Anno XXXV, n. 1 RIVISTA DI STUDI ITALIANI Aprile 2017

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Anno XXXV, n. 1 RIVISTA DI STUDI ITALIANI Aprile 2017 Tutti i diritti riservati. © 1983 Rivista di Studi Italiani ISSN 1916-5412 Rivista di Studi Italiani (Toronto, Canada, in versione cartacea fino al 2004, online dal 2005) 153 CONTRIBUTI LA VARIA UMANITÀ DEI PROMESSI SPOSI: POVERI E SIGNORI PIER ANGELO PEROTTI Vercelli Premessa. In tutte le epoche della storia, le condizioni socio- economiche risultano ampiamente diversificate: tra i due estremi – la ricchezza smodata e la miseria più nera – esistono l’alta, la media e la piccola borghesia (commercianti, agricoltori, artigiani); seguono braccianti agricoli e operai, non certo benestanti ma neppure condannati alla fame; chiudono la sequela i disoccupati, magari senzatetto, che hanno difficoltà a sfamarsi quotidianamente. Un’altra suddivisione tra categorie – perlopiù connessa con il tipo di attività lavorativa – riguarda le proprietà immobiliari: sotto tale aspetto, la popolazione è sostanzialmente divisa tra chi possiede l’abitazione in cui risiede o il terreno che coltiva, e i locatari dell’alloggio in cui vivono o coloro che coltivano un terreno altrui come fittavoli, coloni, mezzadri o braccianti. Le due condizioni possono incrociarsi, nel senso che per esempio un lavoratore dipendente può essere proprietario del suo appartamento, e viceversa un commerciante o un lavoratore autonomo può vivere in affitto. Questa prefazione semplicisticamente sociologica, in apparenza superflua o scontata, è propedeutica al tema delle risorse economiche, nonché delle proprietà immobiliari, dei personaggi dei Promessi sposi 1 . 2. Il panorama sociale dei PS è particolarmente ricco di esempi delle varie condizioni sociali ed economiche di singoli personaggi – dai protagonisti ai comprimari alle semplici comparse –, contornati da una moltitudine di 1 I passi dell’opera – di qui in avanti citata con la sigla PS – sono indicati col numero romano del capitolo e con quello arabo della pagina dell’edizione definitiva dei Promessi sposi, Milano: Guglielmini e Redaelli, 1840-1842 (numero arabo riportato in margine nell’edizione commentata da A. Momigliano, I Promessi Sposi, Firenze: Sansoni, 1964); quando è segnalato solo il riferimento alla pagina, s’intende il capitolo indicato in precedenza. 1.

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Anno XXXV, n. 1 RIVISTA DI STUDI ITALIANI Aprile 2017 Tutti i diritti riservati.

© 1983 Rivista di Studi Italiani ISSN 1916-5412 Rivista di Studi Italiani

(Toronto, Canada, in versione cartacea fino al 2004, online dal 2005)

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CONTRIBUTI LA VARIA UMANITÀ DEI PROMESSI SPOSI: POVERI E SIGNORI

PIER ANGELO PEROTTI

Vercelli

Premessa. In tutte le epoche della storia, le condizioni socio-economiche risultano ampiamente diversificate: tra i due estremi – la ricchezza smodata e la miseria più nera – esistono l’alta, la media e la

piccola borghesia (commercianti, agricoltori, artigiani); seguono braccianti agricoli e operai, non certo benestanti ma neppure condannati alla fame; chiudono la sequela i disoccupati, magari senzatetto, che hanno difficoltà a sfamarsi quotidianamente.

Un’altra suddivisione tra categorie – perlopiù connessa con il tipo di attività lavorativa – riguarda le proprietà immobiliari: sotto tale aspetto, la popolazione è sostanzialmente divisa tra chi possiede l’abitazione in cui risiede o il terreno che coltiva, e i locatari dell’alloggio in cui vivono o coloro che coltivano un terreno altrui come fittavoli, coloni, mezzadri o braccianti. Le due condizioni possono incrociarsi, nel senso che per esempio un lavoratore dipendente può essere proprietario del suo appartamento, e viceversa un commerciante o un lavoratore autonomo può vivere in affitto.

Questa prefazione semplicisticamente sociologica, in apparenza superflua o scontata, è propedeutica al tema delle risorse economiche, nonché delle proprietà immobiliari, dei personaggi dei Promessi sposi1.

2. Il panorama sociale dei PS è particolarmente ricco di esempi delle varie condizioni sociali ed economiche di singoli personaggi – dai protagonisti ai comprimari alle semplici comparse –, contornati da una moltitudine di 1 I passi dell’opera – di qui in avanti citata con la sigla PS – sono indicati col numero romano del capitolo e con quello arabo della pagina dell’edizione definitiva dei Promessi sposi, Milano: Guglielmini e Redaelli, 1840-1842 (numero arabo riportato in margine nell’edizione commentata da A. Momigliano, I Promessi Sposi, Firenze: Sansoni, 1964); quando è segnalato solo il riferimento alla pagina, s’intende il capitolo indicato in precedenza.

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anonimi rappresentanti del popolo minuto nella sua collettività. Non meno variegato è il quadro delle disposizioni morali degli attori, dai più ricchi e potenti ai più umili. Non può mancare la distinzione tra i cittadini e la gente di campagna, che emerge da alcuni dei momenti topici della narrazione.

Il percorso esistenziale di Renzo nei PS (Fermo nella prima redazione del romanzo)2 è caratterizzato da una serie di ingenuità, astuzie e colpi di fortuna, che complessivamente lo portano a salvarsi da tutti gli eventi, umani o fortuiti, che si oppongono al coronamento del suo progetto di vita con Lucia e alla salvaguardia della sua stessa vita, in balìa sia degli uomini sia di un fenomeno naturale come la peste.

La condizione socio-economica di Fermo/Renzo è singolare e per così dire ibrida: è operaio specializzato3, ma anche coltivatore diretto e locatore di un terreno o datore di lavoro agricolo, dato che “possedeva [...] un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo” (II, 33); è dunque proprietario sia del “poderetto” (o “podere”: XXXVII, 721), che forse comprende la vigna cui si accenna in XXXIII, 642-6434, sia della casa in cui vive, con l’orto5, una sorta di appendice dell’abitazione secondo la secolare tradizione dei piccoli centri rurali e delle periferie cittadine: tutti beni evidentemente ereditati dai genitori, di cui era orfano. Ecco perché (II, 33-34),

2 Per la prima redazione dell’opera – d’ora in poi citata con la sigla FL – ho seguìto il testo e la paragrafatura dell’edizione curata da L. Caretti, I Promessi Sposi, Vol. I, Fermo e Lucia, etc., Torino: Einaudi, 1971: i due numeri romani indicano nell’ordine il tomo e il capitolo, e quello arabo il paragrafo. Anche qui, col solo numero arabo s’intendono tomo e capitolo indicati immediatamente prima. 3 PS, II, 33: “[...] esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese”; cfr. FL , I, II, 4-5. 4 PS, XXXIII, 642-643: “E andando, passò davanti alla sua vigna; [...] S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna! [...] Ma questo non si curava d’entrare in una tal vigna”. La sequenza era assente nel FL . 5 Cfr. PS, XXXIII, 643: “poco lontano c’era la sua casa; attraversò l’orto, camminando fino a mezza gamba tra l’erbacce di cui era popolato, coperto, come la vigna. Mise piede sulla soglia d’una delle due stanze che c’era a terreno”.

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quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Pare che anche Agnese e la figlia Lucia siano proprietarie della casetta in

cui abitano, che ha davanti un “piccolo cortile” (II, 44); ed esse pure possiedono un orticello, come viene precisato verso la fine del romanzo: “[Renzo] coltivava, anzi dissodava l’orticello d’Agnese, trasandato affatto nell’assenza di lei” (XXXVII, 721), e alberi da frutto, come risulta dalle noci che Lucia dona a fra Galdino (III, 59 ss.), evidentemente di produzione propria, e dalla menzione di un “folto fico” (VIII, 147) dietro il quale si nascondono i bravi durante la “notte degl’imbrogli”.

Per quanto attiene al lavoro, sappiamo che Lucia era operaia stagionale in una filanda6, ma, considerato che il salario derivante da tale occupazione temporanea non poteva certo bastare al sostentamento di tutto l’anno, si deve supporre che essa svolgesse un altro lavoro imprecisato nei periodi in cui la filanda non era in attività.

Non è invece indicata l’occupazione di Agnese, che si deve presumere esercitasse, oltre alla cura della casa, qualche attività lavorativa, dato che non risulta né pare verosimile che vivesse di rendita, e neppure che fosse a carico della figlia; ma il Manzoni non precisa quale fosse tale lavoro.

Ancor migliore di quella di Renzo è presumibilmente la condizione economica del cugino Bortolo Castagneri: anch’egli è filatore di seta, nel bergamasco, ma è “il primo lavorante” e “il factotum” (XVII, 340) dell’azienda in cui lavora, tanto che può permettersi di risparmiare del denaro (XXXVIII, 744):

[...] ma quella condizione de’ pronti contanti guastava tutto, perché quelli che aveva messi da parte, a poco a poco, a forza di risparmi, erano ancor lontani da arrivare alla somma.

3. Don Abbondio in gioventù era – come viene precisato con la celebre, bella litote – “non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno” (I, 23), ma grazie alla decisione dei “parenti, che lo vollero prete” (ibidem), si trova a vivere con una certa agiatezza, in quanto, pur non essendo titolare di proprietà immobiliari, ma soltanto depositario dei beni della Chiesa a lui affidati in usufrutto,

6 PS, III, 48: “[...], raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo”; “Per grazia del cielo”, continuò Lucia, “quel giorno era l’ultimo della filanda”.

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dispone a suo piacimento della chiesa e della canonica annessa, oltre a un orto e a terreni dati in affitto. I relativi cespiti dovrebbero evidentemente servire – oltre che al sostentamento del curato e alle spese della parrocchia – anche ad aiutare i fedeli bisognosi di soccorso. In realtà, per quel poco di cui l’autore ci informa, don Abbondio affitta un terreno a Tonio, un povero diavolo, che ha notevoli difficoltà a mantenere la sua numerosa famiglia7, tanto che non riesce a pagare il canone al locatore8, il quale (altroché carità cristiana e fiducia nel prossimo, nella fattispecie addirittura un suo parrocchiano!) esige, a garanzia del debito, il deposito cauzionale della collana d’oro della moglie Tecla9. Ad indicare il suo egoismo basti ricordare l’obiezione che, appena giunto al castello dell’innominato, fa alla giusta riflessione di Perpetua circa l’affollamento del luogo. La donna aveva osservato: “io ho sempre sentito dire che, ne’ pericoli, è meglio essere in molti” (XXX, 569), ma il prete ribatte (ibidem):

“In molti? in molti?” replicava don Abbondio: “povera donna! Non sapete che ogni lanzichenecco ne mangia cento di costoro? E poi, se volessero far delle pazzie, sarebbe un bel gusto, eh? di trovarsi in una battaglia. Oh povero me! Era meno male andar su per i monti. Che abbian tutti a voler cacciarsi in un luogo!… Seccatori!” borbottava poi, a voce più bassa: “tutti qui: e via, e via, e via; l’uno dietro l’altro, come pecore senza ragione”. Per quanto poi riguarda il suo attaccamento ai beni materiali, vale il rilievo

che l’autore fa a proposito del suo soggiorno nel castello: “Chi aveva danari e discrezione, andava a desinare giù nella valle, dove in quella circostanza, s’eran rizzate in fretta osterie” (575), ma questo non è certo il caso del parassita don Abbondio, che approfitta del vitto offerto dal padrone, mentre Agnese e Perpetua, “per non mangiare il pane a ufo, avevan voluto essere impiegate ne’ servizi che richiedeva una così grande ospitalità; e in questo spendevano una buona parte della giornata” (ibidem).

Un corollario a proposito dell’orto del prete. Renzo, uscito dalla canonica dopo che il curato ha rinviato il suo matrimonio, vede Perpetua che sta

7 Cfr. PS, VI, 113: “La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, [...]”; nel FL , I, VI, 53 non è citato il fratello Gervaso, che peraltro è ricordato a partire dal § 61 dello stesso capitolo, e che poi svolgerà la funzione di testimone nella “notte degl’imbrogli”. 8 Cfr. PS, VI, 114: “Tu hai un debito di venticinque lire col signor curato, per fitto del suo campo, che lavoravi, l’anno passato”. 9 PS, VI, 114: “E poi, m’avrebbe a restituir la collana d’oro di mia moglie, che la baratterei in tanta polenta”; VIII, 143: “Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla”.

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entrando “in un orticello pochi passi distante dalla casa” (II, 37), e la induce a palesare, per quanto solo vagamente, la vera ragione della proroga delle nozze. Dopo che Renzo è tornato nella canonica e ha costretto don Abbondio a rivelargli il nome del “prepotente” che impedisce il matrimonio, la stessa domestica si presenta al padrone “con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato”10 (42). Dalla scena risulta che Perpetua, oltre ad accudire il suo padrone e occuparsi della casa, ha pure il compito di curare l’orto: può sembrare un rilievo minuto, ma vale, come tanti altri, a integrare il ritratto di don Abbondio, che oltre al resto appare anche ozioso o sfaticato, oppure altezzoso, considerando poco dignitosa per un curato un’attività come l’orticoltura, apprezzata invece in ogni epoca, almeno come svago, anche da uomini importanti; senza contare che la carità cristiana gli imporrebbe di dare una mano, almeno in questo, alla domestica, presumibilmente già oberata dal lavoro che le impone la sua mansione.

4. I due comprimari appartenenti al clero, che il Manzoni sembra prediligere, il padre Cristoforo e il cardinal Federigo Borromeo, hanno in comune, tra l’altro, il rapporto con la ricchezza. Il primo si spoglia volontariamente dei suoi averi per abbracciare la povertà francescana11; il secondo, anche a rischio di sminuire la dignità della famiglia, rifiuta le prerogative connesse con il suo rango di nobile e di principe della Chiesa (PS, XXII, 415-416):

Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno. Né credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Ma se la scelta di vita del frate è dettata anche dal desiderio o bisogno di

espiazione dell’omicidio commesso in gioventù – peraltro con significative

10 Nel FL Renzo incontrava Vittoria (nome originario di Perpetua) non sull’uscio dell’orto, ma sulla porta di casa: “Sull’uscio del Curato si abbatté in Vittoria che andava per una sua faccenda” (I, II, 24), e di conseguenza mancava l’espressiva, gustosa immagine del “gran cavolo sotto il braccio”, felice trovata dell’autore nel corso del rifacimento del romanzo: “Don Abbondio dopo d’averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò Vittoria; Vittoria non v’era; [...]; giunse finalmente Vittoria” (37-38). 11 PS, IV, 75: “Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati”.

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attenuanti, che tuttavia egli rifiuta di prendere in considerazione12 –, quella del porporato è esclusivo risultato dell’esatta comprensione e dell’accoglimento del messaggio evangelico, con l’appendice dell’esempio del cugino San Carlo Borromeo.

L’adesione alla povertà da parte di questi due ricchi è in certo modo contraria al naturale istinto animale e segnatamente umano, che spinge a possedere di più e a conservare per sé o per la propria famiglia ciò che si ha: la condizione ‘normale’ dell’individuo è l’egoismo, e dunque il donare è in certo modo contro natura o non umano. Infatti la carità cristiana travalica la dimensione istintiva e materiale del donante, facendo sì – nella forma più ‘eroica’ o ‘divina’ – che egli anteponga il bene degli altri al proprio: in ciò la carità, ossia l’amore, si distingue dalla solidarietà, che ha una certa componente egoistica, perché chi è solidale esercita una specie di mutuo soccorso, nel senso che oggi dà a chi ha bisogno, e spera, se domani si trovasse in stato di necessità, di ricevere a sua volta. Questa, in parole povere, è la differenza tra solidarietà umana e carità cristiana; e i nostri due personaggi aderiscono proprio a questi princìpi. In particolare, il padre Cristoforo sacrifica la vita per tentare di salvare quella degli appestati, o almeno alleviarne le sofferenze, e facendosi povero si è ulteriormente arricchito di carità o amore.

Nel burrascoso colloquio tra il frate e don Rodrigo si confrontano il simbolo dell’umiltà e della carità e quello dell’odio, della protervia, del cinismo, della cupidigia, non tanto di denaro, quanto piuttosto della vita altrui: e il momentaneo, apparente vincitore è in realtà lo sconfitto.

5. Un ricco potente (don Rodrigo) e un servo parassita (il Griso) sono dominati da passioni diverse: il primo dalla smania di potere (con gli i relativi addentellati: la prepotenza, il disprezzo per le donne di ceto inferiore e il conseguente capriccio di deflorare una vergine, l’arroganza che gli deriva dal suo status socio-economico, etc.), l’altro dalla sete di denaro, che lo rende talmente incauto da provocarne la morte. I due sono accomunati da una sorte simile, in qualche modo conseguenza l’una dell’altra: il signorotto morirà13 a

12 Cfr. PS, XXXV, 685: “Ho odiato anch’io: io, che t’ho ripreso per un pensiero, per una parola, l’uomo ch’io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l’ho ucciso”. [Renzo] “Sì, ma un prepotente, uno di quelli […]” “Zitto!” interruppe il frate: “credi tu che, se ci fosse una buona ragione, io non l’avrei trovata in trent’anni? Ah! s’io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora, per l’uomo ch’io odiavo!” 13 Nei PS, alla morte di don Rodrigo si hanno soltanto riferimenti indiretti: XXXVIII, 729 [Renzo a don Abbondio]: “E cominciò a descrivere in che stato aveva visto quel povero don Rodrigo; e che già a quell’ora doveva

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causa soprattutto del tradimento del suo scherano, che gli impedisce il tentativo di salvare la vita facendosi curare dal “Chiodo chirurgo” (PS, XXXIII, 629; FL, IV, V, 21); il bravo perderà la vita come effetto della sua avidità e della slealtà verso il padrone. Ma non solo la cupidigia è causa del voltafaccia del Griso, bensì anche una sorta di brama di vendetta per le umiliazioni che aveva subìto da don Rodrigo14. Comunque, il Manzoni applica per il bravo il noto aforisma “Dio non paga solo il sabato” e, con qualche approssimazione, il proverbio “la farina del diavolo va tutta in crusca”, mutuato dalla massima ciceroniana “Male parta male dilabuntur” (Cic., Phil. 2, 27, 65); invece nel caso del signorotto potrebbe valere l’altra sentenza “sic transit gloria mundi”, o anche “de caelo in caenum”, equivalente a “dalle stelle alle stalle”, pure in senso letterale, se si pensa alla sua condizione nel lazzeretto, dove è un relitto umano gettato, per così dire, nel fango, nel lerciume, nel letame15.

sicuramente essere andato”; 731 [id.]: “È arrivato nel suo palazzo, ch’era quello di don Rodrigo”; 736 [il marchese erede]: “[...] che hanno avuto de’ guai, per causa di quel povero don Rodrigo”; 742: “[...], ora che i due grand’inciampi, don Rodrigo e il bando, eran levati”. Era invece indicata esplicitamente nel FL , IV, IX, 18: «[...]; e Don Rodrigo su la cima d’un tristo mucchio, fra lo strepito e le bestemmie, usciva dal lazzeretto per andarsene alla fossa”, dopo che nello stesso capitolo, ai §§ 6-8, erano stati descritti i suoi ultimi istanti, quando, “furibondo”, saltava su un cavallo e fuggiva. L’episodio ritorna nei PS, XXXIV, 672, dove però il “frenetico” è anonimo: cfr. il mio art. “‘A questo mondo c’è giustizia, finalmente!’ (I Promessi sposi, III, 64)”, Critica letteraria 34, nr. 132, 2006, pp. 483-498, § 5, n. 25 (p. 497). 14 Ricordiamo la reprimenda sarcastica che don Rodrigo rivolge al Griso al ritorno dalla fallita spedizione per rapire Lucia, ancor prima di conoscere lo svolgimento dei fatti (XI, 217): “‘ebbene’, gli disse, o gli gridò: ‘signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame?’”, e l’accusa di viltà che gli indirizza quando il bravo si mostra a ragione titubante di fronte all’ordine di recarsi a Monza per avere notizie di Lucia (226): “‘Che diavolo!’ disse don Rodrigo: ‘tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente d’allontanarsi!’” 15 Vedi PS, XXXV, 686-687: “La prima cosa che si vedeva, nell’entrare, era un infermo seduto sulla paglia nel fondo; un infermo però non aggravato, e che anzi poteva parer vicino alla convalescenza; il quale, visto il padre, tentennò la testa, come accennando di no: il padre abbassò la sua, con un atto di tristezza e di rassegnazione. Renzo intanto, girando, con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti, vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa, involtato in un lenzolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece

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Come vale in generale per gli aristocratici, anche nel caso di don Rodrigo il potere e le ricchezze sono strettamente collegati; e proprio il denaro sarà la causa della morte di entrambi: il signorotto è mandato a morire in conseguenza delle sue ricchezze, l’avidità delle quali porta alla morte il Griso, con una sorta di fatale reciprocità e di nemesi del destino o provvidenza che dir si voglia. Il bravo – che nell’inferno dantesco avrebbe meritato la Giudecca, il luogo più profondo, riservato ai traditori dei benefattori (pur con la riserva cui ho accennato qui sopra e alla n. 14) – subisce gli effetti della vendetta, seppur inconsapevole, del padrone che involontariamente lo contagia, un po’ come l’aggressore colpito a morte da colui che aveva gravemente ferito. E se è vero che “pecunia non olet”, tuttavia, similmente a un morbo del corpo e dell’anima, può infettare, come appare, emblematicamente, in questo caso.

6. La “coppia d’alto affare” (XXV, 482), formata da don Ferrante16 e donna Prassede, è verosimilmente ricca, o almeno benestante, oltre che nobile17. Ma i loro beni paiono gestiti solo dalla moglie – il vero capo-famiglia18 –, mentre il marito sembra pensare esclusivamente alla cultura (o meglio a una distorta idea di erudizione), disinteressandosi sostanzialmente del denaro. Che la nobildonna sia la “padrona” (PS, XXVII, 521: cfr. n. 18) in famiglia19 (e non

un passo indietro; ma il frate, facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò appiè del covile, e, stesavi sopra l’altra mano, accennava col dito l’uomo che vi giaceva” [corsivo mio]; cfr. anche FL , IV, IX, 1: “Ritto sul mezzo dell’uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la barba, scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani e a filaccica”. 16 Nel FL , nei primi paragrafi di III, IX dedicati a questo personaggio (§§ 2-14), il suo nome era Don Valeriano, che diventa Don Ferrante dal § 15. 17 Vedi PS, XXV, 482: “Era donna Prassede una vecchia gentildonna”; cfr. FL , III, IX, 2: “Don Valeriano, capo di casa, ultimo rampollo d’una famiglia illustre che pur troppo terminava in lui, [...]”; 20-21: “Aveva Donna Prassede il suo spillatico, pattuito nel contratto nuziale, e allo spirare d’ogni termine dopo un po’ di guerra, un po’ di schiamazzo, molte minacce di svergognare il marito in faccia ai parenti, veniva essa a capo di riscuotere la somma che le era dovuta. Ma fuor di questo, tutta l’eloquenza, tutta l’insistenza, tutte le arti di Donna Prassede non avrebbero potuto tirare un danajo dalla borsa di Don Ferrante. Le entrate, prima che si toccassero, erano impegnate a pagar debiti urgenti, o destinate a soddisfare qualche genio fastoso di Don Ferrante”. 18 Cfr. PS, XXVII, 521: “Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon’ora; ma lui servo, no”. 19 Vedi PS, XXVII, 520: “Dove il suo zelo poteva esercitarsi liberamente, era in casa: lì ogni persona era soggetta, in tutto e per tutto, alla sua autorità,

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solo), risulta dal rilievo circa il suo ruolo dominante anche all’esterno della casa (XXVII, 520):

[...] aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que’ luoghi un’attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l’adito a’ suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d’ogni affare. Non parlo de’ contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d’altri affari anche più estranei: [...]. Ecco perché don Ferrante si estrania dalla vita pratica della famiglia,

isolandosi nella ‘torre d’avorio’ della ‘vita contemplativa’ incentrata sui suoi studi eclettici, se non enciclopedici, senza dare alcuna importanza alla casa e ai relativi problemi socio-economici. È innegabile che egli è una persona anaffettiva, un marito e un padre assente, forse come difesa da una moglie invadente e da figlie a lei sottomesse, quasi asservite, e, guarda caso, tutte e cinque femmine20, forse per evitare, secondo il pensiero malizioso dell’autore, che un figlio maschio continuasse il casato (cfr. FL, III, IX, 2, cit. alla n. 17: “ultimo rampollo d’una famiglia illustre che pur troppo terminava in lui”) – perché un uomo come questo non deve trasmettere, col sangue, la sua mentalità alla prole –, ma forse anche per una forma di misoginia non di rado riscontrabile nel Manzoni. Pochissime sono infatti le donne del romanzo per le quali l’autore manifesta apprezzamento o senz’altro affetto: oltre a Lucia, mi vengono in mente soltanto Agnese e la madre di Cecilia (PS, XXXIV, 661-663; cfr. FL, IV, VI, 39-45, dove però la bimba è anonima)21 – tutte e tre in qualche modo autobiografiche22 –, nonché la mercantessa (XXXVI, 702 ss.).

fuorché don Ferrante, col quale le cose andavano in un modo affatto particolare” (cfr. n. 18). 20 Nel FL , III, IV, 72 si parla invece di una sola figlia, Ersilia, e in III, IX, 57 si dice che Silietta [diminutivo di Ersilia] era destinata al convento. 21 Cfr. il mio art. “La madre di Cecilia (I Promessi Sposi, cap. XXXIV)”, Italianistica 41, 2/2012, pp. 67-78. 22 Troppo noti sono i riferimenti autobiografici a Lucia perché si debba ritornare sull’argomento; per sua madre, cfr. il mio art. “Appunti manzoniani:

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Invece gli altri personaggi femminili sono pieni di colpe, difetti o limiti più o meno sottolineati o criticati: da Perpetua – pur tra luci e ombre23 – a Gertude e a sua madre, ad altre monache del convento di Monza, alla donna dalla figura “sconcia” che ha fatto incetta di pane e farina (XI, 233-234), alla “sgarbata” cui Renzo chiede notizie di Lucia (XXXIV, 665-666) e alla “strega bugiarda” che accusa Renzo di essere un untore (ibidem), fino, appunto, a donna Prassede. Quest’ultima, infatti, è lo stereotipo della moglie e della madre che nessuno vorrebbe avere: una tiranna senza cuore, il cui unico interesse è fare quel presunto bene che considera la sua missione divina, e comunque la sua attenzione è rivolta al potere, magari indiretto, e al denaro, versato certamente come dote ai mariti delle due figlie coniugate, e probabilmente ai conventi dove erano ospitate le tre figlie monache.

7. L’ambizione di potere e/o l’ingordigia di denaro, che può sconfinare nell’avarizia, è strettamente connessa con l’egoismo o con la boria, come si può rilevare da non pochi esempi spalmati nel corso del romanzo: esaminiamone qualcuno, oltre a quelli già menzionati in precedenza.

Il padre di Lodovico, oltre al benessere economico conquistato con l’attività commerciale, agogna anche, per mal intesa vanagloria, uno status sociale simile a quello dei nobili, sforzandosi di dimenticare e far dimenticare la precedente condizione di mercante, di cui prova un’irragionevole vergogna, in modo da rovinarsi l’esistenza (IV, 68):

Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso. La madre di famiglia che con il marito e il figlio ha razziato farina e pane,

è un esempio emblematico di avidità combinata con l’egoismo, che sfocia in una forma di discriminazione o intolleranza o pregiudizio sociale, quasi razziale, nei confronti dei campagnoli: “questi contadini birboni verranno a spazzar tutti i forni e tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi” (XI, 234).

Una forma di egoismo che sconfina nell’odio corporativo o di classe è riconoscibile anche nelle parole del mercante di Milano che fa tappa a Gorgonzola durante il viaggio verso Bergamo (XVI, 322):

Agnese”, Esperienze letterarie 38, 1/2013, pp. 101-116, spec. § 8 (pp. 112-114); per la madre di Cecilia, cfr. il mio art. cit. alla n. 21, § 5. 23 Cfr. il mio art. “Apologia di Perpetua”, Rivista di Studi Italiani 29, 1/2011, pp. 35-66 (online).

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“Cominciavan già a prender il vizio d’entrar nelle botteghe, e di servirsi, senza metter mano alla borsa; se li lasciavan fare, dopo il pane sarebbero venuti al vino, e così di mano in mano… Pensate se coloro volevano smettere, di loro spontanea volontà, una usanza così comoda. E vi so dir io che, per un galantuomo che ha bottega aperta, era un pensier poco allegro”. Di un’altra comparsa, mercante o artigiano, è abbozzata la figura con

pochi tratti fisici e caratteriali, che ne fanno una figura paradigmatica del benestante neghittoso il quale, data la sua florida o comunque discreta condizione economica, non sa come passare il tempo, e non ha altri interessi se non l’utile: è l’uomo al quale Renzo, durante la fuga dai birri, evita di domandare informazioni sul percorso per uscire da Milano. La rinuncia a interpellarlo deriva da un improvvisato quanto approssimativo esame fisiognomico e psicologico da parte del giovane (XVI, 309)24:

Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, a gambe larghe, con le mani di dietro, colla pancia in fuori, col mento in aria, dal quale pendeva una gran pappagorgia, e che, non avendo altro che fare, andava alternativamente sollevando sulla punta de’ piedi la sua massa tremolante, e lasciandola ricadere sui calcagni, aveva un viso di cicalone curioso, che, in vece di dar delle risposte, avrebbe fatto delle interrogazioni. I gesti di questo sfaccendato curioso e chiacchierone valgono a delinearne

sia il carattere sia la condizione economica e sociale senza bisogno di ulteriori precisazioni. Che sia benestante si deduce facilmente dalla figura pingue (“grassotto”, “pancia in fuori”, “gran pappagorgia”, “massa tremolante”), che non corrisponde certo a uno spiantato, e che sia un “cicalone curioso” è una conseguenza dell’aspetto fisico e della gestualità, la cui intuizione il Manzoni attribuisce felicemente a Renzo25.

Avidi ed egoisti, ma soprattutto ignavi e tesi al “proprio particulare”, ossia a evitare qualsiasi fastidio, e sempre pronti a ossequiare chi reputano più

24 Cfr. FL , III, VIII, 42: “Quel grassotto che stava ritto su la porta della sua bottega, con le gambe aperte, con le braccia dietro la schiena, e le mani l’una nell’altra su le reni, col ventre in fuori, il mento levato, e la giogaja pendente, sollevando alternativamente su la punta dei piedi la sua massa tremolante, e lasciandola cadere su le calcagna, aveva una cera di cicalone curioso, che invece di risposta avrebbe dato interrogazioni”. 25 Cfr. il mio art. “Fisiognomica manzoniana”, Esperienze letterarie 39, 4/2014, pp. 115-131, § 13 (pp. 127-128).

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potente di loro, sono gli osti – quello del paese di Renzo, quello della “luna piena” e quello di Gorgonzola –, che si deve ritenere avessero, anche grazie a tale loro remissiva filosofia, un tenore di vita confortevole, se non agiato.

8. Tra le varie tipologie di personaggi non ricchi né nobili troviamo Tonio, l’amico di Renzo, che non è proprio in miseria, ma certo ha qualche difficoltà, in quella congiuntura economica, a sfamare in modo soddisfacente la numerosa famiglia (cfr. § 3 e n. 7): ricordiamo la scena in cui è scodellata la “piccola polenta bigia, di gran saraceno” (VI, 113-114):

La mole della polenta era in ragion dell’annata, e non del numero e della buona voglia de’ commensali: e ognun d’essi, fissando, con uno sguardo bieco d’amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d’appetito che le doveva sopravvivere. [...]; e le donne, e anche i bimbi (giacché, su questa materia, principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile. Le condizioni della famiglia sono assai precarie, benché Tonio lavori la

terra (cfr. n. 8), ma si deve pensare che siano peggiorate in tempi recenti, con la crisi generale, se ricordiamo che in passato la moglie Tecla possedeva una collana d’oro (cfr. n. 9).

Per certi aspetti diverso è lo status socio-economico del sarto di Chiuso26, sia perché è più artigiano che contadino, pur avendo “qualcosa al sole” (XXIV, 456) – e dunque appartiene alla ‘piccola borghesia’ –, sia perché le sue condizioni finanziarie sono migliori di quelle di Tonio, tanto che nella sua famiglia non si soffre la fame, e addirittura, rispetto alla citata polenta, vi si mangia il cappone27: è pur vero che è una giornata speciale, di festa per la visita pastorale del cardinale, ma, come ricorda la moglie, nel paese ci sono anche “que’ poveri poveri che stentano a aver pane di vecce e polenta di saggina” (ibidem). Ma anche il sarto ha qualche difficoltà economica, dovuta ai crediti nei confronti di compaesani in gravi ristrettezze, non in grado di saldare il loro debito verso di lui: lo si evince dalla risposta del curato di Chiuso al cardinale che si era da lui informato sul modo di ricompensare il sarto per l’ospitalità offerta a Lucia. Poiché il parroco risponde che il sarto, nonostante le sue limitate disponibilità economiche, non accetterebbe mai un risarcimento, Federigo s’impegna ad accollarsi “tutti que’ debiti” delle

26 Cfr. il mio art. “Briciole manzoniane: il sarto”, Rivista di Studi Italiani 26, 1/2008, pp. 53-71 (online). 27 PS, XXIV, 456: “rimettendo stipa sotto un calderotto, dove notava un buon cappone”.

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persone non in grado di onorarli, incaricando il curato di “aver da lui [scil. il sarto] la nota delle partite, e di saldarle” (471).

Ancor peggiore di quella di Tonio è la condizione di una fanciulla che si trova sul percorso di fra Cristoforo dal convento di Pescarenico alla casa di Agnese e Lucia (IV, 66; assente nel FL):

La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questa è fame vera, conseguenza della carestia aggravatasi in questo

periodo di crisi economica, prodotta soprattutto dalla situazione sociale, a sua volta derivante dalla particolare temperie politica e militare. La scelta lessicale evidenzia lo stato di indigenza di questa famiglia, che pur possedendo una mucca (a meno che la ragazza la pascolasse per conto d’altri, come lavoro), non riesce a procurarsi il minimo indispensabile per combattere la fame: la fanciulla è “scarna”, e la bestia è una “vaccherella” addirittura “magra stecchita”, forse anche perché la giovane mandriana “ le ruba qualche erba”, probabilmente tra le più gustose o nutrienti, sottraendola (“si chinava in fretta”) alla sua alimentazione (cfr. XXVIII, 536: infra, § 9).

La frase conclusiva del periodo fa il paio con l’inciso di VI, 114 (citato qui sopra) relativo alla riflessione dei figli di Tonio: in entrambi i casi nasce spontaneo un richiamo all’epimitio o ‘morale’ della favola fedriana Ursus esuriens “L’orso affamato” (Appendix Perottina, 22, 7): acuit ingenium fames “la fame aguzza l’ingegno”, se non addirittura all’aforisma eschileo (Ag. 177) pavqei mavqoı “dalla sofferenza [deriva] la conoscenza”. Tali accostamenti sono tanto più significativi in quanto riferiti a giovanissimi, la cui maturazione esistenziale è accelerata dalle difficili condizioni economiche. In un altro caso la formazione umana è resa precoce non dalla fame ma dalla situazione familiare contingente: Renzo “era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti”, e dunque aveva dovuto ‘rimboccarsi le maniche’ esercitando “la professione di filatore di seta” e facendo lavorare o lavorando personalmente “un poderetto”; un’ulteriore accelerazione della sua crescita esistenziale è dovuta all’aver “messi gli occhi addosso a Lucia”, il che lo induce a diventare “massaio” (II, 33-34: cfr. § 2), ossia a gestire al meglio, da uomo adulto, le risorse provenienti dai suoi beni e dal suo lavoro.

9. Ma la miseria più disperata è quella che, per effetto della carestia, attanaglia la popolazione del milanese, tanto che il cardinal Federigo Borromeo, “aveva fatte gran compre di granaglie, e speditane una buona parte ai luoghi della diocesi, che n’eran più scarsi”, ma essendo esse insufficienti a sfamare la gente, aveva mandato anche del sale, “con cui” – scrive il Ripamonti citato dal

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Manzoni – “l’erbe del prato e le cortecce degli alberi si convertono in cibo” (XXVIII, 536). La prova è offerta dallo stesso Ripamonti, che narra (538):

“Vidi io, nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna… Le usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso… Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa […]”. L’utilizzo delle erbe selvatiche come cibo umano era già stato anticipato

nella descrizione della giovane che porta al pascolo la “vaccherella magra stecchita” in IV, 66 (cit. al § 8); ma questa conferma è assai più drammatica, sia perché si riferisce non a una singola persona ma a una parte consistente della popolazione, sia soprattutto perché sono illustrati concretamente gli effetti letali della carestia, ossia la morte per inedia.

Per converso, don Rodrigo e i suoi ospiti al pranzo nel palazzotto sembrano beffarsi della carestia incipiente o già presente nella zona, al punto che uno dei ‘clientes’, il dottor Azzecca-garbugli, dopo aver declamato un elogio all’ospitalità dell’anfitrione, lancia una sorta di premonizione che ha il sapore di sfida al destino o alla Provvidenza (V, 99):

“dico, proferisco, e sentenzio che questo è l’Olivares de’ vini: censui, et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e definisco che i pranzi dell’illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d’Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede e regna la splendidezza”. E come gran parte delle sfide al Fato o agli dèi o, per i Cristiani, alla

divina Provvidenza, a cominciare dall’antichità (si pensi ai giganti, o Titani, Oto ed Efialte28, che tentarono la scalata all’Olimpo, al bestemmiatore Capaneo29, a Prometeo30, al virgiliano Mezenzio31, al Faraone che si oppose alla volontà del Dio ebraico32, a Giuliano l’apostata33, e a numerosi altri

28 Cfr. Dante, Inf . XXXI, 94 ss.: vd. Verg., Aen. 6, 580 ss.; Hor., carm. 3, 4, 42 ss. 29 Cfr. Dante, Inf . XIV, 51 ss.: vd. Stat., Theb. 3, 615 ss.; 10, 897 ss. 30 Cfr. Aesch., Prometeo incatenato; etc. 31 Cfr. Verg., Aen. 8, 7: contemptorque deum Mezentius “Mezenzio spregiatore degli dèi”; etc. 32 Cfr. PS, VI, 104 [parole di fra Cristoforo a don Rodrigo]: “Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo”.

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esempi) fino all’età contemporanea (ricordiamo Mussolini che in gioventù sfidò Dio a fulminarlo34), anche quella del signorotto – ancorché non avanzata direttamente da lui, ma da uno dei suoi protetti – avrà come esito la sua rovina. Del resto, la sfida alla sorte o a Dio non si limita alle parole del servile leguleio, che don Rodrigo peraltro sembra approvare e gradire, ma riguarda in ispecie la persecuzione del signorotto nei confronti di Lucia, che in certo senso equivale a una provocazione a Dio stesso, in quanto la giovane è una sua creatura, che dunque gode della protezione del Padre, come il buon frate sottolinea opportunamente durante la reprimenda al signorotto (VI, 104):

“Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato”,

con l’appendice del profetico anatema “Verrà un giorno [...]”, che si avvererà puntualmente (cap. XXXIII).

Ancorché non sia rimarcato espressamente dall’autore, pure il conte Attilio deve essere benestante, se non senz’altro ricco, dato il genere di vita oziosa e dissipata che conduce; ma nel romanzo egli è soltanto – per mutuare un termine del gergo teatrale – la ‘spalla’ del cugino, e il suo ruolo, apparentemente di caposcarico sfaccendato e libertino, dimostrato dalla scommessa con don Rodrigo e dalla frequentazione del “ridotto d’amici soliti a straviziare insieme” (XXXIII, 625)35, è in realtà quello di un abile

33 Ricordo la leggenda secondo cui, in punto di morte, ammettendo di essere stato punito per avere sfidato il Cristianesimo, avrebbe gridato: nenivkhkaı, Galilai'e oppure vicisti, Galilaee “Hai vinto, Galileo!”, ossia Gesù Cristo (Teodoreto di Cirro, Historia Ecclesiastica, 3, 20). 34 Cfr. per es. A. Lepre, Mussolini l’italiano. Il Duce nel mito e nella realtà, Milano: Mondadori, 1995, p. 21: “[...]. Mussolini dice perentorio: ‘Datemi un orologio: Do dieci minuti di tempo al Padre Eterno. Se egli non mi colpisce entro questo limite di tempo, vuol dire ch’egli non esiste. Lo sfido’. Ma Dio non raccoglie la sfida”, almeno per il momento, perché “i mulini del Signore macinano lentamente” (H. W. Longfellow, Retribution, vv. 1-2), ma macinano fino, e infatti possiamo ricordare Giulino di Mezzegra e Piazzale Loreto. 35 PS, XXXIII, 625: “[don Rodrigo] tornava da un ridotto d’amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n’eran de’ nuovi, e ne mancava de’ vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de’ più allegri; e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima”.

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manipolatore del conte zio di entrambi, che, peraltro, a sua volta non è affatto sprovveduto (XVIII, 354 ss.).

Per quanto attiene al conte zio, egli è indubbiamente ricco e potente, e come la maggioranza degli appartenenti al suo ceto sfrutta la propria posizione sociale per prevaricare i più deboli, magari con la connivenza di altri personaggi autorevoli, come il padre provinciale dei cappuccini, di cui si avvale per difendere la reputazione del dissoluto e scellerato nipote Rodrigo – e dunque della famiglia – a danno di un santo frate. Va altresì rilevato che, come gran parte dei nobili, è dotato di scaltrezza, ma non dell’astuzia innocente che in qualche occasione caratterizza Renzo, bensì di quella furbizia maliziosa36 che il Manzoni condanna apertamente (vedi per es. XV, 305, a proposito del notaio criminale), e di cui il conte zio si giova appunto nei confronti di un personaggio peraltro smaliziato, il padre provinciale. La sequenza descritta dall’autore rappresenta lo scontro tra due potenti, di cui uno, il conte, anche ricco. Entrambi mettono in campo le rispettive aderenze – per il nobile il conte duca (XIX, 363), per il religioso il “cardinal Barberini, ch’era cappuccino, e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII” (364) –, e il vincitore è il potente facoltoso, ma non tanto grazie alle sue ricchezze, bensì piuttosto per il sottile ricatto relativo alle conseguenze della permanenza del ‘reprobo’ frate nella sua attuale sede: “Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze…”, etc. (368).

10. Tra i ricchi che compaiono nel romanzo ricordiamo il principe padre di Gertrude, “tra i più doviziosi della città” (IX, 175), che però è ossessionato dalla preoccupazione che il suo patrimonio venga frazionato e distribuito tra i figli; destina dunque al chiostro i figli cadetti “dell’uno e dell’altro sesso” per mantenere indivise le proprie ricchezze, ma creando probabilmente degli infelici, tra i quali in particolare Gertrude.

Viene pure citato il marchese ***, erede “per fidecommisso” (XXXVIII, 731) di don Rodrigo. Per quanto non siano precisate esplicitamente le sue condizioni economiche, si può presumere che sia assai ricco, e lo sarà ancor più in futuro, in virtù dei beni ereditati dal congiunto deceduto, tanto che egli ricorda: “In questa calamità, ho perduto i due soli figli che avevo, e la madre loro, e ho avute tre eredità considerabili. Del superfluo, n’avevo anche prima [...]” (736), e perciò sostiene con larghezza la nuova famiglia di Renzo e Lucia, acquistando le loro proprietà nel paesello per il doppio del prezzo, già molto alto (“uno sproposito”, 738), fissato, a sua richiesta, da don Abbondio nella funzione di mediatore. Ricchezza e generosità associate, dunque: ma non

36 Cfr. XVIII, 357: “‘Intendo’, disse il conte zio: e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere”.

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si deve dimenticare l’aspetto risarcitorio che sottende a tale munificenza, per il male fatto dal suo congiunto ai due giovani, e segnatamente a Lucia.

Anche l’innominato è certamente ricco, come risulta per es. dalla pletora di servi e bravi di cui si circonda – e comunque pare che nella realtà storica fosse un membro della casata dei Visconti (Francesco Bernardino o il fratello Galeazzo Maria37), ricca e potente nei suoi vari rami –, ma, secondo la descrizione del Manzoni, il suo tenore di vita non corrisponde alle sostanze di cui dispone: anche prima della conversione egli conduceva un’esistenza sobria, pressoché monacale, tesa quasi esclusivamente all’acquisizione e al mantenimento del potere, la sua vera passione. Ne consegue una personalità non edonistica, anzi in qualche modo idealistica, del tutto antitetica a quella della maggior parte dei nobili presenti nel romanzo. Forse l’autore ha inteso anticipare gli effetti della palingenesi del personaggio, attribuendogli un’indole severa e morigerata, che la conversione altro non fa che affinare e dirigere alla fede in Dio, analogamente al percorso esistenziale di fra Cristoforo, che fin da giovane, prima di vestire il saio, aveva la propensione a difendere i deboli.

11. Tra i personaggi singoli ho lasciato per ultimo il dottor Azzecca-garbugli38, et pour cause, perché non è né ricco né povero, ma si barcamena in una sorta di limbo ai limiti della legalità. Si potrebbe applicare anche a lui il profilo applicato a don Abbondio (I, 23): “non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno”: non è certamente nobile, perché in tal caso non eserciterebbe la professione di avvocato, né ricco, come dimostrano l’arredamento obsoleto e malandato dello studio (III, 52):

un grande scaffale di libri vecchi e polverosi [...], un seggiolone a braccioli [...], con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s’accartocciava qua e là,

e il suo abbigliamento (ibidem): in veste da camera, cioè [...] una toga ormai consunta che gli aveva servito, molt’anni addietro, per perorare [...],

37 Cfr. il mio art. “Onomastica manzoniana”, Studi sul Settecento e l’Ottocento 11, 2016, pp. 55-67, p. 62 e n. 1. 38 Circa questo comprimario, cfr. il mio art. “Lo studio dell’Azzecca-garbugli (I Promessi sposi, cap. III)”, Rivista di Studi Italiani 34, 2/2016 (online)

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e tanto meno è coraggioso, come si arguisce dalla reazione alla sortita di Renzo “Quel prepotente di don Rodrigo […]” (57), accentuata dall’atteggiamento servile che tiene durante il banchetto a casa del signorotto: rileviamo in particolare la frase “in atto d’un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli” (V, 90).

Sono due facce della stessa medaglia, il laico e il religioso, caratterizzati da analoghi difetti e debolezze, appartenenti alla stessa categoria degli ignavi, tanto diffusa nel romanzo, come nella vita reale di tutte le epoche. Non per caso, credo, Renzo si scontra con entrambi, per ragioni in qualche modo affini, ossia a causa dei rapporti dei due con il prepotente signorotto: per don Abbondio si tratta di paura incontrollabile, per l’avvocato è uno degli aspetti del suo servilismo. L’Azzecca-garbugli vive e agisce, per così dire, di riflesso rispetto ai ricchi e i potenti, principalmente don Rodrigo, del quale pare essere frequentemente ospite, e la cui protezione contraccambia con la sua consulenza legale: si pensi al soliloquio in cui il signorotto pondera il modo più conveniente per togliere di mezzo Renzo, ostacolo ai suoi progetti (XI, 228):

[...] si risolvette d’aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per fargli comprendere il suo desiderio. – Le gride son tante! – pensava: – e il dottore non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto nome –. Si vede chiaramente che don Rodrigo non prova né stima né rispetto per il

dottore, ma anzi nutre per lui un sostanziale disprezzo, in quanto persona di ceto inferiore (cfr. lo spregiativo “villanaccio”), e se ne serve soltanto come strumento di potere, in virtù della sua competenza giuridica. L’Azzecca-garbugli, se non complice del suo protettore, è almeno collaterale alle sue prepotenze e malefatte, e dunque ha almeno una parte di responsabilità delle angherie dell’altro, secondo il principio per cui “è ladro non solo chi ruba, ma anche chi tiene il sacco o fa il palo”. 12. A integrazione di questa carrellata di personaggi – protagonisti, comprimari o comparse marginali –, non posso esimermi dal menzionare la massa dei poveri e degli umili, e per converso la categoria complessiva dei benestanti o comunque non indigenti. I componenti di entrambe queste classi sociali si possono a loro volta suddividere in probi e furfanti – ladri o profittatori, magari violenti –, che cercano ciascuno a suo modo di provvedere alla propria esistenza, in primis alle necessità alimentari.

Nel complesso di chi riesce comunque a sopravvivere o addirittura a condurre un’esistenza confortevole troviamo lavoratori dipendenti – per es. i

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filatori di seta come Renzo e il cugino Bortolo (cfr. § 2) – e autonomi, tra i quali i commercianti (cfr. § 7), compresi i fornai.

Dobbiamo innanzitutto osservare che il Manzoni sembra nutrire scarsa stima per i mercanti, che considera egoisti se non disonesti: ricordiamo i fornai, accusati dall’opinione pubblica – ricchi compresi39 – di nascondere il grano per farne lievitare il prezzo40, o il negoziante che sosta a Gorgonzola (cfr. § 7), e magari anche quello a cui Renzo rinuncia a chiedere informazioni stradali (cfr. § 7). Tra gli appartenenti a questa categoria, soltanto “l’agiata mercantessa” (XXXVI, 702) che condivide con Lucia la capanna del lazzeretto dimostra bontà e generosità, tanto da proporre alla giovane di tenerla “con sé, come una figliuola o una sorella” (703).

Tra coloro che, pur essendo popolani, conducono una vita comoda, ma guadagnata con la prepotenza, vanno annoverati i bravi, che sono lavoratori dipendenti, stipendiati dal rispettivo padrone, ma i cui guadagni sono presumibilmente incrementati con l’attività autonoma delle rapine ‘private’, un po’ come i mercenari o i soldati di ventura, che arrotondavano la paga con ruberie, estorsioni e spogliazioni. Naturalmente, allo scoppio della carestia, quando i loro padroni non sono più in grado di garantire loro un salario o sono costretti a licenziarne una parte, alcuni di questi gaglioffi si trovano ridotti alla fame e alla mendicità, non diversamente da coloro sui quali avevano in passato esercitato la loro prevaricazione41. Il territorio lombardo e

39 Cfr. V, 99 [commenti durante il pranzo a casa di don Rodrigo]:

“E i fornai,” diceva un altro: “che nascondono il grano. Impiccarli”. “Appunto; impiccarli, senza misericordia”. “De’ buoni processi”, gridava il podestà. “Che processi?” gridava più forte il conte Attilio: “giustizia sommaria.

Pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli”.

“Esempi! esempi! senza esempi non si fa nulla”. “Impiccarli! impiccarli! e salterà fuori grano da tutte le parti”.

40 Cfr. XI, 234: “[Renzo] viveva anche lui in quell’opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagl’incettatori e da’ fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l’alimento che essi, secondo quell’opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo”; XII, 240: “Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai s’erano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che s’avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell’abbondanza”; etc. 41 Cfr. XXVIII, 532-533: “C’eran pure, e si distinguevano ai ciuffi arruffati, ai cenci sfarzosi, o anche a un certo non so che nel portamento e nel gesto, a quel marchio che le consuetudini stampano su’ visi, tanto più rilevato e chiaro, quanto più sono strane, molti di quella genìa de’ bravi che, perduto,

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specialmente le strade di Milano si riempiono infatti di mendicanti, in parte stanziali e di professione, in parte spinti dalla carestia incipiente42 o ormai esplosa in tutta la sua virulenza. Naturalmente la crisi economica, con la miseria che ne è la conseguenza, si fa sentire anche nelle campagne, dove la generalità dei contadini si arrabatta ai limiti della sopravvivenza, come è illustrato en passant nella stessa sequenza relativa al viaggio di fra Cristoforo (cfr. anche § 8)43.

Al popolino milanese appartengono altri disonesti, o più specificamente borseggiatori, che il Manzoni segnala indirettamente, attraverso l’arguta e sottilmente ironica prosopopea delle monete nella locanda della “luna piena” (XIV, 276):

Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: – noi eravamo stamattina nella ciotola d’un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt’intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private –.

13. Non si deve comunque trascurare il fatto che la popolazione cittadina è generalmente presentata dall’autore in una luce più sfavorevole rispetto agli abitanti della campagna, che sono perlopiù descritti come pacifici e rispettosi delle prescrizioni delle autorità: è, insomma, l’ideale sociale del Manzoni, che auspica non la ribellione, ma la sottomissione del popolo ai potenti, e l’assoluta proibizione di farsi giustizia da soli contro i soprusi della legge o

per la condizion comune, quel loro pane scellerato, ne andavan chiedendo per carità. Domati dalla fame, non gareggiando con gli altri che di preghiere, spauriti, incantati, si strascicavan per le strade che avevano per tanto tempo passeggiate a testa alta, con isguardo sospettoso e feroce, vestiti di livree ricche e bizzarre, con gran penne, guarniti di ricche armi, attillati, profumati; e paravano umilmente la mano, che tante volte avevano alzata insolente a minacciare, o traditrice a ferire”. 42 Cfr. IV, 66: “Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento”. 43 Ibidem: “Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla” (cfr. anche n. 42). Segue il passo, relativo alla “fanciulla scarna”, citato al § 8.

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dei privati. Sono esempi di tale posizione ideologica la vicenda di Lodovico (cfr. IV, 70-72 e XXXV, 685), nonché l’istintivo sdegno di Renzo di fronte alle angherie di don Rodrigo, e il suo progetto di vendetta, che però rimane allo stato onirico (II, 42):

Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d’appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell’immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo44, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo,

nonché VII, 120: “La farò io, la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch’io. Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e pazienza… e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà…! e poi in tre salti […]!”,

con la reazione di Lucia, che dà voce al pensiero del romanziere (ibidem): L’orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con voce accorata, ma risoluta: “non v’importa più dunque d’avermi per moglie. Io m’era promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse… Fosse al sicuro d’ogni giustizia e d’ogni vendetta, foss’anche il figlio del re […]”.

44 Non risulta da nessun passo del romanzo che Renzo possedesse uno schioppo, e dunque esso è solo un elemento della sua fantasia omicida; la sola arma che egli talvolta portava era un pugnale, come risulta dal suo ritratto quando si presenta a don Abbondio (II, 34): “[...] col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni” (curiosamente, poco dopo (39) il “pugnale” diventa un “coltello”): comunque la precisazione “del manico bello” indica appunto che egli disponeva di più di un’arma bianca: infatti in XXXIII, 635 è ricordato che “in un taschino de’ calzoni si mise un coltellaccio, ch’era il meno che un galantuomo potesse portare a que’ tempi” (cfr. anche 647).

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PIER ANGELO PEROTTI

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Il Manzoni è complessivamente maldisposto nei confronti della plebe cittadina, che presenta come stolta, violenta, addirittura sanguinaria45 durante la sommossa per il pane e l’assalto alla casa del vicario di provvisione, episodio che gli fu presumibilmente ispirato dall’assassinio, perpetrato dalla folla milanese, del ministro napoleonico Giuseppe Prina, cui assistette di persona o di cui ebbe notizie indirette da qualcuno dei presenti46.

Nel caleidoscopio di immagini della vita di città, l’autore inserisce vari tipi di comparse, dai benestanti ai miserabili, dagli onesti ai malfattori e ai violenti47, ma le persone perbene paiono una minoranza, a riprova dell’opinione negativa – probabilmente risultato di esperienza personale, come ho testé notato – che egli aveva del popolo cittadino, mentre gli abitanti del contado sono in genere presentati come onesti e timorati di Dio. Il suo giudizio critico sugli abitanti di Milano può facilmente derivare anche dal fatto che, per quanto egli amasse il capoluogo della Lombardia, aveva “dovuto soffrire, per le meschinità e l’avversione (persino nel clero, come attesta l’Orelli) che i suoi concittadini per parecchio tempo ebbero verso di lui”48. Per converso, la sua simpatia, se non addirittura affetto, nei confronti della gente di campagna deriva presumibilmente dall’apprezzamento per il personale della sua villa di Brusuglio, e più in generale per la popolazione del borgo, e si estende naturalmente ai campagnoli del romanzo. Sono queste le figure più apprezzabili dei Promessi sposi: non solo i protagonisti Renzo e Lucia, ma anche fra Cristoforo, che vive in questo cantuccio di mondo, nonché gli ‘eroi’

45 Ricordo in particolare il “vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse” (XIII, 255-256), immagine paradigmatica degli effetti di una mente satanica. 46 Su questo episodio si veda L. Ceria, L’eccidio del Prina – e gli ultimi giorni del Regno Italico (1814), Milano: Mondadori, 1937, specialmente p. 201 ss.; cfr. anche i miei articoli “Spunti autobiografici nei Promessi Sposi”, Critica letteraria 25, nr. 95, 1997, pp. 233-252, §§ 3-8 (pp. 235-242); “Gli aristocratici nei Promessi sposi”, Rivista di Studi Italiani 28, 2/2010 (online), pp. 1-31, § 9 (p. 18); “‘La patria è dove si sta bene’ (I Promessi sposi, XXXVIII, 731)”, Esperienze letterarie 40, 1/2015, pp. 109-124, § 3, n. 17 (p. 114). 47 Mi limito a citare il “vecchio più che ottuagenario”, creduto un untore perché, prima di sedersi, aveva spolverato la panca, e che viene quasi linciato dalla “gente che si trovava in chiesa (in chiesa!)” (XXXII, 606). 48 E. Caccia, I Promessi sposi, a cura di E. C., Brescia: Ed. La Scuola, 19857, p. 524, n. 280; cfr. anche il mio art. “‘La patria è dove si sta bene’”, cit., § 3, n. 15 (p. 114).

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in scala ridotta, come Agnese e Perpetua, Tonio e Gervaso, il cugino Bortolo, etc., che il Manzoni presenta, pur con i loro difetti, come persone degne di stima, e che in fondo rappresentano l’ossatura etica del romanzo. __________