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Anno IX - N° 1, gennaio/febbraio 2014 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina www.circoloathena.com Anno IX - N° 1, gennaio/febbraio 2014 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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Anno IX - N° 1, gennaio/febbraio 2014

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

www.circoloathena.com

AnnoIX-N°1,

gennaio/febbraio2014

-Autoriz.Trib.diLeccen.931del19giugno

2006

-Distribuzionegratuita

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Extra moeniaLETTERA SULLA GIUSTIZIA E...di Rino DUMA 4

Ritrovamenti occasionaliUN PREGIATO LIBRO DI P. CAVOTIdi Maurizio NOCERA 8

Correva l’anno...IL CAPITANOdi Andrea TARANTINO 11

Scrittori salentiniLA B CAPOVOLTAdi Marcella BARONE 12

Galatinesi famosiPASQUALE CAFAROdi Rosanna VERTER 14

Scultori salentiniVITO D’ELIAdi Roberto BUDASSI 17

Terra NosciaIL SALENTO DELLE LEGGENDEdi Antonio MELE/MELANTON 20

Pittori salentiniANTONIO STANCAdi Giuseppe MAGNOLO 22

Scrivevano i nostri padri...LE RIVISTE SATIRICHE A GALATINAdi Carlo CAGGIA 25

Su e giù per il SalentoA CASTROdi Rocco BOCCADAMO 26

Viaggio in Terra d’OtrantoLETORRICOSTIEREdi Mauro DE SICA 30

C’era una volta...MORRÀ PRIMA...di Emilio RUBINO 32

Tradizioni religioseLA BENEDIZIONE DELLA GOLAdi Massimo NEGRO 34

Tempi moderniFURTI...di Martino ACQUAVIVA 36

Sul filo della memoriaLA DOJA D’ARMAdi Pippi ONESIMO 37

SOMMARIO

Se per un istante Dio dimenticasse che sono una marionetta distoffa e mi regalasse un pezzo di vita, probabilmente non direitutto quello che penso, ma sicuramente penserei molto a quelloche dico.Darei valore alle cose, non per quello che valgono, ma per quel-lo che significano.Dormirei poco, sognerei di più; capisco che per ogni minuto chechiudiamo gli occhi, perdiamo sessanta secondi di luce.Mi attiverei quando gli altri si fermano, e mi sveglierei quandogli altri si addormentano.Ascolterei quando gli altri parlano e mi godrei un buon gelatodi cioccolata.Se Dio mi regalasse un pezzo di vita, vestirei in maniera sem-plice, mi sdraierei beato al sole, lasciando allo scoperto non soloil mio corpo ma anche la mia anima.Dio mio, se io avessi un cuore, scriverei il mio odio sul ghiaccioe aspetterei l'uscita del sole.Dipingerei sulle stelle un sogno di Van Gogh, una poesia di Be-nedetti e una canzone di Serrat; sarebbe la serenata che offrireialla luna.Annaffierei con le mie lacrime le rose, per sentire il dolore delleloro spine e l'incarnato bacio dei loro petali...Dio mio, se avessi un pezzo di vita... non lascerei passare unsolo giorno senza ricordare alla gente che le voglio bene, chel'amo. Convincerei ogni donna e ogni uomo che sono i mieipreferiti e vivrei innamorato dell'amore.Agli uomini dimostrerei quanto sbagliano nel pensare che sismette di innamorarsi quando si invecchia, senza sapere che siinvecchia quando si smette di innamorarsi.Ad un bambino darei delle ali, ma lascerei che impari a volareda solo.Ai vecchi insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaiama con la dimenticanza.Tante cose ho imparato da voi uomini...Ho imparato che tutto il mondo vuole vivere in cima alla mon-tagna, senza sapere che la vera felicità è nella maniera di salirela scarpata.Ho imparato che quando un neonato prende col suo piccolo pu-gno, per la prima volta, il dito di suo padre, l'ha afferrato persempre.Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare un altro uo-mo dall'alto soltanto quando deve aiutarlo ad alzarsi.Sono tante le cose che ho potuto imparare da voi...

Gabriel Garcia Marquez

Redazione Il filo di Aracne

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220info: www.circoloathena.com - e-mail: [email protected] - [email protected] del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuitaDirettore responsabile: Rossano MarraDirettore: Rino DumaCollaborazione artistica: MelantonRedazione: Giorgio Liaci, Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero VinsperImpaginazione e grafica: Salvatore ChiffiPubblicità: Giuseppe De MatteisStampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina

Se Dio m i r ega la s s eun p ezzo d i v i t a . . .

COPERTINA: “Burrasca in arrivo”Foto di Ivan Palumbo

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Premessa

Qualche tempo fa, sulla mia home page di Facebook, ho espres-so, solo di striscio, una considerazione sulla “giustizia”. Unmio ex-alunno, di intendimenti ben diversi dai miei, mi ha pre-

gato di approfondire l’importante tematica e di stabilire con lui una di-scussione. Ho accettato di buon grado l’invito, anche perché il tema mista molto a cuore.

Per una questione di riservatezza, non mi sento di rendere nota l’iden-tità dell’alunno, che chiamerò Mauro, un nome a me molto caro. Perciò,eccomi qui, pronto a dialogare con lui e con chi, eventualmente, ne abbiavoglia.

Caro Mauro,tu mi poni una domanda per la quale trovo un po’ di disagioa risponderti, non perché non abbia le idee chiare sull’argo-mento, anzi. L’unica difficoltà, che mi preoccupa non poco, staforse nel fatto che non riuscirò atrovare le parole adatte per schio-darti dai tuoi “naturali” convinci-menti, che per me sono in parteerrati e fuorvianti.

Mi auguro che riesca a persua-derti.

Tu, intanto, sforzati di entrare,senza alcuna remora, in ciò chesto per esporti. Tuttavia ricordache il mio è pur sempre un con-vincimento personale e, quindi,può essere cambiato, integrato,migliorato.

La giustizia, in senso generale,è uno dei pilastri fondamentali sucui poggiano le fortune del nostroesistere, è il collante che unisce saldamente gli uomini tra loro;se amministrata con sagacia, può rappresentare l’elemento trai-nante verso una vita migliore. Inoltre, come sostiene PapaFrancesco, “la giustizia rappresenta il gradino più alto nella scaladei valori umani ed è l’ultima e, forse anche, la più faticosa dimensio-ne terrena, raggiunta la quale ogni uomo avverte un infinito senso dibeatitudine, una levità interiore, una pace smisurata”.

Stando a questi intendimenti, una persona ‘giusta’ diventaun… angelo terreno. Il grande e indimenticato don ToninoBello asseriva che “solo Dio sa quanto l’umanità oggi abbia biso-gno di gente… con le ali!”.

In senso stretto, potrei definire ‘giusta’ la persona equa, cor-retta, imparziale e che persegue e applica i principi dell’ugua-glianza secondo buon senso, cioè secondo le leggi universaliche da sempre sono scolpite in cielo.

Pur tuttavia ritengo che la risposta sia troppo generica e non

esaustiva: manca, in altre parole, qualcosa che dia completez-za ed efficacia alla definizione, qualcosa che sappia inquadrar-la a tutto tondo e che spieghi il modo per arrivare a questosublime livello di vita.

Ora ti pongo una domanda, alla quale ti prego di risponder-mi a tempo debito.

Perché mai l’uomo tende solitamente a comportarsi in ma-niera ‘ingiusta’?

A mio modo di vedere, le ragioni sono molteplici, tutte peròriconducibili alla sua natura.

Da sempre nell’animo umano è presente un’energia ostileche ha condizionato e condiziona in negativo l’intera umanità.Essa è rappresentata dalla presenza in ciascuno di noi di un“mostro cinico e calcolatore”, che in continuazione si agita, ciprende e, in alcuni casi, domina ogni nostra azione. Questa re-sistenza negativa, che è alla base di ogni sofferenza terrena, è

una “molla infìda e ingannevole“che, da una parte, determina lefortune e i successi di alcuni indi-vidui (come gli astuti, i prepoten-ti, gli opportunisti, gli uominisenza cuore, quelli che da sempreseguono il profumo del denaro,ecc.), mentre, dall’altra, segna lesfortune dell’umanità intera econtribuisce in maniera conside-revole a creare profonde fratturenella struttura del consorzioumano.

Quest’energia malevola è la«convenienza», madre ‘adorata’dell’egoismo, dalla quale scaturi-sce una miriade di mali, come il-

desiderio insaziabile del profitto, lo sfruttamento dell’uomo edella natura, la smania di sopraffazione, l’avidità incontrolla-ta, l’avarizia esagerata, il cinismo, la depravazione, l’usurpa-zione dei diritti altrui e, addirittura, la soppressione fisica dipersone. Essa è una forza brutale, cieca e subdola, che allonta-na gli uomini tra loro, che striscia continuamente nelle pieghepiù profonde della psiche e la condiziona, assoggettandola aisuoi voraci e inappagabili voleri e bramosie.

Pertanto, forte di tale convincimento, sono dell’avviso cheuna persona diventi ‘giusta’ solo quando rifugge da simili ri-chiami allettanti e non dà ascolto al fascino seducente di sen-tirsi ricco, potente, bello, amato, superiore, invincibile. Lapresenza di questi “uomini dominanti” - e t’assicuro che nonsono pochi - determina da sempre le angustie dell’umanità.

Nel momento in cui l’uomo riuscirà a svincolarsi dalle spin-te emotive di comodo, a slegarsi dai suoi condizionamenti

4 Il filo di Aracne gennaio/febbraio 2014

EXTRA MOENIA

Papa Francesco

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egoistici, dalle situazioni vantaggiose per sé, ma dannose pergli altri, soltanto allora potrà ‘giudicare’ tutto ciò che cade sot-to i suoi sensi secondo “equità”, o, come asserivo prima, se-condo buon senso. Soltanto allora, grazie alla presenza di unritrovato equilibrio spirituale e in assenza del “tarlo che sfari-na l’idea del Bene Comune e lo dissolve”, potrà valutare ognicosa con serenità e con “animo intaminato”.

Per arrivare a ciò si rende opportuno venir fuori dal propriomondo egoistico (non è facile, ma è possibile), disancorarsi dal-

le spinte tiranneggianti dell’ego, grazie ad una acquisizionegraduale ed effettiva dei principi ispiratori della democrazia edella libertà. A tutto ciò si può giungere solo quando avremoacquisito una visione della vita meno personalistica e più so-cializzante. In quel preciso istante cominceremo ad appartene-re non solo a noi stessi ma al mondo, a sentirlo nostro, a viverlocome se fosse una nostra esclusiva interiorità, o meglio, comese noi fossimo una piccola tessera del grande mosaico comu-ne e ci sentissimo parte importante e integrante di esso.

A questo punto sarai tu a pormi la domanda su come sia pos-sibile “sbarazzarsi” delle energie egoistiche e avvicinarsi aquelle pluralistiche. Potrai trovare la risposta solo se ti acco-sterai, con umiltà e voglia di migliorarti, al più grande dei sen-timenti umani: l’Amore.

Ricorda che se un uomo è permeato da questo importante“lievito di pace” può aspirare a diventare giusto, poiché solochi ama (nel senso più nobile del significato) può capire e cu-rare i mali del mondo, in quanto li sente propri e ne soffre.

Le fortune dell’umanità si concreteranno il giorno in cui ogniessere umano saprà spendersi in funzione dei propri simili esaprà amministrare la giustizia con saggezza e nell’interessedi tutti. Per arrivare a tanto è necessario guidare, soprattutto legiovani generazioni, ad “impossessarsi dell’amore”. Questaazione educativa va fatta, giorno dopo giorno, sia in famiglia,sia a scuola, sia nella società, utilizzando gli strumenti forma-tivi più adeguati per garantire ai giovani la migliore crescita.

Le tre succitate agenzie educative devono rispondere al me-glio ai propri compiti e produrre efficaci risultati, in mancan-za dei quali i giovani crescono male ed acquisiscono ciò che dipeggio è presente nella comunità umana. Soprattutto la scuo-la deve intervenire in maniera impeccabile ed appropriata nelprocesso educativo e formativo. Il compito dell’insegnante èarduo e molto impegnativo, ma non improbo.

Sosteneva il grande ed intramontabileMahatmaGandhi chele “fortune dell’umanità passano esattamente da quello che riesconoa costruire gl’insegnanti in classe”.

Egli inoltre asseriva: “… [Come l’educazione fisica deve essereimpartita mediante l’esercizio fisico, così l’educazione dello spirito è

possibile soltanto mediante l’esercizio dello spirito. E l’esercizio del-lo spirito si fonda interamente sulla vita e sul carattere del maestro.Il maestro, perciò, deve fare molta attenzione a quello che dice o chefa, a come si comporta, a come indirizza un rimprovero, mai troppoaspro e umiliante ad uno studente pigro e indolente, a come rivolgeun elogio, mai troppo edulcorato e laudativo nei confronti dell’alun-no meritevole, a come studia la personalità degli allievi. Egli non de-ve essere sempre severo ed esigente, se non nei casi in cui il livellodella lezione è talmente alto da richiedere serietà e impegno, né tan-to meno deve essere tenero e permissivo, se non quando il momentoscolastico richiede dolcezza e tolleranza] … [Se il maestro è un bu-giardo, sarà inutile insegnare ai ragazzi a dire la verità, perché impa-reranno ad essere menzogneri. Se il maestro s’impegna poco nellavoro quotidiano, i suoi allievi saranno educati all’ozio; se, invece, èun vile non riuscirà mai a rendere i suoi ragazzi coraggiosi; se è lon-tano dall’auto-disciplina, non potrà mai insegnare i migliori princi-pi educativi ai suoi discepoli; ma se il maestro è un uomofondamentalmente responsabile e giusto, riuscirà a radicare neglistudenti il senso della giustizia, cosicché costoro, da grandi, trasmet-teranno ai loro simili il comportamento necessario per vivere bene egiudicare bene] … [Tra gli allievi che gli vengono affidati potrebbecelarsi un grande scienziato, un famoso chirurgo, un saggio filosofoo, addirittura, uno tra i migliori presidenti della Repubblica della no-stra amata India. E sinceramente sarebbe un gran peccato privarse-ne] ... [Perciò, le fortune di tanti ragazzi sono affidate unicamente almaestro, al quale i genitori consegnano i propri figli. Ecco, in questomodo, si costruiscono i successi o gl’insuccessi delle singole comuni-tà e , di conseguenza, della stessa umanità].

Di mio aggiungo che il maestro è come se avesse nella manitanti aquiloni da lanciare in cielo e da governare a seconda deiventi. Il buon maestro deve imprimere degli strattoni, a volteleggeri a volte forti, per mantenerli in quota; deve trattenere ilfilo quando la corrente d’aria è intensa, oppure lasciarlo anda-re quando è debole. Proprio grazie al filo, cioè grazie al profi-cuo rapporto instaurato con gli allievi, il maestro trasmette lorole necessarie virtù per guadagnare “il cielo della vita”. In con-clusione, il maestro deve essere una sicura guida spirituale, unesempio positivo da emulare, una continua lezione di vita.

Se riusciremo, perciò, a educare i ragazzi, te compreso, a“prendersi cura”, oltre che dei propri problemi e bisogni, an-che e soprattutto di quelli del prossimo, avremo gettato le ba-si per rendere il mondo via via più vivibile e ‘giusto’, sino adarrivare a trasformarlo in un’isola felice, forse la tanto favoleg-giata isola che non c’è.

Mi rendo pienamente conto che il cammino per arrivare infondo al viale è lungo e difficoltoso, ma è l’unico modo per ri-solvere in positivo il destino dell’umanità.

Invece tu proponi, come unico sistema per combattere le in-giustizie e il malcostume del mondo di ricorrere necessaria-

gennaio/febbraio 2014 Il filo di Aracne 5

Proverbio aborigeno australiano

Mahatma Gandhi

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mente all’uso della ‘forza’, cioè ad una rivoluzione cruenta esanguinosa. Sbagli ancora, Mauro. La rivoluzione va fatta, masenza utilizzare le armi, perché non si eliminerebbero gli erro-ri di fondo, anzi si acuirebbero, bensì rivoltando e fortificandole coscienze con robusti e sani principi morali. Alla lungaun’educazione del genere pagherebbe.

Credimi, Mauro, possiamo arrivare a tanto.Ma, ahinoi, il mondo, soprattutto in questi ultimi tempi, è

un campo minato a perdita d’occhio dove si coltiva in modoparticolare ilMale, con poche oasi di Bene, sparse timidamen-te qua e là. Il lavoro che attende i portatori di pace e di giusti-zia è improbo, quasi impossibile. Ciò nonostante non bisognadarsi per vinti, ma semmai è ne-cessario lottare con maggiore tena-cia per rovesciare il destino delmondo.

Mi obietterai ancora che è im-possibile arrivare a tanto, perché ècome voler svuotare il mare ser-vendosi del guscio di una noce. Ate sembra, ma in effetti non è così.Se l’esempio di pochi sarà via viaseguito da tanti e in seguito datantissimi, vedrai che quello che ate sembra irrealizzabile si potrà at-tuare, a condizione che siano inmolti a remare nella stessa direzio-ne.

Sai bene che la fiammella di unacandela non può rischiarare l’oscu-rità della notte, ma se saremo in tanti ad accenderne migliaiao centinaia di migliaia o addirittura milioni, il buio sarà vintoe la luce risplenderà anche a distanza di chilometri.

Intanto tu inizia a rinnovarti. Perciò, càlati nel profondo del-la tua coscienza e comincia a rimuovere ciò che “illude e ucci-de” l’uomo. Fa’ in modo che non rimanga alcuna radice della“mala pianta” che potrebbe esser presente in te. So bene cheincontrerai notevoli difficoltà in questo ardimentoso viaggio,ma provaci, in ogni modo e con ogni energia. Il cammino è ar-duo e mille e mille saranno i canti ammaliatori che ti invoglie-ranno a desistere. Va’ avanti, segui l’esempio di Ulisse, che nonsi lasciò vincere dal canto melodioso delle sirene. Una volta ar-rivato sul pavimento di questo orrido pozzo, troverai uno scri-gno, in cui la tua adorata ed ingorda ‘convenienza’ hasegregato le “tue nobili virtù”. Aprilo e zampillerà l’essenzaprima della vita, l’Amore… l’amore che erroneamente ritieni (eriteniamo) di possedere.

Tu mi osserverai che ne hai tanto e te ne servi quotidiana-mente. Con ogni probabilità, il tuo è “l’amore che prende”,cioè quello possessivo, ossessivo, smodato, dominante; io, in-vece, alludo a “l’amore che dà”, cioè quello virtuoso, solidale,misericordioso, caritatevole, universale, divino.

Nel momento in cui t’impossesserai di questo nobile senti-mento, avrai una visione completamente diversa del mondo edella stessa vita, che non t’appariranno più come elementi daconquistare e sottomettere, ma semmai come elementi da orga-nizzare e migliorare nell’interesse tuo e di tutti, nessuno esclu-so.

Dopo aver ritrovato te stesso, ha inizio una nuova e più im-portante “crociata”. Devi batterti contro l’orrendo dèmone del-l’egoismo presente negli altri. Lotta, senza concederti mai unapausa: un vero guerriero non conosce riposo, se non dopo aversbaragliato il nemico e vinta la battaglia. Utilizza l’unica armain tuo possesso: la “parola”, che, se usata saggiamente, produ-ce effetti strabilianti. Sappi che molte volte essa uccide più diquanto possa uccidere una spada. Papa Francesco con la sua“parola”, oltre ad aver redento diverse coscienze, sta aprendo

nuovi orizzonti di vita.Il tuo pensiero sarà ascoltato o letto da diverse persone, che

potranno condividerlo e diffonderlo. Dai piccoli semi, cheavrai ‘conficcato’ nel cuore della gente, nascerà una messe ri-gogliosa, che darà un buon raccolto, da cui scaturiranno altresemine e altri doviziosi raccolti.

A tal proposito, non dimenticare l’esempio della candela.La strada è lunga e infìda, poiché quotidianamente la socie-

tà educa i giovani ad acquisire ben altri valori. I fatti e i risul-tati sono inequivocabili e provengono da qualsiasi ceto sociale.Anzi, coloro che sono deputati a guidare le sorti del paese e afornire il buon esempio procurano grandi danni e disastri irre-

parabili.Questa strada, però, va percorsa

sino in fondo da tutti, se intendia-mo per davvero sconfiggere ilMale e costruire un mondo di pa-ce e di giustizia.

Da ultimo, cerca di mettertisempre in discussione, di miglio-rarti, di innovarti, soprattutto a li-vello culturale e spirituale. Il pesodella tua crescita non dovrà esse-re espresso in “centimetri” o in“chilogrammi” oppure in “mone-ta sonante”, ma in “atti e fatti”,tutti rivolti al miglioramento delBene Comune e Personale. Perarrivare a ciò è necessario rispet-tare le regole democratiche che i

nostri padri costituenti hanno conquistato a fatica, sacrifican-do a volte la propria vita. Rispetta, altresì, il pensiero degli al-tri e accettalo, pur non condividendolo. Insisti e, se necessario,lotta perché nella comunità in cui vivi ci sia sempre una plura-lità di voci: tutto ciò è vitale per il corretto esercizio della de-mocrazia, della libertà e, in modo particolare, della giustizia.

Metti in debito conto che le tue idee, alle quali sei molto le-gato, possono anche essere sbagliate e, se qualcuno ti dimostral’infondatezza delle stesse, non sentirti umiliato per questo,anzi accetta serenamente l’evidenza dei fatti che ti hanno con-testato e lìberati dall’errore che ti ha posseduto. Si cresce anchein questo modo.

Sii felice, ma ricòrdati di prodigarti anche per la felicità de-gli altri. È bello tagliare certi traguardi della vita, avendo ac-canto a sé molte persone, come se ci si trovasse allo stadio agioire per un gol della propria squadra. Dài retta a me, Mau-ro: la soddisfazione e la gioia che ti dà la “felicità sociale” èpiù completa e affascinante della “felicità personale”. Que-st’ultima è la felicità della solitudine, che non ti consente maidi brindare, di esultare, di fare pazzie insieme ad altri, ma so-lo di godere con poco entusiasmo dentro di te, tra le mura deltuo “io”.

Mi auguro di esserti stato chiaro e, soprattutto, di averti per-suaso a rivedere i tuoi convincimenti e a voltare pagina defini-tivamente.

Ti saluto con lo stesso affetto e la stima di quando ti guida-vo a compiere i primi passi nel difficile e impervio mondo dinoi umani.

Le formiche e gli uomini

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8 Il filo di Aracne gennaio/febbraio 2014

Andando per mercatini antiquari di Terra d’Otran-to, non è raro, e comunque capita, di trovare pre-ziosità bibliofiliche, che ti aiutano poi a com-

prendere la natura e la storia dei luoghi dove sei nato e vi-vi. Si tratta spesso di libri, i cui contenuti, una volta letti, tifanno riemergere dal passato personaggi, storie e saperiormai sopiti dal tempo e dalla dimenticanza. È quanto miè accaduto in uno dei mercatini antiquari della domenicadi ogni fine mese a Lecce, dove, tempo fa, mi capitò di tro-vare un libro chedal titolo dellacopertina nullafaceva traspariredel suo preziosocontenuto. Tutta-via, anche la co-perta di questolibro mostravaun certo interessebibliofilico, nelsenso che si trattadi un volume in8° grande, concoperta rigida ri-vestita di cartapergamenata, ilcui calice indica-tivo recita così:MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRAD’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ G[iusep-pe] Spacciante // MDCCCLXXXIII.

Aldilà dell’indicazione del nome del tipografo, appun-to G. Spacciante, rinomato stampatore leccese dell’Otto-cento che, dopo diverse vicissitudini, divenne infinel’Editrice Salentina di Galatina, le indicazioni di coperti-na nulla dicono a proposito dell’autore. Quindi, per sa-pere qualcosa in più, cosa che sempre faccio quando micapita per le mani un libro, sono andato al frontespizio,dove ho letto: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIADI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIA-NI/ Senatore del Regno/ Ministro delle Finanze// Cennidel Cav. Prof. Pietro CAVOTI// Tipo-Litografia SalentinaSpacciante - Lecce.

Ecco scoperto un’interessante indicazione che immedia-tamente mi ha fatto decidere l’acquisto del volume. Sicura-mente deve trattarsi di un unicum perché, molto proba-bilmente, accompagnava la succitata Medaglia. Franca-mente non riesco a capire come mai un volume così prezio-so sia stato scorporato dal quadro eseguito dal Cavoti e

che accompagnava la Medaglia, finendo così sulla banca-rella di un antiquario di chincaglieria e prodotti affini.

Comunque, come scrivo poco sopra, si tratta di un librocurato da Pietro Cavoti (Galatina, 1819-1890) del quale, as-sociandolo all’altro patriota galatinese Nicola Bardoscia, ilcompianto Antonio Antonaci scrive: «Il Cavoti era impa-rentato per vie diverse, con antiche casate galatinesi, […]Il contributo dato dal Cavoti e dal Bardoscia all’ideale uni-tario fu, non solo per Galatina ma anche per l’intero Salen-

to, di grandeefficacia, anche sedi dimensioni di-verse: più roman-tico e per certiaspetti audace epassionale, quel-lo del Cavoti, untipo dalla fanta-sia accesa e dalletendenze con-traddittorie fino asembrare talvoltastrane, come ac-cade nel mondodegli artisti […].Il Cavoti […] fu iltramite fisso dicollegamento tra

i patrioti galatinesi e quelli di Lecce. Fu segretario del Cir-colo patriottico comunale di Galatina, fondato subito do-po quello di Lecce» (v. A. Antonaci, Galatina Storia & Arte,Panico, Galatina 1999, pp. 605-6).

Ma di Pietro Cavoti abbiamo ancora qualche altra noti-zia fornitaci dall’enciclopedia libera Wikipedia, che ripor-ta quanto segue: «è stato un artista, pittore e studiosodell'arte italiano. Compì i primi studi al Real Collegio deiGesuiti a Lecce. […] Insegnò francese, disegno e calligrafianel Collegio degli Scolopi, divenuto poi Liceo Convitto Co-lonna [Galatina], attuale sede del museo a lui dedicato./Artista e ricercatore attento, fu nominato dal Ministro del-la Pubblica Istruzione nella commissione incaricata di cen-sire e classificare i monumenti italiani, al fine di indicarequelli da considerare monumenti nazionali. Il suo lavoroiniziò dalla provincia di Lecce e precisamente dalla Chie-sa di Santa Caterina a Galatina e della Chiesetta di SantoStefano a Soleto. Furono questi gli anni del suo soggiornofiorentino, durato 15 anni, dal 1861 al 1876, fino a quandole sue condizioni di salute non lo indussero a ritornare aGalatina./ Fu amico di Atto Vannucci, che gli affidò l'illu-

RITROVAMENTI OCCASIONALI

Il ministro A. MaglianiPietro Cavoti

Rovistando tra le bancarelle di un mercatino...

UN PREGIATO LIBRO DI

PIETRO CAVOTIdi Maurizio Nocera

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strazione della sua Storia dell'Italia Antica./ Nel 1876, tor-nato a Galatina dalla sua esperienza fiorentina, accettò l'in-carico, affidatogli da Sigismondo Castromediano, dipresidente della Commissione conservativa dei monumen-ti di Terra d'Otranto e di Ispettore dei monumenti. Ricevet-te l'incarico di rilevare gli affreschi del Palazzo Marchesaledi Sternatia e di effettuare lo studio dell'edificio arcaico det-to ‘Le Cento Pietre’ di Patù.[…] Scrisse inoltre alcunisaggi, tra cui si ricorda Sag-gio di lavori nelle pietre deno-minate carparo e pietra leccesedelle rocce salentine./ Granparte dei suoi lavori è con-servata nel museo civico diGalatina a lui intitolato».

Ma adesso, vediamo co-m’è fatto questo libro, cura-to e per tre quarti scritto daPietro Cavoti. Il frontespi-zio è un capolavoro d’artetipografica con arabeschi eun disegnino dorato in cuicinque puttini lavorano inun ambiente tipografico(interessante la cassettieracon i caratteri mobili e il seicentesco torchio in legno); lacarta è pergamenata; i caratteri usati sono gli aldini; gli in-cipit dei capitoli hanno testatine e grandi lettere iniziali co-lorate con foglia d’oro; due pagine fuori testo custodite dauna carta sottile tipo velina, in una v’è la riproduzione del-la Medaglia, nell’altra la fotografia della Pergamena d’In-dirizzo al Ministro delle Finanze Agostino Magliani; intutto si tratta pp. 4 bianche + 37 + 5 bianche.

Qui di seguito viene riportato uno dei testi in esso pre-senti.

MEDAGLIAa Sua Ecc. AGOSTINO MAGLIANI

DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTOCenni del Cav. Prof. Pietro CAVOTI

Posciacché ebbi determinata l’idea e la forma, pensai che le ope-re d’arte, quando giungono ai nepoti, manifestano la mente de-gli avi non solo, ma anche il grado della loro cultura;imperciocché parlano (a chi sappia bene intendere) direttamenteper mezzo della rappresentazione, e con vivacità maggiore nelloro linguaggio estetico, ed anche coi mezzi tecnici, senza biso-gno di alcuna parola, absque ulla literarum nota. Quindi cer-cai, per quanto mi fu possibile, che l’esecuzione fosse tutta lavorodel paese che l’offriva; affinché come pianta indigena mostrassequale fosse la nostra naturale disposizione, e quale lo stato di cul-tura quando si fecero queste memorie. E però, giovandomi del-l’assoluta libertà, che cortesemente mi era data per compierel’incarico, mi parve giusto e bello scegliere giovani leccesi; tan-to più che ben sapeva come dell’opera loro mi sarei giovato confelice affetto.

È vero che quanto io richiedeva era ben poco a mostrare tuttoil loro valore; ma tanto bastava al mio intento: varcare i limiti sa-rebbe stato per lo meno inopportuna abbondanza.

Eugenio Maccagnani, già conosciuto in Italia per opere pre-miate e di grandi proporzioni, modellò la Medaglia colla grandio-sità scultoria, che anche in piccolo ti fa vedere il colossale; ciòch’è mirabile pregio della glittica e della cultura.

Questo valente giovine, per lunghi e severi studii fra i tesoriantichi di Roma, sa giovarsi della forma greca, sicché ne vestel’idea senza sforzo e senza pedanteria. Lo Spartaco, il Mirmil-lone, l’Aspasia, il Primo Bagno sono opere sue che ciò prova-no abbastanza.

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Frontespizio del libro

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Nella Medaglia al Ministro MAGLIANI egli ci fa vedere co-me la stessa mano, che tratta il mazzuolo e la gradina nei mo-numenti colossali, sap-pia pure maneggiare lastecca delicata per mo-dellare le piccole formedi una medaglia e diuna gemma.

Egli ha ritratto il MA-GLIANI colla massimasomiglianza, ricercandocon sommo giudizio tut-ti quei minuti e vivaciparticolari, di cui sicompiace il naturalismo;ma conservando semprela larghezza della formascultoria: e ciò non rie-sce facile a chi non sianato col sentimento del-la scultura.

Egli è facile intendereche quando l’opera dello scultore vien trasportata nelle piccoleproporzioni del conio dall’incisore, deve subire tutti i pericoli diun testo che passi alla traduzione. Se l’incisore non è artista ca-pace, d’interpretare bene il modello può avvenire che, malgradola somma diligenza del suo lavoro, faccia sì che lo scultore non viriconosca più l’opera sua.

Il calco del Maccagnani fu inciso da Giovanni Vagnetti arti-sta degno della sua Firenze. Se fosse mestieri rilevare un igno-to, mi basterebbe apporre qui il catalogo delle medaglie da luieseguite per celebrare uomini e fatti memorandi della nostra

storia: ma il Vagnetti è omai noto abbastanza. A noi occorre di-re che il tipi del Ministro MAGLIANI è stato inciso da lui congiusta lode per altre simili onoranze. Ecco perché egli ha sapu-to capire ogni piano ed ogni piccola modellatura del bassorilie-vo dello scultore, sicché l’opera sua ha tutto quel pregio che noiqui accenniamo di volo, perché senza la Medaglia non può gu-starsi cola sola fotografia.

Sono lieto di avere avuto fra i miei concittadini un distinto va-lentuomo della mia direttissima Firenze; ma mi duole che l’arted’incidere le medaglie non si trovi fra noi; e vorrei che sorgessealcuno ben disposto a coltivare questo ramo dell’arte scultoriasevero e difficile quanto necessario ai lumi della storia; cosicchéqueste mie parole restassero a provare che, quando la nostra Pro-vincia coniava la prima medaglia commemorativa, cominciavaallora a coltivarsi quest’arte da tanta età spenta fa noi, dopo i co-nii bellissimi delle antiche medaglie Tarentine.

L’ornamento della pergamena cercai che avesse un caratterericco ma serio, e lo volli monocromo, eccetto nei festoncini deifiori, procurando l’effetto nel giuoco dei piani e della luce. A que-sto si porge benissimo il barocco elegante della decorazione dellanostra architettura del secolo XVII; ed io mi attenni a quel gu-sto, anche per dare con ciò il tipo dell’arte nostrana.

Questa parte fu da me affidata al signor Pietro De Simone, gio-vine anch’esso, e leccese come il Maccagnani.

Il De Simone pittore, miniatore e calligrafo ha molto lavorato inRoma per distinte ed onorevoli commissioni. Egli condusse que-sta pergamena con quel grado di esecuzione che si richiedeva, se-condo quel ch’egli ha appreso da pregevoli modelli, lasciando, cioè,quel tormentoso meccanismo che talora raffredda e distrugge l’ef-fetto per la noiosa lisciatura. Che il De Simone abbia ciò fatto conlodevole accorgimento, si vedebene, osservando che, dovel’arte lo richiedeva, egli è statominuto e diligente miniatore.

Merita lode anche la sua fer-mezza di mano, e la nitidezzadel carattere; che io scelsi diforma latina, come è nei codicidel buon secolo, perché la leg-giera eleganza, e le bizzarrie ela destrezza di mano nei ghiri-gori della calligrafia modernamale si addirebbero alla serietàdell’Indirizzo ed alla severamaestà della lingua latina del-le epigrafi che accompagnanole figure.

L’intaglio della cornice è lavoro del signor Giuseppe De Cuper-tinis, anch’esso leccese, giovine distinto con premii riportati peropere d’intaglio in legno. Egli è il primo che fa risorgere fra noiquest’arte decorativa, già spenta coi nostri arcavoli, che ci han-no lasciato pregevoli lavori qua e là in alcune chiese ed in qual-che antica mobilia. Quel poco che finora ha fatto qui il DeCupertinis ne assicura ch’egli impianta la sua scuola con pro-speri auspicii. Così possano i ricchi persuadersi del sapiente con-siglio del Venosino:

Nullus argento color est avarisAbdito terris, inimice lamnae

… nisi temperatoSplendeat usu

e intendano una volta che l’uso più bello, e più nobile dell’ar-gento è quello che giova ad incoraggiare le arti e le industriedel proprio paese. ●

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La medaglia

La pergamena

Maurizio Nocera

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CORREVA L’ANNO...

Dopoore di navigazione la prima persona che la lu-ce toccava era il capitano. Era l’ultima persona cheandava a dormire e la prima a svegliarsi.

Timonava nella notte e la guardava in faccia: dopo an-ni di “strade” senza luce aveva trovato certezze senza bi-sogno di vederle.Parlava poco il capitano, ma quando lo faceva il silen-zio che supportava le sue parole era tombale. Tutti si ir-rigidivano e davano massima attenzione a quello chediceva: di solito ordini.Erano rare le sue emozioni, ma vere. Quando si intra-vedevano avevano lo stesso effetto dell’onda lunga, tra-vagliavano in fondo.Era una certezza anche quando fuori c’era il nulla, ba-stava guardare la sua espressione per trovare conforto.Socchiudeva gli occhi per difendersi dai riflessi della lu-ce cercando in lontananza l’onda più alta con la qualemisurarsi. Non homai capito se la sfida era con il fuori ocon il dentro, comunque lui era una certezza.Non aveva paura o meglio dava a questa la giusta im-portanza. Senza paura è come non esistere, ma senzal’onda da sfidare è come vivere da morto, diceva.Per il capitano la nave erano i suoi uomini ed era con-sapevole che ognuno di loro aveva la propria onda da sfi-dare. Le onde occasioni per conoscerli meglio.Dopo anni di terra liquida il capitano aveva capito checi sarebbe sempre stata un’onda più alta della proprianave, ma mai una nave più grande della sua.Ogni giorno il mare era un’esperienza in più. Quelgiorno scivolavamo sul marmo.Il viaggio era lungo così il capitano fece partire il suoracconto da lontano.Le storie salvano e condannano nello stesso tempo.Pietro Micca era un militare sabaudo. Nella notte del29 agosto 1706, in pieno assedio di Torino da parte delletruppe francesi, Micca fece saltare una galleria fermandoi nemici. Mentre era di guardia ad una delle porte dellacittà assieme ad un commilitone, Micca, dopo aver fattoallontanare l’amico, conscio del rischio che correva, deci-se di utilizzare una miccia corta per l’esplosione.Fermò i nemici, ma lui cadde con loro.Nero e interrogante era il fondo, ma il viso del capita-no era niente a confronto. Parlava senza fissare nulla inparticolare.Non avevamo ancora capito dove volesse arrivare.Quel giorno era partito da troppo lontano anche per chilo conosceva da anni.La sensazione era simile a quella che si avvertedurante la formazione di un’onda anomala: racco-glie l’acqua da molto lontano per poi infrangersi

con violenza e distruzione.La sua espressione divenne di ghiaccio, guardava ilmare come se non lo avesse mai visto. Si diceva che il ca-pitano in quel tratto di mare cambiava, si ammutoliva, equel giorno vedevamo tutto quello che raccontava, stra-namente parlava.Eravamo a circa tre miglia dal faro di Santa Maria diLeuca.Le parole del capitano scivolavano sul quel marmograffiandolo.Il mare non ha memoria. Questa è proporzionale allanostra capacità di non dimenticare: il mare dimenticamentre gli uomini cambiano.Il Pietro Micca era un sommergibile della Regia Mari-na che, avvistato da un sottomarino britannico il 29 lu-glio del 1943, fu silurato ed affondato in pochissimotempo.Si salvò solo il capitano con altri diciassette marinai.Sessantacinque uomini furono inghiottiti dal mare an-cora vivi. Vissero per due giorni, il terzo giorno si udiro-no dei colpi di arma da fuoco.Un corpo deceduto da anni che non ha ancora lasciatoandare la sua anima, questo è il PietroMicca adagiato ad80 metri di profondità.Noi gli eravamo sopra.Istintivamente tutti guardammo giù ma si vedeva soloil riflesso del sole. Partiva dal punto più nero che riusci-vamo a scoprire e si allargava con raggi lunghissimi.Inmare non affondano navi, ma uomini, concluse il ca-pitano.Non lo disse espressamente, ma dalle sue parole sem-brava di capire che un capitano può morire tante voltema quando lascia un solo uomo inmare, muore davvero.Ci sentimmo più uniti, più forti. Il capitano ci avevadentro … e non ci avrebbe “lasciato”; il mare faceva me-no paura ed eravamo contenti di averlo al timone.Quel giorno su quella lastra di marmo la nostra nave siera arricchita della presenza dell’altro, di quell’altro cheprima di salvare o prendersene cura, bisogna accoglier-lo dentro.Tutti avvertimmo la nostra nave più forte, ed era stra-no sentirlo in un giorno di bonaccia…Il capitano abbassò la visiera del cappello, accese l‘en-nesima sigaretta, alzò il collo della giacca gettando losguardo lontano. L’insegnamento era chiaro: prima di in-tenzionare lo sguardo occorre guardare “dentro”.La nave ci teneva insieme, il mare ci legava e questo ilcapitano lo sapeva. Non lo ha mai palesato, però avevascelto di andare lontano, e questo lo si può fare solo in-sieme: noi la sua nave, lui il nostro capitano. ●

(articolo già pubblicato sulla rivista “Amaltea”)

Andrea Tarantino

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SCRITTORI SALENTINI

Il Giorno della Memoria è un’espressione bellissima chesta ad indicare una giornata in cui fermarci, riflettere ericordare. Atroce, però, è quello di cui dobbiamo avere

memoria.La tragedia dell’Olocausto, la più grande pagina nera

nella storia dell’umanità, è un argo-mento difficile da trattare, ci coglie infallo mettendo a dura prova la nostrasensibilità specie quando bisognaparlarne ai bambini, un momentoche prima o poi avviene ed è avvenu-to per ciascuno di noi.

I giorni che precedono la data del 27gennaio, giorno in cui si commemora-no le vittime del nazismo, sono quelliin cui a scuola si forniscono le primeinformazioni, di anno in anno semprepiù approfondite, ai bambini.

Ognuno ha un ricordo di comequeste informazioni ci sono state da-te: per immagini, quei volti e queglisguardi vuoti in fila dietro un filospinato, attraverso dei film, da Schin-dler’s list a La vita è bella, la lettura del-le pagine di diario di una coetanea,Anna Franck, e le spiegazioni, a vol-te esaustive e altre volte superficiali,delle maestre.

In tutto questo è lampante l’assenza di una guida per ilbambino e il ragazzo che deve sì conoscere questa oscurapagina della nostra storia, ma che deve poterla elaborare inrapporto alla sua tenera età.

Quello che è universalmente riconosciuto come un incu-bo, allora, diventa un sogno nel libro di Sofia Schito, “La B

Capovolta”. L’autrice, al suo esordio letterario, ha saputocogliere e colmare questo vuoto grazie al lavoro che da an-ni conduce con ragazzi delle scuole elementari e medie.

Il libro, edito da Lupo Editore, racconta il dramma dellaShoah attraverso la voce narrante di un bambino che si ve-

de portato indietro nel tempo al 1944in un sogno molto realistico che lo ve-de protagonista, assieme ai suoi treamici e compagni di scuola, del viag-gio in un treno merci diretto ad Au-schwitz. In questo sogno-viaggio neltempo, l’innocenza dell’infanzia riescea guardare con occhi nuovi l’inspiega-bile orrore umano che accadde neicampi di concentramento. Con curio-sità, delicatezza e anche un pizzico diingenuità tipica dell’età, i ragazzini alcentro del romanzo si avviano in que-sto viaggio senza sapere cosa attendeloro all’arrivo ma, mentre Luca, Graziae Samuele indossano dei pigiami a ri-ghe e sembrano saperne molto di più,il bambino protagonista del sogno nonsi capacita di come, da un momento al-l’altro, possano essere spariti tutti i co-lori, le case dei suoi amici, e perché i“Signori dei Pigiami” fanno finta dinon sentire le loro urla dai vagoni.

Ad aiutarlo nella comprensione di questa nuova, assur-da, realtà sarà un giovane coi capelli arruffati e un quader-no in mano che, sopra il pigiama, indossa un camicebianco. Si presenta come “un cittadino italiano di razzaebraica” ma a colpire il bambino sono frasi che gli senterecitare ad alta voce e di cui non capisce il significato.

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Si tratta di Primo Levi, appellato come “Signor Chimi-co” nel libro, e le frasi da lui pronunciate e che appaionocosì strane sono in realtà degli estratti da “Se questo è unuomo” che l’autrice ha deciso di inserire per far conoscereai piccoli lettori l’opera dello scrittore e chimico che nel ’44fu deportato ad Auschwitz.

Un’altra prova di grande sensibilità da parte di SofiaSchito, oltre al linguaggio semplice, da bambino, utilizza-to sapientemente nel libro, è sicuramente la decisione diintrodurre dei passaggi meno cruenti dell’opera di Levi main egual modo significativi e toccanti.

Mentre la storia si sofferma su date e numeri, il roman-zo-testimonianza di Primo Levi rappresenta il modo piùdiretto e coinvolgente per sapere cosa successe a sei milio-ni di ebrei non solo nel fisico, ma soprattutto nell’animo.

Levi, infatti, non lo scrisse per muovere accuse ai colpe-voli, ma per testimoniare e raccontare ciò che a voce nonavrebbe saputo dire a nessuno ma che andava detto e tra-mandato affinché l’errore più grave della storia non si ri-petesse.

Mentre “Se questo è un uomo” appare una lettura trop-po prematura e forte per i ragazzi delle scuole elementarie medie, ne “La B Capovolta” ritroviamo un primo passonella direzione di una comprensione più profonda e adul-ta dell’Olocausto.

Sofia Schito accompagna per mano i lettori, piccoli egrandi, attraverso una scrittura dai toni tenui e sinceri chenon traumatizza come potrebbe accadere con contenutitroppo crudi dell’argomento ma colloca quegli atroci even-ti nella dimensione del “traum”, tradotto come “sogno”dal tedesco. Il sogno narrato dalla scrittrice è infatti a me-

tà tra il traum tedesco e la ferita, ovvero il significato chein greco ha la parola “trauma”.

L’Olocausto è stato e continua ad essere una grande fe-rita nella memoria di tutti noi ma è solo la conoscenza, an-che attraverso un sogno in cui tutti camminano indietrocome gamberetti, a darci la forza di vivere consapevolmen-te e di relazionarci agli altri senza discriminazioni di nazio-nalità, religione o sesso.

“La B Capovolta”, pertanto, è il libro giusto da leggereper avanzare nel cammino della conoscenza e tenere sem-pre a mente che la fiamma della speranza resta sempre ac-cesa, anche quando può sembrare un fiore nel deserto, equesto è l’insegnamento che può fare da guida ai giovanilettori e anche a quelli più navigati. E’ il libro che avrei vo-luto leggere quando avevo dieci anni per conoscere l’ag-ghiacciante mistero della Shoah con la dose convenevole ditatto e sensibilità necessari ad un bambino per affrontarloed è il libro che mi auguro leggeranno tutti i bambini daquell’età in su. ●

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Sofia Schito con una scolaresca

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Per poter acquistar nome in un più vasto spazio, che non erail suol natio molti giovani del sud dovevano recarsi inuno dei Conservatori di Napoli, capitale del Regno

delle due Sicilie, per studiare musica o per completare glistudi. Perché San Pietro in Galatina varcasse i confini delRegno, ci pensò la musica di Pasquale Cafaro, il cui nomeviaggia tra i personaggi più eminenti del Settecento, qualiad esempio: Giuseppe Mercadante, Giovanni Paisiello, Nic-colò Piccinni e Leonardo Leo, che fu anche suo maestro.Inoltre il Cafaro si colloca a pari li-vello dei maggiori compositorisettecenteschi napoletani di musi-ca sacra, come Domenico Cimaro-sa, Giovan Battista Pergolesi eFrancesco Durante.

Dai registri di battesimo con-servati nell’archivio della nostraMatrice, che ho potuto consulta-re grazie alla collaborazione didon Antonio, è emerso che Fran-cesco Pietro Paschale (il nostroPasquale) nacque il 1° febbraio1708 da Giuseppe e Isabella Bar-daro e fu battezzato a dì 5 dal Re-verendo parroco Don GiuseppeTommasi. Risulta inoltre che com-pare fu Andrea Galluccio e comareDomenica De Pietro. Pertanto levarie supposizioni sulla reale da-ta esatta della sua nascita credosiano definitivamente sfatate. Altra nota da chiarire è cheil nostro compositore non è il Caffariello, come molti stu-diosi sostengono, ma è solo e soltanto Pasquale Cafaro. Adonor di cronaca il cosiddetto Caffariello è Gaetano Majora-no, mezzo soprano evirato, nato a Bitonto nel 1710 e mor-to a Napoli nel 1783. Forse la contemporaneità dei due puòaver ingenerato questa confusione, perché il maestro sco-pritore del Majorano fu tal Cafaro (Domenico e non Pa-squale), cosicché Gaetano prese, per riconoscenza, ilsoprannome di Caffariello.

Dal Catasto onciario (1754 A.S.L.) di San Pietro in Gala-tina, alla carta 599, si legge che la famiglia d’origine, oltrea possedere diverse proprietà, aveva intitolata a suo nomeuna contrada e in più alcuni familiari erano anche eccle-siastici, come ad esempio il reverendo don Felice, Pascale mae-stro di cappella, cioè il nostro; Angela, sorella, che eramonaca ed infine il reverendo don Giovanni Angelo Cafaro,

che era uno zio. Si legge, infine: “Felice abita in casa propria.Possiede un pezzo di terra con orto uno e mezzo di vigna a santoSebastiano; un pezzo di terra con orte 4 di vigna e orte 4 di terraseminatoria allo Inchianà; una casa affittata”. Questo spiega,forse, perché tra le opere del Cafaro domina la musica sacra.

Prima ancora di essere l’esimio compositore, Pasqualeera stato indirizzato dai genitori agli studi del diritto, o,secondo alcuni studiosi, allo studio delle scienze. Dopo es-sersi laureato (la laurea era un ornamento prestigioso per

tutta la casata), poiché egli nonera predisposto per le aule foren-si e sentendo in sé la passione perla musica, il 16 dicembre del 1735,davanti al notaio Giovanni Tufa-relli, dichiarava di avere diciottoanni e si impegnava a pagare do-cati dodici per l’ammissione comefigliuolo alunno al Conservatorio diSanta Maria della Pietà dei Tor-chini e si impegnava a servire, co-me musico, per cinque anni tantonella Chiesa del Conservatorio, quan-to in tutte le altre missioni, e proces-sioni che si fanno per dentro e fuoriNapoli…

È da precisare che il termineConservatorio, nel XIV e XV seco-lo, non era ciò che oggi si intende,cioè il luogo dove si insegna lamusica nelle sue varie branche,

ma era semplicemente un istituto di beneficenza, dove itrovatelli, i poveri o gli orfani venivano “conservati” negliasili, ospizi, orfanotrofi e coloro che avevano la predispo-sizione venivano avviati, oltre che all’istruzione primaria,alla cultura musicale.

In seguito furono ammessi altri allievi e così questi isti-tuti benefici si trasformarono in vere e proprie scuole mu-sicali. Celebri i quattro Istituti di Napoli: il Conservatoriodei Poveri di Gesù Cristo, quello di Santa Maria di Loreto,della Pietà dei Torchini e di Sant’Onofrio. Nel 1808, per or-dine di Gioacchino Murat, furono tutti e quattro riuniti sot-to il nome di Collegio Reale di Musica, oggi chiamato RealConservatorio di San Pietro a Majella, punta di diaman-te del mondo musicale.

Ammesso, quindi, al conservatorio con o senza le pres-sioni del marchese Odierna, protettore del giovane galati-nese, iniziò a seguire le lezioni di due pugliesi: Nicola Fago

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GALATINESI FAMOSI

M° Pasquale Cafaro

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(di Taranto) e di Leonardo Leo (di San Vito degli Schiavi,oggi dei Normanni) che lo istruirono nell’armonia e nelcontrappunto per addestrarlo nell’arte di suonare a quattroparti, la quale da pochi fra tanti, che han nome di maestri, al dìd’oggi è posseduta.

Pasquale rimase in quel conservatorio anche dopo la sca-denza del suo contratto per migliorarsi nella scienza ar-monica. Il 37enne compositore, dopo un decennio distudio immane, ritornò dal suo amico marchese e pubbli-cò l’oratorio Il figliol prodigo ravveduto, (1745), su libretto diGiovanni De Benedictis, di carattere prettamente liturgi-co. Successo incontrastato ebbe con il melodramma Iper-mestra, esecuzione avvenutaal San Carlo nel 1751.

Il 20 gennaio del 1756,sempre al Real Teatro, furappresentato il suo secon-do melodramma La disfattadi Dario, su libretto di CarloMorbilli, duca di Sant’An-gelo, un nobile con aspira-zioni letterarie, che ricevetteuna lusinghiera accoglien-za. Lo spettacolo richiese unallestimento sfarzoso ed ac-curato tanto che l’anno dopovenne rappresentato L’in-cendio di Troia, che fu un so-lenne fiasco. L’impresario,per soddisfare il pubblico desi-derio, senza arrecare danno albuon nome del Maestro, rimise in scena La disfatta di Dario,rappresentata anche al Teatro della Pergola di Firenze.

Dopo questi successi, oltre ai nobili napoletani, tedeschied inglesi fecero a gara per averlo come insegnante di can-to e di composizione. La sua fama cresceva di giorno ingiorno tanto che nel 1759 venne chiamato per l’insegna-mento di composizione nello stesso conservatorio che loaveva avuto studente.

Lo stesso anno Girolamo Abos (compositore maltese dimelodrammi), secondo maestro di cappella del conserva-torio, rinunciò all’incarico, cosicché i governatori dell’isti-tuto si riunirono in sessione plenaria l’11 luglio perscegliere il successore. Poiché nel Signor Pasquale Cafaro…concorreva somma perizia nell’arte della Musica, bontà di costu-mi, e carità nell’insegnarla alli figlioli del Regio Conservatorio lonominarono, con lo stipendio di ducati cinque, successoredell’Abos. Quindi egli fu successore di Abos e non di Leo,(deceduto nel frattempo) come molti sostengono. Pasqua-le iniziò una brillante carriera al fianco di Lorenzo Fago,

grande esperto di arte polifonica. Due anni dopo la Giun-ta del San Carlo, dovendo portare in scena l’Andromeda diAntonio Sacchini, chiese al Cafaro di assistere alle proveper giudicare il carente organico dell’orchestra.

Esperto uomo di teatro, nel 1763 fu chiamato a dirigerenegli anni Il trionfo di Clelia e Issipile di Adolfo Hasse, Ar-mida e Didone di Traetta. Nel luglio del 1765 il Duca di York,giunse a Napoli e l’impresario del San Carlo incaricò il Ca-faro di comporre una nuova opera per l’occasione. Nacquecosì Isacco su testo del Metastasio e due mesi dopo la giun-ta del teatro stipulò un contratto con il nostro per la sta-gione operistica. Il 20 gennaio andò in scena Arianna e

Teseo, ossia il Minotauro, me-lodramma in tre atti su li-bretto del poeta della cortedi Vienna, Pietro Pariati. Ilsuccesso forse fu dovuto,più che alla musica, alle im-ponenti scenografie.

La sua fama varcò i confi-ni del regno e il Cafaro chie-se una licenza dal Conser-vatorio per recarsi a Torino,dove compose per il Regio-Teatro il Creso, opera seriain tre atti su libretto di Gio-vanni Pizzi, rappresentatanel gennaio 1768. Il maestronapoletano, e non galatinese,riscosse un caloroso succes-so, ma gli impegni al Con-

servatorio lo costrinsero a rientrare nella sua Napoli. L’altolivello artistico e la fama di esperto compositore più quo-tato del momento gli aprirono le porte, nel 1768, del Pa-lazzo Reale. Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, sedicennesposa di Ferdinando IV, aveva tra le sue doti quella per lediscipline musicali e, pertanto, il Re lo nominò, oltre chemaestro soprannumerario della Real Cappella Borbonica(20 ducati mensili e non annui), maestro della Regina disuono (cembalo) e canto. Allieva che, per nulla appesanti-ta dalle diciotto gravidanze, seguì sempre con impegno lelezioni del maestro galatinese. Intelligente e autoritaria lafiglia di Maria Teresa d’Austria apprezzava e stimava ilmaestro per la sua correttezza e per la bontà d’animo. IlCafaro le dedicò lo Stabat Mater a quattro voci ed ebbe tal-mente successo da sostenere il confronto con il capolavo-ro del Pergolesi. I tanti impegni di Pasquale (era divenutogià un affermato compositore di melodrammi) andarono adiscapito degli allievi del conservatorio della Pietà dei Tur-chini. Egli dovette seguire la Regina nei suoi spostamenti,

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Napoli - Auditorium Real Conservatorio San Pietro a Majella

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pertanto cominciò a rinviare le lezioni e si fece sostituire dauno dei suoi migliori allievi, quel G. Giacomo Tritto, di Al-tamura, successore del grande Pergolesi. I governatori delPio Loco avevano deciso di licenziarlo, ma l’intervento delRe fece sì che il Cafaro mantenesse l’incarico, sino alla mor-te, di uno dei più prestigiosi conservatori del regno.

In quegli anni, ogni 12 gennaio, in occasione del comple-anno di sua Maestà, furono eseguite numerose Cantate atre o quattro voci e per queste composizioni ricevette deicompensi notevoli, se confrontati con i suoi stipendi diMaestro. Tra gli interpreti delle Cantate troviamo quel Gae-tano Majorano (Caffariello), il soprano beniamino del pub-blico sancarliano, che si distingue per la sua consuetabravura.

Siamo nel gennaio del 1769 quando al San Carlo fu rap-presentata l’Olimpiade, l’opera più importante di Pasqualeche esprime ormai la matura personalità del nostro com-positore, su libretto di Pietro Metastasio. Il successo fu tan-to e tale che venne repli-cata per ben tre voltenella Reggia di Caserta,alla presenza dei Reali.

Qualche mese dopo,l’imperatore GiuseppeII, durante una visitanella capitale, sentì can-tare la sorella M. Caroli-na e volle conoscere ilsuo maestro. Con luitenne discorso sopra varipunti della scienza armo-nica ed il nostro gli ri-spose con erudizione edottrina. L’imperatoredisse alla sorella che do-veva essere ben contenta diavere a maestro un uomocosì degno ed istruito.

L’anno dopo, il 13 agosto, egli curò l’allestimento di An-tigono, del Metastasio, per onorare i diciotto anni della re-gale alunna. Nel dicembre del 1771, alla morte di G. DeMajo e grazie alla stima della regina, Pasquale fu nomina-to, senza concorso, Primo Maestro della Real Cappella.

Nei suoi ultimi anni di vita, nonostante si disinteressas-se del teatro, fu incaricato, in sostituzione di Bach, dallagiunta dei Teatri di Napoli, dal 1774 e sino alla morte, dipresiedere le piazze degli strumenti addetti all’orchestra del Re-gio Teatro San Carlo, non avendo trovato persona più espertaed onorata di lui, tanto che l’ultima consulta porta la sua fir-ma un anno prima della morte. Il suo desiderio era quellodi rimanere nel ricordo dei posteri come compositore dimusica sacra, la cui umiltà lo spinse a rispondere a PadreGiovan Battista Martini (frate francescano compositore dimusica sacra) che gli chiedeva un suo ritratto per collocar-lo nel conservatorio di Bologna, tra i gli insigni maestri,con una lettera datata 22 giugno 1779: “Di quel che VostraPaternità Illustrissima e Reverendissima mi comanda riguardoal mio ritratto io per dirLe del vero mi arrossisco di stare tra que-sti ritratti di tanti valentuomini… ma non ho potuto fare a me-no di non ubbidirla. Perlochè ho dato subito il recapito per darloaffare, e terminato che sarà si spedirà a Bologna”.

Il buon Pasquale si fece dipingere nell’atto di comporreun Gloria Patri scritto a Canone Infinito. Oggi quel quadroè nel Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna. Per

quarantatré anni, egli diresse, fino alla morte, nella chiesadi San Pietro a Majella, le celebrazioni in onore di San-t’Oronzo, santo patrono della colonia leccese che viveva aNapoli.

Il pio Maestro si spegneva a Napoli il 23 (o 25) ottobre(settembre per altri) 1787, nella sua casa del Rione di San-ta Maria di Ognibene, per una cancrena che gli si formò in po-chi giorni da ostinata incuria, contro cui furono inutili i rimedidell’arte salutare…

Altri invece lo vogliono morto di attacco apoplettico die-tro un rimprovero della sua alunna Maria Carolina, per unanello di gran valore smarrito, che poi venne riportato fuori daun bacile della di lei toletta…

Il nostro umile e modesto concittadino di grandi virtùmorali fu sepolto, dopo le solenni onoranze funebri, a cuiparteciparono tutti i più grandi musicisti napoletani, nel-la Chiesa di Montesanto, nella Cappella di Santa Cecilia,presso l’altare alla cui erezione aveva contribuito economi-

camente, accanto allatomba di Leo e delgrande Scarlatti. Nellacappella, dedicata allapatrona dei musicisti,avevano l’onore di esse-re seppelliti solo i più il-lustri e veramente piiartisti.

Ai funerali furonoeseguite opere del Mae-stro e brani liturgiciscritti per l’occasionedagli alunni di quelConservatorio, in cuiera stato alunno e do-cente.

Tutte le sue composi-zioni profane e teatralifurono lasciate al suo

amico Don Nicola Bosco, mentre alla Real Cappella lecomposizioni sacre; i suoi augusti sovrani le fecero esegui-re, in suo ricordo, per molti anni dopo la sua morte. Degnosuccessore del maestro galatinese, con il compito di sovrin-tendere all’Orchestra del San Carlo, fu Giovanni Paisiello.

Ora mi chiedo che cosa Galatina abbia fatto in suo ono-re e ricordo, se non l’intitolazione di una breve strada adia-cente la chiesa dei domenicani. Una rivalutazione del suolavoro fu fatta dal maestro Luigi Adolfo Galluccio, in arteGalladol, all’indomani della seconda guerra mondiale, an-ch’egli studente di giurisprudenza a Napoli ed allievo delconservatorio di San Pietro a Majella.

Tanti spartiti del Cafaro sono conservati nella sua casadi Vico del Carmine, gelosamente custoditi dagli eredi. Ilprofessore Bruno Massaro ha intitolato a lui il suo centromusicale e l’allora sindaco Beniamino De Maria, convintodel valore educativo della musica, lo volle ricordare con unconcorso nazionale per giovani pianisti.

La sua grande personalità, inserita nella migliore tradi-zione della scuola napoletana, è in attesa, quindi, di esse-re rivalutata perché egli fu persona dignitosa e certamentenon priva d’estro. Le sue composizioni e i suoi manoscrit-ti sono conservati negli archivi e nelle biblioteche di tuttaEuropa a perenne ricordo del suo nome e della città chegli diede i natali. ●

Napoli - Real Conservatorio San Pietro a Majella

Rosanna Verter

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Un respiro caldo e profondo, che profuma d’antico, si eleva sopra le terre riarse dal sole e, brulle, si specchiano le om-bre immortali su quelle pieghe d’argilla che narrano, ancora, di uomini e miti, di lavoro e fatica, di quella solitudinemillenaria che sembra eterna quanto non più eterne, ma brevi, sono divenute le stagioni della vita.

Argilla modellata dal silenzio e dal rigore dell’ispirazione, che non cede mai il passo all’improvvisazione, chiusa com’è inquell’alveo dell’isolamento pensoso che precede l’atto creativo finale. Materia calda e terrosa, passata al fuoco lento della fu-cina di Efesto non prima di immergersi nella casta bellezza di Afrodite, sua sposa.

Natura solare e mediterranea, che ispira da lungo tempo l’arte fittile di Vito D’Elia e si riversa copiosa sulle sue opere, giàesposte nella storica bottega di Giovanni Santi, in quella che un tempo fu la Casa Natale di Raffaello ad Urbino. Sono scultu-re significative, in terracotta, che appartengono alla stagione più matura dell’arte del maestro galatinese, che catturano la no-stra attenzione per quell’essenza immaginifica, per quella sostanza metafisica, per quel modo di esprimere, attraverso lemodulazioni chiaroscurali e volumetriche della luce, la verità di una forma che conquista prepotentemente lo spazio e diven-ta, nel breve volgere di un battito d’ali, stile e metafora di una raggiunta sintassi espressiva.

Sono una ventina di piccoli capolavori che trasmettono il misterioso fascino dell’enigma insoluto, dell’apparizione improv-visa, dell’emozione subitanea che sorprende e stupisce anche per quel continuo variare d’accenti lirici e note in prosa che for-mano, nell’insieme dei soggetti trattati, il carattere più evidente di una perfetta coralità narrativa, dal profondo contenuto

poetico. Non è poi così difficile riconoscere, in quei teatrini me-tafisici del silenzio, in quegli ambienti domestici violati dallosguardo e dalla natura impervia dell’ora, in quelle dimore dipietra che celano il mistero dell’esistenza; insomma, in quei luo-ghi severi e spogli, dove si consumano le stagioni della vita en-tro le misure di uno spazio angusto, dove la solitudine rendel’uomo straniero di se stesso e del proprio tempo, riconoscere lasostanza iconografica di un’epica narrativa, di una cultura figu-rativa che fonda le sue radici nella storia millenaria di una ter-ra e di un popolo, il cui respiro sconfina dai ristretti limiti dellatradizione più illustre verso l’essenza di una comune matricedi appartenenza, di natura mediterranea, che è propriamentelegata ad un modo d’essere e percepire, di vivere ed esperire larealtà tutta, nel suo perpetuo divenire storico e fenomenico.

È per noi, invece, davvero incomprensibile il lungo e immo-tivato silenzio che l’artista galatinese ha imposto alla sua arte, alsuo lavoro, tanto che sorprende come questa, fortunatamente,ha sopportato il trascorrere del tempo e il vivere appartato delsuo artefice, presentandosi ora, al nostro sguardo, ancora frescae sincera, d’umori e sostanze poetiche che paiono indelebili tan-to sono impresse sulla materia nobile dell’argilla, come gli afro-ri di marzo che inebriano l’aria al passare della tempesta, comeil decantare di un distillato carico di aromi e profumi.

Come spesso accade, l’opera d’arte riflette l’animo dell’artista,la sua personalità, il suo carattere, tant’è riconducibile all’im-pronta del suo temperamento, alla dimensione del suo tempovissuto, alla sua sensibilità e intelligenza creativa.

Le sculture fittili di Vito D’Elia sembrano indicare che l’arti-sta ha operato nella piena consapevolezza dei propri mezziespressivi e nella convinzione che il lavoro, quello serio, coltempo ripaga i sacrifici e gli sforzi fatti per conquistare la so-stanza stessa dell’arte, così da cavare dalla materia più inerte

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SCULTORI SALENTINI

Natura violenta Natura violenta

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quella scintilla di luce che rende più comprensibile ogniframmento di verità e bellezza.

S’intuisce che Vito D’Elia ha preferito l’isolamento, l’ope-rare pensoso, il lavoro appartato e febbrile, per esprimerele temperie personali. Rileggendo i suoi dati biografici si ca-pisce come D’Elia si sia volutamente e consapevolmente te-nuto “lontano” dai clamori della mondanità e abbia preso ledistanze dal chiassoso chiacchiericcio modaiolo ed effime-ro che circonda l’attuale mondo dell’arte, che alimenta le fu-tili velleità di chi aspira più al riconoscimento immediato, intermini soprattutto economici, del proprio lavoro che allareale consistenza della propria visione del mondo, quale es-sa sia.

Non da meno egli ha scelto, quale terreno fertile su cui fargerminare la metrica del suo linguaggio poetico, la scultu-ra fittile, che gode di una tradizione antica quanto illustre,che radica le sue origini nell’arcadia dell’arte greca e, ancorpiù oltre, nella profondità della civiltà mediterranea, ma cheoggi è quasi caduta in disuso, tant’è negletta presso gli arte-fici del nostro tempo (pur facendo i soliti distinguo e pur ri-conoscendo qualche sporadica, seppur significativa,eccezione del caso). Non, dunque, la scultura di tradizioneaulica, marmorea e monumentale, fatta “in levare” con lafatica dello scalpello che opera rumorosamente e incessan-temente sulla pietra dura o sul nobile marmo, ma il model-lato plastico, scelto quale mezzo più silenzioso e certamentepiù riflessivo per realizzare forme e composizioni che pas-sano attraverso la paziente manipolazione dell’argilla, chediventa lavoro febbrile solo all’approssimarsi di quel toccofinale, che precede di poco la “cottura”, ultima alchimia ri-generativa del fuoco che trasforma la materia friabile del-l’argilla in calda terracotta umbratile.

Dunque, scelte tecniche precise che possono apparire ana-cronistiche e controcorrente ma che palesano, invece, unasensibilità ed una intelligenza espressiva che si pone fuoridai canoni comuni e dalle convinzioni che regolano l’attua-le panorama artistico.

E ancor più la tecnica rivela come il respiro creativo di Vito D’Elia non è afflitto dai consueti mali che contaminano tantaparte dell’arte del nostro tempo; la sua opera non si piega alle tendenze del gusto e della moda corrente, non strizza l’occhioalle soluzioni facili e d’effetto, figlie di una speculazione oratoria che ottunde l’intelligenza estetica di questa nostra civiltà spe-culativa. Civiltà sempre più effimera e di massa per quanto omologata su stereotipi mediatici, di comunicazione virtuale e in-formatizzata. Ancor meno si contamina dei germi depressivi propri di un’affabulazione nichilista, di natura antiestetica, ches’inchina all’oratoria ermetica e neghittosa dei discepoli dell’arte concettuale, povera, minimale tipico di questa confusa Ba-bele d’accenti e dialetti da “villaggio globale”.

La sua arte è sincera, il messaggio è chiaro, anche quando esprime il mistero, l’enigma del silenzio, che possono condurreal disorientamento, all’incomprensione. È un’arte che conduce, semmai, alla riflessione pensosa, al richiamo costante verso i

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Settembre

Pomeriggio d’agosto Eccessi religiosi Libertà d’espressione

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canoni estetici e ai valori formali della tradizione figurativapiù illustre, che trae le sue origini dal mondo classico ma che,al contempo, sa rigenerarsi bagnandosi nella linfa della mo-dernità, nel flusso vitale che genera lo scorrere del tempo pre-sente su quello passato. I soggetti, trattati nel vigore di unmodellato plastico perentorio per quanto evidente nella defi-nizione della forma, nascono come avulsi ad ogni facile affa-bulazione iconografica, contrari ad ogni forma di cinismofigurativo.

Il significato poetico si allinea sui valori e sugli esempi piùillustri che hanno caratterizzato tanta parte della cultura figu-rativa del nostro Novecento. Su quelle pieghe di argilla cotta,sulle curve e masse plastiche, su quei rilievi di luce non menoche su gorghi generati dalle tenebre e dall’ombra passano an-cora le passioni plastiche e pittoriche che animarono il puri-smo di Arturo Martini, i teatrini immaginifici di FaustoMelotti, le metafisiche contemplazioni di De Chirico e le vi-sioni surreali di e stranianti di Savinio, ma anche e soprattut-to la delicata fronda, venata di nostalgia e luce mediterraneadel realismo magico, che impiantò la modernità sulle radicistesse del sentimento classico.

Per chi è ancora capace di “vedere”, queste di Vito D’Eliasono sculture dove il movimento della forma assume un tonopotentemente evocativo, riservato entro la misura di una so-spensione temporale degli eventi, dello spazio e del tempo,che mantiene in sé proprio quel carattere metafisico, classicoe mediterraneo, che noi riconosciamo come storicamente e cul-turalmente “nostro”, dove il silenzio domina l’astrazione delgesto, dove l’evento vive nell’attesa spasmodica del suo com-pimento e l’accadimento entro il mistero inspiegabile della vi-ta, enigmatici per quanto imponderabili ma, per questo, ancorpiù sorprendenti e misteriosi. ●

Sulla mia pelle

Perdono OrientaleRoberto Budassi

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Forse dovremmo essere un po’ più orgogliosi dellenostre città. E amarle per il loro giusto verso. Con fie-rezza moderna, evoluta, proiettata al domani.

Amarle, intanto, e onorarle, come la terra dei nostri pa-dri. Delle nostre radici sentimentali e civili, guardando adesse come a un patrimonio da sviluppare e trasmettere.Tanto più se la nostra patria, piccola o grande che sia, pos-siede oggettivi riscontri di arte e di storia.

La nostra terra, il Salento leccese, terra di memorie e fu-turo, è una madre di cento figli.

Per ricomporre l’originaria Terra d’Otranto, al già viva-ce comprensorio dei 97 comuni d’oggi andrebbero aggiun-ti quelli delle province di Brindisi e Taranto, nonchédell’area della provincia di Matera, che vi faceva parte in-tegrante.

Il territorio attuale, negli ultimi lustri, e pur con qualcheinevitabile improvvisazione elimitazione, è diventato unpolo di richiamo irresistibile, un crogiuolo d’idee, un la-boratorio di progetti.

Il Salento, infine, per nostra fortuna, non è del tutto uni-forme: è, anzi, unmosaico di tesserevariopinte. Ha i colo-ri di Lecce e di Galati-na, di Maglie e diNardò, di Gallipoli edi Ugento, di Calime-ra e di Soleto. Ha ve-stigia antichissime,monumenti sacri e ci-vili di rilevanza na-zionale, una propriaUniversità, gloriosi li-cei, biblioteche, mu-sei, circoli e fermenticulturali. Le vaste di-stese di ulivi, di vi-gne, di frutteti e difiori sono racchiusetra le albe di Otrantoe i tramonti di Galli-poli. Con piazze vi-vaci di mercati e difesta. E una corona ditorri che dal mareAdriatico e dallo Jonio degradano, congiungendosi comeuna collana, verso l’estremo lembo di Santa Maria di Leu-ca de FinibusTerrae. Ai confini del mondo.

Geografia che si fa storia. E storia che diventa leggenda.52. I confini tra il tempo reale e quello fantastico sonosempre difficilmente distinguibili. Come, e ancor più,quelli che si accavallano tra religione e superstizione, trasacro e profano.

Quanto meno insolita, a tale proposito, per i suoi possi-bili risvolti a sorpresa, appare l’antichissima processionedi San Pietro in Bevagna, legata a un rituale propiziatoriodella pioggia, che si celebra tuttora a Manduria, in ricordodei tempi in cui s’invocava con particolare devozione l’in-tervento del Santo perché debellasse ogni prolungato sta-to di siccità, pregiudizievole per i raccolti, del tuttofondamentali per l’economia locale.

Succedeva, allora,che i contadini por-tassero in processio-ne, dalla chiesettadella frazione di SanPietro in Bevagna fi-no alla Chiesa Matri-ce di Manduria,l’immagine sacra del-l’Apostolo, al quale sirivolgevano con pre-ghiere, canti, suppli-che, e penitenzed’ogni genere, por-tando sulle spallegrossi rami e tronco-ni d’albero. Oggi, in-fatti, è denominata“la processione deglialberi”.

D u r a n t equest’atto dip e n i t e n z acollettiva, sideclamanoaltresì alcu-ne litanie po-polari, spes-so improvvi-sate e co-munque estranee alla liturgiaufficiale ecclesiastica. Una fra lepiù note recita: «Santu Pietru bi-nidittu, / ca a lu desertu stai, / tantu bene ti òzziCristu / ca ti tanò li chiài: / tànni a nui lu Paradisu,/ tu ca n’hai la potestai!» (San Pietro benedetto, / chenel deserto stai, / tanto bene ti volle Cristo / che ti do-nò le chiavi: / dai a noi il Paradiso, / tu che ne hai la po-testà).

Fino a qualche decennio addietro,quando il rapporto tra il popolo deifedeli e il Santo era, per così dire, piùfamiliare e diretto, se la pioggia tar-dava a cadere, non si andava tantoper il sottile, e si metteva San Pietro...

in castigo! I contadini ne sistemavano l’imma-gine fuori dalla Chiesa, e si rivolgevano ad es-sa con espressioni neanche tanto velated’insulto o di minaccia, talora perfino aspre edure, finché la pioggia non tornava ad irrora-re i campi. E finalmente avveniva la riappaci-ficazione.

Una leggenda nella leggenda riguarda l’ar-rivo dell’Apostolo sul litorale di Bevagna. Nelviaggio verso Roma, egli trovò riparo in que-sti lidi dopo il naufragio della sua piccola im-barcazione, e stanco e assetato si diresse versouna fonte che aveva intravisto non lontano.Accanto alla fonte si ergeva la statua di un diopagano (forse Zeus, secondo la tradizione piùdiffusa), al che San Pietro si fece il segno del-

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Quando muoiono le leggende finiscono i sogniQuando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Diciassettesima puntata

di Antonio Mele ‘Melanton’

San Pietro in Bevagna (TA)Processione degli alberi

San Francesco

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la croce, e immediata-mente la statua sifrantumò ai suoi pie-di. La gente che assi-stette al prodigio sistrinse allora attornoal Santo, acclamando-lo e convertendosi alCristianesimo.

Un’ultima curiosità,che con San Pietronon c’entra ma conManduria sì.

La bella città di ori-gine messapica, capi-tale del famoso vinoPrimitivo, è fra le po-che al mondo – insie-me a Oria – chefesteggia solenne-mente i Santi Medici.

Qualcuno obietteràche i Santi Medici so-no festeggiati in moltialtri paesi dell’Italia edel mondo. Dove sa-rebbe, quindi, questapresunta ‘esclusività’?

Ecco spiegato l’arca-no. Tutti (o quasi)

sappiamo che i Santi Medici sono i duefratelli gemelli Cosma e Damiano. Maquanti sanno che, accanto a loro, ci sono

altri tre fratelli, medici anche loro, e anche loro martiri esanti? Si chiamano Antimo, Euprepio e Leonzio. E Man-duria – come Oria – li festeggia tutti e cinque insieme. 53. Fra i tanti Santi onorati nel Salento c’è il Poverellod’Assisi, protagonista anch’egli di una leggenda.

Si narra che San Francesco, mentre ritornava da un suopellegrinaggio in Palestina, decise di fermarsia Lecce per dare vita ad una nuova comunitàreligiosa. Si mise quindi a predicare, e in bre-ve tempo radunò molti confratelli, vivendo dicarità.

Ci fu un giorno, in cui ebbe molti problemia raccogliere cibo sufficiente per tutti. Avevagià bussato ad ogni porta, ma il ricavato eraancora del tutto scarso. Per ultimo, bussò allaporta di un vecchio contadino, povero anchelui, che viveva da solo in una casupola appenafuori città. «Sono addolorato, ma non ho damangiare neanche per me: non ho neppureuna briciola di pane raffermo...», disse il vec-chio a San Francesco, e richiuse la porta.

Per nulla turbato, il Santo bussò ancora. E ilvecchio gli riaprì: «Fratello, mi dispiace...», re-plicò, «...ma neanche l’albero di arancio che hoin fondo al giardino, che è l’unica mia risorsa,quest’anno ha dato frutti!”.

San Francesco chiese allora di essere accom-pagnato in giardino. Si fece il segno della cro-

ce e si avviarono. Quando vi furono giunti, il vecchio contadino rimase

ammutolito dalla sorpresa, e s’inginocchiò, e pregò, pian-gendo dalla gioia e dalla commozione: l’albero era infattimiracolosamente stracarico di arance, e in tale abbondan-za da sembrare perfino più grande! E tutto quel ben di Dio,raccolto in ampie ceste, non solo bastò per sfamare i fratel-li di San Francesco e il contadino stesso, ma furono anchedonate a tutti i vicini di casa.

Nessuno sa indicare il luogo esatto, ma a Lecce sono inmolti a dire che l’arancio benedetto di San Francesco cre-sce ancora rigoglioso per sfamare i poveri, e ha foglie convirtù terapeutiche, che guariscono da molti mali.54. È noto che il Salento – e particolarmente Brindisi

(dove giunse da un viaggio in Grecia, e si fermò fino allamorte, avvenuta il 21 settembre del 19 a.C.) – ha ospitatoper un periodo più o meno lungo il grande poeta latinoPublio Virgilio Marone. Non tutti, però, sanno che l’auto-re dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche, aveva famad’essere un mago. A lui, infatti, furono attribuite varie im-prese prodigiose, tanto che la nomea del “Mago Virgilio”

si diffuse ben pre-sto in tutta la Pu-glia, e nell’interoRegno di Napoli. Eper secoli, fin qua-si ai nostri tempi,allorché un’operadestava meravigliae stupore per lasua grandiosità, sidiceva: «L’have fat-ta lu Macu Virgi-liu!».

Così avvenneappunto a Tarantocon la famosa fon-tana di PiazzaMercato, alimenta-ta da un colossaleacquedotto chepassava sopra ilponte di pietra diPorta Napoli: tuttoil popolo era con-

vinto che fosse opera de lu Macu Virgiliu, che con tale im-presa (compiuta, peraltro, in una sola notte!), avevafinalmente vinto la sfida con le Streghe per il dominio sul-la città.

Di questo preciso evento, e delle magiche capacità diVirgilio, dà precisa testimonianza in un suo saggio ancheil filologo romano Domenico Comparetti (1835-1927), ci-tando peraltro il seguente “sincero e grazioso cantod’amore, udito dalla bocca di una contadina, in un pic-ciol villaggio presso Lecce”: «Diu, ci tanissi l’arte de Vargil-lu: / nnanti le porte toi nducìa lu mare / ca de li pisci me facìapupillu, / mmienzu le reti toi enìa ‘ncappare ; / ca di l’acelli mefacìa cardillu, / mmienzu lu piettu tou lu nitu a fare; / e suttal’umbra de li to’ capilli /enìa de menzugiurnu a rrepusare».Ah, l’amore, l’amore...Alla prossima. ●

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Quando muoiono le leggende finiscono i sogniQuando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Diciassettesima puntata

di Antonio Mele ‘Melanton’

San Francesco

Virgilio

(continua)

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Irisultati di chi opera in ambito artistico e culturale pos-sono essere esaminati sia rispetto alla singola operaprodotta, intesa come evento unico e irripetibile, che

in termini di processo, ossia come sviluppo ininterrottoche attraversa fasi definibili per motivazioni, interessi edesiti in qualche modo accomunabili. È possibile adottarequesta tipologia di indagine anche in riferimento alla pro-duzione più recente di Antonio Stanca, dopo averne ripre-so gli elementi costitutivi più generali, al fine di definirnele eventuali linee di evoluzione.

L’attività dell’autore nell’ambito della ricerca visiva si èsviluppata pressoché ininterrottamente per oltre mezzo se-colo. Le diverse fasidella sua produzioneartistica gli hannopermesso di perveni-re a nuclei tematiciche riescono in modoperdurante a solleci-tare fortemente la suaindagine nel campopittorico, preservan-do una personalissi-ma modalità espres-siva ancora capace diuna notevole spintarealizzativa, che di-mostra come l’artistasia in grado di rivita-lizzare i suoi impulsicreativi.

Convenzionalmen-te la produzione arti-stica di Stanca vieneconsiderata come pit-tura astratta o infor-male, definizione al-quanto riduttiva che serve a distinguerla dalla pittura rea-listico-figurativa, che si richiama alla realtà per trasmetter-ne le peculiarità in modo più o meno fedele. L’arte astratta,in tutte le sue varie espressioni, sposta l’attenzione dall’og-getto percepito alla percezione stessa e al processo realiz-zativo che conduce all’opera finita, ed inoltre richiedel’elaborazione di un linguaggio che sia in grado di corri-spondere tanto ai diversi elementi costitutivi della perce-zione, quanto alle modalità espressive che l’artista ha

deciso di adottare. Il contesto esistenziale in cui si realizza l’operazione ar-

tistica di A. Stanca rivela una prospettiva esclusivamentedi tipo immanente, in cui gli elementi di riferimento sonorappresentati da dati esperienziali empirici, dalle compo-nenti razionali proprie dell’agire umano, dalle condizionievolutive degli elementi inorganici ed organici presentinella realtà, dall’ordine o dalla casualità che conferisconomovimento e pulsione ritmica al fluire degli eventi quoti-diani. Entro questi orizzonti di deliberato realismo, appa-rentemente avulso da velleità metafisiche, il compito chel’autore attribuisce alla sua ricerca si esplica in tre modi:

1. diagnostico-epifa-nico: l’esperienza pit-torica è concepitacome una forma diconoscenza che attra-verso l’investigazionedella realtà percepitatende a rendere mani-festo anche il non-percepito, ciò che sicela nelle distanze de-gli spazi siderali, ne-gli abissi reconditi,nei meandri infinite-simali che compongo-no la materia inerte ogli elementi organici;2. introspettivo: l’ope-ra d’arte rispecchia si-tuazioni che emer-gono dalla psiche edalla sfera emoziona-le, inducendo l’artistaa interrogarsi su que-sto o quel dato della

realtà, a staccarsene trovando vie di fuga o rimanervi an-corato, a rassegnarsi o ribellarsi, tutti elementi di cui l’ope-ra d’arte reca in sé tracce profonde; 3. estetico: il prodottoartistico rappresenta una sintesi che chiude una fase delprocesso di ricerca, superando la mera accidentalità deglielementi rappresentati, ed incanalandoli in una visioneprospettica che tende a dare valore di universalità al ten-tativo dell’artista.

Alcune componenti espressive della pittura di Stanca

PITTORI SALENTINI

Antonio Stanca

continuità ed evoluzione nella ricerca visiva

di Giuseppe Magnolo

Fig. 1 UNIVERSUM B-88, 14-05-2013

antonio stanca

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hanno ormai assunto carattere consolidato, fino a rappre-sentare dei tratti inconfondibili. Dal punto di vista temati-co-situazionale tali elementi sono individuabili nellospazio cosmico con le sue galassie e tutto ciò che ad esse è

pertinente, in angoli remoti e inaccessibili del nostro pia-neta, in realtà planetarie diverse da quella terrestre (i Pano-rami di Tancas), oppure ancora all’interno della materia edel suo nucleo costitutivo fondamentale. Le peculiarità sti-listico-espressive sono invece costituite prima di tutto dal-la luce e dal colore, ma anche dal rapporto tonale, dall’usodella prospettiva (sia aerea che geometrica), da occasiona-li effetti di dissolvenza. La luce riveste valenza fondamen-

tale, rappresentando spesso il fulcro attorno a cui siimpernia l’intera composizione. Altrettanto dicasi per lascelta del colore e le soluzioni che da essa scaturiscono conproiezioni di irradiamento (più raramente a cascata), vol-

te a dare articolazione dinamica a quanto rappresentato.Oltre alla simbologia specifica annessa ai colori, va eviden-ziata la lievitazione tra effetti caldo-freddo e chiaro-scuro,con fasi intermedie che scandiscono l’alterazione di ciascu-

no stato. Un altro dato costante è inoltre rappresentato dal-la propulsività delle immagini, che conferisce ad ognisingola opera pittorica una particolare connotazione cine-tica, talvolta appena accennata in forma ondulatoria osussultoria, fino a situazioni dirompenti di incontenibileenergia esplosiva .

Passando a considerare la produzione più recente del-l’autore, si può constatare come essa mantenga intatte le

sue connotazioni distintive, tra cui una polivalenza di si-gnificati che lascia ciascuna opera assolutamente aperta aqualsiasi suggestione o intuizione da parte dell’osservato-re. Nel contempo vengono però introdotti degli elementi,

Fig. 2 MULTIVERSO A-1, 14-09-2012 Fig. 3 PANORAMA SU TANCAS - 14, 04-05-2013

Fig. 4 UNIVERSUM B-86, 20-04-2013 Fig. 5 UNIVERSUM B-96, 29-08-2013

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apparentemente marginali o complementari, che se coltinelle loro proiezioni più profonde rivelano uno stato diprogressione nel processo di creazione artistica. Vediamoad esempio in fig. 1 come l’elemento materico, un tempodominante, sia surclassato dall’effetto di conflagrazioneprodotto dall’energia sprigionata da forze contrappostenell’universo, che hanno temporaneamente ceduto di fron-te alla spinta dirompente di corpi vaganti nello spazio,producendo un ennesimo Big-Bang che postula la ricercadi un nuovo equilibrio. Un’analoga situazione esplosiva èpossibile ravvisare anche in fig. 4, anch’essa sintomatica diun’urgenza precedentemente non avvertita dall’autore,che ora si sente come incalzato da condizioni psicologico-esistenziali che lo inducono ad un riposizionamento rispet-to a una situazione non più sostenibile in termini di puracontinuità.

Una mutazione altrettanto significativa si presenta in fig.2, dove gli universi paralleli, prima del tutto separati anchese vicini, ora rivelano spiragli di permeabilità che consen-tono margini di comunicazione tra situazioni non più di-

stinte e contrapposte, come avveniva in passato. I cunicolispazio-temporali che li perforano con i loro fasci di ener-gia introducono una nuova situazione di interferenza cheinterrompe la precedente condizione di isolamento. Con-siderando l’opera sia come correlata ad entità distinte op-pure ai diversi ambiti di una singola individualità, ècertamente un diverso modo di essere e di comunicare chequi si profila.

Nella fig. 3 si ripropone uno dei Panorami di Tancas, maper la prima volta si accennano forme di vita nelle roccepenetrate da esseri filiformi che arrivano ad assumere sem-bianze umane di uomo e donna, seppur privi di caratteri-stiche antropomorfiche. Forse è un’allusione alla pos-sibilità di un nuovo Eden, in cui si consumerà un’altra tra-sgressione con conseguente “caduta”, un appiglio per loscetticismo dell’autore rispetto al delinearsi di una diver-sa ed inedita storia dell’umanità.

Le opere in figg. 5-6-7 appartengono alla serie degli Uni-versi. In esse l’autore si interroga sull’origine dell’energiapositiva nell’universo, con soluzioni che appaiono innova-tive rispetto alle situazioni precedenti. Gli elementi in co-

mune sono rappresentati dalla spinta cinetica che crea unasensazione di rapido movimento all’interno di ciascunaopera, con un centro originario in cui si focalizza la lucecome principio di orientamento necessario. La novità daregistrare è nel fatto che il movimento (sia lineare che cen-trifugo) individuabile nelle opere precedenti ora è sosti-tuito da spinte contrapposte che simultaneamente sidipartono dal nucleo oppure convergono verso di esso, co-me a significare che l’energia sprigionata deve per vie di-verse rientrare nel suo alveo originario. Pertanto lepulsioni di puro allontanamento di un tempo vengono adessere sostituite da un movimento circolare di “eterno ri-torno”, in cui la forza vitale, dopo essersi dispiegata perun lasso di tempo determinato, torna poi ciclicamente acercare rifugio nella sua sede originaria.

Quali indicazioni di tipo interpretativo è possibile trar-re dalla nostra analisi? Solo qualche ipotesi, che si affian-ca alla constatazione di come l’uomo considerato entrolimiti di pura razionalità scientifica sia sempre destinato aperdersi nel grande mare dell’Essere, per poi vedersi co-

stretto a “riconsegnarsi”, magari mettendo in conto unaqualche possibilità di metempsicosi. Le realtà fenomeni-che così efficacemente rappresentate nelle opere recenti diStanca probabilmente trovano corrispondenza in statimentali che richiedono di essere espressi con messaggi vi-sivi più incisivi e radicali. Oppure ciò che si fa strada è laconsapevolezza che alcune convinzioni personali non piùgranitiche vengono ad essere scalfite dal tempo, che incle-mente obbliga a ripensamenti consuntivi prima ritenutinon necessari, o quantomeno rinviabili. Sicuramente il rap-porto dell’autore con la sua volontà di ricerca continua adessere intenso e travagliato, e, per quanto indubbiamenteappagante nei risultati sul piano artistico-creativo, sembracondurlo soltanto ad approdi provvisori su quello esisten-ziale, costringendolo quasi a persistere ostinatamente nel-lo scandagliare l’esistente, in assenza di una prospettivateleologica che possa dare senso compiuto alla vita sia in-dividuale che collettiva. È una scelta certamente coraggio-sa e motivante, che ha una sua coerenza ed è costan-temente aperta a nuove sollecitazioni, ma che rimane in at-tesa di un ulteriore colpo d’ala. ●

Fig.6 UNIVERSUM B-92, 05-06-2013 Fig.7 UNIVERSUM B-95, 28-08-2013

Giuseppe Magnolo

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Galatina ha una tradizione di gior-nali satirici che conferma il carat-tere di questa popolazione allegra,

spiritosa e talvolta caustica.Non per niente i galatinesi sono cono-

sciuti in provincia con il soprannome di“carzilarghi”, [letteralmente “guance gon-fie” (ndr)]. L’espressione è stata motivo didotte disquisizioni sul suo significato, matutte inequivocabilmente confermano ilcarattere un po’ chiacchierone e guasconedella popolazione.

Nel nostro archivio conserviamo duenumeri di pubblicazioni satiriche che ri-salgono al 1904, intitolati “L’Ago”, stam-pato il 21 febbraio e (pronta risposta!) “LoSpillone”, uscito solo quattro giorni dopo,cioè il 25 febbraio.

La lettura dei due giornali, per noi po-steri, è difficile perché i personaggi presidi mira non hanno lasciato particolaritracce. Si può solo dire che erano tutti ap-partenenti al ceto alto della città (Mongiò,Tanza, Mezio, Congedo, Cadura ecc.) emolto spesso le rappresentazioni teatrali,con contorno di coriste e ballerine, fannoda sfondo.

Era, quindi, una satira circoscritta allaaristocrazia anche se, in concreto, nonmancava quella popolare che aveva, però,la caratteristica della oralità e non aveva,naturalmente, l’”onore” della carta stam-pata.

Sia chiaro che, in questa sede, non trat-tiamo della satira in forma poetica, che eb-be le sue massime espressioni in FedeleSalacino (Cino de Porta Luce) e Nino Cam-panella (Pinna de Lindaneddhra).

Perciò dobbiamo fare un salto al 1940,in pieno periodo fascista, anno in cui sipubblicò un fascicolo satirico – “Le Vesci-che e gli Spilli” – a cura del G.U.F. (Gio-vani Universitari Fascisti). Il compilatorefu Salvatore Ferrol, che poi sarà uno deimigliori docenti del Liceo classico “Co-lonna”.

Nella presentazione (non firmata ma re-dazionale) del numero si ha la riprova,ove ce ne fosse bisogno, che la “cultura”in cui vivevano questi giovani era a sensounico, prodotto naturale e logico di un re-gime che non permetteva termini di para-gone, fonti diversi, dibattiti aperti. Eranogiovani (absit iniura verbis) allevati “in bat-teria”, ideologicamente e culturalmenteparlando, ed erano tutti in buona fede.

Dice il fascicolo: “(…) L’allestimento deinumeri unici rientra nel programma che la Se-greteria del G.U.F. stabilisce per l’attività cul-turale. Oggi, più che mai, esso deve avere unaspetto sociale, risanatore, antiborghese. Sequest’ultimo termine (…) non da tutti è pie-namente compreso non è cosa nostra (…)”, ec-cetera, eccetera. “Oggi, che si opera inprofondità per incidere l’animo, lo spirito percreare l’individuo fascista, ognuno sappia cheil G.U.F. seguendo gli ordini indefettibili delDuce, è in linea con questa lotta (…)”.

Come si vede la confusione è grande. Iconati antiborghesi dei regimi totalitari(fascisti e nazisti) sono una congerie diNietzsche, Sorel, Futurismo, Arditismoche sul piano effettivo rimangono velleita-ri e, di fatto, sconfitti.

Conclude la presentazione: “Numerounico, nostra cara creatura (…) tu ora va’, ve-drai che il bravo ed intelligente pubblico gala-

tinese saprà accoglierti con tutti gli onori, per-ché in te vedrà tutta la giovinezza, l’ardimen-to, la gioia della lotta ed il gusto della polemica:le armi con cui gli universitari fascisti combat-tono per vincere nel nome dell’Italia, come ilDuce comanda”.

Il lungo viaggio attraverso il Fascismo,secondo la felice definizione di RuggeroZangrandi, a proposito di questa genera-zione, tra qualche anno si concluderà,spesso tragicamente.

Nel dopoguerra, dal 1953 al 1984, vedo-no la luce numerosi giornali satirici, qua-li la “Cuccuvàscia” (1953), che poi sichiamerà “La Civetta”, organo dei gior-nalisti di Galatina che si pubblicava in oc-

casione degli annuali, magnifici,“Veglioni della Stampa”.

Nel 1970 si pubblica “La Racchietta”, inoccasione del veglione del Circolo Tennis.

Altri numeri sono legati alle festività diNatale, come ad esempio “Lu Presepiu”(1983) e “La Befana” (1984) o alle feste pa-tronali di fine giugno, come ad esempio“La Taranta” (1971 e 1984).

Dopo, il silenzio. ●

SCRIVEVANO I NOSTRI PADRI...

La prima è stata “L’Ago”, l’ultima “La Befana”

Le riviste satirichea Galatina

La prima venne alla luce nel lontano 1904, l’ultima nel 1984

di Carlo Caggia

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Nel centro abitato di Castro, la splendida e apprez-zata “Perla del Salento”, esiste un cartello di se-gnaletica stradale indicante Via Frasciule, nella

omonima zona di espansione edilizia, fra civili case popo-lari e edifici di tipo residenziale.

L'area in questione si trova alla periferia della cittadina,esattamente accanto a un comprensorio di verde pubbli-co, ricco di lecci, macchia mediterranea e altre interessan-ti specie di flora, denominato Parco delle querce, e però,lungo l’arco di secoli, già conosciuto con un appellativodifferente, ovvero Bosco Scarra o Bosco dello Scarra.

Nel 2013, ci troviamo, dunque, nell’ambito di un agglo-merato abitativo, mentre, fino ad alcuni decenni addietro,si aveva di fronte semplicemente un fondo rurale, in mez-zo ad altri terreni agricoli, adiacente al comprensorio delbosco sopra indicato, che, sebbene rimaneggiato, è tuttorapresente.

Tuttavia, si ha l’espressa intenzione di dedicare questerighe non già alla situazione attuale, bensì alla mappa, con-sistenza e destinazione precedenti del sito in discorso; delresto, dell’habitat dei tempi lontani, ancorché risalente al-la sua primissima fanciullezza, dai due ai quattro annid’età, l’osservatore di strada che scrive serba un ricordo vi-vo e nitido.

Con riferimento a quel posto, l’immagine passata conte-neva niente più che il fondo agricolo delle Frasciule, acca-tastato come seminativo, ricco di piante di fico, conl’aggiunta poi di qualche albero di carrubo e adibito anchealla coltivazione di ortaggi.

Ne era proprietario, un signore originario di Marittima,anche se, da adulto, aveva scelto di trasferirsi a Lecce, fa-cente parte di una famiglia signorile del paesello, tale donGustavo Russi. Per completezza di logistica, v’è da aggiun-gere che, durante la stagione dei bagni, il predetto bene-stante se ne veniva in villeggiatura a Castro, dovepossedeva una villa in zona Grotta del Conte.

Negli anni quaranta, intorno alla fine della seconda guer-ra mondiale, nonno Cosimo, capo di una famiglia nume-rosa con moglie e sei figli a carico, prese a mezzadria, dadon Gustavo, l’anzidetto appezzamento delle Frasciule,conducendolo direttamente per svariate stagioni.

Sul terreno insisteva anche una casetta in pietra, che, for-tunatamente, è sopravvissuta e si può scorgere tuttora, siapure circondata, in parte, dalle palazzine recentementerealizzate intorno.

Una casetta (caseddra) spartana, tipica e simbolo della ci-viltà contadina, dotata di un’apertura d'accesso sul fronte-spizio, senza ovviamente alcun infisso o porta in legno o inaltro materiale, sovrastata da una finestrella a forma trian-golare, finalizzata, insieme con un altro finestrino quadra-to situato al centro della parete posteriore, all’aerazionedell’ambiente interno. Caratteristica carina, una scaletta,parimenti in pietra, appoggiata a una parete esterna, permontare, dal terreno, sino alla copertura del manufatto.

Nel periodo estivo, in cui si concentravano diversi rac-colti agricoli, ossia a dire patate, grano, orzo, legumi, lupi-ni, fichi, carrube, fichi d'india ecc., nonno Cosimo, unita-mente al suo nucleo familiare, si trasferiva stabilmente al-

Caseddra

A Castro

“la caseddra”delle mie frasciule

di Rocco Boccadamo

A Castro

“la caseddra”delle mie frasciule

Castro (LE) - Il rientro dei pescatori

SU E GIÙ PER IL SALENTO

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le Frasciule, attendendo ai lavori, consumando i pasti e ri-manendo, infine, a dormire: tutti insieme, nella ricordatacasetta. Per letti, semplici stuoie aperte sul pavimento e, inogni caso, vale la pena di rimarcarlo, dopo le lunghe ore difatica, il riposo alle membra eil sonno ristoratore non tar-davano a venire.

Le Frasciule rappresentava-no, in un certo qual modo, labase principale per lo svolgi-mento, da parte della fami-glia di nonno Cosimo,dell’attività agricola nel suocomplesso, nel senso che an-che i raccolti di altri terreni,di proprietà o condotti amezzadria, ad esempio i fichimaturati nel Bosco dell’Ac-quaviva e contenuti in ca-pienti panieri di canne evimini, erano trasportati sulle spalle, ovviamente a piedi,sino alle Frasciule, per essere ivi spaccati ed essiccati al so-le su appositi cannizzi.

Per la verità, i giovani di casa Boccadamo, talora, si la-mentavano con il proprio genitore per tali lunghi tragitticon pesanti carichi addosso.

In quegli ormai lontani anni, dal 1943 al 1945, succedevadi tanto in tanto che lo scrivente, classe 1941, fosse tempo-raneamente affidato ai nonni paterni Cosimo e Consigliae relativi zii, così che trascorreva con loro alcuni periodinel fondo e nella casetta delle Frasciule.

Per coprire i quasi due chilometri di strada fra il rionenatio dell’Ariacorte e, giustappunto, la provvisoria dimora,il bambino non ce la faceva o, perlomeno, dava ad intende-re di non essere in grado di camminare a piedi e, di conse-

guenza, doveva intervenirela buona volontà e la pazien-za del giovane zio Vitale, ilquale si caricava Rocco sullespalle.

Nonostante tale provvi-denziale venuta in soccorso,rimaneva, per il piccolo, unaltro problema: egli aveva unterrore matto della morte,dei defunti e di tutti i riferi-menti e ambienti correlati,compreso il cimitero del pae-se, caratterizzato da alti ci-pressi. Purtroppo, per recarsidall’Ariacorte alle Frasciule,

era inevitabile percorrere la strada comunale sterrata Ma-rittima – Castro, si doveva passare per forza accanto alcamposanto, cosicché succedeva immancabilmente cheRocco, non appena intravedeva da lontano detti cipressi,serrasse gli occhi e si avvinghiasse al collo dello zio Vita-le tenendo il capo abbassato, per ritornare poi ad aprirsidall’isolamento e a guardarsi intorno solo quando si ren-deva conto che il cimitero era stato superato e si trovava or-mai lontano alle spalle.

Scorrevano serene e interessanti le giornate del piccoloospite alle Frasciule: caccia alle lucertole o ai grilli, costru-

Marina di Castro (LE) - Il porticciolo (anni ‘30)

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zione di rudimentali dischi con le pale di fico d'India, sca-late sugli alberi da frutta per abbondanti assaggi, qualchepuntata spericolata sino alla parte posteriore del fondo,dove si trovava una vasca di raccolta di acque piovane uti-lizzate a scopi irrigui.

Il pilune (grande pila), presentava all'interno, semi immer-se nell’acqua, alcune grossepietre ed era il regno incontra-stato di famiglie di rane, oltreche, a volte, abitacolo di qual-che biscia, in particolar mododi un rettile innocuo propriodi queste zone, il biacco, di co-lore nero intenso che solo adapparire, faceva scappare agambe levate il giovanissimoesploratore.

Alle Frasciule, si sussegui-vano e/o prendevano corpouna serie di abitudini rima-ste impresse nella mente, co-me le levate all'alba di nonno Cosimo al fine di raccoglierele primizie di frutta e ortaggi che recava in dono e omag-gio al proprietario del terreno don Gustavo, in villeggiatu-ra nella vicina Castro: così si usava fare allora.

Ancora, per consumare i pasti preparati dalla nonnaConsiglia nella quadara in rame rossa, non esistevano perniente le posate e per attingere il cibo dal grande piatto co-mune si faceva ricorso ai gambi di cipolla, opportunamen-te sagomati alla base in funzione di cucchiaio o diforchetta a seconda del tipo di minestra del giorno.

Bello e tonificante, come già accennato, era il dormire nel-la casetta delle Frasciule, adagiati alla meno peggio sul du-ro pavimento e, in qualche evenienza, con la compagnia diospiti non proprio graditi, sotto forma di un topolino, unalucertola o una sacara, altra varietà di rettile presente daqueste parti fra i vecchi muri o le pietraie, che, sebbene nonvelenoso, causa nei bambini forte apprensione e paura.

Durante la permanenza alle Frasciule, capitava ancheche, a Castro, si celebrasse la festa della Madonna del Ro-sario, o Madonna mmenzu mmare, con la caratteristica pro-cessione di barche, rito a cui il piccolo Rocco non mancavadi assistere accompagnato dai parenti.

Tempi lontani, abitudini tramontate e scomparse e tutta-via rimaste scolpite, giacché hanno segnato in manieradavvero profonda e incisiva la loro epoca. Ci penso, ognivolta che passo dalla zona delle Frasciule, ora centro abita-to. Scendendo da Marittima, il terreno era preceduto daun fondo comprendente una piccola casa di villeggiatura,detta il Casino, su due piani, delimitata da colonne in pie-tra tinteggiate di rosa, al pari della costruzione. Ci sonoancora, pressoché intatte, le colonne, mentre l’edificio sipresenta in gran parte crollato e stinto.

Nel Casino si recava ad abitare, in estate, una signoradi buona famiglia di Castro, donna Chiarina, la quale,rammento, aveva una figlia, Cecilia, non vedente dallanascita.

Con il trascorrere degli anni, venendo sempre maggior-mente meno le sue capacità fisiche, soprattutto quelle visi-ve, e in mancanza dei figli che potessero aiutarlo, perchéavevano messo su famiglia, il nonno Cosimo abbandonò la

conduzione a mezzadria delle Frasciule e così cessò ancheil trasporto delle panare di fichi dal Bosco dell’Acquaviva.

Nel ruolo di nonno Cosimo subentrò un suo nipote, ilquale, in seguito diventò proprietario del fondo, acquistan-dolo da don Gustavo. Fattosi a sua volta anziano, le Fra-sciule andarono al maggiore dei suoi figli. Quest’ultimo,

agli inizi, non era molto sod-disfatto del cespite pervenu-togli in eredità, ma poi,inaspettatamente, è stato percosì dire ripagato all’atto del-l'esproprio dell’area delleFrasciule per opera del Co-mune di Castro, in vista del-la realizzazione del comples-so abitativo.

Difatti, in tale sede, gli so-no stati dati in permuta alcu-ni appartamenti che assicu-rano alla sua famiglia un’ap-prezzabile rendita.

Gli anni dei temporanei soggiorni del piccolo Rocco alleFrasciule, precedettero di poco una fase assai importantenell’ottica della modernizzazione e dello sviluppo di Ca-stro, all'epoca facente parte, insieme all’altra frazione diMarittima, del comune di Diso.

Il richiamo va esattamente all'amministrazione, dal 1946al 1951, con alla guida il sindaco Agostino Nuzzo, ancoraadesso ricordato.

Il predetto primo cittadino si rese promotore d’impor-tanti e primarie opere per il migliore sviluppo e la cresci-ta di Castro, fra cui l'ampliamento di piazza Dante, lacostruzione della rotonda belvedere e il ponte che collegail Canalone al Porto Vecchio. Queste opere furono attuatecon piglio attraverso cantieri di lavoro, nonostante le pro-teste e le reazioni di alcuni signorotti. Questi lorsignori aCastro unicamente per la villeggiatura, vivevano in unmondo di benessere e godevano di privilegi esclusivi. Vuo-ti Gattopardi del Basso Salento, miravano più che altro aconservare la propria posizione.

Provvidenziale, dunque, l’azione di quegli amministra-tori pubblici che puntarono esclusivamente al bene dellacomunità e a prospettive di crescita diffusa. ●

Marina di Castro (LE) - Donne che riparano le reti

Rocco Boccadamo

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VIAGGIO IN TERRA D’OTRANTO

Premessa

Per la sua posizione geografica strategicamente im-portante, il Salento è stato da sempre considerato laprincipale porta verso l’Oriente e dall’Oriente. Infat-

ti, nel corso dei secoli, il territorio salentino è stato terra ditransito per l’Italia settentrionale e l’Europa, ma anche vi-ceversa. Non si dimentichi che alcuni contingenti delle va-rie crociate partivano dai porti di Brindisi e Otranto.

Il continuo flusso di genti non si è mai interrotto, provane sia che dal 1992 sino a primi anni del 2000 i salentinihanno assistito, quasi impotenti, a sbarchi considerevolidi albanesi in cerca di lavoro. Oggi quel flusso di migran-ti, come tutti sanno, si è spostato a Lampedusa, Siracusa,Crotone ed altre località meridionali.

Va anche ricordato che il Salento ha subito nel corso deisecoli numerose invasioni e scorrerie da parte di pirati al-banesi, turchi, saraceni, mori ecc., che saccheggiavano lepopolazioni rivierasche (soprattutto nel basso Adriatico),portando via monili d’oro e d’argento, preziosi arredi equant’altro avesse un certo valore.Venivano catturati gio-vani aitanti per essere venduti come schiavi nei mercatiorientali o anche destinati al “remo” delle galee. Nel casoin cui i rapiti appartenessero a famiglie facoltose, per il lo-ro riscatto era richiesta una consistente somma di denaro.

Per ovviare alle continue scorribande, molte popolazio-ni preferirono abbandonare i villaggi costieri e rifugiarsi nell’entroterra a 5-6 chilometri di distanza dal mare, dove un attacco saraceno sarebbe stato meno probabile. Ovvia-mente i sovrani delle varie epoche, allarmati dalla gravesituazione, tentarono in ogni modo di arginare il fenome-no piratesco, ergendo rudimentali costruzioni di avvista-mento, poste in luoghi sopraelevati rispetto alle marine,per segnalare con fuochi, fumi o suoni acuti l’imminentepericolo. Le costruzioni erano situate a non molta distan-za tra di loro per consentire in breve tempo la comunica-zione visiva o acustica dell’avvistamento di imbarcazionipiratesche. I primi ad edificare costruzioni di riparo e disorveglianza furono i Romani, senza però ottenere grandirisultati. Anche durante la dominazione bizantina, nor-manna, sveva, angioina e aragonese furono costruite di-verse torri, prevalentemente a pianta quadrata, conbasamento a scarpa e terrazza sommitale demarcata damerlature con delle feritoie sulle pareti.

L’organizzazione difensiva di queste costruzioni si di-mostrò spesse volte inadeguata nei confronti delle incur-sioni di pirati, che erano diventati un vero incubo per lepopolazioni salentine rivierasche.

All’inizio del XVI secolo le torri assunsero una forma ge-neralmente a pianta circolare, con basamento a scarpa econ l’ingresso sopraelevato, accessibile mediante una ram-pa di scale munita di ponte levatoio. Questo sistema, mol-to più sicuro dei precedenti, garantiva una certaprotezione al personale che vi abitava.

Grazie alle tante nuove costruzioni e grazie agli espropri

di Mauro De Sica

delle torri private, fu finalmente ultimata la lunga catenadi torri costiere nel basso Adriatico e nello Ionio salenti-no. La guarnigione di ciascuna torre fu affidata a militarispagnoli, molto esperti in materia di avvistamenti e di re-sistenza ai saccheggi.

Alla fine del ’500 in tutto il Regno di Napoli si contava-no ben 400 torri, rispettivamente disposte a distanza va-riabile dai due ai cinque chilometri e distribuite conadeguati criteri logistici lungo la costa.

Nel Salento troviamo circa 80 tra torri di avvistamento efortini costieri, alcuni dei quali sono giunti quasi intatti si-no ai giorni nostri, molti altri invece non sono riusciti a so-pravvivere al tempo e all'incuria dell’uomo, altri ancorasono addirittura scomparsi. Va comunque osservato che ildisfacimento di alcune torri è da attribuire soprattutto al-la trascuratezza delle varie municipalità d’appartenenza,le quali, oltre ad utilizzare materiali di scarsa qualità nel-la loro costruzione, non provvedevano ad eseguire i pe-riodici lavori di manutenzione e di consolidamento. Comedire che, anche a quelle epoche, la corruzione nella realiz-zazione e nella gestione di importanti opere pubbliche eraviva e si faceva sentire.

A cominciare da questo numero, esaminiamo alcunedelle più importanti torri di avvistamento.

Le torri costiere

30 Il filo di Aracne gennaio/febbraio 2014

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LA TORRE DEL FIUME DI GALATENAdenominata anche “Le Quattro Colonne”

La torre è ubicata poco fuori la cittadina di Santa Mariaal Bagno, frazione di Nardò, in una zona dove sino a qual-che anno fa un ruscello di acqua dolce sfociava in mare.Oggi, purtroppo, di esso non vi è più traccia, se non uncartello che ne indica l’antico alveo.

I lavori per la sua costruzione furono affidati ai maestrineritini Angelo e Giovanni Spalletta (padre e figlio), men-tre per architetto fu chiamato il leccese Giovanni Perulli.Durante la costruzione tra gli Spalletta nacquero diversediscordie in merito alla gestione dei lavori, aggravate an-che dalle critiche mosse nei loro confronti dalla Regia Cor-te riguardo le modalità di realizzazione della struttura.

I lavori furono iniziati nel 1595 e ultimati nel 1605 pervia delle numerose interruzioni.

A differenza di altre torri costiere vicine, le “Quattro Co-lonne” sono state edificate a livello del mare per poter fa-cilmente difendere le sorgenti, che erano diventate unafacile fonte di approvvigionamento di acqua dolce da par-

te dei pirati. La costruzione èalta ben 16 metri. L’origina-ria torre aveva la forma tron-copiramidale a basequadrata ma, dopo alcunianni crollò, probabilmenteper un’incursione di soldata-glia saracena, che, dopo averconquistato la fortezza, lamise a ferro e fuoco. Non ècomunque da scartare l’ipo-tesi del crollo per un possibi-le terremoto.

In tanti si sono chiesti ilmotivo della denominazionedi “Torre di Galatena”. A pri-ma vista ognu- no è portatoad associare il termine Gala-tena a quello di Galatina o di

Galàtone, ma, sinceramente, non vi è alcun nesso. Chi scri-ve, invece, è portato a credere che sia stato commesso unerrore di trascrizione del nome originario della torre, cheda Galatea è stato maldestramente trasformato in Galate-na. Questa ipotesi è avvalorata dal mito della nereide Ga-latea, che raccolse il sangue del suo amante Aci, ucciso daPolifemo, e lo trasformò in acqua di sorgente. Ma non è fa-cile far passare questa versione al posto della precedente.

La torre è collegata visivamente a sud con la Torre del-l’Alto Lido e Torre Sabea (ad un chilometro da Gallipoli),mentre a nord con la Torre di Santa Caterina e la Torre diSanta Maria dell’Alto.

Sino agli anni ’50 del secolo scorso le “Quattro Colon-ne” distavano quasi un chilometro da Santa Maria al Ba-gno; oggi, invece, è un tutt’uno con la bella e affascinantecittadina ionica, diventata ormai meta obbligata dei turistiper il paesaggio suggestivo, la splendida spiaggetta, l’ac-qua cristallina, i ristorantini dislocati un po’ ovunque e,soprattutto, per l’ospitalità, sempre raffinata e cortese, deiresidenti. ●

(continua)

gennaio/febbraio 2014 Il filo di Aracne 31

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C’ERA UNA VOLTA...

Anche oggi, così come nei tempi andati,è presentenella mente di ogni marito e moglie il desiderio disapere chi dei due morrà per primo. Il marito o la

moglie?Alla lunga questo tarlo diventa un vero dramma, perché

nessuno dei due è disposto a morire prima dell’altro, nean-che nel matrimonio tutto zucchero e miele. Ognuno vuolesempre trapassare dopo di lei o di lui; ognuno desidera ar-dentemente allungare i propri giorni, ritardare il più pos-sibile l’ultimo istante della propria vita.

E allora, come si fa a conoscere il futuro, se cioè morràprima lui o prima lei?

È un vero mistero che in ogni tempo e luogo ha assillatoe assilla la mente umana. Perquesto motivo, la fertile fan-tasia umana ha escogitato dasempre numerosi sistemiper dare delle risposte plau-sibili all’inquietante enigma.Addirittura, è stato inventa-to un procedimento per ognisingola coppia di sposi (si ri-tiene che sia assolutamenteinfallibile). In pratica, si trat-ta di uno stratagemma “adpersonam”.

Vediamo un po’ in cosa consiste.Intanto il sistema è denominato la “Regola del nove”.

Come prima cosa, si prendono i nomi (ma non i cognomi)dei due coniugi (badate, tutti i nomi anagrafici, anche sesono più di due). Non si prende in considerazione il dimi-nutivo del nome, bensì il nome di battesimo. Ad esempio,se un uomo si chiama Pippi oppure Gigetto, è necessarioconsiderare i loro nomi di derivazione, che sono rispettiva-mente Giuseppe e Luigi. Stessa cosa, ovviamente, vale perle mogli. Procediamo. Si sommano le lettere di tutti i nomidi entrambi i coniugi. Ad esempio, se i coniugi si chiama-no Federico e Margherita, si ha un totale di 18 lettere (8 diFederico + 10 di Margherita). Dalla somma ottenuta, si sot-trae il numero fisso 9, oppure un suo multiplo (come nelnostro caso). Se, invece, il totale delle lettere dei loro nominon dovesse superare il numero 9 (ad esempio con i nomiUgo ed Eva), si utilizza il sottomultiplo di 9, cioè 3, e lo sitoglie dalla somma quante più volte è possibile.

Se il resto ottenuto è un numero pari oppure zero, signi-

fica che morrà prima la moglie, se, invece, il resto è un nu-mero dispari, toccherà naturalmente al marito.

Tutto qui? Esatto, tutto qui! È troppo facile, vero?Se qualcuno di voi, amici lettori, dopo aver applicato la

“regola del 9”, si accorgerà che spetta a lui congedarsi dal-la moglie e dal mondo, non dovrà prendersela con i proprigenitori per non aver avuto un nome con una lettera in piùo una in meno, ma, semmai, con il destino. Sì, proprio conil destino. Perché, a voler ragionare sino in fondo, è statoil destino a farlo incontrare con una donna con un nome alui sfavorevole e viceversa. Magari, bisogna prenderselacon se stessi, per non essere stati molto oculati nel momen-to della scelta del proprio partner. In passato molte perso-

ne non si sono azzardate asposarsi, perché dall’esitodella “regola del nove”, èemerso un esito a loro fatale.

Questo sistema è in prati-ca un “oracolo della Sibillacumana” applicato ai co-niugi.

Domanda. Come si sareb-be dovuta comportare unapersona se fosse venuta aconoscenza della “regola”solo a matrimonio avvenu-

to ed avesse appreso dell’esito a lui o a lei sfavorevole? La risposta è: niente! Ormai il destino è segnato!Qualche intelligentone avrà senz’altro pensato che divor-

ziando dal coniuge si potrebbe porre rimedio al problemae, magari in seguito, sposarsi con chi gli avrebbe garanti-to di morire dopo.

E no!... La “regola” è inflessibile con chiunque e, colui ocolei, che si azzarda ad infrangerla, viene castigato ad unamorte anticipata rispetto all’altro coniuge, con l’aggiuntache il “furbetto” spenderebbe un sacco di soldi per il divor-zio, senza ottenere alcun vantaggio. Come dire: oltre allabeffa anche il danno! Perciò, la “regola del nove” non valeper gli sposati in seconde nozze.

Con questo breve scritto, non vorremmo aver messo laclassica pulce nell’orecchio a voi lettori, molti dei quali -siamo convinti - appena finito di leggere l’ultimo rigo diquesto articolo, si metteranno a far di conto sommando lelettere del proprio nome con quello del coniuge.

Attenti, però, perché se le sorti vi saranno sfavorevoli,

Antico funerale

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non prendetevela con noi, ma con il fato. Ma se sarannoa voi benigne, premiate questa rivista sottoscrivendo unabbonamento annuale!!!

Ora, prima di chiudere il pezzo, vogliamo parlar-vi di una caso realmente accaduto a Nardò nel se-colo scorso.

Una vecchia casalinga, appena co-nosciuto il sistema del “nove”,provvide immediatamente ad ap-plicare la regola. I nomi da addi-zionare erano tanti, per cuidoveva ricorrere ad applica-re il “multiplo”, ma si trovòsubito in grande difficoltà,poiché non ne conosceva ilsignificato. Estremamenteimbarazzata, telefonò adun’amica per chiedere lumi,ma costei, presa alla sprovvista,rispose assai dispiaciuta chenon sapeva darle una sicuraspiegazione.

“Cce ssàcciu, cummare mia. Iòno’ sso’ ‘na professoressa o ‘na medichessa. Mi pare, però, ca lumultiplu ete ‘na miticina. Perciò, va’ alla farmacia e fatti spieca-re ti lu mièticu”.

L’anziana, desiderosa di conoscere il significato di questobenedetto “multiplo”, decise di seguire il consiglio del-l’amica.

Arrivata in farmacia, la donna notò che il titolare era im-

pegnato con un’altra cliente. Dovendo fare in fretta, chie-se delucidazioni a Miminu, un inserviente suo amico, il

quale, ovviamente, le rispose chenon aveva mai sentito parlare disimili medicinali.

“Lu Multiplu?!?... No’ ll’àggiumai ‘ntisa ‘sta miticina!”.

Giunta a casa, la donna raccon-tò ogni cosa al marito, il quale, sa-

pendo di che pasta fosse la moglie e volendoprenderla in giro, fece finta di contare e ricontare lelettere dei loro nomi e di sottrarre quante più volte

era possibile il “nove”. La moglie, in-tanto, seguiva con molta trepidazione

l’andamento della conta. Ma ecco che,dopo un buon minuto di conteggi e ri-conteggi, finalmente il marito pronun-ciò, con voce sommessa, il verdetto.

“Mi tispiace, Ninuzza mia, ma tocca a te!”. La donna, come è logico pensare, scoppiòin un pianto inarrestabile.

Ci pensò il marito a farla riavere.“Cce hai capitu, Ninuzza!... Tocca a te cu mmi puerti li fiuri

allu campusantu!”.La donna smise subito di piangere ed un sorriso radio-

so le inondò il volto.A voler chiudere definitivamente la pratica, vi dirò che,

purtroppo, fu lei a lasciare questo mondo per prima. ●

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La buon’anima del mio vecchio parroco a Tuglie, Mons.Nicola Tramacere, immancabilmente, in occasione del-la festività di un santo particolarmente venerato, termi-

nava la sua “predica” con un severo richiamo ad esserepresenti in chiesa e a partecipare allamessa non solo in occasioni come quel-le, ma anche alle messe domenicali.Rimbrotto, o appello che dir si voglia,

che rimaneva puntualmente inascoltato.La Messa della domenica successiva aquella del santo festeggiato ritornava adessere partecipata, più o meno, dalle so-lite persone.

Però il giorno della festa del santo par-ticolarmente venerato, la chiesa, anche sein giorno feriale, era puntualmente gre-mita di gente.

Oddio un motivo, anche se un po’ sti-racchiato, c’è.

Ho bisogno, invoco Cristo. Va bene. Malo invoco per cosa? Certo lui può tutto,ma il “tutto” a volte nella nostra mente sitrasforma in “niente”. La venerazionedella stessa Madonna è stata declinatacon aggettivi o indicazioni di luoghi per rendere la sua pre-senza più “concreta”.

Certo il sommo bene, l’obiettivo finale per chi crede, è an-dare in paradiso, la resurrezione. Ma non è colpa nostra se lachiesa cattolica ci ha fornito di sua spontanea volontà una scu-sante o un metodo alternativo di espiazione: il purgatorio.

Il purgatorio si può definire come il primo condono tomba-le (in tutti i sensi) su quanto combiniamo in vita. Nei secoliscorsi non era neanche così gratis. Oggi ancora più convenien-te dello scudo fiscale. L’importante è non farla grossa.

Ma noi poveri uomini abbiamo bisogno di un ancoraggioben definito nel vivere la nostra vita quotidiana. Anche se do-vessimo avere un medico generico che conosce il suo lavoro,noi di chi ci fidiamo? Corriamo subito alla ricerca di uno spe-cialista.

E così è stato nei secoli non solo per i malanni della nostraanima ma soprattutto per quelli del nostro corpo. Non aveva-mo bisogno di un generico aiuto, avevamo bisogno di uno“specialista”.

Ai mali principali del nostro corpo abbiamo con il tempoassociato il nome di un santo o di una santa ben specifici. Unasorta di primari di un invisibile e sovrannaturale ospedale.

Ma anche in questo la chiesa ci è venuta dietro. Nasconocosì le figure dei 14 santi ausiliari. Sull’argomento ci sarebbeuna lunga storia da raccontare, ma bene o male questi santisupporti al nostro vivere quotidiano dovrebbero essere i se-guenti:

- Sant’Acacio (o Agazio), invocato contro l’emicrania;- Santa Barbara, contro i fulmini, la febbre e la morte im-provvisa;- San Biagio, contro il male alla gola;

- Santa Caterina d’Alessandria, contro lemalattie della lingua;- San Ciriaco di Roma, contro le tentazio-ni e le ossessioni diaboliche;- San Cristoforo, contro la peste e gli ura-gani;- San Dionigi, contro i dolori alla testa;- Sant’Egidio, contro il panico e la pazzia;- Sant’Erasmo, contro i dolori addomi-nali;- Sant’Eustachio, contro i pericoli delfuoco;- San Giorgio, contro le infezioni dellapelle;- Santa Margherita di Antiochia, contro iproblemi del parto;- San Pantaleone, contro le infermità diconsunzione;- San Vito, contro la corea, l’idrofobia, laletargia e l’epilessia;

Ma accanto a questi, altre figure di santi sono venerati ed in-vocati a protezione o per la guarigione di malattie ben speci-fiche. Nel Salento abbiamo San Paolo invocato a protezionedei morsi di serpenti, scorpioni, ragni e vari insetti. SantaMargherita, precedentemente citata, conosciuta anche con ilnome di Santa Marina, proteggeva anche contro l’ittero; e an-che a Galatina nella cripta di Santa Maria della Grotta è statorinvenuto un suo affresco. Per la febbre a San Lorenzo, e viaquindi a Sogliano Cavour il giorno della sua festa per un sa-luto al santo. San Donato, festeggiato a San Donato di Leccee a Montesano Salentino, per guarire dall’epilessia. E così tan-ti e tanti altri.

Con il tempo queste devozioni si sono affievolite e, nellamaggior parte dei casi, sono scomparse. Il confine tra religio-ne e medicina si è, con il passare dei secoli, sempre più deli-neato, e oggi è ben visibile e certo (ad eccezione di alcuneguarigioni che ancora oggi hanno del miracoloso).

Ma non tutto si è perso. Alcune di queste antiche devozio-ni, ben poche invero, sono giunte sino a noi. E tra queste vi èla festività di San Biagio, uno dei santi ausiliatori e protetto-re contro il mal di gola. Infatti nel corso del giorno a lui dedi-cato, il 3 febbraio, ancor più di una qualsiasi domenica, sonomolti coloro che affollano le chiese per ricevere la tradiziona-le benedizione della gola.

“Per intercessione di San Biagio, Vescovo e Martire, Dio ti liberidal mal di gola e da ogni altro male. Nel nome del Padre, del Figlioe dello Spirito Santo. Amen”

TRADIZIONI RELIGIOSE

Benedizione della gola

Nella Chiesa di San Biagio a Galatina

La benedizione della goladi Massimo Negro

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Festività che tra l’altro cade in uno dei periodi tradizional-mente più freddi dell’anno, subito dopo i cosidetti giorni del-la merla. Periodo in cui era solitamente frequente (e lo ètutt’ora), soprattutto per i bambini, ammalarsi. E fino ai pri-mi dell’Ottocento vi era unaparticolare malattia chespesso veniva confusa con ilcomune mal di gola che po-teva condurre alla morte: ladifterite. Non è quindi diffi-cile capire il perché ancoraoggi questo santo sia parti-colarmente venerato.

Questo accostamento trala figura del santo e il mal digola è dovuto ad un miraco-lo che il vescovo Biagio com-pì, durante il periodo dellasua prigionia, guarendo ungiovanetto da una lisca dipesce che era rimasta confic-cata nella sua trachea. Dimiracoli se ne raccontanotanti sulla figura del vesco-vo Biagio, ma questo è quel-lo per cui è ricordato.

La più antica citazione scritta sul santo è contenuta nei Me-dicinales di Ezio di Amida, vissuto nel VI secolo. Riguardo aimali di gola, nella traduzione latina di Giano Corsaro del-l’opera del medico greco, si legge:

«Se la spina o l’osso non volesse uscire fuori, volgiti all’am-malato e digli “Esci fuori, osso, se pure sei osso, o checché sii: escicome Lazzaro alla voce di Cristo uscì dal sepolcro, e Giona dal ven-

tre della balena”. Ovvero fatto sull’ammalato il segno della cro-ce, puoi proferire le parole che Biagio martire e servo di Cri-sto usava dire in simili casi “O ascendi o discendi”».

Il 3 febbraio si tornerà, quindi, in chiesa a chiedere l’inter-cessione del santo, median-te la benedizione della golache verrà impartita da partedel sacerdote o del diaconoincrociando sulla gola delfedele due candele (antica-mente si usava olio bene-detto).

La festa di San Biagio nonè una particolarità salenti-na, ma mi fa venire in men-te gli anni di frequentazionedell’Oratorio a Tuglie e, so-prattutto, non posso nonparlarne adesso visto che lamia attuale parrocchia a Ga-latina è titolata a San Biagio.Per cui oltre il rito della be-nedizione della gola, vi ètutto quello che solitamenteruota attorno ad una piccola

festa di parrocchia, inclusa la processione.A Galatina, le tracce della devozione al santo risalgono al

XVI sec. per una cappella di S. Biagio extra moenia di proprie-tà di Pietrantonio Pugliese, come attesta una Visita Pastoraledell’epoca, e per una probabile cappellina nel centro storico ri-salente al ‘4-‘500 in un vico ab immemorabili intitolato Vico SanBiagio. ●

Galatina (LE) - Statua di San Biagio

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TEMPI MODERNI

Fur ti...di marmellata un tempo,oggi di miliardi

di Martino Acquaviva

Nel 1950, in un paesino di duemila abitanti inca-stonato nel Sud Salento, fu costruita e inaugura-ta, per la prima volta, una sala cinematografica.

A quell’epoca, non esisteva ancora la televisione e,quindi, la possibilità di assistere alla proiezione di filmsul grande schermo bianco rappresentava, per la popola-zione, un fatto nuovo e di sicura presa, sicché, in partico-lare nel pomeriggio e alla sera della domenica, il localedel cinema “Excelsior” era sempre gremito, grazie ancheall’afflusso di spettatori provenienti, a piedi o in sella al-la bicicletta, dai centri limitrofi.Di lì a poco, nella piccola località, si registrò un altroevento insolito ed eccezionale, e però in certo senso col-legato a quello anzi riferito: arrivò a stabilirsi un nucleofamiliare di cinque persone, fra genitori e figli, origina-rio della “lontana” provincia di Bari (non a caso, dettepersone ricevettero immediatamente e automaticamen-te l’appellativo di “baresi”).Il gruppo di “immigrati” s’insediò in una modesta abi-tazione in affitto e, come fonte di reddito per il propriosostentamento, intraprese l’attività di vendita al minuto,si pensi un po’, di caramelle, non confezionate bensì sfu-se.Il bacino di consumo principale s’identificava, giustap-punto, con gli spettatori del cinematografo e, in aggiun-ta, si estendeva ai rari e poveri mercati settimanali dellazona. Sta di fatto che la famiglia riusciva, in qualche mo-do ma onestamente, a sbarcare il lunario.Correva una domenica mattina d’inizio primavera,quando, nel paese, si diffuse improvvisamente e a mac-

chia d’olio, autentico fulmine a ciel sereno, la notizia che,nella casa dei “baresi”, era sparito il modesto magazzinodi caramelle.Non ci volle molto perché giungessero a circolare, an-che, voci, convinte, in merito all’identità dell’autore delfurto: un residente, sposato e con numerosa prole, anco-ra giovane, caratterizzato, da sempre, da poca voglia dilavorare, saltuariamente dedito ad arrangiarsi mediantela pesca di frodo.I carabinieri piombarono, lesti, dalla competente sta-zione di Spongano e, traendo spunto dalle voci, scopri-rono la refurtiva, sotterrata dentro un grosso capasune(pitale), effettivamente nel giardino del sospettato.Dopodiché, verso mezzogiorno, l’intera comunità, con-venuta in piazza, ebbe conseguentemente agio d’assiste-re al passaggio del ladruncolo, in manette fra due militi,con destinazione carcere. Che colpo emotivo per tutti ipresenti! Tale, che, ancora oggi, la scena si trova scolpitanelle menti e nelle coscienze dei sopravvissuti.Saltando ai tempi attuali e volgendo lo sguardo intor-no, non ci s’imbatte più in ladri di caramelle; si registra-no, purtroppo, in ogni campo, posizione sociale elatitudine, sequenze di predatori d’alto rango e senzascrupoli, artefici d’illeciti bottini per milioni e miliardi.Vicende gigantesche che, tuttavia, tranne l’impatto delprimo momento, scivolano nel dimenticatoio, in un ba-leno, quasi che non si fossero mai verificate.Domanda: almeno a livello di scrupolo morale, può de-finirsi davvero positivo il cosiddetto progresso della so-cietà civile fra secondo e terzo millennio? ●

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Ipiccoli di casa credevano che l’allegra, spensierata pau-sa domenicale non finisse mai. Lo speravano con tuttal’ingenuità di cui potevano disporre, mentre continua-

vano a sognare ad occhi aperti.I sogni erano le uniche monete che possedevano in ab-

bondanza, conservate gelosamente nel forziere della lorofervida fantasia.

Ne spendevano a piene mani senza alcuna parsimonia esenza ritegno.

Scialacquavano tutto conestremo capriccio e voluttà finoa sera e anche a oltranza, pertutta la notte.

Questa ricchezza, gelosa-mente custodita nel loro cuore,produceva copiosi interessi intermini di speranze e di aspet-tative alle quali non rinuncia-vano mai, perchè eranoconvinti di avere, anche loro,diritto di cambiare il propriodestino, un qualsiasi destino,purché diverso da quello che a loro, per il momento, eratoccato.

E questa presunzione colorò la loro infanzia di progettie di proponimenti. Più propriamente di sogni.

L’infanzia era l’unica stagione della loro vita e della lo-ro maturazione che non hanno mai conosciuto, perché sal-tata a piè pari, a causa della violenza degli eventiincontrollati che attraversavano la loro esistenza.

Per questo diventavano adulti fin da subito. E da subito, conoscevano la durezza del lavoro, l’inelut-

tabilità dei sacrifici e la fatalità delle privazioni.Per comprendere le fasi e tutto il ciclo della loro vita,

c’era una sola spiegazione: avevano avuto la sfortuna dinascere a cavallo del dopoguerra e ne soffrivano, senzacolpe, danni e ferite che venivano da lontano.

Erano anche “reduci” da un “confino” umiliante e offen-sivo, che avevano scontato in Lucania con tutta la famiglia,dopo un processo sommario, condotto al limite della di-gnità umana.

Queste ferite erano state procurate da un conflitto belli-co non voluto, ma soprattutto erano il prodotto tragico e

beffardo delle conseguenze letali di una follia demenzialeche aveva retto le sorti del Paese nel ventennio appena tra-scorso.

Erano troppo piccoli e non avevano alcuna consapevo-lezza dei guasti provocati alla loro maturazione e dellecause vere che li avevano prodotti.

Di bugie e di mezze verità avevano letto tante sui libri distoria, scritti con complice reticenza da autori corrotti e poi

adottati nelle scuole con disar-mante piaggeria da insegnantipoco illuminati.

Di questo imbroglio hannopreso coscienza molto più tardi,riuscendo appena in tempo abonificare la loro maturazioneda veleni culturali e da bugie,cui sistematicamente erano sta-ti sottoposti.

Al momento, invece, eranocoinvolti in problemi molto piùpressanti e contingenti.

Infatti all’alba, appena svegli,dopo una fugace stropicciata agli occhi, implacabile la mu-sica cambiava, perché il gruzzolo dei sogni era del tuttoesaurito.

Si cominciava già dal mattino, quando si saltava anche lacolazione. Anzi non se ne conosceva il significato, né neicontenuti, né nella forma.

Ci si sciacquava frettolosamente il viso per scacciare ilsonno residuo, anzi tutto il sonno arretrato e sedimentatodurante la lunga e interminabile estate, e subito di corsa,rigorosamente scazzati, si andava fra i filari delle piante ditabacco.

Un sottile velo di nebbia, che aspettava il sole all’oriz-zonte, già giocava con i primi bagliori dei suoi raggi, cheprima dell’alba fendevano, dal basso, le rade nuvole rossic-ce che si erano smarrite, attardandosi nel loro girovagarecapriccioso, durante la notte.

Una brina leggera, quasi evanescente, aveva inumiditodi notte le foglie di tabacco.

Ti bagnavano le maniche della camicia, rigorosamenteabbottonate sui polsi e li cazi longhi, sorretti da un cinturi-no di stoffa elasticizzata.

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SUL FILO DELLA MEMORIA...

I racconti della Vadea

di Pippi Onesimo

Famiglia colonica

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Questo abbigliamento era più che sufficiente per evitareche il grasso delle foglie impiastricciasse i sottili peli dellebraccia e delle gambe.

Solo verso le dieci, quando il sole picchiava già alto eormai le foglie raccolte erano state ammassate nella rame-sa, si faceva una pausa di appena un quarto d’ora.

Dalle quattro della mattina erano quasi trascorse sei oredi lavoro, anche se lagiornata era appenacominciata.

Un sottile languoredi stomaco preannun-ciava i crampi dellafame.

Erano i sintomi ine-quivocabili della dojad’arma.

Ciò consentiva dimangiare ‘na mozzaca-ta de pane, “tantu cu tticcumbi l’arma”, ripete-va, ridendo ironica-mente con una facciada marpione, il padredi Chicco.

Oggi, nell’era delbenessere, al posto di quella mozzacata parleremmo diuno spuntino, quello che spezza l’appetito. Magari conuna famigerata merendina, quella imposta dalla culturaossessiva e irriverente della pubblicità mediatica.

Allora, nell’era delle ristrettezze, si trattava veramentesolo di un boccone (esattamente ‘na mozzacata) che dovevaspezzare l’appetito, o meglio ingannare la fame (perché diquesto si trattava), la quale, nonostante tutto, rimaneva im-mensa e incommensurabile come lo era la speranza di unavvenire migliore e di un destino diverso.

Qualcuno con mezzo filone di pane fra le mani, tagliatoa metà, rovistava fra le piante di pomodoro alla ricerca dequiddhri russi e ‘ncerati, con i quali insaporirlo e renderlopiù gustoso.

Si mangiava avidamente e si gustava il pane, anche sen-za ‘na croce d’oju, o ‘na pizzacata de sale, seduti all’ombra diun albero de fracazzanu.

Il tempo era tiranno e per questo si mangiava a bocconisostenuti, col rischio de nnudacare.

Dalla cisterna vicina si attingeva poi con un secchio di ra-me zincata dell’acqua freschissima con la quale dissetarsi.

Altro che birra, o coca cola, o altre bevande gassate, of-ferte dal moderno consumismo!

Una bottiglietta di gassosa, quella con la pallina, com-prata sotta ‘llu Donatei, vicinu allu Tresu, era solo un privi-legio della domenica a sera.

Quando succedeva, la si centellinava, a sorsetti brevi emisurati, inumidendosi le labbra, più che deglutirla, congli amici seduti su una della panchine in ferro, alle spalledel Monumento ai Caduti, susu ‘lla Villa.

Ci si creava l’illusione che non finisse mai, mentre l’ani-dride carbonica in essa contenuta evaporava lentamente,nonostante la pallina, lasciando nell’acqua residua dellabottiglia ‘nu sapore de lissia.

D’altra parte bisogna accontentarsi, perchè l’alternativa

alla gassosa era solo l’acqua de cisterna. ‘Na pupuneddhra, quasi una primizia, raccolta via facen-

do da una pianta spaparisciata per terra, al limite de ‘na fa-scia de rastucciu, ripulita dalla peluria fitta e trasparente,strofinandola sulle carzunette, completava a mozzacate il ri-tuale della colazione.

Poi tutti in fretta nella ramesa a ‘nfilare foglie di tabacco,seduti ognuno al suo posto su ‘nnu pazzulu de tufo, la cuidurezza veniva ammorbidita con un sacco di juta ripiega-to più volte su se stesso.

Così si tentava di evitare li caddhri… sul fondo dei pan-taloni.

Poco prima de le doi, ‘na ddefriscata e nnu vuccone ‘n ttà-vula.

Ognuno lasciava vicino al suo posto a sedere (lu cuccet-tu de tufu) la propria cuceddhra, la fietta de spacu e la mon-tagnola di foglie di tabacco ancora da ‘nfilare.

Ma non si poteva ancora pranzare. Le mani erano diventate nere, ricoperte di grasso untuo-

so, verdastro e appiccicoso, rilasciato dalle foglie di tabac-co durante la raccolta e la ‘nfilatura.

Nemmeno lu sapone russu, quello fabbricato in casa consoda caustica, oju frittu e lissia (l’acqua di risulta de lu còfi-nu), riusciva a detergerle per bene.

Occorreva procurarsi del liquido acido, che si ricavavaspremendo acini d’uva acerba o pomodori maturi, o qual-che limone, tutti detersivi biologici a portata di mano e so-prattutto gratis.

Oppure si ricorreva alla polvere di tufo ben secca easciutta con la quale si strofinavano pazientemente (manon tanto, per i morsi della fame) le dita ad una ad una, ilpalmo e il dorso della mano.

Solo così si riusciva a sgrassarle.Poi si completava l’opera con acqua e saponetta (quella

rossa, di forma rettangolare prodotta in casa), poggiata sulbordo della pila vicino alla cisterna.

Si doveva ultimare con accurata precisione il complessociclo igienico di pulizia delle mani, prima di toccare cibo.

La madre di Chicco controllava le mani di tutti come unufficiale di picchetto.

Si sentiva, ed era, responsabile del buon andamento del-la famiglia e diventava, in questo, odiosamente inflessibile.

Per tutto il resto, per fortuna, era solo una mamma.Impagabile. ●

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pippi onesimo

La ‘nfilatura

Pupuneddhre

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