto un nuovo pattern

denominato "disorganizzato-disorientato".

Attraverso i risultati ottenuti dalla Strange Situation si è potuto, inoltre, riscontrare

rilevanti correlazioni tra i comportamenti del bambino e l’atteggiamento da parte della

figura di attaccamento verso di lui. Le madri dei bambini "sicuri", rispondono

sensibilmente ed in modo appropriato alle richieste del figlio, fornendogli soltanto

quando ne vengono richieste (col pianto o altri segnali di richiamo), il conforto e la

protezione necessari; le madri dei bambini "evitanti", indisponibili alle richieste del

bambino, rifiutanti ed ostili nello stesso tempo, manifestano avversione al contatto

fisico, hanno mimica rigida e poco espressiva e sembrano addirittura infastidite dalle

richieste di conforto e protezione che il bambino rivolge loro; le madri dei bambini

"resistenti", intrusive ed ipercontrollanti, limitano la tendenza del bambino

all’esplorazione autonoma dell’ambiente ed appaiono imprevedibili ed incoerenti nella

disponibilità a rispondere alle esigenze di attaccamento del bambino; le madri dei

bambini "disorganizzati-disorientati", spesso presentano una mancata elaborazione del

lutto o del "trauma", il ricordo di esperienze di abuso sessuale (in genere incestuoso) o

di altra violenza subita da bambine o gravi forme di disturbo bipolare, per cui non

interagiscono con il figlio in termini di richieste e mostrano un comportamento

spaventato e dolente, non correlato a quanto accade in quel momento nell’ambiente,

che disorienta il bambino, poiché la madre diviene allo stesso tempo rifugio e fonte di

angoscia.

Risulta ancora in via di definizione una nuova e peculiare situazione di relazione

primaria definita "attaccamento forzoso", descritta da Nunziante Cesaro. Con questa

modalità relazionale si intende una forma di attaccamento fortemente pilotata dalla

madre che usa inconsciamente il piccolo per i propri bisogni fusionali dilazionando la

separazione tra sé e il proprio figlio.Le madri di questi bambini sono sostanzialmente

simbiotiche, capaci di una empatica relazione con il figlio per tutto ciò che riguarda gli

aspetti fusionali del rapporto, ma improvvisamente abbandoniche quando questi bisogni

vanno in direzione di una sostanziale differenziazione da loro.

Negli ultimi anni, la teoria dell’attaccamento si è inoltre arricchita di riflessioni relative

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ad altri fattori in grado di determinare le caratteristiche di tale legame; in particolare,

sono stati valorizzati il temperamento-carattere del bambino, eventuali condizioni

psicopatologiche della madre, il ruolo della figura paterna, la relazione coniugale ed

influenze ambientali in senso lato. Incentrando l’attenzione sul bambino, recenti

ricerche finalizzate allo studio dell’intenzionalità, quale fattore promuovente lo sviluppo

cognitivo in generale e la capacità di comprendere la mente dell’altro in particolare,

hanno dimostrato che i bambini iniziano in età molto precoce a percepire se stessi e gli

altri come individui e svolgono dunque un ruolo molto più attivo di quanto si riteneva in

passato nell’ambito della relazione primaria.

2 - La rabbia nei bambini: esempi e casistiche

Bowlby nella sua opera Attaccamento e Perdita (Bowlby 1980) mostra ampiamente

mediante esempi, ricerche ed esperimenti, come la rabbia sia una reazione istintiva alla

separazione, un istinto naturale fortemente legato alla sopravvivenza della specie; ne

mostreremo in questo capitolo alcuni esempi cercando di darne una ampia e

diversificata fenomenologia.

Heinicke e Westheimer (Heinicke C. e Westheimer I.1966) effettuarono ricerche

sistematiche su dieci bambini che avevano da tredici a trentadue mesi, durante e dopo

un soggiorno di due o più settimane in un nido d'infanzia residenziale in Inghilterra.

Quando i bambini che avevano subito quella separazione vennero confrontati con un

gruppo di bambini che erano rimasti nelle loro famiglie, risultò evidente nei primi la

maggiore tendenza a reagire aggressivamente. Per esempio, durante il loro soggiorno

nel nido d'infanzia, almeno due volte, con un intervallo di otto giorni, è stato

somministrato ai bambini separati un gioco con la bambola; lo stesso gioco venne

somministrato a casa, con lo stesso intervallo, ai bambini del gruppo di confronto.

Entrambe le volte gli episodi di comportamento ostile durante il gioco con la bambola si

verificarono nei bambini separati con frequenza quadrupla rispetto ai bambini che

vivevano in famiglia. Gli oggetti attaccati erano perlopiù le bambole-genitori. Dei

bambini separati, otto attaccarono una bambola che era stata già identificata dal

bambino stesso come bambola-madre o bambola-padre; nessuno dei bambini che

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vivevano in famiglia fece altrettanto. Sei settimane dopo che i bambini separati avevano

fatto ritorno a casa, e dopo un periodo equivalente per i bambini non separati, si

somministrò ancora il gioco con la bambola; il tutto fu ripetuto dieci settimane più tardi.

Nessuna delle due volte, però, si trovarono differenze di ostilità tra i bambini dei due

gruppi; la ragione è che sei settimane e più dopo il ricongiungimento i bambini che

erano stati separati non erano più particolarmente aggressivi nel loro gioco. Durante il

periodo che va dalla seconda alla ventesima settimana dopo il ricongiungimento, sei dei

dieci bambini separati si comportavano verso le loro madri con un'intensità di

ambivalenza che non venne riferita per nessuno dei bambini che erano rimasti in

famiglia.

Un altro esempio di atteggiamento rabbioso è descritto da Robertson (Robertson 1962)

nel caso di Laura, una bambina di due anni e quattro mesi che egli aveva filmato

durante un soggiorno di otto giorni in ospedale per un'operazione di poco conto. Alcuni

mesi dopo il ritorno di Laura a casa, Robertson stava mostrando una prima versione

della pellicola su Laura ai suoi genitori perché facessero i loro commenti, mentre Laura –

così si pensava - era a letto. Non si sa come, Laura invece si svegliò, si trascinò carponi

nella stanza, e assistette alle ultime fasi della proiezione, quelle in cui la si vedeva il

giorno del ritorno dall'ospedale, prima disorientata mentre chiamava la mamma, poi,

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1°gruppo

2°gruppo

2 sett 6 sett 10sett

aggr aggr non-aggr

non-aggrnon-aggrnon-aggr

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quando si tiravano fuori le sue scarpine, felice all'idea di ritornare a casa, e infine

mentre insieme alla mamma lasciava l'ospedale. Terminata la proiezione, quando

vennero accese le luci, Laura si scostò dalla madre e si fece prendere in braccio dal

padre. Poi, guardando con aria di rimprovero la madre, le chiese: «Dov'eri tu, mamma?

Tu dov'eri?» Analogamente, la Wolfenstein (Wolfenstein 1957), nella sua ricerca sul

modo di reagire alle catastrofi, riferisce di una bimba che durante un tornado era

rimasta separata dal padre e che, quando poi si ritrovò con lui, lo colpì irosamente

rimproverandolo di essere stato lontano da lei. Bowlby è convinto che “queste due

bimbette sembravano entrambe agire in base alla convinzione che i genitori non devono

essere assenti quando il figlio ha paura e ha bisogno di loro, e in base alla speranza che

rammentandoglielo energicamente si potesse essere certi che in seguito non sarebbero

più incorsi in tale mancanza”. Vi sono altri casi in cui la collera del bambino è quella

della disperazione. Sembra provarlo anche il caso di Reggie (Burlingham, Freud 1942),

affidato alle cure delle Hampstead Nurseries, a due anni e mezzo aveva già avuto

numerose figure materne. Due mesi dopo, l'infermiera a cui si era attaccato se ne andò

per sposarsi. Reggie non soltanto era «sperduto e disperato» dopo la partenza di lei, ma

si rifiutò di guardarla quando venne a trovarlo quindici giorni dopo. La sera, quando se

n'era andata, lo si sentì osservare: «La mia Mary Ann! Ma io non le voglio bene.» Nel

caso di Reggie ci troviamo di fronte a una reazione non soltanto a una singola

separazione temporanea, ma a prolungate e ripetute separazioni, ciascuna delle quali

equivale a una vera e propria perdita.

Sembra plausibile e provato, secondo Bowlby, ritenere quindi che dopo una perdita si ha

un'insorgenza di collera, non soltanto nei bambini, ma anche negli adulti e questa

collera ha una sua funzione biologica. Bowlby propone una spiegazione etologica in cui

nei casi in cui la separazione è solo temporanea, come accade nella maggioranza dei

casi, l'ira ha le due seguenti funzioni: innanzitutto quella di contribuire a superare gli

ostacoli che possono esservi al ricongiungimento; in secondo luogo, quella di

scoraggiare la persona amata dall'andarsene un'altra volta. Quando invece la perdita è

permanente, come accade dopo un lutto, l'ira e il comportamento aggressivo sono

necessariamente privi di funzionalità. La ragione per cui si verificano ugualmente così

spesso, anche dopo una morte, è che, durante le primissime fasi del lutto, la persona

colpita di solito non crede che la perdita sia veramente permanente; pertanto essa

seguita ad agire come se fosse ancora possibile non solo ritrovare e recuperare la

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persona perduta, ma anche rimproverarla per il suo modo di agire. Infatti la persona

perduta non di rado viene considerata almeno in parte responsabile di quanto è

accaduto, cioè di essersene andata. Di conseguenza, la collera finisce per essere diretta

contro la persona perduta, con altrettanta naturalezza di quella che viene diretta contro

chiunque si pensi abbia avuto una parte nella perdita o abbia ostacolato in un modo o

nell'altro il ricongiungimento. Parkes (Parkes 1971), nella sua ricerca sulle reazioni delle

vedove alla perdita del marito, trova che la collera è comune, anche se non a tutte.

Anch'egli la considera come parte dei tentativi del superstite per recuperare la persona

perduta. Così, sia quando una separazione è verificata come temporanea, sia quando

una separazione in corso è ritenuta solo temporanea, la collera verso la figura assente è

cosa comune. La collera viene espressa come comportamento di rimprovero e di

punizione, che si propone di favorire il ricongiungimento e di scoraggiare un'altra

separazione. Pertanto, anche se viene espressa nei riguardi del partner, questa collera

agisce nel senso d'incrementare il legame e non già di spezzarlo. Lo si può osservare in

una madre che, quando suo figlio ha commesso l'imprudenza di attraversare la strada di

corsa, lo rimprovera e lo punisce con la collera nata dalla paura. Lo si osserva tutte le

volte che il partner sessuale rimprovera l'altro perché gli è infedele, o tale gli sembra. E

ancora, lo si trova in certe famiglie quando un membro si adira tutte le volte che i suoi

tentativi d'approcciò a un altro membro vengono accolti da un silenzio indifferente.

Questo tipo di collera si ritrova anche nei primati non umani. Per esempio, un babbuino

maschio capogruppo, quando vede un predatore si comporta in modo aggressivo verso

qualsiasi membro del proprio gruppo che si allontana per conto suo e che può trovarsi in

pericolo; in quest'ultimo, spaventato, nasce il comportamento di attaccamento, cosicché

esso si accosta rapidamente al maschio capo, raggiungendo in tal modo la protezione

dovuta alla prossimità. L'esperienza clinica induce a ritenere che le separazioni,

specialmente quando prolungate o ripetute, hanno un doppio effetto: da una parte

suscitano la collera; dall'altra attenuano l'amore. Così non solo il comportamento iroso

d'insoddisfazione può alienare la figura di attaccamento, ma può anche verificarsi un

cambiamento nell'equilibrio affettivo della persona che ha un attaccamento verso

l'altra. Invece di un affetto dalle solide radici che talvolta s'intreccia con un «cocente

dolore», come si forma in un bambino allevato da genitori affettuosi, nasce un

risentimento radicato nel profondo, tenuto sotto controllo solo parzialmente da un

incerto affetto ansioso. Appare probabile che le reazioni più violentemente irose siano

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quelle suscitate in bambini e adolescenti che non solo hanno sperimentato separazioni

ripetute, ma sono anche costantemente soggetti alla minaccia di venire abbandonati.

Una conclusione analoga venne raggiunta alcuni anni fa da Stott (Stott 1950), uno

psicologo inglese che visse per quattro anni in una scuola correzionale studiando la

personalità e il contesto familiare di centodue giovani di età compresa tra i quindici e i

diciotto anni, che vi erano stati mandati a causa di reati ripetuti. L'informazione raccolta

da Stott proveniva da lunghi colloqui con i ragazzi stessi e con i loro genitori, e anche da

molti contatti informali con i ragazzi durante il loro soggiorno nella scuola. Egli osservò

che i ragazzi erano profondamente insicuri e che in molti casi sembrava che i loro reati

fossero stati delle bravate. Come accade solitamente in questo tipo di ricerche, si notò

che erano comuni gli atteggiamenti ostili dei genitori e la rottura dei rapporti, e Stott

ritenne che spiegassero in gran parte il senso d'insicurezza dei ragazzi. Nonostante

questo, ciò che impressionò Stott più di ogni altra cosa fu scoprire che in molti casi la

madre, e in alcuni altri il padre, avevano usato come mezzo disciplinare la minaccia di

abbandonare il figlio, e che questo fatto aveva reso i ragazzi intensamente ansiosi e

collerici. Stott richiama l'attenzione sulla combinazione d'intensa angoscia e intenso

conflitto suscitata inevitabilmente da minacce di questo tipo. Infatti, mentre da una

parte il bambino diventa furibondo per la minaccia di andarsene di un genitore, dall'altra

egli non osa esprimere la sua collera per paura d'indurre il genitore ad andarsene

davvero. Questa è una delle ragioni principali, a detta di Stott, per cui in casi del genere

l'ira verso un genitore viene di solito rimossa e poi diretta verso obiettivi diversi.

Kestenberg descrive una ragazza di tredici anni che era stata abbandonata dai genitori

e di cui si erano prese cura moltissime persone una dopo l'altra. Essa non aveva fiducia

in nessuno, e reagiva a ogni delusione con un'azione vendicativa. Durante il

trattamento, questa ragazza immaginò di esser diventata adulta e di esser quindi

capace di vendicarsi di sua madre uccidendola.

Secondo lo schema qui proposto, sia un periodo di separazione sia minacce di

separazione e altre forme di rifiuto vengono considerati atti a suscitare in un bambino o

in un adulto un comportamento ansioso e collerico, entrambi diretti verso una figura di

attaccamento: l'attaccamento ansioso ha lo scopo di conservare il massimo

dell'accessibilità alla figura di attaccamento; la collera è tanto un rimprovero per quello

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che è accaduto quanto un deterrente per evitare che l'accaduto si ripeta. Così succede

che amore, angoscia e collera – talora odio - vengano suscitati da una stessa persona.

Ne conseguono inevitabilmente dolorosi conflitti. Non vi è da sorprendersi che un unico

tipo di esperienza possa suscitare tanto angoscia quanto ira. Gli studiosi del

comportamento animale hanno osservato che in certe situazioni può essere suscitata

l'una o l'altra forma di comportamento, e che il fatto che un animale

reagisca con l'attacco o con la fuga, o con una combinazione di queste due componenti,

dipende da un certo numero di fattori che hanno come effetto quello di far pendere la

bilancia da una parte o dall'altra. Un bambino che a un dato momento è furiosamente

arrabbiato con uno dei genitori può benissimo il momento dopo cercar sicurezza e

conforto da quello stesso genitore. Una successione analoga si può osservare nei litigi

tra innamorati. Gli psicoanalisti si sono a lungo interessati in modo particolare delle

relazioni reciproche tra amore, paura e odio, perché nel lavoro clinico è cosa comune

trovare pazienti i cui problemi emotivi sembrano provenire da una tendenza a reagire

verso la loro figura di attaccamento con una tumultuosa combinazione di tre elementi:

intensa possessività, intensa angoscia e intensa ira. Non di rado ne nascono dei circoli

viziosi. Un episodio di separazione o di rifiuto suscita l'ostilità di una persona e induce a

pensieri e ad atti ostili; d'altra parte pensieri e atti ostili diretti verso la propria figura di

attaccamento accrescono fortemente la paura d'essere ulteriormente rifiutati o

addirittura di perdere del tutto la figura amata.

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3 - La rabbia funzionale alla sopravvivenza: una spiegazione etologica

Bowlby propone un'interessante prospettiva per spiegare le pulsioni e le paure profonde

degli esseri umani: una teoria degli istinti. Matura questa convinzione attraverso

osservazioni etologiche, che secondo lui mostrano come l'essere umano sia stimolato

dagli istinti nei suoi comportamenti tesi alla sopravvivenza e alla riproduzione.

Ma la loro influenza non si presenta in maniera costante, ma solo in alcuni periodi di

tempo che determinano con maggiore forza lo sviluppo futuro dell'individuo e questo

avviene soprattutto nei primi 3 anni di vita dell'individuo e successivamente nella sua

fase di sviluppo ormonale verso l'adolescenza (altri casi si possono presentare in periodi

di forte stress, ma sono risposte a comportamenti già appresi).

La rabbia viene quindi ad essere in quest'ottica una spinta inconscia al rinforzo

dell'attaccamento materno.

Infatti non soltanto nell'uomo, ma anche in molte altre specie si riscontrano di norma

importanti cambiamenti durante l'ontogenesi dei sistemi comportamentali.

Nei giovani di tutte le specie di uccelli e mammiferi un certo numero di

movimenti completi sono fin dall'inizio ben eseguiti e specie-specifici, come

negli uccelli il beccare e il lisciarsi le penne, nei mammiferi il succhiare e

l'orinare, e anche i movimenti completi di cattura della preda (per esempio

nella puzzola). Tali movimenti compaiono nel loro normale contesto funzionale senza

una preparazione preliminare. Nella specie umana si riscontrano

la rotazione del capo, la suzione, il pianto del neonato; i modelli del sorriso e

della deambulazione si manifestano in epoca un po' più tarda. Inoltre, sembra probabile

che certi particolari componenti del comportamento sessuale

adulto maschile e femminile, come per esempio l'abbraccio e le contrazioni

pelviche, rientrino anch'esse in questa categoria. Possiamo quindi supporre

che tali movimenti siano espressione di sistemi comportamentali che, per

quanto riguarda gli schemi motori, sono relativamente poco influenzati da

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variazioni ambientali nel corso dello sviluppo e che, in una certa fase del ciclo di vita,

sono pronti per essere attivati da tutti quei fattori causali per rispondere ai quali sono

strutturati.

Tali movimenti sono organizzati e pronti per l'esecuzione non appena arrivi un certo

momento appropriato: ciò dimostra che, per quanto riguarda la

loro forma motoria, sono indipendenti dall'apprendimento. Il fatto che alla

loro prima comparsa facciano seguito o meno le normali conseguenze funzionali è però

tutt'altra questione: i modelli del movimento infatti sono una

cosa, e l'oggetto verso il quale il movimento è diretto un'altra.

Le conseguenze funzionali si verificano solo quando un movimento è diretto verso un

oggetto appropriato. Per esempio, se un pulcino appena nato

si trova a beccare su un terreno cosparso di semi, ne deriva l'ingestione di

cibo. Se invece si trova a beccare su un terreno cosparso di altri oggetti biancastri,

come per esempio trucioli di legno o frammenti di gesso, gli identici

movimenti non lo portano a ingerire nulla che abbia un valore alimentare.

Analogamente, un bambino appena nato può succhiare un oggetto dalla

forma appropriata e riceverne o non riceverne nutrimento. “I sistemi comportamentali

responsabili delle attività di beccare e di succhiare sono dunque pronti e si attivano nel

momento in cui sono presenti i fattori causali necessari, indipendentemente dal fatto

che ne derivi o meno la normale conseguenza funzionale” (Bowlby 1980).

La gamma di stimoli che possono attivare un qualunque sistema comportamentale nel

soggetto immaturo è spesso assai ampia, ma non infinitamente ampia: fin dall'inizio gli

stimoli tendono a rientrare in certe categorie e a provocare un determinato tipo di

reazione. Ciò indusse Schneirla (Schneirla 1959, 1965) a supporre che molte reazioni di

animali assai giovani siano inizialmente determinate solo da differenze quantitative

nell'intensità della stimolazione ricevuta. Schneirla fa notare che gli animali giovani

tendono ad avvicinarsi con una parte del corpo o con tutto il corpo a qualunque fonte di

stimolazione i cui effetti neurali siano quantitativamente bassi, regolari, e abbiano una

limitata gamma di ampiezza, mentre tendono a ritrarsi da quelle fonti di stimolazione i

cui input neurali sono alti, irregolari e con una vasta gamma di ampiezza. Anche se si

tratta di una discriminazione rozza e semplificata, assai spesso ha una conseguenza

funzionale, in quanto il giovane animale si ritrae da una parte potenzialmente pericolosa

dell'ambiente avvicinandosi a una parte potenzialmente sicura. Numerose osservazioni

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sui vertebrati inferiori sembrano confermare la generalizzazione di Schneirla, ma la

portata della sua applicabilità rimane ancora sconosciuta. Gli studiosi dei vertebrati

superiori ritengono perlopiù che la forma particolare del comportamento provocato sia,

fin da una fase precoce dell'ontogenesi, determinata almeno in parte anche dalla

configurazione dello stimolo.

Gli esempi citati mostrano come, nei vertebrati superiori, la gamma di stimoli in grado di

attivare un sistema comportamentale in un animale immaturo e ancora privo di

esperienza sia spesso assai ampia. Con l'esperienza, però, tale gamma si restringe: in

pochi giorni un pulcino impara a beccare soprattutto semi e a trascurare gli oggetti non

commestibili, e un bambino impara a preferire, quando ha fame, un succhietto che

fornisce latte. Si possono

citare molti altri esempi di limitazione nella gamma degli stimoli efficaci. I

giovani uccelli di molte specie in un primo momento reagiscono seguendo

un'ampia gamma di stimoli visivi, ma dopo pochi giorni seguono solo un oggetto che

hanno già seguito in passato. Un bambino di poche settimane reagisce con il sorriso a

ogni stimolo visivo che presenti due macchie scure su

uno sfondo chiaro; a tre o quattro mesi occorre invece un vero viso umano; a

cinque mesi lo stimolo efficace può limitarsi al viso di una persona nota.

Quali sono i processi attraverso i quali, in primo luogo, la gamma degli

stimoli efficaci si restringe così drasticamente, e in secondo luogo allo stimolo

funzionalmente appropriato viene di solito a collegarsi una particolare reazione?

Uno di tali processi è un miglioramento, nell'individuo in crescita, della

capacità di discriminare l'input sensoriale. Finché la vista e l'udito non sono

in grado di discriminare, una molteplicità di stimoli visivi o uditivi possono

essere trattati come se fossero tutti simili. Mentre certi tipi di miglioramento

sembrano dipendere dallo sviluppo fisiologico e non sono attribuibili all'apprendimento,

altri dipendono dall'esperienza, e in tal caso si parla di «apprendimento percettivo» o di

«apprendimento per esposizione».

Per esempio, nei mammiferi è dimostrato che la capacità di percepire e di reagire a

forme visive come il cerchio o il quadrato dipende dal fatto che l'animale abbia già

avuto esperienza di forme differenti. In certi casi è sufficiente la familiarità, e non

occorre che l'animale sia compensato con uno degli abituali rinforzi.

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In altri casi non basta la sola esperienza visiva perché ne consegua un miglioramento

della discriminazione: perché un gattino sviluppi un comportamento efficace guidato da

stimoli visivi, occorre non solo che abbia

avuto esperienza visiva dell'ambiente, ma anche che abbia avuto la possibilità

di muoversi attivamente in esso.

Quando è stata acquisita la capacità di discriminare tra gli stimoli, numerosi

processi possono portare alla restrizione della gamma di stimoli collegati con

una particolare risposta. Attraverso questi processi, ciò che segue a una risposta può

contribuire notevolmente a mediare la restrizione: il pulcino, ad esempio, continua a

beccare oggetti che, una volta afferrati, lo inducono a inghiottirli, e smette di beccare

quelli che non provocano questa reazione. I giovani fringuelli dapprima manifestano solo

un limitato grado di preferenza fra diversi tipi di semi, ma con l'esperienza imparano a

scegliere soprattutto quei tipi di semi che riescono a sgusciare più agevolmente.

A un'altra classe di processi che modellano il comportamento appartengono quelli che

portano ad accostarsi agli oggetti familiari e ad evitare quelli

non familiari. L'importanza della dicotomia fra oggetti familiari e non familiari è stata

riconosciuta solo in epoca relativamente recente, soprattutto per merito di Hebb (Hebb

1946).

Nello sviluppo degli individui giovani di numerose specie il comportamento di

accostamento si manifesta precocemente e precede la comparsa dei

comportamenti di evitamento e di allontanamento. Di conseguenza, ogni stimolo a cui il

giovane animale viene esposto inizialmente, purché rientri entro certi limiti, tende a

facilitare l'accostamento. Questa fase ha però durata

limitata, e vi pongono fine due processi strettamente connessi: da un lato

l'esperienza dell'ambiente permette all'animale di imparare ciò che è familiare

discriminandolo da ciò che non lo è; dall'altro le reazioni di evitamento

e di allontanamento diventano più facilmente elicitabili, e in seguito vengono

elicitate soprattutto da stimoli riconosciuti come estranei. In molte specie le

reazioni aggressive seguono un corso evolutivo simile a quello delle reazioni

di allontanamento, in quanto maturano più tardi dell'accostamento e sono

elicitate soprattutto da stimoli riconosciuti come estranei.

L'atteggiamento aggressivo nei babbuini adulti nei confronti di quelli più giovani in caso

di allontanamento dal branco in situazioni di pericolo, rientra in questa tipologia; come i

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genitori che sgridano i bambini in caso di pericolo, questo atteggiamento rabbioso

favorisce l'attaccamento da parte del bambino.

Un esempio di cambiamento in un sistema, che si verifica in una fase assai

precoce, si riscontra nelle papere, che durante le prime ventiquattr'ore di vita

seguono qualunque oggetto in movimento. Dopo uno o due giorni, però, non

solo tale comportamento potrà essere provocato soltanto da oggetti noti, ma,

quando l'oggetto è assente, la papera addirittura lo cercherà. Quindi un comportamento

organizzato all'inizio come semplice sistema corretto secondo lo scopo ben presto si

riorganizza come parte di un piano. Analogamente, il

comportamento di attaccamento degli scimmiotti si evolve da un semplice riflesso di

pressione a sequenze complesse consistenti nel seguire e nell'attaccarsi alla madre,

organizzate anch'esse come parti di un piano.

Il passaggio dal controllo di un sistema semplice, al controllo di un sistema

organizzato in modo più complesso, è dovuto di solito al fatto che il sistema

più semplice viene incorporato in quello più complesso. Quando ciò avviene,

l'attivazione del sistema più semplice viene ad essere sottoposta a un controllo

più discriminante: invece di comparire immediatamente al momento in cui il

soggetto riceve gli stimoli elementari (appartenenti a una gamma più o meno

ampia), l'attivazione è inibita fino al momento in cui si verificano certe condizioni molto

particolari. Il soggetto può attendere passivamente che tali

condizioni si verifichino, oppure può promuoverle attivamente con un comportamento di

tipo del tutto diverso ma appropriato: per esempio quello della papera che cerca

l'oggetto.

Nei carnivori e nei Primati adulti a volte sembra che il comportamento sia

strutturato in base a semplici piani gerarchici. Questa ipotesi permette di

comprendere con facilità il modo in cui i leoni danno la caccia alla preda, o il

modo in cui un branco di babbuini cambia la sua formazione per difendersi

dai predatori. Tuttavia questi modi complicati di organizzazione del comportamento si

manifestano soltanto in animali relativamente maturi: leoni e babbuini giovani non ne

sono capaci.

Spesso si definisce il passaggio, nel tipo di sistema che controlla il comportamento, da

un semplice schema stimolo-risposta a un tipo corretto secondo lo scopo, come un

passaggio dal comportamento per prove ed errori al comportamento per insight. Piaget

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Page 19: Ansia e rabbia - Alessandro Geloso Counselling · 3-La rabbia funzionale alla sopravvivenza: una spiegazione etologica ... del bambino dipenda da un adeguato attaccamento alla figura

(1947) lo definisce il passaggio dal comportamento organizzato in base all'intelligenza

senso motoria al comportamento organizzato in base al pensiero simbolico e

preconcettuale: «L'intelligenza sensomotoria agisce come un film al rallentatore, in cui

tutte le immagini sono viste in successione ma senza essere fuse, e quindi senza quella

visione continua che è necessaria per comprendere il tutto», mentre il tipo più avanzato

di organizzazione assomiglia a un film proiettato alla giusta velocità.

Negli esseri umani lo sviluppo psicologico è caratterizzato non solo dal

fatto che i sistemi semplici sono sostituiti da sistemi corretti secondo lo scopo, ma

anche dal fatto che l'individuo diventa sempre più consapevole degli scopi stabiliti da lui

adottati, e sviluppa piani sempre più elaborati per conseguirli, con una crescente

capacità di correlare i piani fra loro, di scoprire l'incompatibilità fra diversi piani e di

ordinarli in termini di priorità. Nella

terminologia psicoanalitica questi cambiamenti sono attribuiti al subentrare

dell'Io laddove prima c'era l'Es.

I primi passi di tale sviluppo sono illustrati dal cambiamento che avviene

nei primi due o tre anni di vita nei tipi di sistemi che esercitano il controllo

vescicale nel bambino: questo processo è stato studiato da McGraw (McGraw 1943).

Nel primo anno di vita lo svuotamento della vescica è controllato da un meccanismo

riflesso, che nel primo semestre di vita è sensibile a un'ampia gamma di stimoli e nel

secondo semestre a una gamma più limitata. All'inizio del secondo anno questa

funzione perde l'automatismo di un meccanismo riflesso, ma il bambino sembra sempre

inconsapevole dell'atto e delle sue conseguenze; per un breve periodo può anche

diventare più collaborante e più prevedibile sotto questo aspetto. Poi anche questa fase

scompare, e molti bambini per un certo periodo diventano assai poco collaborativi.

Infine, di solito verso il termine del secondo anno, il controllo viene affidato a un sistema

comportamentale assai più complesso, organizzato in modo da tenere conto

sia della posizione del bambino sia delle circostanze. In questa fase lo svuotamento

della vescica è (di solito) inibito finché il bambino non ha trovato un recipiente adatto e

si è messo in posizione appropriata. Evidentemente questo comportamento è

strutturato in modo da raggiungere un fine stabilito,

cioè lo svuotamento della vescica in un recipiente, ed è organizzato in base a

un piano semplice. Nell'esecuzione del piano, il passaggio da una fase della

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sequenza comportamentale richiesta alla fase successiva, per esempio la ricerca del

vasino per poi sedercisi sopra, dipende da un processo di feedback.

Il successo della prima fase, la ricerca del vasino, dipende inoltre dal fatto che

il bambino possieda un'adeguata mappa cognitiva dei servizi igienici della famiglia.

Così una risposta semplice, inizialmente sensibile a un'ampia gamma di

stimoli non strutturati, è incorporata in un sistema comportamentale organizzato come

un piano gerarchico e sensibile a percezioni assai specifiche.

Si ritiene che una simile successione di sistemi sempre più elaborati sia ciò

che media anche il comportamento di attaccamento nell'uomo. Mentre nei

primi mesi di vita tale comportamento consiste solo in movimenti riflessi e

di stiramento, nel secondo e nel terzo anno si organizza in termini di scopi

stabiliti e di piani. Questi piani si organizzano in modo sempre più complesso, e alla fine

vengono a includere anche sottopiani, uno dei quali può essere quello di modificare i

sistemi comportamentali e gli scopi stabiliti della figura materna alla quale il bambino è

attaccato.

Un altro esempio della sempre maggiore complessità dei sistemi che negli

esseri umani vengono successivamente attivati per svolgere una singola funzione, si

riscontra nel comportamento che porta all'assunzione di cibo. Nel

neonato l'ingestione del cibo è una conseguenza del comportamento organizzato come

catena di semplici schemi fissi d'azione, come ruotare il capo, succhiare, inghiottire, che

sono attivati da stimoli ambientali relativamente non specifici, di solito quando la

situazione organica del neonato presenta determinate caratteristiche. Dopo alcuni mesi

il comportamento alimentare ha inizio soltanto quando il neonato percepisce che le

condizioni esterne sono conformi a un certo modello atteso: la madre pronta col seno, il

biberon o il cucchiaino. Nel secondo anno si riscontrano molti nuovi tipi di

comportamento al servizio dell'alimentazione: afferrare il cibo, portarlo alla bocca,

mordere, masticare; il collegamento fra diversi tipi di comportamento è venuto

organizzandosi più come piano che come catena. Man mano che il bambino cresce, il

piano diviene più complesso, e aumenta la durata della sua esecuzione: comprare il

cibo, prepararlo, cuocerlo ecc. Infine, anche negli adulti che non appartengono a

comunità civilizzate, l'ingestione del cibo diventa il punto culminante di un piano

generale la cui esecuzione può comprendere tutta un'annata di attività agricole e

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contenere come sottopiani molte diverse tecniche di coltivazione, di raccolta, di

conservazione e di preparazione.

Mentre dunque durante l'infanzia e la fanciullezza gli esseri umani sono

incapaci di strutturare il loro comportamento se non secondo un piano semplicissimo,

nell'adolescenza e nell'età adulta il comportamento è di solito

strutturato in base a piani gerarchici assai complessi. Naturalmente questo

enorme sviluppo nella complessità dell'organizzazione comportamentale attivata è reso

possibile dall'aumentata capacità dell'essere umano, man mano

che cresce, di servirsi dei simboli, e specialmente del linguaggio.

Poiché nel corso dello sviluppo umano il comportamento attivato per svolgere una

funzione passa, nella sua organizzazione, da una modalità semplice e

stereotipata a una modalità complessa e variabile, si è soliti dire che gli esseri

umani non manifestano un comportamento istintivo. Si potrebbe invece dire

che i sistemi responsabili del comportamento istintivo di solito vengono incorporati in

sistemi assai complessi, in modo che non si possono più riscontrare i modelli tipici e

riconoscibili che di solito si attribuiscono al comportamento istintivo, tranne quando si è

sul punto di raggiungere uno scopo stabilito.

Il fatto che nel corso dello sviluppo individuale il controllo del comportamento passi da

sistemi più semplici a sistemi più complessi dipende certamente in gran parte dallo

sviluppo del sistema nervoso centrale. Il confronto

operato da Bronson (Bronson 1965) fra quel che sappiamo sulle capacità

comportamentali di diverse parti del cervello umano, e sul loro stato di sviluppo nei

primi anni di vita, e quel che sappiamo sulla crescente complessità dei sistemi

comportamentali operanti in ogni fase successiva, fa pensare che nel corso dello

sviluppo umano la struttura del cervello e la struttura del comportamento procedano di

pari passo.

Nel primo mese di vita la neocorteccia del bambino è poco sviluppata, e perciò il

comportamento si mantiene al livello di movimenti riflessi. Durante il

terzo mese probabilmente diventano funzionanti certe parti della neocorteccia, e allora

compaiono reazioni sensibili alla configurazione, che per brevi periodi possono anche

essere differite. Per esempio un bambino di tre mesi può

restare tranquillo in attesa mentre la madre si prepara a nutrirlo, cosa che non

fa un neonato di poche settimane. Ma nei primi due anni di vita lo sviluppo

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delle zone di elaborazione della neocorteccia è assai inferiore a quello delle

zone di proiezione primaria e, conformemente a questa differenza, i processi

cognitivi e i piani non procedono oltre un livello relativamente primitivo.

Anche verso i due anni i lobi prefrontali sono ancora assai poco sviluppati:

sembra che queste parti del cervello siano necessarie perché il soggetto possa

inibire la reazione immediata, in modo da portare a compimento un piano di

azione, in dipendenza da fattori non presenti nell'ambiente immediato. Coerentemente,

si riscontra che solo verso la fine dell'età prescolare la maggior parte dei bambini sono

in grado di operare una scelta che tenga decisamente conto dei fattori non

immediatamente presenti nell'ambiente attuale. Sembra dunque chiaro che, per diversi

anni dell'infanzia, la complessità dei sistemi comportamentali passibili di sviluppo è

strettamente vincolata allo stato di sviluppo del cervello. Senza la necessaria dotazione

neurale, la dotazione comportamentale non può essere elaborata; e finché non viene

elaborata, il comportamento rimane più aderente al principio di piacere che al principio

di realtà.

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4- Da Bowlby a Freud

La visione etologica è secondo Bowlby assimilabile a quella freudiana.

Sia nelle sue primissime formulazioni sia in quelle finali, le idee di Freud sui fattori

causali delle nevrosi e dei disturbi concomitanti vertono sempre sul concetto di trauma.

Questo viene spesso dimenticato. Nelle sue ultime opere, come L'uomo Mosè e la

religione monoteistica (Freud 1934-38) e il Compendio di psicoanalisi (Freud 1938), egli

dedica diverse pagine alla natura del trauma, al periodo della vita di massima

vulnerabilità, al tipo di eventi che possono essere traumatici e ai loro effetti sullo

sviluppo psichico successivo. La natura del trauma è l'elemento centrale della teoria

freudiana. Per Freud e non solo per lui, sono qui in gioco due tipi di fattori: l'evento

traumatico e la costituzione dell'individuo che lo sperimenta; in altri termini, il trauma

risulta dall'interazione fra questi due fattori. Quando un'esperienza provoca una

reazione patologica insolita, per Freud ciò avviene perché essa sottopone la personalità

a una pressione eccessiva, cioè perché la personalità viene esposta

a quantità di eccitamento superiori alla sua capacità di farvi fronte. Per quanto riguarda

i fattori costituzionali, Freud ritiene che gli individui siano diversi nella capacità di far

fronte a tali pressioni, e che quindi «una cosa può costituire un trauma per una

costituzione mentre non avrebbe tale effetto per un'altra» (Freud 1934-38). Nello stesso

tempo, c'è una particolare fase della vita, fino ai cinque-sei a

nni, in cui ogni creatura umana tende a essere vulnerabile. Ciò avverrebbe perché in

questa fase «l'Io (...) è debole, immaturo e incapace di resistenza». Di conseguenza l'Io

«è incapace di affrontare compiti che in seguito potrebbe sostenere con estrema

facilità», e ricorre invece alla rimozione o alla scissione. Questo è il motivo per cui «le

nevrosi si contraggono solo nella prima infanzia» (Freud 1938). Quando Freud parla di

«prima infanzia» si riferisce a un periodo che copre parecchi anni; in L'uomo Mosè e la

religione monoteistica parla dei primi cinque anni di vita, nel Compendio di psicoanalisi

dei primi sei. Entro questa fase «il periodo fra i due e i quattro anni sembra essere

quello più importante» (Freud 1934-38) . Egli non s'interessa particolarmente dei primi

mesi e appare incerto sulla loro importanza: «Non si può determinare con sicurezza

quanto tempo dopo la nascita incominci il periodo di ricettività» (Freud 1934-38).

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Questa è dunque la teoria etiologica generale di Freud. La teoria qui presentata vi

aderisce strettamente: si afferma infatti che la separazione dalla madre può essere

traumatica nel senso della definizione proposta da Freud, soprattutto quando il bambino

viene a trovarsi in un ambiente estraneo e fra persone estranee; inoltre, il periodo della

vita nel quale questo evento si dimostra traumatico si sovrappone quasi esattamente a

quello che secondo Freud è un periodo di particolare vulnerabilità. Mostrerò ora come in

Bowlby il concetto di separazione dalla madre concordi con il concetto freudiano di

trauma. Freud definisce il concetto di trauma in termini di condizioni causali e di

conseguenze psicologiche: sotto entrambi gli aspetti la separazione dalla madre nei

primi anni di vita rientra in questa categoria. Per quanto riguarda le condizioni causali, è

noto che la separazione e l'inserimento in ambiente estraneo provocano un intenso

disagio per un lungo periodo; ciò concorda con l'ipotesi freudiana che si abbia un

trauma quando l'apparato psichico viene esposto a quantità eccessive di eccitamento.

Quanto alle conseguenze, si può dimostrare che i cambiamenti psicologici che

regolarmente seguono il prolungato disagio dovuto alla separazione non sono altro che

la rimozione,la scissione e il diniego, cioè proprio quei processi difensivi che nella teoria

di Freud sono i risultati del trauma, quei processi per spiegare i quali Freud ha proposto

la sua teoria del trauma. Dunque l'agente etiologico scelto per la nostra indagine è

semplicemente un caso particolare degli eventi concepiti da Freud come traumatici. Di

conseguenza, la teoria della nevrosi elaborata da Bowlby, sotto molti aspetti, non è che

una variante della teoria freudiana del trauma. Si deve tuttavia notare che, sebbene la

separazione dalla madre sia compatibile con la teoria generale della nevrosi di Freud, e

sebbene nell'elaborare tale teoria egli abbia preso in sempre maggiore considerazione

l'angoscia di separazione, la perdita e il lutto, solo raramente ha considerato come fonte

del trauma un evento di separazione o di perdita verificatosi nei primi anni di vita.

Parlando degli eventi che possono essere traumatici, Freud nei suoi scritti più tardi è

molto prudente, e per descriverli usa termini così generici che spesso non è affatto

chiaro a che cosa si riferisca. Per esempio, si limita ad affermare che tali eventi «sono

connessi a impressioni di natura sessuale e aggressiva, e certamente anche a precoci

ferite dell'Io (mortificazioni narcisistiche)» (Freud 1934-38). Si ammette comunemente

che una separazione precoce va considerata come una ferita inferta all'Io; ma, pur

essendo indubbio che una separazione precoce può danneggiare l'Io, non è certo che

fosse questa la tesi di Freud. Mentre dunque la separazione dalla madre nei primi anni

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di vita rientra perfettamente nella definizione freudiana di evento traumatico, non si può

affermare che Freud stesso si sia occupato seriamente di tali separazioni come di una

particolare classe di eventi traumatici. II terzo aspetto del metodo adottato è l'uso di

dati ricavati dall'osservazione diretta del comportamento; e anche questo è

strettamente aderente alle concezioni di Freud. Bisogna anzitutto notare che, anche se

Freud attinse solo raramente ai dati dell'osservazione diretta, lo fece però in una o due

occasioni fondamentali; per esempio nel caso dell'episodio del «gioco del rocchetto» su

cui fonda gran parte della sua argomentazione in Al di là del principio di piacere (Freud

1920) e nella tormentata rivalutazione della teoria dell'angoscia in Inibizione, sintomo e

angoscia (Freud 1925). Di fronte a conclusioni complesse e contraddittorie sull'angoscia,

Freud cerca e trova un punto fermo nelle osservazioni sul comportamento dei bambini

quando sono da soli, o al buio, o con estranei. La seconda formulazione freudiana

dell'angoscia poggia su questo fondamento. Inoltre, è interessante che vent'anni prima,

nei Tre saggi sulla teoria sessuale (Freud 1905), Freud avesse esplicitamente

raccomandato l'osservazione diretta dei bambini come complementare all'indagine

psicoanalitica.

5 - Strumenti teorici di analisi del percorso rabbia/ansia

Al momento si sta stampando una mia nuova opera, Inibizione, sintomo e angoscia. Darà uno scossone a parecchie idee tradizionali e mira a rimettere in movimento cose che sembrano già pietrificate. Gli analisti che desiderano anzitutto tranquillità e certezza saranno scontenti di dover rivedere le loro convinzioni. Sarebbe presuntuoso però credere ch'io sia riuscito questa volta a risolvere definitivamente il problema della connessione fra angoscia e nevrosi.

Sigmund Freud

1 Lettera a Oskar Pfister del 3 gennaio 1926.

Dalle primissime ricerche di Freud sull'etiologia delle nevrosi, fino alla fine della sua

vita, i problemi gemelli dell'angoscia nevrotica e della difesa non abbandonarono mai la

sua mente. Egli vi ritornò di continuo, e sulle sue diverse soluzioni provvisorie si basano le

successive formulazioni teoriche da lui proposte. Dalla morte di Freud in poi le teorie

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dell'angoscia e della difesa hanno continuato a essere la base della psicopatologia

psicoanalitica; e se sono sorte più scuole psicoanalitiche distinte, ciò è dovuto al fatto

che esse hanno sposato idee differenti sulla natura e sulle origini di questi fenomeni.

Nelle prime formulazioni di Freud non vi è cenno al fatto che l'angoscia nasca dalla

perdita, o dalla minaccia di perdita, o che i processi difensivi insorgano in condizioni di

angoscia intensa. Solo un poco alla volta, e soprattutto verso la fine della sua vita, Freud

avanzò queste ipotesi, mettendo in tal modo in rapporto le sue idee sull'angoscia e sulle

difese con quelle sul lutto, che fino a quel momento erano state un filone significativo

ma del tutto distinto del suo pensiero. Uno dei risultati più importanti della sua nuova

formulazione fu, come egli previde giustamente, quello di rimettere tutto «in

movimento».

Anche se lo stesso Freud in periodi diversi della sua vita adottò svariate teorie

radicalmente diverse sull'angoscia, sul lutto e sulle difese, così come hanno fatto le

diverse scuole di pensiero che sono sorte successivamente, ogni teoria è basata su dati

ottenuti con uno stesso metodo d'indagine.

I dati primari sono osservazioni sul modo in cui i bambini piccoli si comportano in

determinate situazioni; alla luce di questi dati, si tenta di descrivere alcune fasi precoci

del funzionamento della personalità, e da lì fare deduzioni in altre direzioni. In

particolare, si tenta di descrivere modelli di reazione che si presentano con regolarità

nella primissima infanzia, e quindi vedere come si possono distinguere modelli analoghi

nel funzionamento successivo della personalità.

Alcuni dei dati essenziali, così come li abbiamo descritti nel capitolo precedente, si

possono riassumere come segue. Ogni volta che un bambino piccolo che aveva avuto

l'opportunità di sviluppare un certo attaccamento a una figura materna, ne viene

separato, appare a disagio; se poi lo si colloca in un ambiente sconosciuto e se di lui si

prende cura una serie di persone estranee, è facile che questo disagio si intensifichi. Il

modo in cui il bambino si comporta si presenta con una sequenza tipica. All'inizio

protesta con energia e cerca con tutti i mezzi a sua disposizione di recuperare la madre.

Poi sembra che disperi di riaverla, però seguita a pensare a lei e ad aspettarne il ritorno.

Più tardi, sembra perdere interesse per la madre e appare emotivamente distaccato da

lei. Nonostante ciò, se il periodo di separazione non è troppo lungo, il bambino non

rimane indefinitamente distaccato. Presto o tardi, dopo che lo si è riunito alla madre, il

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suo attaccamento verso di lei riappare. Dopo di allora, per giorni o per settimane, e

qualche volta molto più a lungo, insiste a volerle restare vicino. Inoltre, tutte le volte che

ha l'impressione di poterla perdere ancora, manifesta una acuta angoscia.

Quando Bowlby si accinse a esaminare i problemi teorici sollevati da queste

osservazioni, trovò evidente che il primo passo doveva consistere nel raggiungere una

comprensione più chiara del legame tra il bambino e la madre. In secondo luogo,

diventa sempre più evidente che ciascuna delle tre fasi principali della reazione del

bambino alla separazione è in relazione all'una o all'altra delle questioni centrali della

teoria psicoanalitica. La fase di protesta solleva il problema dell'angoscia di separazione;

la disperazione quello del dolore e del lutto; il distacco quello della difesa. La tesi che

venne allora proposta fu che i tre tipi di reazione - angoscia di separazione, dolore e lutto

e difesa - siano fasi di un unico processo, e che solo quando vengono considerati come tali

se ne colga il vero significato.

Il modello dell'energia psichica è un modello possibile ma certamente non

indispensabile per spiegare i dati su cui Freud aveva attirato l'attenzione. Dobbiamo

dunque sottolineare in primo luogo che il modello freudiano dell'energia psichica ha

avuto origine al di fuori della psicoanalisi, e in secondo luogo che Freud l'aveva

introdotto soprattutto per garantire che la sua psicologia si uniformasse a quelle che

considerava le migliori idee scientifiche del tempo. Non c'è nulla nelle sue osservazioni

cliniche che richieda o anche suggerisca tale modello, come appare a una rilettura dei

suoi primi casi clinici. E indubbiamente la maggior parte degli analisti hanno continuato

a utilizzare questo modello in parte perché Freud vi aveva aderito per tutta la vita e in

parte perché non esisteva un modello alternativo decisamente migliore.

Il modello dell'energia psichica non è logicamente connesso ai concetti che Freud e i

suoi seguaci considerano come veramente essenziali alla psicoanalisi: il ruolo dei

processi psichici inconsci, la rimozione come processo attivo per mantenerli tali, il

transfert come una delle principali determinanti del comportamento, l'origine della

nevrosi nel trauma infantile. Nessuno di questi concetti ha un rapporto intrinseco con un

modello dell'energia psichica, e anche se si accantona tale modello essi rimangono tutti

e quattro intatti e immutati.

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L'azione non solo ha un inizio ma ha anche un termine. Nel modello dell'energia psichica

si ritiene che l'inizio derivi dall'accumulazione di energia psichica e la cessazione

dall'esaurimento di tale energia. Quindi, prima che un atto possa essere ripetuto, si

deve accumulare una nuova provvista di energia psichica. Molti comportamenti però

non sono facilmente spiegabili in questo modo. Per esempio, un bambino può cessare di

piangere quando vede la madre e ricominciare poco dopo quando la madre scompare

alla sua vista, e questa sequenza può ripetersi parecchie volte; in tal caso è difficile

supporre che la cessazione del pianto e la sua ripresa siano causate prima da una

caduta e in seguito da un aumento della quantità di energia psichica disponibile. Un

problema simile si pone a proposito della costruzione del nido da parte degli uccelli:

quando il nido è completato l'uccello smette di costruire; ma se il nido viene rimosso

l'animale riprende subito la sua attività. Anche in questo caso non è facile supporre che

la ripetizione dipenda da un improvviso afflusso di un'energia speciale, che non si

sarebbe verificata se il nido fosse stato lasciato al suo posto. In entrambi i casi il

cambiamento di comportamento si comprende facilmente attribuendolo a segnali

provenienti da un cambiamento ambientale. Il secondo inconveniente del modello

psicoanalitico dell'energia psichica, e di altri modelli simili, sta nel suo scarso grado di

verificabilità. Come ha sostenuto Popper (Popper 1934), ciò che distingue una teoria

scientifica da una teoria non scientifica non è la sua origine, ma il fatto che essa possa

essere e sia effettivamente sottoposta a verifica, non una volta sola ma ripetutamente.

Quanto più spesso e più rigorosamente una teoria è stata sottoposta a verifica e ha

superato la prova, tanto più elevata è la sua scientificità. In fisica si definisce l'energia

come capacità di eseguire un lavoro, e il lavoro si può misurare in chilogrammetri o in

altre unità di misura equivalenti. Quindi la teoria dell'energia fisica può essere

sottoposta a verifica, e spesso lo è stata, per determinare se le previsioni dedotte da

essa risultano vere o false. Finora, naturalmente, la maggior parte delle previsioni

esaminate si sono dimostrate vere. Invece per la teoria freudiana dell'energia psichica e

per tutte le teorie dello stesso tipo non è stata ancora proposta alcuna verifica analoga.

Quindi la teoria dell'energia psichica rimane indimostrata; e finché non sarà definita in

termini di qualcosa che può essere osservato, e preferibilmente misurato, la si dovrà

considerare indimostrabile. Per una teoria scientifica questa è una grave pecca. Il terzo

difetto del modello deriva paradossalmente da quello che a Freud era sembrato il suo

principale vantaggio. Per Freud il modello dell'energia psichica era il tentativo di

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concettualizzare i dati della psicologia in termini analoghi a quelli della fisica e della

chimica dei suoi tempi, e quindi esso presentava il grande vantaggio di collegare la

psicologia con la scienza vera e propria. Oggi accade esattamente il contrario: i modelli

della motivazione che postulano l'esistenza di una particolare forma di energia distinta

da quella fisica non convincono i biologi (Hinde, 1966); ne si suppone che il principio

dell'entropia si applichi ai sistemi viventi nel modo in cui si applica ai sistemi non

viventi. Nella teoria biologica attuale si da invece per scontato l'operare dell'energia

fisica, e si insiste principalmente sui concetti di

organizzazione e di informazione, indipendenti dalla materia e dall'energia, e

sull'organismo vivente come un sistema aperto e non chiuso. Di conseguenza il modello

dell'energia psichica, lungi dall'integrare la psicoanalisi nella scienza attuale, ottiene

l'effetto opposto, costituendo una barriera a tale collegamento. Bowlby sostiene che il

modello etologico non soffre di tali difetti: attraverso il concetto di feedback, attribuisce

importanza alle condizioni che fanno cessare l'azione oltre che a quelle che la fanno

cominciare; essendo strettamente collegato ai dati osservabili, è passibile di verifica

sperimentale; essendo formulato nei termini della teoria dei sistemi e della teoria

dell'evoluzione, collega la psicoanalisi con i concetti essenziali dell'attuale biologia.

Infine, ritiene che dei dati di cui si occupa la psicoanalisi, questo modello possa fornire

una spiegazione più semplice e più coerente che non il modello dell'energia psichica.

E' probabile che sotto certi aspetti la teoria della motivazione presentata da Bowlby non

sia tanto diversa da certe idee di Freud quanto potremmo ritenere. Negli ultimi anni si è

rinnovato l'interesse per il modello neurologico presentato da Freud nel Progetto di una

psicologia, scritto nel 1895 ma pubblicato postumo. Il neurofisiologo Pribram (Pribram

1962) richiama l'attenzione su molti aspetti di quel modello, tra i quali il feedback

negativo, che sono assai raffinati anche rispetto agli attuali criteri. Anche Strachey

(Strachey 1966) richiama l'attenzione sulle somiglianze tra le prime idee di Freud e i

concetti moderni: ad esempio, «nella spiegazione freudiana del meccanismo della

percezione troviamo l'introduzione del concetto fondamentale di feedback come mezzo

per correggere gli errori nei contatti della stessa macchina con l'ambiente». La presenza

di queste idee nel Progetto di una psicologia (Freud 1965) induce Strachey a ritenere

che il modello del comportamento istintivo da Bowlby proposto, e in particolare l'idea

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che l'azione venga fatta cessare dalla percezione del cambiamento ambientale, sia

meno diverso dalle idee di Freud di quanto Bowlby ritenesse:

Nel Progetto in ogni caso Freud afferma che Inazione “ha inizio come risultato d'una

percezione proveniente dal mondo esterno e ha termine a causa d'una nuova

percezione dall'esterno, poi ricomincia a causa di un'ulteriore percezione dall'esterno

(comunicazione personale)”. E possibile individuare l'idea di feedback anche nei concetti

freudiani di meta e di oggetto della pulsione. In Pulsioni e loro destini (Freud 1915)

Freud descrive tali concetti nel modo seguente: “La meta di una pulsione è sempre il

soddisfacimento, che può essere raggiunto soltanto con l'eliminazione dello stato

stimolatore nella fonte della pulsione (...) Oggetto della pulsione è quello nel quale, o

mediante il quale, la pulsione raggiunge la sua meta”. L'eliminazione di uno stato di

stimolazione alla fonte attraverso la relazione con un oggetto è facilmente

comprensibile in termini di feedback, mentre invece non ha niente a che vedere con il

concetto di scarica. E molto interessante ritrovare il concetto di feedback in questi punti

della teorizzazione freudiana, tuttavia tale concetto è sempre messo in secondo piano e

spesso escluso da concetti di tipo diverso. Di conseguenza, non è mai stato sfruttato

nella teorizzazione psicoanalitica; anzi di solito, per esempio nell'esposizione della

metapsicologia di Rapaport e Gill (Rapaport e Gill 1959), esso brilla per la sua assenza.

Quando si cercano le idee attuali nel pensiero di una generazione precedente c'è

sempre il pericolo di leggervi più di quanto in realtà non vi sia. Per esempio, forse non è

legittimo considerare il principio d'inerzia di Freud come un caso particolare del principio

dell'omeostasi, come suggerisce Pribram: «L'inerzia è l'omeostasi nella sua forma più

nuda.» Pare invece che fra i due principi vi sia una differenza essenziale: mentre il

freudiano principio d'inerzia è concepito come tendenza a ridurre a zero il livello di

eccitamento, il principio dell'omeostasi è concepito non solo come tendenza dei livelli a

mantenersi entro certi limiti positivi, ma anche come processo volto a mantenere limiti

stabiliti soprattutto da fattori genetici e tendente verso punti che rendano massima la

probabilità di sopravvivenza. Il primo principio è concepito in termini di fisica e di

entropia, il secondo in termini di biologia e di sopravvivenza. Per la sua somiglianza con

il principio dell'omeostasi, il principio di costanza sembra più promettente di quello

d'inerzia.

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Come il modello di Freud è legato alle teorie energetiche del suo tempo (magnetismo e

campi energetici) e quello di Bowlby ad un primo cognitivismo ed ai primi concetti di

feed-back, è auspicabile la creazione di un nuovo modello derivante dai precedenti che

tenga conto delle attuali scoperte in campo cognitivo ( come sistemi aperti,

addestramento delle reti e logica fuzzy e in campo Analitico Transazionale (spinte,

emozioni parassite, credenze patogene, tipi psicologici, triangolo di Karnap).

6 - Da Freud a Berne

Le radici freudiane dell’opera di Berne sono considerate essenziali per una metodologia

basata su tre cardini: 1) il setting di lavoro, 2) l’analisi del transfert e del controtransfert,

3) l’interpretazione.

Nel suo ultimo lavoro L’approccio clinico dell’analisi transazionale (Novellino 1998),

novellino propone il termine psico-analisi transazionale per caratterizzare gli sviluppi

attuali di una concezione della psicoterapia berniana a orientamento psicodinamico

(Novellino - Moiso 1990), per come va applicata al setting psicoterapeutico individuale.

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L'idea centrale che muove la ricerca di novellino da quasi vent’anni, è che risulta utile e

stimolante esplorare gli estremi limiti della proposta berniana di considerare l’analisi

transazionale come un avanzamento fenomenologico della psicoanalisi (Berne 1961).

Secondo l’impostazione concettuale che segue nella sua ricerca, l’analisi transazionale

andrebbe collocata all’interno del movimento psicoanalitico moderno.

Tale linea guida trae sostanza in particolare dall’opera di Mitchell ( Mitchell 1988 ).

Quest’ultimo, riportando Sullivan, padre della psichiatria interpersonale, al centro

dell’attuale movimento psicoanalitico, toglie il primato della ricerca psicodinamica alla

concezione freudiana, di natura meccanicistica e pulsionale, per restituirlo a un

orientamento di tipo oggettuale.

Risulta fondamentale l’inquadramento proposto da Mitchell sulle diverse concezioni

della mente all’interno della cultura psicoanalitica.

La mente freudiana lavora su un sistema di compromessi tra l’espressione degli impulsi

e le difese che li regolano, ma rimane sostanzialmente una mente monadica, ossia di

natura intrapsichica.

Nei modelli interpersonali la mente relazionale viene concepita come un apparato

complesso che regola i suoi impulsi allo scopo di mantenere i propri legami oggettuali e

anche per individuarsi da essi, per cui siamo di fronte a una mente diadica per la quale

impulsi e bisogni sono elaborati all’interno di un conteso motivazionale dato dalle

relazioni.

Il movimento relazionale (Kohut, Fairbairn, Mahler, Winnicott, Loewald, Gill, Stern), si

propone di superare la contraddizione tra intrapsichico e interpersonale, considerando

comunque i fenomeni psicodinamici all’interno di una matrice relazionale.

Ritengo che la proposta di una psico-analisi transazionale sia ben motivata dalla

rispondenza del modello berniano ai criteri epistemologici proposti da Mitchell.

Possiamo riassumere tali criteri nei seguenti punti:

1) Berne fonda la sua ricerca teorica partendo dal modello freudiano, del quale rispetta i

presupposti

legati alle due topiche (conscio- preconscio- inconscio; Superlo - Io - Es). Egli supera

d’altra parte le sue radici in modo rivoluzionario proponendo come motivazione primaria

del comportamento la fame di carezze (Beme 1961);

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2) i livelli intrapsichico e interpersonale sono visti come due facce della stessa medaglia,

elaborati in un sistema concettuale unico per i suoi tempi. Dialogo interno e

comunicazione sono lo specchio dell’attività mentale dell’individuo all’interno del suo

contesto interpersonale;

3) i modelli arcaici di relazione interpersonale influenzano quelli attuali in un dinamismo

reciproco: quanto è avvenuto con le figure genitoriali originali in parte spiega gli stili

transazionali nel qui-e-ora, ma questi ultimi a loro volta portano a una continua

elaborazione dei primi;

4) la mente berniana è di tipo diadico, sia nall’analisi del comportamento (il dialogo

interno si riflette nelle diverse opzioni transazionali), che nella concezione della

psicopatologia (teoria del copione psicologico).

Novellino ritiene che Berne collochi la sua opera a una sorta di bivio nel quale si è

trovata la psicoanalisi tutta, sia in seguito a una evoluzione della ricerca teorica, che a

causa di una crisi metodologica dovuta al confronto concreto con i risultati della clinica.

Tale collocazione fa dell’analisi transazionale una psicoterapia caratterizzata da una

ricerca fenomenologica sulla personalità intesa in senso spiccatamente interpersonale.

Della sua cultura psicoanalitica di origine, Berne mantiene la concezione della psiche

vista come un insieme dinamico di sistemi tra loro interagenti.

La mente si sviluppa, nei suoi diversi apparati, in seguito alla necessità filogenetica e

ontogenetica di arrivare a una mediazione tra le necessità psicobiologiche dell’individuo

e le istanza della realtà, comprese quelle culturali.

L’Io berniano è un Io freudiano in quanto media istanze interne ed esterne: è deputato

all’omeostasi dell’individuo rispetto al mondo e alla sua storia personale.

Il tentativo di Berne è quello di porre l’Io al centro di tre temi essenziali della psicologia:

1) la conoscenza di sé,

2) il destino individuale,

3) il comportamento sociale.

L’Io viene concepito allora come il risultato di una serie di eventi di natura relazionale,

dove le “vicende” transazionali tra bambino e ambiente vengono viste nella loro

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dinamica di vissuti, sia realistici che fantasmatici: quelle che erano state transazioni tra

il bambino e le sue figure genitoriali portano alla costruzione di “depositi” intrapsichici, i

quali ripetono a livello di dialogo interno e di comportamento interpersonale le suddette

transazioni.

Quanto era avvenuto nelle transazioni infantili si può ripetere a livello intraegoico e

interegoico.

Nell' evoluzione dei sistemi intraegoici, detti stati dell' Io, un ulteriore aspetto che

caratterizza la concezione berniana è quello motivazionale: in questo Beme si allontana

dalla psicoanalisi freudiana, per avvicinarsi, se non anticipare, l’attuale filone della

psicoanalisi interpersonale.

La principale motivazione umana non è legata alle pulsioni aggressive e

sessuali come in Freud, bensì a quella che Berne chiama la fame di

riconoscimento.

Esiste un bisogno innato e primario di stimoli, e questa fame influenza secondariamente

le varie vicende delle interazioni bambino-ambiente.

Beme si pone quindi in un’ottica vicina, ad esempio, a quella di Bowlby, altro

psicoanalista che ha sviluppato il concetto di relazione allontanandosi dalla concezione

freudiana, partendo da intuizioni di tipo etologico.

Tutta l’opera di Beme è costellata di riferimenti alla sua matrice psicoanalitica (Beme

1961, 1964, 1966, 1972).

Ritengo utile infine accennare, a scopo esemplificativo, ad alcuni spunti che ritroviamo

in diversi momenti dell’opera berniana:

• la rimozione viene paragonata a una esclusione parziale,

• il protocollo è collegato a un Edipo rimosso,

• il concetto di maglietta è paragonato a quello di difesa caratteriale,

• il copione è visto come un dramma transferale,

• il protocollo è all' origine dei fenomeni transferali,

• esplora ampiamente le dinamiche inconsce dei giochi psicologici,

• le transazioni di transfert e controtransfert sono ritenuti essenziali,

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• l'interpretazione è l'operazione centrale della deconfusione.

In sostanza, l'influsso psicoanalitico è centrale e costante.

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7 - La rabbia in Analisi Transazionale

Abbiamo visto nei primi capitoli il processo che dalla rabbia conduce all'ansia ed ora

mostrerò un caso clinico di Novellino, in cui lo psicoterapeuta guida la paziente in un

percorso a ritroso alla scoperta della sua rabbia originaria.

La storia clinica di P.

P. è una donna di mezza età, esercita una professione sanitaria, e arriva in

consultazione da me dopo diversi tentativi falliti di terapia, sia farmacologica che

psicoterapeutica.

Ella soffre di crisi depressive ricorrenti, di seri disturbi nella vita sessuale (vaginismo e

anorgasmia), non è riuscita mai a costruirsi una vita affettiva duratura, ha avuto diverse

somatizzazioni a livello gastrico e cardiaco.

Durante gli anni dell’università ha messo in atto un serio tentativo di suicidio.

Al momento della prima consultazione vive sola, si sente terribilmente frustrata per non

essere riuscita a costruirsi una famiglia, sente il suo ambiente sociale freddo e ostile.

Nel suo quadro psicopatologico, sono fondamentali due nuclei di contaminazione:

a) contaminazione G/A : non fidarti degli estranei (soprattutto degli uomini)

b) contaminazione B/A: non mi legherò mai a nessuno (come a mia madre)

Nella sua anamnesi l’evento di protocollo è costituito dall’abbandono della madre da

parte del padre quando lei aveva due anni.

La figura del padre è stata sempre filtrata dal rancore che la madre ha mantenuto nei

suoi confronti per tutta la vita.

Nella diagnosi analitico-transazionale di P., possiamo usare i capitoli classici della teoria

berniana.

I suoi stati dell’Io sono rinvenibili nei quattro modi classici della diagnosi

comportamentale, sociale, storica e fenomenologica.

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Ella energizza, insieme a un Adulto molto efficiente sul lavoro, un Genitore molto critico,

sia verso se stessa che verso gli altri, e un Bambino molto spaventato dalle situazioni di

novità e dall’interesse che gli altri possono avere verso di lei.

Il suo copione presenta le caratteristiche, indicate da Berne, di una nevrosi di transfert,

in quanto compulsivamente P. continua a proiettare sugli uomini il rancore di ricatto

appreso dalla madre.

Come quest’ultima, P. tiene lontana gli uomini ed evita di cercare il piacere e le carezze

positive nella vita.

I giochi psicologici riflettono e producono questa coazione a ripetere, prima di tutto

“Difetto” e “Ti ho beccato, figlio di puttana!”.

Questi stessi giochi sono stati giocati con i terapeuti precedenti, se donne in quanto non

erano mai all'altezza della madre, se uomini in quanto deludenti come il padre.

Come si può facilmente comprendere, l’approccio nei miei confronti non può che

ripetere i suddetti schemi.

A questo punto vediamo come i concetti di impasse transferale e di comunicazione

inconscia possono completare una analisi berniana del caso di P., rimanendo all’interno

di un quadro rigoroso di analisi transazionale.

Vediamo prima di tutto come possiamo utilizzare il concetto di impasse transferale.

P. presenta i tre tipi classici di impasse descritti dai Goulding e da Mellor.

l) l’impasse di terzo tipo si fissa a due anni, quando in seguito all’abbandono del marito

la madre soffre di una profonda depressione, con conseguente ingiunzione non esistere

(non contare sui legami),

2) l’impasse di secondo tipo si fissa durante la fase edipica di sviluppo, allorchè, a causa

dell’assenza del padre, che viene inoltre estremamente svalutato dalla madre, P. vive

un’ingiunzione di non essere importante (come femmina),

3) durante la fase di sviluppo tra i sei e i quindici anni, si fissa l’impasse di primo tipo

attraverso le richieste materne di essere “la prima della classe” e di “farsi trovare

sempre in ordine”, con una conseguente contro ingiunzione di essere perfetta (così non

avrai bisogno di nessuno).

Queste tre impasse, oltre che a portare alle due contaminazioni suddescritte, evocano le

diverse reazioni transferali che si sviluppano nella relazione terapeutica.

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Durante tutta la terapia il rapporto di P. con me è caratterizzato dai seguenti fenomeni.

Prima di tutto P. cerca di essere “perfetta” non appena mi attribuisce aspettative nei

suoi confronti: ad esempio, essendo io un analista transazionale corre a leggere

attentamente i testi di analisi transazionale. D’altro canto, cercando lei di essere

perfetta, si aspetta che lo sia anch’io, per cui reagisce con rabbia e frustrazione a ogni

mio “errore”, magari anche avere iniziato una seduta con due minuti di ritardo: i giochi

di “Difetto” e di “ T’ho beccato, figlio di puttana!” caratterizzano tutta la prima fase di

terapia, e si ripetono durante le fasi critiche.

D’altro canto, passando ai livelli più profondi del comportamento di P., ben presto io e la

paziente ci rendiamo conto delle paure che lo motivano.

Ella non deve stabilire un legame profondo con me: rischierebbe, nel suo vissuto,

purtroppo rinforzato dai precedenti fallimenti terapeutici, sia di essere abbandonata

come persona, che di non ricevere importanza come donna.

In altre parole P. teme che le si ripeta il dramma transferale nei confronti della figura

patema, già vissuto da bambina sia direttamente, che tramite l'esperienza della madre.

Allora lei fa di tutto per tenermi a distanza per non rischiare un legame che potrebbe poi

perdere. Ciononostante, P. ha un bisogno disperato di aiuto e di ascolto, e del resto aver

continuato per anni a cercare sostegno terapeutico ne fornisce una testimonianza.

A questo punto possiamo introdurre il concetto di comunicazione inconscia.

In che modo P. può comunicarmi il suo bisogno naturale di protezione e di fiducia?

Lei non può coscientemente e volontariamente contraddire circa quarant’anni di

ripetizione di un copione nel quale non ci deve essere posto per legami significativi

extra-familiari.

Tuttavia, fin dalle prime sedute P. fa dei “discorsi” che hanno tutte le caratteristiche di

quella che ho definito, applicando le teorie di Langs in analisi transazionale,

comunicazione inconscia.

Ad esempio mi parla spesso di come una sua sorella educhi in modo troppo ossessivo la

figlia di pochi anni, e di come sia irritata del fatto che la sorella non comprenda che,

dietro i “capricci” e le “bizze” della bambina si nasconda un grande bisogno di ascolto e

di attenzione.

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In termini di comunicazione inconscia, P. mi trasmette il messaggio di andare al di là dei

suoi perfezionismi e delle sue “beccate”: ella vuole profondamente il mio ascolto e la

mia attenzione.

La storia di P. non è dimostrativa, come tutti i singoli casi di psicoterapia, di una

coerenza teorica o di una efficacia clinica, eppure ha un alto valore esemplificativo di

quanto affermo in questo articolo. L’analisi transazionale si rivela una teoria con

profonde basi psicodinamiche e, nel pieno rispetto delle sue radici berniane, diventa una

lettura coerente del comportamento umano per come si dispiega nella relazione

terapeutica se mantiene una adesione ai fenomeni transferali.

Lavorare in un setting individuale rimanendo analisti transazionali, significa

primariamente definire i parametri secondo i quali si possa realizzare efficacemente una

analisi del copione.

In un setting di gruppo, l’analisi del copione psicologico del paziente viene realizzata

tramite l’analisi delle transazioni e dei giochi psicologici che quest’ultimo esprime con

gli altri membri del gruppo, portando a quella che Berne chiama la analisi della group

imago (1966).

Il copione psicologico è visto da Berne come un equivalente della nevrosi di transfert,

quindi come il realizzarsi nel qui-e-ora delle esperienze infantili non risolte.

In un setting individuale dovremo ricercare le condizioni adatte a facilitare l’emergere e

il riconoscimento di tali esperienze infantili, ossia del tranfert.

Allora il setting, così come nella psicoanalisi e nella psicoterapia a orientamento

psicoanalitico, assume un valore essenziale per permettere l’esplicitazione dei fenomeni

transferali e la loro analisi. Ponendo un esempio classico, il modo con cui il paziente

partecipa emotivamente alla frequenza degli appuntamenti è rivelatore.

Ad esempio un paziente di tipo borderline esprimerà la sua rabbia verso il terapeuta

mancando alle sedute, oppure pretendendo di recuperare il tempo dei suoi ritardi.

Un paziente fobico chiederà spesso di rendere meno frequenti gli incontri nelle fasi

critiche del rapporto.

Possiamo affermare che in un contesto analitico-transazionale individuale, il setting

costituisce il parametro primario per un’analisi del copione, in quanto permette

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l’individuazione delle manovre attraverso le quali il paziente tenta, inconsciamente, di

ricreare con il terapeuta le condizioni che lo avevano portato alle proprie impasse e alle

conseguenti decisioni di copione.

Allo stesso modo, il controtransfert del terapeuta diventa uno strumento ineliminabile

per seguire le vicissitudini emotive del paziente

(Novellino, 1984 ).

I fenomeni dell’identificazione concordante e complementare aiutano il terapeuta a

intuire quanto accade nell’inconscio del paziente.

Transfert e controtransfert non sono solamente concetti interessanti, ma colonne

portanti del lavoro analitico transazionale.

Attraverso l’analisi dei fenomeni transferali e controtransferali, l’analista transazionale

potrà cogliere l’esternarsi del copione come nevrosi di transfert nella relazione

terapeutica.

Le contaminazioni del paziente vengono proiettate sul terapeuta, che dovrà

riconoscerle, aiutando l’Adulto del paziente a diventarne consapevole

(decontaminazione), e il Bambino a ridecidere nuove opzioni (deconfusione).

L’insieme della metodologia così descritta prende il nome di analisi ridecisionale del

transfert (Novellino, 1985, 1987).

Tutto questo significa approfondire il livello inconscio della relazione terapeutica, con

una particolare attenzione ai sogni e alla comunicazione inconscia.

L'analista transazionale utilizzerà come operazione terapeutica centrale

l’interpretazione, come del resto descritto da Berne (1966).

Interpretare, nel senso psicoanalitico corretto, non significa beninteso sostituirsi

all’Adulto del paziente, quanto guidare quest’ultimo verso l’insight su come ripete nel

presente le proprie decisioni di copione.

Vediamo come questi concetti hanno favorito la psicoterapia con P.

La psico-analisi transazionale di P.

Mi limiterò a descrivere quanto emerso nella terapia di P., che possa aiutare a collocare

concretamente i principi di metodologia che ho esposto in precedenza.

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L’analisi della comunicazione inconscia ha portato, prima di tutto, a esplicitare il bisogno

sottostante di P. di essere trattata con attenzione al di là delle sue manovre

perfezioniste e “beccatorie”.

Il controtransfert è stato essenziale. La consapevolezza dell’irritazione che provocava il

perfezionismo della paziente, discusso ed elaborato insieme a quest’ultima, ha portato a

ricostruire la rabbia con la quale la madre rispondeva alle sue richieste di ascolto.

In particolare la madre la “gelava” allorché lei esprimeva, anche larvatamente,

sentimenti positivi verso il padre. Lei aveva allora imparato a fare come la madre, ossia

a tenere lontani gli uomini, e i suoi sentimenti positivi verso di essi, cogliendone i difetti.

Nessuno di loro era mai all’altezza, per cui faceva in modo di esasperarli e rimanere sola

(come la madre).

Una volta stabilita un’alleanza, abbiamo per stadi potuto ricostruire i diversi tipi di

impasse più profondi, ossia di secondo e terzo tipo.

P. era terrorizzata all’idea di stabilire un legame profondo: sarebbe stata tradita e

abbandonata, ma, soprattutto, avrebbe tradito le aspettative della madre di rimanere

sola come lei.

La relazione con me ha costituito una sorta di setting psicodrammatico, entro il quale P.

ha rivissuto sia la rabbia verso il padre che l’aveva abbandonata “nelle grinfie” della

madre, che il bisogno disperato di fidarsi di qualcuno che non fosse la madre.

Abbiamo interpretato i giochi psicologici atti a tenere lontani gli uomini e a confermarsi

nel suo copione di insoddisfazione e solitudine.

Dopo diversi lavori anche di tipo emotivo, P. è arrivata a maturare la ridecisione più

importante:

io non sono mia madre!

Quindi ella ha potuto distaccarsi dalle ingiunzioni che l’avevano condotta a respingere

gli uomini e il loro affetto.

P. si è sposata con grande gioia, e ha sviluppato una rete di amicizie fortemente

alternative alla famiglia di origine, alla quale era sempre stata legata simbioticamente.

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