Annuario 2011 IpsaLegit

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16 gennaio 2011

Il giro di vite

“Il racconto ci aveva tenuti col fiato sospeso attorno al focolare...”.

Inauguro questo blog con Henry James, il narratore perfetto. Il fil rouge di queste conversazioni intorno al nostro focolare virtuale saranno i libri, i

romanzi, i racconti, le parole. Tutti i libri, i romanzi, i racconti, le parole che tengono con il fiato sospeso – per qualsiasi ragione.

Benvenuti.

17 gennaio 2011

Il giro di vite (2)

Il fascino del Giro di vite, uno dei più alti risultati della narrativa dei fantasmi, sta nella

capacità di rappresentare il vuoto di colore. Come in Moby Dick, il terrore è bianco – e

bianchi sono gli spettri dell’immaginario collettivo. Nel racconto di James la paura è il sentimento dominante, ed è così forte da annullare ogni altra espressione e percezione umana; essa sospende i sensi, insieme al giudizio, e impregna l’atmosfera del racconto di

una fitta nebbia in cui si perdono le definizioni della vista, degli odori, dei rumori, delle parole, dei tratti dei volti dei bambini.

E in questa nebbia (rievocata nel film The Others, che per tanti aspetti mi ha ricordato questa

opera) si smarrisce anche la verità. Alla fine della storia, solo alla nostra interpretazione è

lasciata la scoperta dell’identità dei fantasmi che hanno popolato quella casa nell’Essex. Tale indefinitezza ci sconcerta; e il passo tremante degli spettri che non conosciamo ci

perseguita anche dopo che abbiamo voltato l’ultima pagina.

18 gennaio 2011

Moby Dick

“Ma non abbiamo ancora risolto l’incantesimo di questa bianchezza, né trovato perché abbia un così potente influsso sull’anima. [...] È forse ch’essa adombra con la sua

indefinitezza i vuoti e le immensità spietate dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero del nulla [...]? Oppure avviene che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un

colore quanto l’assenza visibile di colore e nello stesso tempo la fusione di tutti i colori: avviene per questo che c’è una tale vacuità muta e piena di significato in un paesaggio vasto di nevi, un incolore ateismo di tutti i colori, che ci fa rabbrividire?”

Herman Melville (Moby Dick, Adelphi 2008)

19 gennaio 2011

La montagna incantata

A proposito di perturbante bianchezza, ovvero di quell’assenza di colore la cui magnificenza si avvicina alla nozione del sublime di Edmund Burke (“l’orrendo che

affascina”), ricordo la passeggiata nella neve di Hans Castorp nella Montagna incantata

(solo di recente, nell’ultima traduzione italiana – dei Meridiani – pubblicata lo scorso

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novembre, l’aggettivo originale “Zauber” è stato trasformato dal tradizionale “Incantata” a “Magica”, in riferimento ad una citazione da Nietzsche).

In questo lungo brano, la montagna ingombra di neve è descritta come immersa in un “silenzio di morte”, un “silenzio [...] assoluto e perfetto, una quiete ovattata, ignota, mai avvertita, senza riscontri possibili.” Il mondo tutto bianco, privo di riferimenti alla

percezione, emana “sensazioni di una quieta elementarità minacciosa, [...] di una indifferenza mortale.”

E così dai fantasmi di James, passando per la balena di Melville, siamo approdati alla montagna di Mann.

Ma quali altri colori si sono fatti protagonisti della storia della letteratura? E quali sensazioni hanno suscitato nei loro autori-pittori... e soprattutto nei loro lettori?

21 gennaio 2011

Jane

Qualche giorno fa ho visto il film Il club di Jane Austen, tratto dall’omonimo libro, che non

ho mai letto. La storia non è niente di particolare, anzi, si fa un po’ fastidiosa quando gli irritanti personaggi femminili del gruppo di lettura si prendono gioco di una di loro per il fatto di riferirsi alla loro autrice preferita solo con il nome di battesimo: Jane. È

un’abitudine che ho preso anch’io, e non vedo cosa ci sia di strano. Per dirla tutta, Amanda Cross, nel suo Un delitto per James Joyce (a proposito, da non perdere per chi ama come me

i literary misteries...), fa dire alla sua protagonista che quanto di meglio possa essere trovato

per svolgere una buona ricerca letteraria è qualcuno talmente legato ai propri autori da

chiamarli per nome – “qualcuno,” dice pressappoco, “che si riferisca ad Austen solo con ‘Jane’”. Ma non è di questo che intendevo parlare. Nell’ultimo post si parlava del colore, e di

quanto esso possa essere pregnante nello sviluppo di una storia. I sei più famosi romanzi di Jane sono pieni di colore.

Emma è giallo: luminoso, appariscente, dominante, eppure talvolta inquietante nella sua

presunzione prossima all’arroganza.

Northanger Abbey è rosa, ingenuo, furbetto, un po’ noioso.

Azzurro è Orgoglio e pregiudizio. La perfezione, la vastità d’intenti, il respiro ampio,

l’ariosità consolante, la luce immensa e tuttavia le ombre... insomma tutte le sfumature della poesia.

Ragione e sentimento è verde. Il verde del Devonshire e del Sussex, quel verde solo inglese,

morbido, fragrante, fresco, a volte cupo, ma sempre intriso di vita. Un tenue grigio perlato è il colore di Persuasione, del mare di Lyme Regis, della stringente

malinconia che non ti abbandona neanche dopo il lieto fine. Mansfield Park mi fa pensare al rosso intenso, per la sua solennità e la forza delle sue

passioni, e per la totalità delle emozioni umane che è in grado di rappresentare.

Penso non sarà l’ultima volta che qui parleremo di Jane.

22 gennaio 2011

Jane (2)

E in effetti, cosa c’è di meglio di un bel libro di Jane con cui trascorrere, una volta o due

all’anno, qualche ora sperduta in un mondo passato, sereno, dolce, dall’aria gentile e

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quieta? Non saprei dire quante volte ho letto e riletto i suoi romanzi, che ogni volta sembrano nuovi e ricchi di significati che la lettura precedente non aveva svelato. E ogni

volta che chiudi l’ultima pagina, ti senti di riaprire la prima. Così mi succede sempre con Orgoglio e pregiudizio, Persuasione e Mansfield Park, che è forse

la più profonda fra tutte le opere di Jane. Ma poi si pensa a quante altre migliaia – milioni – di splendidi libri ci sono ancora da leggere e ci si risolve finalmente ad entrare nelle loro storie e nei loro misteri, pronti a

conoscere personaggi nuovi e a immaginare altri mondi. È questa infinità a rendere ancora più prezioso l’esercizio della lettura.

24 gennaio 2011

Il tempo del racconto

Ci sono epoche più adatte di altre a fare da scenario ad una storia.

Il delicatissimo passaggio dal Sette all’Ottocento, specialmente nella letteratura inglese, è uno di quei periodi. E lo stesso vale per la Belle Epoque di contesto mitteleuropeo

(Schnitzler) o il secondo Ottocento/primo Novecento angloamericano (Melville, James, Wharton, Ford, Conrad, Woolf). Intensissima, e straordinariamente ricca di spunti narrativi e di passionalità è la temperie

che corrisponde alla Seconda guerra mondiale: un recente capolavoro come Espiazione di

Ian McEwan trae la maggior parte della sua forza dallo scenario storico che la racchiude.

Anche il romanzo che sto leggendo in questi giorni, il bellissimo The Distant Hours di Kate

Morton, si svolge sulla strada di continui richiami agli anni 1939-1941; e il senso della

tragedia incombente, che sfiora i personaggi rivoluzionando le loro vite, conferisce a questo libro una tale bellezza che con ogni probabilità un altro contesto non avrebbe potuto dare.

1 febbraio 2011

Kate Morton

Ho appena finito di leggere il romanzo di Kate Morton The Distant Hours, la terza opera

dopo The House at Riverton e The Forgotten Garden. Sono libri meravigliosi, la cui

particolarità sta nello stimolare tutti i sensi della percezione umana. In questo ultimo

volume, il contesto della tempesta che si sta scatenando sul Kent sembra quasi farti sentire la sua umidità, la sua sospesa paura degli elementi.... È una scrittura accurata e limpida,

sviscerata molto sapientemente tra un’epoca storica e l’altra. Lo sfasamento cronologico, del resto, è la cifra della narrativa di Kate Morton. Un inglese semplice, ma bellissimo, e

sempre pieno di vita. Da consigliare.

2 febbraio 2011

My Kindle

Ebbene sì. Finalmente su questo blog dedicato alla lettura compare il vero simbolo della rivoluzione. Eccolo, il Kindle.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 6

Il lettore elettronico di libri elettronici (ebooks) che cambia il modo di leggere e di procurarsi

da leggere. In pochissimo peso puoi portare con te la tua intera biblioteca (ci stanno 3500

libri...)! Puoi prendere appunti, sottolineare, infilare segnalibri virtuali, mentre l’inchiostro elettronico si staglia con perfetta nitidezza su una pagina priva di retroilluminazione.

Questo post sembra una pubblicità tratta da Amazon.com: ma in realtà è solo la descrizione di un’esperienza! Per farsi un’idea obiettiva di come sta cambiando la percezione della lettura per gli italiani (quei pochi che leggono):

http://ehibook.corriere.it/ Kindle è un piccolissimo mondo che ne contiene uno senza confini….

4 febbraio 2011

Altre piacevoli letture

Una delle cartelle del mio Kindle si chiama proprio così, Altre piacevoli letture. “Altre”

semplicemente perché non rientrano nei gruppi dedicati alla grande, magnifica letteratura: non sono quindi opere di Jane Austen, o di Gaskell, o di Conrad, o di Henry James, o di

Melville, o di Tolstoj, o di Dostoevskij, etc., ma sono comunque “piacevoli”. Forse il termine tecnico corretto è Trivialliteratur, ma questi libri che definirei quotidiani,

amichevoli e confortanti mi piacciono così tanto che non mi sento di definirli “triviali”. In

questa cartella trovano spazio i romanzi di Kate Morton, i saggi di Corrado Augias, qualcosa di Joanne Harris, i gialli di P.D. James, le operine di Margaret Doody, le

meraviglie di Tracy Chevalier e tanti altri. Questa settimana, terminata la storia di un crudele omicidio (Scuola omicidi di Elizabeth George) sono entrata in un mondo così frivolo

che più frivolo non si può, quello di The Devil Wears Prada di Lauren Weisberger. Questo

libricino, oltre ad essere davvero divertente – e abbastanza diverso dal film – mi sta

insegnando tantissime espressioni inglesi che non conoscevo! E poi ci sono rievocazioni divertenti, come quando Andy, in cerca di un appartamento a New York, afferma di avere trovato una stanza “in the middle of Hell’s Kitchen”. Nessun’altra indicazione sarebbe

stata più rappresentativa di questa!

5 febbraio 2011

Il luogo del racconto: New York

Naturalmente Hell’s Kitchen è un quartiere di New York (niente a che vedere con un

irascibile cuoco scozzese...). The Devil Wears Prada descrive l’aspetto più colorato e

frenetico della città, i suoi palazzi eleganti, i taxi, i locali alla moda, i ristoranti di lusso.

Ma New York ha fatto da setting per decine e decine di altri libri, che ne hanno esplorato tutte le sfaccettature: pensandoci, mi sono venuti in mente Il giovane Holden di Salinger,

Washington Square di James, L’età dell’innocenza di Wharton, Colazione da Tiffany di Capote,

Il grande Gatsby di Fitzgerald, Le correzioni di Franzen, Underworld di De Lillo... Un elenco

davvero ben fatto, per chi fosse sul punto di partire e volesse avere un ritratto della grande

mela, prima letterario che visivo, si trova in: http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_books_set_in_New_York_City

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 7

6 febbraio 2011

Il luogo del racconto: Venezia

Oggi ho visitato la Collezione Peggy Guggenheim (con mostra temporanea dedicata al

Vorticismo che mi ha tanto ricordato The Good Soldier di Ford Madox Ford), e la luminosa

passeggiata in Piazza, la traversata del Canal Grande sul “gondolino”, la quiete dei

dintorni della Salute hanno rievocato tutte le mie letture – passate e future – ambientate a Venezia. Ho pensato a Henry James – Le ali della colomba, Il carteggio Aspern e The Italian

Hours, alla Morte a Venezia, a Shakespeare per Il Mercante di Venezia e Otello, a Fondamenta

degli incurabili di Brodskij, a Cortesie per gli ospiti di McEwan, ai gialli di Donna Leon, a

L’amante senza fissa dimora di Fruttero&Lucentini. Venezia, del resto, è un libro da leggere

già di per sé....

7 febbraio 2011

Il carteggio Aspern

“Le ore della sera le passavo o sull’acqua (il chiaro di luna di Venezia è famoso), o nella

splendida piazza che serve da corte esterna alla vecchia basilica di San Marco. [...] La meravigliosa chiesa, con le sue basse cupole e i suoi irti ricami, col mistero dei suoi mosaici e delle sue sculture, appariva spettrale nella semioscurità, e la brezza marina passava tra la

coppia di colonne della Piazzetta, stipiti di una porta non più custodita, con tanta dolcezza che sembrava vi si agitasse una sontuosa tenda.”

Henry James (Il carteggio Aspern, Marsilio 1991)

9 febbraio 2011

Il luogo del racconto: Londra

Ma nessuna città più di Londra popola la mia immaginazione letteraria. Non saprei da che parte incominciare a citare le meravigliose storie che in questo luogo fortemente evocativo

hanno conosciuto il loro svolgimento, il loro inizio o la loro fine. Inizierei con Charles Dickens: David Copperfield, Oliver Twist, La bottega dell’antiquario, Le due città, il capolavoro

Il nostro comune amico. Lo splendido Principessa Casamassima di Henry James vive Londra

con una intensità e una forza narrativa poco comuni (com’è tipico del rapporto di questo mio amatissimo autore con la geografia del setting). Quello spettacolo che è La fiera delle

vanità di Thackeray mostra la funambolicità della città. Jane Austen la tratta con intenzioni

marginali, poiché essa è solo una tappa di passaggio nella vita delle sue protagoniste: Elinor

e Marianne Dashwood (Sense and Sensibility) la sperimentano come un universo ambito e

aborrito, un luogo di esaltazione e poi di profondo dolore. Daniel Defoe racconta la grande

Londra della malavita in Moll Flanders, e anche Humphrey Clinker di Smollett, nella sua

natura picaresca, passa per la capitale. I gialli di Agatha Christie e di Conan Doyle partono

da Londra, dove i due eroi-detective hanno il loro quartier generale; e lì ha luogo la storia del Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. E che dire di Mrs Dalloway di Virginia Woolf,

che della città fa il necessario scenario? Sto ripescando dalla memoria i grandi capolavori della letteratura, ma ci sono altre decine e decine di libri ambientati nella città della Regina. Farò una ricerca più sistematica per il prossimo post.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 8

11 febbraio 2011

Il luogo del racconto: Londra (2) Per dire la verità non è facile svolgere una ricerca sistematica su un argomento così vario.

Il problema è, che per quanto Internet sia sempre una valida fonte di informazioni, e per quanto leggere sia fra le cose che amo di più, troppi libri che la Rete mi assicura essere

ambientati a Londra non sono mai finiti nella mia biblioteca (o nel mio Kindle), e mi è difficile sceglierne alcuni da citare qui. I vari cataloghi librari però mi hanno restituito, oltre ai titoli che ho nominato nel post precedente, e ad altri libri che ho letto ma che non mi

hanno particolarmente entusiasmata (talvolta sono dei capolavori – vedi Saturday di

McEwan, ma della sua penna ho senz’altro preferito Espiazione), altri romanzi che

potrebbero meritare di essere acquistati. Tra questi 84 Charing Cross Road di Helene Hanff,

storia di una corrispondenza epistolare tra due amanti della letteratura. Devo

procurarmelo per forza, così come sto cercando l’occasione giusta per la spesa folle di La

grande storia del Tamigi di Peter Ackroyd, e vorrei anche immergermi nella grande storia

della città di Edward Rutherford, London, The Novel, appunto.

13 febbraio 2011

Londra luogo della poesia

Composed upon Westminster Bridge, September 3, 1802

Earth hath not anything to show more fair:

Claude Monet, The Thames at Westminster, 1871 Oil on canvas. National Gallery, London, UK.

Dull would he be of soul who could pass by A sight so touching in its majesty: This City now doth, like a garment, wear

The beauty of the morning; silent, bare, Ships, towers, domes, theatres and temples lie

Open unto the fields, and to the sky; All bright and glittering in the smokeless air.

Never did sun more beautifully steep In his first splendor, valley, rock, or hill;

Ne’er saw I, never felt, a calm so deep! The river glideth at his own sweet will:

Dear God! The very houses seem asleep; And all that mighty heart is lying still!

William Wordsworth

14 febbraio 2011

Libri da mangiare

Oggi voglio deviare il mio percorso dai luoghi della lettura ai suoi sapori. Mangiando un

piccolo ma intenso tartufo al cioccolato e nocciole (regalo di San Valentino) mi sono venuti in mente quei libri che si dedicano all’esplorazione del gusto e che fanno delle loro storie

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 9

il naturale contorno alla rappresentazione delle delizie del palato. Uno di questi, breve, talvolta ridondante, ma infine molto goloso, è Estasi culinarie di Muriel Barbery. Cito un

passo che ho letto proprio stamattina, una specie di apologia del pomodoro: “Il pomodoro crudo, divorato appena colto in giardino, è la cornucopia delle sensazioni semplici, una

cascata che sciama in bocca riunendo ogni piacere.” Barbery è naturalmente l’autrice di L’eleganza del riccio, nel quale compare invece un elegantissimo encomio del tè: “Scende il

silenzio, fuori si ode il vento che soffia, le foglie autunnali stormiscono e volano via, il

gatto dorme in una calda luce. E, ad ogni sorso, il tempo si sublima.” Ritornando al cioccolato, la prima lettura a cui penso è Chocolat di Joanne Harris, ma è giusto citare anche

La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl. La pregnante armonia del vino e il suo ancestrale

rituale di produzione sono il soggetto di Blackberry Vine (Vino, patate e mele rosse) di Joanne

Harris, Un’ottima annata di Peter Mayle, e L’irresistibile eredità di Wilberforce di Paul Torday.

Di altre varietà di cibo raccontano La scuola degli ingredienti segreti di Erica Bauermeister, Il

gusto proibito dello zenzero di Jamie Ford, Julie & Julia di Julie Powell, Afrodita di Isabel

Allende, Cinque quarti d’arancia, ancora di Joanne Harris. Da non dimenticare, anche se

non è un romanzo, le Misticanze del professor Beccaria, e da non trascurare anche quei

passi veloci, ma ricchissimi di sapore, che condiscono i grandi romanzi della letteratura.

Penso ad Anna Karenina di Tolstoj, o, con ancora maggiore e dolce nostalgia, alla magnifica

colazione di Natale all’apertura di Piccole donne di Louisa May Alcott.

15 febbraio 2011

Ci vuole solo un istante

Il fumo, a volute sottili, s’inerpica lungo la carta da parati, che è qui e là intatta, qui e là

tormentata da troppi anni di riscaldamento artificiale. L’inverno quest’anno è arrivato presto, e anche se è solo la fine d’ottobre il termosifone è già rovente, e appanna i vetri carichi di gocce di pioggia. La casa è vuota, nella penombra della sera che avanza da

lontano: dalla porta del bagno, che hanno lasciata aperta, si espande il suono bolso di una lavatrice. Ovunque è quiete e grigiore.

E poi, d’un tratto, si spalanca nell’ingresso un fascio di vita, e due gambe ben tornite, calzate di azzurro cielo, entrano in scena: incespicano sull’orlo del tappeto, recuperano

con un saltello, si incrociano, resistono, frenano a piedi uniti. Frana sul pavimento una cascata di buste giallognole, che ridanciane sparpagliano per ogni dove i loro tesori: le gambe del sedano altero, le frivole carote, il radicchio dal cipiglio arcigno, le cipolle allegre,

due fiacche melanzane, e il capocomico: il peperone giallo. Le gambe azzurre sono impazienti: si piegano sulle ginocchia e lasciano il primo piano a due mani grandi, bianche,

incise da ramoscelli di vene di lillà. Ci vuole solo un istante perché tutto sia raccattato e traslocato sopra il tavolo. Parte una canzone: la radio si schiarisce la voce e un fluido di

note libere riempie lo spazio della casa, che ora è fulgida di colori, densa di vapore umano, distratta dalle sue inquietudini e dal tossire asmatico della vecchia lavatrice.

La cucina è l’incanto di una strega: troneggia la pentola panciuta sopra il timido fuoco, e

borbottano le sue acque perigliose: una padella scarlatta sfrigola pettegola, ammiccando al pesciolino d’argento che con l’occhio sbarrato dal terrore aspetta nel lavandino l’ora della

sua terribile fine. Si destano le verdure dalla loro quiete apparente, si guardano intorno, trasecolano alla vista del coltellaccio, e tutto darebbero per sfuggire al bagliore della sua

lama; ma Gambe Azzurre non dà tregua: ci vuole solo un istante, e le protagoniste sono già scomparse, trafitte, sfumate in un fiume di colori a pezzettini, come un arlecchino stracco, rassegnato a sfociare nel gran mare salato della pentola bollente.

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Ci vuole solo un istante: e la cena è servita.

18 febbraio 2011

E a proposito di caffè…

Sto leggendo Il cimitero di Praga di Umberto Eco. Molto raffinato, molto intenso nella sua

manifestazione dell’odio (tanto che a volte diventa davvero inquietante), il romanzo si

sofferma spesso a raccontare, ad evocare, cibi e bevande che rappresentano di volta in volta i vizi e le virtù del popolo italiano di fine Ottocento. Il narratore abita a Torino, e così

descrive uno dei suoi appuntamenti preferiti: “[...] mi recavo al Caffè al Bicerin, vicino alla

Consolata, a prendere quel bicchiere con protezione e manico di metallo, odoroso di latte, cacao, caffè e altri aromi. Non sapevo ancora che del bicerin avrebbe scritto persino

Alexandre Dumas, uno dei miei eroi [...], ma nel corso di non più di due o tre scorribande in quel luogo magico avevo appreso tutto su quel nettare, che derivava dalla bavareisa anche

se, mentre nella bavareisa latte caffè e cioccolata sono mescolati, nel bicerin restano separati

in tre strati (tenuti caldi) [...]”.

19 febbraio 2011

Storie di rivolte e di insurrezioni

Il romanzo di Eco si sta facendo più interessante. Sono nel bel mezzo del capitolo dedicato

alla spedizione dei Mille in Sicilia, e l’atmosfera della lettura si fa esaltante, specie dopo l’intervento di Roberto Benigni sull’inno di Mameli (giovedì 17). L’Unità d’Italia, di cui

tornerò a parlare appena scatterà il mese di marzo – mese dei festeggiamenti – è stata un movimento di insurrezione nei confronti degli invasori che dovrebbe dare orgoglio alla

nazione. Il Risorgimento ha avuto espressioni di trionfalismo, di sacrificio, di alta strategia politica, di compromessi, di complotti, di accordi e di interessi poco chiari... ma è stato soprattutto la manifestazione della forza della rivalsa, dell’indipendenza, dell’intelligenza

di tante migliaia di giovani disposti a tutto (“siam pronti alla morte”) pur di lasciare ai loro figli una patria pienamente libera.

Vorrei preparare il percorso verso dei post dedicati solo all’Italia scrivendo in generale di libri dedicati alle rivolte e alle insurrezioni, pianificate, realizzate o solo immaginate. Il

primo che mi viene in mente è Principessa Casamassima di Henry James, che ho già citato

nel post su Londra.

21 febbraio 2011

Principessa Casamassima

Questo romanzo di James, pubblicato nel 1886, ha per protagonista Hyacinth Robinson, un giovane e povero rilegatore londinese che per la prima parte della storia vediamo

gradatamente infervorarsi per il progetto di una insurrezione anti-borghese. Estremamente fervida è la narrazione dei suoi crescenti sentimenti di rivalsa sociale; nei suoi incontri con

il rivoluzionario Paul Muniment, e durante la fatidica riunione nella quale promette la vita per la causa, Hyacinth appare come un eroe della democrazia, una guida per gli oppressi,

l’incarnazione di un ideale di fratellanza e di equità. È l’incontro con la Principessa Casamassima, altolocata partecipe del complotto, a sconvolgere i principi del giovane e a

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cambiare le sorti della storia. Conoscendo la nobildonna, ma soprattutto intraprendendo un viaggio sul Continente che lo porta a Parigi e a Venezia, Hyacinth scopre l’altra parte

della propria identità, ossia quella nobile e innamorata dell’arte, che gli impedisce di proseguire il cammino verso la distruzione della grandeur della civiltà (borghese) in cui si è

trovato a vivere. Tornato in Inghilterra, egli vive la perdita dell’innocenza scoprendo che la Principessa, suo proprio ideale di purezza e di giustizia, è una persona più fredda, più interessata, meno spirituale di quanto l’avesse creduta; e conclude la storia con l’unico

gesto possibile per uscire invitto dalla dolorosa guerra in corso fra le due contrastanti parti di sé.

24 febbraio 2011

Under Western Eyes

Ho trovato molte somiglianze tra Principessa Casamassima e uno dei romanzi più forti e

commoventi che abbia letto, Con gli occhi dell’Occidente di Joseph Conrad. Anche questa è

la storia di un giovane condannato alla povertà per la sua condizione di figlio illegittimo:

un giovane costretto, suo malgrado, ad entrare nel vortice della Storia e ad intraprendere un doloroso percorso di autocoscienza destinato alla disillusione e all’oscurità. Razumov è “uno di quegli uomini che, pur vivendo in un periodo di instabilità [...] politica,

mantengono una salda presa sulla vita quotidiana, normale, pratica.” Ma la rivoluzione in corso nella sua Pietroburgo non lo risparmia: la politica e i suoi drammatici aut-aut

piombano nella silenziosa stanza di Razumov strappandolo ai suoi studi e avviandolo sulla strada dell’inganno e della scissione emotiva. Il giovane è costretto all’esilio, si unisce ad

un gruppo di fuoriusciti russi a Ginevra con i quali – e nonostante i quali – continua la sua storia di allucinante solitudine. Il distacco geografico, l’allontanamento dalla patria, non ha nulla di quei piaceri che il viaggio sul continente ha dato ad Hyacinth Robinson; per

Razumov la Russia è la sola radice, la sola madre, la sola fonte di consolazione. La sua passeggiata nella Pietroburgo avvolta dalla neve racconta l’immensità del suo isolamento:

“Razumov posò il piede – e sotto il soffice tappeto di neve sentì la dura terra della Russia, inanimata, fredda, inerte, come una tetra e tragica madre che cela il suo volto dietro un

sudario – la sua terra natia! – la sua – senza un focolare, senza un cuore! Egli gettò gli occhi al cielo e ne fu sgomento. La neve aveva cessato di cadere, ed ora, come per miracolo, egli

vide sopra la propria testa il nero firmamento limpido dell’inverno del nord, decorato dei solenni fuochi celesti.” Una lettura densa di puro sentimento poetico e politico, senza eguali. Il racconto perfetto della tragedia di un individuo annientato dalla Storia.

26 febbraio 2011

Sylvia’s Lovers: la Storia

Nel post precedente ho avuto l’occasione di fare riferimento al complesso, talvolta

drammatico rapporto tra l’individuo e il contesto sociale in cui si trova a vivere, ovvero tra la dimensione privata, che si vorrebbe sempre custodire gelosamente e proteggere, e la sfera

pubblica, che anche nostro malgrado si frappone sul nostro cammino costringendoci a prenderne atto e a fare i conti con le sue manifestazioni. È questo un argomento del quale

tornerò a parlare, poiché mi sono accorta di amare moltissimo gli autori che ne trattano; ed è stato un tema centrale ai tempi della stesura della mia tesi di laurea, dedicata al romanzo storico di Elizabeth Gaskell, Sylvia’s Lovers. Questo magnifico libro del 1863, che

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a quanto mi risulta purtroppo non è ancora stato tradotto in italiano, si colloca cronologicamente nel pieno delle guerre napoleoniche, quando l’Inghilterra e la Francia si

contendevano il dominio dei mari sfidandosi in epiche e sanguinose battaglie navali. I personaggi principali della storia, tuttavia, appartengono agli strati più semplici della popolazione di una cittadina semplice (Monkshaven, equivalente letterario della città di

Whitby, nello Yorkshire); sono contadini, pastori, commercianti al dettaglio, e poveri balenieri costretti a trascorrere mesi e mesi lontani da casa, nelle fredde e infide acque della

Groenlandia. L’esistenza di questi personaggi – Sylvia, suo padre, Philip, Charley – è rivoluzionata dalle

vicissitudini della guerra non tanto perché essi vengano coinvolti nei combattimenti (a parte Charley, che a un certo punto vediamo fronteggiare Napoleone stesso sul cocente campo di battaglia di Acre), ma perché su di loro si abbatte il decreto governativo della

coscrizione obbligatoria. È un fatto storico che alla fine del diciottesimo secolo la scarsità di uomini disponibili ai combattimenti portò il governo britannico all’arruolamento coatto

di migliaia e migliaia di marinai, che venivano letteralmente rapiti dalle loro città o dalle loro navi e costretti a guerreggiare senza poter far sapere alle loro famiglie che cosa ne fosse

stato di loro. A Charley Kinraid tocca questo destino; catturato dalle bande di coscrizione (le famigerate press gangs) deve intraprendere un’avventura bellica temuta ed esecrata, che

lo allontana impietosamente dalla sua vita, dalla sua città, dalla sua Sylvia. La popolazione reagisce con furore al reclutamento forzato dei suoi giovani migliori; la ribellione s’innesca animale, e un rovinoso incendio illumina la notte di dolore di

Monkshaven. Il padre di Sylvia è ritenuto leader dell’insurrezione: il lasciarsi trascinare nelle spirali della Storia sarà pagato con il prezzo più alto e più tragico.

27 febbraio 2011

Sylvia’s Lovers: le passioni

È così che Sylvia rimane sola. Suo padre e il suo innamorato non sono più accanto a lei,

sua madre regredisce ad uno stato infantile, e lei, stravolta dalla tragedia personale e politica, accetta il solo aiuto che ancora le venga offerto. Il matrimonio con Philip le appare

una baia tranquilla dove trovare ristoro – un haven, appunto – che la consoli per i suoi lutti,

che domini le sue tempestose passioni. Ma la serenità, come la calma solatia dell’estate dello Yorkshire, non può durare a lungo. Dopo anni di silenzio, ma mai di oblio, Charley

ritorna da lei, da lei che è moglie e madre devota, e rivendica i suoi diritti di cittadino e di uomo cui la crudeltà della Storia ha negato la realizzazione dei desideri. L’episodio

dell’incontro e dell’agnizione, avvenuti dopo i lunghi anni che Sylvia ha trascorso a camminare lungo il mare affannoso, selvaggiamente rimpiangendo il suo amore perduto,

è un altissimo momento di commozione e di dramma (la traduzione che segue è mia): «Sylvia s’incamminò in fretta verso casa, pensando e ricordando. [...] Una figura stava sulla via, [...] la schiena rivolta verso il sole del mattino; tutto ciò che ella vide [...] fu

l’uniforme di un ufficiale di marina [...]. Sylvia affrettò il passo, senza tornare a guardarlo, sebbene i suoi abiti quasi sfiorassero quelli di lui, poiché egli non si era mosso. Non aveva

percorso un centinaio di metri – no, neanche cinquanta metri! – quando il suo cuore sobbalzò, per morirle di nuovo dentro il petto, come se fosse stata colpita da un proiettile.

“Sylvia!” egli disse, con la voce che tremava per la gioia e la passione. “Sylvia!” Ella si voltò; [...] la luce cadeva dritta sul viso di lui. Era abbronzato, e aveva i lineamenti tirati; ma era lo stesso volto che ella aveva visto sul molo di Haytersbank tre anni prima, e

che aveva creduto di non rivedere mai più in questa vita. Egli le era vicino, e tese le braccia

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 13

verso di lei; [...] ma quando Sylvia le sentì strette intorno a sé, si ritrasse di colpo, gridò forte e pietosamente, e si portò le mani alla fronte come se cercasse di dissipare una

misteriosa nebbia. [...] Sylvia allontanò infine le mani dal viso; era grigio come il volto della morte; la disperazione aveva spogliato i suoi occhi tremendi da ogni passione.

“Dove sei stato?” gli chiese, con voce lenta e fioca, come se le si fosse strozzata nella gola.» Sylvia’s Lovers è un romanzo disperante e struggente, violento nella sua rappresentazione

della solitudine e del rimpianto; e la presenza costante del mare ne fa un racconto quasi sublime.

Una storia indimenticabile.

1 marzo 2011

Il mare fra le pagine

Sylvia’s Lovers è un libro che ti fa sentire il frastuono del mare. Lo senti ringhiare mentre

inghiotte la prua delle baleniere, lo ascolti raccontare le storie di marinai perduti, ne intuisci

il mugghiare lontano anche quando passeggi sulle ventose colline. Il mare è per Sylvia il luogo della nostalgia, è l’elemento di Charley, dell’amore che il destino le ha sottratto. Nelle onde che si rincorrono e si divorano l’un l’altra ella vede il volto dell’uomo che

avrebbe voluto sposare; seduta sulle scogliere, con i capelli sciolti che significano la libertà perduta della giovinezza, Sylvia si lascia amare dal mare e si permette di risentire, anche

se solo per poche ore, la wilderness delle proprie passioni. Le donne e il mare sono un

motivo ricorrente nella letteratura; e le immagini di una donna, sola, di fronte alla

sterminata distesa dell’acqua portano spesso con sé emozioni di struggimento e di aspettativa, a volte disperata. Penelope ne è l’archetipo; ma come la Sylvia di Elizabeth Gaskell, è la Sarah di La donna del tenente francese (John Fowles, 1969) a dettarci il senso

dell’attesa, del rimpianto, del dolore che rasenta la selvatichezza e quasi la follia. Il mare di Sarah è quello che ingoia il Cobb di Lyme Regis; la stessa distesa grigia, tempestosa e

straziante che Jane Austen racconta in Persuasione; la stessa marea che, complice la

volubilità della luna, il vigore del vento e la fragilità delle rocce, scopre alla vista di Mary

Anning le meraviglie fossili del bellissimo Strane creature di Tracy Chevalier.

4 marzo 2011

Il mare fra le pagine (2)

Nel post precedente ho parlato dei romanzi in cui l’immagine della donna è legata al sentimento dell’attesa, e dunque a quella particolare dimensione del mare che è

essenzialmente domestica, costiera. Ma le storie di mare sono soprattutto storie di uomini. Il primo autore a cui penso è Joseph

Conrad; nei suoi Tifone, Nostromo, Cuore di tenebra, Lord Jim, La linea d’ombra, il mare è

metafora della solitudine dell’uomo, della tragedia del suo isolamento e della sua vana ricerca della pace (“Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice

della sua irrequietezza”, Lo specchio del mare). Così drammatica e letale è la visione del mare

anche in Moby Dick di Melville e in Il vecchio e il mare di Hemingway.

Anche in I Malavoglia di Verga gli uomini vivono l’esperienza del mare come scissione

dalla normalità, come abbandono delle certezze naturali, eppure come stringente necessità,

contro la quale non è possibile dibattere o combattere. E se per i poveri marinai della

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 14

“Provvidenza” tale necessità è di natura economica, risultato di un’aspra e quotidiana lotta per la sopravvivenza, i protagonisti di altre storie sembrano prendere – o riprendere – il

mare per l’incontrollabile bisogno di navigare, di sfidare le acque, di trovarsi soli a cospetto della coscienza, della conoscenza, della fortuna. È questo ardore che spinge l’Ulisse dantesco a lasciare per la seconda volta Itaca; a questa identica urgenza si ispira lo Ulysses

di Tennyson, quando dice: “How dull it is to pause, to make an end,/ To rust unburnish’d, not to shine in use!/ As tho’ to breathe were life! [...] Come my friends,/ ‘Tis not too late

to seek a newer world./ Push off, and sitting well in order smite/ The sounding furrows; for my purpose holds/ To sail beyond the sunset, and the baths/ Of all the western stars,

until I die.” Ma il mare più intenso e vivo raccontato in versi è quello di Coleridge nella Ballata del

vecchio marinaio. Qui il mare è simbolo di tutte le sfaccettature del cuore umano, nonché

dei suoi parossismi: è il luogo dell’armonia con la natura e della dissociazione; il luogo dell’amore e dell’assassinio; della speranza e della disfatta; della malvagità e del perdono;

della vita e della morte. Ma è soprattutto il covo dei ricordi, perché il vecchio marinaio, pur approdato alla terraferma, è condannato a non potersi mai più dimenticare del mare,

e anzi, la sua espiazione consiste nel dover ripetere ai passanti il corso delle sue avventure. Così la distesa dell’acqua diventa anche il luogo del racconto; e le parole, come le onde,

rotolano incessanti, l’una dopo l’altra, quiete o roboanti, consolatorie o terribili, per l’eternità.

7 marzo 2011

Strane creature

Sarà perché mio marito è un paleontologo, ma Strane creature di Tracy Chevalier è uno dei

libri più affascinanti che abbia letto di recente. È la storia (romanzata, ma ispirata alla realtà) di Elizabeth Philpot, una paleontologa dilettante, e della sua amicizia con Mary Anning, una ragazzina di Lyme Regis la cui principale occupazione è esplorare la spiaggia

alla ricerca di resti fossili. I suoi rinvenimenti sono frequenti e redditizi, ma ordinari (si tratta soprattutto di ammoniti), finché un giorno il suo scalpello si imbatte sull’enorme

occhio fossile di una bestia sconosciuta. La notizia richiama a Lyme grandi scienziati e cercatori, e dopo molte vicissitudini – pubbliche e private – alla figura di Mary viene

riconosciuta la maternità della scoperta del primo ittiosauro (1810), e più tardi, del primo plesiosauro nella storia della scienza. Gli ittiosauri e i plesiosauri scoperti da Mary, così come i pesci fossili di Elizabeth, sono oggi conservati ed esposti al Natural History

Museum di Londra.

11 marzo 2011

Tutto cominciò in Francia…

Ritornando al tema delle insurrezioni – dal quale ho non poco divagato – vorrei citare qui due poesie di Anna Letitia Barbauld (1743-1825) che trattano entrambe di rivolte

antigovernative, e che sono entrambe, in qualche modo, di contesto francese. È dalla Francia, infatti, che tutto è cominciato: la maggioranza dei moti insurrezionali che hanno

rovesciato l’Europa per tutto il corso dell’Ottocento hanno infatti preso ispirazione, diretta o indiretta, dallo spirito libertario promosso, suscitato e divulgato dal pensiero illuminista.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 15

Anche il Risorgimento italiano, del resto, si è sviluppato a partire dai principi della rivoluzione francese.

Ma veniamo alle due poesie di Barbauld, un’autrice sulla quale mi soffermerò più a lungo in altre occasioni. Il titolo della prima, scritta nel 1792, è “To a Great Nation”, ed è rivolta proprio alla

Francia rivoluzionaria. È il suo incipit a suscitare particolare interesse: “Alzati, o potente nazione! in tutta la tua forza,/ e spargi intorno la tua terribile vendetta;/ Possa il tuo grande

spirito, infine risorto,/ abbattere le orde dei despoti” (ho tradotto in italiano, per quanto il dettato inglese sia molto più vigoroso).

La seconda poesia si chiama invece “Corsica”, ed è dedicata alla ribellione guidata dal patriota Pasquale Paoli (1755). L’incipit è una descrizione dell’isola, costituita da poche parole che però trasmettono con grande significatività sia l’estetica del luogo che l’etica

della popolazione: “Salve Corsica generosa! isola indomita!/ Forte della libertà; che tra le onde/ emerge come rocca di diamante, e sfida/ la più selvaggia furia delle tempeste

battenti.” La conclusione, scritta dopo che la poetessa ebbe notizia del fallimento della rivolta, è a sua volta particolarmente efficace: “E tuttavia resta una libertà, di gran lunga

più nobile/ di quella che re o senatori possono togliere o concedere;/ distante dai crudeli artigli del superbo oppressore/ essa sta sicura, intatta, indistruttibile;/ degna degli dei; è la libertà della mente.” Direi che questi versi si intonano molto bene anche al nostro tempo.

14 marzo 2011

La patria nostra

La fine del Settecento è stata anche per il nostro Paese il principio di un nuovo, inedito

senso della nazione. L’idea di Italia, che secoli di frammentazione politica e amministrativa avevano quasi annichilito, risorge in questi anni come una necessità

ragionata ma anche appassionata, concepita sulle basi di una identità culturale ben chiara: sono Dante e Petrarca, gli innovatori se non i creatori della nostra lingua, i veri padri della

patria. Un’opera fra le più belle a farsi portatrice dell’ideale di riunificazione e quindi della sofferenza dovuta alla sottomissione allo straniero sono le Ultime lettere di Jacopo Ortis.

L’apertura è di una densità e di un dolore insopportabili, tali da rendere inimmaginabile l’idea che l’Italia debba versare in una situazione di separazione (dovuta in questo caso alla cessione della Serenissima agli austriaci con il trattato di Campoformio, 1797): “Il

sacrificio della patria nostra è consumato. Tutto è perduto”. La patria nostra è qui, naturalmente, Venezia, ma si tratta di una sineddoche efficace: Foscolo è da annoverarsi

fra i primi e più accorati propugnatori del mito della nazione italiana. Nella stessa pagina Jacopo lamenta che “noi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani”, rendendo

ben evidente a chi l’autore si rivolga parlando della patria. Del resto, Foscolo è acceso cantore e difensore delle glorie nazionali (italiane) in quello che è per me il maggiore componimento in versi della letteratura italiana (insieme con la Ginestra leopardiana), Dei

Sepolcri. Nel 1809, inoltre, il poeta di Zacinto esorta gli italiani all’amore per la patria in

Dell’origine e dell’officio della letteratura con queste parole: “O Italiani [...] visitate l’Italia,

o amabile terra!” e parlando di Dante, Galileo e Tasso invita i compatrioti: “Prostratevi su’ loro sepolcri, interrogateli come furono grandi e infelici, e come l’amor della patria [...]

accrebbe la costanza del loro cuore, la forza del loro ingegno e i loro beneficii verso di noi”.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 16

15 marzo 2011

I Sepolcri

A egregie cose il forte animo accendono/ l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella

e santa fanno al peregrin la terra/ che le ricetta. Io quando il monumento vidi ove posa il corpo di quel grande/ che temprando lo scettro a’ regnatori

gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela/ di che lagrime grondi e di che sangue; e l’arca di colui che nuovo Olimpo/ alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide

sotto l’etereo padiglion rotarsi/ piú mondi, e il Sole irradïarli immoto, onde all’Anglo che tanta ala vi stese/ sgombrò primo le vie del firmamento: - Te beata, gridai, per le felici/ aure pregne di vita, e pe’ lavacri

che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!/ Lieta dell’aer tuo veste la Luna di luce limpidissima i tuoi colli/ per vendemmia festanti, e le convalli

popolate di case e d’oliveti/ mille di fiori al ciel mandano incensi: e tu prima, Firenze, udivi il carme/ che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,

e tu i cari parenti e l’idïoma/ désti a quel dolce di Calliope labbro che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma/ d’un velo candidissimo adornando, rendea nel grembo a Venere Celeste;/ ma piú beata che in un tempio accolte

serbi l’itale glorie, uniche forse/ da che le mal vietate Alpi e l’alterna onnipotenza delle umane sorti/ armi e sostanze t’ invadeano ed are

e patria e, tranne la memoria, tutto./ Che ove speme di gloria agli animosi intelletti rifulga ed all’Italia,/ quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi

venne spesso Vittorio ad ispirarsi./ Irato a’ patrii Numi, errava muto ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo/ desïoso mirando; e poi che nullo vivente aspetto gli molcea la cura,/ qui posava l’austero; e avea sul volto

il pallor della morte e la speranza./ Con questi grandi abita eterno: e l’ossa fremono amor di patria.

Ugo Foscolo, Dei Sepolcri (vv.151-197)

Non c’è ode all’Italia libera più grandiosa di questa.

16 marzo 2011

Alla vigilia della festa dell’Unificazione

Per la vigilia dell’anniversario dell’Unità d’Italia voglio pensare a quelle letture (risalenti

soprattutto ai tempi del liceo) che hanno trattato i concitati anni del Risorgimento. In questi giorni ho ripreso in mano Piccolo mondo antico di Fogazzaro e mi domando perché

non venga studiato nelle scuole – a mio parere sarebbe uno straordinario sostituto dei Promessi Sposi. Il mondo antico di Fogazzaro rappresenta infatti l’Italia della seconda

guerra di indipendenza, con tutta la forza del sentimento patriottico, le paure della polizia

austriaca, il senso della rivoluzione imminente, il tormento giovanile che sempre accompagna i periodi di repressione politica. E su questo sfondo la figura di Luisa brilla

per autonomia e coraggio – una donna finalmente attiva (distantissima dalla Lucia manzoniana), dalla personalità conquistatrice, dal pensiero furente, una donna libera. La

notte in cui Franco decide che quando sarà il momento si unirà alla guerra contro l’Austria, “Luisa mormorò sulla bocca di suo marito: – Se viene quel giorno, tu vai; ma vado anch’io.

– E non gli permise di rispondere”. E Franco stesso vede la moglie come una “creatura dall’intelletto forte sopra l’amore e orgoglioso, [...] tutta vibrante nella coscienza della sua

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 17

ribellione.” Franco, che “non vedeva salute che in una rivoluzione, in una guerra, nella libertà della patria. Ah quando l’Italia fosse libera, come la servirebbe, con che forza, con

che gioia!” Di Manzoni, in tema patriottico, vale la pena piuttosto rileggersi Marzo 1821, anche se è

nel coro dell’atto III di Adelchi che si ritrovano tutta la forza e la grandezza del bisogno di

indipendenza. Ma forse la più intensa, la più giovane, la più devastante nella percezione del bisogno di cambiare il paese, di ribellarsi, di restituire all’Italia il suo diritto alla bellezza

e alla gloria è l’ode All’Italia di Giacomo Leopardi (riporto qui solo alcuni versi):

O patria mia, vedo le mura e gli archi/ E le colonne e i simulacri e l’erme Torri degli avi nostri, / Ma la gloria non vedo,

Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi/ I nostri padri antichi. Or fatta inerme, Nuda la fronte e nudo il petto mostri. [...] Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,/ Che di catene ha carche ambe le braccia;

Sì che sparte le chiome e senza velo/ Siede in terra negletta e sconsolata, Nascondendo la faccia/ Tra le ginocchia, e piange.

Piangi, che ben hai donde, Italia mia,/ Le genti a vincer nata E nella fausta sorte e nella ria.

[...] Perché, perché? dov’è la forza antica,/ Dove l’armi e il valore e la costanza? [...] Come cadesti o quando/ Da tanta altezza in così basso loco? Nessun pugna per te? non ti difende/ Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo

Combatterò, procomberò sol io. [...] Attendi Italia, attendi. Io veggio, o parmi,/ Un fluttuar di fanti e di cavalli,

E fumo e polve, e luccicar di spade/ Come tra nebbia lampi.

Sono i nostri poeti a richiedere, a rappresentare, ad esprimere il bisogno di festeggiare degnamente, domani, l’Unità d’Italia.

17 marzo 2011

Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno

Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno

a le piaghe mortali che nel bel corpo tuo sí spesse veggio, piacemi almen che ‘ miei sospir’ sian quali

spera ‘l Tevero et l’Arno, e ‘l Po, dove doglioso et grave or seggio.

[...] Non è questo ‘l terren ch’i’ toccai pria? Non è questo il mio nido

ove nudrito fui sí dolcemente?

Non è questa la patria in ch’io mi fido, madre benigna et pia,

[...] ché l’antiquo valore ne gli italici cor’ non è anchor morto.

[...] Signor’ [...] [a]l passar questa valle

piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno, vènti contrari a la vita serena;

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 18

et quel che ‘n altrui pena tempo si spende, in qualche acto piú degno

o di mano o d’ingegno, in qualche bella lode, in qualche honesto studio si converta.

[...] Canzone, io t’ammonisco che tua ragion cortesemente dica,

perché fra gente altera ir ti convene, et le voglie son piene

già de l’usanza pessima et antica, del ver sempre nemica. Proverai tua ventura

fra’ magnanimi pochi a chi ‘l ben piace. Di’ lor: - Chi m’assicura?

I’ vo gridando: Pace, pace, pace. Francesco Petrarca, Canzoniere, CXXVIII

22 marzo 2011

Scrivere scrivere

Sono da qualche giorno in pausa con l’aggiornamento del mio blog, perché sono ritornata

a lavorare sulla mia storia. Sono da diverse settimane agli ultimi capitoli del mio “romanzo” (uso le virgolette, perché mi fa un po’ paura dare questo nome a quelle decine

e decine di pagine...), e adesso sento che è il momento di concludere. Ma come in ogni literary mistery che si rispetti, il finale è all’insegna dell’azione e di un po’ di concitazione –

e questi sono toni ai quali non sono proprio abituata. Come mi è stato detto, del tutto

giustamente, durante una lezione di scrittura creativa, io riesco meglio nel delineare le atmosfere piuttosto che nel tracciare delle sequenze di fatti. Eppure in questo mio tentativo

ho fatto di tutto per raccontare una storia attiva: e adesso che siamo quasi al sipario devo costruire bene il mio coup de thèatre. Nel frattempo, per mantenere sveglia la mia

immaginazione da “giallo”, sto leggendo un altro libro di P.D. James – si chiama La torre

nera, e dopo il bellissimo Morte sul fiume mi sta riempiendo di suggestioni enigmatiche e di

pura suspense.

26 marzo 2011

Perché si legge?

Questa settimana, in una delle mie classi (si tratta di allievi di un istituto professionale per la ristorazione) ho posto questa domanda: perché, secondo voi, la gente legge? G. ha risposto che la gente legge per staccarsi dalla realtà di tutti i giorni; A. pensa che si legga

per imparare tante cose che altrimenti non si potrebbero conoscere; un’altra A. dice che chi legge non ha niente da fare; un’altra G. sostiene che chi legge è all’antica.

Per quanto mi riguarda la lettura è un aspetto irrinunciabile della vita – è qualcosa che mi rende felice.

E voi, cosa ne pensate? : )

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 19

29 marzo 2011

Perché io leggo

Leggo per sprofondarmi nelle parole, che sono il nutrimento del pensiero.

Leggo perché i libri sono il catalizzatore delle mie fantasticherie. Leggo per appropriarmi di mondi che non sono miei e vivere in un tempo che non esiste

più. Leggo per esplorare i meandri dell’immaginazione.

Leggo per imparare a scrivere. Leggo per sondare “gli abissi del cuore umano” (Goethe). Leggo per conversare, come Machiavelli, con i grandi scrittori e le grandi scrittrici.

Leggo per viaggiare, con la mente, e con il treno, mentre vado a lavorare. Leggo perché “fatti non [fummo] a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”

(Dante). Leggo perché i libri contengono le foglie secche dell’autunno, i suoni della notte, il vento

delle colline, il sole e la pioggia estiva, tutti i sapori più buoni, le carezze più dolci, la paura, la nostalgia, il ricordo. La gioia.

31 marzo 2011

Il profumo delle foglie di limone

Stamattina sul treno ho finito di leggere Il profumo delle foglie di limone di Clara Sanchez,

che da settimane compare nella top ten delle vendite. Naturalmente non è questa la ragione

che mi ha spinto a incominciarlo: è stato invece il titolo, che con le sue suggestioni estive mi ha attratta verso la storia. Non avevo considerato il fatto che le traduzioni italiane si

prendono spesso certe libertà ingiustificate – le foglie di limone hanno infatti poca importanza ai fini della narrazione, che non a caso in spagnolo si intitola Lo que esconde tu

nombre (Che cosa nasconde il tuo nome).

In ogni caso, e nonostante il disorientamento, non è stata una brutta lettura. La definirei

piuttosto una lettura semplice. Un po’ troppo. I temi trattati sono davvero interessanti: le difficoltà delle relazioni fra generazioni

differenti, il peso della storia sul presente, i ricordi scomodi delle vittime di una catastrofe umanitaria da non dimenticare, il conflitto tra la realtà e l’apparenza, tra l’individualismo e la responsabilità civile. Ma il racconto è fragile, è come se mancasse del sostegno di una

grande voce narrativa. Chissà, forse la lingua spagnola – che non conosco – dona alla storia una maggiore enfasi, un maggior calore.

Insomma, dopo un terzo della lettura mi sentivo già arrivata alla fine, come se la scrittura avesse già dato fondo a tutte le sue potenzialità. E infatti quando stamattina ho raggiunto

l’ultima pagina, i cambiamenti della situazione iniziale – dettati dallo svolgimento della fabula – si sono presentati abbastanza scontati. Peccato, perché le premesse erano davvero

allettanti.

Forse una diversa scrittura (o traduzione?); una più accurata definizione dei personaggi (specie quelli maschili); una più sensibile indulgenza sulla rievocazione storica; un più

acceso, anche violento, interesse per la ricerca della verità avrebbero reso la narrazione più intensa.

Forse ci sarebbe voluta la penna di Kate Morton.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 20

7 aprile 2011

Momenti un po’ spenti

Dopo l’ultimo libro di Kate Morton non ho avuto altre occasioni di letture veramente

esaltanti. Ho scelto qualche giallo, qualche detective story abbastanza avvincente (in questi

giorni tocca al terzo romanzo di Matthew Pearl – ma erano meglio gli altri due) ma sto

ancora aspettando di leggere un racconto davvero importante. Ho scaricato qualche narrazione in inglese di Anna Katherine Green. Speriamo vada un po’ meglio; ho proprio

bisogno di un buon mystery per ispirare la conclusione della mia storia.

18 aprile 2011

“Il” libro

Nel pieno della mia “bonaccia” libresca mi sono avventurata nella Pastorale americana di

Philip Roth. Scrittura esemplare, forte e sicura, che nonostante la sua per così dire

graniticità stilistica riesce tuttavia ad evocare persino la delicatezza della nostalgia e il senso autunnale della vecchiaia. Eppure anche questo resterà un libro di passaggio, uno di quei romanzi che si è contenti di aver letto ma che non lasciano tracce visibili sulla nostra

personalità letteraria. Questa è per me (non nella mia opinione, ma nella mia consapevolezza critica), ciò per cui

la prosa delle donne si distingue da quella maschile. Lungi dall’avere una posizione di genere nei confronti della letteratura femminile, mi accorgo di amarla di più. Mi accorgo

che Jane Austen, Elizabeth Gaskell, Virginia Woolf, Rebecca West, Edith Wharton, e oggi Kate Morton hanno scritto parole e pagine che non mi abbandoneranno facilmente. L’unica penna maschile ad avere avuto su di me un effetto così duraturo e travolgente è

quella di Henry James. E forse, conoscendolo, non è un caso. James ha composto l’opera narrativa che, ancora durante gli anni del liceo, mi ha regalato la netta coscienza della

parola scritta, aprendomi le porte al mondo che oggi frequento così volentieri, rendendomi forse quello che sono.

“Il” libro per me è Ritratto di signora: è il romanzo a cui penso immediatamente quando mi

si chiede quale sia il mio preferito; il libro da riscoprire ogni volta; il libro che ti mostra il

volto della bellezza. E per voi, qual è “il” libro? : )

23 aprile 2011

World Book Day

Oggi è la giornata mondiale del libro, e visto che ieri sera ho terminato l’ennesimo romanzo, devo sceglierne uno adatto da iniziare per festeggiare questa occasione. Gli

autori in lizza sono Tracy Chevalier (La dama e l’unicorno), Henry James (The Golden Bowl),

Leo Tolstoj (Guerra e pace), Wilkie Collins (The Woman in White), e D.H. Lawrence

(Twilight in Italy). Ho di che riflettere!

Ma quello che conta oggi è celebrare l’avvenimento, e pensare al valore dei libri nella

nostra vita. Dalla Bibbia di Gutenberg agli ebook per Kindle la storia ha fatto passi da gigante... ma il pregio delle pagine scritte è sempre rimasto invariato. Che l’abbiano fatto

su carta, con penna d’oca, con calamo, con sferraglianti Olivetti o con laptop all’avanguardia, i nostri grandi autori ci hanno aperto mondi sconosciuti o svelato i piccoli

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 21

misteri della quotidianità; hanno urlato o cantato; hanno denunciato o lodato; hanno inventato; hanno descritto – hanno raccontato.

E non c’è nulla di più magnifico e incantevole del racconto per farci ricordare quanto possa essere grande l’anima dell’uomo.

28 aprile 2011

La libertà di non studiare

Sto leggendo, di Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare.

Sono arrivata quasi a metà e finora non ho trovato una sola frase con la quale sia possibile dissentire. L’autrice, come me, insegna alle superiori – anche se lei lavora in uno scientifico, e io in una scuola agli antipodi di un liceo – e descrive le stesse situazioni che

io incontro ogni mattina. Nonostante una certa indulgenza al malumore e al catastrofismo, che chi non fa l’insegnante di sicuro troverà vittimista ed esagerata, il saggio è vivace,

attento, talvolta anche storicamente puntuale. Per quanto ho letto finora Mastrocola si propone non solo di analizzare le cause per le quali gli adolescenti non amano lo studio (e

quando mai??), ma anche di dimostrare che la massima parte del mondo che li circonda tollera, sostiene, avalla questa loro reticenza. Molti dei ragazzi, non tutti per fortuna, sono pesantemente ignoranti, e si ritiene che la

loro insipienza sia una moderna forma di conoscenza. Non provano più ammirazione, né tantomeno soggezione, per niente e per nessuno, e li si giustifica sulla base di un non

meglio definito rifiuto dell’“antichità”. Tanti allievi si propongono volontariamente agli insegnanti come soddisfatti imbecilli, e si suppone che la colpa sia da imputare

all’insegnante stesso, che “non li sa motivare”. Essi si adagiano al rigetto di qualsiasi forma di miglioramento di sé, e tale abulia la società la accetta, con la scusa che i ragazzi bisogna lasciarli liberi (di non studiare, appunto).

Sbagliato. Alla loro età non bisogna lasciarli liberi, se scelgono deliberatamente l’errore solo per amore dell’omologazione. Non bisogna adeguarsi alla loro piccolezza personale,

o inchinarsi a raggiungere la loro bassezza cognitiva. Il compito e il merito di un maestro o di un professore è l’opposto: non deve motivare, ma insegnare bene; non deve tollerare,

ma sottolineare lo sbaglio, saggiamente e con cognizione; non deve giustificare, ma pretendere il rispetto dovuto al suo ruolo e ai suoi titoli; infine, deve dare ai suoi allievi tutti gli strumenti per uscire dalla loro condizione – anche se essi credono di averla scelta

– ed elevarsi, crescere, diventare più sapienti, e migliori.

11 maggio 2011

Sognando Cornovaglia

A chi di noi, nei caldi afosi primi pomeriggi d’agosto, quando si è appena sparecchiata la tavola e il salotto è immerso in una benedetta e silente semioscurità, non è mai capitato di

lasciarsi cullare nelle atmosfere di un film tedesco ispirato a un romanzo di Rosamunde Pilcher? A me succede spesso, si tratta quasi di un appuntamento stagionale, la ninna-

nanna del meritato riposo.... Ebbene, ho voluto provare a leggere uno di quei romanzi. Ho scelto, perché mi è capitato sotto mano (la signora vanta una bibliografia vastissima!), I cercatori di conchiglie (di cui, ho

scoperto, esiste una trasposizione filmica con protagonista Angela Lansbury), e l’ho finito proprio stamattina, sul treno che mi portava a lavorare.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 22

È un libro inaspettatamente lungo, ma non complesso. Alcuni dei personaggi sono poco più che caricaturali e la fabula molto prevedibile: i rapporti che intercorrono tra i membri

della famiglia della protagonista sono essenziali e la fine della storia è identica a ciò che il lettore si aspetta fin dall’inizio. Inoltre, gli uomini e le donne che popolano questa storia

sono, direi, bidimensionali – tutti dotati della più splendida bellezza, tutti che finiscono in un mare di denaro, le donne tutte con la vita sottile, i capelli lucenti, e la mania di rassettare la cucina; gli uomini, o del tutto silenziosi, o dalla personalità debole, o destinati alla morte

precoce: insomma, assenti. Ma quel che vince, in questo racconto, è ciò che in realtà ti tiene attaccata a quei film di

piena estate, ciò che ti incanta mentre avvicini una sedia su cui sollevare i piedi, ciò che ti coccola mentre cerchi un cuscino per appoggiare la testa, ciò che ti impedisce di spegnere

il televisore. È la Cornovaglia. Una delle poche regioni dell’Inghilterra che non ho ancora visto, in queste settimane la Cornovaglia è al centro dei miei sogni, e mi godo anche solo l’idea che

potrei, magari l’estate prossima, andarla a visitare. La costa battuta dai venti dell’Atlantico, gli estuari sabbiosi dei fiumi, lo spettacolo geologico della Penisola di Lizard, la sublimità

di Land’s End, e non ultime le tracce del passaggio di D.H. Lawrence, Virginia Woolf e della nutrita colonia di artisti denominata “scuola di Newlyn” sono attrattive che

meriterebbero un giro lungo, intenso e bene organizzato. Ci devo pensare.

18 maggio 2011

Leggendo la Cornovaglia

I romanzi ambientati in Cornovaglia sono numerosi. Le alte scogliere burrascose, le falesie, le coste frastagliate, le lunghe ombre dei resti preistorici, il vento dai gotici ululati, il

retaggio di antichi miti, le memorie di solitudine degli artisti sono molto incoraggianti per l’impulso letterario. Oltre a tante storie di Rosamunde Pilcher, che nacque in Cornovaglia

e ne fece l’incantata scena dei suoi dolci drammi, si ricorda anche Daphne Du Maurier, che visse a lungo a Fowey con la famiglia: tra i suoi tanti libri, Rebecca, My Cousin Rachel,

The House on the Strand, Frenchman’s Creek, Jamaica’s Inn, The King’s General e The Loving

Spirit sono stati ambientati proprio nella regione. Thomas Hardy ha dato una collocazione

Cornish a A Pair of Blue Eyes, ma la brughiera delle estremità sudoccidentali è luogo di tanti

altri suoi racconti. Lord Tennyson prese ispirazione da Tintagel, leggendaria reggia di nascita di Re Artù, per i magnifici versi del suo Idylls of the Kings.

Per tornare al nostro secolo, dovrebbero essere anche interessanti The View from the

Summerhouse di Barbara Whitnell e The Lighthouse di P.D. James (di cui ho trovato traccia

in un forum su internet); di recente ho letto The Memory Garden di Rachel Hore, anche se,

naturalmente, la migliore storia della riscoperta di un giardino in Cornovaglia è The

Forgotten Garden, della ormai solita Kate Morton.

24 maggio 2011

Rebecca West

Sto leggendo The Return of the Soldier di Rebecca West. Finalmente il libro di cui avevo

bisogno! Tipicamente modernista, il romanzo è centrato proprio sulla moltiplicazione del

punto di vista, sull’impossibilità della riconciliazione fra i sentimenti, gli ideali, i sogni di

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 23

persone troppo diverse che si trovano a vivere la medesima tragedia. È la storia di un rifiuto del cambiamento: tutto, nell’atteggiamento di Chris tornato dalla guerra a causa

dell’amnesia, ricorda la repulsione del presente e la proiezione all’indietro verso un passato idillico, la giovinezza, l’amore romantico. Il trauma del fronte ha tolto quindici anni dalla memoria del soldato; e rientrato a casa dalla moglie e dalla cugina egli non sa accettare il

loro inevitabile invecchiamento, così come lo disgustano l’ordine domestico (probabile riflesso, per lui, della metodicità delle attività belliche) e la luce troppo forte, che svela i

contorni della realtà. La rappresentazione della luce è l’aspetto che più mi affascina nella narrativa di West. I

suoi racconti sono sempre infusi di una luminosità permeante, che trascende dal chiarore del mattino al crepuscolo, e persino alla notte, in uno spettro di colori che sembra quasi infinito e che riecheggia la forza o la debolezza dei personaggi.

Nel Ritorno del soldato si legge: “The dusk flowed in wet and cool from the garden, [...] and

the furniture, very visible through that soft evening opacity with the observant brightness

of old, well-polished wood, seemed terribly aware. Strangeness had come into the house, and everything was appalled by it, even time.”

“The house lies on the crest [...] and from its windows the eye drops to miles of emerald pasture-land lying wet and brilliant under a westward line of sleek hills, blue with distance

and distant woods. [...] That day its beauty was an affront to me, because, like most Englishwomen of my time, I was wishing for the return of a soldier.” Come me, anche Rebecca West sembra soprattutto attirata dalla luminescenza

dell’autunno, perché nel Ritorno del soldato scrive: “It is a place where autumn lives for half

the year, for even when the spring light tongues of green fire in the undergrowth, and the

valley shows sunlit between the tree-trunks, here the pond is fringed with yellow bracken and tintend bramble, and the water flows amber over last winter’s leaves.” E nel

meraviglioso The Fountain Overflows si legge: “It was one of those autumn mornings which

are devoid of melancholy, when the weather seems to be cleaning its house. A broom of

wind sent the clouds above flying briskly and kept the fallen leaves scudding along the pavements [...]. On a neighbour’s apple trees the fruit shone clear yellow-green, sharp as the taste would be.”

Ho amato moltissimo The Fountain Overflows, che mi fu regalato ormai quattro anni fa dalla

padrona di casa che mi ospitò nei miei due mesi a Bristol. È la storia di una famiglia, tre

sorelle, un fratello adorato, una coppia di genitori di cui il padre rappresenta la costante minaccia del fallimento, e la madre l’ostinata resistenza agli smacchi del destino, la

speranza per un domani più felice, il feroce orgoglio della sopravvivenza. Questo è stato uno di quei libri che provi uno struggente dispiacere a terminare. E forse lo rileggerò, per poterlo sentire ancora.

27 maggio 2011

The Return of the Soldier

Ho finito Il Ritorno del soldato, una lettura così semplicemente bella che ne ho sottolineato

numerosi passaggi. Anche nella seconda parte ho ritrovato i motivi di cui ho parlato nel post precedente, in particolare il richiamo alla luce come costante compagna dell’esistenza

umana, il racconto della solitudine, la rappresentazione del distacco dalla realtà come consolazione dal dolore, e il riflesso di tale alienazione sulla sofferenza degli altri. La storia

è profondamente triste, e lo è in tutte le sue diramazioni e sfaccettature. Triste è la vicenda di un soldato che torna dalla guerra perché la sua mente non risponde più alle esigenze del

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 24

reale; triste è il suo ritrovarsi in una casa e con una moglie che non ricorda, devastato dal desiderio per una ragazza amata quindici anni prima. Triste è la condizione della moglie

legittima, costretta a ricevere un uomo che non ha nemmeno memoria di averla amata; triste la sorte della donna che è stata l’antico amore del soldato, e che dimostra il tragico coraggio di voler guarire la sua psiche, per il suo bene. E tornando proprio a Chris,

struggente è la sua guarigione stessa, perché essa lo risospinge sì nel mondo “normale”, ma a prezzo del ricordo della morte di un figlio, del richiamo alla guerra, dello sconfortante

spettacolo della vecchiaia. Voglio citare alcuni brevi brani, perché non ci sono parole per descriverne la bellezza:

“Many times [...] I have stood for long looking up at a fine tracery of bare boughs against the hard, high spring sky while the cold wind rushed through my skirts and chilled me to the bone, because I was afraid that when I moved my body and my attention I might begin

to think.” “To lovers innumerable things do not matter.”

“I thought of him with the passion of exile.” “His very loss of memory was a triumph over the limitations of language which prevent

the mass of men from making explicit statements about their spiritual relationships.” “I felt [...] a cold intellectual pride in his refusal to remember his prosperous maturity and his determined dwelling in the time of his first love, for it showed him so much saner than

the rest of us, who take life as it comes, loaded with the unessential and the irritating.” “There is, you know, really room for all of us; we each have our peculiar use.”

E quest’ultima affermazione dovrebbe guidarci tutti i giorni, in qualsiasi cosa facciamo e in qualsiasi luogo stiamo, e farci sentire un po’ meglio con noi stessi.

5 giugno 2011

Ipsa scripsit

Ieri ho scritto l’ultima riga della mia storia. È stato un momento emozionante, che da una

parte mi ha dato il sollievo di quando si raggiunge la fine di un lungo percorso, dall’altra mi ha fatto dispiacere per il fatto di congedare dei personaggi che mi hanno accompagnata per più di due anni, e ai quali mi ero persino un po’ affezionata.

È la prima volta che scrivo un racconto così lungo – sono uscite quasi trecento pagine. Di solito mi limitavo a qualche cartella, soprattutto per adeguarmi alle regole dei concorsi per

racconti brevi ai quali ho partecipato. In questo caso, invece, ho scritto solo per creare un piccolo mondo, per dar vita a persone e a luoghi ispirati per qualche sfumatura alla realtà

ma infine frutto della mia fantasia. Ne è uscita una narrazione più articolata di quanto avrei creduto all’inizio, ed ora che è finita e che mi accingo a rileggerla spero di ricavarne

un senso di soddisfazione e di compiutezza. Chissà se sarà all’altezza di essere mandata a una casa editrice... sono troppo grande per coltivare certi sogni? : ) La storia ha per oggetto il più tradizionale degli archetipi occidentali: si tratta infatti di una

quest, e in particolare della ricerca della soluzione di un enigma di natura storica e letteraria.

Data la mia passione e la mia formazione, la letteratura non poteva che giocare un ruolo

di primo piano! Non si dice forse che bisognerebbe sempre e solo scrivere di ciò che si conosce?

Nei prossimi giorni mi occuperò insomma della lettura di qualcosa che ho scritto io. Considerando che sono un critico abbastanza feroce, spero di non stroncarmi da sola…. E magari forse, un giorno, il mio racconto occuperà il tempo anche di qualche altro lettore

: )

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 25

D’altronde, “se sognare un poco è pericoloso, la sua cura non è sognare meno ma sognare di più, sognare tutto il tempo” (Marcel Proust).

14 giugno 2011

Il gusto proibito dello zenzero

In questi giorni sto leggendo Il gusto proibito dello zenzero di Jamie Ford. È un libro che invita

a una forte partecipazione emotiva, perché narra di una fase della storia americana che solo marginalmente trova posto nelle cronache della seconda guerra mondiale. Tratta

infatti dell’odio, dell’emarginazione, della violenza razzista e in ultima istanza del sistematico rastrellamento e poi internamento della popolazione di origine giapponese dopo Pearl Harbor. Nonostante la crudeltà del momento storico, il tono è lieve e la scrittura

molto ben controllata, e questa delicatezza, resa possibile dalla prospettiva del flashback, pare rendere ancora più insopportabile l’accettazione degli eventi. Questa tecnica, ovvero

il resoconto della tragedia attraverso l’ottica della narrazione familiare, spesso guidata dal punto di vista dei bambini, è comune ad altri due straordinari libri che hanno per oggetto

(o soggetto) giovani individui costretti a subire l’atrocità del pregiudizio razziale. L’uno, il più dolce, è Il muro invisibile di Harry Bernstein (storia di una famiglia ebrea ostracizzata

in una città inglese). L’altro è un vero capolavoro dei tempi recenti, Il tempo di una canzone

(The Time of our Singing) di Richard Powers. Qui l’arco temporale è molto esteso, toccando

i limiti degli anni Quaranta e della fine del XX secolo. Ed è proprio l’idea del tempo a

gestire l’evoluzione del racconto. Il tempo è inteso come il tema degli studi sulla relatività fisica del padre dei protagonisti (una vera “sostanza”, che lascia spazio a un meraviglioso

colpo di scena finale), ma è anche la materia della musica, che è forse il personaggio più importante. La musica domina le pagine, rievocata da un linguaggio fortemente tecnico e

da una forte nostalgia per le sue (varie) età dell’oro. Talmente forte e presente è la trattazione del tema musicale che la descrizione del sottofondo razzista passa quasi in secondo piano. Ma la famiglia dell’io narrante è mezzo ebrea e mezzo afroamericana,

perciò la questione è viva, è presente, è cruciale. E lo stesso avviene nel racconto di Ford, in cui lo struggente ricordo dell’amicizia tra un

cinese e una giapponese a Seattle nel 1942 è accompagnato dai ritmi permeanti dello swing e del jazz.

Due libri da leggere, da assaporare, decisamente da ascoltare; per riandare con i pensieri ad una faccia forse poco rievocata dell’America, ma che è parte della sua identità, e fondamento quindi dei suoi aneliti alla riscossa civile.

18 giugno 2011

Estate… tempo di delitti

Che io ami smodatamente la lettura è un fatto. Che non possa privarmene in nessun

periodo dell’anno è un fatto. Ma che l’estate sia il momento in cui ci si senta persino giustificati ad accantonare qualsiasi altra attività per sprofondare tra le pagine di un libro

(anche elettronico) è una certezza. Le giornate dalla luce che indugia fino a tarda sera, il desiderio di inoperosità dettato dal caldo delle ore pomeridiane, il silenzio della città

semivuota, la mente riposata che favorisce l’immaginazione sono sollecitazioni irresistibili; e talvolta non si aspetta altro che aver concluso le proprie quotidiane faccende per potersi

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 26

scegliere l’angolo più comodo del divano, del tè freddo a portata di mano, e dimenticare il mondo reale per immergersi in quello magico della finzione.

Non c’è dubbio, poi, che le letture più adeguate per un simile clima di indolenza siano le detective stories, i “gialli”, come si chiamano in italiano per via della scelta grafica delle

copertine dei polizieschi pubblicati da Mondadori a partire dagli anni Trenta. Il giallo è sicuramente una delle mie forme letterarie preferite, anche se non sono attirata da tutti i suoi sottogeneri – anzi, come al solito sono abbastanza difficile da accontentare. In

generale, non amo il poliziesco d’azione, né le storie che eccedono di sangue e violenza (non sono un’amante di Stieg Larsson, per esempio), né il filone anatomopatologico alla

Patricia Cornwell. Sono invece una fan della più classica delle narratrici del giallo, la geniale Agatha Christie,

e in particolare del suo Poirot. La facilità con cui ci si può letteralmente perdere nelle storie della scrittrice inglese più tradotta nel mondo (anche più di Shakespeare!) è dovuta a numerosi fattori, i più importanti dei quali mi sembrano essere: la forte caratterizzazione

di tutti i personaggi; la magnificenza del setting, che spesso è la campagna inglese; l’imprevedibilità del plot; l’equità del delitto, che nella maggior parte dei casi tocca famiglie

aristocratiche, o comunque abbienti; un certo sentore di malinconia diffusa, che contraddistingue i personaggi meglio riusciti (forse i preferiti dell’autrice) e anche Poirot

stesso (per cui lo preferisco a Miss Marple), e che è dovuto sicuramente al momento storico (la guerra mondiale) e culturale (il postmodernismo). Agatha Christie, naturalmente, non è l’unica donna ad essersi cimentata con la detective

fiction o con le storie di omicidi; anzi, sembra che questo tipo di scrittura sia risultato

particolarmente consono alla penna femminile. Ne parlerò in un prossimo post.

20 giugno 2011

Porte, finestre, giardini

Passeggiando per la mia e per altre città tendo spesso ad alzare gli occhi verso le facciate

dei palazzi più antichi, ampie e possenti pareti in mattoni o in pietra, e ad osservare con curiosità gli usci pesanti e i balconi fioriti. Non è un caso: mi sono accorta infatti di essere

irresistibilmente attratta dalle storie in cui compaiono porte misteriose, ingressi socchiusi verso spazi silenziosi e sconosciuti, finestre adornate da edere rigogliose, sconfinati giardini

inframezzati da passaggi, scalinate, archi, angoli nascosti. I romanzi di Kate Morton non mancano mai di questi elementi; e il paesaggio della Gran Bretagna trova in questi tratti architettonici o topografici la sua vera identità. Dev’essere per questo che non posso fare a

meno di tornarci.

21 giugno 2011

Misteri al femminile

Torno all’argomento della scrittura “gialla” femminile intitolando questo post con la stessa etichetta che ho dato a una delle cartelle più affollate del mio Kindle.

Le donne, si diceva, sembrano essere particolarmente propense a scrivere di delitti e di enigmi irrisolti: Agatha Christie è solo un esempio eclatante del genere. Dopo aver finito

il suo Poirot e la salma, ho iniziato Per amore di Elena, di Elizabeth George, recentemente

ripubblicato in Italia con un diverso titolo (e chissà perché), Corsa verso il baratro. L’ho

appena iniziato, ma già mi pare un libro eccellente: agli elementi classici della letteratura

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 27

del delitto, infatti, questa storia aggiunge anche l’ambientazione accademica (Cambridge), che la rende ancora più accattivante. Elizabeth George è una maestra del giallo

contemporaneo best seller – una sorta di Jessica Fletcher, verrebbe da dire –; la mia cartella di Kindle è ben fornita dei suoi romanzi, tra cui il crudo Scuola omicidi, che ancora una

volta vede svolgersi un omicidio nella cornice di un prestigioso collegio. La medesima coniugazione tra morti sospette e scuole di lusso si ritrova in Macabro quiz

della stessa Christie, in Assassinio all’università (opera di un uomo, Thomas Kyd), edito da

Polillo nella magnifica collana “I bassotti” dedicata all’età d’oro del giallo, e nell’incredibile La scuola dei desideri di Joanne Harris – un vero capolavoro di suspense.

Tra le altre autrici della mia cartella ci sono le altrove citate P.D. James e Anna Katharine Green, ma non può naturalmente mancare la più clamorosa capostipite del giallo

femminile, la vittoriana Mary Elizabeth Braddon, che della letteratura di sensazione fece la propria cifra stilistica e la fonte di una fama straordinaria. Della sua penna merita

certamente di essere letto il celebre Lady Audley’s Secret, un’arguta storia gotica dal fascino

irresistibile. Questo per quanto concerne una brevissima lista di nomi; in un prossimo post cercherò di

pensare ai motivi che si celano dietro una scelta di genere così netta da parte di un genere così definito – la parte femminile della letteratura occidentale.

27 giugno 2011

Donne e suspense

Su http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_female_detective/mystery_writers si trova un

ben articolato elenco di nomi di donne che hanno dedicato la loro scrittura, o parte di essa, al racconto del mistero. Gialli o detective stories, sensational novels o letteratura di sensazione,

horror o storie gotiche, arcani, enigmi, delitti hanno impegnato la penna delle donne sin dal momento in cui – più o meno intorno alla fine del Settecento – le signore hanno iniziato

a rivendicare il loro legittimo posto nel consorzio degli scrittori di fama: un momento che è coinciso, in effetti, con la vera e propria nascita del romanzo (una teoria, questa, ormai assodata, ma introdotta dagli interventi dei gender studies in opposizione al pilastro critico

di Ian Watt, The Rise of the Novel, secondo cui la fiction inglese fu avviata dal triumvirato

Defoe, Richardson, Fielding). Ann Radcliff, la popolare autrice di The Mysteries of Udolpho

(1794), aprì il diciannovesimo secolo a un vero esercito di donne impegnate nel racconto della paura, da Mary Shelley a Elizabeth Braddon; ma è il Novecento ad assistere ad una

vera proliferazione di female mystery writers.

La mia sensazione è che questo fenomeno così clamoroso, e ben definito nella cronologia

e nello stile, sia da ascrivere alla particolare e di certo inedita struttura storica e sociale del secolo. Le due guerre mondiali hanno trasformato l’Occidente sotto ogni aspetto, alterando anche i ruoli tradizionalmente attribuiti all’uomo e alla donna. In assenza dei

padri, fratelli, mariti, per la maggior parte lontani per i combattimenti o, se reduci, invalidi

o psichicamente disadattati, le donne occuparono in questo periodo tutte le posizioni

vacanti della società, non eccettuata quella della produzione letteraria di intrattenimento. Erano anni di generale privazione e di latente paura della morte; e le donne, percependo

anche restando a casa la precarietà dell’esistenza, fecero entrare la violenza, le uccisioni e il terrore fra le quattro mura delle loro casette di città o delle loro imponenti dimore di campagna. Gli omicidi al fronte, perpetrati con le baionette, i fucili, i cannoni e le granate,

assumono agli occhi delle donne la forma del delitto borghese, compiuto all’arma bianca o, ancora più frequentemente, per mezzo del veleno. In definitiva, tra gli anni Venti fino

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 28

agli anni Cinquanta (con la conseguente propaggine delle storie spionistiche in piena Guerra Fredda), le storie criminose femminili sembrano avere l’effetto di raccontare, senza

alcuna reticenza, l’ingombrante e feroce presenza della morte nella vita quotidiana di chi rimane a casa, ad aspettare gli esiti di una guerra combattuta altrove. La brutalità è qui nascosta dietro i volti imbellettati delle padrone di casa, gli abiti fruscianti, la rarefatta

eleganza – ma è dominante, e causa vischiosi spargimenti di sangue, membra gonfie e bluastre, occhi sbarrati nell’orrore, e i numerosi altri segni della morte. Del tutto uguali a

quelli della trincea.

29 giugno 2011

S’alza il vento

In giornate dal calore insopportabile come questa ho sempre il desiderio che si alzi il vento. Un vento da nord, freddo e secco, che scacci le opprimenti bolle di calura e restituisca alle

cose i loro naturali contorni. Nelle giornate ventose, in qualunque momento dell’anno, l’immagine che cogliamo del mondo è meglio definita, i colori sono più brillanti, le acque dei canali sembrano rinvigorirsi, e il fogliame degli alberi, scosso dall’aria in moto, ci

restituisce un senso di vita, di progresso, di proiezione verso il miglioramento. Il vento mi riempie di entusiasmo, di allegria e di prospettive; e come mi piace espormi alla sua forza,

così è bello sentire raccontare il suo impeto nelle storie che leggo. The French Lieutenant’s

Woman di Fowles, Sylvia’s Lovers di Gaskell, Remarkable Creatures di Tracy Chevalier, Moby

Dick di Melville e tanti altri racconti di terra e di mare hanno legato indissolubilmente

l’infuriare del vento ad un bruciante e sublime romanticismo (teorico, naturalmente, non

sentimentale) e dunque con l’idea dell’ancestrale tenacia e del titanismo dell’essere umano, che gode della potenza degli elementi poiché in essa ritrova la propria grandezza, il proprio afflato alla sopravvivenza. Ed è proprio nella tragedia che la sua resistenza trionfa,

eticamente ed esteticamente: perché come Heathcliff nelle Cime tempestose di Emily Brontë,

anche nel cuore della sciagura l’uomo viene nobilitato dall’empito delle sue passioni.

9 luglio 2011

Gli occhi nelle parole

Ultimamente, ogni volta che esco di casa per andare al lavoro, a fare la spesa, o solo per

una passeggiata, mi sorprendo ad osservare, talvolta anche a lungo, i particolari del contesto in cui mi trovo. È come se la città, o la campagna fuori dal finestrino del treno o

della macchina, si destrutturassero in una sequenza di immagini parcellizzate, ciascuna ricca di valore visivo e di potenziale narrativo. Ciascuna di quelle immagini è capace di

ispirarmi un ulteriore insieme di figure che lentamente, magicamente, vagano nella mia mente fino a posizionarsi in una sorta di puzzle ben definito, il quale, alla fine, si trasforma nel setting di una nuova storia. Tutto ciò che osservo per strada stimola l’idea per un nuovo

paragrafo di scrittura; e già mentre cammino avverto l’urgenza di prendere in mano il mio quadernino per prendere appunti sulle sensazioni narrative che quanto ho visto ha

suscitato in me. Considerate le mie attitudini, non sono scene aperte o situazioni conflittuali, ma sono i

dettagli a risvegliare la mia attenzione. Quest’inverno è stato un vaso di lavanda secca appoggiato ad una porta blu, in Provenza; qualche settimana fa, sotto un cielo gonfio di nubi nere e pronto al temporale, è stato il fischiettare di un uomo, che nel silenzio della

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 29

città domenicale quasi deserta di un mattino presto intonava La vie en rose; in un tramonto

di tarda primavera, è stato l’ondeggiare di un nugolo di gerani rossi appesi ad un balcone;

un giorno, in classe, è stato il profumo di bucato fresco che esalava dal maglione di uno dei miei allievi; sabato scorso, lungo una strada che attraversava un tripudio di campi di

granturco e di vigne degradanti dalle colline, è stato un roseto selvatico abbarbicato al principiare dei filari; l’altra sera è stato il luccicare improvviso di un gioiello al braccio di una passante; stamattina la vista di un’elaborata bordura di pizzo bianchissimo sul

copritavolo di una vetrina d’antiquario. Mi accorgo che questa inclinazione ad osservare e ad indugiare sulle immagini non è una

qualità innata, ma è il dono che ci regala la lettura. L’abitudine a soffermarsi sulle parole scritte ha l’effetto di rallentare le nostre percezioni al punto tale da permetterci di guardare

dentro il mondo che viene rappresentato; e poi questa propensione si sposta alla vita

quotidiana, cosicché impariamo a contemplare anche gli oggetti e i paesaggi consueti, cogliendone la profonda bellezza e inquadrandoli in fotografie dotate di una forza quasi

letteraria. Questo è il maggiore insegnamento della lettura – e rischia di farci diventare degli artisti.

18 luglio 2011

Breakfast at Tiffany’s

Sto leggendo Colazione da Tiffany di Truman Capote. Quella struggente lievità di Holly

parla di lontananza, di notti estive insonni per il miagolare arruffato dei gatti, di una tempesta di foglie ingiallite. La musica che si perde dietro una finestra aperta... Scrive

Capote: “Pranzammo a una tavola calda nel parco. Più tardi [...] corremmo cantando lungo i sentieri verso il vecchio capanno di legno per le barche, che adesso non c’è più. Le foglie

galleggiavano sul lago; sulla riva, un giardiniere ne sventagliava un falò, e il fumo che si levava [...] era la sola macchia nell’aria vibrante. [...] È l’autunno la stagione del principio,

la primavera: e io sentivo tutto questo mentre sedevo con Holly sulla balaustra del portico del capannone per le barche.”

25 luglio 2011

Francis Scott Fitzgerald

L’operazione americana è continuata, dopo Colazione da Tiffany, con Tenera è la notte di

Francis Scott Fitzgerald. Non certo le letture più allegre per trascorrere le giornate estive; devo cercare qualcos’altro.

A proposito di Fitzgerald, il suo libro che ho amato di più – quanti anni sono passati da quando l’ho letto? forse sette... – è stato di sicuro This Side of Paradise, che mi fu consigliato

dall’allora mio docente di Teoria della Letteratura all’università. Il professore, un curioso

esemplare di gentiluomo ormai fuori posto, con il panciotto, l’orologio a cipolla e l’anello al mignolo, che con voce modulata si rivolgeva agli studenti con il “loro”, sosteneva che

questo romanzo racchiudeva il vero senso della poesia. In esso si ritrovano, diceva, le sfumature di quell’azzurro goethiano che significa la lontananza, la vaghezza, la nostalgia.

Non credo si sbagliasse.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 30

1 agosto 2011

The Postmistress

La settimana scorsa ho notato, nella sezione dei romanzi in lingua della libreria Feltrinelli,

The Postmistress di Sarah Blake. Come spesso accade, sono stata dapprima attratta dalla

copertina – a dimostrazione che gli accessori visivi di un testo scritto sono

cronologicamente predominanti rispetto alla scrittura stessa, e che quindi anche la letteratura è oggi più che mai un’espressione di marketing – e poi dal piatto inferiore, che

mi ha persuasa che non potevo fare a meno di leggere questa storia. Anche questo racconto, come tanti altri fra quelle che amo di più, sboccia dalla presenza

– o dall’assenza, in questo caso – di una lettera. Una lettera perduta che sembra svolare leggera nell’aria acre delle bombe di Londra, che affronta i venti oceanici, che approda nei cieli limpidi di un’America ancora intatta dalla guerra... e che non raggiunge il suo

destinatario. Le atmosfere risvegliate da questo romanzo, opera prima della statunitense Sarah Blake, sono quelle del rimpianto e dell’amore osteggiato dal destino, che sullo

sfondo del secondo conflitto mondiale danno luogo ad un intensissimo paesaggio geografico ed emozionale. Anche il booktrailer incoraggia sensazioni di struggimento e di

segretezza, e induce noi, lettori che adorano le storie di messaggi fatali e di vite trascorse appassionatamente dietro le quinte della guerra, ad annoverare anche questo tra i romanzi che non possono mancare tra le serrate fila delle nostre biblioteche.

2 agosto 2011

It all started with a letter

Una lettera nascosta, o rimasta chiusa, dimenticata, ingiallita, perduta per anni negli

ingranaggi del tempo è sempre lo spunto per una buona storia. Poche righe vergate nel cuore di una busta spalancano le porte dell’immaginazione, poiché risvegliano infinite

congetture sul mittente, sul destinatario, persino su un possibile sottotesto; e anche la qualità e il peso della carta, l’accuratezza della grafia, la tenacia dell’inchiostro possono raccontare un intero mondo. Chi ha spedito quella lettera? A chi è rivolta? Perché è stata

scritta? Qual era lo stato d’animo dello scrivente mentre la stendeva? Si è poi pentito di averla inviata? Si è emozionato, arrabbiato, commosso sopra quelle parole? Una lettera

narra del legno dello scrittoio, della penombra di una stanza, dei rumori della casa o del prato, della pioggia caduta, delle notizie alla radio, del presente e del passato degli esseri

umani. Per questa ragione è il movente perfetto per una narrazione. In The Postmistress (tradotto in L’ultima lettera, Sarah Blake), che sto leggendo in questi

giorni e di cui ho parlato nel post precedente, una lettera mai consegnata è il fulcro della

storia; ma anche The Distant Hours di Kate Morton (Una lontana follia) prende le mosse da

una lettera, arrivata alla sua destinataria con decenni di ritardo; la magnifica tragedia di

Atonement (Espiazione, Ian McEwan) si innesta dalla sventurata lettera di Robbie a Cecilia

intercettata dalla sorellina di lei, Briony. The Aspern Papers (Il carteggio Aspern) di Henry

James gira tutto intorno alle carte, appunto, del poeta morto; e in generale tantissimi racconti del mistero, e non necessariamente detective stories, hanno per principio, o per

culmine, o per catarsi, un pugno di parole scritte a mano o a macchina su un foglio di carta. Perché le parole scritte, come dice il proverbio, manent; e come tali rimangono indelebili e

indimenticabili, serie testimoni di eventi e di emozioni che meritano sempre di diventare il soggetto di un racconto.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 31

5 agosto 2011

I booktrailer

Negli ultimi post ho fatto riferimento ai piani di marketing che oggigiorno accompagnano

l’uscita e sostengono la pubblicità per un nuovo libro. Le copertine sono estremamente curate, sul piatto spiccano brani delle recensioni più entusiaste, e le sinossi infilano poche

ma argute parole che riescono a convincere il lettore a portare quel volume alla cassa, oppure a tornare in fretta a casa e scaricarlo dalla rete per farlo riapparire sul suo e-reader.

Esiste però una nuova (o almeno io l’ho scoperta solo di recente, e solo per pochi dei libri che leggo) strategia di promozione commerciale che si basa tutta sull’avidità di immagini e di suoni di cui la nostra società è pervasa, e che si chiama booktrailer. Un filmato, cioè, di

una manciata di minuti, in cui una musica in sottofondo, delle diapositive sfumate l’una nell’altra, talvolta delle voci lontane, o passaggi di un’intervista agli autori evocano la

percezione che nel libro sia racchiusa una storia imperdibile, piena di atmosfera, fatta di personaggi vivi e visibili, come in un film. È difficile, dopo aver visto uno di questi trailer,

trattenersi dal procurarsi il romanzo. Alcuni fra i più belli in cui mi sono imbattuta – in inglese e in italiano – li elenco qui sotto (i link portano tutti a Youtube). E meritano davvero

di essere visti! Kate Morton, Il giardino dei segreti, http://www.youtube.com/watch?v=HXkXoSWYzlk

Kate Morton, The Distant Hours, http://www.youtube.com/watch?v=dx_reWOhYx0

oppure http://www.youtube.com/watch?v=cW3YyTMFgzY Sarah Blake, The Postmistress, http://www.youtube.com/watch?v=1KdP_zEDMY8

Jamie Ford, Il gusto proibito dello zenzero,

http://www.youtube.com/watch?v=VXSWekEaqKI

Clara Sanchez, Il profumo delle foglie di limone,

http://www.youtube.com/watch?v=VtNO5xG0eL4&feature=related

Mark Mills, House of the Hanged,

http://www.youtube.com/user/HarperFiction?blend=1&ob=5#p/u/0/T9iXtq7xHnU

11 agosto 2011

Passage to England

11 agosto, ore 14. Nelle prossime due settimane questo blog risponderà più precisamente

alla sua definizione di diario, poiché riporterà le tappe del mio a lungo atteso viaggio in Inghilterra. Così facendo non tradirà tuttavia la sua natura di raccoglitore di idee letterarie, giacché ogni viaggio è di per se stesso un racconto, e ogni tragitto somiglia alla successione

delle pagine di un libro, molto spesso ricco di splendide immagini, e anche di suggestioni e di richiami ad altre forme, più classiche, di narrativa. Mentre scrivo ci stiamo inoltrando

sempre più profondamente nella campagna francese del nord: una lunga immutevole sequela di campi arati e di ordinati raccolti sotto un cielo via via più cinerino, come si confà

al retaggio storico di questa regione. Attraversando questi departments non posso che

rievocare le scene delle battaglie della Grande Guerra, allorché i pensieri dei soldati sfiniti nelle trincee contrapposte si levavano a questo stesso cielo biancastro, intonando rade

speranze, memorie, e qualche volta persino brani di poesie. .....

Ore 17.30. Il cielo s’è aperto, e un’aria azzurra brilla sulle sterminate chiome dei campi, d’ambra e d’oro come le trecce della Marianna. Stiamo percorrendo la Route des Anglaise,

che tanti autori britannici hanno solcato all’inizio dei loro viaggi sul Continente....

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 32

..... Ore 19.10. Ci siamo lasciati alle spalle il bivio e il segnale stradale che indicava Dunkerque.

Un grande nome, una grande tragedia, un grandissimo romanzo: Atonement (Espiazione)

di Ian McEwan.

12 agosto 2011

The South West

Ore 12. Appena riemersi dal Chunnel e superato il solito ingorgo che perimetra la città di

Londra abbiamo preso la direzione del South West, quella regione dell’Inghilterra che si distingue per la dolcezza delle colline, il fluire dei campi imbionditi, i boschetti dal verde cupo che si stagliano contro le nuvole perlate di un cielo basso e fresco. Sono i segni di

quel Sud tanto ben descritto in North and South di Elizabeth Gaskell, di quella vastità

ondulata che dal Sussex arriva fino al Devonshire – e sembra di ripercorrere le tracce della

carrozza che in Ragione e sentimento di Jane Austen allontana le sorelle Dashwood dalla

casa della loro giovinezza per condurle verso una nuova vita.

.... Ore 15.50. Entriamo in Cornovaglia!

14 agosto 2011

Nel cuore della brughiera

Ieri sera abbiamo cenato in una locanda risalente all’undicesimo secolo, la Old Inn di St.

Breward, nel cuore della Bodmin Moorland. Per raggiungerla è stato necessario percorrere una decina di miglia delle stradettine anguste e tortuose che s’intarsiano nella brughiera come fili in un cuscino: popolate di mucche, pecore, cavalli e lepri, ci hanno condotti lungo

immense distese d’erica (heather) e di folto terriccio morbido e acquitrinoso (boggy). Il

ritorno al cottage si è svolto alla sola luce dei fari della macchina, perché la luna piena si

celava e si disvelava velocemente dietro le nuvole alte; e in quel buio animo della campagna ho ripensato ai grandi racconti inglesi che della brughiera hanno fatto non solo

un setting, ma quasi una ragione d’essere. Ho pensato alle storie gotiche di Daphne du Maurier (Rebecca, Jamaica Inn), che da queste parti è vissuta a lungo; al Mastino dei

Baskerville di Conan Doyle, ambientato proprio qui; e soprattutto alle Cime Tempestose di

Emily Brontë, alla disperazione di Catherine che vaga sotto le tempeste prima da creatura viva, e poi da fantasma, alimentando il folle amore implacabile di Heathcliff con alte grida

e gelide lacrime, per l’eternità.

16 agosto 2011

Di miti e d’altri racconti

La forza evocativa narrativa della Cornovaglia è percepibile in ogni curva delle sue strade, in ogni baia, in ogni anfratto. Basti pensare che questo è il luogo di principio e di fine del

più indimenticato protagonista della mitologia britannica, quel King Arthur che, da figura storica di strenuo combattente contro l’invasione dei Sassoni (molto interessante, a questo

proposito, il ciclo di romanzi di Bernard Cromwell), si è trasformato in un vero e proprio eroe dall’aura redentrice. Secondo la leggenda al castello di Tintagel, le cui rovine abbiamo

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 33

visitato a nord della regione la scorsa domenica, Artù fu concepito da re Uther e dalla regina Igraine e poi cresciuto dal wizard di nome Merlino che abitava in una grotta (anche

questa visitabile) presso la spiaggia. E dopo tutte le sue vicende e vicissitudini, gli amori con Ginevra e Morgana, il rapporto contrastato con l’amico Lancelot, la Tavola Rotonda

(che si può vedere a Winchester), l’utopia di Camelot e l’inizio di quelle avventure che hanno generato il filone narrativo dedicato alla ricerca del Santo Graal (che anche nel XXI secolo costituisce il motif di straordinari bestseller), Artù ha gettato la sua magica spada

Excalibur proprio nel lago vicino al cottage dal quale sto scrivendo, e su una barca solitaria è stato trasportato, ferito a morte, verso Avalon, il wahlalla degli eroi. Da lì non è mai

tornato: e se una scuola di pensiero vuole i suoi resti sepolti sotto la cattedrale di Gloucester, un’altra corrente immagina che egli stia solo attendendo il momento di

ritornare alla vita terrena per liberare da ogni male e per sempre la sua Britannia. E come scriveva un librino illustrato che mi donò la mia maestra delle scuole elementari, la sagoma del grande re in groppa al suo destriero con la spada sguainata è talvolta ancora ritrovabile

nella forma delle nuvole.

17 agosto 2011

Donne che scrissero in Cornovaglia

E poi c’è stata la rivelazione Fowey. La piccola città affacciata sul mare dove Daphne du Maurier si è ritirata per scrivere è un gioiello di perfezione pittoresca per le sue stradine

sinuose, i negozi dalle facciate multicolori, il castello di St. Catherine che dalla sommità di un promontorio boscoso guarda benevolo alla spiaggia. Tra le infinite vetrine del paese

molte sono dedicate ai libri, e il Du Maurier Literary Centre è di certo la più importante. Il

mio souvenir è stata una raccolta di racconti intitolata The Doll come il primo della

collezione, una storia gotica che si ritiene essere il primo esperimento letterario dell’autrice, scoperta solo di recente. In queste sere trascorse nel cottage, nei minuti che precedono un sonno profondo e

tranquillo, conciliato dal silenzio assoluto della brughiera, sto leggendo invece Coming

Home di Rosamunde Pilcher, che cita moltissimi dei luoghi che sto visitando (Penzance,

Truro, Falmouth, Bodmin, Newlyn...). La scrittrice infatti è vissuta a lungo a St. Ives, villaggio di pescatori e soggetto di tanti capolavori di artisti, con le spiagge d’oro e le acque

di giada: nelle sue storie Pilcher lo ha chiamato Porthkerris e lo ha trasformato in un crocevia di tanti intrecci romantici. Ma le descrizioni geografiche della Cornovaglia sono

l’aspetto più riuscito delle sue narrazioni: ed è bello leggere le sue pagine e sentire gli stessi suoni del mare, vedere la stessa luce azzurra, percorrere le stesse campagne, ascoltare lo stesso vento, rimirare le stesse nubi.

23 agosto 2011

Londra: diario di viaggio

Aveva ragione Kafka a pensare che o si vive o si scrive. I quattro giorni trascorsi a Londra

sono stati così infervorati che non è stato possibile neanche ricordare di aggiornare questo blog. Ma ora che siamo di nuovo on the road, e c’è di nuovo la Francia ad occupare tutti e

quattro i punti cardinali, posso tornare con calma ai ricordi della capitale, e rigodere nella memoria della sua bellezza con tutta l’intensità che l’immaginazione umana è in grado di

risvegliare (come scriveva Wordsworth nella sua The Solitary Reaper).

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 34

Più che essere paragonata ad un libro da leggere e sfogliare, Londra è una biblioteca. Ci sono le sue plaques azzurro scuro, che sparse sui suoi muri recano testimonianza del

passaggio dei grandi della letteratura (una app molto carina, e utile se si vuole pianificare

un tour, si chiama appunto “Blue Plaques” e le elenca tutte, sia dentro che fuori la città).

Westminster Abbey porta la traccia della loro fine terrena, a beneficio dell’imperitura fama dei loro scritti. Nel cortile intorno alla cattedrale di San Paolo, St. Paul’s Churchyard, si respira ancora il fermento politico e intellettuale del decennio finale del XVIII secolo.

Lungo Fleet Street sembra di vedere Dickens correre trafelato a consegnare le bozze di un nuovo numero dei suoi romanzi a puntate. I meandri scuri del grande fiume riportano alla

mente le vicende al limite del tragico di uno dei suoi libri migliori, Il nostro comune amico. I

giardini di Kensington riecheggiano ancora degli strilli dei bimbi sperduti riuniti insieme

alle fate alla base della statua dedicata a Peter Pan. E altre migliaia di storie, di scrittura e di vita, si intrecciano fra le strade, i parchi e i palazzi, e lungo i corridoi degli immensi musei e delle gallerie d’arte che si moltiplicano ad ogni orizzonte della città.

E poi c’è un luogo magico, The Shakespeare’s Globe, che nonostante sia una riproduzione del mitico teatro andato a fuoco nel XVII secolo, ricalca la fascinazione dell’epoca in cui

il Bardo in persona scriveva per questo palcoscenico, e gli attori ne declamavano i pentametri in una “O” (così si definisce il teatro – o il mondo? – nel prologo di Henry V)

straripata di popolo, che per un penny poteva assistere, con gran clamore, alle imprese degli eroi dell’antica Roma, della storia britannica, delle novelle italiane, delle fiabe. La ricostruzione del Globe, opera di un ammiratore americano che ha saputo raccogliere

fondi in tutto il mondo per la realizzazione di un ideale incomparabile, è basata sulle descrizioni più vivide del tempo, e rispetta le usanze del suo eccelso archetipo: le

rappresentazioni si svolgono, come allora, alle 14, e il loro costo, intorno ai 5£, recupera l’intenzione di fare del teatro uno spettacolo democratico, capace di soddisfare l’emozione

e la partecipazione di tutti gli amanti di Shakespeare, di Christopher Marlowe (che avrebbe forse potuto emularlo se non fosse stato assassinato tanto giovane), e in generale della vera

e ineguagliabile età d’oro del play.

27 agosto 2011

Stori(e) dell’arte

Durante il lunghissimo viaggio di ritorno dall’Inghilterra sono sprofondata nella lettura di un delizioso romanzo di Iain Pears, Il caso Raffaello, che apre una serie di sette libri,

pubblicati tra il 1990 e il 2000, con protagonista Jonathan Argyll. Costui è un giovane

inglese in trasferta in Italia, dottorando in storia dell’arte (destinato poi a diventare mercante d’arte), coinvolto in un caso di sparizione di un presunto quadro di Raffaello.

Suoi compagni d’avventura in questa e nelle altre storie sono un generale della polizia e una sua collaboratrice, entrambi membri di un immaginario nucleo investigativo romano

che si dedica proprio a contrastare il contrabbando di opere d’arte e la loro illegittima fuoriuscita dall’Italia. La storia è molto ben scritta, vivace, intrigante, e densa di quella accurata competenza artistica propria dello scrittore (che infatti è uno storico dell’arte).

Stamattina ho concluso il secondo romanzo del ciclo, Il comitato Tiziano, ambientato in una

Venezia autunnale piovosa e tormentata dall’acqua alta, mentre ho appena cominciato Il

busto del Bernini, il cui setting iniziale è Los Angeles. Ma considerati gli altri due racconti,

credo proprio che l’Italia non sia troppo lontana....

Page 35: Annuario 2011 IpsaLegit

Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 35

8 settembre 2011

Storie di famiglia

Questo pomeriggio, in una delle mie solite incursioni in libreria alla ricerca di novità da

procurarmi o di cui scrivere magari in questo blog, mi sono imbattuta in un volume molto accattivante, L’eredità segreta di Katherine Webb. L’immagine di copertina ha subito

stimolato una catena di ispirazioni, ma aprendo il risvolto per saperne di più ho scoperto di aver già letto il romanzo, nella sua versione inglese intitolata The Legacy.

La storia è una storia di famiglia che cresce dal seme di un segreto. Dopo la morte della severa nonna Meredith, padrona di Storton Manor, le sorelle Calcott ritornano da eredi

nella magnifica casa del Wiltshire, scena delle estati della loro infanzia. Rivivono allora il ricordo della tragica sparizione del cugino Henry, che aveva lasciato la famiglia distrutta. Erica, la più forte delle due sorelle, per guarire la depressione della maggiore decide di

scoprire cos’è successo a Henry, in modo da chiudere i conti con il passato e permettere a sua sorella di ritrovare la serenità. E frugando tra le carte della nonna, Erica viene a

conoscenza della vera storia della sua famiglia e fa una scoperta sconvolgente sulla sua bisnonna Caroline, un’affascinante ereditiera di New York che si era trasferita per amore

nel selvaggio Oklahoma all’inizio del Novecento, segnando con la sua vita avventurosa il destino dei Calcott. L’idea di un mistero, spesso drammatico, che agisce come parassita devastante all’interno

del microcosmo chiuso di una famiglia, è sempre l’ottimo movente per una storia (non manca mai nei libri di Kate Morton, ad esempio...): e anche il nuovo racconto che ho

appena iniziato a scrivere nasce da questo germe narrativo.

11 settembre 2011

Storie di case

L’aspetto più piacevole del romanzo che sto leggendo in questi giorni, Blackberry Vine di

Joanne Harris, è il racconto di come Jay si impossessa e si insedia gradatamente nello

chateau francese che ha acquistato sull’onda dei suoi ricordi d’infanzia. È bello leggere di

come le case, spazio predeterminato della vita dell’uomo, vengano restituite alla vita e alla

funzionalità; nel paziente e talvolta faticoso processo di restauro o semplicemente di recupero di un ambiente domestico sta la natura essenziale dell’homo sapiens, quell’ambizione all’ordine e alla stabilità che ancora oggi qualifica la nostra esistenza. Le

lingue anglosassoni esprimono meglio delle romanze la differenza tra la casa intesa come semplice edificio – the house, das Haus – e la casa quale ambito dell’estrinsecazione

dell’identità – home, Heim. La riabilitazione di una casa dismessa, cadente o abbandonata è una forte affermazione di umanità: ne è dimostrazione il commovente passaggio di La

brava terrorista di Doris Lessing, in cui la protagonista combatte contro tutto e tutti pur di

rendere ad una casa deserta e poi occupata abusivamente la normalità della pulizia e del

naturale funzionamento (l’acqua corrente, la corrente elettrica, la spesa alimentare). Questo tipo di racconti è più tipico della scrittura femminile – mi vengono in mente Louisa May Alcott, Rebecca West, Katherine Webb; ed è il vero soggetto di Under the Tuscan Sun

di Frances Mayes, da cui è stato tratto un luminoso film con protagonista Diane Lane.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 36

19 settembre 2011

Dedicato a Jane Austen

Ho deciso di dedicare i miei prossimi post alla scrittrice che più di ogni altro autore mi ha

colmato il cuore di delizia. Jane Austen, la responsabile della mia educazione sentimentale, non è solo una mente sopraffina, una penna magistrale, un’inarrivabile

narratrice e una squisita ritrattista della sua epoca e del genere umano; Jane Austen è un movimento, un ideale, un modo d’essere e un modello cui aspirare, la più perfetta

rappresentazione della donna, il più alto capolavoro di letteratura d’ingegno, di costume e d’emozione delle cui opere possiamo pregiarci. Solo raramente ho finora citato in questo diario online il nome e l’opera di Jane Austen:

questa scelta è stata dovuta al fatto che per lei un post breve, incisivo e dalla netta inclinazione tematica come sono quelli di questo blog sarebbe stato troppo poco. E infatti

ho menzionato qui solo superficialmente anche Henry James, e (anzi, credo mai) Shakespeare, perché sono autori che meritano un’attenzione prolungata e intensa, non solo

per la loro evidente genialità ma anche per l’incommensurabile portata vitale che hanno saputo trasmettere a decine di generazioni di avidi lettori. Sono penne che ci hanno aiutato a crescere e ci hanno resi ciò che siamo; sono autori di parole alle quali non facciamo che

ritornare, perché ci regalano conforto, chiarimento, perdono, indulgenza, stupore, pura bellezza.

Lo spunto per aprire questa discussione su Jane Austen mi viene da due blog a cui mi sono recentemente iscritta, il primo italiano, Un tè con Jane Austen, il secondo americano, The

Republic of Pemberley. Sono entrambi siti contraddistinti da una eccezionale cura,

ricchissimi di stimoli intellettuali, attente descrizioni e interessanti rimandi e associazioni.

Il blog italiano, in particolare, è molto ben studiato anche dal punto di vista grafico. Grazie a questi due esperimenti socioletterari (dal 3 ottobre parte, su Pemberley, un gruppo di

lettura online di Persuasion), per la prima volta sento che i libri possono determinare un

senso di appartenenza, anziché di isolamento; e che la passione per un’anima perduta nel tempo, che però resta in vita grazie alle parole, può accomunare spiriti affini fino a suscitare

delicate amicizie. Anch’io dunque voglio dedicare un po’ di questo mio adorato e coccolato spazio alla

nostra amata Jane. Scriverò di lei, della sua opera, dei suoi personaggi, delle versioni extraletterarie che sono state evocate dalle sue storie. Senza mai dimenticare che dietro a

ciascuna delle sue frasi, aggraziata, solenne, malinconica o gaia che essa sia, si intravvede come attraverso un riverbero lo spirito di una donna dalla personalità eccezionale.

25 settembre 2011

Una biografia di Jane

L’eccezionalità della vita di Jane Austen sta nella sua non eccezionalità. “La più perfetta artista tra le donne, la scrittrice i cui libri sono tutti immortali” (V. Woolf) nacque a

Steventon il 16 dicembre 1775, ultima di sette figli di un ministro della chiesa dalle mediocri possibilità economiche.

La scarsità finanziaria costituì sempre una grave preoccupazione per gli Austen, ed è per questo che nei romanzi di Jane il denaro ricopre un ruolo precipuo e appare spesso come

il vero movente dell’intreccio. Per mancanza di denaro sembra che Jane dovette rinunciare al suo vero amore; e rimase una spinster per tutta la vita, pur essendo stata chiesta in moglie,

pare, almeno due volte. In un periodo di particolari ristrettezze gli Austen furono costretti,

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 37

nel 1801, a trasferirsi a Bath, con enorme dispiacere della scrittrice che amava con tutto il cuore la campagna e i boschi del natio Hampshire e malsopportava la rumorosa

affettazione della celebre città termale. Poté infine liberarsi da Bath nel 1809 quando il fratello Edward acquistò per lei, per la sorella Cassandra e per la loro madre il cottage di Chawton, presso Winchester.

Lì Jane recuperò la tranquillità degli spazi verdi, il silenzio, le pacifiche passeggiate nei boschi e una vena narrativa straordinaria, spesa presso un minuscolo tavolino da scrittura:

nel 1811 esce Sense and Sensibility, nel 1813 Pride and Prejudice, nel 1814 Mansfield Park, nel

1815 Emma. Ultimò faticosamente Persuasion (pubblicato postumo) quando la malattia le

lasciava ancora poca tregua; e morì infine nel 1817 per essere poi sepolta nella cattedrale di Winchester.

La biografia più sentita e accurata dell’autrice è il Memoir del nipote James Edward Austen-

Leigh; e anche l’epistolario di Jane, pur deprivato di tutte le lettere che ella stessa chiese a Cassandra di bruciare, è una straordinaria fonte di informazioni per poter immaginare

come si svolgesse la sua vita. Nel 2003, poi ripubblicato nel 2007 dopo l’uscita del fortunato film omonimo dove Jane è impersonata da Anne Hathaway, è uscito per la prima volta

Becoming Jane Austen di Jon Spence, che rivive la giovinezza della scrittrice sfruttando

alcune sue lettere per ricostruire la sfortunata storia d’amore con Tom Lefroy (interpretato

nel film da un bravo James McAvoy). Il racconto di Spence offre la figura di una Jane romantica e appassionata, un ideale che

soddisfa pienamente i milioni di Janeites (così si definiscono i contagiati dalla “Austen-

mania”) sparsi in tutto il mondo; nonostante le fonti storiche a suffragio di tale interpretazione del rapporto con Mr. Lefroy non siano né certe né numerose, il pensiero

che nei forti sentimenti di Marianne Dashwood, Elizabeth Bennet e Anne Elliott Jane Austen abbia voluto raccontare i propri ce la fa amare, se possibile, ancora di più.

30 settembre 2011

Ladies by Jane Austen

Il campionario femminile che ci offrono i romanzi di Jane Austen è così completo e ben

definito da sembrare un manuale di comportamento. L’epoca della Reggenza, infatti, ne produsse numerosi; e talvolta sembra davvero che

anche la nostra autrice abbia voluto indagare i modi di fare e d’essere delle donne (e degli uomini). Il suo, però, non è mai un intervento censorio, severo, o pregiudizievole: la sua penna indugia su pregi (meno) e difetti (con maggiore attenzione) con il preciso e semplice

intento di descriverli, e spesso trattandoli con delicata ironia. Le ladies di Jane Austen sono le vere e grandiose protagoniste della sua letteratura, e sono

personaggi così “round”, ovvero piene di vita, di sensazioni e di personalità da differenziarsi nettamente l’una dall’altra, così come sono del tutto diverse tra loro le donne

della realtà. Ci sono le donne pazienti, contraddistinte dalla forza e dalla costanza del cuore, che vivono pienamente eppure conservano nell’anima segreti e inguaribili tormenti: così sono Elinor Dashwood e Anne Elliot. C’è la donna che vive sul punto di sbocciare,

eppure sembra non realizzarsi mai: così è Fanny Price. C’è la donna la cui tenerezza del cuore riesce persino ad oscurare la stupenda bellezza: ed è Jane Bennet. C’è la donna che

di comune ha tutto, tranne la potenza dell’amore: Jane Fairfax. C’è l’emanazione più sincera del romanticismo, Marianne Dashwood. C’è la donna dalla malia irresistibile ma

priva di limpidezza, Mary Crawford; e quella il cui fulgore è così intenso da rasentare la presunzione, Emma Woodhouse. L’ingenuità è rappresentata da Catherine Morland,

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 38

mentre il caleidoscopio più variegato e più attraente delle qualità femminili è impersonato dalla straordinaria Elizabeth Bennet, la donna che in molte vorrebbero essere.

Nella incredibile trasposizione in sei episodi per la BBC di Orgoglio e pregiudizio Jennifer

Ehle interpreta, nonostante l’età forse un po’ avanzata, una superba Lizzy: un sorriso

benevolo eppure arguto è la cifra del suo bel volto, un portamento sempre pronto all’energia distingue le sue membra molto “Regency”. E anche nei momenti più critici della storia, quando persino dai suoi “fair eyes” (parola di Mr. Darcy) sgorgano delle

lacrime, la sua allegria ci riempie il cuore di speranza. Così parla di lei la stessa Austen: “I must confess that I think her as delightful a character as ever appeared in print, and how I

shall be able to tolerate those who do not like her at least, I do not know”.

1 ottobre 2011

Gentlemen by Jane Austen

La letteratura di Jane Austen, così attenta alle espressioni del femminile, è anche e soprattutto uno studio dei rapporti delle donne con i coprotagonisti della loro realtà

quotidiana, gli uomini. In ognuno dei romanzi si trova il contraltare alla donna che è il movente dell’intreccio, un uomo nei confronti del quale la protagonista si pone in termini (generalmente) di amore, (spesso) di inganno, (sempre) di denaro.

Il denaro è l’aspetto senza dubbio predominante della narrativa austeniana. Le sorelle Bennet (Orgoglio e pregiudizio) e le sorelle Dashwood (Ragione e sentimento) rischiano

seriamente lo stato di spinsterhood (zitellaggine...) a causa della mancanza di una dote

adeguata: Marianne viene abbandonata dal suo amatissimo Willoughby, che le preferisce

una Miss Grey e le sue cinquantamila sterline, e Elinor viene proditoriamente allontanata da Edward Ferrars perché la sorella di quest’ultimo teme che egli possa commettere l’errore di sposare una donna senza alcuna sostanza. Verso la fine di Pride and Prejudice, Elizabeth

dichiara, non del tutto scherzosamente, di aver cominciato ad amare Darcy dopo aver visto la magnificenza della sua casa, Pemberley. E in effetti la signora Bennet passa le giornate

ad esortare le figlie al matrimonio, poiché questa è l’unica soluzione ad una sicura povertà: e l’arrivo di Mr Bingley (con le sue 5000 sterline l’anno!) a Netherfield accende tutte le sue

più vive speranze; d’altronde, “It is a truth universally acknowledged that a single man in possession of a good fortune must be in want of a wife”.

Bingley è sicuramente uno degli uomini più semplici creati da Jane Austen. Di buon cuore, sempre allegro, privo di affettazione, è la giusta altra metà per Jane Bennet, anche lei amabile e incapace di concepire il male. Mr Knightley (Emma) è l’uomo più giusto, saggio

e desiderabile del mondo, e il capitano Frederick Wentworth (Persuasion), con quel cipiglio

di residua delusione che tradisce la costanza del sentimento, è dotato di un fascino fuori

dal comune. Figure come Mr Woodhouse (il padre di Emma), Sir Walter Elliot (il padre di Anne in

Persuasion), il reverendo Collins (Pride and Prejudice) o Henry Crawford (Mansfield Park)

sono totalmente negativi, contraddistinti dalla vanità, dall’egoismo, dal viscido

opportunismo o da una certa incontenibile lussuria. Wickham, il seduttore di Lydia Bennet (e prima ancora – quasi – di Georgiana Darcy), è il villain per eccellenza, ma il suo aspetto è quanto di più attraente e simpatico si possa

immaginare. Gli altri personaggi maschili sono poi straordinariamente complessi, scissi tra moti di lealtà e ombre oscure del carattere. Darcy è, naturalmente, l’“uomo” austeniano

per eccellenza; seppur incrinata dal pregiudizio (suo per gli altri e degli altri per lui), che lo rende talvolta odioso e sgradevole, la sua personalità si rivela impregnata di una dignità

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 39

eccezionale, di bontà e di una generosità ineguagliate. Ma nemmeno Willoughby, colui che tanto dolore causa a Marianne Dashwood, è scevro di accenni di tenerezza, che alla

fine del romanzo ci fanno quasi provare pena per lui – quando Elinor lo incontra per l’ultima volta, e lui è già sposato, “Willoughby, lui, che solo mezzora prima aveva aborrito come il più indegno degli uomini, Willoughby, nonostante tutte le sue colpe, le suscitava

un tale senso di commiserazione per le sofferenze che esse avevano prodotto, che la facevano pensare a lui, ormai separato per sempre dalla sua famiglia, con una tenerezza,

un rammarico, proporzionati, come presto riconobbe dentro di sé, più ai suoi desideri che ai suoi meriti”: insomma, Willoughby l’avrebbe sposata, Marianne, se non fosse stato per

il denaro. Edmund Bertram, infine, l’(anti)eroe di Mansfield Park, è un personaggio, date la sua

ricchezza caratteriale e la sua contradditorietà, quasi novecentesco. Votato alla morale, è un uomo che sembra ambire all’immacolatezza (sostenuto in questo anche dalla cugina Fanny); eppure c’è una vena di tenebra dentro di lui, un groviglio di sensazioni che lo

fanno innamorare della maliarda Mary Crawford e che gli risvegliano istinti tormentosi. Egli, tuttavia, rifugge dall’azione; anche quando gli eventi si rovesciano catastrofici sulla

sua famiglia la sua reazione è più mesta che convinta, e la sua scelta di sposare, infine, la pudica Fanny non sembra altro che una soluzione per placare la sua coscienza.

2 ottobre 2011

Nuove rappresentazioni di Jane: i romanzi

Il nome Jane Austen non rappresenta solo la figura di una scrittrice. Nel corso della sua

breve vita ella chiese al mondo di rispettare la propria modestia: nonostante avesse deciso di vivere “della sua penna” cercò di schivare il grande pubblico anche quando la sua fama aveva perso ogni limite; ma era pur sempre la figlia di un reverendo, e la scelta di non

prendere marito se non per amore la rendeva già abbastanza anticonformista. Chissà cosa penserebbe oggi, a vedere quale insieme di fenomeni culturali, artistici, sociali, turistici e

di costume sono scaturiti in memoria del suo nome e delle sue opere. I Jane-addicted conoscono bene tutte queste nuove rappresentazioni. Sono stati in visita al

Jane Austen Centre a Bath, sono entrati con rispetto nel cottage di Chawton, hanno cercato la tomba dentro la cattedrale di Winchester e ammirato il cenotafio nel Poets’ Corner a Westminster Abbey. E ogni volta che ci ritornano non possono trattenersi dal comprare

una nuova edizione, dalla copertina ben curata o dalla rilegatura elegante, di Persuasion o

Mansfield Park. E quando visitano questi luoghi, le Janeites non dimenticano mai di

indossare un filo di perle, o un cammeo, o un nastro, o una trina, o semplicemente di portare con sé uno dei romanzi, quasi in segno di rispetto.

Sugli scaffali delle librerie si fermano sempre incuriosite ad osservare le pubblicazioni di (coraggiosi) autori che oggi saccheggiano i romanzi di Austen per inventare nuove storie

sui suoi personaggi. Non ho letto nessuno di questi libri, ma i più celebri in Italia sono i

romanzi di Pamela Aidan dedicati al punto di vista esclusivo di Mr Darcy; Amanda Grange si è interessata non solo alle idee dell’innamorato di Lizzy, nel Mr Darcy’s Diary,

ma ha ricostruito anche i pensieri del (futuro) marito di Anne Elliot in Captain Wentworth’s

Diary, dello sposo di Marianne Dashwood nel Colonel Brandon’s Diary, della “coscienza”

di Emma in Mr Knightley’s Diary. Non voglio dilungarmi troppo, quindi per conoscere i

titoli di altri spin-off da Orgoglio e pregiudizio (il più gettonato!):

http://www.web3king.com/janeausten/sequels.php.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 40

Una notizia recentissima ci informa inoltre che la straordinaria giallista P.D. James ha scritto il proprio sequel “noir” di questo meraviglioso romanzo, che uscirà in libreria (in

Inghilterra) il prossimo novembre. Le mie letture si sono intanto concentrate sui primi quattro romanzi (ma ne sono usciti altri, ad una velocità tale che non riesco a raccapezzarmici...) di Stephanie Barron, che hanno per protagonista la stessa Jane nelle

vesti di una investigatrice e abile risolutrice di delitti. Al di là dell’intreccio “giallo”, il talento dell’autrice si esprime nella sua rievocazione dell’epoca di Austen, che viene qui

rappresentata con dovizia di dettagli, tutti ben studiati e accuratamente corrispondenti alla verità storica.

17 ottobre 2011

Il segreto della collana di perle

Il segreto della collana di perle di Jane Corry (Newton & Compton) è uno di quei libri che

possono trascinarti per ore, fino al loro esaurimento. La scrittura è facile e veloce, e i personaggi piuttosto interessanti, quantunque si ritrovino tante somiglianze caratteriali fra

di loro che infine appaiono tutti quali particolari estrinsecazioni di una medesima personalità. Sono tutti, per inciso, personaggi femminili, poiché The Pearls (titolo originale

più adeguato di quello italiano, visto che non c’è alcun grande “segreto” a far da sfondo

alla trama) è la storia di un’eredità, di una collana di due giri di perle con fermaglio di diamanti che passa da madre in figlia – o nipote – nell’arco di più di un secolo. Il gioiello

è come una catena: è il simbolo di un legame che avvince le protagoniste della storia condannandole tutte ad un medesimo destino. Respira fra le pagine un forte senso di

precarietà dell’esistenza, di fallimento, di fine, e insistono davanti ai nostri occhi raffigurazioni della corporeità femminile che sembrano fungere da motif (attualmente,

bisogna ammetterlo, molto di moda, forse in obbedienza ad una inossidabile scuola di

pensiero che vuole le scrittrici impegnate a fare della loro parola un veicolo, se non addirittura una vera rappresentazione del corpo della donna) piuttosto che essere

sostanziali passaggi del racconto. Infine, la storia si dipana senza ostacoli, con una straordinaria e agilissima abilità di descrivere anche decenni nello spazio di poche righe;

ma questo sentore di tragedia che ne accompagna lo svolgimento è incombente nella mente del lettore, e si desidera arrivare presto alla fine, non già per conoscere l’esito delle vicende

di Caroline o di Grace, quanto per passare il prima possibile ad un nuovo libro, magari latore di speranza.

25 ottobre 2011

Ore inglesi

Leggere Ore inglesi di Henry James è stato come ritornare d’un tratto alla scorsa estate,

riprendere la strada della “mia” Inghilterra, immergermi di nuovo nel suo verde tenero,

nelle sue linee scoscese rivestite d’erica, nei suoi orizzonti profilati di pietre antiche. È stato come trovare su una pagina di carta le parole che mi vagheggiavano nella mente mentre

osservavo quei luoghi, ma alle quali non avrei mai saputo dare forma. Henry James – lo ripeto sempre – è lo scrittore perfetto. Non c’è scrittura che eguagli la sua, non esistono

altri esempi letterari che raggiungano la sublimità della sua sintassi e la struggente bellezza dei suoi toni narrativi e saggistici. Ore inglesi, che è un resoconto da “turista sentimentale”

– come l’autore spesso si definisce, è l’espressione del James che amo di più, ovvero del

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 41

viaggiatore, dell’emigrante che non sa trattenersi dalla commozione nell’ammirare un tramonto inglese, o nel godere di domeniche pomeriggio allietate dal fruscio delle foglie,

dal tintinnare delle tazze di tè, dallo sciabordare del mare lontano, azzurro e brillante come uno zaffiro. Quando mi capita di leggere brani come i saggi contenuti in questo libro non posso esimermi dalle citazioni, perché non ci sono parole altrui che possano renderne la

magnificenza. Per chi è stato in Inghilterra questi passi saranno dolcissime rievocazioni di un incanto che è impossibile dimenticare; per chi non c’è mai stato saranno forse un invito

irresistibile. I parchi di Londra

“La vista dal ponte sul lago Serpentine è di una nobiltà straordinaria [...]. Nel panorama

delle città europee è arduo trovare qualcosa di altrettanto bello. [...] L’ampio corso [del] Serpentine, simile a un fiume, si apre la strada tra i suoi margini alberati. Appena passato

il ponte [...], se si guarda a sinistra, oltre il cancello dei Kensington Gardens [...], si gode di una vista spettacolare: un sentiero si perde tra le querce e gli olmi sparsi.” Ricordi d’inverno

“C’è ancora qualcosa che mi riporta alla mente gli incanti dell’infanzia – l’attesa del Natale, il gusto di una passeggiata in un giorno di vacanza – nel modo in cui le vetrine

luccicano nella nebbia. [...] Ci sono effetti di luce invernale [...] che in qualche modo, rievocati, toccano le corde della memoria e addirittura la fonte delle lacrime; come ad

esempio la facciata del British Museum in un pomeriggio buio. [...] L’arioso colonnato del museo, le sue due ali simmetriche, le alte grate di ferro con i piedistalli in granito, l’intuizione delle sale in penombra all’interno, con tutti i loro tesori: indugiano tutti,

pazienti, dietro strati di atmosfera che [...] danno loro un tocco d’allegria, come di luci rosse nella tempesta.”

“[N]ella settimana di Natale [...] mi assale il pensiero della Londra di Dickens [...]. Giorni in cui i camini ardono nella penombra deserta dei club, e i libri nuovi, disposti sui tavoli,

dicono: ‘Ora hai tempo di leggermi’, e il tè pomeridiano con il pane tostato, e il gentiluomo [...] che si risveglia dal suo sonnellino. Inoltre, per un uomo di lettere, [...] questo [è] il momento migliore per scrivere. [...] Il clima crea una sorta di mezzanotte perenne e

allontana ogni possibile interruzione. Non fa bene alla vista ma è ideale per l’immaginazione.” Il Warwickshire

“I prati del Warwickshire stanno ai comuni scenari inglesi come questi ultimi stanno al resto del mondo. Per miglia e miglia non si vedono altro che ampie distese ondulate di

pascoli, ricoperti da un vellutato manto erboso [...], dove crescono siepi dall’intrico lussureggiante tra le quali [...] spuntano querce e olmi su cui si abbarbica l’edera.” Chiese in rovina

“Ho avuto spesso la sensazione che in Inghilterra il piacere architettonico più puro fosse da ricercarsi nelle rovine dei grandi edifici. [...] [N]ella misura in cui la bellezza di una

struttura coincide con la bellezza di linee e curve, con l’equilibrio e l’armonia di volumi e dimensioni, raramente ne ho tratto un appagamento intenso come quello conosciuto sul

tappeto erboso della navata di una qualche chiesa fatiscente, al cospetto di colonne solitarie e finestre vuote con le piante selvatiche a fare da cornice e le nubi veloci al posto del tetto. [I] vetusti ruderi di Glastonbury mi riportarono alla memoria [...] un’altra delle grandi

reliquie del mondo: l’Ultima cena di Leonardo. In entrambi i casi, tutto ciò che resta è una

suggestiva ombra; ma l’ombra è l’anima dell’artista.” Stonehenge

“Si possono porre centinaia di domande a questi giganti di pietra grezza, curvi nella mesta contemplazione dei loro compagni caduti; ma la curiosità cade priva di vita nella vasta

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 42

fissità soleggiata che li avvolge [...]. È davvero qualcosa di immensamente vago e immensamente profondo. [...] Posso immaginare di trascorrere un’intera giornata d’estate

seduto a contemplare le ombre che si accorciano e tornano ad allungarsi, e tessere un delizioso contrasto tra la durata del mondo e il breve intervallo dell’esperienza individuale.” Riflessioni di un passeggero

“Ma chi può raccontare la storia di un sentimento romantico quando l’avventuriero giunge

alla sua meta, quando si attarda in una vecchia casa di campagna inglese mentre il tramonto adombra gli angoli delle eloquenti stanze ed egli, vinto da quello spettacolo, fermo davanti alla finestra, distoglie lo sguardo dal ritratto di un bel volto ancestrale che

sembra osservarlo e lo volge alle dolci ondulazioni del prato che si vanno ad adagiare nel parco?”

1 novembre 2011

Phyllis Dorothy James

Phyllis Dorothy James è meglio conosciuta al grande pubblico con le iniziali dei suoi due

nomi di battesimo che hanno creato come un marchio di fabbrica per una delle forme più alte della letteratura gialla contemporanea. P.D. James, membro permanente della House

of Lords (il suo titolo è Baroness James of Holland Park), nata a Oxford nel 1920, è tuttora in attività: nei prossimi giorni è prevista infatti l’uscita di Death Comes to Pemberley, una

storia di omicidi ambientata niente meno che nella dimora dell’austeniano Mr Darcy. Il

libro, che si inserisce nella intensa produzione di sequel tratti dalle opere di Jane Austen, è un successo di pubblico ancora prima di essere apparso nelle librerie – e considerato lo

straordinario talento dell’autrice i lettori non ne resteranno di certo delusi. Ve ne parlerò, credo, già nel prossimo post; la versione ebook è già disponibile, e l’ho scaricata questo

stesso pomeriggio : ) Il primo giallo di P.D. James, Cover Her Face (Copritele il volto), fu pubblicato nel 1962, e

registrava già la presenza del personaggio che resterà per sempre legato al nome della scrittrice (come Poirot per Christie, Holmes per Conan Doyle, Maigret per Simenon o Marlow per Chandler), il comandante Adam Dalgliesh di Scotland Yard. Dalgliesh è un

detective sommamente intelligente, ma dotato anche di una inusitata sensibilità e gentilezza nei confronti delle reazioni umane all’assassinio; è un poeta (pubblicato),

un’anima venata da una costante malinconia – la moglie è morta di parto ed egli riesce difficilmente ad avvicinarsi ad un’altra donna, anche a causa del proprio lavoro –, un ricco

gentiluomo che guida una Jaguar e alla fine del servizio si rintana nel proprio inviolabile rifugio, un elegante appartamento della City affacciato sul Tamigi. Anche Londra, e in senso lato il paesaggio inglese, sono aspetti significativi della narrativa

di P.D. James. In taluni romanzi la grande città è una protagonista così appassionatamente descritta di tali e tanti passaggi del racconto da diventare a sua volta un personaggio, quasi

dotato di una propria essenza vitale. Il libro che sto leggendo in questi giorni, La stanza dei

delitti (Murder Room, 2003; il dodicesimo giallo di Adam Dalgliesh), è particolarmente

espressivo nella sua celebrazione metropolitana: ho sottolineato passi che starebbero bene nell’altro resoconto di Londra di un altro James di cui ho trattato nel post precedente. “[I]l

sogno di Londra era rimasto. Dall’adolescenza in poi si era fatto più forte e aveva assunto la solidità del mattone e della pietra, il riverbero della luce del sole sul fiume, la solennità degli ampi viali e l’angustia delle strette viuzze che portavano a cortili seminascosti. [...]

Lei pensava a Londra come un navigante potrebbe pensare al mare: era il suo elemento

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 43

naturale ma aveva un potere che incuteva timore e lo affrontava con guardinga cautela e rispetto.”

I gialli di P.D. James che trattano delle indagini di Adam Dalgliesh sono, in ordine cronologico: 1962 - Copritele il volto (Cover Her Face)

1963 - Una mente per uccidere (A Mind to Murder) 1967 - Per cause innaturali (Unnatural Causes)

1971 - Scuola per infermiere (Shroud for a Nightingale) 1975 - La torre nera (The Black Tower)

1977 - Morte di un medico legale (Death of an Expert Witness) 1986 - Un gusto per la morte (A Taste for Death) 1989 - Una notte di luna per l’ispettore Dalgliesh (Devices and Desires)

1994 - Morte sul fiume (Original Sin) 1997 - Una certa giustizia (A Certain Justice)

2001 - Morte in seminario (Death in Holy Orders) 2003 - La stanza dei delitti (The Murder Room)

2005 - Brividi di morte per l’ispettore Dalgliesh (The Lighthouse) 2008 - La paziente privata (The Private Patient) E per gli amanti del giallo puro, quello che non nasconde la mancanza di idee dietro le

indulgenze nel sangue e nelle viscere sul lettino dell’anatomopatologo, sono libri eccezionali.

8 novembre 2011

P.D. James a Pemberley

In questi giorni mi sto godendo il nuovo romanzo di P. D. James, Death Comes to Pemberley,

e lo sto leggendo con una lentezza per me inusitata; per quanto sia curiosissima di sapere come si concluda la vicenda, non voglio precorrere i tempi e sento già il dispiacere di

quando l’avrò finito. In attesa dei commenti finali, destinati al prossimo post, mi piace ascoltare l’intervista rilasciata dall’autrice a presentazione del suo libro; il video è in

inglese, e vale la pena di essere visto anche solo per ammirare lo sguardo ancora limpido e arguto dell’anziana scrittrice (ecco il link: http://vimeo.com/31252065). Per facilitare la comprensione da parte di tutti, tuttavia, ho cercato di tradurre i passi salienti della

conversazione: “Jane Austen è prepotentemente la mia scrittrice preferita, e lo è da moltissimi anni; ho

cominciato a leggerla nella mia infanzia, e i suoi sono stati i primi libri che io abbia letto. Li rileggo ancora e ancora; credo di rileggerli tutti una volta all’anno, e in parte li conosco

a memoria. Penso sia così per tutti i suoi ammiratori; ella vive nella nostra immaginazione. Credo sia perché anche i suoi personaggi vivono dentro di noi che ci sembra di conoscerli così da vicino; siamo sempre tentati di chiedere: ‘Cos’è accaduto dopo?’. Tutti i suoi libri

finiscono con un buon matrimonio, sono tutte storie romantiche che rispondono ad un modello di base – c’è una giovane donna attraente che vive molte difficoltà, ma le supera

e alla fine sposa l’uomo che si è scelta. E immagino che noi ci chiediamo, ‘D’accordo, ma poi cos’è successo? Hanno avuto dei figli? È andato tutto per il verso giusto? Si sono

sistemati bene? Cos’è successo?’ Per questa ragione in molti hanno effettivamente scritto dei sequel – io non li ho letti, e non ero minimamente tentata di scriverne uno, perché, essendo una scrittrice, la creazione dei miei personaggi per me è molto importante, e non

sentivo il bisogno di usare il lavoro degli altri. Ma l’altra mia passione è scrivere gialli, e

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 44

ho trovato irresistibile l’idea di mettere insieme questi due miei amori: esaminare un matrimonio felice, come sappiamo è stato quello di Darcy ed Elizabeth, e rispondere ad

alcune domande che il libro [Orgoglio e pregiudizio] lascia irrisolte – la più importante è lo

straordinario cambiamento nel carattere di Darcy nel periodo intercorso tra la sua prima

proposta di matrimonio ad Elizabeth e la seconda, andata a buon fine; e contemporaneamente vedere se ero in grado di costruire un giallo con degli indizi e una soluzione razionale che il lettore potrebbe aver scritto di proprio pugno obbedendo alla

deduzione logica (gli indizi compaiono tutti nel libro) e arrivare alla fine ad una soluzione del mistero. Ho voluto che l’ambientazione fosse rurale, un’ambientazione che mostrasse

il contrasto tra il mistero da una parte e l’ordine, la pace, la civiltà che Pemberley rappresenta dall’altra. Nel libro Pemberley è il simbolo della civilizzazione raggiunta nella

sua epoca; fuori poi ci sono due terreni boschivi, di cui uno è una creazione dell’uomo, il risultato del progetto di un celebre architetto paesaggista; l’altro è invece lo spazio selvaggio, situato a nordovest rispetto alla casa, attraverso cui si trova l’ingresso al

quartiere della servitù e il passaggio verso le stalle. Questo territorio rappresenta la tenebra e il mistero, e vi ha luogo una tragedia di cui ora non vi parlerò, ma in conseguenza della

quale nessuno osa visitarlo dopo che è sceso il buio. Si presenta dunque questo forte contrasto tra i due spazi, che pure sono così vicini: dalle finestre della casa si vedono, in

lontananza, le ombre oscure del bosco.” La passione per i personaggi austeniani, un setting che trasuda magnificenza, l’imponderabile senso del gotico, i presupposti di una tempesta di emozioni. La ricetta

perfetta per invitare alla lettura in queste giornate piovose e presto buie.

16 novembre 2011

Death Comes to Pemberley

Il libro è finito, ed è con molta nostalgia che ho voltato la sua ultima pagina (elettronica). In questi ultimi giorni, trascorsi sprofondata in questa storia, è stato come se fossi stata

invitata io stessa a Pemberley, a partecipare dei suoi ritmi delicati e a godere degli incantevoli panorami che si estendono illimitati fuori dalle sue finestre. E così terminare il

libro mi ha dato la sensazione della fine di una festa da ballo particolarmente ben riuscita, quando la carrozza ti sta aspettando davanti al portone e già albeggia, e gli altri invitati, quelli che resteranno ancora a lungo nella grande dimora, ti salutano con la mano dall’alto

del balcone. P.D. James è riuscita ad evocare il mondo austeniano con una sensibilità e una perizia non

comuni. Già nel prologo il lettore che sia nuovo alla sua narrativa ha l’occasione di scoprire il suo talento, poiché in poche pagine l’autrice riesce a riassumere con straordinari acume

e leggerezza l’intera vicenda di Orgoglio e pregiudizio, narrandola come una storia raccolta

origliando qua e là fra le case e le botteghe di Meryton, e decorandola quindi con un delizioso tono da gossip (e uso questa parola nel suo significato di “comare”, immaginando

matrone e signore vestite di trine intente a chiacchierare dietro gli angoli delle porte). Ma l’avanzare dei capitoli viene scandito da una modulazione sempre più cupa. La

luminosità del capolavoro di Jane Austen si attenua gradatamente ma infallibilmente, e presto lunghe ombre di dolore e di mistero si allungano sopra il bosco, il fiume, il cortile,

e poi la grande magione di Pemberley. Il passo che traduco qui, che si colloca all’inizio della vicenda, è a questo proposito molto significativo: “Attardandosi presso la finestra e accantonando le preoccupazioni del giorno, Elizabeth

lasciò che gli occhi trovassero riposo su quella bellezza, che le dava calma, ma era sempre

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 45

cangiante. Il sole scintillava dal cielo di un azzurro chiarissimo, in cui solo poche fragili nubi si dissolvevano, come fili di fumo. [...] Ora ella vide che il vento si era rinforzato. La

superficie del fiume era increspata di piccole onde che si riflettevano sull’erba e sui cespugli che lo costeggiavano, le loro ombre interrotte tremanti sull’acqua agitata.” E poi questo ancor lieve sentore di minaccia si concretizza nel cuore della sera, quando i

signori Darcy e i loro ospiti (tra i quali non mancano Jane e suo marito, Charles Bingley) vengono avvisati dell’arrivo di un trafelato cocchiere. “L’immaginazione le restituì ciò che

era troppo lontano per esser visto – le criniere dei cavalli scosse dal vento, i loro occhi selvaggi e le spalle tese fino allo spasimo, e il postiglione ansante sulle redini. Erano troppo

lontani perché le ruote si potessero sentire, e ad Elizabeth sembrò di star rimirando una carrozza spettrale, che silente s’involava nella notte di luna, come il temibile messaggero della morte.”

E la morte arriva in effetti a Pemberley, mentre “il vento si precipitava d’un tratto all’interno, una forza gelida e irresistibile che sembrava prendere possesso dell’intera casa

spegnendo in un momento tutte le candele”; e al di là dell’immediata tragedia della dipartita violenta di un uomo e delle conseguenze giudiziarie che si impongono su chi

appare come il suo assassino, essa porta con sé un’atmosfera torbida e pesante, piena di pensieri oscuri, di rimorsi, di dubbi fiaccanti. Il protagonista di tali e tante cupe riflessioni è soprattutto Darcy, che a causa dell’omicidio avvenuto sulle sue terre e del processo si

ritrova rispedito indietro nel proprio passato e negli imbarazzi e nelle difficoltà che avevano caratterizzato la sua vicenda personale in Orgoglio e pregiudizio. Come ella stessa sostiene

(vedi post precedente), una delle ragioni per le quali P.D. James ha intrapreso la scrittura di un sequel austeniano è stata la necessità di cercare una soluzione al carattere misterioso

di questo meraviglioso personaggio, che nella storia originale subisce una trasformazione netta e a tratti inspiegabile; e posso affermare che questo romanzo ci racconta Darcy nella

sua immensa umanità, fatta di passione, di amore, di dedizione, ma anche di paure, di ripensamenti, di debolezze. Noi lettori soffriamo insieme a Darcy per l’intero corso dell’udienza e vorremmo presto vederlo liberato dalle pene che lo affliggono; ancora una

volta l’“Uomo” creato da Jane Austen ci mette a disposizione i suoi sentimenti e le sue fragilità e ci entra nel cuore insieme alla sua Elizabeth.

E allora anche noi, già seduti nella nostra carrozza che lascia Pemberley, ci giriamo a salutare di nuovo, come se i padroni di casa, e Jane, Bingley, Georgiana, Mrs Reynolds

(ma anche Emma e Knightley, e Anne e Wentworth, le cui vicende in un modo o nell’altro James fa intrecciare alla propria storia) e tutti gli altri fossero amici che sappiamo non rivedremo presto.

Almeno fino alla prossima lettura.

21 novembre 2011

Letture… di peso

Ogni tanto, tre volte o quattro volte l’anno, mi dedico ad una lettura veramente importante. La mia formazione, del tutto improntata alla letteratura (iscritta alla facoltà di Lingue,

scelsi l’indirizzo filologico-letterario, che mi consentì di spaziare fra i veri capisaldi della storia della scrittura), ha spianato per me un percorso che mi ha sospinta verso le maggiori

opere delle penne britanniche, nordamericane, italiane, mitteleuropee. Shakespeare, Mann, Kafka, Böll, Bernhard, Schnitzler, Defoe, Fielding, Marlowe, Brecht, Kleist, Marx,

Leopardi, Pascoli, Dante, Petrarca, Dickens, Gaskell, Brontë, Eliot, Thackeray, Conrad, Spenser, Sidney, Schelling, Schiller, Hawthorne, James, Wharton sono alcuni degli autori

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 46

sulle cui pagine ho speso mesi e mesi di preparazione ad esami universitari dai programmi molto ben sviluppati, che ho amato tanto e su cui ho anche sudato un po’. Allora non

potevo concedermi letture di puro svago; non ne avevo il tempo. Finita l’università, concluso il dottorato, ho cominciato al contrario a dedicarmi a tutti quei libri che avevo sempre dovuto accantonare, ed oggi la lettura è davvero solo una passione. Talvolta, però,

sento ancora il bisogno di una lettura... di peso. Di peso fisico, certo, ma soprattutto di peso letterario. Le letture di peso di quest’anno sono state Il nostro comune amico di Dickens,

Anna Karenina di Tolstoj, Moby Dick di Melville. Ed ora tocca di nuovo a Tolstoj: dopo

numerosi tentativi ho deciso definitivamente di entrare nel mondo di Guerra e pace. Credo

che questo romanzo, da molti considerato la più alta espressione del genere, mi accompagnerà fino all’inizio del prossimo anno, e penso che il suo affollato foyer di

personaggi (tutti scalpitanti, pronti ad entrare in teatro quando il loro sommo creatore li richiamerà sulla scena) mi terrà buona compagnia. Pubblicato per la prima volta in rivista, a puntate, tra il 1865 ed il 1869, Guerra e pace

racconta di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, durante la campagna napoleonica in Russia (1812). Ma questo grande romanzo non è solo una saga familiare: con i suoi

continui e puntuali richiami filosofici, le dissertazioni scientifiche e i riferimenti cronologici, il racconto si fa forte della Storia, si imbeve di drammaticità, e scocca un

potente sguardo onnisciente che domina tutti gli eventi, da quelli microcosmici (dall’intimità del salotto aristocratico alle pieghe del cuore) a quelli universali (come la

battaglia di Borodino). Per la sua potente espressività epica e tragica, da questo romanzo sono state tratte diverse versioni cinematografiche: War and Peace del 1956, diretto da King Vidor; Guerra e pace:

Natascia – L’incendio di Mosca, colossal del 1967 diretto da Sergej Bondarčuk; Guerra e pace,

miniserie TV della RAI del 2007 diretta da Robert Dornhelm.

7 dicembre 2011

Guerra e pace

Ho terminato ora la seconda parte del romanzo di Tolstoij. Sono stati due racconti molto diversi per l’ambientazione: dapprincipio le grandi case aristocratiche dell’intatta Russia

zarista, e poi il teatro di guerra, così grande negli intenti e così piccolo nelle miserie. Ma i due fili della narrazione sono tenuti insieme dal sacro arcolaio delle Parche, e il senso

di un destino incontrollabile già incombe sui personaggi, che pure solo da poco sono comparsi sulla scena. Il dramma dell’inesorabilità degli eventi, che è la cifra delle storie degli eroi, è già ben presente negli occhi e nel cuore del principe Andrej Bolkonskij. Egli è

tormentato, sia a casa che al fronte, da una malinconia amara, una coscienza del fallimento cui è destinato il genere umano che non gli consente di godere di alcuna gioia.

Il giovane Nikolaj Rostov è invece il ritratto della disillusione, ed è ai suoi pensieri che viene affidato il raccordo tra la prima e la seconda parte del romanzo: “La nera coltre della

notte era appesa ad un braccio sopra il bagliore della brace. [...] Era solo. [...] Guardava i fiocchi di neve che volteggiavano sopra il fuoco e ricordava l’inverno in Russia, la sua casa calda e luminosa, la sua pelliccia soffice, la slitta veloce, il suo corpo sano, e tutto l’amore

e le premure della sua famiglia.” Leggere queste prime due parti è stato come farsi accompagnare da Tolstoij in un viaggio al di fuori della storia, dove si vede tutto e si soffre

di tutto, ma nelle cui vicende non ci è dato di intervenire. Come Dante con Virgilio, o come Scrooge con i suoi fantasmi.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 47

11 dicembre 2011

Guerra e pace (2)

Il romanzo di Tolstoij procede, e dopo gli esterni sui campi di battaglia mi ha riportato

nelle grandi dimore aristocratiche di Pietroburgo. In questo momento sto conoscendo meglio il personaggio di Pierre, disegnato con i tratti più alti dell’arte letteraria, che lo

rendono una figura viva, reale, pensante. I suoi pensieri sono oggi tormentati dalla malia che Hélène Kuragina esercita su di lui, una fascinazione che egli già avverte come il

pungolo di un desiderio sbagliato, infido, destinato alla disgrazia. Ma la bellezza di Hélèna è irresistibile, e le astute strategie dei suoi parenti alimentano il fuoco della sua seduzione. Pierre è praticamente, inconsapevolmente, e tragicamente, già perduto.

Il passo della cena nel palazzo del principe Vasilij, padre di lei, durante la quale il padrone di casa e tutti i convenuti tessono una tela di ragno invisibile ma indistruttibile ai fini di

spingere Pierre alla proposta di matrimonio mi ha ricordato una delle ultime scene de L’età

dell’innocenza diretto da Martin Scorsese (tratto dal romanzo di Edith Wharton). Ho rivisto

quella terribile cena in onore degli egregi ospiti Van der Luyden nel corso della quale il protagonista, Newland Archer, si ritrova infine a cospetto della propria rovina. D’un tratto,

tra una portata e l’altra, nel quieto fiume delle parole più garbate, egli si accorge che tutta la buona società di New York è, seppur muta, a conoscenza del suo amore extraconiugale con la contessa Olenska (che non a caso si chiama Ellen), e che il peso della protezione

della tribù nei confronti di sua moglie May sta rischiando di soffocarlo. La scena del film è girata con tale maestria da poter competere con il libro, che pure è a sua volta un

capolavoro. Alla fine di quella formidabile cena Archer scoprirà di aver perduto la propria libertà: e anche questo è un passo del film che merita di essere trattato con più attenzione.

Potrei parlarne in un prossimo post.

18 dicembre 2011

Il Natale di Poirot

È un ottimo periodo, questo, per dedicarsi alla lettura (e quale non lo è?). Il Natale è alle porte, recando con sé deliziose atmosfere di calore e di piccole luci, di canti lontani e di caminetti accesi. È curioso pensare a quante storie di Natale, invece, scelgano di raccontare

il lato oscuro dell’essere umano, i suoi silenzi densi di sospetto, le sue meditazioni truci, il suo passato da dimenticare.

Lo sa bene il nostro beneamato Hercule Poirot. In Il Natale di Poirot, che ho appena finito

di leggere in onore dei festeggiamenti natalizi, l’investigatore sostiene che le feste sono un

momento estremamente propizio per il delitto, poiché riuniscono famiglie divise da antichi rancori risvegliando odii e desideri di vendetta altrimenti sopiti.

Questo romanzo è magistrale nella struttura, avendo come oggetto un omicidio compiuto in una stanza “a porta chiusa”, come nella tradizione inaugurata da Poe, ed è perfetto nella delineazione dei personaggi. I quattro figli della vittima, le loro mogli, gli altri ospiti, la

servitù di casa, gli agenti di polizia sfilano davanti agli occhi del lettore come creature umane, ciascuna con i suoi segreti. E Poirot, come al solito, muove silenziosamente i fili

dell’intreccio, arrivando alla soluzione perfetta. Nonostante il delitto, il Natale torna rassicurante quando il piccolo uomo scioglie il mistero e ci restituisce la normalità del suo

impeccabile metodo deduttivo.

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Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 48

22 dicembre 2011

Natale in libreria

A Natale le librerie sono la vera casa di Santa Claus. Le sale sono decorate a festa, piene

di luci e di canti, e i lettori si aggirano con gioia tra le pile di tesori ammonticchiati qui e là, o riposti ordinatamente sugli scaffali. È un vero paese dei balocchi, dove le copertine

dei libri sembrano scintillare attirandoti verso di loro, e la carta nuova effonde un profumo che alle nostre narici sa di ciocchi, di castagne, di boschi e di neve.

I commessi, poi, anche se esausti e talvolta scontrosi, paiono trasformarsi in un piccolo esercito di folletti, che seri e industriosi trasportano volumi e volumi, e impacchettano, e annodano, e affioccano, e imbustano, e ricominciano daccapo. Cosa c’è di meglio di una

libreria nei giorni di Natale, quando finalmente si fa meno attenzione al portafoglio e si ha voglia di esaudire desideri?

Perché il Natale è un po’ il compleanno dei libri, è la loro festa, il momento dell’anno in cui li si celebra e li si coccola di più. E tanta letteratura ha ringraziato per queste attenzioni,

e a sua volta si è fatta portatrice e portavoce di quell’atmosfera tutta speciale condita di spezie e di campane, di allegria e di penombra, di caminetti, di vaniglia e di nostalgia. Vi regalo allora un breve elenco di libri che ci raccontano il Natale, per passarlo nel

migliore dei modi, e in compagnia dei migliori amici che abbiamo. Agatha Christie, Il Natale di Poirot, L’avventura del dolce di Natale, Una tragedia natalizia

Washington Irving, Il Natale vecchio

Charles Dickens, Canto di Natale, Le campane, Il grillo nel focolare, Il patto col fantasma, La

battaglia della vita

Clement Clarke Moore, Era la notte prima di Natale

Truman Capote, Ricordo di Natale

Arthur Conan Doyle, L’avventura del carbonchio azzurro

Anton Checov, Natale

Nikolaj Gogol, La sera prima di Natale

J.R.R. Tolkien, Lettere di Babbo Natale

James Joyce, I morti

Dylan Thomas, Il mio Natale nel Galles

E per la poesia: Christmas at Sea di Robert Louis Stevenson (ascoltate la versione cantata di

Sting pubblicata nell’album If On a Winter’s Night), e Nativity di John Donne.

29 dicembre 2011

Fine d’anno in compagnia dei libri

Sto trascorrendo gli ultimi giorni dell’anno all’insegna dei pensieri dolci. Avremo tante

cose di cui preoccuparci alla ripresa del lavoro, meglio concedersi ora un po’ di atmosfera

delicatamente inglese.... Il fatto di dover preparare degli incontri sull’opera di Jane Austen

per il prossimo gennaio aiuta di certo a nutrire l’aria di sapori di tè, del ricordo del profumo delle rose, del frusciare di pagine ingiallite e di sottili lavori di ricamo.

Da mattina a sera vivo in un tempo che non appartiene al presente, ma all’immaginazione e alla storia, e come al solito è un’emozione impareggiabile. Sto leggendo Northanger Abbey,

il più lieve dei romanzi di Austen, con tanta delizia e con la sorpresa che contraddistingue

quelle letture che ripeti dopo molti anni, che ti accorgi di non aver apprezzato a sufficienza e che per questo ami ancora di più.

Page 49: Annuario 2011 IpsaLegit

Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 49

Per prepararmi meglio alle mie conferenze, inoltre, sto riprendendo due importanti volumi sull’autrice di Steventon che sono The Cambridge Companion to Jane Austen e Jane Austen.

The World of Her Novels dell’espertissima Deirdre Le Faye. Quest’ultimo è un lavoro

speciale, ricco di informazioni, di dettagli, di descrizioni e soprattutto di illustrazioni, ed

ha la capacità di trascinarti direttamente nel mondo Regency facendoti gustare la morbidezza delle sete e della mussola, la vivacità di un barouche, il frastuono di un ballo, il

tenero conforto di una dimora di campagna. E a proposito di illustrazioni, quando proprio

non si può resistere a visualizzare le scene del mondo e delle opere di Austen, suggerisco di visitare mollands.net, un vero archivio di piccoli gioielli!

Page 50: Annuario 2011 IpsaLegit

Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 50

Indice Analitico degli Autori

Ackroyd, Peter p. 8

Aidan, Pamela p. 39

Alcott, Louisa May pp. 9, 35

Allende, Isabel p. 9

Augias, Corrado p. 6

Austen, Jane pp. 4, 6, 7, 13, 20, 32, 36, 37, 38, 39, 40, 42, 43, 44, 45, 48, 49

Barbauld, Anna pp. 14, 15

Barbery, Muriel p. 9

Barron, Stephanie p. 40

Bauermeister, Erica p. 9

Beccaria, Gian Luigi p. 9

Bernstein, Harry p. 25

Blake, Sarah pp. 30, 31

Braddon, Mary E. p. 27

Brodskij, Josif p. 7

Brontë, Emily pp. 28, 32, 46

Burke, Edmund p. 3

Capote, Truman pp. 6, 29, 48

Checov, Anton p. 48

Chevalier, Tracy pp. 6, 13, 14, 20, 28

Christie, Agatha pp. 7, 26, 27, 42, 48

Coleridge, S.T. p. 14

Conan Doyle, Arthur p. 7, 32, 42, 48

Conrad, Joseph pp. 5, 6, 11, 13, 45

Corry, Jane p. 40

Cromwell, Bernard p. 32

Cross, Amanda p. 4

De Lillo, Don p. 6

Defoe, Daniel pp. 7, 27, 46

Dickens, Charles pp. 7, 34, 41, 46, 48

Donne, John p. 48

Dostoevskij p. 6

Page 51: Annuario 2011 IpsaLegit

Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 51

Du Maurier, Daphne pp. 22, 32, 33

Eco, Umberto p. 10

Fielding, Henry pp. 27, 46

Fitzgerald, Francis Scott pp. 6, 29

Fogazzaro, Antonio p. 16

Ford, Jamie pp. 9, 25, 31

Ford, Madox Ford pp. 5, 7

Foscolo, Ugo pp. 15,16

Fowles, John pp. 13, 28

Franzen, Jonathan p. 6

Fruttero & Lucentini p. 7

Gaskell, Elizabeth pp. 6, 11, 13, 20, 28, 32, 45

George, Elizabeth pp. 6, 26, 27

Gogol, Nikolaj p. 48

Grange, Amanda p. 39

Hanff, Helene p. 8

Hardy, Thomas p. 22

Harris, Joanne pp. 6, 9, 27, 35

Hemingway, Ernest p. 13

Hore, Rachel p. 22

Irving, Washington p. 48

James, Henry pp. 3, 4, 5, 6, 7, 10, 20, 30, 36, 40, 42, 45

James, P.D. pp. 6, 18, 22, 27, 40, 42, 43, 44, 45

Joyce, James pp. 4, 48

Kafka, Jozef p. 33

Kyd, Thomas p. 27

Lawrence, D.H. p. 20

Le Faye, Deirdre p. 49

Leon, Donna p. 7

Mann, Thomas pp. 4, 45

Manzoni, Alessandro p. 17

Marlowe, Christopher pp. 34, 46

Mastrocola, Paola p. 21

Mayes, Frances p. 35

Page 52: Annuario 2011 IpsaLegit

Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 52

Mayle, Peter p. 9

McEwan, Ian pp. 5, 7, 8, 30, 32

Melville, Herman pp. 3, 4, 5, 6, 13, 28, 46

Mills, Mark p. 31

Moore, Clement C. p. 48

Morton, Kate pp. 5, 6, 19, 20, 22, 26, 30, 31, 35

Pears, Iain p. 34

Petrarca, Francesco pp. 15, 18, 46

Pilcher, Rosamunde pp. 21, 22, 33

Powell, Julie p. 9

Powers, Richard p. 25

Proust, Marcel p. 25

Radcliff, Ann p. 27

Richardson, Samuel p. 27

Rutherford, Edward p. 8

Salinger, J.D. p. 6

Sanchez, Clara pp. 19, 31

Shakespeare, William pp. 7, 26, 34, 36, 46

Smollett, Tobias p. 7

Stevenson, Robert Louis p. 48

Tennyson, Lord Alfred pp. 14, 22

Thackeray, W.M. pp. 7, 46

Thomas, Dylan p. 48

Tolkien, J.R.R. p. 48

Tolstoj, Lev pp. 6, 9, 20, 46

Torday, Paul p. 9

Verga, Giovanni p. 13

Webb, Katherine p. 35

Weisberger, Lauren p. 6

West, Rebecca pp. 20, 22, 23 35

Wharton, Edith pp. 5, 6, 20, 45, 47

Wilde, Oscar p. 7

Woolf, Virginia pp. 5, 7, 20, 22, 36

Wordsworth, William pp. 8, 34

Page 53: Annuario 2011 IpsaLegit

Mara Barbuni, Ipsa Legit: Annuario 2011 – pag. 53

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