ANNO XXVIII APRILE 2013 rivista di storia arte cultura · Oddone Longo. 6 Paolo Franceschetti...

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ANNO XXVIII APRILE 2013

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5 Editoriale

6 Genesi dell’idea decorativa di Cesare Laurenti per lo Storione

Paolo Franceschetti

11 Fogazzaro e Padova: le “figure vere”

Luciano Morbiato

18 Gino Peresutti, un progetto per la Previdenza a Padova

Cristina Marcon

23 Un antico ritratto del canonico Pietro Bembo

Claudio Bellinati

25 Due briciole bembesche

Franco Benucci

30 La Tabula Bembina nella collezione di Pietro Bembo

Alessandra Chiantoni

33 Un’inedita testimonianza di Andriolo De Sanctis

Andrea Calore

36 De Nittis Silvia Gullì

40 Babetto: in principio era la geometria

Paolo Pavan

42 Osservatorio:

Tornerà a Padova la “pietra” di Santa Giustina Giovanni Zannini

43 Rubriche

Rivista bimestrale • Anno XXVIII • Fascicolo 162 • Aprile 2013

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Presidente: Vincenzo de’ StefaniVice Presidente: Giorgio RonconiConsiglieri: Salvatore La Rosa, Oddone Longo, Mirco Zago

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In copertina: Il portale dell’Albergo Storione in una foto degli anni Trenta (Archivio del Museo Civico).

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Del portale dell’Albergo-Ristorante Storione sopravvive oggi – quando e se sopravvive – non più che un vago ricordo. Meno vago quello dell’edificio dell’albergo, improvvidamente demolito all’inizio degli anni ’60, per rimpiazzarlo con la nuova sede della Banca Anto-niana: una scelta per il finanziario, a danno del culturale e turistico. Non è che uno dei numerosi esempi in cui Padova si è fatta male da se stessa; vi si potrebbero aggiungere, fra i molti, l’abbattimento della palazzina razionalista di via Giotto e quello della villa che sorgeva in angolo corso del Popolo - via Tommaseo, rimpiazzata da una cupa sala multivalente di nessun valore.

La sala da pranzo centrale dello Storione era adornata nel soffitto da un fregio di Cesare Laurenti, rappresentante dieci figure femminili danzanti, opera considerata il capolavoro dello stile liberty nel Nord-Est veneto, e andata distrutta salvo alcuni frammenti ora esposti in un’apposita mostra.

In questo come in altri casi (primo fra tutti quello del crocifisso di Donatello della chiesa dei Servi), Padova si è dimostrata imme-more o inconsapevole della sua grandezza passata, marcata da nomi come Giotto, Donatello, Bembo e Galileo. Pure, la vera ricchezza del nostro Paese è data proprio da questo patrimonio culturale; neppure le fiamme appiccate dalla Camorra alla Città della Scienza di Napo-li-Bagnoli potranno scalfirla. Non praevalebunt!

Ma torniamo allo Storione. Nel maggio 1904 Cesare Laurenti (Mesola 1854 - Venezia 1936), artista ferrarese, ma veneziano d’a-dozione, ricevette l’incarico di ornare la sala da pranzo, affinché divenisse un luogo di prestigio adatto a ricevere ospiti di riguardo. La decorazione prevedeva, sotto un florido pergolato di melagrane, dieci figure femminili danzanti che reggevano sinuosi festoni e nastri tratte-nuti alle estremità dalla danzatrice collocata al centro della parete di fondo del ristorante.

La mostra, ora realizzata dai Musei Civici - Museo d’Arte con il sostegno di Banca Antonveneta - Gruppo Montepaschi e di Fonda-zione Antonveneta, vuole essere un omaggio all’impresa di Laurenti allo Storione, considerata a ragione il capolavoro dello stile liberty in terra veneta e andata irrimediabilmente perduta.

Viene esposta una selezione di trenta frammenti donati nel 1966 al Museo dall’allora Banca Antoniana e facenti parte del soffitto, insieme a disegni e fotografie, pervenuti per volontà di Anna Laurenti, nipote del pittore.

Oddone Longo

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Paolo Franceschetti

Genesidell’idea decorativa di Cesare Laurentiper lo Storione

Il recente rinvenimento di comunicazioni inedite, inviate all’artistadal sindaco di Padova Vittorio Moschini e dall’ingegnere Alessandro Peretti,permette di ripercorrere le vicende che determinarono la scelta ornamentalee portarono all’affidamento dell’incarico.

La decorazione del ristorante Storione, realizzata negli anni 1904-05 da Cesare Laurenti e collaboratori e ritenuta il mag-gior capolavoro dell’Arte Nuova nel Ve-neto, subì un danno irreparabile a causa della demolizione dell’edificio (1962). Il salone, come è noto, mostrava undici dan-zatrici seminude volteggianti sotto una pergola con melograni, dipinte a tempera su un bassorilievo di stucco, mentre l’a-diacente cortiletto coperto celebrava il pesce da cui prendeva nome il locale con alcune iscrizioni in lingua latina e con un grande dipinto (figg. 1-4). Ora, grazie al rinvenimento tra le carte del fondo Lau-renti1, depositato a Porto Marghera presso l’Archivio Storico delle Arti Contempora-nee (A.S.A.C.), di comunicazioni postali giunte all’artista da Padova, è possibile ripercorrere gli avvenimenti che influiro-no sulle decisioni del pittore ferrarese, da tempo residente a Venezia, e dell’ammini-strazione comunale.

È in data 19 ottobre 1903 che Alessan-dro Peretti, ingegnere capo dell’ufficio tecnico municipale, prende per la prima volta contatto con l’artista: “Il Sig. Sinda-co ing.re Moschini mi incarica di scriverle e nutro fiducia che Ella perciò avrà la cor-tesia di leggermi fino alla fine. Ed ora a titolo di proemio e perché non mi accusi di «lesa arte» se nella presente farà capo-

lino la questione economica debbo dirLe, che noi ingegneri in generale e quelli mu-nicipali specialmente siamo come coloro ai quali piace il vino generoso, ma per i loro scarsi mezzi devono accontentarsi di quello annacquato. Così a noi piace o può piacere l’arte ma dobbiamo molto spesso mettervi tanta acqua che non è neanche più vino ma acqua sporca. Ciò premesso ecco di che si tratta. Qui a Padova si sta costruendo un fabbricato del quale una parte (è il Comune che fabbrica) sarebbe destinata a ristoratore. Nulla di grandioso anzi forse men che modesto, ma tuttavia vi è una sala larga circa metri nove e lunga venti che sarebbe desiderio mio e del Sig. Sindaco riuscisse qualche cosa di geniale, di elegante e di nuovo. La forma dei fori che in questa sala si aprono e le loro di-mensioni nonché altre sue particolarità mi hanno fatto pensare ad una decorazione semplicissima con un largo fregio in cera-mica come la sua sala del ritratto alla espo-sizione di Venezia. Non penso ad una cosa così ricca, ma forse in più modeste forme credo che sarebbe adattissima anche per-ché sarebbe evitato il bisogno di frequenti restauri i quali guasterebbero qualunque altro genere di decorazione. Questa idea ha generato l’altra di rivolgerci a Lei per-ché ci aiuti. Io non posso darle un sicuro affidamento (e non lo potrebbe nemmeno

diPaolo

Franceschetti

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Genesi dell’idea decorativa di Cesare Laurenti per lo Storione

il Sig. Sindaco), ma è certo che se Ella fosse così cortese di fare un progettino indicando almeno approssimativamente la spesa, Ella può ben credere che, almeno se la spesa non fosse eccessivamente alta, la sua proposta sarebbe certamente bene ac-colta. Troppo affida il suo nome per dubi-tarne. Se Ella volesse entrare in quest’or-dine di idee io potrei mandarle i disegni della sala, ma meglio sarebbe che Ella potesse fare qui una scappata”2. Qualche giorno dopo, inviando all’artista la pianta della sala, l’ingegnere ricorda che essa è destinata al “noto ristoratore all’insegna dello Storione” e suggerisce tale “concet-to pel fregio”3.

La decorazione di Cesare Laurenti citata nella lettera, composta da piastrelle di ce-ramica policroma e rappresentante diversi artisti della tradizione italiana, è in quel momento ancora visibile a Venezia presso l’Esposizione Internazionale d’Arte, nella quale per la prima volta accanto all’arte pura viene presentata quella applicata4. La svolta lagunare segue la strada tracciata l’anno prima dalla grandiosa rassegna di Torino, organizzata per “riscattare la tra-dizione italiana rispetto all’invadenza di modelli stranieri”5, e sottolinea il ruolo ri-levante che l’arte decorativa assume nella percezione della modernità. Al “nuovo”

è interessato pure Alessandro Peretti, il quale dirige a Padova i lavori di comple-tamento del palazzo del Gallo. L’edificio è ormai a buon punto: terminata l’ala su piazza delle Erbe, si sta iniziando l’ultima porzione in via S. Canziano. L’ingegnere, nella lettera inviata all’artista, esprime il desiderio di vedere decorata in modo semplice, poco costoso e con dedica spe-cifica allo storione, la sala principale del ristorante, posta all’interno del fabbricato, utilizzando la ceramica perché facilmente conservabile6.

A fine anno (1903) Vittorio Moschini scrive direttamente a Laurenti, superando la mediazione dell’ingegnere capo: “Egre-gio Professore, Le sarei grato se volesse con qualche sollecitudine espormi a Pado-va le Sue idee … Sono pressato per incari-care altri della decorazione, naturalmente con preferenza a concittadini, ma prima vorrei conoscere le Sue idee”7.

L’incontro avviene qualche giorno più tardi, dopodiché il progetto viene presen-tato dal sindaco alla giunta. Quest’ultima, tuttavia, “considerata l’entità della spesa per una decorazione speciale e la conve-nienza di fare cosa che possa al caso più facilmente consentire future modificazio-ni, delibera che si provveda ad una deco-razione semplice a fascie ricorrenti, con

1. Laurenti allo Storione (immagine tratta da A. De Carlo,

Un’artista della rinascenza nel nostro secolo: Cesare Laurenti, “Il

Secolo XX”, anno VIII, luglio 1909, pp. 883-897).

2. Ristorante Storione. Danzatrice.

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Paolo Franceschetti

cese Gabriel Mourey (1865-1943), tratta di bassorilievi dipinti, elenca le tipologie più diffuse (gesso, stucco, intonaco) e de-scrive alcune procedure esecutive. L’auto-re fa notare che questa tecnica decorativa è molto apprezzata in Inghilterra, dove lo spirito moderno viene ravvivato dalle tra-dizioni popolari, ed è usata regolarmente da pittori molti noti, come Walter Crane (1845-1915)13; in Francia, viceversa, essa non è conosciuta dai maggiori artisti e taluni la disprezzano pure, perché troppo sfruttata all’interno di caffè, di foyer di teatri e persino di salumerie. A Londra, non a Parigi come erroneamente riporta Moschini, nell’ingresso del Restaurant du Trocadéro, il pittore Gerald Moira (1867-1959) e lo scultore Frank Lynn Jenkins

lieve spesa”8. Dispiaciuto, Moschini rife-risce al pittore che è stato deciso anche di “iniziare le opportune trattative per assi-curarsi che i nuovi locali ad uso ristorato-re sieno convenientemente affittati”, però egli non sa dire “se in seguito alle trattati-ve stesse la Giunta vorrà modificare i suoi propositi”9. Per superare l’offerta del con-duttore dello Storione, Giovanni Zorzi, e ricavarne un reddito maggiore, viene sta-bilito dall’amministrazione comunale di affittare i locali mediante asta pubblica10.

Laurenti invia due lettere al sindaco, ma non ottiene risposta. Moschini, nel frat-tempo, sperava che l’esito positivo di una nuova locazione aiutasse a superare le dif-ficoltà inerenti al costo dell’opera. Sola-mente ai primi di marzo 1904, protraendo-si la situazione di stallo, decide di rispon-dere e suggerisce: “Non crederebbe Lei possibile una decorazione molto più eco-nomica, e pure di buon e artistico effetto, dei due maggiori locali del Ristoratore? Le linee di essi sono veramente grandiose e parmi che un artista, un vero artista, do-vrebbe saper trarne partito anche con una spesa molto, ma molto minore di quella accennata. Per esempio, i fregi, invece che a maiolica, potrebbero esser fatti a sempli-ce pittura e tutt’al più con qualche rilievo a stucco, o bianco o colorato. Del pari il soffitto, che per la stessa sua costruzione non si presta ad essere solcato da linee troppo rilevate. D’altronde, abbandonate le trattative col conduttore attuale dello Storione, le decorazioni non dovrebbero più appoggiarsi sul motivo dello Storione, ma avere un carattere più generico di de-corazioni per un ristoratore. Per esempio del genere di quelle che adornano le sale del Restaurant du Trocadéro a Parigi del-le quali vidi una riproduzione sull’ultimo numero della annata 1903 della bella rivi-sta Art et décoration. Io scrivo queste cose a Lei, artista squisito e gentiluomo perfet-to, per chiederne il consiglio, per averne qualche utile suggerimento. Non oserei certo chiederle ancora una offerta dopo il poco incoraggiante esito della prima. Ed attendo un Suo riscontro ... Coi saluti di mia Moglie gradisca una mia buona stret-ta di mano.”11.

L’articolo del periodico illustrato12, a firma dello scrittore e critico d’arte fran-

3. Ristorante Storione.Sala Laurenti.

4. Ristorante Storione.Tempietto, con l’immagine celebrativa dello storione.

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Genesi dell’idea decorativa di Cesare Laurenti per lo Storione

opere di decorazione della sala grande … per un importo di lire 7000, affidando la sorveglianza alla cura particolare del Sin-daco”17. Viene quindi rinnovato il contrat-to d’affitto dello Storione con Pura Scai-ni, moglie del gestore Giovanni Zorzi, in quel momento in difficoltà economiche. Il 10 maggio la giunta, con sorpresa appa-rente, “prende atto … che il sig. Sindaco ha incaricato della esecuzione del lavoro il pittore sig. Laurenti Cesare con obbligo di valersi per coadiutori di artisti locali”18. Il 12 maggio Vittorio Moschini comunica ufficialmente la notizia all’artista: “resta accolta la proposta avanzata con lettera 14 aprile e resta inteso che per il compenso fisso di lire 7000 (settemila) la S.V. proce-derà alla completa decorazione delle pare-ti coi fori esistenti e del soffitto della nuo-va sala ad uso ristoratore nel palazzo detto

(1870-1929) hanno realizzato nel 1896 i pannelli decorativi che sono riprodotti in bianco e nero nell’articolo (figg. 5-7)14. Le opere sono modellate con gesso reso più duro grazie a un trattamento messo a punto dagli autori; tinte con colori in pol-vere diluiti in un liquido che ne permet-te l’assorbimento in profondità; dorate o argentate due volte, utilizzando alluminio perché non sbiadisce; rifinite con pittura a olio; infine protette dagli agenti atmo-sferici per mezzo di una vernice a base di alcool. I soggetti del fregio, posto sopra i ricchi rivestimenti delle pareti, sono tratti dal ciclo di poemi narrativi Idylls of the King, scritti dall’inglese Alfred Tennyson (1809-1892) e ispirati ai racconti arturiani di Thomas Malory (1405/16-1471)15.

Laurenti legge il lavoro di Mourey. Non sappiamo quanto gli siano stati utili i sug-gerimenti tecnici ivi contenuti, dal mo-mento che lo conosciamo artista completo, padrone delle diverse tecniche e sempre alla ricerca di nuove possibilità espressi-ve. Egli, pittore ormai affermato, accoglie comunque l’invito a utilizzare la tecnica del bassorilievo dipinto e a rinunciare al più dispendioso modellato ceramico. La fonte da cui trae ispirazione risale in parte alla tradizione artistica italiana, spe-cialmente al Rinascimento lombardo (si vedano il pergolato leonardesco adottato per il soffitto della sala16 e la decorazione dell’adiacente cortile coperto, rinominato Tempietto e dedicato allo storione, figlio di certo del progetto precedente); in parte – è il caso delle figure femminili – pro-viene dalle sue ricerche più recenti, nelle quali alla rappresentazione del dolore egli sostituisce quella di una bellezza conso-latrice.

Il 14 aprile Cesare Laurenti invia la nuo-va proposta. In seguito la giunta, “visto che nel progetto esecutivo è stanziata la somma di lire 14000 per opere di decora-zione; visto che appunto ora è necessario provvedere alla esecuzione di dette opere, fra le quali quella del grande salone ter-reno destinato a Ristoratore dev’essere artisticamente ideata ed eseguita così da dare a quell’ambiente un effetto geniale e da riuscire un’opera di lunga durata”, deli-bera “di provvedere direttamente a mezzo di artisti di fiducia … alla esecuzione delle

5. G. Moira - L. Jenkins,Restaurant du Trocadéro:

La caccia al falcone.

6. G. Moira - L. Jenkins,Restaurant du Trocadéro: La

caccia al cinghiale (part.).

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Paolo Franceschetti

12) G. Mourey, Bas-Reliefs peints, supplement à “Art et décoration”, Paris décembre 1903, pp. 392-398.

13) Collaboratore di William Morris (1834-1896) nell’ambito dell’Arts and Crafts Movement.

14) I pannelli decorativi erano già apparsi in The Art Movement: Novelty in Decoration at the Tro-cadero by G. E. Moira and F. Lynn Jenkins, “The Magazine of Art”, 20, nov 1896. to april 1897, pp. 92-97.

15) H. Watkins, The Art of Gerald Moira, Lon-don 1922, p. 13.

16) Laurenti confermerà a Gino Damerini di avere tratto ispirazione per il suo pergolato dalla sala delle “Asse” del castello di Milano, dipinta da Leonardo da Vinci e restituita in quegli anni (1902) all’ammirazione del pubblico (Una nuova opera decorativa di Cesare Laurenti a Padova, “Il Giornale di Venezia”, 27 gennaio 1905).

17) Atti GCP, 29 aprile 1904: delibera che an-nulla e sostituisce quella del giorno 19 perché con-tenente “qualche errore nella stesa del verbale”.

18) Atti GCP, 10 maggio 1904.19) ASAC, busta 6, fasc. 9, lettera intestata Co-

mune di Padova, 12 maggio 1904.20) ASAC, busta 6, fasc. 9, lettera intestata Co-

mune di Padova a firma Antonio Faccanoni, 21 maggio 1904.

del Gallo”19. Il pittore è tuttavia ancora perplesso per l’assenza di un contratto for-male di incarico e chiede chiarimenti, che giungono puntuali il 21 maggio 1904: le comunicazioni intercorse, viene precisato, “si integrano reciprocamente e quindi è stato ritenuto inutile lo stipulare speciale atto. Prego quindi la S.V. a voler iniziare quanto prima il lavoro”20. L’incarico per la decorazione del Tempietto, invece, ver-rà aggiunto solamente più tardi, quando l’opera nel salone sarà già cominciata.

l

1) Il fondo è ordinato in modo assai generico e attende uno spoglio sistematico. I documenti riguardanti lo Storione sono nel fascicolo 1 della busta 4 e altre informazioni si rinvengono nelle buste contenenti la corrispondenza ricevuta; non è stato possibile rintracciare, invece, le minute delle comunicazioni inviate dall’artista. L’Archivio Ge-nerale del Comune di Padova non possiede, alme-no così sembra, documenti sull’attività decorativa.

2) ASAC, fondo Laurenti, busta 6, fasc. 9, lette-ra Peretti, 19 ottobre 1903. Sulle vicende costrut-tive dell’edificio vedi il mio Nota sul Palazzo del Gallo e sullo Storione, “Padova e il suo territorio”, 157, giugno 2012, XXVII, pp. 14-18.

3) ASAC, busta 6, fasc. 9, lettera Peretti, 28 ot-tobre 1903.

4) L’esposizione veneziana chiuderà l’11 no-vembre. Il fregio è ora nel castello di Mesola (FE).

5) N. Stringa, I grandi cicli decorativi 1903-1920, in “Venezia e la Biennale: I percorsi del gu-sto”, Catalogo della mostra a cura di F. Scotton, Venezia, Palazzo Ducale - Galleria d’Arte Moder-na di Ca’ Pesaro, Milano 1995, p. 129.

6) Nell’ottobre 1903 la soluzione ornamentale proposta da Francesco Marani, scultore decoratore padovano attivo a Vienna, consultato in preceden-za, è quindi definitivamente accantonata.

7) ASAC, busta 6, fasc. 9, biglietto Moschini, 27 dicembre 1903.

8) Giunta Comunale, verbale 9 gennaio 1904.9) ASAC, busta 6, fasc. 9, lettera Moschini, 19

gennaio 1904. 10) Giunta Comunale, verbale 21 gennaio 1904.11) ASAC, busta 6, fasc. 9, lettera Moschini, 4

marzo 1904. Jole Biaggini (1863-1905), moglie di Vittorio Moschini, fu una donna colta ed elegan-te, animatrice di salotti e dedita a opere di bene-ficenza; ispirò lo scrittore Antonio Fogazzaro e fu ritratta (1901) dal pittore Vittorio Matteo Corcos. Cesare Laurenti ne modellò un ricordo dopo la morte. Così la lettera di ringraziamento di Moschi-ni: “Caro Professore, rinnovo i ringraziamenti più sentiti per il bronzo col quale ha voluto onorare la memoria della mia Yole nel sesto anniversario della sua dipartita dolorosissima. Vi aggiungo oggi l’espressione della mia riconoscenza per la Sua let-tera cortesissima ed i miei saluti più cordiali” (Stra 22 ottobre 1911, busta 6, fasc. 9).

7. G. Moira - L. Jenkins,Restaurant du Trocadéro: Elaine.

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Fogazzaro e Padova: le “figure vere”

Fogazzaro e Padova:le “figure vere”Un riepilogo di episodi e di rapporti con cittadini padovani,documentati nei carteggi fogazzariani e nella stampa cittadina1.

I Fogazzaro erano originarii di Schio, anzi di una contrada sopra Schio (Con-trà Fugazzari…), e avevano fatto la loro fortuna economica esercitando in quella cittadina l’industria e il commercio della lana. Ai primi dell’800, un Mariano era già in condizione di lasciar libri mastri e manufatti, e di trasferirsi a vivere di ren-dita a Padova.2

Così Piero Nardi in una delle prime pa-gine della sua ancor utile e documentata biografia fogazzariana del 1938. Anche il giovane Antonio Fogazzaro, terminati gli studi liceali a Vicenza, alla fine del 1858 passò a Padova per frequentare le lezioni nella facoltà di legge dell’università: per l’adolescente (nato nel 1842) doveva esse-re l’occasione di scoperte e avventure tra vita e cultura.3 Il ricordo di quell’esperien-za, già fantasticata sulla lettura del poe- metto Lo studente di Padova di Arnaldo Fusinato, era ancora vivo molti anni dopo in Fogazzaro, che l’aveva consegnato in un quaderno di note autobiografiche, pubblicato da Tommaso Gallarati Scotti: Per dire la verità quello che mi sorride-va soprattutto era la vita di studente: un mondo sconosciuto che la mia fantasia popolava di seduzioni d’ogni genere. Spe-ravo di andar [da] solo all’Università di Padova, ma mio padre decise di venir con me, ciò che mi mortificò assai. È vero che non pensavo solo ai piaceri, pensavo an-che agli studi che avrei fatto senza sorve-glianze, senza restrizioni di sorta; mi sen-tivo insomma un bisogno di indipendenza. La venuta di mio padre raffreddò molto il mio zelo. Nei due mesi che passai a Pa-dova non studiai quasi niente. Avevo la carissima compagnia di tre fratelli Mazzi, bergamaschi, miei cugini, pieni di inge-gno e di bontà, ma rozzi e selvatici. Mi le-

gai anche con Luigi Luzzatti che ora è uno degli uomini più popolari e più reputati d’Italia. Ci dicevamo dei versi a vicenda. Egli ricorda ancora una mia poesia sulla Musica e io ricordo l’ode sua in cui de-scriveva molto stranamente la bellezza di una sua amica ideale… Ai primi del gen-naio 1859 mi ammalai a Padova.4

Troncata bruscamente l’esperienza pa-dovana, per una malattia polmonare, Fo-gazzaro completò successivamente gli studi tra il 1860 e il 1864 a Torino, dove la famiglia si trasferì fino al 1866, l’an-no del suo matrimonio con la contessina Margherita di Valmarana (e del plebiscito-annessione del Veneto al Regno d’Italia). A Torino si cementò l’amicizia con il qua-si coetaneo Luigi Luzzatti (economista e uomo politico, 1841-1927), testimoniata da alcune lettere a Fogazzaro (conservate alla BBV).5 In una lettera, senza data ma scritta attorno al 1874, anno di pubblica-zione del poemetto Miranda, Luzzatti rin-grazia l’amico per l’invio del volume e gli chiede addirittura «il nome di quella gen-tile selvaggia» ispiratrice del «carme so-vrano», sicuro che non si trattasse di una creatura fantastica. Più tardi, nella vicenda della controversa nomina di Fogazzaro a senatore del Regno, per la quale sembra-va esserci un problema di censo, mentre era piuttosto di natura ideologica, Luzzatti si schierò in difesa dell’amico; gli scri-ve infatti in un veloce biglietto a matita: Io dovetti difendere la tua religione: di-stinguere il clericale dal cattolico, evoca-re l’immagine di Manzoni s’intende, vin-cere trionfalmente (1.11.’96).

Ancora con l’intestazione “Ministero per l’Agricoltura, l’Industria e il Commercio” è una breve lettera, senza data ma scritta attorno al 1906, che testimonia della spe-

diLuciano

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cialissima autocoscienza di un politico di professione di un secolo fa, la cui concre-ta attività egli sentiva animata da un ide-ale assimilato a quello dell’amico poeta: Caro Fogazzaro / Anche io ho vagato lungamente nei campi aerei e senza quel-le fantasie dell’ideale non avrei fatto il trattato (pacificatore) di commercio col-la Francia nel 1898, né avrei convertita la vendita nel 1906; né creato le banche popolari ecc. ecc. / Siamo poeti entrambi e perciò ci amammo fin dalla prima gio-vinezza. / Il tuo vecchio amico Luigi Luz-zatti.

Se Padova fu l’occasione della cono-scenza giovanile tra il vicentino Fogazza-ro e il veneziano Luzzatti (che abitò per alcuni anni nel palazzo Querini di via S. Eufemia),6 l’incontro con «certi signori Moschini di Padova» avvenne nel 1887 a San Bernardino, stazione svizzera di cura idrotermale (e ora di sport inverna-li) nei Grigioni; molte delle conoscenze e delle amicizie padovane dello scrittore furono originate proprio dalla successiva frequentazione della giovane coppia che viveva tra Padova e Stra. Gli echi di questi incontri punteggiano le lettere del carteg-gio da poco pubblicato tra Antonio Fo-gazzaro, Yole Biaggini Moschini (1865?-1905) e il marito di lei, l’ingegner Vittorio Moschini (1864-1940), sindaco di Padova dal 1900 al 1904, quindi parlamentare per due legislature.7 Da questo volume mi permetto di estrapolare pochi echi e frammenti che danno conto della produt-tività di un rapporto quasi ventennale di amicizia, mentre la produttività letteraria si riverserà, com’è noto, sul personaggio di Jeanne Dessalle, presente in due roman-zi di Fogazzaro, Piccolo mondo moderno e Il Santo: nell’autunno 1890 si progetta un’escursione sugli Euganei da concluder-si con la visita all’Abbazia di Praglia (da confrontare con il capitolo «Nel monaste-ro» di Piccolo mondo moderno), l’anno dopo si organizza la visita di Giuseppe Giacosa a Padova per una lettura del suo dramma in versi La Signora di Challant, nel 1893 sarà la volta di una conferenza di Fogazzaro alla Gran Guardia (L’origi-ne dell’uomo e il sentimento religioso).8 Squarci minimi ma sempre significativi si aprono sulla vita della bella e irrequieta Yole che si lamenta della propria incon-

L’angolo di villa Moschini a Stra con la statua di Yole Biaggini,

opera dello scultore Domenico Trentacoste.

sistenza, ma finisce per placarsi in una sorta di confusa accidia tra relativismo universale e angoscia esistenziale, come quando confessa al suo corrispondente: Ella ha colto per Stra l’unico giorno di sole, l’unico di solitudine, e oggi andre-mo a Padova e domani a Venezia e così continua questa nostra vita dissipata che mi sembra uno spreco. Ma pure ha dei

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Fogazzaro e Padova: le “figure vere”

l’Opera Pia per l’Infanzia abbandonata, definita dieci anni più tardi «la gemma più fulgida della corona di opere benefi-che che adorna il capo venerato di questa regina della carità».11 Le cucine economi-che fornivano centinaia di pasti al giorno, non solo ai poveri ma anche agli operai, addetti ai cantieri dell’espansione di Pa-dova verso nord, tanto che negli anni di fine secolo venne costruita una succursa-le in Borgo Magno, con il concorso del Comune e della Cassa di Risparmio.12 È verosimilmente a questo nuovo sviluppo che è interessato Fogazzaro, coinvolto tra Vicenza e Oria (in Valsolda) nelle più va-rie iniziative assistenziali, dagli asili ai bar antialcoolici, quando scrive a Yole Mo-schini (il 26 dicembre 1898), mescolando il tono ufficiale con quello confidenziale: Verrò a Padova per qualche ora quando si potrà veder qualchecosa di queste cucine; non un martedì né un mercoledì ché non sarei libero. Ma se Lei non ritorna serena e lieta meglio che non ci vediamo spesso. Oso appena dirlo a Lei ma lo dico som-messamente alla Sua mano che tengo an-cora fra le mie.13

La citazione non è peregrina, dato che, con Stefania Omboni e con le signore Mi-

vantaggi per chi come me ha la tendenza a trascendere o a precipitare in meditazio-ni sconsolanti. Meglio sentirsi agire, sia pure vanamente, nel nostro piccolo mondo che sentirsi atomo perso negli abissi dello spazio e del tempo. Eppure, come talora invece sono le nostre percezioni soggettive che s’allargano all’infinito nel valore che vi dà un sentimento! Sempre qualche cosa ci preoccupa e ci assorbe. Basta (8 dicem-bre [1896]).9

Da parte sua, Fogazzaro si esercita in si-militudini complimentose nel ringraziare per una serata elegante nella villa nei pres-si della Riviera del Brenta (ci arrivava col treno fino alla stazione di Ponte di Brenta e proseguiva per Stra con la carrozza man-datagli dai Moschini), non senza evoca-re il clima di inquietudine borghese per il ribellismo proletario (anche in questo caso è interessante confrontare un capito-lo di Piccolo mondo moderno, «Eclissi», nel quale una raffinata serata musicale in villa è commentata e criticata dal perso-nale di servizio, tra cui un giardiniere so-cialista). Scrive Fogazzaro ai Moschini: Cari Amici / Grazie ancora per le belle ore passate a Stra dalla nottata fra le vil-le dormienti, i fantasmi dei grandi alberi, le acque chiare di luna, al poetico pranzo sulla terrazza babilonese, illuminato dai doppieri gerosolimitani e dal fiero batter dei lampi, la cui parola elettrica un socia-lista avrebbe tradotto per mane - thecel - phares. Io vi leggo invece: se ponete dei vasi sulla terrazza, guai! Stringo la mano, in questa fine di secolo, al Re di Babilo-nia, la bacio alla bella Regina (da Seghe di Velo, 11-7-97).10

Le schermaglie amorose, più o meno esplicite, spesso alternate come in un gio-co delle parti, tra lo scrittore e la ricca e bella signora, occupano larga parte delle lettere, ma permettono anche di aprire su altre frequentazioni padovane, come quel-la con Stefania Omboni, non citata diret-tamente nelle lettere, che fu animatrice instancabile di molte iniziative benefiche e di solidarietà padovane.

Dopo una disastrosa alluvione, tra il 1882 e il 1883 la Omboni fondò nella nostra città, «nei pressi dell’episcopio», le Cucine Economiche, nel 1889 tentò di organizzare l’assistenza a domicilio dei malati indigenti, nel 1898 fece sorgere

Leonardo Bistolfi (1859-1933): Monumento funebre di Yole Biaggini Moschini, “Amata,

Ammirata e Pianta”(la dedica è delle sorelle

Clotilde, Elina, Noemi).Padova, Cimitero Monumentale

(foto di Antonio Zanonato).

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ristretti della scelta, si può utilmente con-tinuare l’allestimento di un mosaico che, attraverso le frequentazioni di un autore veneto, delinea un esile ramo patavino della sua vita.

In una lettera del 1892 a Ellen Starbuck, Fogazzaro, riepilogando il quadro del-la malattia della primogenita, accenna al «più celebre dei chirurghi consultati», il professor Edoardo Bassini, titolare delle cattedre padovane di patologia e clinica chirurgica.19 Gina Fogazzaro fu ricovera-ta nella Casa di Salute di Padova fondata e diretta da Bassini, la prima del genere nella regione, situata dapprima in via San Massimo. Ecco come Fogazzaro descri-ve, con colori opposti, l’esterno e l’in-terno del luogo alla sua corrispondente: S’immagini con qual cuore la povera Gina ha dovuto fare il viaggio di Padova. Quel giorno faceva un tempo da novembre, pio-voso, nebbioso, freddo, e la sinistra Casa di Salute è in fondo a un deserto, malinco-nico borgo. Per fortuna il solito coraggio di Gina non l’abbandonò; le stanze gran-di, pulite, ariose, le suore vestite di bian-co, giovani, intelligenti, amorevoli le fece-ro un’ottima impressione. L’operazione fu fatta il mattino dell’11 corr. (da Vicenza, 14 maggio 1892).20

Diverso è il caso dell’incidente polemi-co intercorso tra Fogazzaro e il filosofo Giovanni Battista Marchesini (Noventa Vicentina 1868 - Padova 1931), allievo di Roberto Ardigò e docente nella sua cattedra a Padova, teorico del «finziona-lismo»21 e della conciliazione tra il po-sitivismo di Ardigò e il pragmatismo di William James, autore nel 1905 del sag-gio Le finzioni dell’anima, che fu stronca-

nozzi, De Pieri e Rosanelli, proprio «Jole» Moschini figurava nel 1895 tra le «Ispet-trici» delle Cucine Economiche; morta nel 1905 la signora Moschini, la Omboni continuava nella sua opera caritatevole e non esitava a richiedere la collaborazio-ne di Fogazzaro per casi particolarmente pietosi. Alcuni di questi sono l’argomento di un pugno di inedite lettere a Fogazza-ro (sempre alla BBV), in una delle quali Stefania Omboni raccomanda «fratello e sorella piccoli abbandonati» (17/9/07) perché siano accolti nell’Asilo Famiglia, fondato da Felicitas Buchner a Seghe di Velo sul modello inglese e propaganda-to dallo stesso scrittore in una lettera al «Giornale d’Italia» del 25 agosto 1907.14 Nel 1908, sempre per l’Asilo, gli propone una direttrice, una «madre campagnola e tuttavia superiore come concezione alla semplice contadina»; sempre nello stesso anno lo prega di fare accogliere all’Asilo un bimbo, «un petit garçon de trois ans, un malheureux petit abandonné». La let-tera, su carta con il monogramma S.O. racchiuso in una corona d’alloro, è scritta da Padova in francese, con un effetto di leggero spaesamento, dato l’argomento che tratta,15 e continua con il drammatico racconto dell’origine dell’infelice creatu-ra, frutto della colpa, come si diceva allora in ambiente borghese.

Direttamente o indirettamente queste relazioni epistolari mantengono il loro nucleo pulsante in Yole, vivente nella memoria dei suoi cari, ricordata nei versi di Fogazzaro,16 effigiata nel marmo, non solo nel monumento funebre di Leonardo Bistolfi al Cimitero di Padova, ma anche in una statua voluta dal marito, eseguita dallo scultore Domenico Trentacoste17. Il ritratto più noto di Yole è ovviamente quello del pittore toscano Vittorio Corcos, esposto recentemente a Palazzo Zabarel-la; anche la signora Corcos18 fu ospite dei Moschini nel giugno del 1903 come risul-ta da una lettera di Yole, nella quale, dopo aver confessato a Fogazzaro che dovrebbe «fare un’altra vita», gli anticipa che ac-compagnerà «le pellegrine al Santo».

È tempo di lasciare i languori padova-ni per affrontare i rapporti che Fogazzaro ebbe con il mondo accademico padovano, rappresentato dai professori Bassini, Mar-chesini, Crescini e Teza. Anche nei limiti

Lapide murata all’angolo tra via S. Eufemia e via Falloppio (p.tta

Nievo): il testo è stato dettato da Antonio Fogazzaro.

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di Teza, mentre le speculari di Teza sono alla BBV: si tratta di un’ottantina di lettere (41 contro 39), che si potrebbero utilmente pubblicare, una volta superate le difficoltà della grafìa di Teza. I due si conobbero e si frequentarono in qualità di soci del Re-gio Istituto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia e, di conseguenza, in occasione dei frequenti viaggi in treno, da Vicenza e da Padova e ritorno da Venezia. Anche se può sembrare strano, erano molto più numerosi gli scambi di produzioni let-terarie da Teza a Fogazzaro, soprattutto saggi di traduzioni, dal Kalevala ai Sette a Tebe di Eschilo, dal Preludio ai Nibelun-gi di Hebbel agli Idillii di Tennyson, tanto che Teza ne fece ammenda in alcuni versi autoironici: «Ella dirà: Ma questo chiac-chierone / che scrive tante prose di quar-tine, / seccherebbe assai meno le persone / scrivesse cartoline!» (lettera senza data).

to in una recensione da Giovanni Gentile («il regno della confusione e delle tenebre perfette, non rotte nemmeno dal bagliore dell’affermazione scettica»).22 Nel 1907, comparve nella «Rivista di Filosofia e Scienze affini, diretta e amministrata dal prof. Giovanni Marchesini dell’Università di Padova» un suo articolo intitolato Sui Confini della Tollerabilità che si schie-ra con il processo analitico della scienza nell’intenzione di rafforzare i «distinti, nel pensiero e nell’azione» e assicurarli «contro ogni ibridismo». A questa affer-mazione segue una lunga nota che dovreb-be alludere a «molti casi che disgraziata-mente inquinano la vita pubblica», ma che si concentra in realtà su un unico caso: … quello clamoroso d’un nostro senatore, scrittore forbito di romanzi, Antonio Fo-gazzaro, il quale dopo aver fatto pubblica ammenda del peccato di eccessiva liber-tà di pensiero, sottoponendosi al monito che gli infliggeva la Sacra Congregazione dell’Indice, per il suo famigerato romanzo Il Santo (come gli consentiva il suo dirit-to di cattolico) … non diede ascolto alle proteste che studenti e professori solleva-rono per la patente inconciliabilità mora-le e civile di codesto suo atto servile con l’ufficio ch’egli occupa quale membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istru-zione (p. 27).

Anche se, com’è noto, il comportamen-to remissivo dello scrittore nei confronti della condanna si era effettivamente pre-stato alle critiche e, perfino, alle proteste (e sarebbe interessante ricostruire quelle padovane attraverso i riflessi nella stam-pa locale), vale la pena di notare l’acca-nimento delle accuse per la «sudditanza passiva e pusilla» rivolte dal filosofo allo scrittore, additato come «simbolo vivente di duplicismo».

Molto più lungo e articolato fu il rap-porto di Fogazzaro con Emilio Teza, ve-neziano, docente di sanscrito e di storia comparata delle lingue classiche a Padova (è ricorso nel 2012 il centenario della mor-te, ma non mi pare che sia stato ricordato nell’Università in cui insegnò dal 1888), un rapporto ricostruito già nel 1932 da Tullio Ortolani in un saggio della «Nuo-va Antologia», Il Fogazzaro in penombra, basato sulle lettere di Fogazzaro, conser-vate alla Marciana di Venezia tra le Carte

Prima pagina del giornale cattolico “La Libertà”,

Padova 8 marzo 1911 (BCP).

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toliche, non sono per nulla tali; anzi se v’ha pericolo per chi è dentro o fuori della Chiesa è appunto in questi libri insidio-sissimi al più alto grado, qualunque sia la fede e la morale personale dell’autore.

L’8 marzo l’intera prima pagina della «Libertà» era occupata dalla «morte di Antonio Fogazzaro», compreso un ritratto fotografico dello scrittore e un primo bilan-cio, a firma Giovanni Menara, dell’opera del «poeta e romanziere dal volto sereno, dal sorriso ingenuo e dallo sguardo buo-no», nel quale l’iniziale condanna del mo-dernismo di Fogazzaro veniva equilibrata dai meriti del suo idealismo (e stemperata nel finale dalla fede nella resurrezione): Non è questo il momento di ricordare il contributo che egli ha portato all’edificio degli ultimi errori moderni; né in quest’o-ra fatale fermeremo l’attenzione dei lettori sulle sue convinzioni rosminiane, nell’ap-poggio portato a una larva di evoluzione, sull’equivoco della trasmigrazione delle anime che pare abbia un fondamento nelle pagine di Malombra; e tanto meno rompe-remo una lancia contro i suoi ultimi scritti già severamente giudicati dalla Chiesa e dall’opinione del pubblico. … Se Fogaz-zaro ebbe delle colpe, effetto della sua in-completa cultura filosofica, ha avuto però anche dei meriti grandi … fu il primo e forse l’unico grande scrittore dell’età no-stra che abbia rotto la consegna, osando sollevarsi dal fango che ha imbrattato la nostra letteratura di romanzi, per innal-zarsi in un ambiente più puro e più spi-rituale.

Per vicinanza con l’evento della morte di Fogazzaro, passo finalmente all’ultimo professore dell’Università di Padova del mio spoglio, il filologo Vincenzo Cresci-ni che, in qualità di Presidente della Regia Accademia di Scienze Lettere ed Arti in Padova, tenne la commemorazione del-lo scrittore nell’Adunanza del 19 marzo 1911. Rivolgendosi agli accademici, Cre-scini si sofferma dapprima sul pensatore che «dolorò del distacco profondo tra il pensiero audacemente irrequieto dell’età nostra e la fede tradizionale … e si pose nel novero di coloro che tentano concilia-re la scienza e il dogma», per passare poi alla sua opera di narratore e soffermarsi su lingua e stile dei suoi romanzi, difenden-done l’uso del dialetto ed esaltando la ca-

Lo scambio fu reciproco nel 1902, l’anno del crollo del campanile di San Marco: a un Lamento, dedicato al fatto di cronaca e pubblicato da Teza23 e ad altri versi (sco-nosciuti), Fogazzaro rispose con due stro-fette sibilline in una lettera del novembre: «Oh gran bontà di un campanile antiquo! / Di fe’ diverso il Teza gli si appressa, / Piacevoleggia sul suo fato iniquo; / Ma tocco in cuor dal sacro polverone / Egli si appiatta all’ombra del moncone, / Con umili parole si confessa».24 In occasione di equivoci e contrasti accademici, Orto-lani accenna nel suo saggio del 1932 alla «permalosità» di Teza rispetto alla «si-gnorile compostezza» di Fogazzaro, ma, per attenuare l’effetto discordante, ricor-do il biglietto che Teza scrisse al medico curante di Fogazaro in data 27 febbraio 1911 per chiedergli notizie dello scrittore: La prego di dire, quando sarà opportuno, al senatore Fogazzaro che da lontano se-guo la cura del suo male e la vicina gua-rigione coi più fervidi voti di amico. Mi conforta il saperlo in buone mani.

Pochi giorni dopo la stampa annuncia-va il peggioramento delle condizioni di Fogazzaro e, quindi, la morte sopravve-nuta per complicazioni postoperatorie il 7 marzo; nei giorni successivi nella stampa nazionale (e internazionale) ampio spazio, spesso in prima pagina, fu dedicato ai so-lenni funerali di Vicenza e alle prime com-memorazioni (un riepilogo degli interven-ti venne stampato nei volumi Per Antonio Fogazzaro, Vicenza 1913 e 1914). Anche a Padova fu notevole la partecipazione, dalla stampa all’Università e al Comune, come risulta dal cattolico «La Libertà», che prendiamo come campione significa-tivo degli echi cittadini, nell’impossibilità di fornire un esaustivo riepilogo che sa-rebbe tuttavia utile a delineare lo schiera-mento delle opinioni e dei giudizi.

Pochi mesi prima, il «quotidiano catto-lico» non aveva esitato a schierarsi con la gerarchia ecclesiastica che, dopo Il Santo, aveva condannato all’Indice an-che Leila: il 29 novembre 1910, in prima pagina si poteva leggere una recensio-ne dalla quale riproduco la conclusione: A nostro modo di vedere anche Leila deve comprendersi in quel ciclo di romanzi fo-gazzariani, dove la fede e la morale che si professano, per quanto gabellate cat-

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ci permette di staccare dall’albero della scienza un frutto che è vital nutrimento dell’idea che gi-ganteggia nell’anima nostra, la quale c’insegna ad ingrandire, non a distruggere Iddio».

9) A. Fogazzaro, Y. Biaggini Moschini, Carteg-gio (1887-1909), cit., p. 201.

10) Ivi, pp. 224-225. Nell’evocare la scritta comparsa nella sala del convito di Baltassar (cfr. Daniele, 5), Fogazzaro allude (e non è la prima volta) ai timori borghesi del ribellismo proletario, se non degli attentati anarchici.

11) G. Alessio, 25 anni di vita delle Cucine Economiche di Padova, Padova, Premiata Società Coop. Tipografica, 1908.

12) Non so se si tratta dello stesso edificio che ancora si trova in via Tommaseo, e nel quale ope-rano suor Lia e numerosi volontari.

13) A. Fogazzaro, Y. Biaggini Moschini, Car-teggio (1887-1909), cit., p. 267.

14) L’intervento si può leggere in A. Fogazzaro, Scene e prose varie, Milano, Mondadori, 1945, pp. 484-86.

15) Su Stéphanie Etzerodt (Londra 1839 - Pado-va 1917), sposata al professor Giovanni Omboni, fondatore del Museo di geologia e paleontologia dell’Università di Padova, si veda l’intervento di Liviana Gazzetta in Aspetti dell’associazioni-smo femminile in Veneto tra ‘800 e ‘900 (Padova, 2010).

16) Nel Cimitero di Padova, pubblicata dap-prima nella «Rassegna Nazionale» (1 dicembre 1905), ora in A. Fogazzaro, Poesie, Milano, Mon-dadori, 1935, p. 352.

17) D. Trentacoste (Palermo 1859 - Firenze 1933) è celebre per Derelitta, scultura esposta a Venezia alla I Biennale (1895); la statua di Yole è murata (e tuttora visibile) nell’angolo orientale della villa di Stra.

18) Emma Corcos fu, a sua volta, titolare di un notevole carteggio con il poeta Giovanni Pascoli: cfr. G. Pascoli, Lettere alla gentile ignota, a cura di C. Marabini, Milano, Rizzoli, 1972.

19) Edoardo Bassini (Pavia 1844-1924), volon-tario garibaldino nel 1866, dopo la laurea in medi-cina e la specializzazione a Londra, tenne dal 1882 al 1919 dapprima la cattedra di patologia chirur-gica e quindi di clinica chirurgica all’Università di Padova. Fu l’iniziatore di numerose tecniche operatorie, tra le quali una innovativa tecnica chi-rurgica di cura radicale dell’ernia inguinale (cfr. L. Premuda, Storia della medicina, Padova, Cedam, 1975, p. 236). Fogazzaro era già ricorso nel 1888 allo stesso medico per un consulto sulla figlia mi-nore, Maria.

20) A. Fogazzaro, E. Starbuck, Carteggio (1885-1910), a cura di L. Morbiato, Vicenza, Accademia Olimpica, 2000, pp. 302-303.

21) Il termine si poneva come equivalente ita-liano del kantiano «come se», seguendone la riela-borazione attuata in quelli anni da Hans Vaihinger (Die Philosophie des «als ob», diverse redazioni tra il 1878 e il 1912).

22) Prammatismo razionale, «La Critica» (1906), quindi in G. Gentile, Saggi critici. Serie I, Napoli, 1921, pp. 205-214.

23) E. Teza, Lamento, Padova, Tipografia Gal-lina, 1902.

24) I versi sono stati ripubblicati da Nardi in ap-pendice della sua edizione delle poesie di Fogazza-ro (A. Fogazzaro, Poesie, cit., p. 466).

25) «Atti e Memorie della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti in Padova», CCCLXX, 1910-911, vol. XXVII, pp. 56-60.

pacità di creare personaggi appassionanti: Così ciò che di men toscano e di troppo ve-neto può risaltare nella lingua de’ romanzi del Fogazzaro non toglie punto che e Ma-rina di Malonbra e Daniele Cortis e le fi-gure del piccolo mondo antico e del picco-lo mondo moderno e parecchie tra quelle del Santo e di Leila si stacchino dal fondo della ideazione per assumere e anima e forma e movenza, creature vere, vestite prodigiosamente della nostra umanità o, comunque, infiammate dal sentimento del poeta, elementi e parti dello spirito di lui e dello spirito nostro, non cancellabili più dall’arte e dalla sua storia.25

l

1) Questo contributo corrisponde, con allegge-rimenti, alla prima parte della relazione presentata alla Giornata di Studio “Antonio Fogazzaro e Pa-dova” (7 marzo 2012), promossa dall’Università di Padova in occasione del centenario della morte. Sui rapporti dello scrittore con la città (ma fon-damentalmente sul nesso Praglia / Yole Moschini Biaggini / Jeanne Dessalle) si veda V. Marussi, Pa-dova nella vita e nell’opera di Fogazzaro, in «Pa-dova. Rassegna del Comune», XI, 12, dic. 1938, pp. 32-40.

2) P. Nardi, Antonio Fogazzaro, Milano, Mon-dadori, 1938, p. 13.

3) Ancora oggi è lo stesso per un giovane che arrivi, mettiamo, dal Salento e affitti una camera al Portello, frequentando le aule del Bo (o di Palazzo Maldura, se iscritto al DAMS) e le biblioteche, ma anche i bar del Ghetto…

4) T. Gallarati Scotti, La vita di Antonio Fogaz-zaro (1920), Milano, Mondadori, 1982, p. 26).

5) Alla BBV (Biblioteca Bertoliana di Vicenza, nel Fondo Fogazzaro) sono conservate tutte le let-tere che cito; sono grato agli addetti della bibliote-ca, in particolare alla dr.ssa Adele Scarpari, per la collaborazione.

6) In quel palazzo era nato nel 1831 lo scrittore Ippolito Nievo, come ricorda la lapide che vi è mu-rata dal 1900 e che fu dettata da Antonio Fogazza-ro (la riproduco per ricordare entrambi gli scrittori dell’Italia unita).

7) A. Fogazzaro, Y. Biaggini Moschini, Carteg-gio (1887-1909), a cura di V. Bertoldo e P. Luxar-do, Vicenza, Accademia Olimpica, 2011 (cfr. la recensione di Mirco Zago in «Padova e il suo terri-torio», n. 157, pp. 42-43).

8) Cfr. il resoconto non firmato in «Il Comune. Giornale di Padova», 22 aprile 1893: «Una sem-plice audizione non basta a costringere in una mente, da tanto appellarsi di pubblico distratta, tutto il cumulo d’idee che l’una all’altra si veniano inseguendo smaglianti e peregrine nell’esposizio-ne del lettore … Iersera ognuno comprese come più sublime sia nelle menti dei credenti moderni il concetto di Dio, oggi solo veramente Dio, mentre pur ieri non era che un mago … Gli uomini un dì selvaggi, abitatori di deserti e di lande senza fine sconsolate, nella loro ascensione per la via della vita, sono giunti ad un concetto nobile ed eleva-to, che dopo averci liberato da infiniti pregiudizi

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Cristina Marcon

Gino Peressutti,un progetto per laPrevidenza a PadovaLa sede provinciale dell’Istituto in Piazza Insurrezione.

L’ingresso a Piazza Insurrezione per chi proviene dalle Piazze, e percorre ver-so nord una delle strette vie del vecchio quartiere medievale, comporta un brusco passaggio da uno spazio angusto ad uno ampio, aperto, dove i grandi palazzi che contornano l’area hanno l’evidente intento di impressionare per l’imponenza e la for-za che esprimono. La piazza è il risultato dell’operazione urbanistica di abbattimen-to di parte del quartiere medievale messa in opera negli anni ’20. Si è già avuto in passato ampio ed animato dibattito sul-le decisioni che all’epoca furono prese in piena sintonia con le direttive del regime e, probabilmente, anche con la sensibilità degli ‘urbanisti’1. Molte altre città italiane subirono trattamenti fortemente invasivi e demolitori dei loro tessuti urbani. In questi interventi giocarono un ruolo importante gli architetti e gli intellettuali che li teoriz-zarono, fossero essi convinti assertori della loro teoria urbanistica o, molto più prosai-camente, coinvolti nei fruttuosi interessi economici generati da queste realizzazioni.

A Padova l’intervento che condusse all’approvazione del nuovo Piano Rego-latore, condensato poi nella legge del 23 luglio 1922 n. 1043 (pubblicata nella Gaz-zetta Ufficiale n. 180 dell’1 agosto 1922), fu attuato con l’abbattimento di gran parte del quartiere a nord del Salone. Le demo-lizioni, previste inizialmente fino al limite delle Piazze, si fermarono a ridosso di via Santa Lucia. Si trattava di edifici medievali e quattrocenteschi, in gran parte in cotto, dalle facciate affrescate. La loro conserva-zione avrebbe consentito la localizzazione di interessanti riferimenti toponomastici ad eventi e personaggi padovani attestati nei documenti d’archivio. La sensibilità odier-na non consentirebbe un intervento simile,

ma imporrebbe piuttosto un ‘recupero con-servativo’ dell’impianto della città, almeno fino alle mura cinquecentesche. Non andò in questo modo allora, quando prevalse l’i-dea del risanamento per ricostruzione to-tale, e l’area fu espropriata ai quasi 2000 abitanti.

La scelta, irreversibile, condusse tuttavia ad un risultato che oggi può essere parzial-mente colto in positivo. La progettazione della piazza, denominata allora Spalato, resta uno dei più significativi esempi italia-ni di architettura e urbanistica ‘razionali-sta’. Nella piazza a pianta quadrata furono realizzati infatti i palazzi CO.GI a nord, Borsa a est e INPS a ovest, mentre il lato sud e gli edifici di congiunzione a nord-ovest, verso via dei Borromeo, e a nord-est, su via Martiri della Libertà, videro una conclusione definitiva solo tra gli anni ’40 e i primi anni ’50.

L’architetto Gino Peressutti, che aveva sostenuto l’intervento di demolizione del vecchio quartiere, progettò il palazzo Oli-vieri-Frigo (dal nome dei committenti pro-prietari della fabbrica di birra Itala Pilsen, allora la più grande in Italia, denominato anche CO.GI (Costruzioni gestioni immo-biliari), costruito tra il 1931 e il 1934. L’al-tro dei due palazzi realizzati nella piazza, sempre su progetto di Peressutti, è l’edifi-cio INPS.

L’attività dell’architetto (nato nel 1883 a Gemona del Friuli e morto a Padova nel 1940) era peraltro già ben attestata in città da quando, giovanissimo nel primo decen-nio del secolo, aveva progettato il collegio universitario Antonianum, che l’aveva reso famoso, e realizzato alcune architet-ture residenziali in stile liberty-floreale ancor oggi riconoscibili2. Inoltre, Peres-sutti aveva già lavorato a Padova per la

diCristina Marcon

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Gino Peressutti, un progetto per la Previdenza a Padova

Cassa nazionale di previdenza sociale (poi INPS) tra il ’25 e il ’27, realizzando il pa-lazzo Esedra al centro del nuovo quartiere residenziale Vanzo, poi denominato Città Giardino.

Il suo nome e i suoi lavori erano quindi noti e sicuramente non fu necessaria al-cun’altra presentazione alla sua proposta di costruire un palazzo per l’allora Cassa di previdenza3. Nel secondo semestre del 1932, dunque, Peressutti propose la co-struzione di un edificio su un’area che il Comune di Padova era disposto a vendere a condizioni di favore: il prezzo richiesto non superava le 300 lire contro un prezzo medio di esproprio che era stato valutato di 200 lire al metro quadro4. La proposta d’acquisto, accompagnata dal progetto dell’edificio, suddiviso in zone da destina-re agli uffici dell’ente e altre da adibire ad abitazioni e negozi, fu approvata dal Co-mitato esecutivo della Cassa e sottoposta al Consiglio di amministrazione. A sua volta, nella seduta del 15 dicembre, quest’ultimo deliberò per l’acquisizione dell’area e la conseguente costruzione dell’immobile5.

L’acquisto rientrava nella politica della Cassa previdenziale che tendeva ad inve-stire i capitali assicurativi raccolti dagli iscritti (già allora erano 12 milioni i lavora-tori potenzialmente interessati dall’obbligo previdenziale). Infatti, l’art. 34, punto 7, del regolamento di attuazione del decreto-legge 21 aprile 1919, n. 603, disponeva che i capitali fossero impiegati, tra le altre de-stinazioni, nell’acquisto di beni immobili urbani per l’importo massimo di un deci-mo dei fondi complessivi della Cassa6.

Ulteriore spinta alla politica immobilia-re per gli uffici delle sedi locali dell’ente fu impressa, nei primi anni venti, dalla definizione della struttura periferica che prevedeva una sede in tutti i capoluoghi principali ed agenzie dipendenti da queste in alcune città minori7. L’atto di compra-vendita dell’area di 2400 mq, compresi tra le vie Belle Parti (allora via Duca d’Aosta), piazza Spalato e vicolo Dotto, fu redatto a Padova il 7 dicembre del 19338. Il testo merita qualche ulteriore considerazione: la Cassa per le assicurazioni sociali era già diventata Istituto nazionale fascista della

Facciata del palazzo INPS in Piazza Insurrezione.

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Cristina Marcon

Il piano ammezzato fu espressamente pro-gettato ad uso dell’archivio tessere (cioè per la conservazione dei documenti di pre-videnza per eccellenza), mentre al primo piano fu realizzato il salone dei datori di lavoro per il quale furono disegnati anche i mobili in un pesante stile razionalista. Tavoli e sedie furono costruiti nella stessa essenza lignea delle porte e degli armadi a muro, sfruttando le eleganti decorazioni naturali delle venature del legno.

Purtroppo l’archivio professionale di Pe-ressutti non è noto e i progetti di dettaglio non sono stati finora rinvenuti. Ciò nono-stante è sua, con buona certezza, anche la progettazione dei particolari dell’ingresso, dello scalone e del primo piano di rappre-sentanza, realizzati utilizzando marmi po-licromi disposti a disegni geometrici per i pavimenti e le pareti. Tuttavia l’importan-za e la valenza pubblica dell’edificio sono evidenziate soprattutto all’esterno da nu-merosi elementi decorativi della facciata:

- all’ingresso i pilastri esterni del por-tico sono sormontati da due aquile con le

previdenza sociale per effetto del r.d.l. 27 marzo 1933, n. 371. Il podestà Francesco Lorenzo Lonigo rappresentava il Comu-ne di Padova e Giulio Mazzetti, capo del servizio legale e patrimoniale, agiva come procuratore speciale del Presidente del consiglio di amministrazione dell’Infps Giuseppe Bottai e del direttore generale Paolo Medolaghi9. Era fatto esplicito ob-bligo di costruire un palazzo decoroso e data facoltà di edificarlo, come avvenne, fino al ciglio del vicolo Dotto che il Co-mune intendeva mantenere per comunica-zione tra la piazza e via Dante. Il Comune assunse le spese per l’illuminazione dei portici, soggetti a servitù di passaggio, e si impegnò inoltre alla realizzazione delle opere stradali e alla costruzione di un loca-le sotterraneo per il sollevamento delle ac-que verso le tombinature di via Borromeo, in attesa della costruzione delle fognature della zona. Fin qui la storia è sicuramente nota, tranne qualche dettaglio, mentre do-vrebbero rivelarsi di maggior interesse e di qualche novità le notizie che seguono.

L’appalto delle opere murarie fu indetto nell’ottobre del 1933 e i lavori di costruzio-ne dell’immobile, affidati all’impresa lom-barda Magnaghi e Bassanini, iniziarono nel 1934 sotto la direzione dell’ingegnere Ferdinando Poggi, mentre i calcoli strut-turali furono affidati all’ingegnere Arturo Danusso, un’autorità in fatto di costruzioni in cemento armato. Il palazzo fu concluso nel 1938, ma l’inaugurazione avvenne pri-ma, il 24 ottobre del 1937, alla presenza del presidente dell’istituto Bruno Biagi e delle autorità locali. A quella data gli uffici erano sicuramente già operativi, trasferi-ti dal palazzo delle Debite in piazza delle Erbe, nel quale si trovavano dal 192410. Lo stanziamento per la realizzazione dell’o-pera fu approvato con prassi inusuale solo a lavori ultimati, nel luglio del 1938, per l’importo ormai definitivo di 11.650.000 lire suddivisi tra le ditte di forniture, im-pianti e manodopera che compaiono in un elenco sommario11.

L’edificio è composto di sei piani più un mezzanino, una soffitta praticabile e un va-sto e profondo piano interrato concesso dal livello altimetrico della zona, ed è comple-tamente rivestito di travertino che la recen-te pulizia ha riportato al candore iniziale.

Elementi decorativi della facciata del sesto piano.

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Gino Peressutti, un progetto per la Previdenza a Padova

lavorato per il palazzo del Bo, su incarico del rettore Carlo Anti, creando una stele di Atena vittoriosa per il cortile interno12.

Tra i nomi dei fornitori compare un altro artista padovano, lo scultore Servilio Riz-zato che aveva già lavorato con Peressutti per il palazzo Olivieri. Rizzato e Boldrin avevano eseguito, per la cifra complessiva di 12.000 lire, i busti del re e del duce che la damnatio memoriae ha disperso13.

Una così alta presenza di elementi ar-tistici e decorativi non può spiegarsi con l’obbligo di utilizzare gli artisti per ornare gli edifici pubblici imposto solo qualche anno dopo, nel 1936, dalla famosa legge del due per cento. La norma, che avreb-be dovuto sostenere l’arte nazionale, pre-scriveva una previsione di spesa in ab-bellimenti pari, appunto, al due per cento dell’intera cifra preventivata. Nel caso in esame fregi, altorilievi, statue, marmi e decori manifestano invece, con tutta evi-denza, la libertà d’intervento e di spesa di cui godette Peressutti nella conduzione della direzione artistica dei lavori.

l

ali aperte, evidente riferimento simbolico all’autorità;

- ai lati due grandi figure in rilievo, in marmo nero, rimandano alla missione assi-stenziale della maternità e dell’educazione promosse dal regime;

- le colonne interne, a lato del portone principale, sorreggono due Vittorie alate;

- ogni pilastro, anche quelli del portico verso sud, contiene decori di riferimento al lavoro o di espressa allusione alla simbolo-gia fascista (restano ancora visibili i profili di tre aquile poggiate sull’acronimo spqr);

- chiude il portico a sud un mosaico po-licromo di bella fattura che rappresenta un compendio degli stereotipi di regime e che si spiegava col motto, ora abraso, “Il popo-lo ItalIano ha creato con Il suo sangue l’ Impero, lo feconderà col suo lavoro e lo dIfenderà contro chIunque con le sue armI”;

- il cornicione del quinto piano si con-clude agli angoli con due figure alate gi-necomorfe che in origine racchiudevano ed indicavano la scritta ormai scomparsa dell’Infps;

- il frontone del sesto piano, leggermente rientrante rispetto agli altri piani, sorregge una serie di teste d’aquila.

L’elenco delle ditte e delle loro spettan-ze, allegato alla delibera di stanziamento dei fondi, consente di fare qualche breve ragionamento anche sugli autori delle ope-re artistiche e su alcune aziende storiche che parteciparono alla costruzione. Tra queste ultime sono ancora ben note le dit-te padovane Paolo Morassutti per gli ac-cessori e gli infissi in ferro, e Bottacin per gli impianti idro-termo-sanitari (entrambe cessate), la torinese Pastore di serrande in ferro, famosa per il suo marchio inconfon-dibile – un cane stilizzato – e la milanese SABIEM per gli ascensori. Alla produzio-ne della famosa vetreria Salviati di Vene-zia appartiene il mosaico della lunetta del sottoportico verso via Verdi, realizzato su bozzetto dello stesso Peressutti. Le figure dei pilastri all’ingresso, le statue alate e le decorazioni possono essere attribuite allo scultore padovano Paolo Boldrin. In que-gli anni Boldrin (1867-1965) era infatti nel pieno della sua attività e della fama che giustifica il compenso di 170.000 lire per le sculture. Qualche anno dopo avrebbe

Altorilievi in marmo nerodello scultore Paolo Boldrin.

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Cristina Marcon

7) L’articolo 1 del decreto ministeriale 18 apri-le 1924 elenca 50 sedi, con 26 agenzie dipendenti (da Padova dipendeva l’agenzia di Rovigo); solo a titolo di esempio, nello stesso periodo e stile furo-no costruite per l’Istituto di previdenza la sede di Milano in piazza Missori, progettata da Marcello Piacentini (1929-31), e i palazzi dell’EUR (imme-diatamente successivi al 1935).

8) Archivio storico del Comune di Padova, Re-pertorio dei contratti dal n. 2041 al n. 2080, n. 2045, registrato in Roma il 12 dicembre 1933.

9) Bottai fu presidente dell’ente dal 1932 al 1935, dopo essere stato ministro delle Corporazio-ni (corrispondente al ministro del lavoro); Medo-laghi fu direttore generale della Cassa Nazionale di Previdenza e poi dell’Istituto Nazionale Fasci-sta della Previdenza Sociale ininterrottamente dal 1923 al 1936.

10) L’inaugurazione è ricordata in Padova, ras-segna mensile del Comune, novembre-dicembre 1937, XVI, p. 5-6; l’acquisto del palazzo delle De-bite, dal Comune di Padova, compare nella delibera d’urgenza del Comitato esecutivo della Cassa data-ta 10 novembre 1924.

11) AsInps, Verbali del Comitato esecutivo: 766a seduta del 28 luglio 1938 (XVI).

12) Franco Bernabei, I rapporti personali con gli artisti, uno spaccato di vita sociale in Il miraggio della concordia, documenti sull’architettura e la decorazione del Bo e del Liviano, Padova 1933-1943, a cura di Marta Nezzo, Treviso 2008.

13) Cfr. Paolo Boldrin, a cura di Arrigo Poz-zi, Padova 1943, e il catalogo su Servilio Rizzato (1884-1939), a cura di Giorgio Segato e Pier Lui-gi Fantelli, Padova 1989, che comprende anche la foto di un busto in bronzo del duce realizzato nel 1936.

1) Per un rapido approfondimento sulla politica urbanistica del regime Leonardo di Mauro-Maria Teresa Perone, Gli interventi nei centri storici: le direttive di Mussolini e le responsabilità della cul-tura, in Il razionalismo e l’architettura in Italia du-rante il fascismo, a cura di Silvia Danesi e Luciano Patetta, Venezia [1976], ma ristampa Milano, 1994, p. 38-42; qualche altra notizia sulla questione del Piano regolatore di Padova denominato Paoletti-Peressutti dai nomi dei redattori, in Elio Franzin, Luigi Piccinato e l’antiurbanistica a Padova, 1927-1974, Saonara [2004], in particolare p. 20-28.

2) Giuseppe Faggioni, Note sull’architettura di Gino Peressutti, gli anni degli esordi in La costru-zione della città, architettura a Padova nei primi quarant’anni del Novecento a cura di Enrico Pie-trogrande, Saonara 2007, p.19-48; solo per fare qualche esempio: oltre all’Antonianum, che gli fu commissionato dai gesuiti come residenza studen-tesca, la casa canonica in via San Fermo, a lato del-la chiesa omonima, e i palazzi Venezze e Grigolon in corso del Popolo, p. 27, 32, 38.

3) A Peressutti e alla sua ideazione e progettazio-ne di Cinecittà (1935-1937) il Comune di Gemona del Friuli ha dedicato una mostra nel 2010.

4) Archivio storico INPS (= AsInps), Verbali del Comitato esecutivo: 700a seduta del 12 ottobre 1932 (X), il presidente della Cassa Gino Olivetti, il direttore Paolo Medolaghi e il Comitato concorda-no di rimandare la decisione.

5) AsInps, Verbali del Comitato esecutivo: 701a seduta del 23 novembre 1932 (XI), riprende l’ar-gomento sospeso nella seduta del 12 ottobre prece-dente; AsInps, Verbali del Consiglio di amministra-zione: 78a seduta del 15 dicembre 1932.

6) Chiara Giorgi, La previdenza del regime. Sto-ria dell’INPS durante il fascismo, Mulino 2004, p. 27, 35-38.

Mosaico nel sottoportico divia Verdi, realizzato dalla vetreria Salviati su disegno di Peressutti.

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Un antico ritratto del canonico Pietro Bembo

Un antico ritrattodel canonicoPietro Bembo

Ipotesi sull'autore e sul tempo in cui fu realizzato il dipinto, che portacuriosamente la data di un primo soggiorno padovano del Bembo.

Chi era Pietro Bembo? Qual è la sua in-teressante biografia? Per saperlo è op-portuno visitare la bella mostra, allestita a Padova dalla Fondazione Cariparo; e nel contempo leggere qualcuno dei vari discorsi sulla “morte” del Bembo, editi nelle antiche biografie e custoditi nelle pregiate documentazioni della Biblioteca capitolare patavina.

È stato leggendo gli Acta Capitularia della Biblioteca capitolare di Padova che ho trovato ricchezza di attenzioni sulla presenza del Bembo in Padova fra gli ap-partenenti al Capitolo dei canonici della Cattedrale, eletto “soprannumerario” nel 1516. Diventerà effettivo prima del 27 aprile 1543, data riportata nell’estimo dei beni canonicali redatto dal Bembo stes-so. Ma la lettura mi ha condotto anche a un’altra “scoperta”, forse più significativa ancora. Dall’alto di una finestra, nella pa-rete che guarda l’antica casetta del Petrar-ca (non certamente a caso!) sta collocato tuttora un antico ritratto. Che sia davvero lui, Pietro Bembo, lo qualifica l’iscrizione alla base del dipinto: PETRUS BEMBO - S.R. E. CARDinAliS - CAnOniCUS PATAVinUS - AnnO D. MCDXCVii.

la bellezza, che emana da quel dipinto mi persuade che sia frutto di qualche ce-lebre pittore. Un luca Cranach, quando il Bembo era a Ferrara? O forse – e meglio – un giovane Raffaello, quando Pietro stava ad Urbino (1505-1509)? Se la prassi era (allora) di ornare la cattedrale di un ri-tratto post mortem di un personaggio che avesse notevolmente illustrato il Capito-lo della Cattedrale, deve essere accaduto

che i famigliari di Pietro Bembo (il figlio Torquato?) abbiano preferito scegliere un ritratto di buona mano (Raffaello?), già appartenuto a quel “Museo” che aveva reso celebre la sua dimora padovana. la presenza di tale ritratto è attestata anche da Marcantonio Michiel, che nella descri-zione di quella collezione annota: “ritratto picolo di esso messere Pietro Bembo al-lhora che giovine stava in corte dil duca d’Urbino, fu di mano di Rafael d’Urbi-no in m(aiestà)” (cito dalla trascrizione dell’autografo marciano a cura di Rosella lauber, inserita nel Catalogo della mostra Pietro Bembo e l’invenzione del Rinasci-mento, p. 346). il termine maestà qui è usato in senso lato: di nobiltà d’aspetto.

Due riflessioni ci vengono suggerite dalla iscrizione sottostante il quadro. la prima riguarda l’inizio del suo canonica-to. Già papa leone X, con un suo breve (stilato il 3 dicembre 1514 dal Sadoleto), aveva indicato Pietro Bembo come pos-sibile canonico “soprannumerario”, non potendo essere più di nove i canonici ef-fettivi della cattedrale di Padova (con il diritto di abitazione contigua e di terreni o case a profitto personale, come prebenda). il Bembo, una volta eletto a soprannume-rario, aveva diritto ad un posto personale in presbiterio, e a presenziare alle funzio-ni liturgiche del Capitolo.

il “breve” di leone X (praticamente at-tuato poi da papa Clemente Vii) presenta-va il protonotario apostolico Pietro Bem-bo (già segretario, familiare e commensa-le del papa) quale successore al canonica-to e alla prebenda di un defunto canonico.

diClaudio Bellinati

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Claudio Bellinati

Ma l’opposizione di alcuni canonici portò a concludere che non esistevano le condi-zioni giuridiche per assegnare al Bembo tale canonicato. Tuttavia l’istanza del bre-ve di leone X non era destinata a cadere. Ed è certamente merito dell’arcidiacono Francesco Pampino, “artium et decreto-rum doctor” se quel breve fu ripreso, e presentato nel Capitolo della Cattedrale il 4 settembre 1516, con la proposta che il Bembo fosse eletto almeno quale sogget-to “soprannumerario”. il Pampino, infatti, riprendendo il contenuto del breve di leo-ne X, sosteneva che il Bembo possedeva le doti per essere eletto come canonicus patavinus, essendo una “stella luminosa” nella cultura italiana e degno di diventare canonico per la sua singolare cultura e per i tanti meriti acquisiti nell’ambito della letteratura. Dunque, e letteralmente, una “stella” della cultura italiana!

la proposta di esprimere con voto per-sonale la promozione del Bembo (almeno a canonico supranumeris) ebbe esito posi-tivo. infatti la votazione dei nove elettori del Capitolo padovano ebbe per esito i dati seguenti: sei votarono per il sì; tre per il no, forse quegli stessi che avevano fatto opposizione al breve del 3 dicembre 1514.

Dal 4 settembre 1516, il Bembo aveva diritto, come soprannumerario, a un seg-gio nel presbiterio della cattedrale pata-vina, anche se non poteva competergli il possesso di una domus canonicalis, e nep-pure di beni immobili dei canonici. nel 1517 Pietro Bembo divenne titolare della commenda di San Giovanni di Bologna e di altri benefici che gli assicurarono l’in-dipendenza economica, presente e futura. il canonicato padovano stava a cuore al Bembo anche per il desiderio di pregare là, dove – per anni – aveva pregato il Pe-trarca e cantato inni alla Madre di Dio.

Una seconda riflessione riguarda la data apposta sotto il dipinto, il 1497. Come mai viene indicato un anno così precoce? Una plausibile spiegazione può essere of-ferta dal fatto che proprio in quell’anno il Bembo si era trasferito a Padova per studiare filosofia. Ora sappiamo che era nell’uso presso i canonici far partecipare al capitolo alcuni studenti perché si unis-sero a loro nella recita dell’ufficio divino,

beneficiandoli poi con qualche sostegno economico per i loro studi. la nostra con-gettura è che questo privilegio sia stato riservato anche al giovane Bembo, ben lieto di entrare a contatto con l’ambiente dei canonici di cui aveva fatto parte anche il Petrarca, sentendosi così idealmente vi-cino al poeta profondamente ammirato. Proprio allora, forse, ebbe l’occasione di stringere con commozione tra le mani il suo prezioso breviario, che si conservava ancora nella Cattedrale. Pertanto l’iscri-zione alla base del dipinto richiamerebbe quell’antica presenza del giovane studen-te, che solo più tardi, e non senza contra-sti, acquisterà un ruolo ufficiale, dando un lustro, benché tardivo, alla collegiata della nostra Cattedrale.

l

Cattedrale di Padova.Ritratto del card. Pietro Bembo,

canonico effettivodella Cattedrale (sec. XVI).

Pittura su tavola. Si confronti questo ritratto con la figura di

Abiatur nel dipinto di RaffaelloLo sposalizio della Vergine.

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Due briciole bembesche

Due briciolebembescheRappresentazione e biografia, un binomio inscindibile per la comprensione delle opere. Osservazioni a margine di una visita alla mostra.

La mostra Bembo è sicuramente una mo-stra impegnativa: non solo lo è sicuramen-te stata (e ancora lo sarà) per gli organiz-zatori e i curatori, ma lo è anche per i frui-tori, ai quali, forse più che in altre occa-sioni, se vogliono pienamente apprezzare quanto stanno vedendo e trasformare così la (peraltro modesta) spesa del biglietto d’ingresso in un fruttuoso investimento culturale, non è certo concessa una veloce visita ‘guardando le figure’ e ascoltando distrattamente l’audioguida, ma è al con-trario richiesta un’accurata osservazione dei pezzi esposti, accompagnata dall’at-tenta lettura degli apparati didascalici, dei saggi e schede di catalogo e, nei casi mi-gliori, delle fonti e dei materiali di appro-fondimento lì indicati. Chiamano a ciò sia la ricchezza e l’altissimo livello qualitati-vo dei materiali esposti, sia la loro diversi-tà e la sapienza con cui sono stati accostati e posti in dialogo tra loro e con la biografia del personaggio (o meglio, dei personag-gi) cui la mostra è dedicata, permettendo così di coglierne e definirne a tutto tondo il ruolo e l’eredità nella temperie storica e culturale del tempo in cui visse(ro) e dei secoli successivi, fino ai nostri giorni.

In alcuni casi, in certo senso forse i mi-gliori, ciò avviene anche al di là di quanto i curatori dell’evento hanno direttamente colto e suggerito ai visitatori, ai quali è così offerto uno spazio autonomo di ri-cerca e di approfondimento: segno anche questo della bontà dell’operazione con-dotta allestendo una mostra che non si configura come prodotto chiuso e finito, di cui fruire passivamente o solo sul piano estetico, ma è al contrario una piattaforma aperta, da cui anche il non specialista può lanciarsi, tramite l’osservazione e la rifles-sione, verso nuove, grandi o piccole sco-perte. Due di tali osservazioni vorrei offri-

re, con le conseguenti riflessioni, ai lettori della rivista, riservandomi di tornare più ampiamente sull’argomento in altra sede.

Il primo caso accoglie il visitatore fin dalle prime sale della mostra, anzi prima ancora gli si offre fin dai suoi materiali promozionali: mi riferisco allo stupendo codice dei Chronici canones di Eusebio di Cesarea,1 “capolavoro della miniatura rinascimentale italiana” appartenuto alla biblioteca di Bernardo Bembo, padre di Pietro, esemplato con ogni probabilità a Roma “tra il novembre del 1487 e il no-vembre del 1488, quando Bernardo si tro-vava nell’Urbe quale ambasciatore della Serenissima” presso il papa Innocenzo VIII Cybo, e frutto dell’opera congiunta del calligrafo e miniatore padovano Bar-tolomeo Sanvito (1435-1511), amico di gioventù di Bernardo e copista di forse una decina di codici a lui appartenuti o da lui commissionati per offrirli a terzi,2 e del miniatore Gaspare da Padova, allora (e già da oltre un ventennio) attivi presso la cor-te papale. L’ambiente romano in cui i due artisti padovani realizzarono il codice ap-pare palese nella duplice libera citazione della colonna Traiana nella cornice archi-tettonica della carta 2r, esposta in mostra, nonché, in modo più indiretto e sfumato, in altri dei motivi che ricorrono nelle sue pagine miniate (il putto mascherato del bas-de-page dello stesso frontespizio, la Natività di c. 119v), che trovano precisi ri-scontri in altri codici da loro esemplati nei lustri precedenti per vari cardinali.

Se gli autori della scheda di catalogo relativa al codice, F. Toniolo e G. Tosca-no, offrono una nitida sintesi su tali mo-tivi iconografici e sulle loro occorrenze e filiazioni, dalle origini classiche e mante-gnesche fino ai riflessi letterari di primo Cinquecento,3 e una puntuale descrizione

diFranco Benucci

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Franco Benucci

dell’illusionistico “monumento all’antica” che campeggia nel frontespizio del codi-ce, “formato ai due lati da due colonne in bronzo dorato che citano, con grande li-bertà […], la colonna Traiana, [… la cui] architettura […] si conclude in alto con un frontone curvilineo in marmo bianco abi-tato da putti alati […, mentre] nella par-te inferiore del monumento, sui cui plinti sono dipinti gli stemmi Bembo, si apre un paesaggio profondo abitato da tre putti” – che come si è detto ne vincola la data e l’ambito di allestimento alla Roma del 1487-88 – sembra essere sfuggito alla loro attenzione un dettaglio assai rilevante di quella stessa rappresentazione araldica te-stè notata. L’arma Bembo – d’azzurro allo scaglione d’oro, accompagnato da tre rose dello stesso, due in capo e una in punta – una delle più univoche e stabili dell’inte-ra araldica patrizia veneziana e nel nostro caso segno inequivocabile di committenza e possesso del codice da parte di Bernardo, pur in mancanza di sue note autografe e di espliciti ex libris,4 compare infatti sui plin-ti delle due colonne miniate posta in cuore a un altro scudo – d’oro a sei palle poste in cinta, quella in capo d’azzurro ai tre gigli del campo, le altre di rosso – in cui è im-mediatamente riconoscibile l’arma medi-cea (col miglioramento concesso nel 1465 da Luigi XI di Francia a Piero I de’ Medi-ci, padre di Lorenzo il Magnifico),5 in una combinazione araldica assai significativa alla luce degli stretti rapporti di stima e adesione politica, ma anche familiarità e amicizia personale, che Bernardo Bembo intrattenne coi Medici (soprattutto Loren-zo e, fino al 1478, il fratello Giuliano, ma nel 1493-94 anche il figlio Piero II), a far data dal 1475 (anno della sua prima amba-sceria a Firenze) e fino agli ultimi anni di vita, quando salutò con gioia e devozione l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni de’ Medici, secondogenito del Magnifico.6

La specifica modalità di combinazione dello stemma mediceo con quello di altra famiglia, in sé abbastanza insolita, richia-ma il caso assai frequente nelle armi di vari casati del patriziato veneto (Badoer, Capello, Contarini, Leze, Malipiero, Pesa-ro, ecc.), in cui l’originario stemma fami-liare è posto in petto all’aquila imperiale determinando così di fatto un’arma ‘a due strati’ del tutto comparabile a quella qui in

esame. Le fonti venete spiegano che in tali casi le famiglie in questione “alterano […] l’Arma con […] pezzi di concessione otte-nuti o presi per memoria dell’Ambascie-rie sostenute a nome pubblico dalli Nobili di queste Case” presso la corte cesarea:7 i pezzi a cui accollare la propria arma fami-liare potevano dunque essere ottenuti da-gli interessati insieme a titolature, dignità o privilegi concessi dal fons imperiale, ma anche liberamente presi a seguito delle le-gazioni svolte, come segno d’omaggio e di ideale adesione a quella parte. Mutatis mu-tandis, anche l’arma Bembo qui in esame sembra rientrare in questa casistica: dopo la prima ambasceria del 1475, Bernardo fu infatti nuovamente a Firenze come orato-re della Serenissima nel 1478-80, ma nulla nella documentazione riscontrata sembra indicare che in quelle occasioni egli sia stato fatto oggetto di concessioni araldiche da parte dei Medici, malgrado i favori e gli alti onori ricevuti sul piano della vita cul-turale e di corte e l’amicizia che si strinse allora tra il veneziano e il Magnifico, de-stinata come si è detto a durare nel tempo (e a riflettersi sui discendenti) malgrado le diverse posizioni politiche e militari assunte negli anni dai rispettivi governi, tanto da portare il primo a dichiararsi più volte, in pubblico come in privato, “sem-pre deditissimo” al secondo, con “studio,

Eusebio, Chronici canones, dettaglio del frontespizio

con l’arma Bembo accollata all’arma Medici.

Eusebio, Chronici canones, frontespizio architettonico

(Londra, British Library,ms. Royal 14 C III: c. 2r).

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veramente preziose. Di queste […], le più notevoli ed efficaci specie sull’avvenire letterario del giovane Pietro […] indub-biamente quelle coi Medici”. Nel rilevare come, grazie a tali relazioni, “Pietro Bem-bo ebbe preparata e agevolata la via dal padre”, Cian si riferiva in primo luogo al fondamentale contributo del futuro cardi-nale allo sviluppo dell’umanesimo e alla storia della cultura e della lingua italiana, che lo vide “consacrato in certo modo ere-de e continuatore dell’opera di Lorenzo [il Magnifico] e del Poliziano”, ma certo non è esagerato né fuori luogo osservare come tali parole siano direttamente appli-cabili anche alla stretta biografia del figlio di Bernardo, la cui carriera ebbe una pri-ma e decisiva svolta nel marzo del 1513, quando l’allora trentottenne Giovanni de’ Medici fu eletto papa assumendo il nome di Leone X e – memore dell’amicizia tra il padre e Bernardo Bembo – chiamò al suo servizio come segretario ai Brevi (e all’oc-correnza suo ambasciatore) Pietro, di qua-si cinque anni più anziano di lui.

Di tali relazioni, e dei loro effetti di pro-spettiva, il codice miniato esposto quasi in apertura della mostra reca i segni più evidenti e insieme discreti e raffinati, con-fermandosi così, forse in parte all’insapu-ta dei curatori che l’hanno selezionato per quella posizione, viatico ideale al pieno godimento dell’esposizione.

Più semplice, ma forse di non minor mo-mento, è invece la seconda osservazione, relativa al piccolo ma impressionante ri-tratto su tavola di Pietro Bembo in veste di cavaliere gerosolimitano, quasi calvo e ancora privo di barba, finora inedito e “ap-pena scoperto” in una collezione privata statunitense,11 che attende il visitatore nel-la quinta sezione della mostra e di cui era in precedenza conosciuta solo una copia (di maggior formato e minor qualità) con-servata presso la Leipziger Universitätsbi-bliothek, segnalata già in occasione della retrospettiva su Lucas Cranach tenutasi a Basilea nel 1974 e ritenuta appunto opera di Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), databile intorno al 1540.12 Nel presentare ora il “riscoperto” ritratto bembesco e nel tratteggiarne le complesse relazioni con la copia di Lipsia (e tra questa e un ritratto di Jacopo Sannazaro, ‘gemello’ di quello di Bembo quanto a caratteristiche fisiche,

observantia e charità summa al nome” di lui, e con quei reciproci scambi di missive, servizi e favori, che provocarono in laguna molti malumori nei confronti di Bernardo. La sua costante e incondizionata adesione al partito filomediceo e le personali impli-cazioni anche di carattere economico con i signori di Firenze e il loro banco lo fecero addirittura mettere sotto accusa davanti al Consiglio di Dieci il 26 settembre 1487, proprio alla vigilia della partenza per la legazione romana, per un presunto caso di corruzione avvenuto dieci anni prima e le-gato a un protetto dei Medici, da cui venne però rapidamente prosciolto con multipla e ripetuta votazione del Consiglio, poten-do così partire il 3 novembre, col collega Sebastiano Badoer, alla volta dell’Urbe, dove giunsero il 21 sera dopo aver fatto tappa, come prevedeva la commissio du-cale, a Ferrara, a Bologna e per qualche giorno a Firenze, per trattare varie questio-ni con Lorenzo il Magnifico.8

La combinazione tra la presenza nel codice in esame dell’arma medicea e la sua assai probabile cronologia ‘romana’ porta a ipotizzare che esso sia il riflesso, sul piano dell’autorappresentazione aral-dica, della breve ambasceria fiorentina del 1487: una semplice tappa diplomatica lungo la via di Roma, ma che permise co-munque a Bernardo Bembo di rinsaldare i rapporti con “il suo Lorenzo” malgrado le precedenti difficoltà politiche e dopo le amarezze del processo e la soddisfazione dell’assoluzione, rinnovandogli così i sen-si del “non interrocto amor et mutua chari-tà nostra, la qual, fundata in virtù, non dee per alcun tempo o accidente esser viola-ta” nonostante “già per molti mexi sieno interdicti i nostri suavissimi colloquii”, come già gli aveva scritto nel maggio del 1482, quando la ‘ragion di Stato’, legata alla guerra di Ferrara e all’alleanza antive-neziana in cui militava Firenze, ostacolava la loro relazione.9

Centodiciotto anni sono passati da quando Vittorio Cian osservava, in aper-tura e chiusura del suo primo contributo in forma di lettera per Bernardo Bembo,10 come non fossero stati “apprezzati e rile-vati abbastanza, in passato, i meriti che Bernardo Bembo si acquistò spianando la via al figlio […] con le relazioni persona-li insieme e letterarie, molte e svariate e

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anche tale ipotesi è parsa priva di riscontri probanti e perciò destinata a restare tale.14

Brown conclude quindi che “la questio-ne se sia Hans, piuttosto che Lucas il Gio-vane, l’autore del ritratto va dunque lascia-ta aperta”, lasciando così esplicitamente sul piatto, come potenzialmente equipollenti, le due ipotesi: malgrado ciò, i curatori della mostra hanno poi ritenuto di far prevale-re nei fatti la prima delle due attribuendo tout court – in tutte le didascalie dell’opera come nella stessa intestazione della scheda di catalogo – il ritratto di “Bembo come ca-valiere di San Giovanni” alla mano di Lucas Cranach il Giovane.15 Ora, una più attenta considerazione della biografia del ritrattato permette al contrario di far prevalere la se-conda ipotesi attributiva, suffragando così la constatata maggior affinità stilistica del dipinto in questione con le opere certe di Hans Cranach e permettendone una miglior comprensione.

È infatti noto che tra le tappe della con-troversa carriera ecclesiastica di Pietro Bembo figura anche la commenda giovan-nita di Bologna, il cui beneficio gli fu as-segnato da Giulio II già nel gennaio 1508 ma di cui, assieme ad altre minori preben-de, entrò effettivamente in possesso, dopo la bufera cambraica e grazie a Leone X, solo nel 1517, senza però professare i voti fino al dicembre 1522 quando, scaduta anche l’ultima dilazione concessagli dal papa amico (morto ormai da un anno e sostituito dall’austero Adriano VI), fu co-stretto a prendere l’abito dell’ordine, pena la decadenza da tutti i benefici goduti. Il

tecniche e stilistiche, attribuzione e data-zione, sede di conservazione, provenienza immediata, ecc., ma compaginato in modo che non sembra aver originariamente co-stituito con quello una coppia armonica), David Alan Brown, autore della scheda di catalogo, formula due ipotesi relative all’attribuzione e alle modalità di realizza-zione della tavoletta, “che seppur non di Cranach padre, chiaramente proviene dal-la sua bottega”.

Secondo la prima ipotesi, potrebbe trat-tarsi di un’opera giovanile di Lucas Cra-nach il Giovane (1515-1586), realizzata entro il 1536 – anno in cui è noto che il futuro cardinale iniziò a lasciarsi crescere la barba – quando il pittore lavorava an-cora come “assistente nella bottega del padre”, e perciò ancora priva dello stile distintivo dei suoi ritratti maturi. Poiché non risulta che Cranach figlio abbia mai incontrato Pietro Bembo, per sostenere tale ipotesi è però necessario assumere ad hoc che gli “sarebbe stato fornito un dise-gno dal vivo o un altro tipo di modello a Wittenberg, dove il ritratto che ne risultò potrebbe aver abbellito la biblioteca di un umanista della corte sassone”. La secon-da ipotesi sarebbe invece più ‘economica’ in quanto “non implica l’esistenza di un prototipo intermedio tra l’artista e l’ef-figiato”, attribuendo il ritratto alla mano di Hans Cranach (1513 c.-1537), fratello maggiore di Lucas il Giovane, anch’egli “apprendista nella bottega di famiglia” fino al 1536, quando intraprese un viag-gio oltralpe, dettato forse da ragioni di studio, che lo portò fino a Bologna, dove morì per cause ignote il 9 ottobre 1537: di tale viaggio resta un diario, arricchito di schizzi e ritratti “molto simili nello stile e nell’approccio al ritratto di Bembo”, così come stilisticamente “non dissimili” da quest’ultimo risulterebbero le uniche sue opere firmate. Il ritratto di Pietro Bembo potrebbe quindi essere stato realizzato dal vivo nel corso di tale viaggio, il che “spie-gherebbe la straordinaria verosimiglianza della persona raffigurata” e forse, dato che “Bembo tra l’altro possedeva un ritratto di Sannazaro,13 [anche] l’abbinamento dei letterati nei dipinti di Lipsia”: ma poiché il taccuino di viaggio indica che Hans Cra-nach non toccò Padova o Venezia, dove avrebbe potuto incontrare il suo modello,

Lucas Cranach il Vecchio (?), Ritratto di Jacopo Sannazaro e

Ritratto di Pietro Bemboin abito di cavaliere gerosolimitano (copia di quello in mostra, cm. 36

x 23), 1540 c.(Leipziger Universitätsbibliothek; da Koepplin-Falk , Lukas Cranach,

p. 261 figg. 126-127).

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della mostra (Padova, Palazzo del Monte di Pietà, 2 febbraio-19 maggio 2013), Venezia, Marsilio, 2013, pp. 85, 104-105.

2) Cfr. N. Giannetto, Bernardo Bembo, umani-sta e politico veneziano, Firenze, Olschki, 1985, passim; M. Danzi, La biblioteca del cardinal Pie-tro Bembo, Genève, Droz, 2005, passim.

3) Tali filiazioni e i rapporti tra ambiente roma-no e cultura pittorica veneta sono più estesamente trattati in La miniatura a Padova dal Medioevo al Settecento, Catalogo della mostra a cura di G. Bal-dissin Molli - G. Canova Mariani - F. Toniolo, Mo-dena, Franco Cosimo Panini, 1999, pp. 310-312, 324-325; G. Toscano, Gaspare da Padova e la dif-fusione della miniatura “all’antica” tra Roma e Napoli, ivi, pp. 523-531.

4) Cfr. Giannetto, Bernardo Bembo, p. 352; Danzi, Biblioteca Bembo, p. 338 nr. 43.

5) La presenza dello stemma mediceo è passata inosservata anche nel più esteso esame delle mi-niature del codice in parola in occasione della mo-stra padovana del 1999 (v. n. 3) ed è quasi del tutto ignorata anche da filologi e codicologi: solo Danzi, Biblioteca Bembo, p. 338, ne fa un cenno impreci-so e alquanto scettico: “due colonne (di Traiano?) con lo stemma dei Bembo, iscritto in campo oro con cinque palle rosse” seguito in nota da “il Cata-logue of the Western Manuscripts in the Old Royal and King’s Collections di Sir G.F. Warner e J.P. Gilson, London, The Trustees, 1921, vol. II, p. 133 parla di «arms of Bembo […] within a bordure of the arms of Medici».” Come si nota, la pur attenta ed esplicita annotazione dei conservatori britannici è rimasta finora sostanzialmente inascoltata al di qua della Manica.

6) Cfr. Giannetto, Bernardo Bembo, pp. 255-257.

7) Così C. Freschot, La nobiltà veneta, Venezia, Hertz, 1707, p. 308.

8) Cfr. Giannetto, Bernardo Bembo, pp. 178-185.

9) Cfr. Giannetto, Bernardo Bembo, pp. 152-166.

10) «Giornale Storico della Letteratura Italia-na», 28 (1896), pp. 348-364.

11) Il dipinto risulta tuttavia aver varcato l’ocea-no solo in tempi recenti, proveniendo da altrettanto private collezioni tedesche, e la sua immagine era nota e segnalata nell’ambiente degli ordini caval-lereschi fin dal giugno 2012.

12) Cfr. W. Schade, Cranachs Bildnisse von wittenbergischen, brandenburgischen und italieni-schen Humanisten, in D. Koepplin - T. Falk, Lukas Cranach. Gemälde, Zeichnungen, Druckgraphik, Catalogo della mostra Basel, Birkhäuser, 1974-1976, pp. 255-267, 771-773; Beltramini-Gasparot-to-Tura, Pietro Bembo, pp. 305, 325.

13) Secondo la Notizia d’opere di disegno di Marcantonio Michiel, tra le opere d’arte presen-ti “in casa di messer Pietro Bembo” a Padova si trovava, già nel 1526, un “ritratto dil Sanazaro, fu di mano di Sabastiano Venitiano [Sebastiano (Lu-ciani) del Piombo, 1485 c.-1547], ritratto da un altro ritratto” (la trascrizione del brano, curata da R. Lauber, è in Beltramini-Gasparotto-Tura, Pietro Bembo, pp. 346-347).

14) Per il percorso seguito da Hans Cranach e le possibili ragioni del suo viaggio a Bologna, cfr. Koepplin-Falk, Lukas Cranach, pp. 706-707, 752 n. 92.

15) Così C. Dionisotti nella voce del Dizionario biografico degli italiani, 8, pp. 133-151.

16) Prassi filtrata anche su questa rivista, a p. 7 del fascicolo 161 (febbraio 2013).

suo soggiorno più lungo e documentato presso la commenda di Bologna è quel-lo, durato un paio di mesi, dell’inverno 1529-30, in occasione del convegno tra Clemente VII de’ Medici e Carlo V per l’incoronazione di quest’ultimo, ma è solo a partire dalla fine del 1535 – ormai da circa un anno sotto il pontificato di Pao- lo III Farnese e dopo la morte, il 6 ago-sto di quell’anno, della Morosina (che tra il 1523 e il 1528 gli aveva dato tre figli, il primo dei quali, Lucilio, morto già nel 1532) “che in certo modo veniva a libe-rarlo […] se non dalle colpe del passato, da quelle del presente”16 – che Bembo tor-nò a occuparsi attivamente delle sue am-bizioni di carriera ecclesiastica. Lo fece curando a Venezia l’edizione dei brevi la-tini scritti un ventennio prima per Leone X, comparsa nel giugno 1536 e dedicata al nuovo papa, e stabilendo a Roma, nel-lo stesso anno, quei rapporti col giovane cardinal nepote Alessandro Farnese che dovevano aprirgli la via per il cardinala-to, onore per lui supremo cui Paolo III lo innalzò con l’elezione in pectore del 20 dicembre 1538 e la proclamazione del 19 marzo 1539; lo fece verosimilmente an-che prendendosi cura in modo più attivo del suo beneficio bolognese e accreditan-do quindi, accanto alla sua ormai univer-sale fama letteraria e specie nei paesi e negli ambienti più sensibili ai temi della riforma della Chiesa, anche la propria im-magine di uomo di religione, nello speci-fico di cavaliere gerosolimitano.

L’anello di congiunzione tra le reali vi-cende esistenziali di Pietro Bembo e quel-le di Hans Cranach sembra quindi essere proprio la rappresentazione di se stesso, a un nuovo punto di svolta della propria vita, che il primo volle affidare alla mano del secondo con il “ritratto per gli ammiratori d’oltralpe” oggi in mostra, che lo ritrae in abito cavalleresco: l’incontro tra l’artista e il futuro cardinale e la realizzazione del dipinto potrebbero cioè aver avuto luogo proprio a Bologna, nei pochi mesi inter-corsi tra l’arrivo in città e la morte improv-visa del giovane pittore sassone.

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1) British Library, ms. Royal 14 C iii: cfr. G. Beltramini - D. Gasparotto - A. Tura (curr.), Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento. Catalogo

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Alessandra Chiantoni

La Tabula Bembinanella collezionedi Pietro Bembo

Sul contenuto delle iscrizioni latine incise nei due lati della preziosa tavoladi bronzo esposta nella mostra visitabile nelle sale della Fondazione Cariparo.

L’importante reperto, conosciuto come “Tabula Bembina”, fu rinvenuto nel Quat-trocento a Fossombrone (Forum Sem-pronii), nelle vicinanze di Urbino. Ad oggi restano solo dei frammenti, in parte conservati presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, altri ancora al Kunst-historisches Museum di Vienna. Questa Tavola, nonostante abbia da sempre susci-tato l’interesse degli studiosi, rappresenta un interrogativo irrisolto. Infatti non ci sono notizie sicure né riguardo al nome che la identifica, né per quanto concerne la sua natura e il contenuto.

Appartenne anticamente ai duchi di Ur-bino, Guidobaldo da Montefeltro ed Eli-sabetta Gonzaga. Nel 1502, in seguito al sacco di Urbino operato da Cesare Borgia, il duca Guidobaldo si rifugiò a Venezia e fu allora, probabilmente, che entrò in contatto col Bembo, che più tardi divenne suo ospite nella splendida corte urbinate. Presumiamo che durante quel soggiorno il Bembo sia entrato in possesso della tavo-la, destinata poi ad entrare nella sua presti-giosa raccolta antiquaria, che egli esibiva agli amici nel suo palazzo padovano di via Altinate.

Alla morte del cardinale, nel 1547, la collezione passò per testamento al figlio Torquato con la raccomandazione che venisse conservata integra nella dimora padovana, e soprattutto che non si disper-dessero i frammenti della Tavola. Di fatto, nella seconda metà del XVI secolo questi frammenti iniziarono a migrare altrove. Quando nel 1557 Paolo Manuzio citava

nella sua opera, de legibus Romanis, il frammento dell’epigrafe, esso non si tro-vava più a Padova, ma in Francia, presso la biblioteca reale di Fointainebleau, du-rante la reggenza di Caterina de’ Medici.

Fulvio Orsini, grazie all’opera di Sigo-nio, fu il primo studioso a comprendere l’importanza di questa iscrizione e a pro-cedere al ritrovamento dei frammenti per poterli studiare e commentare, come risul-ta nell’appendice a una sua pubblicazione del 15831.

Il 18 maggio del 1600 Orsini moriva e la Tavola bronzea andava in eredità al cardinale Odoardo Farnese, a condizione che la collezione venisse conservata con lo scopo di istituire una ‘scuola pubblica’, ovvero una scuola di formazione per gli studiosi di tutta Europa. Fino alla metà del XVII secolo i frammenti si trovavano a Palazzo Farnese di Campo dei Fiori, ma già nel 1738, da uno scritto di Scipione Maffei, si apprende che l’epigrafe si tro-vava nella Ducal libreria di Parma, mentre altri frammenti sarebbero stati trasferiti al museo Reale di Napoli.

Secondo alcuni studiosi, primo tra tutti Lintott, la Tavola doveva chiamarsi Tabu-la Urbinas2, in quanto Pietro Bembo non era stato, probabilmente, il primo posses-sore3, e soprattutto perché in età rinasci-mentale quel nome era stato assegnato ad un’altra Tavola, pure facente parte della collezione del Bembo, ma che a differen-za della prima era caratterizzata da motivi egittizzanti, ovvero la “mensa Isiaca”.

Si tratta comunque di una Tavola bron-

diAlessandra

Chiantoni

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La Tabula Bembina nella collezione di Pietro Bembo

zea opistografica, in quanto è incisa su en-trambi i lati: la parte anteriore contiene l’i-scrizione di una legge agraria (Crawford, Roman Statues, I. 2, London 1996, pp. 113 ss), mentre quella posteriore riporta la lex repetundarum (ibid. I. 1, pp. 65 ss), una legge che disciplinava il delitto di concus-sione (il c.d. crimen repetundarum) che si verificava ogniqualvolta un magistrato, con qualsiasi mezzo, conseguiva illeciti profitti patrimoniali a danno di popolazio-ni alleate o sottoposte al dominio romano. Questa legge aveva rappresentato la vo-lontà di bilanciare gli interessi tra i patrizi di rango senatorio e il popolo oppresso4.

Non esiste una traduzione completa del-la medesima in lingua italiana, il primo tentativo è stato effettuato dalla scrivente5, che ha tenuto in considerazione le diverse edizioni, prima tra tutte, quella di Theodor Mommsen6. Essa contiene la descrizio-ne di uno dei primi processi criminali di Roma antica svolti a partire dal IV secolo a.C., alla presenza di magistrati e con la partecipazione di giurie. Dopo la parte ini-ziale, in cui è indicato il tipo di reato per cui era possibile ricorre in giudizio, am-pio spazio è dedicato alla modalità di for-mazione delle giurie e alla selezione dei giudici competenti a decidere della causa, fino alla pronuncia della sentenza.

Frammento a dellaLex repetundarum

conservato a Napoli.

Esistevano, dunque, due tipi di sentenze: quelle di condanna e quelle di assoluzione. I giudici che costituivano il collegio atto a formulare una decisione definitiva, aveva-no a disposizione una tavoletta cerata su cui dovevano esprimere il loro convinci-

Frammento b dellaLex repetundarum

conservato a Napoli.

a

b

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Alessandra Chiantoni

mento, indicando la lettera C (condemno), o la lettera A (absolvo). Una volta mani-festata la preferenza, le tavolette erano inserite in un’urna, successivamente esse venivano estratte dalla medesima e letto il voto in esse contenuto. Se la maggioranza era costituita dalla lettera C, l’imputato di concussione era condannato, al contrario, ovvero vi era la maggioranza di lettere A, era assolto.

Poteva, più di rado, verificarsi una terza ipotesi, ovvero i giudici non indicassero né la lettera A, né la lettera C. In questo caso, non si perveniva a nessun tipo di sentenza, né di assoluzione, né di condanna e il pro-cedimento con la relativa accusa formaliz-zata in capo al reus cadevano, mettendo nel nulla l’intero iter processuale.

L’aspetto più significativo, però, è quel-lo che si trova tra le ultime clausole della legge. Esse prevedono l’applicazione di un premio per coloro che avessero deciso di attivare il procedimento criminale contro quei governatori che si fossero macchiati del reato di concussione ai danni dei popo-li sottomessi, e perciò considerati sudditi, stranieri, privi di diritti. Il premio consi-steva nell’acquisizione della cittadinanza romana e con essa i diritti riconosciuti ai cittadini romani.

Questa clausola costituiva una vera rivo-luzione per il mondo romano, caratterizzato da severe distinzioni all’interno della socie-tà, tra cives e schiavi, tra uomini e donne, ma soprattutto tra cittadini e sudditi. L’attribuire loro la cittadinanza comportava, anzitutto, il loro riconoscimento come individui titolari di tutele, ma soprattutto, la facoltà di parte-cipare alla vita politica, intervenendo attiva-mente all’amministrazione della giustizia.

In età repubblicana, questo significava ri-coprire un ruolo rilevante all’interno della società. Non è da escludere che anche que-sto motivo, e non solo la passione antiquaria allora diffusa fra i ceti colti, abbia suscitato l’interesse del Bembo per questa Tavola.

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1) Cfr. Antonii Augustini archiepiscopi Tarraco-nensis de legibus et senatus consultis liber. Adiun-ctis legum antiquarum et senatusconsultorum fragmentis cum notis Fulvi Ursini, Roma 1583.

2) A.W. Lintott, The so-called Tabula Bembi-na and the humanists. A chapter rewritten in the Renaissence discovery of classical epigraphy, in “Atheneum, n. LXI, 1983, p. 203.

Arte romana. Tabula BembinaNapoli, Museo Archeologico.

3) A. Campana, Rendiconti della Pontificale Ac-cademia Romana di Archeologia, n. XXIII-XXIV, 1947, p. 13.

4) Non è certo se la tavola sia sempre stata opi-stografica, o se invece era stato inciso prima il te-sto della lex repetundarum e solo in un secondo momento quello della lex agraria. L’ipotesi di una anteriorità della legge de repetundis, incisa sul recto, è desumibile da argomentazioni che tengo-no conto delle evidenze epigrafiche.

5) Vedi A. Chiantoni, L’accusa nel processo cri-minale fra diritto e storia in età repubblicana, tesi di laurea magistrale in Storia del diritto romano. Fac.di Giurisprudenza, Università di Ferrara, a.a. 2011-2012.

6) T. Mommsen, Gessammelte Schriften, Juri-stische Schriften, Berlino 1905, p. 2.

Frammento c dellaLex repetundarum

conservato a Napoli.

Frammento d dellaLex repetundarum

conservato a Napoli.

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Un’inedita testimonianza di Andriolo De Sanctis

Un’ineditatestimonianzadi Andriolo De SanctisLa scoperta di un frammento scultoreo medioevale proveniente dal distrutto convento padovano di Sant'Orsola, riconosciuto in un capitello devozionale.

Fra i non numerosi resti di antichi edifici religiosi esistenti a Padova, pochissimo interesse hanno suscitato fino a qualche tempo fa quelli riguardanti il convento di Sant’Orsola, situato nella omonima strada ora facente parte della zona industriale, ra-pidamente realizzata a levante della città.

Di esso, al presente, rimane visibile un solo fabbricato (fig. 1), derivante dall’u-nione di due celle primitive del cenobio, poste al piano terra, con due locali del pri-mo piano, nonché con una limitata parte dell’adiacente chiostro più piccolo. Inol-tre di originario rimane ancora il pozzo. Purtroppo del resto dell’antico complesso, cioè del chiostro più grande, raggruppante molte altre celle, della cucina, del refetto-rio, dell’infermeria e della foresteria (fig. 2) nulla più rimane a causa delle demoli-zioni iniziate allorquando questa struttura conventale, di rilevante interesse storico-artistico, nel 1772 passò in proprietà della famiglia Dondi. Queste proseguirono con chi vi subentrò poi1. Ma quello che più duole, e che si verificò negli anni succes-sivi, fu l’abbattimento totale dell’oratorio, dedicato a Sant’Antonio Abate (fig. 2, zona B) e della grande chiesa, ovviamente dedicata a Sant’Orsola (fig. 2/zone D+E).

Storicamente va ricordato che tale cen-tro religioso era stato fondato nel 1294 da Enrico Scrovegni, figlio di Rinaldo (citato da Dante nella Divina Commedia), per i monaci cistercensi. Indi passò alle mona-che benedettine e successivamente ai frati minori francescani, diventando culla del movimento dell’osservanza2. In esso per qualche tempo visse il suo durissimo no-viziato il beato Bernardino da Feltre (n.

diAndrea Calore

1439 - m. 1494)3, il quale nel 1491 aveva istituito il Monte di Pietà4.

La chiesa maggiore fin dalle origini era dedicata a Sant’Orsola, vissuta per gran parte della sua vita a Colonia, figlia unica – secondo le leggende medioevali cristia-ne più accettabili – di un re di Bretagna, divenuta giovane sposa di un figlio del re d’Inghilterra. Costui, per assecondare il volere della fanciulla, si sarebbe converti-to al cristianesimo. Per tal motivo fu cru-delmente ucciso assieme ad Orsola e alle vergini che avevano assistito al suo ma-trimonio, non volendo abiurare la nuova fede religiosa, forse nell’anno 3835.

La fama di santità della giovane martire e delle amiche dette luogo nel medioevo a manifestazioni di culto, ispirando inoltre rappresentazioni di alto livello artistico, specie in Germania.

Tutto ciò avvenne anche nel Veneto, come si ricorda in nota6. Padova non fu da meno, come prova la titolazione del-la chiesa conventuale omonima. È logico pensare che sull’altare maggiore della stessa chiesa fosse collocata una sua sta-tua sopra un elaborato basamento7. Una traccia di questo si trova documentata nel capitello votivo, di muratura, a pian-ta quadrata scantonata (delle mis. di cm 77x100, alto al colmo m 3,95), esistente a Noventa Padovana in via Argine sinistro del Piovego (fig. 3), collocato in una pic-cola radura antistante il fabbricato con-traddistinto dal n. 23.

Topograficamente esso dista circa due miglia (in linea d’aria) dal convento suac-cennato. Nel capitello, infatti, è inglobata una lastra monolitica di marmo bianco,

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Andrea Calore

1. Padova, via Sant'Orsola, n. 5: edificio formato con parti residue

del convento di Sant’Orsola(foto F. Pecchini).

2. Planimetria, eseguita nel sec. XVIII, del convento di Sant'Orsola

(A.S. di Venezia - Monasteri, n. 34).

1

di evidente recupero, in discreto stato di conservazione, larga cm 60 e alta cm 20, infissa nella parte frontale superiore del manufatto, sotto una profonda nicchia in cui è esposta una Madonna col Bambino di altra epoca, anch’essa di marmo, realizzata in stile barocco. Su tale lastra, oggetto del presente studio, sono scolpite a bassorilie-vo, in posizione frontale, tre busti di Sante emergenti da grandi plastiche foglie ricurve (fig. 4, punti A), ciascuna col capo nimbato ed impugnante nella raffinatissima mano, destra o sinistra, un ramo di palma, che simbolicamente si riferisce al martirio.

Esse, evidentemente, appartengono alla serie delle vergini, amiche di Sant’Orsola, che subirono la medesima fine, e che lo scultore aveva raffigurato sul basamento ai piedi della statua di Sant’Orsola.

Tutte tre sono disposte ad identiche di-stanze, ritmate da archi gotici trilobati che traforano la superfice marmorea, ognuno avente sulla sommità un ciuffo tripartito di foglie, mentre all’altezza della testa au-reolata delle martiri scorre su un’elegante striscia decorata con fiori e foglie legger-mente aggettanti (fig. 4).

L’insieme delle decorazioni di questa preziosa lastra ci spinge a ricercare, con la maggiore approssimazione possibile, l’e-poca e l’autore delle stesse. Perciò nello svolgimento di questa ricerca è sembra-to utile richiamarsi dapprima alla botte-ga dei Dalle Masegne, creatori, come si

è supposto, alla fine del secolo XIII, del “vecchio” pulpito marmoreo della Basili-ca del Santo8, che nella base semiconica presenta una fittissima figurazione di fio-ri, frutta e fogliami. Tale figurazione però non si accorda con l’armoniosa semplicità del rilievo inserito nel capitello di Noven-ta Padovana.

Risulta invece molto più calzante, per affinità di stile e somiglianze compositive, l’accostamento della lastra al modello rea-lizzato, sempre al Santo, dal 1372 in poi9, dal celebre scultore veneziano Andriolo De Sanctis. Lo confermano infatti sia la forma degli archi, sia gli stessi fioroni che definiscono la parte frontale di copertura degli stalli posti a lato della cappella di S. Giacomo (fig. 5).

E lo conferma, in maniera ancora più convincente, la decorazione che lo stesso artista ha messo in atto nella parte vegetale del cordone intermedio che orna la tomba di Jacopo da Carrara – scolpita dopo il 1351 – attualmente collocata nella chiesa degli Ere-mitani di Padova10, costituito da fogliami di identico disegno (v. fig. 6, punti A).

Si può dunque affermare con pondera-to giudizio che la scultura inglobata sul capitello di Noventa Padovana sia quanto resta di un’opera da attribuirsi al grande scultore veneto Andriolo De Sanctis, ese-guita prima dell’ultimo quarto del Trecen-to11.

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Un’inedita testimonianza di Andriolo De Sanctis

3. Noventa Padovana, lungargine sinistro del Piovego, Capitello

votivo (foto V. Noaro).

4. Lastra marmorea di recupero collocata nel capitello votivo

(foto M. Danesin).

5. Padova, Basilica del Santo, cappella di S. Giacomo (a. 1372 e oltre) parte frontale superiore di alcuni stalli, posti a lato della

stessa cappella (foto M. Danesin).

6. Padova, Chiesa degli Eremitani, scultore Andriolo De Sanctis,

Sepolcro di Jacopo da Carrara .

1) Per le notizie storiche qui esposte e per quel poco che rimane ancora del convento si rimanda a: Filippo Pecchini, Formazione ed evoluzione negli ultimi secoli dei principali nuclei edilizi: Il con-vento di Sant’Orsola, in Ritorno al Roncajette, Pa-dova 1990, pp. 45-55, e all’allegata lunga striscia di disegni.

2) Ivi, p. 43.3) P. Tieto, Riflessi di ordine spirituale e socia-

le dei francescani a Padova, in Il complesso di S. Francesco grande in Padova, Padova 1983, pp. 109-118; P. Giampaolo Paludet, Bernardino da Feltre, piccolo poverello, Venezia 1993, p. 25.

4) Angelo Portenari, Della felicità di Padova, Padova 1923, p. 109.

5) Tutte le biografie riguardanti Sant’Orsola sono discordanti. Comunque dopo aver esaminato vari testi autorevoli quali: Joannes Emil Gugumus, Orsola in Bibliotheca Sanctorum, Istituto Gio-vanni XXIII della Pontificia Universitaria Latera-nense, Roma 1967, vol. IX, col. 1251; Carlo Cec-chelli, Orsola in Enciclopedia Italiana, vol. XXV, Roma 1935, p. 614; per non addentrare in prolisse conclusioni, è parso utile a chi scrive di accogliere quanto succintamente pubblicato nel vol. VI del-la Enciclopedia Motta, col titolo Orsola, santa, p. 255, Milano 1959.

6) A Padova nel Medioevo Sant’Orsola era stata nominata patrona della fraglia dei pistori (=

fornai). Le prime fraglie padovane risalgono alla metà del XIII secolo: Cfr. A. Gloria, Il territorio padovano illustrato, vol. I, Padova 1962, p. 157. Sempre a Padova, nella chiesa del Santo, già pri-ma del 1298 esisteva pure un altare per venerarla assieme ad altri Santi (Archivio Sartori, I, p. 610, n. 2). Come ricordato, la chiesa di Sant’Orsola sor-se nel 1294. Prima del 1350 il Guariento dipinse nel sottarco della cappella a destra della chiesa degli Eremitani il volto di Sant’Orsola (F. Flores d’Arcais, Guariento, tutta la pittura, Venezia II ed. 1974, p. 63-64, fig. 26).

7) La posizione del basamento suddetto sembra segnata con un rettangolino nero (un poco sposta-to all’indietro) al centro dell’altare maggiore della chiesa grande di Sant’Orsola (vedi fig. 2/zona E).

8) L’attribuzione del “vecchio” pulpito a tali ar-tisti si trova esposta all’inizio di una lunga disser-tazione pubblicata subito dopo il titolo, Proposta intorno al vecchio pulpito della Basilica di S. An-tonio di Padova, in: Archivio Sartori I, Basilica e Convento del Santo, a cura di P. Giovanni Luisetto, Padova 1983, p. 689, n. 32.

9) Ivi, p. 456.10) S. Bettini, La chiesa degli Eremitani di Pa-

dova, I, Vicenza 1970, p. 24 (per confrontare le foglie si osservi la fot. 39).

11) Andriolo De Sanctis abitava allora a Padova, Ivi, pp. 23-24.

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Silvia Gullì

De Nittis

Nelle sale di Palazzo Zabarella rivive il fascino e l’eleganza di un’epoca,gli anni ottanta dell’Ottocento fra Parigi e Londra, grazie alla grande mostramonografica dedicata al pittore.

Palazzo Zabarella riapre con una grande esposizione dedicata a Giuseppe De Nit-tis, pittore originario di Barletta che giova-nissimo si trasferì a Parigi dove ne diven-ne il cantore della modernità.

Aperta dal 19 gennaio al 26 maggio 2013, l’esposizione – prendendo avvio da quanto emerso dalla rassegna dedica-ta all’artista dal Petit Palais, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 – segna una svolta negli studi e nella valorizzazione del pit-tore pugliese, grazie anche all’esposizione di opere non presenti in quell’occasione, fra cui alcuni inediti. Sono 121 i capola-vori esposti provenienti dai più prestigiosi musei e collezioni private, per la rassegna curata da Emanuela Angiuli e Fernando Mazzocca, e promossa dalla Fondazione Bano e Fondazione Antonveneta.

La mostra si snoda lungo un percorso cronologico che permette di seguire le di-verse tappe della carriera artistica di De Nittis, i temi trattati e le differenti tecniche artistiche1.

Nato a Barletta nel 1846 da un ricco pro-prietario terriero, rimarrà presto orfano di entrambi i genitori. Nel 1860 si trasferisce a Napoli e, vincendo l’ostilità dei fratelli che non volevano si dedicasse alla pittura, nel 1861 si iscrive all’Istituto di Belle Arti da dove viene espulso pochi anni dopo.

Nel 1864 inizia il sodalizio artistico con Adriano Cecioni, Marco De Gregorio e Federico Rossano e insieme fondano la “Scuola di Resina” o di “Portici” dal nome delle località che erano soliti frequentare. Sono gli anni in cui, come già stava succe-dendo a Firenze con i Macchiaioli, molti artisti sentono l’esigenza di uscire dalle aule accademiche per iniziare a studiare e

sperimentare la pittura all’aria aperta, con conseguente cambio dei soggetti rappre-sentati nelle loro opere: non più una pittu-ra di Storia, caldeggiata dall’Accademia, ma soggetti tratti dalla realtà quotidiana dell’epoca2.

Fedele a queste nuove esigenze, anche il programma della Scuola di Resina con-templava un’arte aderente ai principi del vero, indipendente e con il gusto delle pic-cole cose, nonchè la pittura all’aria aperta.

Le prime opere di De Nittis sono, infat-ti, caratterizzate da una pittura di luce, di atmosfera e di sensazioni: atmosfera che l’artista conosceva molto bene, come ci racconta egli stesso nelle pagine del suo Taccuino: “...credetemi, l’atmosfera io la conosco bene; e l’ho dipinte tante volte. Conosco tutti i colori, tutti i segreti dell’a-ria e del cielo nella loro intima natura. Oh il cielo! Ne ho dipinti di quadri! Cieli, cieli soltanto e belle nubi. La natura, io le sono così vicino! L’amo3!”.

La mostra si apre con la prima opera datata di De Nittis: L’appuntamento nel Bosco di Portici, una piccola tavoletta del 1864 che si configura come uno studio vi-brante della luce del sole che, filtrando tra le fronde degli alberi, getta la sua ombra sul viale dove sta passeggiando una giova-ne donna intenta nella lettura.

È ancora la luce abbagliante del sole estivo la protagonista di opere come La masseria e Le Saline di Margherita di Savoia, saline situate su una pianura del Tavoliere delle Puglie familiari a De Nittis in quanto il nonno ne era stato l’architetto.

Della metà degli anni Sessanta sono i capolavori che ritraggono le rive dell’O-fanto eseguiti nel formato oblungo, tipi-

diSilvia Gullì

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De Nittis

co dei pittori toscani, formato adottato su influenza di Adriano Cecioni, pittore dei Macchiaioli che si era trasferito a Napoli e che diventerà grande amico di De Nittis nonchè il tramite fra quest’ultimo e i Mac-chiaioli.

Il 1867 è l’anno della svolta di De Nittis: dopo una sosta a Firenze, parte per Pari-gi dove ci rimarrà inizialmente solo due mesi, ma vi si trasferirà in modo definitivo appena un anno dopo, nel 1868.

Il grande successo arriva quando, ancora nel 1867, espone alla Promotrice Fioren-tina Il passaggio sugli Appennini: opera che riscosse un successo prossimo al fa-natismo anche per la resa magistrale dei solchi delle ruote lasciati sulla strada fan-gosa dalla diligenza che si allontana sotto un cielo plumbeo prossimo al temporale.

Arrivato a Parigi nel 1868, conosce Léontine Lucille Gruvelle che sposerà dopo pochi mesi: donna che avrà molto peso nella vita dell’artista e che diventerà la sua modella prediletta.

A Parigi entra in contatto con Goupil, storico mercante d’arte, al quale si legherà con un contratto fino al 1874. Le opere di

questo periodo, create sotto l’influenza di Goupil che voleva generi commerciabili, risentono dello stile di Fortuny: piccole scenette galanti realizzate con una pennel-lata libera, minuta nella resa delle stoffe cangianti come nell’Appuntamento (Il ri-torno dal ballo).

Nel 1870 a seguito dello scoppio della guerra Franco-Prussiana, De Nittis torna con la moglie in Italia, a Napoli e a Bar-letta. Il 1872 è l’anno di una nuova, im-ponente eruzione del Vesuvio: De Nittis è pronto a registrare il fenomeno in una serie di vedute dipinte direttamente sulle falde del Vesuvio, circa una settantina, di cui in mostra è presente una grande se-lezione: “Da un anno ormai salivo ogni giorno sul Vesuvio per lavorare. E ogni giorno ci volevano sei ore di viaggio a cavallo per andare, tornare e salire fino al cono sulle spalle delle guide, ma allora avevo ventisei anni, benchè fossi già spo-sato da tre anni, e ignoravo cosa fosse la stanchezza4”.

Nella serie, il Vesuvio, ridotto alla sua essenza, a un mero corpo geometrico pri-vo di spessore, è rappresentato in diver-

Avenue du Bois de Boulogne, 1874. Collezione privata.

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Silvia Gullì

rimarrà deluso, tanto che il rapporto con gli artisti del gruppo diventerà sempre più conflittuale7.

Il giorno prima dell’inaugurazione della mostra da Nadar, De Nittis parte per Lon-dra alla ricerca di nuovi sbocchi profes-sionali: la capitale inglese diventerà la sua seconda patria dove si recherà ogni anno dal 1875 al 1879. Della metropoli lon-dinese l’artista ritrae, in opere di grande formato – esposte in un’apposita sezione a Palazzo Zabarella – la frenesia della città degli affari tra Trafalgar Square, la Natio-nal Gallery, la Banca d’Inghilterra, e lo splendido palazzo di Westminster, opera quest’ultima a cui dedicò numerosi studi in cui il palazzo viene ripreso in diverse ore del giorno con differenti tagli pano-ramici. Nell’opera esposta (fig. 2) è forte il richiamo alla pittura di Turner, con il bellissimo particolare delle torri neogoti-che che si perdono in lontananza avvolte dai vapori della nebbia, resi con gamme di grigi perlacei e sfaldati infiammati dalla luce del tramonto.

Il 1878 è l’anno della piena consacrazio-ne di De Nittis: partecipa all’Esposizione Universale con dodici dipinti, ricevendo la medaglia d’oro e la Legion d’onore. Fra le opere inviate spicca il celebre La signo-ra col cane (Il Ritorno dalle corse), opera che è diventata l’emblema di un’epoca.

Con il passare degli anni l’artista si qua-

se condizioni di luce: l’artista ne indaga i profili, i crepacci, con un taglio d’im-magine moderno. In queste opere appare anche l’influenza dell’arte giapponese, in particolare delle Vedute del monte Fuji di Hokusai delle stampe giapponesi5.

Rientrato a Parigi nel 1873, De Nittis si immerge sempre più nella febbrile vita parigina di cui registra le mode, i passa-tempi dei parigini, le corse, i grandi bou-levards e la metropoli che cambia aspetto anche grazie agli interventi urbanistici del barone Hausmann. Sono di questi anni opere quali Avenue du Bois de Boulogne del 1874 (fig. 1), L’amazzone (1874-75), Avenue des Champs Elysées (1875), in cui l’artista rappresenta scene di vita parigina, descritte con dovizia di particolari, con un moderno taglio fotografico ed una tecni-ca pittorica minuziosa, vibrante nella resa degli abiti delle eleganti parigine, con un tocco che si sfalda man mano che ci si al-lontana dal primo piano, fino a sgranarsi sullo sfondo. Parigi non ha più segreti per De Nittis: è ormai diventato il pittore della vita moderna, colui che, come sosteneva Baudelaire, “deve distillare dalla moda ciò che essa può contenere di poetico nella trama del quotidiano, di estrarre l’eterno dall’effimero6”.

Nel 1874 partecipa alla prima mostra impressionista nello studio del fotogra-fo Nadar, inviando cinque dipinti, ma ne

Westminster, 1878.Collezione privata.

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De Nittis

gio ai bordi della foresta di Fontainebleau, a cui seguirono, fra gli altri, Diaz, Millet e Corot: tutti avevano riscoperto la natura. Per quanto concerne le esposizioni delle opere, un ruolo fondamentale era giocato dalle Esposizioni Universali, che svol-gevano un vero e proprio ruolo di propaganda po-litico-economica. Accanto alle manifestazioni uf-ficiali, importanti erano anche i Salon, esposizioni parallele a cui parteciparono gli artisti dell’epoca, fra cui anche De Nittis.

3) G. De Nittis, Taccuino 1870/1884, Bari 1964, p. 29.

4) G. De Nittis, Taccuino... cit., p. 70.5) Nel 1867 all’Esposizione Universale di Parigi

per la prima volta venne presentata ufficialmente l’arte giapponese: il successo riscosso fu tale da conquistare molti artisti dell’epoca. De Nittis stes-so ne rimarrà influenzato al punto tale da diventare un grande collezionista di stampe e oggetti cinesi.

6) C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna in, Scritti sull’arte, Einaudi 1992, p. 288.

7) Sebbene si sia confrontato con artisti quali Manet, Dégas e gli stessi Impressionisti, De Nit-tis non arriverà mai alla radicalità di linguaggio pittorico degli stessi, alla pennellata fratta con cui gli artisti d’oltralpe intendevano fermare l’attimo sulla tela. In lui permarrà sempre la sua educazione di base, legata ad un naturalismo descrittivo, che lo porterà ad elaborare uno stile unico capace di riflettere lo spirito del tempo.

8) F. Mazzocca, 1881-1884. Il fascino della vita mondana. Il pastello e nuove suggestioni en plein air, in De Nittis. Catalogo della mostra, cit., p. 177.

9) Il famoso letterato era uno degli amici più cari di De Nittis. A lui Goncourt dedicò il romanzo La Faustina uscito nel 1882. Goncourt era spesso ospite a casa di De Nittis, insieme a Zola, Manet, Degas, Dumas fils, Oscar Wilde ed altri artisti e letterati, nelle famose serate mondane organizzate in compagnia della moglie. Serate rimaste famose e ricordate dai critici dell’epoca come Martelli per l’atmosfera informale, per la vivacità della conver-sazione e per il buon cibo, spesso preparato dallo stesso De Nittis.

lificherà sempre più come il pittore dell’e-leganza al punto tale da far sostenere ad André Michel nel Le Parlement che “ è con i suoi dipinti, i romanzi di Daudet e la collezione della rivista Vie Parisienne che si potrà scrivere la storia della crema della società del nostro tempo8”.

Sono di questi ultimi anni i dipinti con interni illuminati artificialmente, nei quali l’artista studia l’effetto della luce artificia-le in un interno, dove prevale non più il tono mondano delle vedute parigine, ma un’atmosfera emozionale e intimista: Pen-sierosa (1879), Intorno al paralume dello stesso anno, e soprattutto il Salotto della principessa Matilde (1883), salotto a cui partecipava lo stesso De Nittis.

Nelle opere degli anni ottanta, De Nit-tis comincia a sperimentare la tecnica del pastello, utilizzato con grande abilità con tocchi rapidi, incisivi e soprattutto con una novità nell’ambientazione dei soggetti e nei ritratti a grandezza naturale che all’e-poca ebbero molto successo. Sono capola-vori assoluti il Ritratto di Edmond de Gon-court9 del 1880 (fig. 3), il Bow-Window e la Femme aux pompons dello stesso anno.

Nel 1884, ormai stanco e malato, decide di abbandonare la rappresentazione delle scene mondane per riabbracciare la pittura en plein air con cui aveva iniziato la sua sfolgorante carriera artistica: Colazione in giardino, La guardiana di oche, e L’ama-ca, sono le opere con cui l’artista, troppo presto, si congeda dal suo pubblico. È il 21 agosto del 1884: ad appena 38 anni De Nittis muore a Saint-Germain-en-Laye, suscitando grande commozione fra tutti coloro che in vita avevano ammirato le sue opere.

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1) La mostra è accompagnata da un importante catalogo curato da Emanuela Angiuli e Fernando Mazzocca, con saggi di E. Angiuli, D. Morel, G. Matteucci, M. Moscatello, L. Martorelli, F. Miner-vini, edito da Marsilio, 2013.

2) Due sono i poli artistici di quegli anni: Parigi e Firenze. A Parigi precursori di un nuovo modo di fare pittura furono i pittori di Barbizon: già nel 1836 Rousseau fu il primo a stabilirsi nel villag-

Ritratto di Edmond de Goncourt, 1881. Nancy, Archives Municipales (deposito

dell'Académie Goncourt, Parigi).

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Paolo Pavan

Babetto: in principioera la geometriaUna breve presentazione di Giampaolo Babetto, artista orafo padovanoche di recente ha ottenuto un significativo riconoscimento nella sua Città.

Giampaolo Babetto è uno dei migliori interpreti di quella che è definita Scuola Orafa Padovana, che ha come padre nobile Mario Pinton e che annovera altri grandi artisti come Francesco Pavan, Renzo Pa-squale, Diego Piazza, Giuliano Reveane e Graziano Visintin, ai quali si affiancano ora anche Alberta Vita, Stefano Marchet-ti, Giovanni Corvaja, Giorgio Cecchetto, Maria Rosa Franzin e Annamaria Zanella. Artisti e stili diversi, accumunati dalla sa-pienza e raffinatezza dell’uso dei metalli e materiali orafi, tramandati in una didattica efficace nell’Istituto d’Arte Selvatico.

Impossibile catalogare l’esperienza del Maestro dentro una corrente artistica: agli esordi assimila con Francesco Pavan le esperienze di arte cinetica e programmata che si sviluppano anche a Padova grazie ai protagonisti del Gruppo Enne. Mentre Pavan è fulminato dalla nuova figurazio-ne di Jesùs-Rafael Soto, Babetto guarda al gruppo Zero, a Moholy-Nagy e Max Bill, trasformando l’esperienze di elaborazione gestaltica in gioielli, dove comunque è già presente una connotazione rigorosa di vo-lumi puri e geometrie, a volte seriali, do-minate dalle proporzioni classiciste: non a caso l’Autore cita il Palladio come fonte di ispirazione. In questa fase il gioiello as-sume caratteri di autonomia dal corpo: più che elemento decorativo è una scultura che si indossa; è il caso, ad esempio dell’anello a perimetro quadrato anziché circolare. È con questa incursione nelle arti visive che l’Oreficeria perde la sua autoreferenzialità ed assume caratteri di tendenza: quasi una neoavanguardia. Progressivamente si evi-denziano elaborazioni sempre più attente a un riduzionismo figurativo con le geome-trie giocate tra regola e trasgressione: una discontinuità improvvisa della superficie esagonale e piatta di una spilla, la trasfor-ma in volume, tre segmenti di retta incisi su una collana circolare evocano un trian-

golo, con i vertici idealmente posti sul pro-lungamento della collana stessa: è evidente l’invito da parte dell’autore al completa-mento dell’opera a chi osserva il gioiello indossato. In questo senso c’è la precisa assimilazione di ciò che veniva teorizzato dal Gruppo N: l’opera d’arte deve essere opera aperta, interpretabile e coinvolgente lo spettatore.

Di grande impatto visivo la collana del ’77, con piccole cerniere sul dorso nasco-sto, che riprende la piega dei setti in calce-struzzo che perimetrano il foro boario di Corso Australia, a Padova, opera dell’ar-chitetto Giuseppe Davanzo a riprova del-la continuità delle arti e del medesimo principio ordinatore della composizione, che elide ogni separatezza tra architettura, pittura, scultura, prodotto industriale e arte del gioiello.

Appaiono così anche le prime conta-minazioni con materiali provenienti dalla contemporaneità, estranee alla tradizione orafa. È un passaggio dal riduzionismo mutuato dagli artisti Schoonhoven e Struy-cken alla valorizzazione cromatica presen-te in Donald Judd e Frank Stella.

Gli anni ottanta si caratterizzano per una rarefazione e pulizia che portano l’opera ad una condizione di purezza geometrica altamente astratta: piccoli tagli, cambi di piegatura, su solidi di Filebo (i solidi pri-mari – sfera, cilindro, cubo, piramide e pa-rallelepipedo – con i quali, secondo Filebo appunto, si definiscono tutti gli elementi del reale) più o meno cavi, provocano scar-ti nella lettura dell’immagine finale diver-gente dal solido di origine. Se si dovesse fare un parallelo penserei al cubo posto al lato sinistro dell’incisione del Dürer “Me-lencolia I” nella quale il taglio traverso di due spigoli provoca nell’osservatore un’in-stabilità percettiva, tale da rendere incerta e inconsueta la lettura del volume.

In molti lavori sono ancora presenti i ter-

diPaolo Pavan

Collana in oro verde 12k, 1968(foto di L. Trento).

Collana, 1984; Oro giallo 750(foto di L. Trento).

L’artista Giampaolo Babetto al tavolo di progettazione

(foto di A. Lovison).

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Babetto: in principio era la geometria

mini gestaltici: solidi in rilievo stiacciato o volumi che slittano con i propri piani su inclinate.

Gli ultimi anni ottanta e l’inizio dei no-vanta evidenziano una sperimentazione che transita dai volumi alle superfici; anelli che sviluppano la loro superficie laterale in segmentazioni evocanti i risultati di una casseratura in curva del calcestruzzo, brac-ciali in lamina d’oro con le superfici che si sovrappongono l’una all’altra.

La vicinanza all’Architettura e al Design è peraltro testimoniata dai mobili che Ba-betto comincia a produrre, sia come pezzi unici, che come pezzi seriali, senza scorda-re che il suo primo percorso al Selvatico è stato nella sezione di Architettura. La pro-duzione di divani e poltrone per lo spazio delle “bolle” del Centro Congressi della Distilleria Nardini a Bassano del Grappa, è uno splendido esempio di dialogo con l’involucro edilizio, creato da Massimilia-no Fuksas. Da un lato le geometrie libere delle vetrate e le continue ridefinizioni dei piani altimetrici, dall’altra il controllo dei volumi di arredo rarefatti e assoluti.

La sua produzione di gioielli ha, negli anni novanta, l’oro come pressoché unico protagonista: rigato o lucidato, trafilato o laminato.

Ma l’incontro con il ciclo di affreschi del Pontormo alla villa di Giuliano da Sangal-lo di Poggio a Caiano, è dirompente: l’alta riconoscibilità degli affreschi permette a Babetto di elaborare i soggetti umani, le architetture e gli elementi naturali come siluette, prive di figuratività “interna”, trattata dall’artista orafo a campitura pie-na, con l’oro.

Dall’atra parte, l’opera del Pontormo ben si presta a questa elaborazione: il profilo dei suoi dipinti, di derivazione michelan-giolesca, è sempre netto e preciso, come fosse opera di intaglio su un fondo.

Parallelamente Babetto prosegue sia nel-la ricerca degli accostamenti dei materiali (niello, resine, smalti e pietre) che nelle re-lazioni intersecate di solidi primari. Si trat-ta però, rispetto al decennio precedente, di un rapporto più libero, dove le entità com-positive possono essere percepite al limi-te della distribuzione casuale; ad esempio nella spilla con acquemarine o nel monile circolare sul quale si affastellano cubi, più o meno immersi nella circonferenza stessa.

In questo periodo il colore si fa profon-

do ed intenso, steso a campiture piatte che rimandano ai dipinti monocromi di Yves Klein.

In alcuni casi simulano l’ombra porta-ta di un solido sulla superficie sulla quale sono stese, reintroducendo come termine compositivo la proiettiva degli anni settan-ta, allora gestaltica, sotto altra forma.

Nell’ultimo decennio i materiali e i colo-ri si moltiplicano. Così i piani compositivi, valorizzando il materico e l’incompiuto.

Le opere si definiscono in scomposizio-ne destrutturanti di volumi e superfici, pro-ducendo una vorticosa moltiplicazione di vedute della medesima opera. L’artificiale del metacrilato si impone come materiale compositivo nobile. Matasse di fili che si intrecciano liberamente, senza apparen-te ordine. Una sorta di “parole in libertà” che l’artista ora sente di poter pronunciare, perché la buona norma e l’ordine composi-tivo è stato da lui così assimilato, da poter permettersi di equilibrare anche il casuale, il disordine puro, “il volo di una mosca non euclidea”.

È auspicio che le istituzioni pubbliche e private sappiano tesaurizzare l’esperienza del Maestro e della Scuola Orafa Padova-na, magari pensando in tempi stretti alla creazione nella città di una Scuola Supe-riore di Oreficeria, dando sviluppo non sol-tanto all’arte e alla ricerca, ma anche fiato ad un importante vettore dell’economia cittadina e veneta.

l

Giampaolo Babetto nasce a Padova nel 1947. La sua formazione avviene all’Istituto d’Arte Pietro Selvatico di Padova, prima nella sezione di archi-tettura, poi in quella di smalti e cesello. Successiva-mente si iscrive all’Accademia di Belle Arti a Vene-zia, periodo nel quale realizza i suoi primi gioielli.

Nel 1969 viene chiamato da Mario Pinton, no-minato Preside dell’Istituto Selvatico, a sostituirlo nell’insegnamento di Progettazione e Disegno Pro-fessionale.

Insegna anche alla Rietveld Akademie di Amster-dam, alla Fachhochschule di Düsseldorf, al Royal College of Art di Londra, alla San Diego State Uni-versity, alla Sommer Akademie di Graz, alla Rhode Island School di Providence, alla Sommer Akade-mie di Salisburgo.

Dal 1967 espone in Italia, Germania, Olanda, Belgio, Austria, Svizzera, Gran Bretagna, Giappo-ne, USA. I suoi gioielli sono presenti in collezioni pubbliche e private di tutto il mondo.

Ha ricevuto premi prestigiosi come: Herbert Hoffmann, 1975/1985; Premio del Giappone per l’oreficeria, 1983; Medaglia d’Oro dello Stato del-la Baviera, 1991; Ring of Honour di Hanau, 2003; Career Excellence Award, New York, 2003; Andrea Palladio Iternational Jewellery Awards, Vicenza, 2012; Sigillo della Città di Padova, 2012.

Spilla, 2001.Oro bianco 750, metacrilato

(foto di L. Trento).

Spilla (dal Pontormo) 1990.Oro giallo 750

(foto di L. Trento).

Spilla, 1995.Oro giallo 750, pigmento

(foto di L. Trento).

Spilla, 2002.Oro bianco 750, metacrilato

(foto di G. Chemello).

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Gianluigi Peretti

Tornerà a Padova la “pietra”di Santa Giustina?La “restitutio” da parte della Chiesa ve-neziana a quella padovana di un antico si-mulacro legato al culto di Santa Giustina potrebbe costituire un avvenimento signifi-cativo e suggestivo. Si tratta della “pietra” sulla quale la tradizione vuole fosse ingi-nocchiata la Santa durante il suo martirio, e sulla quale sarebbero rimaste prodigio-samente impresse le sue ginocchia. L’epi-sodio fu rappresentato nel 1575 da Paolo Veronese nella splendida grande pala so-vrastante il coro ligneo della basilica pado-vana ed anche, nel 1556, in un piccolo olio su tela conservato nel nostro Museo Civico agli Eremitani. In quest’ultimo si osserva la Santa morente inginocchiata, con il pet-to trafitto dalla spada e, sullo sfondo, un interessante particolare: un ponte percorso da un cocchio sul quale s’intravvede, mi-rabilmente miniaturizzata, la figura di lei accorrente dal podere del padre (che si ri-tiene fosse a Pozzoveggiani) per assistere a Padova, in “Campo martio” (Prato della Valle) i cristiani arrestati durante la perse-cuzione di Diocleziano del 304.

Si tratta del “Pontecorvo” (Ponte curvo) alla cui fine, provenendo dal centro città, sulla sinistra, si trova tuttora una picco-la edicola, ove la tradizione vuole che la Santa sia stata arrestata (evidente, nel di-pinto veronesiano, il soldato che frena la corsa della carrozza afferrando il cavallo per la briglia), nella quale era stata mura-ta la venerata “pietra”. Il cimelio restò in loco fino al 1405 allorché i veneziani – fi-nalmente padroni di Padova – la portarono come preda di guerra nella loro città de-positandola nella chiesa di Santa Giustina. Ma neppure lì trovò pace perché dopo la soppressione di quella chiesa a seguito de-gli editti napoleonici, la “pietra” fu fortu-nosamente trasferita nel 1810 nella chiesa di S. Francesco della Vigna ove tuttora si trova, e murata sulla parete della cappella dedicata a San Pasquale Baylon, terziario francescano spagnolo del Cinquecento.

Si tratta di un quadrato di pietra grigia di circa 80 centimetri di lato recante al centro due profonde incisioni, le traccie, secondo la tradizione, delle ginocchia della Santa al momento del suo sacrificio.

La sua autenticità è attestata da una piccola lapide sottostante (una specie di cartiglio) scritta in latino, datata 20 ago-sto 1462, che indica la data in cui la pietra

trafugata da Padova venne collocata a Ve-nezia nella chiesa di Santa Giustina.

Eccone la traduzione: “Per notizia a noi pervenuta dagli antenati a seguito di in-dubbia tradizione, è questa la pietra che qui riponemmo per la devozione dei fe-deli, sulla quale la Vergine Giustina im-presse il segno della sua genuflessione a seguito della preghiera fatta prima del suo martirio”. Vien dunque da chiedersi se non sarebbe bello ed altamente significativo ri-portare a Padova questo reperto che giace dimenticato in una chiesa veneziana nella cappella dedicata ad un personaggio illu-stre sulla cui santità non vi è dubbio alcu-no, ma che con la martire padovana non c’entra, francamente, nulla.

Costituirebbe la riparazione di un torto fatto da Venezia a Padova in tempi fortu-natamente assai lontani allorché perfino immagini sacre e simulacri legati alla tradi-zione religiosa potevano costituire ambite prede di guerra, nonché una dimostrazione di carità e di amore fra chiese sorelle.

Ove ciò avvenisse, la “pietra” torne-rebbe ad essere collocata nel luogo in cui Giustina fu arrestata, nel “suo” sacello ove oggi, per iniziativa di Leone Sattin, tito-lare della contigua officina di ciclo-ripa-razioni e di Giuseppe Faggin, simbolici custodi del sito, una bella raffigurazione della Santa detta “de’ Borromeis”, dipinta da Giovanni Bellini, copre un vuoto altri-menti desolante.

Giovanni Zannini

OSSERVATORIO

Paolo Veronese,Martirio di Santa Giustina, 1556,

olio su tela, Padova,Museo agli Eremitani.

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nascente Partito Fascista, ai cui destini rimarrà legato fino alla morte, avvenuta a Roma nel 1935.

Il libro di Giulia Simone, giovane studiosa di storia contemporanea attualmente in servizio presso l’Univer-sità di Padova, si sofferma proprio sugli anni padovani dello studioso e politico na-poletano, riportando anche un’interessante galleria di ritratti di conoscenti, amici e sodali di Rocco, con diversi esponenti del mondo poli-tico, economico e culturale della Padova di quegli anni.

Nell’aderire al movimento nazionalista Rocco definisce il proprio percorso politico sulle colonne del quotidiano del movimento, L’idea nazio-nale, prima propugna l’inter-vento italiano nella Grande Guerra, adducendo necessità di espansione soprattutto nel Mediterraneo, poi contribui-rà ad alimentare il mito della “vittoria mutilata”, arrivando persino a tentare di convin-cere Gabriele D’Annunzio al colpo di stato. Un vero paradosso per questo giurista e uomo d’ordine, caratteriz-zato secondo l’autrice da un profilo “sicuramente sfug-gente; versatile nei ruoli, ma coerente rispetto ad una de-terminata idea di Stato, fon-damento di ogni scelta da lui operata”. Un’idea basata sul

pratica del gruppo Calicanto (cui appartengono Tombesi e Ganassin), ma conservando un sapore di arcaica, quasi straniante, lontananza, dalla quale ritornano il violoncello di Giovanni Maria De Lotto detto Nane Vecio, il violino di Toni Perarola, l’organet-to di Aristide Perini detto Cocio… per scuoterci e farci ritrovare quel «moto d’alle-gria» che, cento anni dopo, non abbiamo più.

Luciano Morbiato

Giulia SimoneIL GUARDASIGILLIDEL REGIMEL’itinerario politico eculturale di Alfredo RoccoFranco Angeli, Milano 2012, pp. 240.

Quando nel 1922 le squa-dracce fasciste marciano su Roma, Alfredo Rocco in-segnava a Padova da più di dieci anni. Vi resterà fino al 1925: un periodo fondamen-tale del suo percorso accade-mico e politico, dato che pro-prio nella città del Santo ha affiancato all’insegnamento anche l’attività politica, en-trando nel 1914 in consiglio comunale nelle file dell’As-sociazione Nazionalista Italiana (ANI). Sempre da Padova Rocco appoggia il

e utilizzatore De Lotto Gio-vanni Maria, che fu maestro elementare a San Vito di Cadore e suonatore di vari strumenti nell’orchestra da ballo locale. Le scoperte di altri tre quaderni (tra i quali uno intestato Nord Ameri-ca / Giuseppe De Lucia 211 Parker Av. Clifton / Agosto 24-1911) hanno permesso agli autori di questo volume di gettare un fascio di luce su persone, gruppi e pratiche musicali legati alla cultura popolare nel Cadore tra Otto e Novecento, tra emigrazio-ne e guerre mondiali. In par-ticolare è delineato il ruolo della famiglia De Lotto, fino a Marino detto Coloto Velu-der (soprannome di famiglia relativo alla professione), liu-taio e suonatore di banjo, uno strumento proveniente d’ol-treoceano ma ben acclimatato tra le montagne, cioè adatta-to ai ritmi tradizionali, alle danze che nel lungo inver-no, in particolare per carne-vale, costituivano occasione d’incontro (tra i documenti fotografici figurano alcuni momenti di un ballo cui par-tecipa Virginia Margherita De Nadal, madre di Marino). Gli anatemi scagliati dai pul-piti, di montagna quanto di pianura, non bastavano evi-dentemente a scongiurare le peccaminose riunioni (quelle che si chiameranno “festine” negli anni ’50), nemmeno le minacce di qualche parroco di denunciare nella predica le ragazze che perseveravano a seguire il “passatempo del diavolo”…

Nella sua analisi del reper-torio di ballabili, Tommaso Luison li situa all’incrocio tra due tradizioni: popolare e colta, ma come scriveva Gramsci (circa 80 anni fa) la cultura popolare non rispet-ta gli steccati e quello che non produce direttamente fa proprio o adotta, così come appare anche dal glossario dei brani: accanto a polche, valzer, mazurche, gavotte, quadriglie, figurano mon-ferrina (monfrina) e villotta, fino a galop, varsovien, set-tepassi…, compresi il valzer dall’opera buffa Crispino e la comare, una inequivoca-bile berlingozza carnascia-lesca e un concier di testa (”sale in zucca”).

L’incisione di 34 brani – su un totale di 115 danze contenute nel manoscrit-to – ha costituito il corona-mento dell’operazione di filologia testuale, integran-do e arricchendo l’organi-co strumentale, com’è nella

RobeRto tombeSi, FRanceSco GanaSSin, tommaSo luiSonBALLABILI ANTICHI PER VIOLINOO MANDOLINOUn repertorio dalleDolomiti del primo ’900Nota, Udine 2012, pp. 125 (CD accluso).

«Per chi non ha cogni-zione del delicato suono del violino: suonatelo in una casa di molte persone ben quiete, ed all’improvvi-so tutti si alzano la mente e si mettono in un vigore, come di dare un moto di allegria che non aveano in principio»: queste conside-razioni sullo straordinario, quasi stregonesco potere di uno strumento musicale sono scritte in una lingua incerta ma efficace da un anonimo contadino trevigia-no, autore dello Scartafac-cio d’agricoltura 1805-1810 (a cura di LM, Neri Pozza, 1998). Esse sono un primo commento alle melodie e ai ritmi di danze che accompa-gnano il volume di Tombesi, Ganassini e Luison, dedica-to a un manoscritto di inizio ‘900, una storia centenaria che viene ripercorsa nelle sue fasi in un viaggio a ritro-so nel tempo, dalla scoper-ta allo studio analitico alla ritrascrizione e all’incisione.

Tra i frequentatori di un corso di Etnomusicologia del Conservatorio “Pollini” (corso soppresso per ovvi motivi di bilancio), Manue-la De Luca aveva portato a lezione un quaderno pen-tagrammato con il marchio dello Stabilimento musicale G. Zanibon di Padova, con-tenente decine di partiture di danze per violino o mando-lino; la sigla DLGM indica probabilmente il proprietario

Biblioteca

PADOVA, CARA SIGNORA...Biblioteca

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lio Alessio è stato quello di maggiore risonanza per la sua autorità nel campo delle scienze economiche e giuri-diche e per il suo lungo iter di parlamentare fino ad esse-re per tre volte ministro tra il 1920 e il 1922.

Ma, in verità, la sua memoria, a distanza della morte avvenuta nel 1940, non è stata adeguatamente conservata per i suoi meri-ti di protagonista di primo piano nella scena politica italiana: statista di alto livel-lo e uno dei massimi politici del radicalismo settentrio-nale.

Alba Lazzaretto, vicen-tina, docente di storia con-temporanea, pubblica ora questa biografia, sufficente a divulgare la posizione di Giulio Alessio nel suo lungo operare dalla fine dell’Ot-tocento alla crisi dello Stato liberale e al sopraggiungere del fascismo.

L’esordio in politica fu nel Consiglio comunale di Pado-va alla fine dell’Ottocento, in quella Padova “roccaforte della Destra Storica” che per sua determinante azione subì

Destra e Sinistra, protrattasi anche dopo l'Unità.

La “Sinistra risorgimen-tale” nel Veneto austriaco non ha avuto molto spazio nella storiografia: un tema ora affrontato richiamando alcuni protagonisti, tra i quali gli aderenti al Partito d’azio-ne nella lotta anti-austriaca negli anni precedenti la terza guerra d’indipendenza, quan-do, dopo Villafranca, si attu-tisce il contrasto tra mode-rati ex democratici, quando Alberto Cavalletto, notoria-mente monarchico e forte-mente legalitario, sarà posto a capo del Comitato centrale politico veneto (relazione di Annamaria Longhin).

Nel contempo anche Gari-baldi risulta più “controlla-bile” rispetto a Mazzini, rap-presentando un’“anima rivo-luzionaria”, ma “imbrigliata entro i limiti della legalità governativa” (Angela Maria Alberton).

Negli anni immediatamen-te precedenti il 1866 falli-scono in Cadore i tentativi armati avversati dal Caval-letto (Elio Franzin).

Un resoconto morale e finanziario delle Società dei reduci garibaldini (Memoria nel Museo del Risorgimen-to di Vicenza), in un territo-rio con grande contributo di volontari, documenta, dopo la svolta del secolo, una direzione monarchica, deci-samente anticlericale (Mario Passarin).

Una cognizione biografi-ca di 849 garibaldini veneti partecipanti alle guerre d'in-dipendenza segnala una pre-valenza di veneziani e vicen-tini, con maggiore presenza di artigiani e operai (quasi l'80%), minore tra i commer-cianti e in altre professioni (Franca Cosmai).

“Presenze mazziniane e garibaldine” si ritrovano tra gli affiliati della Socie-tà dei Veterani del 1848-49

principio organicistico del-la società che, opposta alle concezioni individualistiche, influenzerà profondamente Mussolini.

L’adesione al Fascismo cambia la vita del professore, portandolo a spiccare il volo verso una fulgida carriera romana. Dopo l’elezione a deputato nel 1921 Rocco sarà presidente della Camera – ne-gli anni del delitto Matteotti e dell’Aventino – e infine ministro di grazia e giusti-zia. Il giurista napoletano si mette in luce soprattutto in quest’ultimo ruolo, ricoperto per quasi otto anni, contri-buendo alla conclusione dei Patti Lateranensi e all’opera di fascistizzazione giuridica e istituzionale dello Stato, in primis attraverso il nuovo co-dice penale (tutt’ora vigente) e il codice di procedura pena-le. Nella sua ideologia lo sta-to è quell’armatura d’accia-io (l’espressione è di Paolo Ungari), che sola garantisce lo sviluppo ordinato della società civile, secondo una strategia istituzionale che mira a creare uno “stato au-toritario di massa”. Lo stato come organismo etico, “che domina tutte le forze esistenti nel Paese, tutte le coordina, tutte le inquadra e tutte le in-dirizza ai fini superiori della vita nazionale”, perché “solo quando lo Stato domina tut-te le forze che esistono nel Paese c’è la vera libertà” (p. 181-190).

La parabola politica ini-zia la sua discesa nel 1932, quando Rocco viene mes-so da parte senza troppi complimenti da Mussolini, ormai convinto che le sue competenze siano già state sfruttate. Come consolazio-ne arriva la nomina a rettore della Sapienza, dove Rocco comunque inizia quella pro-fonda fase di rinnovamento che porterà alla costruzione dell’attuale cittadella univer-sitaria.

Daniele Mont D’Arpizio

LA SINISTRARISORGIMENTALE NEL VENETO AUSTRIACOAtti Convegno in PadovaA cura di Giampietro BertiIl Poligrafo, Padova 2012, pp. 183.

Nel complesso procedere del Risorgimento il Veneto si distingue per un predo-minante moderatismo, con forze spesso contrappo-ste, con netta divisione fra

Biblioteca

di Padova e provincia con diversi aspetti della sinistra risorgimentale: “tempera-menti garibaldini, garibaldi-ni tardivi, simpatici, antipati-ci” (Mario Zangrando).

Ad un mazziniano vene-to di Oderzo, lo scrittore e poeta patriottico Francesco Dell'Ongaro è dedicato un profilo biografico, ricordan-do i suoi “Stornelli” tosca-neggianti e la sua attività sempre ardente di spirito mazziniano, in contrasto con l'ambiente conservatore (Luigi Urettini).

Rilevante è la tradizione risorgimentale nel Polesi-ne lungo “un filo rosso di coraggio, serietà e dedizio-ne”, che dalla Carboneria ad Alberto Mario e Jessie White e infine al socialista Badaloni e Giacomo Mat-teotti distingueranno questo territorio veneto (Eva Cec-chinato).

Altro territorio veneto, con distinzioni operative tra città e campagna, è quello della Bassa Padovana ove il volontariato garibaldino si confonde con quello disor-ganizzato e popolare per il riscatto e avanzamento sociale (Francesco Selmin).

La complessa figura di Carlo Tivaroni, autore della “Storia critica del Risorgi-mento italiano” pubblicata tra il 1883 e l'87, è analiz-zata anche dal punto di vista della sua attività di politico, di combattente, giornalista e funzionario governativo (Gianni A. Cisotto).

Nell’ultima relazione, “Fede critica della religione alle origini dell’emencipio-nismo italiano 1865-1870”, si parte dal momento iniziale della pubblicazione de “La donna” a Padova, che fu esclusa dalla pubblicazione durante il plebiscito. È que-sto un capitolo ove ben si ravvisa la discrasia tra pro-tagonismo risorgimentale e codificazione dello Stato liberale nei confronti della cittadinanza femminile, che nel Veneto ebbe un rilevante momento iniziale per meri-to, a Padova, della Gualberta Beccari (Liviana Gazzetta).

Giuliano Lenci

alba lazzaRettoGIULIO ALESSIOE LA CRISI DELLOSTATO LIBERALECleup, Padova 2012, pp. 179.

Tra i politici nati a Pado-va e operanti dal 1866, Giu-

una svolta, con la “stagione democratica” nel susseguen-te secolo, in epoca giolittia-na, con il sindaco Giacomo Levi Civita a capo di un “blocco popolare” di libera-li progressisti e di socialisti, capaci di resistere ai conser-vatori e clericali, ponendo le basi della moderna città, con una popolazione residente aumentata da 81.343 abitanti nel 1901 a 96.118 nel 1911.

Si procede con i momen-ti fondamentali della nostra storia nazionale, rilevando quanto il pensiero politico di Alessio, riletto oggi, possa apparire di straordinaria modernità, fondato su molti dei concetti del partito radi-cale, ma distinguendosi per il rigore con cui egli operò

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DaRia maRtelliPER L’ITALIANOIN ITALIAComitato “Dante Alighieri”, Padova 2011, pp. 71.

In questo libretto, frutto di una ricerca promossa dal Comitato di Padova della “Dante Alighieri”, la stu-diosa e scrittrice padovana fa il punto sulla situazione della lingua nel nostro paese. Corredato dalla Prefazione della presidente del Comi-tato della “Dante” Raffael-la Bettiol, dalla Postfazione del vicepresidente Giuseppe Iori e da una ricca biblio-grafia, il saggio è una luci-da e preoccupata disamina dello svilimento della nostra lingua, in atto nel Paese, e delle sue implicazioni socia-li e politiche. L’italiano è in forte declino – afferma l’au-trice –, impoverito da una crescente ignoranza e da una sempre più scarsa frequenta-zione dei testi letterari e dei libri in generale, dal prolife-rare delle varietà del “buro-cratese”, dall’invasione di anglicismi superflui e di un anglo-americano altamente specialistico che si impone a livello capillare e massivo con le tecnologie informa-tiche, arrivando a sostituire in molti ambiti, interamente, la lingua italiana. Che fare? Riportando alcune iniziati-ve attuate negli ultimi anni a difesa dell’italiano e sugge-rendo le proprie, la scrittrice auspica una vasta mobilita-zione a tutti i livelli per la lingua e la cultura italiane. “La situazione linguistica ha inevitabilmente risvolti sociali e politici” afferma. “Se gli italiani non capisco-no il linguaggio usato intor-no a loro, di fatto vengono emarginati, stranieri nel pro-prio paese”. “La difesa della lingua è anche e soprattutto difesa del cittadino consu-matore e del suo diritto di essere informato, sul terri-torio nazionale, in italiano, in modo chiaro e compren-sibile”. Purtroppo, come evidenzia la seconda parte del saggio, in cui sono ripor-tati i più svariati esempi di uso quotidiano, massivo e ingiustificato dell’inglese al posto dell’italiano, con rela-tiva alienazione di quest’ul-timo (esempi colti per caso in alcuni mesi fra il 2008 e il 2009 a Padova e dintorni, sulle pagine dei quotidiani, nei programmi televisivi, per le strade, nei locali pubbli-ci), il cattivo esempio viene

Enrico III del 1047, mentre l’ultimo ricostruisce la vi-sita a Tencarola di ben due Presidenti della Repubblica. I testi prendono spunto da fatti di cronaca attinti tra le tante vicende, le persone e gli episodi che hanno avuto per scenario le terre in riva al Bacchiglione. S’alternano così ad anonimi personag-gi, come il cuoco Pasquale di Tencarola che nel 1292 siglò un contratto di lavoro per condurre la cucina di una neonata comunità religiosa a Venezia, celebri protagonisti della storia italiana. È il caso di Federico II di Svevia, che nel 1232 investì del feudo di Tencarola l’abate di Praglia; di S. Bernardino da Siena, il cui transito per la strada Montanara (Padova-Teolo) è attestato da una formella del XV secolo realizzata con la stessa matrice di un’analoga terracotta esposta al Museo Diocesano; dell’architetto Andrea Moroni, chiamato dall’abate ad un consulto sulle condizioni della chie-sa parrocchiale. Caterina Cornaro, regina di Cipro, a sua volta soggiornò in riva al Bacchiglione, nel palazzo eretto dal fratello Giorgio nel 1491 e bruciato dall’im-peratore Massimiliano I d’Austria nell’agosto 1509 (un articolo ripreso nel nu-mero 148 di questa rivista). A Tencarola poi, nel giugno 1853, trovò tragica fine la milanese Antonietta Verri in Leoni, figlia del celebre Pietro e madre dell’epigrafi-sta Carlo Leoni, sì che dopo le esequie la salma fu tumu-lata nel locale cimitero dove tuttora riposa.

La carrellata di fatti di cro-naca, che qui non è possibile elencare analiticamente, si conclude come detto con le visite a Tencarola di Antonio Segni nel 1962 e Sandro Pertini nel 1985, cui segue il resoconto della ricollocazio-ne sul sagrato della colonna, con il leone di San Marco, avvenuta nel marzo 2000. In appendice al volume un al-bum d’istantanee sulla demo-lizione della vecchia chiesa e la contemporanea costruzio-ne della nuova, un prezioso indice dei nomi e l’apparato delle fonti (bibliografiche e archivistiche). Una riprova della serietà e del valore del libro fortemente voluto da una Comunità che, come si legge in apertura, è memore della propria storia.

Carla Frasson

clauDio GRanDiSTENCAROLAQuando la cronacasi fa storiaParrocchia San Bartolomeo, Tencarola 2010, pp. 300.

Stampato per celebrare il mezzo secolo di vita del-la chiesa parrocchiale di S. Bartolomeo di Tencarola, il libro scritto da Claudio Grandis è in realtà una fe-lice sequenza di episodi di cronaca che, come eviden-zia il sottotitolo, lo scorrere del tempo ha trasformato in storia. L’opera si apre con la ricostruzione del clima e delle persone che nel decen-nio 1950-60 popolavano la piccola frazione (nel 1951 contava 1385 abitanti) del comune di Selvazzano, appe-na oltre i confini del territorio cittadino. Protagonista e regi-sta indiscusso di quel decen-nio fu il parroco don Angelo Bertolin (1912-1971), noto ai più con lo pseudonimo di Giacometo per gli oltre 600 articoli e racconti di cronaca e costume che in lingua ve-neto-padovana scrisse per il

in politica e nella vita acca-demica.

Già alla fine dell’Otto-cento aveva dato avviso dell’elevata tassazione in Italia (40-45% della rendi-ta) e della scarsa attendibilità dei conti pubblici. E dopo la Grande Guerra già propone-va il turismo per migliorare i nostri bilanci.

Sin dal primo manifestar-si del fascismo ne colse la natura liberticida, e quin-di raccomandò l’imperiosa necessità di difendere le isti-tuzioni democratiche dello Stato. Fondamentale impor-tanza fu per lui la conoscen-za della storia, secondo i precetti del Romagnosi e di Ugo Foscolo.

Di estremo interesse cono-scitivo è nel libro il periodo finale del secondo Governo Facta, quando nell’agosto 1922 Giulio Alessio, mini-stro di Grazia e Giustizia, sostenne la necessità di pro-clamare lo stato d’assedio laddove maggiori erano le violenze fasciste in un clima di guerra civile.

I retroscena dei giorni suc-cessivi fino alla marcia su Roma, ricostruiti da Alessio in un memoriale del 1928, testimoniano la debolezza, la viltà, i giochi politici che dovevano condurre all’i-nerzia operativa di fronte ai pericoli sovrastanti.

Alessio testimonia che i tre mesi precedenti la mar-cia su Roma furono “uno dei periodi più crudeli ed effe-rati che la storia del nostro paese ricordi... La violenza non era repressa, mentre l’o-pinione pubblica non sape-va comprendere la paralisi e l’indolenza del Governo”.

È ben evidente il contra-sto insanabile tra la posizio-ne coraggiosa, e purtroppo quasi del tutto isolata di Alessio, e quella del presi-dente del Consiglio Facta, indeciso e incapace di arre-stare il fatale procedere degli avvenimenti.

Alessio non cederà nem-meno dopo la sconfitta nel tentativo di difendere fino all’ultimo lo Stato libe-rale avversando non senza rischio lo Stato-partito a cominciare dalle leggi di Giacomo Acerbo.

Una vita, dunque, quella del padovano Giulio Ales-sio, così realmente esem-plare nella storia nazionale, che questo libro consente di conoscere, anche per non dimenticare.

Giuliano Lenci

Biblioteca

settimanale diocesano de “La Difesa del Popolo” dal 1940 al 1967.

Un ampio e articolato sag-gio sul culto e la figura di S. Bartolomeo apostolo pre-cede le pagine sulla genesi della comunità religiosa di Tencarola, che Grandis ri-allaccia, con argomenti e documenti, alla pergamena bresciana del 17 novembre 878, il più antico testo scrit-to che menziona la corte di Quarto e l’oratorio di S. Maria, cioè il territorio che si stende tra Tencarola, Caselle e Selvazzano. Seguono que-ste pagine altri venti saggi, due per ogni secolo, arric-chiti da un appropriato cor-redo iconografico rigoro-samente in bianco e nero a supporto e illustrazione dei contenuti. Il primo evento narrato risale al diploma di

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che, come già in precedenza, largo e meritato spazio occu-pano le vicende riferite agli aeronauti e ai loro palloni, aerostati, mongolfiere fino ai dirigibili. E però, c’è atten-zione competente agli aerei nella smisurata quantità di tipologie differenti quanto all’uso (civili, militari, spor-tive, commerciali), quanto al genere (velivoli, elicotte-ri, alianti, macchine speri-mentali con o senza segui-to di produzione in serie), quanto a netta diversità di motorizzazione o di sistemi propulsivi. Si snoda così una narrazione molto riguardosa delle esigenze cronologiche particolarmente importan-ti nelle fasi pionieristiche e addirittura pre-pionieristiche della conquista del cielo, nelle quali si confondevano gli esperimenti sui due ver-santi dei mezzi più leggeri e poi dei più pesanti dell’a-ria. Rispettando tuttavia un dato storico incontrover-tibile. La competizione, in fondo involontaria e non programmata, si risolse in tempi relativamente brevi, in favore dell’aeroplano per le incomparabilmente superio-ri caratteristiche di velocità, capienza e possibilità evolu-tive. Quando sgraziati trabic-coli tutti tiranti e ali telate si cimentavano nei primi sob-balzi, già palloni e dirigibi-li solcavano solenni i cieli europei. Possedevano ormai una discreta sicurezza e testimoniavano un certo stile di viaggiare anche su lunghe tratte. Ma potevano solo gal-leggiare nell’aria, in qualche modo in balia dei venti o, al più, spostarsi lentamen-te spinti da motori modesti rispetto alla loro mole. Altra era invece la prospettiva di pilotare macchine realizza-te da una tecnologia tutta da sviluppare che aveva tradot-to in pratica la legge della portanza, consentendo di fendere sempre più veloci l’aria verso luoghi prestabili-ti in tempi celeri sicuramen-te calcolabili. Questo era il vero sogno di inizio secolo che più odorava di futuro e su questo si avviò una irre-sistibile corsa di perfeziona-mento.

Come si diceva, piena-mente avvertito di queste proporzioni, l’autore prima dà la giusta precedenza stori-ca agli aerostieri (precursori del volo fin dalla seconda metà del Settecento) poi, nelle narrazioni, ne inter-seca le imprese con quel-le dei costruttori e piloti di

notorietà. Ma non sempre la rinomanza è proporzionale ai reali valori testimonia-ti anche da personaggi che si rivelarono, a conti fatti, determinanti nello svilup-po complessivo di scien-ze e tecniche del volo pur rimanendo nell’ombra per circostanze fortuite, per incomprensioni dei potenti loro contemporanei o per-ché incontrarono immotivate resistenze ad un appassiona-to lavoro che, sebbene svol-to in silenzio, suscitò non di rado invidie e rivalità nei loro stessi ambienti.

Il 24 giugno scorso Evan-gelisti ha presentato, nella suggestiva sala delle mon-golfiere al castello di San Pelagio - Museo dell’aria di Due Carrare, l’ultimo frutto di questa sua fatica, ad un folto pubblico di appassio-nati e ad alcune “vecchie glorie” militari e civili degli Anni 40 e 50 nel mondo degli aeroplani. È l’ottavo volume, di grande formato e riccamente illustrato, che conclude (solo per ora?...) la collana “Gente dell’aria”, un’autentica enciclopedia di quanto merita di essere ricordato nel percorso ormai ultrasecolare della scalata al cielo da parte del più leggero e poi del più pesante dell’a-ria. Naturalmente (il titolo ricorrente lo rammenta), par-lando sì di macchine alate, ma per mettere a fuoco sem-pre meglio chi le ha concepi-te, costruite, sperimentando a terra e in volo, strutture, propulsori e i più vari conge-gni ad esse asserviti.

In questa “opera ottava” della preziosa serie, l’auto-re perfeziona ulteriormente l’equanime distribuzione dei successi, dei temporanei fal-limenti, di successive resur-rezioni nell’ideare, proget-tare e costruire le macchine volanti dando… a ciascuno il suo. Lo dimostra il fatto

conoscenza e al sapere”. E ricorda i due scienziati tede-schi, Ralph Mocikat e Her-mann Dieter, che si battono per difendere la loro lingua, nelle dissertazioni scientifi-che, dall’uso preponderante dell’inglese, riportando per intero il loro notevole artico-lo già pubblicato sul perio-dico dell’Accademia della Crusca. “Tuttavia – prose-gue Daria Martelli – mentre si rivendica giustamente il rispetto delle varie identità regionali espresse dai dialet-ti, e altrettanto giustamente ci si preoccupa di rispetta-re le identità culturali delle etnie immigrate in Italia, l’e-sigenza, anzi, l’urgenza di salvaguardare l’identità cul-turale di tutti gli italiani sul loro territorio nazionale non è affatto avvertita.” Manca una generale consapevolez-za della nuova “questione della lingua”. Basta pensare che solo nel 2007 un decreto legge ha colmato una grave lacuna della nostra carta costituzionale, riconoscendo l’italiano come lingua nazio-nale.

Maria Luisa Biancotto

GioRGio evanGeliStiGENTE DELL’ARIA 8IBN Editore, Roma 2012, pp. 216.

È il nostro saggista di storia aeronautica oggi più autorevole. A lui va il meri-to di aver sapientemente fatto riemergere dalle pieghe nascoste di cronache d’e-poca persone e fatti misco-nosciuti dell’avventura del volo, per restituirli all’onore di una sapiente divulgazione.

Detto altrimenti, Giorgio Evangelisti è un “riparato-re” dei peccati di omissione commessi dalla storiogra-fia aeronautica ufficiale del nostro Paese, talora troppo indulgente nel consegnare biografie di scienziati, piloti, imprenditori che si cimen-tarono nella conquista del cielo, all’enfasi dei prima-ti, all’epica guerresca, alla gloria sportiva. Certo, come è di tutte le grandi impre-se dell’uomo che hanno cambiato profondamen-te conoscenze e costumi di vita, pure nelle vicende che segnarono l’affermarsi dei mezzi aerei tennero il pro-scenio campioni di ardimen-to, intelligenza, di geniale intuizione teorica o pratica assurgendo – baciati maga-ri da una dose di fortuna – all’Olimpo di una esaltante

innanzitutto dai nostri poli-tici, dalle istituzioni e trova amplificazione nei media. Così , dopo i famosi “I care”, “We can” di veltronia-na memoria, e il programma di “Green economy”, ecco i vari: “tiket”, “premier”, “ministero del Welfare”, “authority”, “devolution”, “governance”, “election day”, “class action”, “social card”, “reato di stalking”, “speaker”, “new tow” (rife-rito all’Aquila), solo per cominciare. Anche il sito ufficiale della Regione Vene-to sembra pullulare di angli-cismi: gli “e-government”, “e-procurement”, “e-lear-n ing” , “e -democracy” , “identità e governance” si sprecano. Persino il marchio per promuovere il turismo italiano è “Magic Italy”! Gli Enti pubblici, si osserva, colgono le più varie occasio-ni per comunicare in inglese con i cittadini. Un esempio? La Provincia di Padova: “Card over 70”, “Zona di pesca no-kill luccio” “Giano Family”. Il Comune di Pado-va: “Town center manage-ment”, “stewart urbani, “fa-mily card”, “kit”, “Spritz angels”, “Friends” (psico-logi che spiegano i danni della droga). Per non parlare dell’Azienda Ospedaliera, della radiotelevisione nazio-nale, dei nomi delle mani-festazioni pubbliche e delle varie iniziative. Un reper-torio perfino esilarante, se non fosse allarmante: “Così abdichiamo alla nostra iden-tità culturale, che è in primo luogo linguistica”. E, citan-do Calvino, l’autrice ricorda che “ogni lingua è un siste-ma di pensiero a sé stante, intraducibile”, “Ogni madre-lingua è molto di più che un semplice mezzo di trasmis-sione di saperi precostituiti, rappresentando un impre-scindibile strumento indi-viduale per accostarsi alla

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cui a condizioni di autentica miseria e incolpevole igno-ranza si sommavano penosi schemi mentali sull’onorabi-lità delle persone, in partico-lare delle donne, con ottuse e spietate condanne mora-li in caso di concepimenti fuori dal matrimonio. Come racconta, appunto, in modo sempre efficace, il romanzo del padovano Pietro Galletto intitolato “La ruota-cesuranti ed esposti” che fu 30 anni fa un best seller per i tipi di Borla. Ora è stato ristampato dal Movimento per la Vita di Venezia Mestre, al quale si può richiederlo essendo fuori commercio.

Rivisitando brevemen-te, a distanza di sei lustri, la preziosa opera di Galletto, frutto di certosine ricerche archivistiche poi inserite nel suo affabile stile nar-rativo, si rivivono vicende toccanti di quei bimbi che furono chiamati anche tro-vatelli e, nelle espressioni più rozze e impietose figli di nessuno. Le ruote erano quei congegni semplici che raccoglievano i neonati altri-menti destinati alla morte, senza che la madre corresse il rischio di un indesiderato riconoscimento. La “ruota” fu in voga nelle società basso medievali, era l’em-blema che meglio qualifi-cava l’attività delle Case di Pietà e funzionò per seco-li a beneficio degli strati di popolazione soprattutto rura-li più diseredati.

Ma le Case non serviva-no ai soli “figli del pecca-to”. Durante le grandi crisi alimentari o per altre dolo-rose vicissitudini delle fami-glie più povere, succedeva anche che i modesti cespi-ti non riuscissero a sfamare qualche bocca in più. Inol-tre si adempiva ad un’altra funzione meritoria, quella di collocare, a mezzo di un singolare contratto: il balia-tico, i bimbi presso famiglie esterne per l’allattamento e in seguito per un completo mantenimento.

E veniamo ai nostri gior-

strutture religiose non pos-sono essere considerate un corpo separato a sè, che vive fuori della società”.

All’ambiente veneto, in particolare vicentino, De Rosa attribuiva valore per gli effetti della sua produzione: “Storici si diventa con l’in-dagine diretta sui luoghi, at-traverso le ricerca sul campo. Estratto dal Veneto, non sarei che poca cosa”.

Il decennio 1981-2001 è il tempo delle iniziative verso l’area adriatica balca-nica, e poi anche oltre, verso Xiew, sempre secondo la sua concezione di considerare la storia religiosa senza confini.

La seconda parte del vo-lume comprende una lunga appendice che raccoglie nu-merose pagine di De Rosa, i suoi “Diari”, cominciati nel 1943.

La lettura di questa au-tobiografia ci riconduce ai diversi passaggi della sua operosità, con il ritratto di un singolare intellettuale italiano, cattolico ma contro l’anticlericalesimo.

Giuliano Lenci

PIETRO GALLETTOLa “ruota”:cesuranti ed esposti” Ristampa 2012, a cura del Movimento per la Vita di Vene-zia Mestre, pp. 307.

Revival della “ruota” degli esposti, salvagente per neo-nati frutto … della colpa, abbandonati nottetempo den-tro il contenitore anonimo alle cure di un ente carita-tivo? Certamente no. La storia si ripete, è vero, ma raramente nelle stesse forme e circostanze del passato. Però, è accertata la notizia che, nelle pieghe della attua-le crisi, generatrice di innu-merevoli indigenze, sono in aumento i casi di abbandono dei neonati, dopo il parto, negli ospedali o nelle culle termiche. Quindi in forme generalmente lontane da tentazioni infanticide (salvo situazioni-limite disperanti) e però rivelatrici di drammi umani attraversati da giova-ni mamme prive di mezzi di sostentamento, poi pagati talora anche dai loro bambi-ni con un’infanzia difficile quando non compensata da una riuscita adozione.

Così torna la “ruota”, però in edizione mitigata da un clima sociale e culturale non paragonabile alle epoche in

to da un pubblico estraneo al mondo degli specialisti di storie moderna, contempo-ranea, ecclesiastica e socia-le per il semplice fatto che generazioni di studenti di scuola media e universita-ria hanno appreso le prime nozioni, a partire dal 1871, dai suoi manuali, ai quali egli si dedicò con meticolosa cura, ottenendo un duraturo condiviso successo pedago-gico.

La sua attività non si è pe-raltro ristretta alla sua speci-fica materia per una moltepli-cità di interessi: l’impegno civile, la devozione di catto-lico (importante il rapporto con Dossetti), il resoconto biografico di chi aveva par-tecipato agli eventi di guerra, in particolare in Africa ad El Alamein.

“Ricordando alcuni itine-rari di ricerca” (questo vo-lume, a distanza di 3 anni dalla sua morte (De Rosa era nato a Castellamare di Sta-bia nel 1917) raccoglie molti contributi che illustrano da diverse proiezioni momenti di ricerca, di insegnamento, di operatività magistrale nel Veneto e oltre confine, partecipando alla vita del suo tempo, a cominciare dall’interesse per la “religio-sità popolare” (considerata da Michele Cassese).

Nel clima politico degli anni Sessanta il passaggio nell’Università di Padova coincide con la novità di “produrre storia” eviden-ziando la complessità delle trasformazioni nella società e nella Chiesa. È del 1966 la fondazione del “Centro studi per le fonti della Chiesa nel Veneto da Campoformio alla prima guerra mondiale”.

Altri gruppi di lavoro in quel periodo di sommovi-mento morale e sociale si dedicarono sotto la sua rigo-rosa guida ai problemi socio-religiosi affermando che “le

aeroplano che, dal fatidico balzo dei fratelli Wright nel 1903, diventeranno in misu-ra accelerata preminenti. Per dare un’idea dello spes-sore di “Gente dell’aria 8” citiamo alcuni dei ventidue personaggi trattati: Paolo Andreani, Pasquale Andre-oli, Pasquale Cordenons, Vincenzo Lunardi, Anto-nio Marcheselli e l’antesi-gnano Francesco Zambec-cari tra i pionieri del volo aerostatico e i dirigibilisti; Ercolano Ercolani, Ambro-gio Colombo, Guido Mon-cher, Aldo Ravaglia, Bruno Militi, Armando e Adriano Toschi, Bruno Lovera tra i progettisti, costruttori, pilo-ti e tecnici di valore con le più eclettiche capacità idea-tive e realizzative. E anche due capitoli curiosi: Eugenio Grignani e la sua motociclet-ta del cielo, Don Agide Testi e il suo elicottero.

Una nota singolare sulle attitudini di questo auto-re riguarda proprio la sua scrittura: sa essere narratore coinvolgente quando rievoca storie mozzafiato di uomini con le loro macchine alate usando il linguaggio dei romanzieri; e però, insieme, sa onorare la sua vocazione di storiografo tosto, umile, eppur brillante nei risultati, quando va a scavare, pazien-te e inesorabile, i tratti tra-scurati dalla letteratura pre-cedente sulla materia inda-gata. Non per stupire, ma per colmare vuoti favorendo una più completa conoscen-za di uomini e di eventi, illuminati solo parzialmen-te dalle cronache e dalle documentazioni disponibili. In tal modo, nella sua ultra-quarantennale attività sag-gistica, l’autore è stato, ed è, apprezzato sia dal patito in cerca di emozioni, sia dal lettore che, amando appro-fondire anche i dettagli, trova risposte forse incon-sciamente attese riguardan-ti persone ed eventi liberati dal limbo dell’oblio o della noncuranza.

Angelo Augello

GabRiele De RoSaTRA VICENZA, VENETO ED EUROPA ORIENTALERicordando alcuniitinerari di ricercaCleup, Padova 2012, pp. 311.

È un caso singolare che il nome del Maestro Gabriele De Rosa sia noto e ricorda-

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del Sermone sulla mitologia e dedicandogli una raccolta di saggi. Ora prende in consi-derazione la figlia, Costanza Monti Perticari (1792-1840), commentandone il poemetto L’origine della rosa, cui fa precedere una attenta e parte-cipata introduzione dal titolo un po’ poetico, Il tempo di fiorire. Viaggio nella poesia (e dentro di sé) di Costanza Monti Perticari.

Ripercorrendo il percor-so esistenziale di Costanza Monti, condizionato dalla grandezza del padre e dal-la sorda ostilità della madre Teresa Pikler, che si oppose al matrimonio della figlia con Andrea Mustoxidi, che aveva collaborato alla tra-duzione dell’Iliade, prefe-rendogli il conte pesarese Giulio Perticari, la Favaro mostra come per Costanza la passione letteraria, oltre a essere inevitabilmente indot-ta dall’ambiente familiare, sia stato un modo per espri-mere la propria interiorità, altrimenti repressa sotto il velo della figlia obbediente e della moglie fedele. Sia ben chiaro: la poesia di Costanza Monti, e in particolare quella del poemetto qui pubblicato, nasce da un continuo prelie-vo dagli ammirati poeti della tradizione classicheggiante, i lirici latini e poi la serie più autorevole di quelli italiani (per L’origine della rosa so-prattutto Angelo Poliziano), e perciò può risultare l’esito di una operazione intellettua-listica, senz’altro elegante, ma algida e tutto sommato distante. E pur tuttavia, giu-dicare il poemetto “un mero centone” è, per la studiosa, “un’interpretazione troppo drastica, censoria e limitan-te”. Infatti il racconto della trasformazione della ninfa Rodia, ostile all’amore, in una rosa candida, corrispon-dente alla sua verginità, e poi, con una seconda defini-tiva metamorfosi, in rosa ma-culata del rosso del sangue di Venere, che sulle spine del fiore si era punta, divenendo così simbolo della passione amorosa, va letto non solo come un viaggio nella lette-ratura, ma soprattutto come un inabissarsi da parte della poetessa nella propria con-dizione di donna, nella pro-pria più profonda sensibilità, che non potrebbe esprimersi altrimenti se non attraverso lo schermo della letteratura. Allora, a conclusione del-la sua indagine critica, la Favaro si chiede: “Non è for-se possibile che, nel destino

con privati cittadini. Non ci fu quindi pace nella trava-gliata vita dello sfortunato speziale, che molto spes-so arrivò al punto di veder messa all’asta la propria casa in contrada S. Daniele, riu-scendo tuttavia sempre a sal-varsi dal disastro finale, o di rischiare di venir ucciso, come quando, ormai in età avanzata, venne aggredito e ferito da un vicino di casa. Parallelamente alle vicende personali di Giulio, si muove tutta una serie di altri perso-naggi che interagiscono con la sua famiglia, presentando-ci un interessante quadro del vivere quotidiano dell’epo-ca, come il litigio tra Giulio e il suo confinante, a causa dell’inquinamento del pozzo che avevano in comune, o quello con l’ex genero che, pur continuando ad abitare in casa dello speziale, pre-tendeva che gli venisse rico-nosciuta una parte della dote della defunta consorte.

Grazie al lavoro d’archi-vio, l’autore riesce a loca-lizzare un’altra casa che Giulio Beolco possedeva ai Vignali, la stessa contrada in cui abiterà Galileo Galilei, e a individuare le abitazioni delle famiglie che risiedeva-no nella zona circostante le case della famiglia Beolco, lungo l’attuale via Umber-to I, e quella con bottega di Giulio.

Il volume si chiude con alcune considerazioni sull’e-voluzione urbanistica dell’a-rea attorno alla chiesa e al ponte, non più esistente, di S. Daniele, documentata da una interessante serie di piante e disegni che vanno dal XVI secolo fino alla Pianta di Padova del Valle.

Roberta Lamon

FRanceSca FavaRoCOSTANZA MONTIali&no editrice, Perugia 2012, pp. 119.

Anche se affronta una ma-teria che esula dagli interessi della rivista, merita almeno una segnalazione questo li-bro della padovana Francesca Favaro, se non altro per se-gnalare l’appassionata e con-tinua attività di ricerca della studiosa. La Favaro, che ha al suo attivo una ampia serie di studi che si indirizzano in buona parte sui rapporti tra la poesia classica e quella italiana, si era già interes-sata in passato di Vincenzo Monti, curando l’edizione

FRanceSco liGuoRiGIULIO BEOLCOSPEZIALEALL’INSEGNA DEL “SOLE” NELLA PADOVADEL ’500Esedra Editrice, Padova 2012, pp. 148.

Sullo stesso filone d’in-dagini che ha portato alla pubblicazione di I caval-li di Ruzante e Le donne di Ruzante, scritti in collabo-razione con Andrea Calore, si fonda anche questo libro, che ha come protagoni-sta Giulio Beolco, speziale nella contrada di S. Daniele e cugino del Ruzante.

Pur vivendo nello stesso periodo, Giulio non ha nulla da condividere con il gran-de commediografo del Cin-quecento, se non la stretta parentela, ma il personaggio che emerge dalle numerose testimonianze documentarie raccolte da Francesco Liguo-ri ci permette di scoprire aspetti ignorati o poco noti della vita che in passato si svolgeva nella nostra città,

ni. Il fatto nuovo è che oggi, in Italia, circa 400 bambini all’anno, nati da mamme in grossa difficol-tà, vengono dichiarati adot-tabili poco dopo la nasci-ta. Le donne protagoniste di queste vicende, talora anche senza fare ricorso alle moderne“ruote” (culle termiche) sistemate in vari ospedali, dopo aver parto-rito scelgono di non esse-re nominate, in base ad una legge statale una volta tanto adeguata alle necessità attuali. Avranno tempo tre mesi per ripensarci nel caso intervengano fatti che modi-ficano in senso positivo la loro precaria situazione con possibilità di tenere e alle-vare il neonato. Ora è possi-bile pure un seguito sdram-matizzante. L’infante venu-to al mondo in simili condi-zioni potrà, in tempi stretti (cioè al termine dei citati 90 giorni) previa decisione del tribunale, essere accolto da una “famiglia di emer-genza”, scelta tra coppie già sperimentate, che hanno dato la loro disponibilità a prendere in consegna bam-bini anche piccolissimi. Ed è giusto ricordare, a questo punto, l’impagabile azione del Movimento di aiuto alla vita che – volando ben al di sopra delle asfittiche, anzi sterili bordate polemiche pro e contro il diritto all’a-borto – negli ultimi decenni ha supportato con interventi medici, psicologici, econo-mici il complesso mondo delle natalità difficili, per-ché sopraggiunte in contesti di pesante indigenza o soli-tudine delle future mamme.

Dunque, se ad ogni epoca non sono risparmiate soffe-renze, è anche vero che anti-chi rituali oscuri e mentalità oppressive non ritornano. A testimonianza delle persone che si occupano a vario tito-lo di questi problemi, si può ora parlare anche di “abban-doni responsabili”, come a dire di donne che non rifiu-tano, insieme ad una mater-nità non prevista, l’aiuto della legge e degli operatori assistenziali, ben sapendo che andranno incontro ad una pesantissima rinuncia del ruolo di mamma. Forse sarebbe bene completare la cornice di questi ragionevo-li provvedimenti offrendo la possibilità al figlio, una volta raggiunta la maggiore età, di avere chiare notizie sui suoi natali.

Angelo Augello

quando per qualsiasi affare o accordo commerciale si ricorreva al notaio.

Numerosi at t i notari-li riguardanti Giulio Beol-co sono stati redatti nella sua abitazione, che sorge-va all’angolo tra le attua-li vie Umberto I e Andrea Memmo, ma più frequente-mente nella spezieria posta al pianterreno della stessa casa. Molto attivo nel campo degli affari come venditore, acquirente o livellario, per un certo periodo Giulio fu anche impegnato come fat-tore nel vicino monastero di S. Maria di Betlemme e come esattore nei comuni di Arquà e Reoso. Da una lunga serie di atti risulta essere stato poi coinvolto in complesse controversie familiari e in vertenze con alcuni conventi padovani o

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notevole repertorio fotogra-fico proveniente dall’archi-vio parrocchiale e da colle-zioni private, i curatori del volume sono stati in grado di ripercorre la storia contem-poranea di Mortise con una discreta offerta di notizie, di dettagli, di puntualizzazioni, tanto sui fatti di vita cristiana quanto sulle manifestazioni ordinarie della società civile.

Per i lettori originari del luogo, per coloro che amano conservare memoria delle cose trascorse, per chi si occupa di storia locale que-sto libro resterà un contribu-to indispensabile, una tavola di raffronto fra un passato certamente povero, ma ordi-nato e dignitoso, e le diffi-cili e combattute transizioni dell’epoca attuale.

Paolo Maggiolo

auGuSto muReRLA MIA VITAè NELL’ALBERONovant’anni dalla nascita 1922-2012Editoria DBS, Seren del Grappa 2012, pp. 117, ill.

A novant’anni dalla nasci-ta dello scultore bellunese, la famiglia Murer ha voluto riunire a Venezia un gruppo di opere del Maestro (scom-parso nel 1985) per un’anto-logica di notevole importan-za ospitata a palazzo Ferro Fini, sede del Consiglio regionale del Veneto. Nella cura estrema della selezio-ne – apparsa completa dal punto di vista cronologico e interessante per l’ampiezza delle tematiche – la retro-spettiva veneziana è risul-tata assolutamente degna di rappresentare l’anima e il talento dell’artista. Un arti-sta, Augusto Murer, che sen-tiva il bisogno di esprimere nei suoi lavori la sofferenza degli uomini, i lati più duri

una pur ristretta comunità tradizionalmente quasi del tutto dedita all’agricoltura.

Appare altresì relativa-mente modesta, in confron-to della precedente guerra di posizione e di trincea, l’a-liquota derivata in partico-lare dalle malattie infettive con assoluto dominio della tubercolosi contratta in pri-gionia o per disagi fisici e carenza alimentare.

In conclusione, un libro molto ricco di fatti e di osservazioni tanto utili per chi voglia, fortunatamente se giovane, con agevole lettu-ra e anche con sola curiosi-tà, rendersi conto del nostro passato.

Giuliano Lenci

SETTANT’ANNIDI UNA COMUNITÀIN CAMMINOParrocchia Madonnadella Salute, Padovaa cura di Franco De Checchi, Emilio Camporese e Giulia-no GhiraldiniGrafiche TP, Loreggia 2012, pp. 79, ill.

La nuova pubblicazione che qui segnaliamo – gene-rosa di immagini (perlo-più inedite) che rievoca-no la storia recente di uno dei più popolosi sobborghi della città di Padova – con-tribuisce ad incrementare la bibliografia sul territorio di Mortise che è frutto dell’atti-vità di ricerca e di documen-tazione condotta in questi anni, in particolar modo, da Franco De Checchi.

Nel 1942, per volontà del vescovo Carlo Agosti-ni, nasceva la parrocchia di Mortise per la quale, nel giro di un anno, veniva eretta una chiesa su progetto dell’ar-chitetto Giuseppe Tombola. È l’edificio che vediamo in copertina in una foto scat-tata all’epoca da Menotti Danesin. Il primo pastore della Madonna della Salu-te fu don Antonio Forestan che avvertì subito l’impor-tanza e la necessità di tenere aggiornato, mese dopo mese, un diario degli eventi princi-pali della parrocchia e degli avvenimenti che interessava-no, più in generale, il quar-tiere di Mortise. Nacque così la Cronistoria parrocchiale di Mortise che i successori di don Forestan ebbero cura di continuare a scrivere a beneficio dei posteri. Sulla base di questo utilissimo documento, affiancato da un

Nel caso di questo volume l’esplorazione e l’interesse non si limitano a siffatto pur gravoso compito di indagini su una vasta direzione indi-viduale, ma è stata altresì via via completata la figura del Caduto con un ricorren-te richiamo al suo particola-re riferimento nelle diverse forze armate, sicchè il libro assume una dimensione superiore con acquisizioni di storia generale, che lascia-no intendere la competenza dell’autore della storia mili-tare nelle sue diverse e com-plesse rappresentazioni.

Nel caso, ad esempio, del sommergibilista Ottavio Betetto, perduto nell’affon-damento dell’“Ascianghi”, si dà largo spazio supplementa-re alle modalità dell’ultimo combattimento navale e del naufragio con il contributo di testimoni sopravvissuti.

E così nel caso dei Cadu-ti in Russia si ricordano i fatti d’arme e le vicissitudini delle unità operative, tanto da produrre nell’insieme un filo conduttore di quella disgraziata spedizione.

A tal proposito l’auto-re opportunamente osser-va che “quando si parla del fronte russo ancor oggi la maggioranza è convinta del predominio numerico degli alpini”, mentre in realtà le truppe della Tridentina erano una minoranza: 60.000 su 227.000 della spedizione.

L’immagine fronte russo = alpini rimane quella che ebbe immediata risonanza agli inizi del 1943 quando la propaganda del regime non riuscì a nascondere la realtà degli eventi militari e quindi predominò la tragica vicenda della ritirata, dei prigionie-ri di cui incerta era la sorte, e del mancato sostegno dei tedeschi.

Particolare interesse del libro è il confronto con i Caduti nella Grande Guerra: 650.000 e 97 cervaresani, e 200.00 nel secondo conflitto mondiale con 37 cervaresani sotto le varie armi.

Il confronto della desti-nazione nelle due guerre ci dimostra che la seconda generazione ha partecipato in diverse specialità senza assoluta predominanza della fanteria, con presenza in unità operative introdotte per nuove acquisizioni tecnolo-giche (ad esempio l’Aero-nautica) o del regime (Cami-cie nere). Anche da questo punto di vista si può dunque intravedere una modificata rappresentazione sociale in

di Rodia, Costanza dipinga il suo (e quello di ogni don-na)?”, trovando nella poesia della Monti – forse al di là del suo valore specifico, ci viene da aggiungere - una se-greta valenza universale.

Mirco Zago

albeRto eSpenTI RACCOMANDODI fARMI DIREUNA MESSA AL SANTODI PADOVA...Vite spezzate di soldatie civili cervaresani nellaseconda guerra mondialeIl prato, Padova 2012, pp. 239.

Il volume appartiene a quel genere commemorati-vo, di testimonianza, di rico-noscente memoria dei Cadu-ti dell’una o dell’altra delle due guerre mondiali, che in numero sempre più numero-so le amministrazioni di pic-coli centri urbani sostengono con l’appassionato contribu-to di locali ricercatori.

Dopo un volume sui Cadu-ti nella Grande Guerra, lo stesso autore, bibliotecario di Cervarese S. Croce ai piedi dei Colli Euganei, si rivol-ge ora a quelli della secon-da guerra mondiale, in tota-le 57, di cui 37 militari sui vari fronti o in prigionia e 20 civili per bombardamenti aerei.

Questa “storiografia loca-le” è sostenuta da un ricco materiale di ricerca e docu-mentazione: profili biogra-fici ricavati innanzitutto dai competenti uffici sul percorso militare fino alla difficile individuazione del luogo di sepoltura (non di rado prima ignorato) e poi una gran quantità di lettere, di rapporti epistolari con i familiari e di testimonianze di militari sopravvissuti che con il Caduto avevano avuto un rapporto.

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dal punto di vista formale la metrica italiana è qualita-tiva (o accentativa), mentre nell’inglese è tendenzial-mente quantitativa – con sillabe lunghe e brevi, per intenderci – come asserisce Edgar A. Poe nel suo sag-gio ‘Il fondamento logico del verso’. Le nove poetesse sono, in ordine cronologi-co: Margaret Walker (1915-1998), Gwendolyn Brooks (1917-2000), Nikki Gio-vanni (1934), June Jordan (1936-2002), Alice Walker (1944), Marilyn Nelson (1946), Wanda Coleman (1946), Rita Dove (1952), Elizabeth Alexander (1962); di ciascuna vengono riporta-ti biografia e diversi testi. In Italia non sono molto cono-sciute, forse a eccezione di Alice Walker per il suo for-tunato romanzo The Color Purple (Il Colore Viola) col quale ha vinto il Premio Pulitzer. Non è ovviamente possibile indicare i caratteri, ossia gli stili individuali, che pure sono notevoli; in linea generale l’influsso della ‘beat generation’ appare piuttosto incidentale, mentre la cifra creativa che interagi-sce prevede il tema del raz-zismo, affrontato per esem-pio dall’autrice più giovane, la Elisabeth Alexander, si veda la poesia Race (Razza), sebbene oggidì i diritti civili siano meno disattesi; altro elemento significativo per l’animo femminile è la natu-ra, trovando riscontro anche nella sua assenza, come in Elegy (Elegia) della già cita-ta poetessa, qui certamente con lo spirito di un paesag-gio urbano che, pur mutan-do le condizioni oggettive, ne presuppone altre in un contesto socio-culturale. Se poi si volesse guardare in prospettiva diacronica, attra-verso i ricordi si potrebbe arrivare alle radici di un’ap-partenenza che non può

saria anatomica omnia del 1719.

L’iconografia di Giam-battista Morgagni è fatta soprattutto di incisioni. Sono ben note quella di Gio-vanni Volpato per la prima edizione del De sedibus et causis morborum del 1761, e quella realizzata da Ange-lica Kaufmann su disegno di Nathaniel Dance, un’opera particolarmente significativa che ritrae il soggetto in età avanzata.

Ma la ricca “collezio-ne” morgagnana compren-de anche busti marmorei (importante, ad esempio, è il monumento eseguito nel 1769 da Pietro Danielet-ti per il teatro anatomico al Bo) e una serie di medaglie, coniate fra il secolo XVIII e i giorni nostri, conservate al Museo numismatico Bot-tacin. Bello, senza dubbio – sebbene non troppo fede-le all’originale – è il ritrat-to che appare sulla moneta bronzea realizzata da Adolfo Pieroni per l’inaugurazione del monumento donato da Camillo Versari alla città di Forlì nel 1873.

L’ultimo tributo artistico al Morgagni, in ordine di tempo, è l’osella comme-morativa voluta nel 2010 dal magnifico rettore dell’Uni-versità patavina quale prelu-dio alle solenne celebrazioni del 2011-2012.

Paolo Maggiolo

aDeoDato piazza nicolai (a cura di)SOGNI RIVOLUZIONARINove poetesseafroamericaneValentina Editrice, Padova 2012, pp. 256.

Adeodato Piazza Nicolai è nato a Vigo di Cadore nel 1944. Emigrato negli Stati Uniti nel 1959, si è laureato in lettere al Wabash Colle-ge, conseguendo il Master of Arts all’Università di Chi-cago. Attualmente risiede in Italia. Svolge una intensa attività di poeta, saggista e traduttore. Questa antologia è per l’appunto con tradu-zione a fronte, traduzione che non potrebbe risultare più idonea per la conoscen-za che il curatore ha delle due lingue apprese in modo ‘naturale’ (oltre al ladino della sua terra d’origine). Le difficoltà di traduzione fra due lingue così diverse è evidente, tanto più che

ha aderito nel corso dei de-cenni volendo non sottrarsi mai a nuove sperimentazioni, a nuove forme di operosità rappresentativa. Si spazia così da una classicità pura a strutture astratte, informali, con tanta scioltezza e abilità da lasciare, chi vi si pone di fronte, stupito, attonito. Ap-partengono al primo genere i ritratti, ora di personaggi illu-stri e ora di familiari, mentre rientrano nella sfera dell’a-stratto taluni Torsi, le Sibille, le Creazioni e le Metamor-fosi, che non celano la spic-cata simpatia dello scultore per grandi maestri dell’età contemporanea quali Henry Moore. Molti lavori sono di ispirazione religiosa, essendo stati commissionati espressa-mente da superiori di chiese cattoliche, e rappresentano figure e storie di Santi, nar-razioni evangeliche, croci-fissioni nonché angeli, abba-stanza spesso in funzione di amboni e di leggii.

La monografia, molto ben curata, in particolare modo per quanto riguarda le foto delle opere, nitide nei tratti e morbide e delicate nei chia-roscuri dei rilievi, chiude con “alcuni pensieri su Milani” stilati da noti studiosi dell’ar-te quali Giancarlo Celdini, Silvana Weiller Romanin Ja-cur e Giorgio Segato che nu-trì sempre grande stima e am-mirazione per l’opera sculto-rea di Giancarlo Milani.

Paolo Tieto

Fabio zampieRi, albeRto zanatta, mauRizio Rippa bonatiRITRATTI DIG.B. MORGAGNINELLE COLLEZIONIPUBBLICHE PADOVANECleup, Padova 2012, pp. 73.

Questo volume appartie-ne alla serie di iniziative promosse dall’Università di Padova nella ricorrenza dei trecento anni dalla chiamata del sommo scienziato forli-vese nel nostro Ateneo. La quantità di ritratti individua-ti dagli autori della ricerca è sicuramente commisurata alla fama del grande anato-mista, ma ci fa anche capire quanto lo stesso Morgagni fosse attento e interessato a divulgare la propria imma-gine nel mondo di allora, a partire dal ritratto giovanile di autore anonimo annesso all’edizione degli Adver-

e drammatici dell’esisten-za. Anche se in termini non esclusivi, ad ispirare forte-mente le sue realizzazioni fu la contemplazione del dolo-re: il dolore causato dalla povertà, dalla fatica, dalla guerra, dalle persecuzioni, dalle sventure quotidiane.

Il volume che viene qui brevemente descritto costi-tuisce anche il catalogo della Mostra allestita a Venezia da Franco Murer e Nadia Gras-si. La cura complessiva della pubblicazione si deve al cri-tico Paolo Tieto, mentre la ripresa di testi e documenti firmati da personaggi illu-stri come monsignor Albino Luciani, Giuseppe Mazza-riol, Mario Rigoni Stern e Andrea Zanzotto, contribu-isce alla giusta e definitiva consacrazione di Augusto Murer fra i nomi di spicco del Novecento veneto.

Paolo Maggiolo

m.b. RiGobello autiziGIANCARLO MILANIL’OperaIl Poligrafo, Padova 2012, pp. 156.

La monografia apre con un accurato saggio di Maria Beatrice Rigobello Autizi, la quale evidenzia i momenti più salienti del percorso ar-tistico di Giancarlo Milani e cita le sue principali opere, realizzate a partire dalla gio-vinezza e fino ai giorni pre-senti. Una carrellata di flash che, ancor quando lapidari, puntualizzano la seria, ottima preparazione e, successiva-mente, l’attività artistica di questo impegnato e rigoro-so scultore, che ha dedicato l’intera vita all’arte. Fa se-guito un cospicuo insieme di immagini che sottolineano i tanti argomenti affrontati dal valente artista e le diver-se tendenze creative cui egli

Sogni rivoluzionari è un’antologia che presenta, con traduzione italiana di Adeodato Piazza Nico-lai, un’ampia selezione di testi di nove poetesse afroamericane pressoché inedite nel nostro paese, nate tra gli anni dieci e gli anni sessanta del Novecento e operanti, pertanto, lungo un arco di tempo che giunge ai nostri giorni. I versi, introdotti da un articolato saggio esplicativo dello stesso curatore, uniscono l’eleganza della creazione poetica all’asprezza delle tematiche sociali che hanno caratterizzato un periodo cruciale della storia novecentesca (non solo sta-tunitense): le battaglie dei neri per l’uguaglianza, infatti, sono la punta e il paradigma di tutte le rivendicazioni che hanno portato, nel corso dei decenni, al riconoscimento dei diritti umani e ci-vili come base delle democrazie moderne. Sogni rivoluzionari che evocano il celeberrimo «I have a dream» del leader pacifista Martin Luther King, il cui messaggio echeggia nei testi delle nove autrici. Anche per questo il libro, a quarantacinque anni dall’atten-tato che lo uccise, vuole rendergli omaggio sin dalla copertina: una presenza non invadente, ma nitida nel suo emer-gere dall’ombra ritrovando, nelle parole della poesia, la sua voce ispirata e ispiratrice. Intervengono:

Ivano FochPresidente della Famiglia Bellunese di Padova e promotore dell’evento

Adeodato Piazza NicolaiCuratore e traduttore delle poetesse

Stefano ValentiniEditore e critico

Manuela Bellodi e Luigina Bigon Lettrici

SOGNI RIVOLUZIONARINove poetesse afroamericane21 febbraio, ore 17.30Padova, Sala Livio Paladin, via Municipio1

Comune di PadovaAssessorato alla CulturaSettore Attività Culturali

Infoingresso liberoServizio Mostre Settore Attività Culturali tel. 049 8204529http://padovacultura.padovanet.it

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niche della chiesa di Santa Maria, a Camposampiero, oggetto di recenti restauri che hanno portato al parzia-le rinvenimento di affreschi quattrocenteschi. Il saggio di Renato Martinello riguarda invece il monastero scom-parso a Campo San Martino, dedicato a S. Lorenzo, la cui memoria sopravvive attra-verso l’annuale sagra pae-sana. Una illustrazione del Parlamento del Friuli è pre-sentata da Ivone Caccavillani come termine di paragone rispetto alla descrizione degli altri territori sottomessi alla Repubblica di Venezia. Un inconsueto approccio storico al nostro territorio ci è offer-to da Brunello Gentile attra-verso la presentazione delle “carte valori” emesse nei se-coli scorsi da istituti pubblici e privati. Il profilo dell’illu-stre economista trevigiano Giuseppe Toniolo, beatifi-cato nel corso dell’anno, è sobriamente tratteggiata nei risvolti sociali e culturali da Lara Pollato. L’ultimo contri-buto, di Matteo Ferronato, ci informa sull’apertura a San Martino di Lupari del Museo d’arte contemporanea dedi-cato all’illustre critico Umbro Apollonio. Completano la pubblicazione una serie di re-censioni e di segnalazioni di opere riguardanti il territorio dell’alta padovana.

Giorgio Ronconi

toto la RoSaSI fA PER DIRECleup, Padova 2011, pp. 71.

La vena di Toto La Rosa è sempre copiosa e non manca di generare frutti che sboc-ciano ogni anno con colori e profumi sempre diversi. Come si sa, La Rosa alterna racconti divertenti e umori-stici a, meno spesso a dir la verità, lavori più seri e pen-sosi. Quest’ultimo libro si in-serisce nel primo filone con mano leggera, gradevolissi-ma come al solito.

Si fa per dire è composto da due parti. La prima pre-senta una serie di racconti-ni che quasi sempre hanno come protagonista, o mal che vada come figura se-condaria, un personaggio di nome Gustavo. Ma si tratta di un essere camaleontico, che diventa, di volta in vol-ta, grasso o magro, sindaco o persona comune, osser-vatore o distratto. Un puro

ALTA PADOVANAStoria, cultura, societàRivista semestrale, n. 17/18, dicembre 2012, pp. 160.

È uscito nel dicembre scor-so il n. 17/18 della rivista “Alta Padovana”, una pub-blicazione periodica d’alto livello che si propone di far conoscere a un pubblico più vasto di lettori una selezione di studi e ricerche di carattere storico, letterario e di vario interesse culturale riguar-danti il territorio dell’Alta padovana, frutto di indagini condotte da appassionati stu-diosi locali con impegnative ricerche, anche di carattere archivistico.

Apre il volume il saggio di Ugo Silvello che sviluppa le ultime ricerche sulla presen-za di comunità preistoriche lungo il corso del Brenta, in particolare nel territorio di Fontaniva, dove sono avve-nuti interessanti ritrovamen-ti lapidei che attendono di essere valorizzati. Segue il saggio di Daniele Rampazzo sull’origine del cristianesimo nel padovano, ricco di rife-rimenti storici e leggendari, che saranno fatti oggetto di ulteriori approfondimenti. Franco De Checchi si occu-pa invece del nobile casato “da Vigodarzere” e del ruolo politico e sociale che ebbe a svolgere nel Medioevo, intrattenendosi sui loro le-gami col territorio e con le altre famiglie dominanti. Antonietta Curci si soffer-ma su due corpose relazioni settecentesche riguardanti le derivazioni del fiume Brenta a sud di Bassano, mentre Furio Gallina tocca un tema curioso: le conseguenze nel nostro territorio della disa-strosa eruzione del vulcano Tambora avvenuta in Oriente nel 1815. L’intervento di Gloria Negri è volto a rico-struire le vicende architetto-

pe Guzzetti, nella quale si scomoda addirittura il de Tocqueville) e integrano il modello di welfare state, oggi pericolosamente in dif-ficoltà.

Il libro è politicamen-te ipercorretto: nel cap. VI (“Padova, voglia di futuro”, pp. 84-106), per illustrare le attività della Fondazio-ne Cariparo, si ascoltano, nell’ordine, il presidente della Regione Zaia, il sin-daco Zanonato, la presiden-te della Provincia Degani, il rettore Zaccaria, il presi-dente della Camera di com-mercio Furlan, il vescovo Mattiazzo: non manca nes-suno! Per rispettare la par condicio, si cita anche il parere dell’economista Luigi Zingales, che definisce (p. 27) le Fondazioni “moderna manomorta ecclesiastica che infetta di politica il mercato del credito e sperpera i nostri soldi”; ma è l’unica voce stonata nel coro.

Il linguaggio, dal piglio manageriale ma sensibi-le al sociale, non è sempre particolarmente originale: ”Astrid autorevole centro studi”(p. 30); “nutro fidu-cia che l’attuale tempesta economica e finanziaria sia comunque destinata a finire” (p. 49); “trovare le giuste sinergie” (p. 115); “avvio di un progetto stra-tegico” (p. 119); “costruire una progettualità condivi-sa” (p. 177); “formazione di una nuova cittadinanza plurale” (p. 189) “definire una progettualità di lungo periodo” (p. 190); ma espri-me sempre un atteggiamen-to gravemente pensoso dei destini d’Italia.

Letto il libro, la doman-da si ripropone: chi avrà ragione? Il cittadino comu-ne, nelle sue impressioni un po’ grezze, o gli intervista-ti da Iori? E Iori stesso, di cui non di rado apprezzia-mo lo scanzonato e pungen-te umorismo, come la pensa in realtà? Certo fa piacere sapere che l’Italia “è forse il principale Paese europeo in termini di risorse filantro-piche pro capite controllate da fondazioni di erogazione private” (p. 24); ma quan-do, come esempio di attività filantropica, si cita il Monte dei Paschi di Siena (p. 24), anche il lettore più candido concepisce qualche perples-sità. Cosa diceva il divo Giu-lio ai suoi bei dì? “A pensar male”.

Fabio Orpianesi

venir facilmente obliata, poiché parte integrante di una identità che si trasmet-te in modo ereditario, supe-rando i mutamenti che gli eventi producono nella sto-ria dell’umanità.

Luciano Nanni

FRanceSco ioRiVENTI ANNI LUNGHIDUE SECOLI, 1992-2012Ed. Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo 2012, pp. 221.

Che cosa sono le Fonda-zioni bancarie? Nell’opinio-ne comune sono gli strumen-ti con cui i partiti politici, già estromessi dai Consigli di amministrazione degli Istituti di credito in forza di un percorso legislativo avviato fra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta e conclusosi con il decre-to Amato-Ciampi del 1999 (cap. IV, pag. 62), continua-no in realtà a controllarli in modo indiretto: vale a dire che i partiti, usciti dalla porta, sono rientrati dalla finestra.

Ce ne presenta invece un’immagine del tutto dif-ferente Francesco Iori, (una sommaria biografia nel risvolto di copertina), gior-nalista noto a tutti i lettori di quotidiani del Triveneto, territorio di cui sa cogliere e interpretare acutamente sia gli impercettibili mutamen-ti quotidiani, sia le grandi scelte di lungo periodo. Nel suo libro-intervista, le Fon-dazioni, il cui albero gene-alogico si diparte dai Monti di Pietà e da altri istituti di pubblica carità nati fra la fine del Medio Evo e gli albori dell’Età moderna, ci appaiono come istituzioni provvide e benefiche, atten-te alle necessità più nobi-li del territorio – sostegno alle Onlus, al restauro di edifici storici, alle attività non profit, ad iniziative di alto valore sociale ed eco-nomico, quali il Cuamm – regolate da savie e buone leggi, volute da legislatori probi e lungimiranti, oggi in gravi ambasce per la crisi economica che attanaglia la Nazione. Ma c’è di più: esse sono quei corpi intermedi fra il cittadino, il mercato e lo Stato che contribuisco-no al “consolidamento della democrazia stessa” (cap. V, p. 76, intervista a Giusep-

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Triveneto (e non solo) l’op-portunità di un’esibizione che segna a volte l’avvio di brillanti carriere. Oltre a Vit-torio Andretta sono interve-nuti il sindaco di Cittadella Giuseppe Pan, il governato-re distrettuale Rotary Ales-sandro Perolo e il presidente del Rotary Cittadella Mas-simo Donati, che tra l’altro hanno ricordato le scarse possibilità di realizzazione offerte nel nostro paese ai giovani che si dedicano alla musica, arte che richiede grande impegno e assoluta dedizione.

Il concerto ha offerto una panoramica di generi diver-si spaziando tra le pagine più celebri della storia della musica: dalla sonata Al Chiaro di luna di Beethoven al jazz di Duke Ellington, dalle arie rossiniane del Bar-biere di Siviglia alla musica da film di Rota e Morrico-ne. Un premio speciale del Comune è stato consegna-to all’artista più giovane, la diciassettenne violinista Beatrice Zanon che debutte-rà tra non molto alla presti-giosa Carnegie Hall di New York.

Lavinia Prosdocimi

Vartanian, portando a cono-scenza l’orrore nascosto, la tragedia di un popolo avve-nuta durante la Prima Guerra Mondiale.

In questa sua avventura Tito De Luca ha conosciuto un bellunese di origini zol-dane. Lo dice il suo cogno-me Soramaè più che il suo certificato di nascita. Così come la leggenda (ma non troppo forse) si è incontra-ta con la storia, così si sono incontrati casualmente i due. Roberto Soramaè amante della montagna, appassio-nato di fotografia, autore di audiovisivi, regista di filmati di successo, per se stesso, per gli altri. Molti tra i suoi documentari sono dedicati alla montagna insolita, alla montagna dietro l’angolo, persino alla pittura. Di lui ci piace ricordare I giganti tra le nuvole selezionato al Film Festival della montagna di Trento, Agordino Dolomiti: arti di un tempo e Dolomiti agordine, tesoro del mondo.

Oggi Tito De Luca e Roberto Soramaè hanno messo insieme le loro storie, i loro gusti, la loro serietà, la loro voglia di verità. Ne è uscito un film, un docu-mentario nella sostanza di oltre un’ora, che indugia sulla storia degli Armeni, sulla loro tragedia di popolo perseguitato e sulla ricerca di quell’arca di cui sembrano essere emerse tracce signi-ficative ed evidenti sia pure sommerse nel ghiaccio, ad esso incatenate. Tra i conte-nuti speciali, il DVD presen-ta una intervista con Antonia Arslan, rilasciata nella sala Galileo del Bo.

Giuliano dal Mas

doveva ospitare tante specie animali.

In tempi moderni non pochi sono stati coloro che si sono mossi sulle tracce della mitica arca che costi-tuisce uno dei grandi misterì dell’umanità. Tanti gli avvi-stamenti. Tanti coloro che ne hanno parlato. Poche le testimonianze fotografiche andate spesso misteriosa-mente disperse come se una “maledizione” aleggiasse intorno a questo monte, al suo territorio.

L’aspetto interessante è che in questa avventura noi oggi ci imbattiamo in due veneti quarantenni: Tito De Luca e Roberto Soramaè. Tito De Luca storico, scrit-tore, esploratore, ormai da oltre vent’anni, ha rivolto la sua attenzione a questa mon-tagna, alla ricerca della leg-gendaria arca di Noè, ai suoi resti. Questa ricerca avvolta nel mistero della leggenda, a cui ha partecipato anche il padovano Roberto Tiso, si è però mescolata con la storia più recente. Una sto-ria di eccidi, di sangue, un genocidio silenzioso e altret-tanto misterioso, celato, nel quale sono spariti nel nulla o quasi, centinaia di migliaia di armeni. Ma i resti di deci-ne e decine di persone, sche-letri abbandonati nel silenzio dell’indifferenza, di centi-naia, sono riapparsi a Tito De Luca nel suo incessan-te vagabondare sul Monte Ararat, nascosti, dimenticati dentro a grotte, spelonche della montagna.

La tragedia di un popo-lo vittima dell’odio, di un qualunquismo politico, di un silenzio equivoco, imba-razzato. Tito De Luca si è imbattuto nella storia sussur-rata, quasi del tutto scono-sciuta e ha preso a scrivere dapprima col suo vero nome e poi sempre più spesso con lo pseudonimo di Azad

nome, insomma, che l’Au-tore utilizza come catalizza-tore narrativo per creare una serie divertente e stralunata di situazioni quotidiane che determinano, però, paradossi a non finire. Ciò che stravol-ge il senso comune è sempre il linguaggio, che crea una specie di realtà parallela a quella usuale, facendo scop-piare quest’ultima. Toto La Rosa non costruisce schemi complessi né ricerca signi-ficati seri, ma gioca con le frasi fatte e con il linguag-gio d’uso. Ma l’effetto è pur sempre quello di creare per-dite di senso e smarrimento come quando Gustavo porta a pescare la sua segretaria e le dice: “Lei mi aiuti e vedrà che imparerà. Anna, mi dia il filo, l’amo”, e la donna allora si dichiara al suo capufficio.

La seconda parte è costi-tuita da battute, giochi di parole, calembour che si susseguono per il puro diver-timento del loro autore e del lettore. Anche il titolo della sezione fa parte del gioco: “Appendice di storie ovvero storie di Appendice ovvero Appendicite”. Ne diamo un piccolo assaggio: “Un uomo tentò di salire sulla scala Richter, ma scivolò e provo-cò un terremoto”; “Un uomo prestò orecchio alle dicerie, ma nessuno glielo restituì”; “Credo che non mi ami più. Quando con passione le dico ‘Ho voglia di te’ mi chiede ‘Al latte o al limone?’”.

Mirco Zago

azaRt vaRtanian(tito De luca)ARARATLa montagna misteriosa

È il titolo del DVD che è stato messo in commercio da Azad Vartanian con la dire-zione e la regia di Roberto Soramaè. Per ora presentato in tre lingue: italiano, ingle-se e francese.

Il Monte Ararat (5165 m.)nella lontana Turchia, ma storicamente in territorio armeno, ci ha sempre affa-scinato. Su questa montagna si sa che in epoche lonta-ne si è depositata l’arca di Noè secondo quanto ci dice la Genesi e la stessa tradi-zione. La curiosità popolare ha sempre cercato di trova-re le tracce di questa gran-de imbarcazione che sembra potesse avere una lunghezza di 150 metri e una quindici-na di larghezza, che comun-que era molto grande se

Musica

Incontri

«I NUOVI TALENTI»A CITTADELLA

Nella splendida cornice del Teatro Sociale di Citta-della ha avuto luogo, il 25 febbraio scorso, la manife-stazione musicale “I nuovi talenti” promossa dal Rota-ry Club locale a favore dei giovani musicisti meritevoli di distinzione. Il successo dell’iniziativa, giunta alla 37ª edizione, si deve in pri-mis alla grande passione e determinazione di Vittorio Andretta, da sempre impe-gnato per offrire ai migliori allievi dei conservatori del

DIRITTO E CLINICA:IL CONSENSOCONSAPEVOLEArchivio Antico dell’Università di Padova, 23 novembre 2012.

Il convegno, giunto alla sua terza edizione, si col-loca in una ormai longeva collaborazione tra giuristi e clinici promossa dal prof. Umberto Vincenti (presi-dente della Scuola di Giu-risprudenza dell’Università di Padova) nell’intento di coltivare un confronto tra le rispettive metodologie di studio in ordine ad alcune tematiche di comune inte-resse. Tra queste si è scelto di dedicare l’incontro alla questione, sempre viva, del consenso prestato dal paziente in vista di sotto-porsi non solo a trattamen-ti sanitari e terapeutici, ma anche a indagini sperimen-tali come i clinical trials. La discussione, moderata dal prof. Cesare Scandellari (già ordinario di Medicina interna nell’Università di Padova) ha affrontato pri-

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sempre in movimento. Qui, più che ripercorrere le tap-pe della sua carriera, conta ricordare il libro Ingredienti scritto col fratello Raffaele nel 2006, segno di un proces-so di riflessione sugli aspetti tecnici e sulle finalità dell’al-ta cucina.

A Massimiliano Alajmo abbiamo proposto alcune do-mande e le sue risposte, pur nella secchezza inevitabile di una comunicazione solo in-formatica, risultano comun-que rivelatrici del personag-gio.

Quali sono stati i suoi studi scolastici?

Ho frequentato l’istituto al-berghiero “Pietro d’Abano” di Abano Terme.

Quanto ha contato nella scelta della sua carriera la sua famiglia?

Ho iniziato le mie prime esperienze presso le cucine di importanti chef italiani ed europei (“Ja Navalge” di Al-fredo Chiocchetti a Moena, l’“Auberge de l‘Eridan” di Marc Veyrat a Veyrier du Lac d’Annecy e “Le Près d’Eu-genie” di Michel Guerard a Eugenie Les Bains), anche se mia madre è stata e resta tut-tora la mia principale fonte di ispirazione. È grazie a lei che la cucina mi è entrata “nel sangue”.

Qual è il suo rapporto con la tradizione culinaria pado-vana?

La tradizione è una pre-senza molto importante nella mia cucina, tanto che alcuni piatti traggono ispirazione da ricette del territorio: vedi, per esempio, il Cappuccino di seppie al nero, che si ispira a quella classica veneta delle seppie al nero con la polenta.

Che cosa ispira una sua creazione?

La mia filosofia di cucina è nel mio libro Ingredienti del 2006. Ecco una frase del li-bro da cui spero si possa trar-re una risposta esauriente: “Non c’è verità se non quella contenuta negli ingredienti e i miei tentativi di capire i miei stessi piatti sono del tutto si-mili ai tentativi di chi cerca di interpretare ciò che faccio. Mangio le mie cose con stu-pore, con lo stesso spirito con cui gusto il piatto di un altro cuoco e come credo facciano i migliori clienti. La verità è dentro e ben nascosta, ma la cucina, che è uno dei mezzi per tentare di farla venire alla luce, è semplice. Nel mistero di ciò che è così ben celato, e che comunque reclama sem-plicità e leggerezza, c’è forse la radice di questo stupore”.

desidererebbe più quantità pantagrueliche di cibo, non avrebbe bisogno addirittura di otto giorni per saziarsi, ma cercherebbe una “legrazion”, una gioia più elaborata ma non meno totalizzante. La cucina più ricercata, con le sue complesse preparazioni e le stupefacenti trasformazio-ni degli ingredienti, sembra aspirare a coinvolgere i sensi nella loro totalità, risponden-do non a bisogni fisiologici, ma, per così dire, a una con-cezione estetica del cibo (si pensi alle arditezze di uno dei cuochi più famosi al mondo, Adrià Ferran, le cui creazioni gran parte dei mortali, come lo scrivente, non potranno mai gustare). È inevitabi-le che, dietro al successo di uno chef di vaglia, ci siano una dura formazione profes-sionale, una ricerca appas-sionata, talento e una precisa coscienza del proprio agire. Nei casi migliori originalità, perizia artigianale, capacità imprenditoriale si fondano armoniosamente. In questo senso la grande cucina è an-che espressione della cultura di un luogo e di un tempo.

È quanto è avvenuto a Pa-dova grazie alla forza creativa del giovane chef Massimilia-no Alajmo. Nato nella nostra città nel 1974, dopo gli studi professionali e l’inevitabi-le formazione presso alcuni prestigiosi ristoranti, Massi-miliano Alajmo incomincia a lavorare nel ristorante dei genitori, “Le Calandre” a Ru-bano. La madre Rita Chimet-to aveva ottenuto nel 1992 la prima stella Michelin. In bre-ve tempo Massimiliano ot-tiene, come nessun altro alla sua età, la seconda stella nel 1996 e la terza nel 2002, con-solidando la sua fama nazio-nale e internazionale. Alcuni suoi piatti acquistano, anche per il grande pubblico, quasi un valore simbolico della sua originale e creativa cucina. Si tratta del Cappuccino di sep-pie al nero e del Risotto allo zafferano con polvere di li-quirizia. Sono piatti nei qua-li, oltre alla perizia tecnica e alla sapiente combinazione degli ingredienti, che può anche avvicinarsi al dettato tradizionale, conta l’effetto finale dato dalla combinazio-ne dei colori e dell’aspetto complessivo, che creano un gioco di richiami percettivi che implicano un godimen-to prima di tutto estetico. La bontà del piatto ha così a che fare con la bellezza.

L’attività imprenditoriale di Massimiliano Alajmo è

MASSIMILIANOALAJMO

Lo spunto per parlare di cibo e di cucina può venire da una famosa scena de La Pio-vana di Ruzante, un esempio scelto anche per contiguità geografica del personaggio di cui più avanti diremo. Alla fine dell’atto V della com-media ruzantiana, sapiente e divertita “traduzione” della Rudens di Plauto, una spe-cie di “vortere barbare” al quadrato, il “famegio” Gar-binelo, in uno spassosissimo monologo, per festeggiare il felice risultato delle sue tra-me, decide di dedicare tutto se stesso per ben otto giorni a mangiare perché (do la tradu-zione di Ludovico Zorzi) “il mangiare di buono è il re dei piaceri, e non ve n’è nessuno che lo superi. Perché del pia-cere di mangiare tutti i mem-bri congiuntamente, di dentro e di fuori, ne godono, mentre degli altri piaceri non è così”. E dunque piaceri conclusione el magnar è la pì bela legra-zion che posse far l’orno al mondo”.

Il servo dava così voce alla fame atavica delle plebi pavane (ma ovviamente non

cosa fare e del paziente che non sa cosa volere, la palla sia rinviata al giudice, il che significa alla sua personale discrezionalità.

Margherita Frare

mariamente il rapporto tra salute e diritto all’autodeter-minazione del paziente: un rapporto – è stato rilevato – che stenta ad essere inteso in termini biunivoci nel senso cioè di considerare la salu-te come una scelta matura-ta dal singolo a seguito di una libera valutazione nella quale rientri una corret-ta, per quanto probabilisti-ca, informazione da parte dell’autorità sanitaria. La tendenza della giurispruden-za nostrana è piuttosto quel-la di attribuire al diritto alla salute un valore oggettivo e indipendente dalla volon-tà manifestata (o meno) dal paziente. La recente casisti-ca mostra infatti che, ai fini di accertare una violazione del dovere di informazio-ne, l’attenzione del giudi-ce è tutta incentrata sull’e-sito fausto o infausto della condotta del medico, con la conseguenza che, nel primo caso, l’eventuale assenza di consenso sarà comunque irrilevante. Ma al di là della possibile violazione della libertà personale di fronte ad un orientamento che con-sideri oggettivamente solo l’esito finale del trattamento sanitario, il rischio che corre l’odierna società è di sotto-porre il malato al supplizio di Tantalo, prospettandogli un defilè di diritti che tut-tavia, in una situazione di fragilità e di impotenza, egli non è in grado di esercitare, di comprendere, e talvolta nemmeno di desiderare. Il monito che si è variamen-te levato dalle relazioni che si sono succedute è dunque di richiamare gli operatori sanitari al proprio compito, sia in termini di preparazio-ne che di sollecitudine. Il diritto, da parte sua – come ha ammonito Umberto Vin-centi nelle considerazioni conclusive – deve riuscire a svincolarsi da uno scienti-smo che lo ha spesso ridot-to a mera tecnica o, peg-gio, a tecnicismo, e nella prospettiva del paziente ad un modulo da sottoscrive-re. Per riportare al centro la persona e il suo benessere psicofisico occorre insomma spostare l’ago della bilan-cia dai diritti del paziente, divenuti ormai un intricato ginepraio, ai doveri dell’o-peratore sanitario, come già da tempo sollecita taluna letteratura di stampo norda-mericano: anche per evitare che di fronte al doppio osta-colo, del medico che non sa

Personaggi

solo loro) e nel contempo esprimeva una concezione della vita naturalistica, in contrapposizione allo spiri-tualismo del suo tempo.

A distanza di cinque secoli nelle terre di Ruzante non si soffre più la fame e mangia-re non è più solo il bramoso soddisfacimento di un biso-gno primario. Nelle società di avanzata industrializzazione, in una condizione di benes-sere diffuso, il cibo può sod-disfare un più raffinato gioco dei sensi, diventando a suo modo un’esperienza cultura-le. Oggi forse Garbinelo non

Incontri - Personaggi

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ne raffigurante uno Storione inseguito da Nereidi e Tritoni (La caccia allo storione).

L’inaugurazione avvenne il 3 giugno 1905 e suscitò l’ammirazione di tutti, come ricordano i quotidiani del tempo; era presente lo stesso Laurenti, che, pur tenendosi in disparte, non poté sottrarsi all’entusiasmo generale.

La decorazione, conside-rata il capolavoro dello stile liberty in terra veneta, già nel 1906 dovette essere pro-tetta da una vernice speciale a causa dei danni provocati dall’illuminazione a gas e nel 1929 venne restaurata dal suo autore ormai anziano. All’i-nizio del 1962, in occasione della demolizione dello stabi-limento da parte della Banca Antoniana, il ciclo, realizzato a tempera su gesso modella-to e applicato all’intonaco, fu staccato e circa trecento pezzi, inizialmente destina-ti a ornare il nuovo edificio ideato da Gio Ponti, vennero depositati nei magazzini del Liviano, in quanto lo stesso Ponti, nonostante i numero-si appelli della cittadinanza, scelse di non ricollocarli nel-la sede della Banca. L’erra-ta prassi di stacco ne aveva danneggiato una larga parte e nel 1966 l’Università decise di restituire i frammenti alla Banca. In quella circostan-za vennero selezionati solo quelli in migliore stato di conservazione. Trenta furono donati al Museo, restaurati e montati su pannelli di legno, mentre tre teste femminili ri-masero presso l’istituto ban-cario di via VIII Febbraio.

La piccola esposizione, realizzata dai Musei Civici - Museo d’Arte, vuole essere un omaggio all’impresa di Laurenti allo Storione, nel tentativo di rievocare l’atmo-sfera della Belle Époque che caratterizzava il ristorante, dove sotto un florido pergo-lato di melagrane si ammi-ravano i leggiadri volteggi delle danzatrici. La mostra comprende una selezione del materiale conservato presso il Museo d’Arte: si tratta di lacerti per lo più facenti parte della decorazione del soffitto, di testimonianze fotografiche e di disegni del fondo donato al Museo da Anna Laurenti, che è stata la più fedele “di-scepola” del nonno e negli anni si è molto adoperata per mantenerne viva la memoria.

I fogli, collegati alla fase ideativa della decorazione, presentano, per la maggior parte, particolari ornamenta-li dello Storione, come per

venne costruito l’albergo-ristorante Storione per vo-lontà dell’Amministrazione Comunale. Nel maggio 1904 Cesare Laurenti (Mesola 1854 - Venezia 1936), artista ferrarese, ma veneziano d’a-dozione, ricevette l’incarico di decorare la sala da pranzo, affinché divenisse un luogo di prestigio adatto a ricevere ospiti di riguardo. Laurenti era reduce dal grande suc-cesso ottenuto all’Esposi-zione Internazionale d’Arte di Venezia del 1903 con il fregio in ceramica per la sala del ritratto moderno, ma la

San Biagio dai tempi delle scuole superiori o dell’Uni-versità. L’allestimento della Mostra presentava un aspet-to che potremmo definire “minimalista”: sopra i vec-chi tavoli di legno massiccio allineati lungo le pareti della sala erano stati collocati esemplari di libri, di riviste, di opuscoli editi o stampa-ti esclusivamente a Padova nel secolo scorso. L’essen-zialità dell’esposizione era accompagnata dalla buona accessibilità dei materiali e dalla chiarezza delle dida-scalie, con descrizioni pun-tuali, precise e senza inutili ridondanze. Questa iniziati-va culturale ha avuto il meri-to di illustrare in modo esau-stivo la presenza dei vari operatori del settore attivi in città dai primi del Nove-cento fino agli anni Settan-ta: molti oramai scomparsi (come le edizioni Presbyte-rium, la tipografia Scudier, la Stediv, R.A.D.A.R., ecc.); altri, viceversa, tuttora sulla breccia (Cedam, Piccin, Messaggero…). È stata una bella sorpresa poter ritrova-re nomi e sigle che pareva-no dimenticati e ricordare, attraverso i titoli esposti, episodi di storia editoriale patavina risalenti a molti anni fa. Estremamente varia la tipologia dei materiali selezionati: volumi d’ogni genere e formato, guide, testi scolastici, cataloghi di caratteri e fregi tipografici, libri illustrati e vecchi inserti pubblicitari: produzioni che a volte, all’occhio del fruito-re odierno, potrebbero sem-brare anche un po’ bizzarre, certamente inusuali conside-rando i gusti e le tendenze grafiche che nel tempo sono pian piano mutati.

La visita è risultata, in ultima analisi, una felice occasione per trascorre-re una parte della giornata domenicale in maniera utile ed istruttiva. Per qualcuno anche un modo per rivisitare il passato e ripercorrere, in mezzo alla carta stampata, taluni momenti significati-vi e formativi della lontana gioventù.

Ruggero Soffiato

GLI AffRESCHIDI CESARE LAURENTIAI MUSEI CIVICI

Agli inizi del Novecento a Padova, nell’area compresa fra il Municipio e le vie VIII Febbraio e San Canziano,

Noto – e non me ne mera-viglio – che i termini usati hanno un significato lette-ralmente filosofico: verità, stupore, e così via. Ciò credo confermi quanto dicevamo prima a proposito di una di-mensione estetica di questa cucina.

Massimiliano Alajmo pre-ferisce non esprimersi sull’o-dierno proliferare nei grandi mezzi di comunicazione di massa, in particolare nella te-levisione, di programmi sulla cucina.

Ci sono, a suo giudizio, al-tre realtà culinarie di interes-se nel territorio padovano?

Sì, esistono e alcune si distinguono soprattutto per l’attenzione alla materie pri-me e per una cucina semplice che le rispetta.

Cosa si dovrebbe fare per far crescere la cucina del no-stro territorio?

La ‘ricetta’ per far cresce-re la ristorazione nel nostro territorio e in generale nel nostro Paese è a mio parere molto complessa. Sicura-mente necessita di ingredien-ti quali il rispetto del mestie-re, il rispetto del cliente e una grande dose di instancabile passione. Purtroppo non sempre questo basta. Crisi e contingenze hanno pena-lizzato il nostro comparto e le realtà che sono rimaste in piedi lo hanno fatto grazie alla tenacia nel mantenere alta la qualità del loro lavoro.

Quali sono i progetti futu-ri?

Tantissimi... ma non posso svelare nulla per ora!

Mirco Zago

MostreEDITORI E TIPOGRAfIPADOVANIDEL NOVECENTOBiblioteca Universitaria, Pado-va 16 dicembre 2012.

Domenica 16 dicembre ha avuto luogo l’apertura straordinaria di biblioteche e archivi di Stato nell’am-bito del programma “Carte di Natale” indetto dal Mini-stero per i beni e le attività culturali. La sala di lettura della Biblioteca universita-ria, trasformata per l’occa-sione in sede espositiva, si è trovata ad accogliere un discreto numero di visita-tori che, in alcuni casi, non avevano più avuto modo di frequentare l’istituto di via

commissione venne forte-mente criticata dalla stampa locale, che si fece portavoce degli artisti padovani, i quali lamentavano di essere stati “banditi da un lavoro che li allettava”, senza che venisse chiesta loro una “prova qual-siasi”.

Il programma decorativo venne concepito da Laurenti secondo un ambizioso pro-getto di integrazione delle arti; allo Storione egli mo-strò un’indiscussa vocazione all’ornamento che trovava le sue radici nello studio del linguaggio classicheggiante di impronta rinascimenta-le. Prese parte all’impresa un’équipe di validi collabo-ratori, fra cui Vittorio Rizzo, Alessandro Milesi, Augusto Tagliaferri, Antonio Soranzo, Giacomo Vivante per le parti ceramiche e Vincenzo Cado-rin per il mobilio.

Le pareti lunghe della sala da pranzo mostravano tre fa-sce di decorazioni: la prima era rivestita da paramenti di legno, la seconda presenta-va nastri pendenti in stucco e medaglioni in ceramica, mentre la terza esibiva dieci figure femminili danzanti che reggevano sinuosi festoni e nastri trattenuti alle estremi-tà dalla danzatrice collocata al centro della parete di fon-do. Il soffitto riproduceva un arioso e lussureggiante per-golato di melagrane tessute da una fitta tramatura a race-mi, secondo uno schema ri-preso dalla Sala delle Asse di Leonardo presso il Castello Sforzesco a Milano. Il locale adiacente alla sala da pranzo, denominato “Tempietto”, era arricchito da una decorazio-

Personaggi - Mostre

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Bruno Saetti, si è trasferita a Padova e ora vive e lavo-ra tra il Veneto e le Marche. L’attività espositiva, iniziata giovanissima, ha ottenuto già dagli esordi importanti riconoscimenti; negli ultimi tempi è proseguita in varie città italiane e nei borghi più pittoreschi delle Marche.

L’esposizione, organizza-ta dal Gabinetto del Sindaco

colta e raffinata del suo lin-guaggio. Tutto, nell’opera di Laura Borelli, riconduce all’ambito esclusivo della pittura, dove importano la materia cromatica e i modi originali della sua stesura, la luce che inventa lo spazio e scaturisce dalla materia stes-sa del colore, dalla sua dispo-sizione per impasti densi e velature leggere. Opere come partiture musicali: ciascuna con il proprio ritmo, la pro-pria connotazione timbrica e tonale, la propria chiave di apertura-lettura. Immagini ispirate ai diversi paesaggi del nostro tempo, attraversati da inquietudini per la pre-carietà del quotidiano in cui ci muoviamo come acrobati sospesi, come funamboli in un circo di chagalliana me-moria.

Maria Luisa Biancotto

ALESSANDRA PUCCI Le opere e i giorni

Le Scuderie di Palazzo Moroni ospitano da venerdì 19 aprile a domenica 12 mag-gio 2013 la mostra Le opere e i giorni di Alessandra Pucci.

L’artista, di origine marchi-giana, dopo una prima inte-ressante formazione nel clima maceratese degli anni ’50, ha proseguito gli studi all’Acca-demia di Venezia col maestro

esempio schizzi di meda-glioni in ceramica, tracciati velocemente su supporti car-tacei vari, spesso fragili e di recupero, nonché alcuni studi relativi alle danzatrici e allo Storione inseguito da Nereidi e Tritoni. Quest’ultimo è uno dei pezzi più significativi fra quelli esposti, in quanto fir-mato da Laurenti e realizzato con pastelli policromi su car-tone.

Riguardo ai frammenti pittorici, la mostra offre al visitatore la possibilità di osservarli da vicino e di ap-prezzarne la tecnica: non si tratta di “scultura dipinta, non è nemmeno una pittura incisa o scolpita, due modi antichi di unire insieme le due arti rivali rendendo l’una all’altra soggetta; ma è l’ac-cordo, per dir così, unanime e spontaneo del rilievo e del colore, uscenti di un getto solo, come una cosa sola, nel medesimo atto dalla medesi-ma mano” (A. Moschetti, “Il Veneto”, 11 febbraio 1905).

Elisabetta Gastaldi

LAURA BORELLIPartiture cromaticheScuderie di Palazzo Moroni, 22 marzo - 14 aprile 2013.

L’artista, nata a Bolzano, vive e lavora a Padova, città in cui ha avviato la sua for-mazione artistica, proseguita all’Accademia di Venezia con il maestro Bruno Saetti. Ha poi approfondito la tec-nica incisoria alla Scuola di Grafica di Urbino. Espone dal 1970 e ha collaborato con gallerie di Venezia, Milano e Londra. La mostra ripercorre le tappe salienti della fecon-da attività dell’artista dagli anni ’60 a oggi, privilegian-do per questa occasione le opere pittoriche. L’itinerario espositivo rende conto della peculiarità del suo lavoro, che muove con disinvoltura da un’iniziale formulazione figurativa a una successiva espressione astratta, conser-vando intatta nel tempo la tensione emotiva e la qualità

COMUNE DI PADOVA SETTORE ATTIVITÀ CULTURALIASSESSORATO ALLA CULTURA SETTORE MUSEI E BIBLIOTECHE

PROGRAMMA MOSTREInformazioni: tel. 049 8204501 - 8204502, fax 049 8204503,

e-mail: [email protected] Internet: http://padovacultura.padovanet.it

CENTRO CULTURALE ALTINATE Via Altinate, 71

ArtidiscartiLaboratori creativi3 - 13 maggio 2013Info: prenotazione obbligatoria per i laboratori (minimo 8 bam-bini): Associazione Culturale Fantalica - Via Girolamo dal Santo, 2/A tel. 049 2104096 - [email protected]

GALLERIA CAVOUR Piazza Cavour

Gian Maria Lepscky (1897-1965)Metamorfosi di un artista 11 maggio - 16 giugno 2013

Ex MACELLO Via Cornaro, 1/b

RicCAA 2013Biennale Internazionale di ArteContemporanea e Design sul tema dellasostenibilità ambientale26 maggio - 23 giugno 2013

GALLERIA LARINASCENTE Piazza Garibaldi

Enrico BoviIl buio alla fonte28 marzo - 12 maggio 2013

Roberta LuccaNero su bianco - la parola disegnata25 maggio - 22 giugno 2013

GALLERIA SAMONÀ Via Roma

Roberto Pittarello - I racconti del filoTeli ricamati e sei dipinti27 marzo - 5 maggio 2013

Ampelio ChinelloNel colore, la luce17 maggio - 23 giugno 2013

Il linguaggio insiste su un segno fortemente espressivo, sulla linea che collega mon-di; il colore è spesso l’esito di stratificate velature. L’artista usa supporti, impasti, ste-sure differenti, arrivando a soluzioni di notevole libertà e inventiva, pur entro una solida struttura compositiva di impianto classico. Intensa e accurata la tavolozza nelle opere della prima stagione, sembra invece rarefarsi in quelle più recenti.

Pittura complessa quella di Alessandra Pucci: pur ra-pida nella stesura, condensa un grande bagaglio di cultura umanistica e visiva, soprat-tutto medioevale e rinasci-mentale che fonde nelle sue opere con le istanze del con-temporaneo (echi delle avan-guardie del ’900 e non solo), approdando a un’immagine spesso enigmatica e silen-ziosa, a una dimensione so-spesa che suggerisce diversi livelli di lettura. La sua è una figurazione fantastica e in un certo senso astratta, che può equivocarsi come espressio-nista o fraintendere come surreale, e pur nella varietà delle formulazioni, assoluta-mente coerente.

La mostra, corredata di ca-talogo, è aperta tutti i giorni con orario 9.00-12.00/15.00-19.00, chiuso lunedì. Ingres-so libero.

Maria Luisa Biancotto

e curata da Maria Luisa Biancotto, propone una se-lezione di pitture realizzate a olio o acrilico su tela che ap-partengono ad alcuni periodi salienti della lunga e variega-ta ricerca espressiva e temati-ca dell’artista, dagli anni ’60 ad oggi.

Il titolo, mutuato da Esio-do, vuol essere omaggio alla costanza e generosità del suo impegno nell’arte, nella cultura. Ma allude anche al carattere diaristico della sua pittura, come scrittura dell’e-sperienza, elaborazione degli eventi, narrazione onirica, simbolica, allegorica di temi e vicende.

Mostre

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monia civile e morale, oltre che artistica, di grande spes-sore. L’accostamento delle parole alle immagini rafforza le emozioni e dilata la per-cezione della immane trage-dia che si è consumata nel passato, fino a farla rivivere nella mente e nel cuore del visitatore che attonito osserva i resti del “giovane puledro dalle gambe buffe”, giacente nella desolata solitudine e nel profondo grigiore di luoghi in cui prima fioriva la vita .

Laura Sesler

nei boschi, e gli effetti della luce sul verde degli alberi, costruiti con rapide e veloci pennellate o sulla superficie dell’acqua del mare e sulle reti da pesca stese ad asciu-gare al sole sul litorale. Nei suggestivi cicli pittorici delle “Mareggiate” con le alte onde che si frangono sugli scogli, delle “Tamerici” che si flet-tono per resistere alle sferzate del vento, o dei “gabbiani” in volo nel cielo al tramonto, le immagini tratte dal mondo della natura assumono il valo-re di metafora dei sentimenti vissuti dall’uomo. Quest’ul-timo, benché non fisicamen-te rappresentato nelle tele, è sempre al centro delle pro-blematiche d’ordine morale, sociale e religioso affrontate da Galuppo nella sua ricer-ca artistica. In tale ottica il dipinto di forte impatto visi-vo, appartenente al ciclo dedicato a Chioggia e raffi-gurante una barca da pesca con la grande vela triango-lare di un colore rosso, va al di là dell’aspetto descrittivo per diventare testimonianza e omaggio dell’artista al lavoro esercitato da molte genera-zioni di pescatori chioggiot-ti. Affascinante e al tempo stesso inquietante è il famoso ciclo delle Maschere in cui muovendo da considerazioni di carattere filosofico, psica-nalitico e sociale, collegate al senso e alla funzione attri-buita nel tempo a tali ogget-ti, il pittore invita a riflette-re sulla contrapposizione tra realtà interiore ed immagi-ne esteriore dell’uomo, che nel grande palcoscenico del mondo indossa la maschera bianca o quella nera mentre recita il proprio ruolo vesten-do suntuosi mantelli di un nero vellutato e profondo o di un rosso acceso e squillante, simbolici richiami cromatici al perenne conflitto tra la vita e della morte.

Spicca nel percorso della mostra il gruppo di dodici tele, di ampie dimensioni, eseguite negli anni novanta per ricordare il disastro del Vajont, ed ora riproposte uni-tamente alle brevi composi-zioni poetiche allora create dallo stesso Galuppo. Una profonda pietas nei confronti delle duemila vittime e una vibrata denuncia degli errori umani che hanno causato quei lutti e portato distruzione e rovina in un ambiente natu-rale di rigogliosa bellezza, si mescolano nei dipinti che, caratterizzati dal prevalen-te uso di tonalità del grigio, assumo il valore di una testi-

GALUPPO: UNA VITA PER LA PITTURA

La mos t ra in t i to l a t a “Galuppo: una vita per la pit-tura” recentemente organiz-zata a Padova dalla Civica Amministrazione nella galle-ria Cavour, ripercorre le tappe fondamentali della ricerca artistica che il pittore, nell’ar-co di più di sessant’anni, ha sviluppato all’interno di dif-ferenti cicli tematici. L’anto-logica riassume, attraverso un centinaio di opere, la vastis-sima produzione di lavori ad olio di Riccardo Galuppo che, ponendosi sempre in un rap-porto dialettico con la real-tà circostante, ha fissato in immagini di intensa espressi-vità le proprie riflessioni sulla vita, sul lavoro, sull’animo e sui comportamenti dell’uo-mo, considerati nella loro valenza individuale e socia-le. L’esposizione si snoda in ordine cronologico, oltre che tematico, e si aprecon alcuni quadri degli anni cinquanta che con un linguaggio d’im-pronta realistico-narrativa filtrata dalla acuta sensibilità dell’artista, documentano in “vecchia strada Conciapelli” (1952), resa con toni bruni e forti chiaroscuri, la caratte-

I lettori ci scrivonoLA PROPOSTADI RISTRUTTURAZIONE DEL CHIOSTRO“ALBINI” AL MUSEO DEGLI EREMITANIPROVOCA CRITICHEE PERPLESSITÀ

Leggo sulla stampa dell’i-niziativa promossa dall’asses-sorato alla cultura del Comu-ne di Padova per realizzare alcuni interventi, al fine di rendere più fruibile il Museo degli Eremitani. Mi propongo di soffermarmi solo sull’idea – quanto meno poco medi-tata – di coprire il cortile del chiostro progettato e successi-vamente diretto dall’architetto Franco Albini nei primi anni ’70 dello scorso secolo.

Pochi ormai ricordano che Albini è stato uno dei mag-giori protagonisti dell’archi-tettura moderna, chiamato da Samonà con altri professioni-sti ad insegnare all’Istituto di Architettura di Venezia, così qualificando e promuovendo questa scuola ai vertici euro-pei.

Essendosi affermato anche per importanti interventi nel settore museale, fu incari-cato dal Comune di Pado-va per affrontare lo spinoso problema della riconversione dell’ex distretto militare, già convento degli eremitani, a sede del nuovo museo. Alla fine degli anni ’60 parteci-

pai all’incontro con Albini quando venne a Padova per valutare, attraverso la sagoma volumetrica dell’avancorpo, il rapporto con la facciata della chiesa e lo spazio della piazza antistante. Ad onor del vero di altezza di soli due piani e quindi di ingombro visivo assai minore di quello parzial-mente costruito alcuni anni dopo la sua morte, risultato di un compromesso fra gli eredi del suo studio e il Consiglio Superiore ai Beni Culturali.

La struttura metallica della costruzione non fu gradita alla pubblica opinione, susci-tò molte polemiche e alla fine venne abbattuta. Questa fine ingloriosa dell’avancorpo si ripercosse anche sulla pre-cedente opera dell’architetto Franco Albini con un oblio immeritato anche con riferi-mento specie al nuovo chio-stro, che considero un’opera d’arte degna di essere salva-guardata senza alterazioni di sorta.

Il vecchio chiostro sul lato nord della chiesa non c’era più e la sua ricostruzione con colonne ed archi sarebbe stato un falso degno di un medio-cre architetto. La genialità di Albini si è espressa ricrean-do l’antico spazio con l’uso del ferro con una bravu-ra all’altezza di un maestro quale fu Mies Van der Rohe. Mi permetto di affermare che quest’opera dovrebbe esse-re indicata ai visitatori del Museo come un capolavoro di arte moderna, alla pari di altre grandi espressioni di arti figurative presenti nelle sue raccolte.

Preferisco non dare giudizi sulla soluzione proposta che mi costringerebbe ad usare aggettivi che i politici riser-vano alla vigente legge eletto-rale. Considererei invece del tutto incomprensibile il silen-zio dell’Ordine degli Archi-tetti, che pur promuove premi internazionali di architettura, qualora non si manifestas-se per la tutela di una delle poche opere di grande livel-lo realizzate negli ultimi cin-quant’anni nella nostra città.

Mario Battaliard

ristica sequenza dei portici di un quartiere, allora prossi-mo alla distruzione; o fanno affiorare nella precisa descri-zione di una “casa in Friuli”, immersa nel verde, la nostal-gia per quella terra legata ai ricordi dell’infanzia e alla scoperta dalla vita in campa-gna e delle usanze tramandate dalla civiltà contadina .

Seguono, a partire dagli anni settanta, numerose tele che traggono spunto dall’os-servazione del mondo della natura che affascina l’artista per la bellezza del creato e l’inesausta forza vitale nel succedersi delle stagioni. La tavolozza si arricchisce di luminose tonalità per rendere i vivaci colori della prima-vera, il variegato rosseggia-re delle foglie in autunno, la calda intonazione dell’ombra

Mostre - I lettori ci scrivono

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