Anno XI - n. 120 - Novembre 2016 · Marcelo Bielsa nasce a Rosario, in Argentina, che non è...

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Periodico livornese indipendente - Anno XI n. 120 - Novembre 2016 OFFERTA LIBERA Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70% Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it AssessorIna N ella palude livornese tutto scorre piano. Come se la valanga che continua a colpire questa città ogni giorno viag- giasse con i tempi della classe dirigente labronica. Scriviamo “classe dirigente” perché qual- cuno negli ultimi due anni tende ad individuare i problemi strut- turali di questa città con la nuova Amministrazione, che di proble- mi ne ha, ma che non sono cer- to sovrapponibili. Ai tanti sme- morati vorremmo ricordare che le gare per la Darsena Europa, per la Porto2000 e per i bacini sono in perenne proroga, mentre quella del trasporto pubblico è stata bloccata dal Tar. Insomma, gli interessi a cui fa capo il Pd non sono certo più in salute. Ma passiamo alle questioni poli- tiche locali. Segnaliamo due fat- ti che in queste settimane hanno avuto una discreta rilevanza po- litica e che riguardano l’assesso- rato di Ina Dhimgjini. Prima c’è stata la vertenza dei lavoratori delle cooperative sociali che si occupano delle case famiglia e che rischiano il posto di lavoro in seguito ai tagli operati sui ser- vizi. Non entriamo qui nel meri- to della questione ma come altre volte la reazione dell’assessora è stata di totale chiusura e di cieca fiducia nei tecnici del Comune, con tanto di abbandono del ta- volo irritata. Un comportamen- to che ha portato addirittura Buongiorno Livorno a chieder- ne le dimissioni in quanto inac- cettabile in quel contesto. Dopo pochi giorni poi la stoccata del sindacato Fials, il principale in ospedale, che è andato al diretto attacco di assessore e sindaco, dicendo addirittura che rimpian- ge il modo di confrontarsi dei suoi “nemici” del passato, Co- simi e Lamberti. Sarebbe tutto normale se quel sindacato non fosse sempre stato vicino ai con- tenuti dei 5 Stelle in materia di sanità e nuovo ospedale. Si tratta di due stoccate non indifferenti, da parte di soggetti che non fan- no certo opposizione strumen- tale come altri. Cosa significa? Intanto che, come abbiamo sem- pre detto, è assurdo accorpare un assessorato con sanità, socia- le e casa. Sono temi caldissimi che necessitano di cura specifi- ca. Secondo, che l’assessora Ina Dhimgjini non può sostenere questo peso viste le reazioni e le incapacità di mediazione che ha. Terzo, che l’assessora è an- che vittima dell’immobilismo dell’Amministrazione in settori che col passare del tempo recla- mano soluzioni e che riguarda- no le fasce più deboli di questa città. A chi serve la riforma costituzionale? Serve ai tecnocrati europei e ai capitali finanziari per chiudere il cerchio col principio del pareggio di bilancio votato durante il governo Monti. In poche parole serve per sancire il primato di impresa e mercato su stato sociale e democrazia e per affondare definitivamente la capacità di spesa degli enti locali. V ista l’importanza storica del referendum costituzionale del quattro dicembre non fa male scomodare qualche classico di quelli che parlano delle costituzio- ni quando cambiano. E qui due classicissimi vengono in soccorso nell’analisi dei nostri problemi. In entrambi, Polibio e Aristotele, i regimi possono degenerare. La democrazia può (si tratta di un un giudizio famoso) degenare in tirannide. Per questo Polibio ela- bora la teoria del governo misto: una Costituzione che contenga elementi di monarchia, di aristo- crazia e di democrazia in modo da contenere gli aspetti che con- sidera benigni dei tre regimi e al- lontanare le loro degenerazioni. In ogni caso c’è molta attenzione, e si parla di autori che faranno sem- pre scuola, al rapporto tra cambia- mento e possibile degenerazione del regime. Il prodotto renziano da vendere. La propaganda renziana, al con- trario, insiste sul cambiamento, come se invece della Costituzione si dovesse cambiare smartphone, senza preoccuparsi delle degene- razioni. Al contrario, una volta in- sistendo sulla retorica dei piccoli cambiamenti (comunque da ope- rare con il voto del 4 dicembre), una volta esaltando lo stesso voto come un grande cambiamento, Renzi non sembra preoccuparsi di nessuna delle degenerazioni possibili contenute nel suo com- portamento. Il motivo è semplice: essendo il suo un voto senza storia, senza profilo, senza strategia, deve solo preoccuparsi di vendere un prodotto, la riforma, senza preoc- cuparsi troppo del resto. Infatti ha pubblicamente accusato Napolita- no, per giustificare il fatto di dover rimanere al potere comunque vada il referendum, di aver spinto per approvare una riforma costituzio- nale. Come dire: il prodotto non è mio, lo vendo come prodotto di cambiamento (cioè come qualsiasi prodotto), poi comunque vada si passa ad altro. L’altro elemento di insistenza, che non ha niente a che vedere con la Costituzione è il mi- tico elemento dei costi. La Costitu- zione non è una legge di bilancio. Costituzionalizzare le polemiche sulle leggi di bilancio porta a bana- lizzare, a far crollare l’edificio co- stituzionale, a causa di un stipen- dio parlamentare, di un seggio, di un rimborso spese. E questa dege- nerazione del regime democratico, ridotto a spazio di polemiche sulla nota spese, per adesso, interessa a pochi. Quella che vogliamo evi- denziare, inoltre, è un’altra cosa. Non solo i rischi della retorica del cambiamento, contenuti nel mar- keting renziano, ma anche che l’at- tacco alla Costituzione viene da lontano, da forze ben diverse dal marketing renziano. Elenchiamo qui un paio di punti, essenziali per capire queste forze. Fenomeni che si radicano nei cambiamenti eco- nomici e finanziari. Assimilazione del diritto italiano a quello comunitario. L’Italia è percorsa da legioni di costituzio- nalisti, anche molto di sinistra, che giurano e stragiurano che l’”Euro- pa” rappresenta un compimento e un’evoluzione del sistema dei di- ritti pensato nel nostro paese. Ma è davvero così? A noi risulta che questo paese assorba percorsi nor- mativi e procedurali, ad esempio negli accordi sulle aree di crisi, pie- namente assimilabili a un diritto comunitario che contraddice quel- lo della nostra Costituzione. Ed esattamente su un punto, il prima- to dell’impresa, che contraddice la Costituzione italiana, dove sopra tutto ci sarebbe lo stato sociale di diritto. Oltretutto nel diritto comu- nitario, assimilato dal nostro ordi- nanento, si stabilisce un primato che in Italia non è previsto. Quello della forma economica dell’impre- sa tutelata anche rispetto allo stato sociale di diritto. In Germania, ep- pure da quelle parti c’è un diritto al quale la Ue si è ispirata, si sono al- meno tutelati rispetto al problema della subordinazione del diritto nazionale rispetto a quello comu- nitario. Quando la corte costitu- zionale di Karlsruhe ha stabilito il primato della legislazione tedesca sulla normativa continentale in caso di contraddizione. In Italia invece basta declamare la retorica dei valori della Costituzione men- tre, come vediamo, nelle politiche di governance questi vengono re- golarmente rovesciati. Quindi ab- biamo l’implementazione, nell’as- similazione delle norme europee, di un primato dell’impresa che è un rovesciamento dello stato so- ciale di diritto italiano. Questo percorso viene da lontano, dagli anni ’80, non dimentichiamolo. Costituzionalizzazione del pa- reggio di bilancio. Nonostante le parole, tante, che corrono sulla prima parte della Costituzione, quella riguardante i valori che ri- marrebbe invariata in caso di vit- toria dei “Sì”, la vera controrifor- ma costituzionale è già stata fatta. Si tratta della costituzionalizza- zione del pareggio di bilancio, conseguenza concreta della assi- milazione del diritto comunitario, che ha come primato l’impresa, da parte dell’ordinamento naziona- le. Con la legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1 è stato introdotto così nella Costituzione italiana il “principio del pareggio di bilan- cio”... (continua a pagina 3) NO

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Pagina OttoAnno XI - n. 120 - Novembre 2016

PERSONAGGI (prima parte) - Per molti suoi colleghi è il miglior allenatore al mondo contemporaneo malgrado non abbia vinto (quasi) nulla. Perché a renderlo grande e a proiettarlo di diritto nella Hall of Fame del calcio sono le sue idee tattiche, visionarie e rivoluzionarie. Fenomenologia di un futurista prestato al calcio: El Loco Marcelo Bielsa.

TITO SOMMARTINO

Se chiediamo ai più famosi allena-tori del pianeta chi sia il miglior

collega degli ultimi 30 anni, almeno la metà non risponderà Guardiola, Mourinho o Ancelotti ma Marcelo Bielsa, uno che, parafrasando pro-prio Mourinho, in carriera ha vinto zero tituli o giù di lì. Ma nel calcio, così come nella scienza o nelle arti, i migliori spesso non sono quelli che raccolgono i maggiori successi, ma coloro che aprono una strada, che hanno l’intuizione rivoluzionaria: sono i Vittorio Pozzo col “Metodo”, gli Herbert Chapman col “Sistema” (o WM), i Gusztáv Sebes con l’e-voluzione del WM in MM, i Rinus Michels col “Calcio totale”. Sono i vi-sionari, quelli che spesso, illegittima-mente, definiamo matti solo perché non allineati al pensiero comune. E non a caso Bielsa è proprio sopran-nominato El Loco, il matto.Marcelo Bielsa nasce a Rosario, in Argentina, che non è propriamente un posto qualunque. In eterna con-trapposizione a Buenos Aires, sia dal punto vista culturale che artistico e calcistico, è la città dove sono nati il Che, Lucio Fontana, Lionel Messi ma anche Cesar Menotti, El Flaco. Già, Menotti, l’allenatore col mito di Michels che, oltre a vincere il Mon-diale del ’78, rivoluzionò il calcio ar-gentino col suo gioco divertente, spet-tacolare e profondamente offensivo. La perfetta antitesi di Carlos Bilardo, tecnico dell’Argentina ’86 campione del mondo e massimo esponente di quella che può essere definita la scuo-la argentina vecchio stampo, tutta difesa e grinta, gioco sporco e di ri-messa. Prima di Bielsa, in Argentina, quelli erano i due stili calcistici. O eri me-nottiano o bilardiano, non ne uscivi. Come quando in Italia correvano Coppi e Bartali. Se non stavi per l’u-no stavi per l’altro.L’osservatoreDopo una breve e mediocre parente-si da calciatore, Bielsa capisce che la sua missione nel calcio è quella di in-segnarlo. E lo fa sin dalle prime battu-te con maniacale dedizione. Di lui si raccontano miriadi di aneddoti, mol-ti dei quali, se non veri, sicuramente verosimili. Uno dei più particolari riguarda la sua attività di talent-scout, propedeutica a quella di tecnico, per il Newell’s Old Boys, una delle due squadre di Rosario. Bielsa, figlio di giuristi che non vedevano di buon occhio la sua passione per il calcio giudicato un hobby per gente grezza (non gli rivolgeranno la parola per 10 anni), nel 1987 percorre 24mila km in tre mesi con una Fiat 147. Insieme al fido collaboratore Pekerman (anche lui in seguito tecnico della nazionale albiceleste) scova un cicciottello Bati-stuta, un timido Sensini e una notte, in piena notte, suona il campanello di una casa sperduta in una pampa che dà sul Paranà. Aprono la porta, atter-riti e increduli, i genitori di Mauricio Pochettino, giovane di belle speranze che l’anno seguente, a 16 anni, de-butterà da titolare in campionato nel Newell’s Old Boys di Bielsa.La rivoluzioneBielsa è solito leggere una dozzina di quotidiani al giorno. Qualcuno lo definirà un ergastolano studioso

del pallone. Presto impara tutti i se-greti tattici di Menotti e Bilardo e la sua intelligenza, unita ad una totale e maniacale dedizione, gli permette di sintetizzare nel proprio credo le prin-cipali massime dei due opposti del cal-cio argentino. Presto, in Argentina, gli stili calcistici diventano tre. Bielsa rie-sce a tradurre in campo, con risultati sensazionali, uno schema che fino ad allora sembrava inapplicabile, il 3-3-1-3, che permette rapidi contropiede e al tempo stesso una copertura del campo uniforme. Velocità, aggressivi-tà e ritmi forsennati sono le tre armi principali del gioco di Bielsa. Una linea difensiva fatta di tre centrali ravvicinati, con due marcatori e un libero vecchio stampo che sappia impostare l’azione da dietro, senza esterni bassi”; un cen-trocampo a tre impostato su un centrale basso che difenda i centrali e costruisca il gioco, poi due esterni che sfruttano il fraseggio stretto, gli inserimenti verticali negli spazi e ripiegano sulle ripartenze avversarie; l’enganche, cioè il trequarti-sta, l’uomo sul quale ruota tutto, che deve avere cervello, fiato e tecnica, che crea gioco e collega i reparti in fase of-fensiva muovendosi continuamente tra le linee e dettando i passaggi; un tridente

il campionato al primo tentativo ma la straordinarietà non sta tanto (solo) nella conquista del titolo, bensì nel modo con cui esso arriva. Ciò che è deflagrante è il calcio proposto dal suo Newell’s: in Argentina e nel resto del mondo mai si è giocato in modo così ultra-offensivo, verticale fino all’eccesso, atletico e costantemente in pressing. È questa la vera rivoluzio-ne di Bielsa: preparare la partita sen-za prepararsi sull’avversario perché il gioco deve sempre essere in mano propria. E poi la continua copertura della metà campo avversaria fatta con i tagli in profondità, l’ossessiva ricer-ca dello spazio, le giocate massimo a due tocchi, il pressing triplicato in uscita e le ripartenze fulminee in fase di transizione offensiva. Un futurista prestato al calcio, ecco cosa sembra essere Bielsa. È per questo che forse, a proposito di illustri suoi concittadini, più che a Menotti, Bielsa può essere paragonato a Fontana. Si apre così l’era del Newell’s campio-ne: un tornado che si abbatte sull’Ar-gentina e deflagra Boca, River, Rosa-rio Central e tutte le compagini più quotate. A Rosario è già un guru. Una figura da portare in trionfo, cosa che i

offensivo che deve rispondere ad una mobilità forsennata degli esterni, che de-vono tagliare attaccando gli spazi, farsi trovare sulle verticalizzazioni, allargare il campo e pressare fin dai primi metri il giro palla avversario, e un centravanti vero, meglio se fisicamente prestante, un finalizzatore dotato fisicamente e atleti-camente.Gli iniziA Rosario si comincia a parlare di Bielsa per la sua strana consuetudine, ad un certo punto, di abbandonare il campo, arrampicarsi su un albero e guidare gli allenamenti da lì. “Lo fac-cio per vedere meglio i movimenti dei miei calciatori e poterli correggere in diretta”, spiega. È qui che prende il soprannome di El Loco, che, alla gui-da delle giovanili del Newell’s vince a mani basse ogni competizione giova-nile. Sensini, Pochettino, Batistuta ma anche Heinze e Balbo sono alcuni dei frutti raccolti nei 24.000 km di pelle-grinaggio calcistico. Bielsa viene lan-ciato in prima squadra nel 1990 e lui si porta dietro dieci ragazzi della cantera. Perché El Loco non ha bisogno di cam-pioni ma di buoni giocatori che per lui, anzi, per le sue idee, siano disposti a gettarsi anche nel fuoco. Bielsa vince

suoi giocatori puntualmente fanno al grido di “Newell’s Carajo!”.Di campionati al Newell’s, El Loco ne vince anche un altro, il Clausura del ’92 e, sempre lo stesso anno, perde in finale ai rigori contro il San Paolo la finale di Copa Libertadores. Una cavalcata incredibile iniziata in modo ancor più incredibile, con una disfatta casalinga per 6-0 contro il San Loren-zo. Proprio questa sconfitta porta con sé uno degli aneddoti più particolari legati a Bielsa: la sera stessa alcuni ultrà dei Leprosos si presentano da-vanti casa dell’allenatore per chiedere conto della disfatta. Bielsa, anziché accettare il confronto, esce di casa impugnando una bomba a mano. Oggi, lo stadio in cui gioca il Newell’s Old Boys si chiama (già) “Estadio Marcelo Bielsa”. Questo è sufficien-temente indicativo di quale impronta abbia lasciato Bielsa nella metà ros-sonera di Rosario. (Fine prima parte)

A lo Loco se vive mejor

AssessorIna

Nella palude livornese tutto scorre piano. Come se la

valanga che continua a colpire questa città ogni giorno viag-giasse con i tempi della classe dirigente labronica. Scriviamo “classe dirigente” perché qual-cuno negli ultimi due anni tende ad individuare i problemi strut-turali di questa città con la nuova Amministrazione, che di proble-mi ne ha, ma che non sono cer-to sovrapponibili. Ai tanti sme-morati vorremmo ricordare che le gare per la Darsena Europa, per la Porto2000 e per i bacini sono in perenne proroga, mentre quella del trasporto pubblico è stata bloccata dal Tar. Insomma, gli interessi a cui fa capo il Pd non sono certo più in salute. Ma passiamo alle questioni poli-tiche locali. Segnaliamo due fat-ti che in queste settimane hanno avuto una discreta rilevanza po-litica e che riguardano l’assesso-rato di Ina Dhimgjini. Prima c’è stata la vertenza dei lavoratori delle cooperative sociali che si occupano delle case famiglia e che rischiano il posto di lavoro in seguito ai tagli operati sui ser-vizi. Non entriamo qui nel meri-to della questione ma come altre volte la reazione dell’assessora è stata di totale chiusura e di cieca fiducia nei tecnici del Comune, con tanto di abbandono del ta-volo irritata. Un comportamen-to che ha portato addirittura Buongiorno Livorno a chieder-ne le dimissioni in quanto inac-cettabile in quel contesto. Dopo pochi giorni poi la stoccata del sindacato Fials, il principale in ospedale, che è andato al diretto attacco di assessore e sindaco, dicendo addirittura che rimpian-ge il modo di confrontarsi dei suoi “nemici” del passato, Co-simi e Lamberti. Sarebbe tutto normale se quel sindacato non fosse sempre stato vicino ai con-tenuti dei 5 Stelle in materia di sanità e nuovo ospedale. Si tratta di due stoccate non indifferenti, da parte di soggetti che non fan-no certo opposizione strumen-tale come altri. Cosa significa? Intanto che, come abbiamo sem-pre detto, è assurdo accorpare un assessorato con sanità, socia-le e casa. Sono temi caldissimi che necessitano di cura specifi-ca. Secondo, che l’assessora Ina Dhimgjini non può sostenere questo peso viste le reazioni e le incapacità di mediazione che ha. Terzo, che l’assessora è an-che vittima dell’immobilismo dell’Amministrazione in settori che col passare del tempo recla-mano soluzioni e che riguarda-no le fasce più deboli di questa città.

A chi serve la riforma costituzionale? Serve ai tecnocrati europei e ai capitali finanziari per chiudere il cerchio col principio del pareggio di bilancio votato durante il governo Monti. In poche parole serve per sancire il primato di impresa e mercato su stato sociale e democrazia e per affondare definitivamente la capacità di spesa degli enti locali.

Vista l’importanza storica del referendum costituzionale

del quattro dicembre non fa male scomodare qualche classico di quelli che parlano delle costituzio-ni quando cambiano. E qui due classicissimi vengono in soccorso nell’analisi dei nostri problemi. In entrambi, Polibio e Aristotele, i regimi possono degenerare. La democrazia può (si tratta di un un giudizio famoso) degenare in tirannide. Per questo Polibio ela-bora la teoria del governo misto: una Costituzione che contenga elementi di monarchia, di aristo-crazia e di democrazia in modo da contenere gli aspetti che con-sidera benigni dei tre regimi e al-lontanare le loro degenerazioni. In ogni caso c’è molta attenzione, e si parla di autori che faranno sem-pre scuola, al rapporto tra cambia-mento e possibile degenerazione del regime. Il prodotto renziano da vendere. La propaganda renziana, al con-trario, insiste sul cambiamento, come se invece della Costituzione si dovesse cambiare smartphone, senza preoccuparsi delle degene-razioni. Al contrario, una volta in-sistendo sulla retorica dei piccoli cambiamenti (comunque da ope-rare con il voto del 4 dicembre), una volta esaltando lo stesso voto come un grande cambiamento,

Renzi non sembra preoccuparsi di nessuna delle degenerazioni possibili contenute nel suo com-portamento. Il motivo è semplice: essendo il suo un voto senza storia, senza profilo, senza strategia, deve solo preoccuparsi di vendere un prodotto, la riforma, senza preoc-cuparsi troppo del resto. Infatti ha pubblicamente accusato Napolita-no, per giustificare il fatto di dover rimanere al potere comunque vada il referendum, di aver spinto per approvare una riforma costituzio-nale. Come dire: il prodotto non è mio, lo vendo come prodotto di cambiamento (cioè come qualsiasi prodotto), poi comunque vada si passa ad altro. L’altro elemento di insistenza, che non ha niente a che vedere con la Costituzione è il mi-tico elemento dei costi. La Costitu-zione non è una legge di bilancio. Costituzionalizzare le polemiche sulle leggi di bilancio porta a bana-lizzare, a far crollare l’edificio co-stituzionale, a causa di un stipen-dio parlamentare, di un seggio, di un rimborso spese. E questa dege-nerazione del regime democratico, ridotto a spazio di polemiche sulla nota spese, per adesso, interessa a pochi. Quella che vogliamo evi-denziare, inoltre, è un’altra cosa. Non solo i rischi della retorica del cambiamento, contenuti nel mar-keting renziano, ma anche che l’at-

tacco alla Costituzione viene da lontano, da forze ben diverse dal marketing renziano. Elenchiamo qui un paio di punti, essenziali per capire queste forze. Fenomeni che si radicano nei cambiamenti eco-nomici e finanziari.Assimilazione del diritto italiano a quello comunitario. L’Italia è percorsa da legioni di costituzio-nalisti, anche molto di sinistra, che giurano e stragiurano che l’”Euro-pa” rappresenta un compimento e un’evoluzione del sistema dei di-ritti pensato nel nostro paese. Ma è davvero così? A noi risulta che questo paese assorba percorsi nor-mativi e procedurali, ad esempio negli accordi sulle aree di crisi, pie-namente assimilabili a un diritto comunitario che contraddice quel-lo della nostra Costituzione. Ed esattamente su un punto, il prima-to dell’impresa, che contraddice la Costituzione italiana, dove sopra tutto ci sarebbe lo stato sociale di diritto. Oltretutto nel diritto comu-nitario, assimilato dal nostro ordi-nanento, si stabilisce un primato che in Italia non è previsto. Quello della forma economica dell’impre-sa tutelata anche rispetto allo stato sociale di diritto. In Germania, ep-pure da quelle parti c’è un diritto al quale la Ue si è ispirata, si sono al-meno tutelati rispetto al problema della subordinazione del diritto

nazionale rispetto a quello comu-nitario. Quando la corte costitu-zionale di Karlsruhe ha stabilito il primato della legislazione tedesca sulla normativa continentale in caso di contraddizione. In Italia invece basta declamare la retorica dei valori della Costituzione men-tre, come vediamo, nelle politiche di governance questi vengono re-golarmente rovesciati. Quindi ab-biamo l’implementazione, nell’as-similazione delle norme europee, di un primato dell’impresa che è un rovesciamento dello stato so-ciale di diritto italiano. Questo percorso viene da lontano, dagli anni ’80, non dimentichiamolo.Costituzionalizzazione del pa-reggio di bilancio. Nonostante le parole, tante, che corrono sulla prima parte della Costituzione, quella riguardante i valori che ri-marrebbe invariata in caso di vit-toria dei “Sì”, la vera controrifor-ma costituzionale è già stata fatta. Si tratta della costituzionalizza-zione del pareggio di bilancio, conseguenza concreta della assi-milazione del diritto comunitario, che ha come primato l’impresa, da parte dell’ordinamento naziona-le. Con la legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1 è stato introdotto così nella Costituzione italiana il “principio del pareggio di bilan-cio”... (continua a pagina 3)

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internazionale Anno XI, n. 120 7stile liberoNovembre 2016

questa direzione, ma attività cal-colate che permetteranno di rag-giungere questo obiettivo”. La Prima Ministra Beata Szydlo ha annunciato che lo Stato garantirà un aiuto sociale per incentivare le donne a partorire e ad edu-care i figli disabili. La forza e le dimensioni di que-sta protesta hanno sorpreso tutti. Dopo circa 25 anni di “pace so-ciale” si è avuto un cambiamento fondamentale in Polonia: di fron-te alle decisioni autoritarie del PiS si è sviluppato un movimen-to di massa interclassista, chia-mato Comitato di Difesa della Democrazia (Kod). Alle mani-festazioni organizzate dal Kod partecipano decine di migliaia

di persone. La “protesta nera” è una nuova e importante conferma che la tradizione e la cultura dei movimenti di massa in di-fesa dei diritti e delle libertà democratiche stanno rina-scendo.

Katarzyna Bielinska - Npa Fonte www.rebelion.org, tra-duzione per Senza Soste di Nel-lo Gradirà

Le proteste di massa delle donne, senza precedenti in

Polonia, hanno costretto il Parla-mento polacco ad abbandonare i suoi plani per rendere più restrit-tiva la legge contro l’aborto. Il partito Legge e Giustizia (PiS) al potere si è arreso di fronte all’e-splosione della rabbia sociale. La legge del 1993, definita di “compromesso” dai media con-servatori, liberali e socialde-mocratici, è una delle leggi più restrittive dell’Unione Europea: l’interruzione della gravidanza è ammessa soltanto quando la vita o la salute della donna sono in pericolo, quando l’embrione è gravemente malato o quando la gravidanza è il risultato di un reato. In pratica anche in questi casi l’aborto è inaccessibile, per-ché si prolungano le procedure, si rifiuta di effettuare l’intervento in base a una pretesa “clausola di coscienza”, ecc. Per questo gli aborti clandestini fioriscono così come l’emigrazione abortiva: secondo le stime delle organiz-zazioni femministe, in Polonia vi sono tra gli 80.000 e i 100.000 aborti ogni anno, dei quali solo alcune centinaia legali. Le orga-nizzazioni femministe e di sini-stra finora non erano riuscite a creare mobilitazioni. Nel marzo scorso, la tradizionale manife-stazione che viene organizzata a Varsavia da 17 anni in occa-sione del giorno internazionale della donna si era svolta sotto

lo slogan di “Aborto a difesa della vita”. Vi aveva partecipato un mi-gliaio di persone al massimo. Il 23 settembre scorso, la Dieta (ca-mera bassa del Parlamento), nella quale il PiS ha la maggioranza asso-luta, ha deciso di aprire il dibattito su una proposta di legge di iniziativa popolare, ultraconservatrice, presen-tata dall’organizzazione Ordo Iuris. Questo progetto prevedeva la proi-bizione assoluta dell’aborto e pene detentive per le donne che inter-rompono la gravidanza. Allo stesso tempo, la Dieta si è rifiutata di esa-minare il progetto di legge di inizia-tiva popolare “Salviamo le donne”, ispirato alla legislazione della mag-gioranza dei paesi dell’Unione Eu-ropea, che intendeva liberalizzare la

legge attuale e autorizzava l’aborto fino alla dodicesima settimana. La decisione della Dieta ha provo-cato un’immensa mobilitazione in tutto il paese, soprattutto di donne. Nessuno si aspettava che la “prote-sta nera”, così chiamata per i vestiti e gli ombrelli neri che portavano le manifestanti, avesse una tale dimen-sione. Lunedì 3 ottobre ci sono state manifestazioni in 143 città e paesi. A Varsavia, al concentramento in piazza del Castello sono arrivate decine di migliaia di persone no-nostante la pioggia. Molte donne si sono vestite di nero per andare al lavoro. Rispondendo all’appello per uno sciopero delle donne, ispirato dallo sciopero islandese del 1975, alcune donne non sono andate al

lavoro, altre sì ma limi-tando l’esercizio dei loro obblighi professionali: ad esempio una segretaria non rispondeva al tele-fono. Pertanto è diffícile stimare la partecipazio-ne alla protesta nelle sue diverse forme. Secondo i media, circa 100.000 per-sone hanno preso parte soltanto alle manifesta-zioni di piazza. Un son-daggio indicava che il 67 % delle donne e degli uo-mini appoggiava la prote-sta. Inoltre il risultato di questa protesta massiccia e inattesa è stato impreve-dibile: il PiS ha ritirato il suo ap-

poggio al progetto fondamentalista che aveva soste-nuto due settima-ne prima, e il 6 ottobre la Dieta lo ha respinto. Il pre-sidente del PiS, Jaroslaw Kaczyn-ski, ha ammesso alla Dieta che “osservando la situazione socia-le”, si è convinto che il progetto di Ordo Iuris “non è appropriato, che il suo effetto sarà esattamente il contrario”. Di-chiarava che “il PiS è e continuerà ad essere a favore della protezione della vita. E realizzerà attività in

POLONIA - La “protesta nera” delle donne ferma una legge medievale

Il fondamentalismo non è solo islamico

AFGHANISTAN - Dopo 15 anni di occupazione il quadro nel paese è disastroso

La “libertà” che hanno esportatoDi seguito un ampio stralcio dell’in-

tervista di Diagonal alla deputata e attivista afghana Malalai Joya sulla si-tuazione delle donne in Afghanistan nel 15° anniversario dell’inizio della guerra. La versione integrale sarà pubblicata sul nostro sito (Redazione). Qual è la situazione del-le donne in Afghanistan dopo l’occupazione? Vi senti-te liberate? La situazione delle donne in Af-ghanistan disgraziatamente è un disastro ancora più grande rispetto all’epoca dei talebani. Gli uomini e le donne dell’Afghanistan - non solo le donne - non sono stati assoluta-mente liberati. Soffrono ingiustizia, insicurezza, corruzione, disoccupa-zione, povertà... Le donne e i bam-bini sono quelli che stanno peggio. La catastrofica situazione delle don-ne è stata un’ottima scusa perché la Nato occupasse il nostro paese e, di fatto, ci hanno mandato in prima linea per rimpiazzare il regime dei talebani, misogini e fondamentali-sti, con i signori della guerra, anche loro misogini e fondamentalisti, che sono della stessa pasta dei talebani e che ingannano il popolo afghano camuffati da democratici. Per que-sto la situazione, specialmente per le donne, è un inferno, nella maggior parte delle zone del paese. Neanche

a Kabul le donne si sentono sicure. Il drammatico caso di Farjunda, una ra-gazza di 27 anni accusata di aver bru-ciato un Corano, è sufficiente a capire la situazione di assoluto disastro per le donne. L’anno scorso, il 19 marzo, è stata brutalmente linciata in pieno gior-no, a pochi chilometri appena dal pa-lazzo presidenziale, molto vicino alla polizia afghana e alle truppe straniere. Dopo un pestaggio, le sono passati so-pra con un auto, hanno bruciato il suo corpo e lo hanno gettato in un fiume vicino. Questa storia di per sé è suffi-

ciente per capire la situazione, e nelle aree rurali è ancora peggio. Stupri, vio-lenza maschile nelle case, aggressioni,

pestaggi di donne, lapidazioni... La violenza contro le donne si è aggravata. All’epoca dei talebani le donne e gli uomini del nostro paese avevano un nemico, che erano i terroristi talebani, ma in questi 15 anni dopo l’occupazio-ne la nostra gente ha quattro nemici: i signori della guerra, i talebani, le forze di occupazione e l’Isis. Ed è vero che in alcune grandi città, Kabul, Herat, Mazar-i-Sharif, alcune donne hanno accesso al lavoro e all’istruzione, ma solo per giustificare l’occupazione. Ma nelle aree rurali questo regime fantoc-cio e corrotto non ha fatto nulla. Dal basso, i talebani, i signori della guerra e i terroristi dell’Isis continuano a com-mettere atti di barbarie contro uomini e donne del nostro paese, specialmente sulle donne. Ma dal cielo le forze di occupazione bombardano alla cieca e la gente innocente è vittima, in nome della presunta guerra contro il terrore. È una guerra contro civili innocenti. Migliaia di persone sono state assassi-nate in questi 15 anni di occupazione, soprattutto donne e bambini. Nel tuo caso, com’è cambiata la tua vita dopo l’occupazione?

La mia vita è sufficiente per capire la farsa della democrazia in Afghanistan. Non abbiamo l’elemento centrale della democrazia, che è la libertà di espres-sione e di stampa, non abbiamo que-ste condizioni per la democrazia in Afghanistan. Abbiamo una caricatura di democrazia, con le mani sporche di sangue, sfortunatamente. Per esempio, paragoniamo la mia vita con il perio-do talebano. Ero maestra clandestina e portavo il burka. Anche oggi devo portare questo orribile burka, che riten-go un simbolo di oppressione ma che

oggi mi garantisce sicurezza. Non solo a me, ma ad altre migliaia di donne, specialmente quelle che non sono attiviste, per nascondere la loro identità. Ma sfortunatamente i me-dia, il meccanismo di propaganda e i politici accecano la gente rispet-to alla guerra. Avrete sentito Laura Bush dire che grazie a loro le donne in Afghanistan per la prima volta nella loro storia avevano dei diritti. Questa è un’enorme menzogna. Le donne afgane avevano certi diritti negli anni ’60-‘70. Vestivano più o meno all’occidentale ed esercitava-no un ruolo nella società, andavano anche per strada senza il velo. Ma dopo quattro decenni di guerra han-no sofferto molto. Corrono molti pericoli, specialmente le attiviste. Devono coprirsi perché nessuno le riconosca e per non essere un obiet-tivo (...) .

Emma Gascó - Diagonal Fonte http://www.diagonalpe-riodico.net/global/31794-entrevi-sta-malalai-joya.html, traduzione per Senza Soste di Nello Gradirà

La situazione

delle donne in Afghanistan è

perfino peggiore che con i talebani

to principale, il traguardo è sta-to fare esattamente il disco che avevo in mente ed averlo pagato vendendo i miei lavori grafici, il resto è in secondo piano.Già, il disco è stato prodotto grazie a questa particolare for-ma di crowfunding.Sì, è stata un idea azzardata che ha dato frutti insperati, una “svendita” di opere a prezzi abbordabili che ha quasi total-mente coperto le spese di regi-strazione stampa e ufficio stam-pa, il poco restante l’ha messo il buon Paolo della Riff Records.E parlando di opere merita una citazione la copertina stessa del disco (e che ritroviamo an-che nel video di Same tra l’al-tro).La copertina è un lavoro che ha poi dato nome al disco. “Left Hand”. È un quadro venuto per caso, avevo due pannelli di le-gno neri da buttare che decisi di recuperare usandoli come sup-porto, sul primo feci un lavoro geometrico dal titolo “lifetime”, sull’altro essendo a corto di idee con la destra mi disegnai guar-dandola la mano sinistra. Il ri-sultato cromatico di un blu elet-trico su sfondo nero mi piacque molto e mi suggerì di usarlo ap-pena possibile per la grafica di un disco. La mano sinistra poi è la mano del cuore, quella che danza sullo strumento.Silvereight è un progetto soli-sta o un gruppo, e soprattut-to continuerà ad essere la tua identità principale?Silvereight è un progetto soli-sta ma vive di entusiasmo, il mio e di chi mi dà una mano a dare forma alle canzoni. La formazione attuale con Federi-co Melosi alla batteria e Gianni Niccolai al basso ha una bella alchimia sonora ed umana, spe-ro dunque, se l’ispirazione mi riporterà ad arrangiare i pezzi in formazione a tre, di conti-nuare con loro.Come musicista hai alle spal-le svariati progetti ma oltre a Silvereight ed alla già citata collaborazione con il collet-tivo del Tor porti avanti altri percorsi insieme ad altri musi-cisti.Sì l’altro gruppo stabile che ho sono gli adorati The Jackie-O’s Farm di cui faccio parte come chitarrista dal 2006, gruppo capitanato dal bomber e bravis-simo autore di canzoni Giaco-mo Vaccai, abbiamo fatto tanta strada insieme e spero di farne altrettanta, siamo in procinto attualmente di ultimare il terzo disco con la produzione artisti-ca di Andrea Appino. Collabo-ro poi volentieri con altri amici di altri gruppi come Mandrake, NU. e Bad Love Experience, che fanno tutti parte tra l’altro del collettivo Inner Animal Re-cording.Info:silvereight.neteggvisualart.com

A cura di Lucio Baoprati

Tra le uscite discografiche made in Leghorn del 2016

non è passato inosservato il se-condo lavoro in studio di Silve-reight, progetto solista del chi-tarrista classe ‘76 Federico Sil-vi. Dopo l’esordio del 2013 con l’eponimo “Silvereight”, carat-terizzato da sonorità più elet-troniche, il 10 giugno del 2016 è uscito “Left Hand”, produzione decisamente più rock. Il lancio in rete del suo ultimo video, Same (quinta traccia del disco), è stata l’occasione per contat-tare finalmente Federico Silvi. È nata così una bella intervista ad ampio raggio con una delle migliori menti creative della pur ricca e variegata scena musicale livornese (e non).Same è il quarto video estratto dal tuo ultimo album, un video ed un brano a cui tieni molto.Esatto, Same è un brano a cui tengo molto perché è una delle due canzoni (insieme a Propa-gUnda) che affronta argomenti politici e sociali. La regia ed il montaggio sono di Filippo Del Bubba (Jacqueline Farda) cono-sciuto in ambito TeatrOfficina Refugio e capace di inquadrare e videare il mood tematico del pezzo.Questo non è il primo video costruito su materiale di reper-torio.No, è il terzo video tratto da questo disco che utilizza imma-gini di repertorio, il primo è sta-to “From space” ed il secondo “Love” (entrambi realizzati con la videomaker Ambra Lunar-di) . È stata una scelta fatta in principio per ragioni economi-che che si è poi rivelata molto stimolante.In questo ultimo video scorro-no le immagini di chi il potere lo difende e di chi ha provato (e prova) a contrastarlo.Il testo è una energica accusa verso gli stessi schemi e le stesse dittature che cambiano pelle ma restano sempre fatte della stessa sostanza e della potenza sotter-ranea di un popolo che se non soggiogato e messo sotto scacco dalla macchina ha sempre, e ri-peto sempre, in potenza il pote-re di farsi giustizia.Alla fine del brano canti «Step by step year after year/ same old lies/another broken dre-am»: dopo l’ennesimo sogno infranto cosa resta?Resta la prospettiva. La pro-spettiva c’é sempre finché ci sa-ranno gli ideali. L’importante è non confondere l’ideale con le persone che lo mettono in prati-ca, le persone sono fallaci, l’ide-ale è un faro da non perdere mai di vista. I sogni infranti sono, credo, sotto gli occhi di tutti...Nel video poi c’è la dedica fi-nale: cos’ha rappresentato per te e cosa rappresenta ancora Genova 2001?Genova 2001, a parte il tragi-co episodio della morte, anzi dell’uccisione di Carlo Giulia-ni, ha rappresentato la prima spietata zampata del “Tallone

di ferro” (libro di Jack London che estremizza una futura e fe-roce oligarchia) dei nostri tempi. Erano anni per certi versi “in-genui”, la rete non imperversa-

va ancora e gli attuali sentori di complottismo (spesso fanatici e deliranti ma basati comunque su reali scenari e meccanismi) erano lontani, c’era la volontà di mani-festare con forza ed ideali contro un’organizzazione mondiale che gettava le basi per uniformare un sistema capitalistico e di sfrutta-mento delle risorse inaccettabi-le, e la risposta delle autorità fu estremamente coerente con gli scenari mondiali che di lì a poco si sarebbero delineati...Il tuo rapporto con la dimensio-ne politica.La dimensione politica è la vita. Tutto è politica perché siamo sempre e costantemente ciò che facciamo e ciò che non faccia-mo, ciò che scegliamo e ciò che non scegliamo. La citazione che

accompagna il post del video di Same di Antonio Gramsci basta da sola a rispondere alla doman-da «Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli

indifferenti.»A conferma del tuo impe-gno da tempo partecipi atti-vamente alle rappresenta-zioni del Tor.Il Tor (Teatro-OfficinaRefu-gio occupato e antifascista) è uno spazio che frequento da anni e dove mi

sento veramente a casa per l’idea che lo anima e per le persone che ci puoi trovare. In una società che si muove esclusivamente per sol-di avere un luogo animato esclu-sivamente dalla passione e dagli ideali comuni ha un valore inesti-mabile, sono felice di averlo nella mia città e sono sempre pronto quando posso a contribuire alle attività e agli spettacoli svolti.Rimaniamo in tema: gli spazi e la cultura a Livorno.Gli spazi e la cultura a Livor-no hanno fatto passi da gigante se rapportati alla situazione che avevo di fronte quando avevo venti anni... Posti come il The Cage, il Surfer Joe, il Nuovo Tea-tro delle Commedie, il Tor come detto prima, il Grattacielo, Pol-petta, Orti Urbani, Egg Visual

Art (di cui fac-cio parte), Ca-rico Massimo, Buzz Kill etc... insomma c’è tanto da fare ma le potenzialità stanno venendo fuori. Il proble-ma più grande è confrontarsi troppo spesso con un’utenza pigra e disinte-ressata...Tra le tue forme espressive non c’è solo la mu-sica: c’è comun-que un nesso tra questa e la tua produzione ar-tistica nell’am-bito grafico e pittorico?Il nesso c’è ed è la mia sensibili-tà nell’approc-cio che ho alle cose (ognuno ha la sua). Un elemento che accomuna la musica e il dise-

gno credo sia l’essere totalmente autodidatta. Sono sempre stato affascinato dal lato “magico” dell’espressione artistica, vedere cosa viene fuori senza schemi o sovrastrutture preesistenti che non siano la propria esperienza sul campo.Torniamo al tuo ultimo disco,

Left Hand: possiamo fare un primo bilancio?Il bilancio ahimè (per ora) è vit-tima di un paese che mal digeri-sce soprattutto negli ultimi anni il cantato in inglese. Nonostante le buonissime recensioni ricevu-te fino ad ora si fa molta fatica a promuovere il proprio lavoro ai media “che contano”. Direi co-munque che non è questo il pun-

La mano sinistra dell’indie rock

SUONI E VISIONI - Intervista al chitarrista, compositore e visual artist labronico Federico Silvi

2

“Tutto è politica

perché siamo sempre e

costantemente ciò che

facciamo e ciò che non facciamo”

La mobilitazione

di massa ha bloccato

i progetti antiabortisti del

governo

Page 3: Anno XI - n. 120 - Novembre 2016 · Marcelo Bielsa nasce a Rosario, in Argentina, che non è propriamente un posto qualunque. In eterna con-trapposizione a Buenos Aires, sia dal punto

per non dimenticare6 3interniNovembre 2016

modello di Protezione Civile che pretende di prendere in carica to-talmente il territorio, spogliando la popolazione di ogni iniziativa e mettendola come “in cura”. La ricostruzione di Firenze invece

mostra che il protagonismo po-polare, le reti di relazioni sorte spontaneamente sul territorio, i rapporti di vicinato e la passione politica sono la miglior forma pos-sibile di protezione civile. Da questo punto di vista, sono am-mirato e complice del modello di intervento che le Brigate di Solida-rietà Attiva stanno portando avanti in questi anni nei luoghi toccati da catastrofi.

ORLANDO SANTESIDRA

La storia degli angeli del fango è stata innegabilmente una

bellissima pagina di solidarietà. Coinvolse migliaia di giovani vo-lontari da tutto il mondo che si pre-cipitarono a Firenze a pochi giorni di distanza dal’alluvione che il 4 novembre del 1966 devastò il ca-poluogo toscano e i dintorni, con l’obiettivo di collaborare a mettere in salvo il patrimonio artistico citta-dino, in particolare le opere conte-nute nei magazzini della Biblioteca Nazionale. Anche in questi giorni le istituzioni fiorentine per bocca del sindaco Nardella si sono pro-digate in numerosi appelli a quei volontari affinchè partecipassero alle celebrazioni del cinquantesimo anniversario dell’evento. Le luci della ribalta da sempre puntate su questa vicenda rischiano però di offrire alle nuove generazioni una ricostruzione falsata, o meglio in-completa sulla reazione della città all’alluvione. A tal proposito, una nuova inquadratura dei fatti ci ar-riva dal video di Sergio Canfailla e Lorenzo Giudici, «Noi non siamo angeli del fango», un viaggio tra i volti anonimi e gli abitanti dei quar-tieri più colpiti che ci rivela come la vicenda dell’alluvione fu affrontata tramite un processo di autorganiz-zazione dal basso nel quale spicca-rono le realtà di base del territorio, in particolare le parrocchie e le case del popolo. Se l’alluvione colpì per la dimensione eccezionale dello straripamento dell’Arno, altrettan-to scalpore destò l’incapacità della classe dirigente locale e dello Stato di gestire la situazione. Pertanto, senza aspettare ordini dall’alto, la popolazione cominciò ad organiz-zarsi e nel giro di pochi giorni costi-tuì «ben 12 comitati di quartiere for-mati da squadre di giovani volon-tari che lavoravano giorno e notte per aiutare la gente a liberare case e negozi dal fango, a censire i danni, a occupare le case sfitte, a rivendi-care i propri diritti di fronte a uno stato e a un’amministrazione fino ad allora colpevolmente assenti» (Riccardo Michelucci, “Diario”, n. 42 anno XI, 3 novembre 2006). Nel video, immagini di repertorio si al-ternano alle voci di chi ricorda l’es-perienza del ‘66, suggerendo aned-doti buffi come quelli di chi vide il proprio vicino «uscire in tuta da pa-lombaro» o rievocando i momenti più drammatici, come chi, tra le lacrime, non dimentica il totale si-lenzio sceso sulla città. Da dove nasce l’esigenza di ricos-truire questa vicenda? Come ricercatore - risponde Loren-zo Giudici, uno degli autori - sono solito lavorare con la «storia orale». Mi avevano affidato il compito di raccogliere le memorie dei fioren-tini sull’alluvione del ‘66 in vista dell’anniversario dei 50 anni. Poco dopo, ho iniziato a portarmi una te-lecamera, per divertirmi, perché al-cune espressioni mi facevano dav-vero ridere. Quando ho iniziato le interviste, c’è stata una cosa che mi ha sorpreso. Contro ogni mia aspet-tativa, i fiorentini mi dicevano: “la storia degli angeli del fango l’è una

truffa”. Ho scoperto una storia della nostra città che ci hanno raccontato molto poco. In breve, quando arrivò la piena, le istituzioni cittadine non era-no preparate all’emergenza; da Roma

non arrivavano né indicazioni né aiuti: i fiorentini scesero in strada e fecero di testa loro. I centri di soccorso si forma-rono spontaneamente, perché la gente si organizzò nei luoghi dove di solito si ritrovava nel quartiere, cioè le case del popolo, le parrocchie, l’Università, le camere del lavoro. I centri di soccor-so poi si strutturarono come Comitati di quartiere e sul territorio divennero i soggetti fondamentali. Io mi sono chiesto a lungo perché da 30 anni, a scuola come in tv e sui giornali, mi hanno raccontato la ricostruzione di Firenze come se fosse stata tutta sulle

spalle dei volontari venuti da fuori e delle forze armate. E alla fine la ris-posta è semplice: l’autorganizzazione popolare non deve venire fuori. Invece in questa storia è la chiave per capire come sia stata possibile una reazione tanto efficace a un disastro tanto po-tente. Come avete rin-tracciato i prota-gonisti dal basso delle giornate del novembre 1966? Con i metodi ti-pici della ricerca delle fonti orali: i contatti e i pas-saparola. Sono andato nelle case del popolo e nelle parrocchie e una volta individuati i primi testimoni chiedevo a loro di mettermi in contatto con al-tri protagonisti degli eventi. Si aprono conti-nuamente piste nuove. Che tipo di espe-rienza politica è maturata nei giorni dell’alluvione? Nei giorni dell’alluvione è possibile osservare una caratteristica fonda-mentale della storia del movimento operaio del XIX e del XX secolo. La capacità di radicare l’azione politica sui territori, di farne un patrimonio co-mune, di chiamare alla responsabilità per la propria comunità, di estendere la partecipazione e la solidarietà. Inoltre Firenze ha una tradizione particolare legata alla partecipazione del territo-

rio: già nel 1944 il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale a Firenze si articolò in sottocomitati di quartiere. La vitalità delle Case del Popolo, della Camera del Lavoro e del cattolicesi-mo di sinistra è stata straordinaria per

tutti gli anni ‘50 e ‘60. È questo patri-monio di relazioni che ha garantito gli anticorpi alla città. Quindi, gli eventi del 66 hanno un lungo passato. Ma hanno anche delle conseguenze sul futuro, portando alle lotte della fine degli anni ’60 e degli anni ’70. Oggi come valuti gli interventi della Protezione Civile nelle emergenze? Mi viene in mente cosa è successo dopo il terremoto dell’Aquila, o al-tri disastri. Oggi si tende a usare un

NOVEMBRE 1966 - 50 anni fa l’alluvione di Firenze, una storia di riscatto e autorganizzazione popolare

Gli angeli «nel» fango

«Quando

arrivò la piena, le istituzioni

cittadine non erano preparate all’emergenza; da Roma non arrivavano né indicazioni né

aiuti, i fiorentini scesero in strada e fecero di testa

loro»

Anno XI, n. 120

COSTITUZIONE - Obiettivo della riforma è accentrare la spesa per poi tagliarla come vuole “l’Europa”

Accentrare per tagliare

piuttosto il canarino nella minie-ra che per primo rileva, compli-ce la sua fragilità, le esalazioni mefitiche che minacciano an-che il più solido minatore. Come ultimo atto, per il mo-mento, della stagione eterna delle riforme, la proposta Ren-zi-Boschi si accredita in qualche modo ontologicamente, vale a dire per il solo fatto di esistere, come “l’ultima spiaggia”, “la volta buona”, “l’occasione che non si ripresenterà più”, nono-stante la ventennale precarietà istituzionale continuata in cui ogni governo presenta la propria ricetta costituzionale e la propria legge elettorale: una situazione in cui il testo della Carta, la cui rigidità è divenuta da garanzia a zavorra, viene ormai considera-to continuamente emendabile, anche in modo completamente

sganciato da mandati elettorali preventivi, anzi piuttosto usando il referendum confermativo come rivincita o come legittimazione. Non stupisce, quindi, che sia l’a-nalisi dei problemi più urgenti sia le soluzioni proposte dalla rifor-ma siano di ben scarsa qualità quando non decisamente mar-ginali. Avendo trasformato la legittima riflessione consuntiva sui primi decenni di validità della Carta in una lite da bar, tormen-toni mediatici come l’abolizione delle province, le navette delle proposte di legge tra le due Ca-mere, la riduzione dei costi della politica tramite la decurtazione del numero dei parlamentari han-no ricevuto non solo diritto di parola, ma persino il riconosci-mento come princìpi ispiratori di una revisione così ampia. Anche tenendosi a distanza di sicurezza

dalla retorica della “Costituzio-ne più bella del mondo” e altri spunti di imbarazzo presente e futuro proposti dal fronte del No, non si può non rilevare come la formula adottata per la derubri-cazione del Senato non abbia in sé alcun anticorpo contro la per-dita di autorevolezza della classe politica e la scarsa qualità della produzione legislativa, inventan-do anzi territori inesplorati per protagonismi, trasformismi, con-trapposizioni pretestuose. L’altro pilastro della proposta, la controriforma del Titolo V, ha una giustificazione propagandi-stica nella conflittualità tra Stato e Regioni innescata dalla revisio-ne del 2001 che garantì potestà legislativa (esclusiva in alcune materie, concorrenti in altre) alle autonomie locali. Il pretesto, mai entrato stabilmente nella vulgata

delle riforme ineludibili, e la soluzione grossolana del riac-centramento non riescono a dissimulare l’effettiva motiva-zione: l’esigenza di mettere tut-te le più rilevanti voci di spesa in mano allo Stato, nominal-mente per la lotta agli sprechi ma di fatto per garantire che anche i pochi margini di libertà rimasti dopo l’inserimento del pareggio di bilancio nell’artico-lo 81 (riforma del 2012) venga-no posti sotto il controllo di un governo che ci si attende fedele

agli imperativi europei. Anche in questo, dunque, la ri-forma Renzi-Boschi non fa che vendere per nuovo un pacchet-to di idee inadeguate, nostalgi-che di un bipartitismo tramon-tato, pienamente nel solco della continua cessione di sovranità a istituzioni e poteri quanto più scollegati dal controllo eletto-rale, per quanto imperfetto e insufficiente.

LOPO BATTOCCHI

Presentata come la soluzio-ne clinica alle tare geneti-

che che l’ordinamento repub-blicano si porterebbe fin dalla culla, la riforma Renzi-Boschi è in realtà il fascicolo più re-cente della narrazione che ha dominato l’ultimo quarto di secolo di politica istituzionale: a partire, cioè, dalla stagione referendaria (1991 e 1993) che inaugurò la cosiddetta seconda Repubblica, forzando la modi-fica della legge elettorale per-ché aprisse la via alla revisio-ne costituzionale di cui già si discuteva da tempo. Revisione che poco tempo dopo fu consi-derata già in corso con il rico-noscimento di una Costituzio-ne materiale in cui il presidente del Consiglio riceveva di fatto un mandato popolare. Allora come oggi, però, la poli-tica e la società civile pensarono che il mutamento degli scenari interni e internazionali e il ri-allineamento del dibattito pub-blico su nuove istanze avrebbe potuto creare le condizioni per riprogettare a tavolino un as-setto delle maggiori istituzioni (principalmente Parlamento e Governo) pilotandone l’evolu-zione in un senso “più moder-no”, prendendo a modello un qualsiasi Paese che apparisse in confronto al nostro efficien-te, funzionale, dinamico — a prescindere da qualsiasi condi-zione al contorno, come se l’e-sperienza politica di, a turno, Francia, Germania o Stati Uni-ti fossero trapiantabili soltanto copiando una parte dello sche-ma degli organi statali. Tale miopia, anche da parte dei partiti di sinistra, impedì di notare come l’Italia non fos-se il fratello svagato che non aveva fatto i compiti, quanto

(Segue da pagina 1) La leg-ge in questione, essendo sta-ta approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere con la maggioran-za qualificata dei due terzi, non era sottoponibile a refe-rendum. Per tale via il no-stro paese ha dato seguito gli imperativi dell’ “Euro-pa”. Stavolta non in materia di assimilazione del diritto comunitario ma della logi-ca dei tagli di bilancio. A questo punto la sovranità apparterrà anche al popolo, l’impegno per i tagli struttu-rali è stato assunto tra stati maggiori. In virtù dell’ade-sione, in data 2 marzo 2012, al “Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la gover-nance nell’Unione econo-mica e monetaria”, meglio noto come “Fiscal Com-pact”, il cui art. 3 vincola gli Stati contraenti al pa-reggio (ovvero all’avanzo) di bilancio (par. 1), da re-

cepirsi “nel diritto nazionale … tramite disposizioni vinco-lanti e di natura permanente – preferibilmente costituzio-nale – o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il pro-cesso nazionale di bilancio” (par. 2). In linea con quanto già prefigurato anche qui non tra popoli ma dal Patto Euro-plus del 24 e 25 marzo 2011, il Fiscal Compact ha sancito per i Paesi aderenti il vincolo – canonizzato in una fonte di diritto internazionale (patti-zio), peraltro concepito quale destinato a intendersi ed ap-plicarsi come inserito a pieno titolo nel diritto comunitario - alla costituzionalizzazione della fondamentale regola del pareggio di bilancio. In poche parole una forma economica liberista e monetarista, il pa-reggio di bilancio, regola la nostra Costituzione. Se il pa-reggio di bilancio entra in con-traddizione con lo stato socia-

le di diritto, previsto dalla co-stituzione del ’48, è, secondo questo impianto di norme, lo stato sociale a dover soccom-bere. Anche questo processo viene da lontano. Nel primo caso affrontato doveva affer-mare il primato dell’impresa sulla democrazia. Nel secon-do costituzionalizza il prima-to dell’economia liberista sul-lo stato di diritto e sugli altri tipi di economia. Ricordiamo l’articolo 41 della Costituzio-ne che parla di primato dell’u-tilità sociale dell’economia. Il primato del bilancio è un’altra cosa. È richiesto dai merca-ti finanziario che vogliono il nostro paese come produttore di bond a rendimento buono e stabile. Il resto può attendere qualche generazione. La fine dello stato sociale di diritto. Queste due minacce, formalizzate, alla Costituzio-ne del 1948, che sono entrante nel suo corpo vivo, inoculate dai trattati comunitari, non

riguardano solo la messa in discussione dello stato sociale di diritto, sancito dalla carta del ’48. Sono il frutto di una più generale crisi sia dell’im-presa che della moneta che, per risolvere le loro difficoltà di accumulazione e circola-zione della ricchezza, si sono rivolte alle costituzioni nazio-nali. Immettendo norme che fanno cassa privatizzando i diritti sociali e comprimendo al massimo quelli del lavoro. Già il lavoro, quel fenomeno storico che è costitutivo nor-ma fondamentale della costi-tuzione (l’articolo 1). Feno-meno già messo in discussio-ne, nella sua stessa essenza, dal mercato (perchè il lavoro si eroga nel mercato), che esi-ste per risparmiare lavoro, e dall’evoluzione tecnologica che esiste per sostituirlo con l’intelligenza artificiale. In poche parole vediamo come implementazione del diritto comunitario in quello nazio-

nale, sbilanciando il senso dell’ordinamento a favore dell’impresa, e costituzio-nalizzazione del parareggio di bilancio siano fenomeni che vengono dal lontano. In tutti i sensi: dagli anni ’80. Sia come elemento di ingabbiamento dei dirit-ti costituzionali nazionali che come effetto della crisi dell’impresa e della moneta. Certo, un “Sì” il 4 dicembre peggiorerebbe la situazione. Ad esempio impoverirebbe i bilanci delle regioni, e degli enti locali, mortificando de-finitivamente le autonomie locali. Ma, come abbiamo visto, l’operazione di attac-co alla costituzione è di più vasta portata. Va oltre Ren-zi e le sue esigenze di piaz-zista di norme, venditore di cambiamenti a prescindere se si tratti di degenerazioni o meno.

Senza Soste redazione

Tagliare il Senato e

mettere le voci di spesa più rilevanti in mano allo

Stato seguendo i diktat dei

capitali finanziari

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Livorno Livorno Anno XI, n. 120 Novembre 20164 5

l’assessora Dhimgjini si è per-messa anche atteggiamenti non accettabili. Se lei considera i sindacati strumentali e prevenu-ti (ed in alcune vertenze lo sono stati), la sua risposta deve essere data quantomeno agli operato-ri, ai cittadini ed a quei minori che vedono un servizio mozza-to. Se poi invece le motivazio-ni sono altre vanno dette. Gli uffici e l’assessore pensano che la cooperativa lavori male? Che il servizio sia inefficace e inef-ficiente? Hanno avuto ordine dall’alto di tagliare per salvare il

bilancio? Han-no riscontrato interessi clien-telari? Non reputano più il servizio ne-cessario? Vo-gliono sondare altri metodi ed esperienze? È vero che si paga 100 euro al giorno in altre strutture per sopperire a questi tagli? Di

chi sono le strutture? Sappiamo solo dalle informazioni che ab-biamo incamerato da commis-sioni, dichiarazioni, comunicati e contatto diretto con gli ope-ratori, tutto ciò ci pare illogico. Dare una logica è dovere di chi amministra.

FRANCO MARINO

Sta lasciando strascichi e po-lemiche il nuovo bando che

l’Amministrazione comunale di Livorno ha pubblicato (scadenza 4 novembre) sul servizio diurno e notturno ad una quarantina mi-nori. Proviamo a fare un’analisi e una riflessione sui contenuti del bando e sul metodo con cui as-sessore e uffici tecnici lo hanno partorito. Si sta parlando di un servizio che fino ad oggi è costato alla collettività circa due milioni e che si occupa di una tipologia di nostri concittadini che posso-no essere considerati i più deboli ed i più fragili: minori tolti alle loro famiglie e per questo seguiti dai cosiddetti servizi sociali, cioè strutture e operatori che li accol-gono di giorno e di notte per pro-teggerli e per tentare poi un possi-bile reinserimento. Ci soffermia-mo solo brevemente sui numeri per capire di quale dimensione di taglio al servizio si sta parlando. Numeri che sono già usciti sui quotidiani locali e che hanno già snocciolato operatori e sindacati. Poi però vorremmo concludere con un ragionamento più politi-co, perché ci pare che manchi so-prattutto una chiarezza politica in questa vicenda.I numeri. Ad oggi le strutture che ospitano sono la Palma (via-le Carducci), la Quercia (corso Mazzini) e il Melo (via Caduti del Lavoro). In tutto si parla di 29 posti residenziali, cioè che ospitano anche la notte minori. Con il nuovo bando i posti not-turni si ridurrebbero a 12, con la trasformazione di una parte consistente del servizio in solo diurno così che molti minori sa-

ranno costretti a tornare a casa la sera. Verrà inoltre abolito il servi-zio mamme-bambini e accorpati spazi e strutture con minori nella fascia 3-18 anni creando, a detta degli operatori, problemi di ordine “didattico” e di tipologia di attivi-tà ma anche di troppa promiscu-ità. Infine il dato di chi ci lavora: 19 con contratti delle cooperative sociali full-time e part-time più 5 operatori sanitari (Osa) ed un co-ordinatore. Dai conti dei sindacati si perderebbero una decina di posti di lavoro. Al momento il servizio è gestito dalla cooperativa sociale Di Vittorio.Merito e metodo. Noi non cono-

sciamo nel dettaglio la situazione del servizio delle case famiglia, anche se abbiamo raccolto testimo-nianze e seguito il dibattito istitu-zionale. Non sappiamo come ven-gono valutati i risultati raggiunti e non abbiamo documenti che de-scrivono le analisi del fabbisogno. Sappiamo delle ristrettezze del bi-lancio e che non solo a Livorno i tagli sono all’ordine del giorno. Ma detto questo, ogni cittadino deve pretendere, specialmente da chi doveva far diventare le mura del Municipio trasparenti, che uffici tecnici, assessore e sindaco spieghi-no nel dettaglio le loro scelte. Se-condo gli uffici tecnici e l’assessora

Dhimgjini con questa “razionalizzazione” del servizio si risparmiereb-bero circa 300.000 euro (tagliando anche la spe-sa di un affitto privato di una delle strutture). Inoltre ci sarebbero analisi che dimostrano un calo nella domanda del servizio. Sindacati e operatori invece rispon-dono che la domanda c’è, tanto che negli ul-timi tempi ci sono state anche emergenze e che facendo i conti, sop-p r i m e n -do larga parte del s e r v i z i o

notturno in città e spostando minori in altri comuni, alla fine il risparmio non ci sarebbe affatto, anzi. Non tutti i minori che risiedono fuori dal comune, infatti, sono stati obbligati dal giudice a risiede-re fuori città.Una politica inaccettabile. Quan-do si parla di servizi sociali così delicati l’agire politico deve essere uno solo: confrontarsi e difendere le proprie scelte pubblicamente con analisi e dati a supporto. Non ci pare che così sia accaduto. Anzi,

Il pasticcio delle case famigliaSOCIALE - Il nuovo bando per i minori in difficoltà lascia dubbi nel merito e nel metodo

I tagli creano un disservizio

ma alla fine pare che non ci sia nemmeno

risparmio, dov’è la logica?

“Masterplan” dell’Architetto fiorentino Natalini, cui Con-sabit, dopo quella di Landini della Lega Coop, affidò la se-conda progettazione per rimo-dulare le condizioni di insedia-mento della piazza e delle zone limitrofe. Ancora una volta il Comune di Livorno sarebbe apparso ancillare rispetto all’i-niziativa della Coop, che pure espose il progetto ovunque tra i peana di molti di coloro che poi l’avrebbero contestato in Consiglio Comunale oltre ai gruppi di opposizione Rifon-dazione, Verdi e Città Diversa. Natalini da parte sua non si li-mitò a prevedere la redistribu-zione di un numero impressio-nante di edifici, ma introdusse il tema dell’Urban Center (poi accantonato) e soprattutto del Museo della Città che poi avrà modo di progettare, guar-da caso, in una fase successiva (2008-2010) con i finanziamen-ti euro-regionali del Piuss. Lo fece per temperare la densità edilizia ritrovata del quartiere veneziano cercando di assicu-rare l’interesse pubblico dell’o-perazione con un lieve incre-mento dell’area che sarebbe stata messa a disposizione del

Comune per l’utilità socia-le. La situazio-ne attuale e gli “scambi” con il Comu-ne Per ora la sto-ria finisce qui. Resta da dire che nel frat-tempo l’ag-gravarsi della crisi econo-mica cittadina

e i tempi biblici della politica comunale hanno indotto mol-ti nuclei familiari che a suo tempo avevano “scommesso”, tramite Consabit, sul ripopo-lamento della Venezia, ad ab-bandonare il credito dei propri appartamenti o ad esercitare opzioni diverse. Resterà pro-babilmente un solo palazzo di sei piani, per 2580 metri quadri complessivi (rispetto agli oltre 11 mila del progetto originario) a ridosso del Museo della Città (Bottini dell’Olio) e a filo della Chiesa del Luogo (Logo) Pio. Il Comune da parte sua do-vrebbe rientrare in possesso di 1200 metri quadri dell’area del Refugio dove storicamente Consabit avrebbe dovuto rea-lizzare una decina di apparta-menti. In cambio Consabit ri-ceverà dal Comune una serie di immobili inseriti nel processo di alienazione. Come dire, an-cora una volta è la città, con il suo patrimonio, a doversi fare carico degli errori della sua classe politica.

FRANCO REVELLI

Quella dell’”Isolato” di piazza del Luogo (Logo)

Pio a Livorno, nel cuore dello splendido quartiere Venezia, è una storia che come sempre ha dell’incredibile, non tanto e non solo per i ripetuti cambiamenti di scenario, quanto per l’inde-terminatezza delle soluzioni amministrative. L’ennesima at-testazione di come la politica sconti la presunzione dell’auto-sufficienza quando è chiamata a decidere, se cambiano le carte in tavola, di fronte alla complessità del nodo tecnico amministrativo da sciogliere. Con un rumore di fondo, quello del “chi decide cosa”, che troppo spesso a Li-vorno è stato insonorizzato per consentire il maggiore spazio possibile alla estemporaneità di soluzioni molto strombaz-zate sulla stampa locale e in consessi protetti (vedi Effet-to Venezia e Feste dell’Uni-tà), ma debolmente condivise con i soggetti veramente inte-ressati (i cittadini). Il progetto Consabit Da questo punto di vista Luogo (Logo) Pio è il precipitato sto-rico di una serie di errori di cui il partner privato “scelto” nel 1995 per l’attuazione del primo progetto (quello meno impattan-te) e del secondo progetto (quel-lo regolato dalle Varianti del 2006/2008 con i blocchi condo-miniali che apparivano e spari-vano ad ogni votazione come in una sorta di “lego” istituziona-le), appare solo in parte respon-sabile. Consabit, d’altra parte, si era proposta al Comune con una logica imprenditoriale che giocava d’anticipo sulle determi-nazioni comunali. La stessa che fece le fortune del primo Berlu-sconi ai tempi di Milano2 e che più tardi avrebbe generato disa-stri nel quartiere di Salviano2 nel quadro di una lottizzazione interamente privata. Il progetto edilizio, insomma, basato su un mix di ristrutturazioni e costru-zioni anche suggestive, era in mano a chi dimostrava di essere in possesso di un certo numero di prenotazioni rispetto agli ap-partamenti da costruire. Più le prenotazioni crescevano, più la forza contrattuale del soggetto attuatore incideva nella carne viva del maxi-progetto. Il pantano del Comune dal 1995 Il Comune, da parte sua, si sa-rebbe limitato ad urbanizzare l’area della piazza (per consenti-re la realizzazione del parcheg-gio ipogeo) e ad intervenire su specifici dettagli, quali ad esem-pio la mitica riapertura del fos-so di viale Caprera, grazie alla copertura di un maxi finanzia-mento pubblico che fu richiesto dieci giorni dopo (il 07.01.1996) l’approvazione della delibera di Giunta Comunale (28.12.1995), riassuntiva dell’accordo pubbli-co privato tra Comune, Asem e Consabit. Questa gran corsa, fatta durante le vacanze natali-

zie “per non perdere il finanzia-mento” e con nessuna apertura all’esterno, fruttò comunque dopo circa un anno ben 12 miliardi di lire sui 31 richiesti. Al resto avreb-

be provveduto il soggetto attuato-re con urbanizzazioni a scompu-to. Ne fece le spese un acrobatico progetto di bonifica del depurato-re del Rivellino, che inizialmente, con Asem, face-va parte del pro-gramma delle opere da finan-ziare, ma che poi fu tagliato nel quadro di una rimodula-zione generale dell’intervento. Con una parte di quei 12 mi-liardi il Comu-ne, negli anni successivi, re-alizzerà motu proprio l’escavo del Fosso di via-le Caprera (l’o-pera più inutile del mondo), senza peraltro per-venire mai al suo completamen-to. Sulla gestione residua di quel cospicuo finanziamento ministe-riale (si parlò del restauro della

chiesa del Luogo Pio, peraltro demaniale, ma senza fornire det-tagli) nessuno (tra Comune e Cir-coscrizione) avrebbe mai chiesto una rendicontazione di convalida delle spese veramente effettuate. Né ricordiamo al riguardo severe campagne ispettive del Tirreno. Volumi ammassati nella piazza Intanto il quadro complessivo dell’operazione entrava in una fase nebulosa, almeno da quando, con il varo del regolamento Urbani-stico del 1998 (tuttora vigente!) il Comune, a torto o a ragione, de-cise di eliminare la previsione edi-ficatoria di scali delle Barchette, uno fra gli interventi convenzio-nati con Consabit e urbanistica-mente a carico di quest’ultima. Ne seguì un contenzioso ammi-nistrativo (perso poi dal sogget-to attuatore), ma soprattutto la silenziosa trasposizione dei volu-mi convenzionati e non utilizzati nell’isolato contenitore della piaz-

za e di viale Caprera. In sostanza, con la nuova stagione urbanistica promossa dal duo Gregotti-Ca-gnardi (tutt’oggi incredibilmente alla ribalta) e il sostegno unanime

delle forze che si riconoscevano nell’allora nascente Ulivo, l’inte-ra partita si trasferiva a carico del vecchio isolato di riqualificazio-ne, dove l’edificato si sarebbe con-centrato in modo impressionante con una forte c o m p r e s s i o n e degli spazi di uti-lità pubblica. La trasfor-mazione del piano del 1995 Da lì in poi, dalla doppia Variante “redi-stributiva” Pic-chi-Cosimi del 2005-2008 fino ai protocolli ferragostani del duo Nogarin-Consabit del 2015-2016, il vecchio accordo del 1995 è stato trasformato in un serrato confronto sulla rimodulazione

pubblico-privato del-le opere di urbaniz-zazione dell’isolato proiettata però, se-condo lo schema dei protocolli Noga-rin-Salvadorini, sulla compensazione dei diritti edificatori rela-tivi a ben cinque bloc-chi residenziali che il soggetto attuatore, visto il nuovo quadro politico sopraggiun-to nel 2014, avrebbe convenuto di delo-calizzare in un’altra parte di città, alme-no di quelli ricollo-cati sullo sfortunato

isolato veneziano nel 2002 dal cosiddetto “Masterplan”. Il masterplan del 2002 e il Museo della Città. Nel 2002, infatti, fu la volta del

URBANISTICA- Il progetto di cementificare la Venezia è scongiurato, ma i danni li paga la collettività

La telenovela del Luogo Pio

RYANAIR - Il racconto di una 45enne aspirante hostess sulle condizioni dentro la compagnia low cost

Il lavoro impossibileJACK RR

La realtà va molto oltre la pro-paganda. Stiamo parlando di

Ryanair, la compagnia di massi-mo successo nel low cost aereo internazionale, che è un esem-pio lampante di quella che viene chiamata “caduta del valore dei salari”. L’offerta di lavoro, sia nei rapporti che negli importi, è arrivata, in Italia come in Euro-pa, al punto dove chi governa ha voluto portarla scientificamente, con normative ben precise e scan-dite nel tempo. Ucciso il lavoro come fattore di coesione sociale ed opportunità, si è intensificata la competizione per il posto di la-voro. Così quando l’offerta scar-seggia, il disoccupato è disposto a lavorare per meno, molto meno e chi offre il lavoro lo sa. Special-mente se opera in uno stato dove il governo di turno pubblicizza il basso costo del lavoro per atti-rare investimenti internazionali, vale a dire quelli che desiderano tanta stabilità politica e bassa in-flazione. Finita la propaganda sul paradiso realizzato con la cresci-ta dell’occupazione, la ripresa del Pil ed il glorioso recupero verso un’inflazione al 2%, esiste la vita del comune essere umano che

vive in questo mondo e che deve la-vorare. E qui iniziano i drammi per chi vive del proprio lavoro e il giubi-lo di quei grandi e piccoli interessi che hanno lavorato alacremente per far cadere in basso il costo del lavo-ro e per far aumentare rendite e pro-fitti. Dagli anni ’90, il trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale è stato imponente, guarda caso pro-prio dal decennio a partire dal qua-le la “competitività” è diventata un valore normativo ed ha iniziato ad ispirare il processo di trasformazio-

ne del mercato del lavoro. Partendo da questo contesto abbiamo parla-to con una nostra concittadina che ci ha raccontato la sua esperienza come aspirante hostess per Ryanair.Cosa ti ha spinto a partecipare alla selezione di Ryanair e cosa ti aspettavi?L’estrema difficoltà nel trovare un’occupazione decente e con un minimo di stabilità all’età di 45 anni dove spesso, specialmente in ambito aeroportuale, sei spinta a partecipa-re a corsi specifici per la sicurezza

relativa allo svolgimento del ruolo di hostess, senza nessun impegno all’assun-zione una volta finito il corso anche dimostrando buone capacità. Ci sono molte compagnie che non assumono personale di 45 anni mentre ce ne sono al-trettante che offrono corsi a pagamento senza limite di età. Avendo già lavorato per un periodo in Ryanair sapevo che non sarebbe stata un’offerta allettante ma la scarsità di lavoro mi ha portato a ritentare.

Pur essendo stata selezionata per-ché non hai accettato?La selezione è andata bene per la padronanza della lingua inglese ma al momento di trattare l’offerta con l’agenzia interinale di turno ho capi-to che il lavoro sarebbe stato un cot-timo dove l’effettivo impegno lavo-rativo pagato si limitava alle ore vo-late e non per le fasi preliminari pri-ma del volo e durante gli eventuali scali o soste tecniche. La compagnia non dà più una certezza sullo scalo di partenza e sul rientro a fine turno

a tal punto che uno può trovarsi a Londra o a Oslo dovendo af-frontare gli alti costi di residenza rispetto a quanto possano essere quelli di Pisa o comunque dove uno generalmente vive. Gli sti-pendi da 1.000 a 1.400 € (40/32 ore settimanali alternate effettiva-mente volate) non comprendono il corso che costa 4.000 € da fare a Francoforte (decurtabile in quo-ta parte mensile di 360,00 € dallo stipendio), il nolo della divisa per 30 € mensili, una propria polizza assicurativa, senza copertura in caso di malattia, dovendoti por-tare il tuo cibo e la tua acqua. Il rapporto di lavoro è regolato dal-la legislazione irlandese e la busta paga la percepisci direttamente attraverso la rete bancomat sul territorio europeo con obbligo di aprire un conto corrente presso la loro stessa banca. Queste condi-zioni sono impossibili da accetta-re se specialmente l’aeroporto as-segnato è diverso da quello pros-simo alla tua abitazione. Il rischio di andare in rimessa è altissimo e non esistono tutele. Chi altro ha accettato?Nessuno dei selezionati ha potu-to accettare, a queste condizioni. Siamo considerati degli strumen-ti di business.

Sarà costruito

solo un palazzo, dietro la vecchia

chiesa, ma il Comune dovrà dare in cambio altri immobili

Progetto nato nel 1995, mutato

nel 2002 e poi oggetto di accordi

per sanare gli errori della classe

politica

Foto di Giacomo Spagnoli

Page 5: Anno XI - n. 120 - Novembre 2016 · Marcelo Bielsa nasce a Rosario, in Argentina, che non è propriamente un posto qualunque. In eterna con-trapposizione a Buenos Aires, sia dal punto

Livorno Livorno Anno XI, n. 120 Novembre 20164 5

l’assessora Dhimgjini si è per-messa anche atteggiamenti non accettabili. Se lei considera i sindacati strumentali e prevenu-ti (ed in alcune vertenze lo sono stati), la sua risposta deve essere data quantomeno agli operato-ri, ai cittadini ed a quei minori che vedono un servizio mozza-to. Se poi invece le motivazio-ni sono altre vanno dette. Gli uffici e l’assessore pensano che la cooperativa lavori male? Che il servizio sia inefficace e inef-ficiente? Hanno avuto ordine dall’alto di tagliare per salvare il

bilancio? Han-no riscontrato interessi clien-telari? Non reputano più il servizio ne-cessario? Vo-gliono sondare altri metodi ed esperienze? È vero che si paga 100 euro al giorno in altre strutture per sopperire a questi tagli? Di

chi sono le strutture? Sappiamo solo dalle informazioni che ab-biamo incamerato da commis-sioni, dichiarazioni, comunicati e contatto diretto con gli ope-ratori, tutto ciò ci pare illogico. Dare una logica è dovere di chi amministra.

FRANCO MARINO

Sta lasciando strascichi e po-lemiche il nuovo bando che

l’Amministrazione comunale di Livorno ha pubblicato (scadenza 4 novembre) sul servizio diurno e notturno ad una quarantina mi-nori. Proviamo a fare un’analisi e una riflessione sui contenuti del bando e sul metodo con cui as-sessore e uffici tecnici lo hanno partorito. Si sta parlando di un servizio che fino ad oggi è costato alla collettività circa due milioni e che si occupa di una tipologia di nostri concittadini che posso-no essere considerati i più deboli ed i più fragili: minori tolti alle loro famiglie e per questo seguiti dai cosiddetti servizi sociali, cioè strutture e operatori che li accol-gono di giorno e di notte per pro-teggerli e per tentare poi un possi-bile reinserimento. Ci soffermia-mo solo brevemente sui numeri per capire di quale dimensione di taglio al servizio si sta parlando. Numeri che sono già usciti sui quotidiani locali e che hanno già snocciolato operatori e sindacati. Poi però vorremmo concludere con un ragionamento più politi-co, perché ci pare che manchi so-prattutto una chiarezza politica in questa vicenda.I numeri. Ad oggi le strutture che ospitano sono la Palma (via-le Carducci), la Quercia (corso Mazzini) e il Melo (via Caduti del Lavoro). In tutto si parla di 29 posti residenziali, cioè che ospitano anche la notte minori. Con il nuovo bando i posti not-turni si ridurrebbero a 12, con la trasformazione di una parte consistente del servizio in solo diurno così che molti minori sa-

ranno costretti a tornare a casa la sera. Verrà inoltre abolito il servi-zio mamme-bambini e accorpati spazi e strutture con minori nella fascia 3-18 anni creando, a detta degli operatori, problemi di ordine “didattico” e di tipologia di attivi-tà ma anche di troppa promiscu-ità. Infine il dato di chi ci lavora: 19 con contratti delle cooperative sociali full-time e part-time più 5 operatori sanitari (Osa) ed un co-ordinatore. Dai conti dei sindacati si perderebbero una decina di posti di lavoro. Al momento il servizio è gestito dalla cooperativa sociale Di Vittorio.Merito e metodo. Noi non cono-

sciamo nel dettaglio la situazione del servizio delle case famiglia, anche se abbiamo raccolto testimo-nianze e seguito il dibattito istitu-zionale. Non sappiamo come ven-gono valutati i risultati raggiunti e non abbiamo documenti che de-scrivono le analisi del fabbisogno. Sappiamo delle ristrettezze del bi-lancio e che non solo a Livorno i tagli sono all’ordine del giorno. Ma detto questo, ogni cittadino deve pretendere, specialmente da chi doveva far diventare le mura del Municipio trasparenti, che uffici tecnici, assessore e sindaco spieghi-no nel dettaglio le loro scelte. Se-condo gli uffici tecnici e l’assessora

Dhimgjini con questa “razionalizzazione” del servizio si risparmiereb-bero circa 300.000 euro (tagliando anche la spe-sa di un affitto privato di una delle strutture). Inoltre ci sarebbero analisi che dimostrano un calo nella domanda del servizio. Sindacati e operatori invece rispon-dono che la domanda c’è, tanto che negli ul-timi tempi ci sono state anche emergenze e che facendo i conti, sop-p r i m e n -do larga parte del s e r v i z i o

notturno in città e spostando minori in altri comuni, alla fine il risparmio non ci sarebbe affatto, anzi. Non tutti i minori che risiedono fuori dal comune, infatti, sono stati obbligati dal giudice a risiede-re fuori città.Una politica inaccettabile. Quan-do si parla di servizi sociali così delicati l’agire politico deve essere uno solo: confrontarsi e difendere le proprie scelte pubblicamente con analisi e dati a supporto. Non ci pare che così sia accaduto. Anzi,

Il pasticcio delle case famigliaSOCIALE - Il nuovo bando per i minori in difficoltà lascia dubbi nel merito e nel metodo

I tagli creano un disservizio

ma alla fine pare che non ci sia nemmeno

risparmio, dov’è la logica?

“Masterplan” dell’Architetto fiorentino Natalini, cui Con-sabit, dopo quella di Landini della Lega Coop, affidò la se-conda progettazione per rimo-dulare le condizioni di insedia-mento della piazza e delle zone limitrofe. Ancora una volta il Comune di Livorno sarebbe apparso ancillare rispetto all’i-niziativa della Coop, che pure espose il progetto ovunque tra i peana di molti di coloro che poi l’avrebbero contestato in Consiglio Comunale oltre ai gruppi di opposizione Rifon-dazione, Verdi e Città Diversa. Natalini da parte sua non si li-mitò a prevedere la redistribu-zione di un numero impressio-nante di edifici, ma introdusse il tema dell’Urban Center (poi accantonato) e soprattutto del Museo della Città che poi avrà modo di progettare, guar-da caso, in una fase successiva (2008-2010) con i finanziamen-ti euro-regionali del Piuss. Lo fece per temperare la densità edilizia ritrovata del quartiere veneziano cercando di assicu-rare l’interesse pubblico dell’o-perazione con un lieve incre-mento dell’area che sarebbe stata messa a disposizione del

Comune per l’utilità socia-le. La situazio-ne attuale e gli “scambi” con il Comu-ne Per ora la sto-ria finisce qui. Resta da dire che nel frat-tempo l’ag-gravarsi della crisi econo-mica cittadina

e i tempi biblici della politica comunale hanno indotto mol-ti nuclei familiari che a suo tempo avevano “scommesso”, tramite Consabit, sul ripopo-lamento della Venezia, ad ab-bandonare il credito dei propri appartamenti o ad esercitare opzioni diverse. Resterà pro-babilmente un solo palazzo di sei piani, per 2580 metri quadri complessivi (rispetto agli oltre 11 mila del progetto originario) a ridosso del Museo della Città (Bottini dell’Olio) e a filo della Chiesa del Luogo (Logo) Pio. Il Comune da parte sua do-vrebbe rientrare in possesso di 1200 metri quadri dell’area del Refugio dove storicamente Consabit avrebbe dovuto rea-lizzare una decina di apparta-menti. In cambio Consabit ri-ceverà dal Comune una serie di immobili inseriti nel processo di alienazione. Come dire, an-cora una volta è la città, con il suo patrimonio, a doversi fare carico degli errori della sua classe politica.

FRANCO REVELLI

Quella dell’”Isolato” di piazza del Luogo (Logo)

Pio a Livorno, nel cuore dello splendido quartiere Venezia, è una storia che come sempre ha dell’incredibile, non tanto e non solo per i ripetuti cambiamenti di scenario, quanto per l’inde-terminatezza delle soluzioni amministrative. L’ennesima at-testazione di come la politica sconti la presunzione dell’auto-sufficienza quando è chiamata a decidere, se cambiano le carte in tavola, di fronte alla complessità del nodo tecnico amministrativo da sciogliere. Con un rumore di fondo, quello del “chi decide cosa”, che troppo spesso a Li-vorno è stato insonorizzato per consentire il maggiore spazio possibile alla estemporaneità di soluzioni molto strombaz-zate sulla stampa locale e in consessi protetti (vedi Effet-to Venezia e Feste dell’Uni-tà), ma debolmente condivise con i soggetti veramente inte-ressati (i cittadini). Il progetto Consabit Da questo punto di vista Luogo (Logo) Pio è il precipitato sto-rico di una serie di errori di cui il partner privato “scelto” nel 1995 per l’attuazione del primo progetto (quello meno impattan-te) e del secondo progetto (quel-lo regolato dalle Varianti del 2006/2008 con i blocchi condo-miniali che apparivano e spari-vano ad ogni votazione come in una sorta di “lego” istituziona-le), appare solo in parte respon-sabile. Consabit, d’altra parte, si era proposta al Comune con una logica imprenditoriale che giocava d’anticipo sulle determi-nazioni comunali. La stessa che fece le fortune del primo Berlu-sconi ai tempi di Milano2 e che più tardi avrebbe generato disa-stri nel quartiere di Salviano2 nel quadro di una lottizzazione interamente privata. Il progetto edilizio, insomma, basato su un mix di ristrutturazioni e costru-zioni anche suggestive, era in mano a chi dimostrava di essere in possesso di un certo numero di prenotazioni rispetto agli ap-partamenti da costruire. Più le prenotazioni crescevano, più la forza contrattuale del soggetto attuatore incideva nella carne viva del maxi-progetto. Il pantano del Comune dal 1995 Il Comune, da parte sua, si sa-rebbe limitato ad urbanizzare l’area della piazza (per consenti-re la realizzazione del parcheg-gio ipogeo) e ad intervenire su specifici dettagli, quali ad esem-pio la mitica riapertura del fos-so di viale Caprera, grazie alla copertura di un maxi finanzia-mento pubblico che fu richiesto dieci giorni dopo (il 07.01.1996) l’approvazione della delibera di Giunta Comunale (28.12.1995), riassuntiva dell’accordo pubbli-co privato tra Comune, Asem e Consabit. Questa gran corsa, fatta durante le vacanze natali-

zie “per non perdere il finanzia-mento” e con nessuna apertura all’esterno, fruttò comunque dopo circa un anno ben 12 miliardi di lire sui 31 richiesti. Al resto avreb-

be provveduto il soggetto attuato-re con urbanizzazioni a scompu-to. Ne fece le spese un acrobatico progetto di bonifica del depurato-re del Rivellino, che inizialmente, con Asem, face-va parte del pro-gramma delle opere da finan-ziare, ma che poi fu tagliato nel quadro di una rimodula-zione generale dell’intervento. Con una parte di quei 12 mi-liardi il Comu-ne, negli anni successivi, re-alizzerà motu proprio l’escavo del Fosso di via-le Caprera (l’o-pera più inutile del mondo), senza peraltro per-venire mai al suo completamen-to. Sulla gestione residua di quel cospicuo finanziamento ministe-riale (si parlò del restauro della

chiesa del Luogo Pio, peraltro demaniale, ma senza fornire det-tagli) nessuno (tra Comune e Cir-coscrizione) avrebbe mai chiesto una rendicontazione di convalida delle spese veramente effettuate. Né ricordiamo al riguardo severe campagne ispettive del Tirreno. Volumi ammassati nella piazza Intanto il quadro complessivo dell’operazione entrava in una fase nebulosa, almeno da quando, con il varo del regolamento Urbani-stico del 1998 (tuttora vigente!) il Comune, a torto o a ragione, de-cise di eliminare la previsione edi-ficatoria di scali delle Barchette, uno fra gli interventi convenzio-nati con Consabit e urbanistica-mente a carico di quest’ultima. Ne seguì un contenzioso ammi-nistrativo (perso poi dal sogget-to attuatore), ma soprattutto la silenziosa trasposizione dei volu-mi convenzionati e non utilizzati nell’isolato contenitore della piaz-

za e di viale Caprera. In sostanza, con la nuova stagione urbanistica promossa dal duo Gregotti-Ca-gnardi (tutt’oggi incredibilmente alla ribalta) e il sostegno unanime

delle forze che si riconoscevano nell’allora nascente Ulivo, l’inte-ra partita si trasferiva a carico del vecchio isolato di riqualificazio-ne, dove l’edificato si sarebbe con-centrato in modo impressionante con una forte c o m p r e s s i o n e degli spazi di uti-lità pubblica. La trasfor-mazione del piano del 1995 Da lì in poi, dalla doppia Variante “redi-stributiva” Pic-chi-Cosimi del 2005-2008 fino ai protocolli ferragostani del duo Nogarin-Consabit del 2015-2016, il vecchio accordo del 1995 è stato trasformato in un serrato confronto sulla rimodulazione

pubblico-privato del-le opere di urbaniz-zazione dell’isolato proiettata però, se-condo lo schema dei protocolli Noga-rin-Salvadorini, sulla compensazione dei diritti edificatori rela-tivi a ben cinque bloc-chi residenziali che il soggetto attuatore, visto il nuovo quadro politico sopraggiun-to nel 2014, avrebbe convenuto di delo-calizzare in un’altra parte di città, alme-no di quelli ricollo-cati sullo sfortunato

isolato veneziano nel 2002 dal cosiddetto “Masterplan”. Il masterplan del 2002 e il Museo della Città. Nel 2002, infatti, fu la volta del

URBANISTICA- Il progetto di cementificare la Venezia è scongiurato, ma i danni li paga la collettività

La telenovela del Luogo Pio

RYANAIR - Il racconto di una 45enne aspirante hostess sulle condizioni dentro la compagnia low cost

Il lavoro impossibileJACK RR

La realtà va molto oltre la pro-paganda. Stiamo parlando di

Ryanair, la compagnia di massi-mo successo nel low cost aereo internazionale, che è un esem-pio lampante di quella che viene chiamata “caduta del valore dei salari”. L’offerta di lavoro, sia nei rapporti che negli importi, è arrivata, in Italia come in Euro-pa, al punto dove chi governa ha voluto portarla scientificamente, con normative ben precise e scan-dite nel tempo. Ucciso il lavoro come fattore di coesione sociale ed opportunità, si è intensificata la competizione per il posto di la-voro. Così quando l’offerta scar-seggia, il disoccupato è disposto a lavorare per meno, molto meno e chi offre il lavoro lo sa. Special-mente se opera in uno stato dove il governo di turno pubblicizza il basso costo del lavoro per atti-rare investimenti internazionali, vale a dire quelli che desiderano tanta stabilità politica e bassa in-flazione. Finita la propaganda sul paradiso realizzato con la cresci-ta dell’occupazione, la ripresa del Pil ed il glorioso recupero verso un’inflazione al 2%, esiste la vita del comune essere umano che

vive in questo mondo e che deve la-vorare. E qui iniziano i drammi per chi vive del proprio lavoro e il giubi-lo di quei grandi e piccoli interessi che hanno lavorato alacremente per far cadere in basso il costo del lavo-ro e per far aumentare rendite e pro-fitti. Dagli anni ’90, il trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale è stato imponente, guarda caso pro-prio dal decennio a partire dal qua-le la “competitività” è diventata un valore normativo ed ha iniziato ad ispirare il processo di trasformazio-

ne del mercato del lavoro. Partendo da questo contesto abbiamo parla-to con una nostra concittadina che ci ha raccontato la sua esperienza come aspirante hostess per Ryanair.Cosa ti ha spinto a partecipare alla selezione di Ryanair e cosa ti aspettavi?L’estrema difficoltà nel trovare un’occupazione decente e con un minimo di stabilità all’età di 45 anni dove spesso, specialmente in ambito aeroportuale, sei spinta a partecipa-re a corsi specifici per la sicurezza

relativa allo svolgimento del ruolo di hostess, senza nessun impegno all’assun-zione una volta finito il corso anche dimostrando buone capacità. Ci sono molte compagnie che non assumono personale di 45 anni mentre ce ne sono al-trettante che offrono corsi a pagamento senza limite di età. Avendo già lavorato per un periodo in Ryanair sapevo che non sarebbe stata un’offerta allettante ma la scarsità di lavoro mi ha portato a ritentare.

Pur essendo stata selezionata per-ché non hai accettato?La selezione è andata bene per la padronanza della lingua inglese ma al momento di trattare l’offerta con l’agenzia interinale di turno ho capi-to che il lavoro sarebbe stato un cot-timo dove l’effettivo impegno lavo-rativo pagato si limitava alle ore vo-late e non per le fasi preliminari pri-ma del volo e durante gli eventuali scali o soste tecniche. La compagnia non dà più una certezza sullo scalo di partenza e sul rientro a fine turno

a tal punto che uno può trovarsi a Londra o a Oslo dovendo af-frontare gli alti costi di residenza rispetto a quanto possano essere quelli di Pisa o comunque dove uno generalmente vive. Gli sti-pendi da 1.000 a 1.400 € (40/32 ore settimanali alternate effettiva-mente volate) non comprendono il corso che costa 4.000 € da fare a Francoforte (decurtabile in quo-ta parte mensile di 360,00 € dallo stipendio), il nolo della divisa per 30 € mensili, una propria polizza assicurativa, senza copertura in caso di malattia, dovendoti por-tare il tuo cibo e la tua acqua. Il rapporto di lavoro è regolato dal-la legislazione irlandese e la busta paga la percepisci direttamente attraverso la rete bancomat sul territorio europeo con obbligo di aprire un conto corrente presso la loro stessa banca. Queste condi-zioni sono impossibili da accetta-re se specialmente l’aeroporto as-segnato è diverso da quello pros-simo alla tua abitazione. Il rischio di andare in rimessa è altissimo e non esistono tutele. Chi altro ha accettato?Nessuno dei selezionati ha potu-to accettare, a queste condizioni. Siamo considerati degli strumen-ti di business.

Sarà costruito

solo un palazzo, dietro la vecchia

chiesa, ma il Comune dovrà dare in cambio altri immobili

Progetto nato nel 1995, mutato

nel 2002 e poi oggetto di accordi

per sanare gli errori della classe

politica

Foto di Giacomo Spagnoli

Page 6: Anno XI - n. 120 - Novembre 2016 · Marcelo Bielsa nasce a Rosario, in Argentina, che non è propriamente un posto qualunque. In eterna con-trapposizione a Buenos Aires, sia dal punto

per non dimenticare6 3interniNovembre 2016

modello di Protezione Civile che pretende di prendere in carica to-talmente il territorio, spogliando la popolazione di ogni iniziativa e mettendola come “in cura”. La ricostruzione di Firenze invece

mostra che il protagonismo po-polare, le reti di relazioni sorte spontaneamente sul territorio, i rapporti di vicinato e la passione politica sono la miglior forma pos-sibile di protezione civile. Da questo punto di vista, sono am-mirato e complice del modello di intervento che le Brigate di Solida-rietà Attiva stanno portando avanti in questi anni nei luoghi toccati da catastrofi.

ORLANDO SANTESIDRA

La storia degli angeli del fango è stata innegabilmente una

bellissima pagina di solidarietà. Coinvolse migliaia di giovani vo-lontari da tutto il mondo che si pre-cipitarono a Firenze a pochi giorni di distanza dal’alluvione che il 4 novembre del 1966 devastò il ca-poluogo toscano e i dintorni, con l’obiettivo di collaborare a mettere in salvo il patrimonio artistico citta-dino, in particolare le opere conte-nute nei magazzini della Biblioteca Nazionale. Anche in questi giorni le istituzioni fiorentine per bocca del sindaco Nardella si sono pro-digate in numerosi appelli a quei volontari affinchè partecipassero alle celebrazioni del cinquantesimo anniversario dell’evento. Le luci della ribalta da sempre puntate su questa vicenda rischiano però di offrire alle nuove generazioni una ricostruzione falsata, o meglio in-completa sulla reazione della città all’alluvione. A tal proposito, una nuova inquadratura dei fatti ci ar-riva dal video di Sergio Canfailla e Lorenzo Giudici, «Noi non siamo angeli del fango», un viaggio tra i volti anonimi e gli abitanti dei quar-tieri più colpiti che ci rivela come la vicenda dell’alluvione fu affrontata tramite un processo di autorganiz-zazione dal basso nel quale spicca-rono le realtà di base del territorio, in particolare le parrocchie e le case del popolo. Se l’alluvione colpì per la dimensione eccezionale dello straripamento dell’Arno, altrettan-to scalpore destò l’incapacità della classe dirigente locale e dello Stato di gestire la situazione. Pertanto, senza aspettare ordini dall’alto, la popolazione cominciò ad organiz-zarsi e nel giro di pochi giorni costi-tuì «ben 12 comitati di quartiere for-mati da squadre di giovani volon-tari che lavoravano giorno e notte per aiutare la gente a liberare case e negozi dal fango, a censire i danni, a occupare le case sfitte, a rivendi-care i propri diritti di fronte a uno stato e a un’amministrazione fino ad allora colpevolmente assenti» (Riccardo Michelucci, “Diario”, n. 42 anno XI, 3 novembre 2006). Nel video, immagini di repertorio si al-ternano alle voci di chi ricorda l’es-perienza del ‘66, suggerendo aned-doti buffi come quelli di chi vide il proprio vicino «uscire in tuta da pa-lombaro» o rievocando i momenti più drammatici, come chi, tra le lacrime, non dimentica il totale si-lenzio sceso sulla città. Da dove nasce l’esigenza di ricos-truire questa vicenda? Come ricercatore - risponde Loren-zo Giudici, uno degli autori - sono solito lavorare con la «storia orale». Mi avevano affidato il compito di raccogliere le memorie dei fioren-tini sull’alluvione del ‘66 in vista dell’anniversario dei 50 anni. Poco dopo, ho iniziato a portarmi una te-lecamera, per divertirmi, perché al-cune espressioni mi facevano dav-vero ridere. Quando ho iniziato le interviste, c’è stata una cosa che mi ha sorpreso. Contro ogni mia aspet-tativa, i fiorentini mi dicevano: “la storia degli angeli del fango l’è una

truffa”. Ho scoperto una storia della nostra città che ci hanno raccontato molto poco. In breve, quando arrivò la piena, le istituzioni cittadine non era-no preparate all’emergenza; da Roma

non arrivavano né indicazioni né aiuti: i fiorentini scesero in strada e fecero di testa loro. I centri di soccorso si forma-rono spontaneamente, perché la gente si organizzò nei luoghi dove di solito si ritrovava nel quartiere, cioè le case del popolo, le parrocchie, l’Università, le camere del lavoro. I centri di soccor-so poi si strutturarono come Comitati di quartiere e sul territorio divennero i soggetti fondamentali. Io mi sono chiesto a lungo perché da 30 anni, a scuola come in tv e sui giornali, mi hanno raccontato la ricostruzione di Firenze come se fosse stata tutta sulle

spalle dei volontari venuti da fuori e delle forze armate. E alla fine la ris-posta è semplice: l’autorganizzazione popolare non deve venire fuori. Invece in questa storia è la chiave per capire come sia stata possibile una reazione tanto efficace a un disastro tanto po-tente. Come avete rin-tracciato i prota-gonisti dal basso delle giornate del novembre 1966? Con i metodi ti-pici della ricerca delle fonti orali: i contatti e i pas-saparola. Sono andato nelle case del popolo e nelle parrocchie e una volta individuati i primi testimoni chiedevo a loro di mettermi in contatto con al-tri protagonisti degli eventi. Si aprono conti-nuamente piste nuove. Che tipo di espe-rienza politica è maturata nei giorni dell’alluvione? Nei giorni dell’alluvione è possibile osservare una caratteristica fonda-mentale della storia del movimento operaio del XIX e del XX secolo. La capacità di radicare l’azione politica sui territori, di farne un patrimonio co-mune, di chiamare alla responsabilità per la propria comunità, di estendere la partecipazione e la solidarietà. Inoltre Firenze ha una tradizione particolare legata alla partecipazione del territo-

rio: già nel 1944 il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale a Firenze si articolò in sottocomitati di quartiere. La vitalità delle Case del Popolo, della Camera del Lavoro e del cattolicesi-mo di sinistra è stata straordinaria per

tutti gli anni ‘50 e ‘60. È questo patri-monio di relazioni che ha garantito gli anticorpi alla città. Quindi, gli eventi del 66 hanno un lungo passato. Ma hanno anche delle conseguenze sul futuro, portando alle lotte della fine degli anni ’60 e degli anni ’70. Oggi come valuti gli interventi della Protezione Civile nelle emergenze? Mi viene in mente cosa è successo dopo il terremoto dell’Aquila, o al-tri disastri. Oggi si tende a usare un

NOVEMBRE 1966 - 50 anni fa l’alluvione di Firenze, una storia di riscatto e autorganizzazione popolare

Gli angeli «nel» fango

«Quando

arrivò la piena, le istituzioni

cittadine non erano preparate all’emergenza; da Roma non arrivavano né indicazioni né

aiuti, i fiorentini scesero in strada e fecero di testa

loro»

Anno XI, n. 120

COSTITUZIONE - Obiettivo della riforma è accentrare la spesa per poi tagliarla come vuole “l’Europa”

Accentrare per tagliare

piuttosto il canarino nella minie-ra che per primo rileva, compli-ce la sua fragilità, le esalazioni mefitiche che minacciano an-che il più solido minatore. Come ultimo atto, per il mo-mento, della stagione eterna delle riforme, la proposta Ren-zi-Boschi si accredita in qualche modo ontologicamente, vale a dire per il solo fatto di esistere, come “l’ultima spiaggia”, “la volta buona”, “l’occasione che non si ripresenterà più”, nono-stante la ventennale precarietà istituzionale continuata in cui ogni governo presenta la propria ricetta costituzionale e la propria legge elettorale: una situazione in cui il testo della Carta, la cui rigidità è divenuta da garanzia a zavorra, viene ormai considera-to continuamente emendabile, anche in modo completamente

sganciato da mandati elettorali preventivi, anzi piuttosto usando il referendum confermativo come rivincita o come legittimazione. Non stupisce, quindi, che sia l’a-nalisi dei problemi più urgenti sia le soluzioni proposte dalla rifor-ma siano di ben scarsa qualità quando non decisamente mar-ginali. Avendo trasformato la legittima riflessione consuntiva sui primi decenni di validità della Carta in una lite da bar, tormen-toni mediatici come l’abolizione delle province, le navette delle proposte di legge tra le due Ca-mere, la riduzione dei costi della politica tramite la decurtazione del numero dei parlamentari han-no ricevuto non solo diritto di parola, ma persino il riconosci-mento come princìpi ispiratori di una revisione così ampia. Anche tenendosi a distanza di sicurezza

dalla retorica della “Costituzio-ne più bella del mondo” e altri spunti di imbarazzo presente e futuro proposti dal fronte del No, non si può non rilevare come la formula adottata per la derubri-cazione del Senato non abbia in sé alcun anticorpo contro la per-dita di autorevolezza della classe politica e la scarsa qualità della produzione legislativa, inventan-do anzi territori inesplorati per protagonismi, trasformismi, con-trapposizioni pretestuose. L’altro pilastro della proposta, la controriforma del Titolo V, ha una giustificazione propagandi-stica nella conflittualità tra Stato e Regioni innescata dalla revisio-ne del 2001 che garantì potestà legislativa (esclusiva in alcune materie, concorrenti in altre) alle autonomie locali. Il pretesto, mai entrato stabilmente nella vulgata

delle riforme ineludibili, e la soluzione grossolana del riac-centramento non riescono a dissimulare l’effettiva motiva-zione: l’esigenza di mettere tut-te le più rilevanti voci di spesa in mano allo Stato, nominal-mente per la lotta agli sprechi ma di fatto per garantire che anche i pochi margini di libertà rimasti dopo l’inserimento del pareggio di bilancio nell’artico-lo 81 (riforma del 2012) venga-no posti sotto il controllo di un governo che ci si attende fedele

agli imperativi europei. Anche in questo, dunque, la ri-forma Renzi-Boschi non fa che vendere per nuovo un pacchet-to di idee inadeguate, nostalgi-che di un bipartitismo tramon-tato, pienamente nel solco della continua cessione di sovranità a istituzioni e poteri quanto più scollegati dal controllo eletto-rale, per quanto imperfetto e insufficiente.

LOPO BATTOCCHI

Presentata come la soluzio-ne clinica alle tare geneti-

che che l’ordinamento repub-blicano si porterebbe fin dalla culla, la riforma Renzi-Boschi è in realtà il fascicolo più re-cente della narrazione che ha dominato l’ultimo quarto di secolo di politica istituzionale: a partire, cioè, dalla stagione referendaria (1991 e 1993) che inaugurò la cosiddetta seconda Repubblica, forzando la modi-fica della legge elettorale per-ché aprisse la via alla revisio-ne costituzionale di cui già si discuteva da tempo. Revisione che poco tempo dopo fu consi-derata già in corso con il rico-noscimento di una Costituzio-ne materiale in cui il presidente del Consiglio riceveva di fatto un mandato popolare. Allora come oggi, però, la poli-tica e la società civile pensarono che il mutamento degli scenari interni e internazionali e il ri-allineamento del dibattito pub-blico su nuove istanze avrebbe potuto creare le condizioni per riprogettare a tavolino un as-setto delle maggiori istituzioni (principalmente Parlamento e Governo) pilotandone l’evolu-zione in un senso “più moder-no”, prendendo a modello un qualsiasi Paese che apparisse in confronto al nostro efficien-te, funzionale, dinamico — a prescindere da qualsiasi condi-zione al contorno, come se l’e-sperienza politica di, a turno, Francia, Germania o Stati Uni-ti fossero trapiantabili soltanto copiando una parte dello sche-ma degli organi statali. Tale miopia, anche da parte dei partiti di sinistra, impedì di notare come l’Italia non fos-se il fratello svagato che non aveva fatto i compiti, quanto

(Segue da pagina 1) La leg-ge in questione, essendo sta-ta approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere con la maggioran-za qualificata dei due terzi, non era sottoponibile a refe-rendum. Per tale via il no-stro paese ha dato seguito gli imperativi dell’ “Euro-pa”. Stavolta non in materia di assimilazione del diritto comunitario ma della logi-ca dei tagli di bilancio. A questo punto la sovranità apparterrà anche al popolo, l’impegno per i tagli struttu-rali è stato assunto tra stati maggiori. In virtù dell’ade-sione, in data 2 marzo 2012, al “Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la gover-nance nell’Unione econo-mica e monetaria”, meglio noto come “Fiscal Com-pact”, il cui art. 3 vincola gli Stati contraenti al pa-reggio (ovvero all’avanzo) di bilancio (par. 1), da re-

cepirsi “nel diritto nazionale … tramite disposizioni vinco-lanti e di natura permanente – preferibilmente costituzio-nale – o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il pro-cesso nazionale di bilancio” (par. 2). In linea con quanto già prefigurato anche qui non tra popoli ma dal Patto Euro-plus del 24 e 25 marzo 2011, il Fiscal Compact ha sancito per i Paesi aderenti il vincolo – canonizzato in una fonte di diritto internazionale (patti-zio), peraltro concepito quale destinato a intendersi ed ap-plicarsi come inserito a pieno titolo nel diritto comunitario - alla costituzionalizzazione della fondamentale regola del pareggio di bilancio. In poche parole una forma economica liberista e monetarista, il pa-reggio di bilancio, regola la nostra Costituzione. Se il pa-reggio di bilancio entra in con-traddizione con lo stato socia-

le di diritto, previsto dalla co-stituzione del ’48, è, secondo questo impianto di norme, lo stato sociale a dover soccom-bere. Anche questo processo viene da lontano. Nel primo caso affrontato doveva affer-mare il primato dell’impresa sulla democrazia. Nel secon-do costituzionalizza il prima-to dell’economia liberista sul-lo stato di diritto e sugli altri tipi di economia. Ricordiamo l’articolo 41 della Costituzio-ne che parla di primato dell’u-tilità sociale dell’economia. Il primato del bilancio è un’altra cosa. È richiesto dai merca-ti finanziario che vogliono il nostro paese come produttore di bond a rendimento buono e stabile. Il resto può attendere qualche generazione. La fine dello stato sociale di diritto. Queste due minacce, formalizzate, alla Costituzio-ne del 1948, che sono entrante nel suo corpo vivo, inoculate dai trattati comunitari, non

riguardano solo la messa in discussione dello stato sociale di diritto, sancito dalla carta del ’48. Sono il frutto di una più generale crisi sia dell’im-presa che della moneta che, per risolvere le loro difficoltà di accumulazione e circola-zione della ricchezza, si sono rivolte alle costituzioni nazio-nali. Immettendo norme che fanno cassa privatizzando i diritti sociali e comprimendo al massimo quelli del lavoro. Già il lavoro, quel fenomeno storico che è costitutivo nor-ma fondamentale della costi-tuzione (l’articolo 1). Feno-meno già messo in discussio-ne, nella sua stessa essenza, dal mercato (perchè il lavoro si eroga nel mercato), che esi-ste per risparmiare lavoro, e dall’evoluzione tecnologica che esiste per sostituirlo con l’intelligenza artificiale. In poche parole vediamo come implementazione del diritto comunitario in quello nazio-

nale, sbilanciando il senso dell’ordinamento a favore dell’impresa, e costituzio-nalizzazione del parareggio di bilancio siano fenomeni che vengono dal lontano. In tutti i sensi: dagli anni ’80. Sia come elemento di ingabbiamento dei dirit-ti costituzionali nazionali che come effetto della crisi dell’impresa e della moneta. Certo, un “Sì” il 4 dicembre peggiorerebbe la situazione. Ad esempio impoverirebbe i bilanci delle regioni, e degli enti locali, mortificando de-finitivamente le autonomie locali. Ma, come abbiamo visto, l’operazione di attac-co alla costituzione è di più vasta portata. Va oltre Ren-zi e le sue esigenze di piaz-zista di norme, venditore di cambiamenti a prescindere se si tratti di degenerazioni o meno.

Senza Soste redazione

Tagliare il Senato e

mettere le voci di spesa più rilevanti in mano allo

Stato seguendo i diktat dei

capitali finanziari

Page 7: Anno XI - n. 120 - Novembre 2016 · Marcelo Bielsa nasce a Rosario, in Argentina, che non è propriamente un posto qualunque. In eterna con-trapposizione a Buenos Aires, sia dal punto

internazionale Anno XI, n. 120 7stile liberoNovembre 2016

questa direzione, ma attività cal-colate che permetteranno di rag-giungere questo obiettivo”. La Prima Ministra Beata Szydlo ha annunciato che lo Stato garantirà un aiuto sociale per incentivare le donne a partorire e ad edu-care i figli disabili. La forza e le dimensioni di que-sta protesta hanno sorpreso tutti. Dopo circa 25 anni di “pace so-ciale” si è avuto un cambiamento fondamentale in Polonia: di fron-te alle decisioni autoritarie del PiS si è sviluppato un movimen-to di massa interclassista, chia-mato Comitato di Difesa della Democrazia (Kod). Alle mani-festazioni organizzate dal Kod partecipano decine di migliaia

di persone. La “protesta nera” è una nuova e importante conferma che la tradizione e la cultura dei movimenti di massa in di-fesa dei diritti e delle libertà democratiche stanno rina-scendo.

Katarzyna Bielinska - Npa Fonte www.rebelion.org, tra-duzione per Senza Soste di Nel-lo Gradirà

Le proteste di massa delle donne, senza precedenti in

Polonia, hanno costretto il Parla-mento polacco ad abbandonare i suoi plani per rendere più restrit-tiva la legge contro l’aborto. Il partito Legge e Giustizia (PiS) al potere si è arreso di fronte all’e-splosione della rabbia sociale. La legge del 1993, definita di “compromesso” dai media con-servatori, liberali e socialde-mocratici, è una delle leggi più restrittive dell’Unione Europea: l’interruzione della gravidanza è ammessa soltanto quando la vita o la salute della donna sono in pericolo, quando l’embrione è gravemente malato o quando la gravidanza è il risultato di un reato. In pratica anche in questi casi l’aborto è inaccessibile, per-ché si prolungano le procedure, si rifiuta di effettuare l’intervento in base a una pretesa “clausola di coscienza”, ecc. Per questo gli aborti clandestini fioriscono così come l’emigrazione abortiva: secondo le stime delle organiz-zazioni femministe, in Polonia vi sono tra gli 80.000 e i 100.000 aborti ogni anno, dei quali solo alcune centinaia legali. Le orga-nizzazioni femministe e di sini-stra finora non erano riuscite a creare mobilitazioni. Nel marzo scorso, la tradizionale manife-stazione che viene organizzata a Varsavia da 17 anni in occa-sione del giorno internazionale della donna si era svolta sotto

lo slogan di “Aborto a difesa della vita”. Vi aveva partecipato un mi-gliaio di persone al massimo. Il 23 settembre scorso, la Dieta (ca-mera bassa del Parlamento), nella quale il PiS ha la maggioranza asso-luta, ha deciso di aprire il dibattito su una proposta di legge di iniziativa popolare, ultraconservatrice, presen-tata dall’organizzazione Ordo Iuris. Questo progetto prevedeva la proi-bizione assoluta dell’aborto e pene detentive per le donne che inter-rompono la gravidanza. Allo stesso tempo, la Dieta si è rifiutata di esa-minare il progetto di legge di inizia-tiva popolare “Salviamo le donne”, ispirato alla legislazione della mag-gioranza dei paesi dell’Unione Eu-ropea, che intendeva liberalizzare la

legge attuale e autorizzava l’aborto fino alla dodicesima settimana. La decisione della Dieta ha provo-cato un’immensa mobilitazione in tutto il paese, soprattutto di donne. Nessuno si aspettava che la “prote-sta nera”, così chiamata per i vestiti e gli ombrelli neri che portavano le manifestanti, avesse una tale dimen-sione. Lunedì 3 ottobre ci sono state manifestazioni in 143 città e paesi. A Varsavia, al concentramento in piazza del Castello sono arrivate decine di migliaia di persone no-nostante la pioggia. Molte donne si sono vestite di nero per andare al lavoro. Rispondendo all’appello per uno sciopero delle donne, ispirato dallo sciopero islandese del 1975, alcune donne non sono andate al

lavoro, altre sì ma limi-tando l’esercizio dei loro obblighi professionali: ad esempio una segretaria non rispondeva al tele-fono. Pertanto è diffícile stimare la partecipazio-ne alla protesta nelle sue diverse forme. Secondo i media, circa 100.000 per-sone hanno preso parte soltanto alle manifesta-zioni di piazza. Un son-daggio indicava che il 67 % delle donne e degli uo-mini appoggiava la prote-sta. Inoltre il risultato di questa protesta massiccia e inattesa è stato impreve-dibile: il PiS ha ritirato il suo ap-

poggio al progetto fondamentalista che aveva soste-nuto due settima-ne prima, e il 6 ottobre la Dieta lo ha respinto. Il pre-sidente del PiS, Jaroslaw Kaczyn-ski, ha ammesso alla Dieta che “osservando la situazione socia-le”, si è convinto che il progetto di Ordo Iuris “non è appropriato, che il suo effetto sarà esattamente il contrario”. Di-chiarava che “il PiS è e continuerà ad essere a favore della protezione della vita. E realizzerà attività in

POLONIA - La “protesta nera” delle donne ferma una legge medievale

Il fondamentalismo non è solo islamico

AFGHANISTAN - Dopo 15 anni di occupazione il quadro nel paese è disastroso

La “libertà” che hanno esportatoDi seguito un ampio stralcio dell’in-

tervista di Diagonal alla deputata e attivista afghana Malalai Joya sulla si-tuazione delle donne in Afghanistan nel 15° anniversario dell’inizio della guerra. La versione integrale sarà pubblicata sul nostro sito (Redazione). Qual è la situazione del-le donne in Afghanistan dopo l’occupazione? Vi senti-te liberate? La situazione delle donne in Af-ghanistan disgraziatamente è un disastro ancora più grande rispetto all’epoca dei talebani. Gli uomini e le donne dell’Afghanistan - non solo le donne - non sono stati assoluta-mente liberati. Soffrono ingiustizia, insicurezza, corruzione, disoccupa-zione, povertà... Le donne e i bam-bini sono quelli che stanno peggio. La catastrofica situazione delle don-ne è stata un’ottima scusa perché la Nato occupasse il nostro paese e, di fatto, ci hanno mandato in prima linea per rimpiazzare il regime dei talebani, misogini e fondamentali-sti, con i signori della guerra, anche loro misogini e fondamentalisti, che sono della stessa pasta dei talebani e che ingannano il popolo afghano camuffati da democratici. Per que-sto la situazione, specialmente per le donne, è un inferno, nella maggior parte delle zone del paese. Neanche

a Kabul le donne si sentono sicure. Il drammatico caso di Farjunda, una ra-gazza di 27 anni accusata di aver bru-ciato un Corano, è sufficiente a capire la situazione di assoluto disastro per le donne. L’anno scorso, il 19 marzo, è stata brutalmente linciata in pieno gior-no, a pochi chilometri appena dal pa-lazzo presidenziale, molto vicino alla polizia afghana e alle truppe straniere. Dopo un pestaggio, le sono passati so-pra con un auto, hanno bruciato il suo corpo e lo hanno gettato in un fiume vicino. Questa storia di per sé è suffi-

ciente per capire la situazione, e nelle aree rurali è ancora peggio. Stupri, vio-lenza maschile nelle case, aggressioni,

pestaggi di donne, lapidazioni... La violenza contro le donne si è aggravata. All’epoca dei talebani le donne e gli uomini del nostro paese avevano un nemico, che erano i terroristi talebani, ma in questi 15 anni dopo l’occupazio-ne la nostra gente ha quattro nemici: i signori della guerra, i talebani, le forze di occupazione e l’Isis. Ed è vero che in alcune grandi città, Kabul, Herat, Mazar-i-Sharif, alcune donne hanno accesso al lavoro e all’istruzione, ma solo per giustificare l’occupazione. Ma nelle aree rurali questo regime fantoc-cio e corrotto non ha fatto nulla. Dal basso, i talebani, i signori della guerra e i terroristi dell’Isis continuano a com-mettere atti di barbarie contro uomini e donne del nostro paese, specialmente sulle donne. Ma dal cielo le forze di occupazione bombardano alla cieca e la gente innocente è vittima, in nome della presunta guerra contro il terrore. È una guerra contro civili innocenti. Migliaia di persone sono state assassi-nate in questi 15 anni di occupazione, soprattutto donne e bambini. Nel tuo caso, com’è cambiata la tua vita dopo l’occupazione?

La mia vita è sufficiente per capire la farsa della democrazia in Afghanistan. Non abbiamo l’elemento centrale della democrazia, che è la libertà di espres-sione e di stampa, non abbiamo que-ste condizioni per la democrazia in Afghanistan. Abbiamo una caricatura di democrazia, con le mani sporche di sangue, sfortunatamente. Per esempio, paragoniamo la mia vita con il perio-do talebano. Ero maestra clandestina e portavo il burka. Anche oggi devo portare questo orribile burka, che riten-go un simbolo di oppressione ma che

oggi mi garantisce sicurezza. Non solo a me, ma ad altre migliaia di donne, specialmente quelle che non sono attiviste, per nascondere la loro identità. Ma sfortunatamente i me-dia, il meccanismo di propaganda e i politici accecano la gente rispet-to alla guerra. Avrete sentito Laura Bush dire che grazie a loro le donne in Afghanistan per la prima volta nella loro storia avevano dei diritti. Questa è un’enorme menzogna. Le donne afgane avevano certi diritti negli anni ’60-‘70. Vestivano più o meno all’occidentale ed esercitava-no un ruolo nella società, andavano anche per strada senza il velo. Ma dopo quattro decenni di guerra han-no sofferto molto. Corrono molti pericoli, specialmente le attiviste. Devono coprirsi perché nessuno le riconosca e per non essere un obiet-tivo (...) .

Emma Gascó - Diagonal Fonte http://www.diagonalpe-riodico.net/global/31794-entrevi-sta-malalai-joya.html, traduzione per Senza Soste di Nello Gradirà

La situazione

delle donne in Afghanistan è

perfino peggiore che con i talebani

to principale, il traguardo è sta-to fare esattamente il disco che avevo in mente ed averlo pagato vendendo i miei lavori grafici, il resto è in secondo piano.Già, il disco è stato prodotto grazie a questa particolare for-ma di crowfunding.Sì, è stata un idea azzardata che ha dato frutti insperati, una “svendita” di opere a prezzi abbordabili che ha quasi total-mente coperto le spese di regi-strazione stampa e ufficio stam-pa, il poco restante l’ha messo il buon Paolo della Riff Records.E parlando di opere merita una citazione la copertina stessa del disco (e che ritroviamo an-che nel video di Same tra l’al-tro).La copertina è un lavoro che ha poi dato nome al disco. “Left Hand”. È un quadro venuto per caso, avevo due pannelli di le-gno neri da buttare che decisi di recuperare usandoli come sup-porto, sul primo feci un lavoro geometrico dal titolo “lifetime”, sull’altro essendo a corto di idee con la destra mi disegnai guar-dandola la mano sinistra. Il ri-sultato cromatico di un blu elet-trico su sfondo nero mi piacque molto e mi suggerì di usarlo ap-pena possibile per la grafica di un disco. La mano sinistra poi è la mano del cuore, quella che danza sullo strumento.Silvereight è un progetto soli-sta o un gruppo, e soprattut-to continuerà ad essere la tua identità principale?Silvereight è un progetto soli-sta ma vive di entusiasmo, il mio e di chi mi dà una mano a dare forma alle canzoni. La formazione attuale con Federi-co Melosi alla batteria e Gianni Niccolai al basso ha una bella alchimia sonora ed umana, spe-ro dunque, se l’ispirazione mi riporterà ad arrangiare i pezzi in formazione a tre, di conti-nuare con loro.Come musicista hai alle spal-le svariati progetti ma oltre a Silvereight ed alla già citata collaborazione con il collet-tivo del Tor porti avanti altri percorsi insieme ad altri musi-cisti.Sì l’altro gruppo stabile che ho sono gli adorati The Jackie-O’s Farm di cui faccio parte come chitarrista dal 2006, gruppo capitanato dal bomber e bravis-simo autore di canzoni Giaco-mo Vaccai, abbiamo fatto tanta strada insieme e spero di farne altrettanta, siamo in procinto attualmente di ultimare il terzo disco con la produzione artisti-ca di Andrea Appino. Collabo-ro poi volentieri con altri amici di altri gruppi come Mandrake, NU. e Bad Love Experience, che fanno tutti parte tra l’altro del collettivo Inner Animal Re-cording.Info:silvereight.neteggvisualart.com

A cura di Lucio Baoprati

Tra le uscite discografiche made in Leghorn del 2016

non è passato inosservato il se-condo lavoro in studio di Silve-reight, progetto solista del chi-tarrista classe ‘76 Federico Sil-vi. Dopo l’esordio del 2013 con l’eponimo “Silvereight”, carat-terizzato da sonorità più elet-troniche, il 10 giugno del 2016 è uscito “Left Hand”, produzione decisamente più rock. Il lancio in rete del suo ultimo video, Same (quinta traccia del disco), è stata l’occasione per contat-tare finalmente Federico Silvi. È nata così una bella intervista ad ampio raggio con una delle migliori menti creative della pur ricca e variegata scena musicale livornese (e non).Same è il quarto video estratto dal tuo ultimo album, un video ed un brano a cui tieni molto.Esatto, Same è un brano a cui tengo molto perché è una delle due canzoni (insieme a Propa-gUnda) che affronta argomenti politici e sociali. La regia ed il montaggio sono di Filippo Del Bubba (Jacqueline Farda) cono-sciuto in ambito TeatrOfficina Refugio e capace di inquadrare e videare il mood tematico del pezzo.Questo non è il primo video costruito su materiale di reper-torio.No, è il terzo video tratto da questo disco che utilizza imma-gini di repertorio, il primo è sta-to “From space” ed il secondo “Love” (entrambi realizzati con la videomaker Ambra Lunar-di) . È stata una scelta fatta in principio per ragioni economi-che che si è poi rivelata molto stimolante.In questo ultimo video scorro-no le immagini di chi il potere lo difende e di chi ha provato (e prova) a contrastarlo.Il testo è una energica accusa verso gli stessi schemi e le stesse dittature che cambiano pelle ma restano sempre fatte della stessa sostanza e della potenza sotter-ranea di un popolo che se non soggiogato e messo sotto scacco dalla macchina ha sempre, e ri-peto sempre, in potenza il pote-re di farsi giustizia.Alla fine del brano canti «Step by step year after year/ same old lies/another broken dre-am»: dopo l’ennesimo sogno infranto cosa resta?Resta la prospettiva. La pro-spettiva c’é sempre finché ci sa-ranno gli ideali. L’importante è non confondere l’ideale con le persone che lo mettono in prati-ca, le persone sono fallaci, l’ide-ale è un faro da non perdere mai di vista. I sogni infranti sono, credo, sotto gli occhi di tutti...Nel video poi c’è la dedica fi-nale: cos’ha rappresentato per te e cosa rappresenta ancora Genova 2001?Genova 2001, a parte il tragi-co episodio della morte, anzi dell’uccisione di Carlo Giulia-ni, ha rappresentato la prima spietata zampata del “Tallone

di ferro” (libro di Jack London che estremizza una futura e fe-roce oligarchia) dei nostri tempi. Erano anni per certi versi “in-genui”, la rete non imperversa-

va ancora e gli attuali sentori di complottismo (spesso fanatici e deliranti ma basati comunque su reali scenari e meccanismi) erano lontani, c’era la volontà di mani-festare con forza ed ideali contro un’organizzazione mondiale che gettava le basi per uniformare un sistema capitalistico e di sfrutta-mento delle risorse inaccettabi-le, e la risposta delle autorità fu estremamente coerente con gli scenari mondiali che di lì a poco si sarebbero delineati...Il tuo rapporto con la dimensio-ne politica.La dimensione politica è la vita. Tutto è politica perché siamo sempre e costantemente ciò che facciamo e ciò che non faccia-mo, ciò che scegliamo e ciò che non scegliamo. La citazione che

accompagna il post del video di Same di Antonio Gramsci basta da sola a rispondere alla doman-da «Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli

indifferenti.»A conferma del tuo impe-gno da tempo partecipi atti-vamente alle rappresenta-zioni del Tor.Il Tor (Teatro-OfficinaRefu-gio occupato e antifascista) è uno spazio che frequento da anni e dove mi

sento veramente a casa per l’idea che lo anima e per le persone che ci puoi trovare. In una società che si muove esclusivamente per sol-di avere un luogo animato esclu-sivamente dalla passione e dagli ideali comuni ha un valore inesti-mabile, sono felice di averlo nella mia città e sono sempre pronto quando posso a contribuire alle attività e agli spettacoli svolti.Rimaniamo in tema: gli spazi e la cultura a Livorno.Gli spazi e la cultura a Livor-no hanno fatto passi da gigante se rapportati alla situazione che avevo di fronte quando avevo venti anni... Posti come il The Cage, il Surfer Joe, il Nuovo Tea-tro delle Commedie, il Tor come detto prima, il Grattacielo, Pol-petta, Orti Urbani, Egg Visual

Art (di cui fac-cio parte), Ca-rico Massimo, Buzz Kill etc... insomma c’è tanto da fare ma le potenzialità stanno venendo fuori. Il proble-ma più grande è confrontarsi troppo spesso con un’utenza pigra e disinte-ressata...Tra le tue forme espressive non c’è solo la mu-sica: c’è comun-que un nesso tra questa e la tua produzione ar-tistica nell’am-bito grafico e pittorico?Il nesso c’è ed è la mia sensibili-tà nell’approc-cio che ho alle cose (ognuno ha la sua). Un elemento che accomuna la musica e il dise-

gno credo sia l’essere totalmente autodidatta. Sono sempre stato affascinato dal lato “magico” dell’espressione artistica, vedere cosa viene fuori senza schemi o sovrastrutture preesistenti che non siano la propria esperienza sul campo.Torniamo al tuo ultimo disco,

Left Hand: possiamo fare un primo bilancio?Il bilancio ahimè (per ora) è vit-tima di un paese che mal digeri-sce soprattutto negli ultimi anni il cantato in inglese. Nonostante le buonissime recensioni ricevu-te fino ad ora si fa molta fatica a promuovere il proprio lavoro ai media “che contano”. Direi co-munque che non è questo il pun-

La mano sinistra dell’indie rock

SUONI E VISIONI - Intervista al chitarrista, compositore e visual artist labronico Federico Silvi

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“Tutto è politica

perché siamo sempre e

costantemente ciò che

facciamo e ciò che non facciamo”

La mobilitazione

di massa ha bloccato

i progetti antiabortisti del

governo

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Periodico livornese indipendente - Anno XI n. 120 - Novembre 2016 OFFERTA LIBERAPoste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%

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Pagina OttoAnno XI - n. 120 - Novembre 2016

PERSONAGGI (prima parte) - Per molti suoi colleghi è il miglior allenatore al mondo contemporaneo malgrado non abbia vinto (quasi) nulla. Perché a renderlo grande e a proiettarlo di diritto nella Hall of Fame del calcio sono le sue idee tattiche, visionarie e rivoluzionarie. Fenomenologia di un futurista prestato al calcio: El Loco Marcelo Bielsa.

TITO SOMMARTINO

Se chiediamo ai più famosi allena-tori del pianeta chi sia il miglior

collega degli ultimi 30 anni, almeno la metà non risponderà Guardiola, Mourinho o Ancelotti ma Marcelo Bielsa, uno che, parafrasando pro-prio Mourinho, in carriera ha vinto zero tituli o giù di lì. Ma nel calcio, così come nella scienza o nelle arti, i migliori spesso non sono quelli che raccolgono i maggiori successi, ma coloro che aprono una strada, che hanno l’intuizione rivoluzionaria: sono i Vittorio Pozzo col “Metodo”, gli Herbert Chapman col “Sistema” (o WM), i Gusztáv Sebes con l’e-voluzione del WM in MM, i Rinus Michels col “Calcio totale”. Sono i vi-sionari, quelli che spesso, illegittima-mente, definiamo matti solo perché non allineati al pensiero comune. E non a caso Bielsa è proprio sopran-nominato El Loco, il matto.Marcelo Bielsa nasce a Rosario, in Argentina, che non è propriamente un posto qualunque. In eterna con-trapposizione a Buenos Aires, sia dal punto vista culturale che artistico e calcistico, è la città dove sono nati il Che, Lucio Fontana, Lionel Messi ma anche Cesar Menotti, El Flaco. Già, Menotti, l’allenatore col mito di Michels che, oltre a vincere il Mon-diale del ’78, rivoluzionò il calcio ar-gentino col suo gioco divertente, spet-tacolare e profondamente offensivo. La perfetta antitesi di Carlos Bilardo, tecnico dell’Argentina ’86 campione del mondo e massimo esponente di quella che può essere definita la scuo-la argentina vecchio stampo, tutta difesa e grinta, gioco sporco e di ri-messa. Prima di Bielsa, in Argentina, quelli erano i due stili calcistici. O eri me-nottiano o bilardiano, non ne uscivi. Come quando in Italia correvano Coppi e Bartali. Se non stavi per l’u-no stavi per l’altro.L’osservatoreDopo una breve e mediocre parente-si da calciatore, Bielsa capisce che la sua missione nel calcio è quella di in-segnarlo. E lo fa sin dalle prime battu-te con maniacale dedizione. Di lui si raccontano miriadi di aneddoti, mol-ti dei quali, se non veri, sicuramente verosimili. Uno dei più particolari riguarda la sua attività di talent-scout, propedeutica a quella di tecnico, per il Newell’s Old Boys, una delle due squadre di Rosario. Bielsa, figlio di giuristi che non vedevano di buon occhio la sua passione per il calcio giudicato un hobby per gente grezza (non gli rivolgeranno la parola per 10 anni), nel 1987 percorre 24mila km in tre mesi con una Fiat 147. Insieme al fido collaboratore Pekerman (anche lui in seguito tecnico della nazionale albiceleste) scova un cicciottello Bati-stuta, un timido Sensini e una notte, in piena notte, suona il campanello di una casa sperduta in una pampa che dà sul Paranà. Aprono la porta, atter-riti e increduli, i genitori di Mauricio Pochettino, giovane di belle speranze che l’anno seguente, a 16 anni, de-butterà da titolare in campionato nel Newell’s Old Boys di Bielsa.La rivoluzioneBielsa è solito leggere una dozzina di quotidiani al giorno. Qualcuno lo definirà un ergastolano studioso

del pallone. Presto impara tutti i se-greti tattici di Menotti e Bilardo e la sua intelligenza, unita ad una totale e maniacale dedizione, gli permette di sintetizzare nel proprio credo le prin-cipali massime dei due opposti del cal-cio argentino. Presto, in Argentina, gli stili calcistici diventano tre. Bielsa rie-sce a tradurre in campo, con risultati sensazionali, uno schema che fino ad allora sembrava inapplicabile, il 3-3-1-3, che permette rapidi contropiede e al tempo stesso una copertura del campo uniforme. Velocità, aggressivi-tà e ritmi forsennati sono le tre armi principali del gioco di Bielsa. Una linea difensiva fatta di tre centrali ravvicinati, con due marcatori e un libero vecchio stampo che sappia impostare l’azione da dietro, senza esterni bassi”; un cen-trocampo a tre impostato su un centrale basso che difenda i centrali e costruisca il gioco, poi due esterni che sfruttano il fraseggio stretto, gli inserimenti verticali negli spazi e ripiegano sulle ripartenze avversarie; l’enganche, cioè il trequarti-sta, l’uomo sul quale ruota tutto, che deve avere cervello, fiato e tecnica, che crea gioco e collega i reparti in fase of-fensiva muovendosi continuamente tra le linee e dettando i passaggi; un tridente

il campionato al primo tentativo ma la straordinarietà non sta tanto (solo) nella conquista del titolo, bensì nel modo con cui esso arriva. Ciò che è deflagrante è il calcio proposto dal suo Newell’s: in Argentina e nel resto del mondo mai si è giocato in modo così ultra-offensivo, verticale fino all’eccesso, atletico e costantemente in pressing. È questa la vera rivoluzio-ne di Bielsa: preparare la partita sen-za prepararsi sull’avversario perché il gioco deve sempre essere in mano propria. E poi la continua copertura della metà campo avversaria fatta con i tagli in profondità, l’ossessiva ricer-ca dello spazio, le giocate massimo a due tocchi, il pressing triplicato in uscita e le ripartenze fulminee in fase di transizione offensiva. Un futurista prestato al calcio, ecco cosa sembra essere Bielsa. È per questo che forse, a proposito di illustri suoi concittadini, più che a Menotti, Bielsa può essere paragonato a Fontana. Si apre così l’era del Newell’s campio-ne: un tornado che si abbatte sull’Ar-gentina e deflagra Boca, River, Rosa-rio Central e tutte le compagini più quotate. A Rosario è già un guru. Una figura da portare in trionfo, cosa che i

offensivo che deve rispondere ad una mobilità forsennata degli esterni, che de-vono tagliare attaccando gli spazi, farsi trovare sulle verticalizzazioni, allargare il campo e pressare fin dai primi metri il giro palla avversario, e un centravanti vero, meglio se fisicamente prestante, un finalizzatore dotato fisicamente e atleti-camente.Gli iniziA Rosario si comincia a parlare di Bielsa per la sua strana consuetudine, ad un certo punto, di abbandonare il campo, arrampicarsi su un albero e guidare gli allenamenti da lì. “Lo fac-cio per vedere meglio i movimenti dei miei calciatori e poterli correggere in diretta”, spiega. È qui che prende il soprannome di El Loco, che, alla gui-da delle giovanili del Newell’s vince a mani basse ogni competizione giova-nile. Sensini, Pochettino, Batistuta ma anche Heinze e Balbo sono alcuni dei frutti raccolti nei 24.000 km di pelle-grinaggio calcistico. Bielsa viene lan-ciato in prima squadra nel 1990 e lui si porta dietro dieci ragazzi della cantera. Perché El Loco non ha bisogno di cam-pioni ma di buoni giocatori che per lui, anzi, per le sue idee, siano disposti a gettarsi anche nel fuoco. Bielsa vince

suoi giocatori puntualmente fanno al grido di “Newell’s Carajo!”.Di campionati al Newell’s, El Loco ne vince anche un altro, il Clausura del ’92 e, sempre lo stesso anno, perde in finale ai rigori contro il San Paolo la finale di Copa Libertadores. Una cavalcata incredibile iniziata in modo ancor più incredibile, con una disfatta casalinga per 6-0 contro il San Loren-zo. Proprio questa sconfitta porta con sé uno degli aneddoti più particolari legati a Bielsa: la sera stessa alcuni ultrà dei Leprosos si presentano da-vanti casa dell’allenatore per chiedere conto della disfatta. Bielsa, anziché accettare il confronto, esce di casa impugnando una bomba a mano. Oggi, lo stadio in cui gioca il Newell’s Old Boys si chiama (già) “Estadio Marcelo Bielsa”. Questo è sufficien-temente indicativo di quale impronta abbia lasciato Bielsa nella metà ros-sonera di Rosario. (Fine prima parte)

A lo Loco se vive mejor

AssessorIna

Nella palude livornese tutto scorre piano. Come se la

valanga che continua a colpire questa città ogni giorno viag-giasse con i tempi della classe dirigente labronica. Scriviamo “classe dirigente” perché qual-cuno negli ultimi due anni tende ad individuare i problemi strut-turali di questa città con la nuova Amministrazione, che di proble-mi ne ha, ma che non sono cer-to sovrapponibili. Ai tanti sme-morati vorremmo ricordare che le gare per la Darsena Europa, per la Porto2000 e per i bacini sono in perenne proroga, mentre quella del trasporto pubblico è stata bloccata dal Tar. Insomma, gli interessi a cui fa capo il Pd non sono certo più in salute. Ma passiamo alle questioni poli-tiche locali. Segnaliamo due fat-ti che in queste settimane hanno avuto una discreta rilevanza po-litica e che riguardano l’assesso-rato di Ina Dhimgjini. Prima c’è stata la vertenza dei lavoratori delle cooperative sociali che si occupano delle case famiglia e che rischiano il posto di lavoro in seguito ai tagli operati sui ser-vizi. Non entriamo qui nel meri-to della questione ma come altre volte la reazione dell’assessora è stata di totale chiusura e di cieca fiducia nei tecnici del Comune, con tanto di abbandono del ta-volo irritata. Un comportamen-to che ha portato addirittura Buongiorno Livorno a chieder-ne le dimissioni in quanto inac-cettabile in quel contesto. Dopo pochi giorni poi la stoccata del sindacato Fials, il principale in ospedale, che è andato al diretto attacco di assessore e sindaco, dicendo addirittura che rimpian-ge il modo di confrontarsi dei suoi “nemici” del passato, Co-simi e Lamberti. Sarebbe tutto normale se quel sindacato non fosse sempre stato vicino ai con-tenuti dei 5 Stelle in materia di sanità e nuovo ospedale. Si tratta di due stoccate non indifferenti, da parte di soggetti che non fan-no certo opposizione strumen-tale come altri. Cosa significa? Intanto che, come abbiamo sem-pre detto, è assurdo accorpare un assessorato con sanità, socia-le e casa. Sono temi caldissimi che necessitano di cura specifi-ca. Secondo, che l’assessora Ina Dhimgjini non può sostenere questo peso viste le reazioni e le incapacità di mediazione che ha. Terzo, che l’assessora è an-che vittima dell’immobilismo dell’Amministrazione in settori che col passare del tempo recla-mano soluzioni e che riguarda-no le fasce più deboli di questa città.

A chi serve la riforma costituzionale? Serve ai tecnocrati europei e ai capitali finanziari per chiudere il cerchio col principio del pareggio di bilancio votato durante il governo Monti. In poche parole serve per sancire il primato di impresa e mercato su stato sociale e democrazia e per affondare definitivamente la capacità di spesa degli enti locali.

Vista l’importanza storica del referendum costituzionale

del quattro dicembre non fa male scomodare qualche classico di quelli che parlano delle costituzio-ni quando cambiano. E qui due classicissimi vengono in soccorso nell’analisi dei nostri problemi. In entrambi, Polibio e Aristotele, i regimi possono degenerare. La democrazia può (si tratta di un un giudizio famoso) degenare in tirannide. Per questo Polibio ela-bora la teoria del governo misto: una Costituzione che contenga elementi di monarchia, di aristo-crazia e di democrazia in modo da contenere gli aspetti che con-sidera benigni dei tre regimi e al-lontanare le loro degenerazioni. In ogni caso c’è molta attenzione, e si parla di autori che faranno sem-pre scuola, al rapporto tra cambia-mento e possibile degenerazione del regime. Il prodotto renziano da vendere. La propaganda renziana, al con-trario, insiste sul cambiamento, come se invece della Costituzione si dovesse cambiare smartphone, senza preoccuparsi delle degene-razioni. Al contrario, una volta in-sistendo sulla retorica dei piccoli cambiamenti (comunque da ope-rare con il voto del 4 dicembre), una volta esaltando lo stesso voto come un grande cambiamento,

Renzi non sembra preoccuparsi di nessuna delle degenerazioni possibili contenute nel suo com-portamento. Il motivo è semplice: essendo il suo un voto senza storia, senza profilo, senza strategia, deve solo preoccuparsi di vendere un prodotto, la riforma, senza preoc-cuparsi troppo del resto. Infatti ha pubblicamente accusato Napolita-no, per giustificare il fatto di dover rimanere al potere comunque vada il referendum, di aver spinto per approvare una riforma costituzio-nale. Come dire: il prodotto non è mio, lo vendo come prodotto di cambiamento (cioè come qualsiasi prodotto), poi comunque vada si passa ad altro. L’altro elemento di insistenza, che non ha niente a che vedere con la Costituzione è il mi-tico elemento dei costi. La Costitu-zione non è una legge di bilancio. Costituzionalizzare le polemiche sulle leggi di bilancio porta a bana-lizzare, a far crollare l’edificio co-stituzionale, a causa di un stipen-dio parlamentare, di un seggio, di un rimborso spese. E questa dege-nerazione del regime democratico, ridotto a spazio di polemiche sulla nota spese, per adesso, interessa a pochi. Quella che vogliamo evi-denziare, inoltre, è un’altra cosa. Non solo i rischi della retorica del cambiamento, contenuti nel mar-keting renziano, ma anche che l’at-

tacco alla Costituzione viene da lontano, da forze ben diverse dal marketing renziano. Elenchiamo qui un paio di punti, essenziali per capire queste forze. Fenomeni che si radicano nei cambiamenti eco-nomici e finanziari.Assimilazione del diritto italiano a quello comunitario. L’Italia è percorsa da legioni di costituzio-nalisti, anche molto di sinistra, che giurano e stragiurano che l’”Euro-pa” rappresenta un compimento e un’evoluzione del sistema dei di-ritti pensato nel nostro paese. Ma è davvero così? A noi risulta che questo paese assorba percorsi nor-mativi e procedurali, ad esempio negli accordi sulle aree di crisi, pie-namente assimilabili a un diritto comunitario che contraddice quel-lo della nostra Costituzione. Ed esattamente su un punto, il prima-to dell’impresa, che contraddice la Costituzione italiana, dove sopra tutto ci sarebbe lo stato sociale di diritto. Oltretutto nel diritto comu-nitario, assimilato dal nostro ordi-nanento, si stabilisce un primato che in Italia non è previsto. Quello della forma economica dell’impre-sa tutelata anche rispetto allo stato sociale di diritto. In Germania, ep-pure da quelle parti c’è un diritto al quale la Ue si è ispirata, si sono al-meno tutelati rispetto al problema della subordinazione del diritto

nazionale rispetto a quello comu-nitario. Quando la corte costitu-zionale di Karlsruhe ha stabilito il primato della legislazione tedesca sulla normativa continentale in caso di contraddizione. In Italia invece basta declamare la retorica dei valori della Costituzione men-tre, come vediamo, nelle politiche di governance questi vengono re-golarmente rovesciati. Quindi ab-biamo l’implementazione, nell’as-similazione delle norme europee, di un primato dell’impresa che è un rovesciamento dello stato so-ciale di diritto italiano. Questo percorso viene da lontano, dagli anni ’80, non dimentichiamolo.Costituzionalizzazione del pa-reggio di bilancio. Nonostante le parole, tante, che corrono sulla prima parte della Costituzione, quella riguardante i valori che ri-marrebbe invariata in caso di vit-toria dei “Sì”, la vera controrifor-ma costituzionale è già stata fatta. Si tratta della costituzionalizza-zione del pareggio di bilancio, conseguenza concreta della assi-milazione del diritto comunitario, che ha come primato l’impresa, da parte dell’ordinamento naziona-le. Con la legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1 è stato introdotto così nella Costituzione italiana il “principio del pareggio di bilan-cio”... (continua a pagina 3)

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