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Anno X - N° 2, marzo/aprile 2015 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina www.circoloathena.com Anno X - N° 2, marzo/aprile 2015 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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Anno X - N° 2, marzo/aprile 2015

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

www.circoloathena.com

Anno X - N° 2, m

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SOMMARIOE' così il mare dopo una tempesta?

Avremo mai la giusta risposta?(Ad un amico salentino)

O Capitano, mio Capitano!

Davvero il nostro viaggio è terminato?

Dov’è l’ambito premio da conquistare?

Non vedo altro che brandelli di sogno

legati all’albero maestro, col cappio al collo,

il porto è assai lontano, nessun suono di campane,

solo rintocchi per valorosi caduti

nel campo di battaglia ancora grondante sangue.

O Capitano! Mio Capitano!

Amato padre, sono ad attenderti

sulle coste deserte solo i gabbiani

e tu, valoroso, non mieterai

se non la fame di un popolo perso,

un popolo ucciso dalla corruzione dei potenti.

O Capitano! Mio Capitano!

Non puoi risorgere, non ce la fai.

Nemmeno il mio braccio sotto il tuo capo

può riscaldarti, mio Capitano,

caduto, gelido, morto.

La nave è alla deriva dopo il viaggio tremendo,

ma noi ci arrenderemo?

Suonate campane, suonate più forte,

fate risorgere il mio Capitano!

Giusy TolomeoBusto Arsizio

Redazione Il filo di Aracne

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220 info: www.circoloathena.com - e-mail: [email protected] - [email protected] del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuitaDirettore responsabile: Ada DonnoDirettore: Rino Duma Collaborazione artistica: Melanton Redazione: Giorgio Liaci, Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero VinsperImpaginazione e grafica: Salvatore ChiffiPubblicità: Giuseppe De MatteisStampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina

O CAPITANO!

COPERTINA: “Santa Maria di Leuca - Notturno”immagine tratta da internet

I quadernetti di AthenaLE ALI DELLA LIBERTÀdi Rino DUMA 4

Historia NostraLA MESSAPIA E I MESSAPIdi Maurizio NOCERA 8

I grandi maestri salentiniMARIO MARTIdi Antonio MELE ‘MELANTON 11

Eroine del RisorgimentoELEONORA FONSECA PIMENTELdi Tony TUNDO 13

Artisti salentiniNEL CHIAROSCURO IL CIELOdi Raffaella VERDESCA 16

Terra nosciaIL SALENTO DELLE LEGGENDEdi Antonio MELE/MELANTON 20

Scultori... e non soloGIUSEPPE PISCOPOdi Giancarlo VALLONE 22

C’erano una volta...I BENEFICI ECCLESIASTICIdi Salvatore BECCARISI 24

Romanzieri salentiniGIUSEPPE CASTIGLIONEdi Augusto BENEMEGLIO 27

Tra passato e presenteNUOVO CINEMA AURORAdi Giuseppe MAGNOLO 30

Antichi usi religiosiSULLE PREDICHE QUARESIMALI DI...di Giovanni VINCENTI 33

Sul filo della memoriaLE FICHE ‘NCUDDHRATEdi Pippi ONESIMO 36

Gli articoli rispecchianoil pensiero degli autori enon impegnano assolu-tamente la Direzione.

Tutte le collaborazionisi intendono a titolo

gratuito.

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Pur avendo insegnato matematica, spesso e soprattut-to nelle terze classi, mi sono ritagliato, a seconda del-le circostanze, un piccolo spazio temporale per

parlare di grandi tematiche, come la giustizia, la verità, lapace, la libertà, che ritengo siano i pilastri fondamentali sucui poggiano le fortune umane. Sono stati in tanti i ragaz-zi a rivolgermi un’infinità di domande, a molte delle qua-li non ho potuto dare risposte adeguate. Fossi stato il loroinsegnante di lettere, mi sarei soffermato ad approfondirel’argomento, ma non era il caso che facessi “invasione dicampo”, soprattutto per rispetto e deontologia professio-nale nei confronti dei colleghi deputati alla trattazione.Perciò, mi sono limitato a dare loro qualche breve sugge-rimento e poi subito a ri-prendere i temi tanto cari aEuclide, Talete, Pitagora,Tartaglia, i quali se ne stava-no imbronciati in un cantuc-cio per il mio ‘palese’tradimento.

È capitato, nel 1997 (se lamemoria non m’inganna),durante il solito viaggio diistruzione in Romagna, cheun mio alunno, che chiame-rò Mauro (un nome a memolto caro), mi tempestassedi domande sulla libertà, un argomento che avevo trattatodi sfuggita qualche tempo prima in classe.

Il pullman stava per entrare a San Marino, quando Mau-ro, molto meravigliato da una scritta che campeggiava atutto tondo all’ingresso nel piccolo Stato, mi rivolse unadomanda a bruciapelo.

“Professò!... Leggete!... Leggete là, su quella grande inse-gna!... Dice “«Benvenuti nell’antica terra della libertà!»”.Che significa, professò?!... Perché, la nostra terra non è li-bera?”.

“Quell’insegna, Mauro, è molto antica… non l’hanno micascritta ieri o l’altro ieri. Sappi che questa terra non è stata maisottomessa ad alcun tiranno per via della conformazione mon-tuosa del territorio, un tempo impervio e inaccessibile, che fun-geva da difesa naturale”.

“I sammarinesi erano liberi, professò, ma, al tempo stes-so, imprigionati su quel pugno di rocce!... Insomma, libe-

ri per modo di dire!” – sottolineò con molto acume il ra-gazzo – “…Professò, a ben pensarci, che parola strana la li-bertà!... Se volessi definirla, non saprei cosa dire, perché lalibertà, almeno per me, è qualcosa di impalpabile, di sfug-gevole, che non ha dimensioni e confini”.

“Se ci tieni tanto, posso parlartene, ma promettimi che mi pre-sterai attenzione”.

“Sì, professò,… sì, parlate pure!... Sono tutto orecchie!”.“Intanto sappi che vi sono due forme di libertà cui devi tende-

re, se vuoi vivere la vita da protagonista e con dignità. Innanzi-tutto, devi cominciare a costruire dentro di te i contraffortispirituali su cui edificare la prima delle due, cioè la libertà inte-riore…”.

“Sarebbe, professò?!”.“Sarebbe la libertà dell’ani-

ma, della coscienza… Ora haicapito?”.

“Sì, professò… sì, poteteproseguire” – assicurò il ra-gazzo, con gli occhi sgrana-ti da enorme interesse.

“Si tratta di una libertà im-palpabile, come tu stesso haidetto poco fa, che è presente inognuno di noi anche se in mi-sura diversa, nel senso che cipuò condizionare nel bene o nel

male, a seconda della sua qualità e consistenza. Ci sono delle per-sone, ad esempio, che si portano dentro tante paure, travagli, pre-giudizi, preclusioni e tanta vergogna; persone, cioè, che nonhanno coraggio, fiducia, e sono segnate da fatalismo, rassegna-zione e pessimismo. Queste energie negative determinano unapovertà spirituale che nessuna medicina riuscirà mai ad elimina-re. Persone del genere si nascondono alla vita e la subiscono per-ché privi della necessaria libertà interiore”.

“Oddio!”.“Ci sono, invece, uomini che hanno il vento nella loro mente,

ali nel cuore, saggezza e pace nello spirito: queste persone sonolibere perché dentro non hanno catene!”.

“Professò, io mi sento come una di queste!”.“Vacci piano e stai attento a quel che dici!... Non essere fretto-

loso, Mauro. Tu stai confondendo la libertà interiore con tutte leforze, le emozioni e i propositi che alloggiano confusamente nel-la tua mente. Molti di questi elementi sono controproducenti,

4 Il filo di Aracne marzo/aprile 2015

I QUADERNETTI DI ATHENA

Repubblica di San Marino - Cartello di “benvenuto”

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sono spazzatura che deve essere allontanata in tutta fretta daltuo cervello, come ad esempio l’invidia per i successi altrui, l’odioe la vendetta per i torti subiti, il desiderio di sentirti il miglioree di primeggiare sugli altri, magari servendoti di mezzi illeciti eraggirando il prossimo.Ecco, data la tua giova-ne età, devi iniziare adeliminare lo scarso im-pegno nello studio, ilcontinuo richiamo ver-so i piccoli piaceri, l’ec-cessivo riposo, ladedizione al gioco e ladisobbedienza nei con-fronti dei tuoi genitori eprofessori. Altri ele-menti, invece, vannoconsolidati, come adesempio la serietà di in-tenti e il senso del dove-re e del rispetto, che, secoltivati con amore, tifaranno vivere la vita daprimo attore”.

“Non è mica facile, professò!”“Allora non diventerai mai un uomo libero e forte. Devi già co-

minciare a tracciarti il sentiero su cui camminare e ad indivi-duare tutti i tuoi traguardi possibili, sia immediati, intermediche finali. Pertanto inizia già ad allenarti al dovere, alla fatica, al-la lotta, al sacrificio, alla rinuncia, se vuoisuperare e vincere i primi ostacoli e ta-gliare i primi traguardi. Controllando letue emozioni, avrai, ovviamente il domi-nio di te stesso e pian piano inizierai agettare le basi per il raggiungimento del-la libertà interiore”.

“Che bello, professò!... Continuate,continuate pure!” – precisò Mauro,molto interessato.

“Confròntati sempre con quella perso-na ipotetica che già inizia a fare capolinodentro di te e che sarà la tua futura co-scienza, ora soltanto in formazione. Badaa costruirla molto solida, a cementarlacon buoni propositi e ad arricchirla diumiltà, amore e rettitudine. Comincia giàa fare una valutazione, anche se somma-ria, delle tue potenzialità. Di tutto ciòparla con i tuoi genitori, con noi professo-ri, con i tuoi fratelli, che, essendo un po’più grandi e più saggi di te, potranno dar-ti un valido aiuto. Parla con chiunque,mettiti sempre in discussione, ne va dimezzo il tuo futuro… Non lasciare tuttoal caso, al destino, che il più delle volte èingrato con gli uomini, né lasciare chesiano gli altri a decidere per te… A fineanno scolastico, ad esempio, ti troverai difronte alla prima scelta importante dellavita, poiché sarai chiamato a decidere sul-l’ordine di studi da intraprendere: devi

arrivare già pronto ad effettuare la scelta in maniera seria, pon-derata e consapevole. Provaci sempre nella vita, non mollare mai,non desistere mai: solo così riuscirai a spezzare le grosse cateneche ti tengono legato al mondo delle pessime emozioni e della vi-

ta facile ecomoda. È unaprova molto difficile eardua, dalla quale spes-so si esce sconfitti. Seperciò non si ha forza dicarattere e voglia di vin-cere ed una chiara ideadi ciò che si vuol fare dagrande, alla fine la vitati punirà e non approde-rai nel porto delle ‘cer-tezze positive’. Solo sesaprai distillare, attra-verso l’alambicco dellatua coscienza, le emo-zioni e le pulsioni, cheoggi si muovono allarinfusa dentro di te, po-trai aspirare ad entrare

in futuro nel ‘mondo degli uomini liberi e giusti’. Impegnati condecisione e temperamento in ogni tuo passo e momento della vi-ta. Ed impegnati soprattutto a realizzarti come uomo, ma nonper apparire uomo. Bada che la differenza è notevole. Non è af-fatto facile, anche perché la società umana è arroccata su convin-cimenti settari e, per certi versi, medioevali e presenta una

struttura ancora molto arcaica. Ma ciò no-nostante impegnati con tutte le forze”.

“Professò, come faccio a distinguerei buoni propositi dai cattivi, le buoneemozioni dalle pessime?”.

“Tu cerca di essere sempre vigile e dinon prendere mai decisioni affrettate. Nonfarti guidare e comandare dall’istinto per-ché potresti trovarti in una situazione dal-la quale sarebbe difficile poi venir fuori.Rifletti a lungo ed impegna sempre la ‘ra-gione’, che essendo dettata dalla coscien-za, ti aiuterà a scegliere la migliore delleidee che ti frullano nella mente. In praticati detterà il consiglio giusto, come se fossetua madre a suggerirtelo”.

“Professò, quando sarò sicuro di es-sere una persona veramente liberadentro?”.

“Tutto dipende da te, Mauro. Sarà sem-pre la voce della tua coscienza a farti capi-re se sei ancora legato alle catene interiorioppure se ti sei slegato”.

“Professò, voi quando vi siete senti-to veramente libero?”.

“Con questa domanda mi stai facendoriandare con la mente a quando ero unostudente un po’ timido e impacciato delquarto commerciale. In una circostanza,che non dimenticherò per la vita, fui in-giustamente deriso dal mio insegnante dilettere in presenza dei miei compagni per-

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Bronzetto di guerriero nuragicodifensore della libertà

Lucia De Matteis - “La libertà in volo” - olio su tela

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ché indossavo una camicia stravagante nei colori e nei disegni.Devi sapere che quello era il periodo di maggior successo di Bob-by Solo, Little Tony, Adriano Celentano, Peppino di Capri chespesso vestivano in modo molto eccentrico e bizzarro. Per me era-no dei miti da seguire, soprattutto Domenico Modugno, con lesue canzoni incentrate sull’amore e sulla libertà, come ad esem-pio ‘Nel blu dipinto di blu’ e ‘Libero’. Rimasi molto male quan-do mi additò ai compagni, paragonandomi ad Arlecchino. Miveniva da piangere, ma mi contenni per non dargliela vinta. Mimontò dentro una rabbia incontenibile che a stento riuscii a do-minare. Avevo voglia di andar via e di non tornare più a scuola.Quel professore, al quale ero tanto legato per la sua bravura, miera crollato improvvisamente dentro. Trovai la forza di dirgli adenti stretti che non meritavo quel rimprovero e che comunqueavrei continuato a vestirmi secondo quanto mi avrebbe dettato latesta. Lui capì ed accettò la mia reazione, poi mi chiamò a sé, micondusse fuori dell’aula come a volersi scusare. Mi diede un piz-zicotto sulla guancia, che a me piacque infinitamente. A fine an-no, si congratulò con me per i buoni voti riportati e si scusò perl’accaduto, assicurandomi che mi aveva sgridato solo per correg-gere i miei modi fin troppo esuberanti di affrontare e vivere la vi-ta. In quel momento ho avuto la sensazione che intendessechiedermi scusa.

È stata la prima volta in cui mi sono sentito una persona libe-ra, ma ti confesso che in seguito, forte di tale esperienza, ho im-pegnato sempre il meglio e il massimo di me per conservarequello stato”.

“Professò, siete contento della scelta fatta?!”.“Tantissimo, Mauro. Oggi mi sento di essere la persona più

felice e più ricca del mondo!”.“Felice?!”.“Sì, Mauro, hai capito bene. La libertà ti porta ad essere felice,

pur non essendo ricco materialmente. Sappi, figlio mio, che la fe-licità non consiste nel possedere grandi ricchezze, come palazzi,gioielli e tanti soldi!”.

“Beh!, professò, ad averne non si commetterebbe alcunosproposito o peccato!”.

“Non sono d’accordo con quel che sostieni. Tieni conto che perarrivare a tante ricchezze e a mantenerle sempre consistenti ge-neralmente si compiono delle azioni, le cui finalità e provenien-ze potrebbero non essere pienamente limpide, legali e giustificate.Tu, prova, invece, a stare lontano dai cattivi esempi che la vita dioggi ti pone di fronte e impegnati sempre con lealtà e grande se-rietà e limitati a prendere dalla stessa ciò che ti consente di vive-re con onestà e laboriosità. Se la tua anima indosserà questi abiti,ben presto sentirai dentro di te una piccola voce che ti plaudiràeti ricorderà spesso di essere un ‘vero uomo’. In quel preciso istan-te ti sentirai una persona con le ali. Io ho provato tutto ciò un at-timo dopo aver contestato con rabbia al mio amato professore dilettere il grave errore che aveva commesso nei miei confronti”.

“Professò, posso sapere che cosa gli avete detto?”.“Gli dissi che Gesù non si sarebbe mai comportato in quel mo-

do nel caso in cui uno dei suoi discepoli avesse sbagliato!”.“E lui?!”.

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“Lui abbozzò un sorrisetto per nascondere l’enorme imba-razzo”.

“Professò, siete stato un po’ sfrontato, ma avete fatto be-ne a reagire in quel modo…” – esclamò mezzo estasiato lostudente – “…Mamma mia, che grinta che avete avuto!….Però avete corso il rischio di essere sospeso dalle lezioni!”.

“Forse sì, ma quand’anche fossi stato sospeso, avrei provatougualmente molta fierezza. Ora per chiudere il discorso aggiun-go che un uomo si senti-rà pienamente libero soloquando non proverà ver-gogna o alcun travagliointeriore nell’affrontarequalsiasi realtà e nel ri-chiedere un suo sacro-santo diritto onell’esprimere un giudi-zio. E ricorda, infine, chedietro ai diritti di ogniuomo, ci deve esseresempre una persona cheha il ‘dovere’ di conce-derli. Un diritto deve es-sere servito allo stessomodo e con la stessa fa-cilità con cui il baristaserve all’avventore unatazzina di caffè. Solo quando tutti i diritti saranno garantiti inquesto modo, l’umanità potrà vantarsi di vivere in una vera de-mocrazia”.

“Professò, lo sa che mi sta incuriosendo e provocando?”.“In che senso?”.“Nel senso che mi viene da farle un mondo di domande.

Non mi consideri uno sfacciato: io per lei porto stima e ri-spetto, però qualche domanda un po’ pepata gliela vogliorivolgere. Posso?!”.

“Strano, Mauro, quest’oggi mi hai dato sempre del ‘voi’. Ora,di punto in bianco, hai deciso di darmi del ‘lei’. Forse lo stai fa-cendo per addolcire un po’ le tue domande? Perciò, parla, ora so-no io ad essere tutto orecchie”.

“Lei, professò, si è mai comportato con qualche suo alun-no come ha fatto con lei il suo professore di lettere?”.

“Bella ed interessante la domanda. No, mai. Non mi sono maicomportato male con i miei alunni, neanche quando ero alle pri-me armi. Mi ricordo un episodio quasi similare nella mia lungaesperienza didattica. È accaduto qualche anno fa. Una mattinadecisi di interrogare in geometria un ragazzo di nome France-sco, non molto incline allo studio, anche se dall’intelligenza vi-va. Gli chiesi di portarmi il quadernone di geometria su cuiavrebbe dovuto riportare tutti i problemi corretti durante l’annoin classe”.

“Si tratta del solito quadernone che ancor oggi siamo te-nuti ad aggiornare e a tenere sempre in ordine, vero?”.

“Esatto. Il quaderno era maltenuto, e soprattutto, incompleto.Lo confesso: ho avuto uno scatto d’ira, che mi ha portato ad usa-re dei termini severi ma non certo offensivi. Lo mandai a posto.Lui rimase molto male, quasi piangeva; riprese il quadernone elemme lemme se n’è tornò al suo banco, da sconfitto. All’indoma-ni Francesco non si presentò a scuola, così anche nei tre giornisuccessivi. Un giorno, rientrando a casa dopo le lezioni, incon-

trai suo padre per strada: era preoccupatissimo e scuro in volto.Mi disse che Francesco era ricoverato in ospedale per via di unagrave forma depressiva in cui era caduto dopo l’interrogazione inmatematica. Mi pregò di recarmi immediatamente in ospedale,perché, a detta del medico, soltanto io lo avrei potuto tirare fuo-ri da quello stato di debilitazione. Francesco, infatti, si era chiu-so dentro di sé, non parlava con nessuno, né tanto menomangiava e non assumeva dei ricostituenti. Fui aggredito da un

gran senso di colpa perquel rimprovero. Arriva-to in ospedale lo trovaiabbandonato a se stesso,molto triste e sfiduciato,insomma era penzoloninell’anima. Appena mivide, però, gli comparvesul volto un abbozzo disorriso. Mi sedetti ac-canto, gli presi la mano egliela strinsi. Lui risposecon altrettanto calore.Rimasi per un’ora inospedale, sino a quandonon divorò un piattinodi minestra, una fettinadi carne, un panino eduna mela. Avevi molta

fame arretrata, vero?…” – gli dissi scherzandoci su.“Professore, lo sa che non mangio da tre giorni?!”.“Ho visto… ho visto… avevi una fame da leone. Ora cerca di

conservare l’appetito per un po’ di tempo… Francesco, fatti ve-nire un altro tipo di fame”.

“Ho capito, professore, le prometto che mi metterò a stu-diare e mangerò tanta di quella geometria e scienze da nonessere mai sazio”.

”Lo accarezzai più volte, lo baciai sulla fronte e lo salutai di-cendogli che ero molto contento. Francesco rientrò a scuola do-po una settimana e si mise subito in carreggiata con lo studio,sorprendendomi per l’impegno profuso e la serietà. Come donogli regalai un bastardino di pochi mesi che avevo chiamato Whi-sky, per il suo caratteristico colore. Oggi Francesco gestisce il ri-storantino ‘La staffa’ nel centro storico di Galatina. Pare che simangi molto bene. Devo andare a fargli visita: forse stavolta lotroverò di buon umore e potremo insieme riprendere il discorsosu quel salutare rimprovero e, forse anche, mi mostrerà il quader-none di geometria, da me mai più richiesto, perché non ce n’erapiù bisogno”.

“Professò, però, la colpa è stata tutta di Francesco. Se luifosse stato più diligente, non avrebbe mai ricevuto quelrimprovero!”.

“Certo, Mauro. Ora, però dobbiamo andar via perché siamorimasti solo noi due nel pullman, i tuoi compagni stanno già vi-sitando le rocche, stanno facendo scorta di musicassette, di brac-cialetti, di amaro ‘Tilus’. Suvvia andiamo giù, altrimenti liritroviamo già di ritorno”.

“Professò, quando mi parlerete dell’altra libertà?”.“Lo farò domani mattina, mentre saremo in viaggio verso Ve-

nezia”. •

marzo/aprile 2015 Il filo di Aracne 7

Rino Dumafine prima parte

Statua della libertà di Damien Hirst

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Èaccertato che ancor prima del VI-V sec. a. C., in questoterritorio che oggi chiamiamo Salento e che un tempoinvece i nativi chiamarono prima Japigia poi Terra

d’Otranto, viveva un popolo pacificoe laborioso. Pacifico perché, secondoquanto sappiamo dagli autori antichi,i Messapi non aggredirono mai alcunaltro popolo; e poi laborioso, perchétutto il loro operare fu incentrato sullacostruzione delle loro città e sulla pa-storizia e la coltivazione della terra. An-cora oggi quando si vuole raffiguraresimbolicamente la laboriosità dei Messa-pi si ricorre ad un oggetto che fu per lo-ro di uso quotidiano: la trozzella, unrecipiente per liquidi, come acqua e vino.

Oggi, nonostante che gli scavi e le ricer-che archeologiche siano giunti a un buonpunto, rimane tuttora difficile stabilirel’esatto periodo in cui i Messapi comparve-ro su questo territorio come popolo autocto-no. Le scienze preistoriche hanno mostratoche questa terra è stata abitata dall’uomo dadiverse decine di migliaia di anni (uluzzia-ni), per cui è possibile supporre che il popo-lo dei Messapi sia inizialmente sorto (entro ilprimo millennio a. C.) da clan tribali dissemi-nati in differenti punti della penisola salentina.La presenza di numerose grotte e anfratti antro-pici lo fanno supporre.

Quando, poco prima del primo millennio a. C.,giunsero qui i primi colonizzatori cretesi, non tro-varono il territorio disabitato, ma molto probabil-mente videro dei villaggi palafitticoli ecapannicoli, i cui abitanti avevano già una loro mi-cro-struttura sociale organizzata. Nell’VIII e nel VIIsec. a. C. (fondazione di Taranto nel 706 a. C. da par-te degli spartani), molto probabilmente esisteva giànel territorio che noi oggi chiamiamo Salento unacomunità con una sua lingua autoctona orale, sul-la quale poi si è sovrapposta la lingua greca, generando cosìuna nuova lingua, i cui caratteri alfabetici sono sì in parte gre-ci, ma combinati in modo tale da renderli non ancora del tut-to decifrabili.

Uno dei più antichi siti messapici esistenti è quello della co-siddetta “Chiusa”, presso la masseria “Fano” sulla serra tra

Salve e il Capo di Leuca. Qui – secondo quanto leggiamo dallibro di Cesare Daquino, I Messapi. Il Salento prima di Roma(Capone editore, Cavallino 1999 e 2006) – l’Università di Sid-ney, guidata da Jean-Paul Descoeudres, compì degli scavi (an-

ni 1987-1991) che portarono alla luce l’esistenza di ben trevillaggi autoctoni: il primo intorno alla metà del XVI sec.

a. C., il secondo nel X sec. a. C., il terzo intorno al 550a. C. Quest’ultimo insediamento umano fu poi defi-nitivamente abbandonato nel decennio 480-470 a. C.in seguito all’occupazione dei Romani.

Sempre sullo stesso libro, in merito al-l’origine dei Messapi, il prof. Daquino

scrive che: «I Messapi furono di stirpeindogermanica o afromediterranea?Giunsero per terra o per mare? Qualepeso dare all’origine cretese dei Messa-

pi nel racconto erodoteo?». L’autore si pone la questione in ter-mini interrogativi, però poi, nello

sviluppo della sua ricerca, tutte le fonti ci-tate lo portano a considerare come veritie-

ra l’origine cretese. Scrive che già nel VIIIsec. a. C., «il nome Japigia [derivava] da Ia-

peto re di Tessaglia»; che Ecateo di Mileto, nelVI sec. a. C., attraverso frammenti che di lui

tramanda Stefano di Bisanzio, ricorda il nomedegli Iapigi; e che Erodoto, nel V sec. a. C., scrive

che in questo territorio viveva un popolo che iGreci denominavano Messapi, da Messapia (Meta-pia, che in greco antico significa “terra di mezzo” o

“terra fra due mari”). A tale proposito Daquino riprende un passo del-

le Storie erodotee, dove si dice che: «Dopo un certo tempo i Cretesi, per volere degli

dèi, […] passarono in Sicania […] Mentre naviga-vano lungo la Iapigia, sorpresi da una grande

tempesta, furono gettati in terra, essendo-si fracassate le navi […] Fermatisi là, fon-darono la città di Iria e, cambiato il nome,

in luogo di Cretesi divennero Iapigi-Messapi,e in luogo di isolani furono abitatori di terraferma. Partiti dal-la città di Iria, ne abitarono altre».

Oggi la ricostruzione storico-archeologica ha accertato chei due strateghi ateniesi Demostene ed Eurimedonte, a causa diquella tempesta, sbarcarono nell’antico villaggio dell’alloraAnxa (tale era il nome messapico dell’approdo gallipolino,

8 Il filo di Aracne marzo/aprile 2015

HISTORIA NOSTRA

Guerriero messapico

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nella Mappa di Soleto Graxa) e di lì, a pochi chilometri di di-stanza, raggiunsero Alytia (Alezio, nella Mappa di SoletoBal), fondata, prima dell’anno 1000 a. C., probabilmente dalmitico Lizio Idomeneo, re di Creta). In Alytia viveva il capocurione messapico Artas, dal quale, i due navarchi ateniesi ri-cevettero i famosi 150 lanciatori di giavellotto da aggregareagli altri militi greci diretti verso la Sicania (Sicilia) per contra-stare militarmente i dittatori di Siracusa. Nel libro di Fernan-do Sammarco, Arthas il grande (2013), viene data rilevanzastorica a questo leggendario capo dei Messapi. Non si trattadi un nome inventato, perché esso è abbastanza documenta-to. Infatti, a parlare di Artas è lo storico Tucidide che, nel libroLa guerra del Peloponneso (Mondadori, 1976, pp. 176-177), scri-ve:

«Intanto Demostene, ed Eurimedonte, quando il corpo dispedizione fu completo, salparono, uno da Corcira [Corfù],l’altro dal continente e con tutte le forze al completo attraver-sarono lo Jonio e giunsero al promontorio Japigio; quindi,partiti di là, approdarono alle isole Cheradi, che appartengo-no alla Japigia. Imbarcato un piccolo contingente di lanciato-ri di giavellotti Japigi, 150 in tutto, di stirpe Messapica, erinnovato un antico patto di alleanza che li legava a un certoArta, un capo potente che aveva loro fornito pure i lanciatori[…], giunsero a Metaponto, città dell’Italia». L’incisione delnome Artas si trova pure su una parete interna di un sarcofa-go conservato nel museo di Alezio, la cui foto è stata pubbli-cata da Lorenzo Capone nel suo libro Incantevole Salento(Lecce, 2009).

Sia dai documenti storici (Plinio, Erodoto, Tucitide, Pausa-nia, Demetrio Comico, Diodoro, Ovidio, Virgilio e, in tempinostri, Francesco D’Andria, Cosimo Pagliara, Mario Lombar-do e altri), sia dalla Mappa di Soleto, scoperta dall’archeologoTierry van Compernolle e rinvenuta il 21 agosto 2003, possia-mo oggi fare un primo elenco di toponimi delle città messa-piche: Alytia (già citata); Anxa (già citata); Aoxentum(Ugento, nella Mappa di Soleto Ozan, famosa citta messapicaper il ritrovamento dello Zeus bronzeo di fattura magnogre-

ca, databile al 530 a. C.; Baurota o Bavota (Parabita); Baxta(Vaste, nella Mappa di Soleto Bas); Brention (Brindisi, il cui to-ponimo significa “testa di cervo”, dalla tipica conformazionedel suo porto); Carbinia (Carovigno), Dizos (Diso), Kastro(nella Mappa di Soleto Lik…tos); Fratuèntum (forse Muro Lec-

cese, nella Mappa di Soleto Mios); Gnathia (Egnazia); Hire-tum/Veretum (Patù); Hodrum (Otranto, nella Mappa diSoleto Hydrous); Kaìlia (Ceglie Messapica); Kàlatas (Galati-na/Galatone); Leuka (Leuca, nella Mappa di Soleto Lios);Mandyrion (Manduria); Mesania (Mesagne, nella Mappa diSoleto Mios); Neritum (Nardò, nella Mappa di Soleto Nar);Orra (Oria); Ostuni (nella Mappa di Soleto Stu); Rhudia (nel-le vicinanze di Lecce), Scamnum (forse Muro Tenente, tra La-tiano e Mesagne) Sybar (forse Cavallino), Sallentia (Soleto,nella Mappa di Soleto Sollytos), Sternatia (nella Mappa di So-leto Stibar), Thuria Sallentina (Rocavecchia, oggi località ma-rina di Melendugno, nota per le due grotte cosiddette dellaPoesia, ma verosimilmente Posia, che significa “luogo dovec’è l’acqua dolce”. In una delle due cavità - la più piccola – so-no state scoperte dall’archeologo Cosimo Pagliara centinaiadi iscrizioni messapiche, greche e latine, molte delle quali de-

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Antica mappa del Salento ritrovata a Soleto (LE)

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dicate al dio messapico Taotor); Valesium (Valesio). Per quanto riguarda i toponimi messapici di cui sopra, un

dato storico l’abbiamo per il toponimo Anxa (Gallipoli), chePlinio il Vecchio, nella sua Storia della Natura, così descrive:«in ora vero Senonum Gallipolis,quae nunc est Anxa». Questa affer-mazione ha dato adito a due tesi,una contrapposta all’altra. La pri-ma si basa su quel Senonum plinia-no, che considera Gallipoli fondatadai Galli Sènoni, una popolazioneproveniente dalla regione europeache noi oggi chiamiamo Francia. Laseconda tesi invece si basa su quan-to scritto da due storici coevi a Pli-nio: Dionisio di Alicarnasso,secondo il quale l’origine di Galli-poli la si deve ad un greco lacedemo-ne di nome Leucippo; mentre l’altrostorico è Pomponio Mela il quale, nellasua opera De Situ Orbis, scrive: «Urbs Gra-ia Kallipolis» (Città Greca Kallipoli), doveKallipolis sta per Kalé Polis, cioè Bella Città. Ilpiù autorevole sostenitore di questa seconda te-si è stato Antonio De Ferraris, detto il Galateoche, nella sua lettera al Summonte, la Callipolisdescriptio, scrive: Callipoli «ha tratto il nomedalla sua bellezza e non senza ragione. Fu città greca: ignorodonde Plinio abbia appreso che qui si fossero stanziati i Gal-li Sénoni. Questa città, invece, non si chiama Gallipoli, maCallipolis come recano antichi codici» (cfr. Galateo, Gallipoli,Lecce 1977, p. 29).

Oltre a Gallipoli c’è un altro toponimo sul quale è bene ri-flettere. Si tratta di Gnathia (Egnazia), facente parte dell’anti-co agro di Varis (Bari), quindi città messapica situata nel puntopiù alto dell’antica Messapia. Il significato di questa parola

greca lo si conosce bene, tanto cheun antico scrittore gallipolino - An-tonello Roccio - nel suo ms ineditodel 1640, Notizie memorabili dell’An-tichità della fedelissima Città di Galli-poli Con molte altre memorabilicuriosità così antiche, come moderne, locollega a quello di Anxa. Scrive: Gal-

lipoli «fu prima edificata da Candi-ci (si tratta dei cittadini di Candia– nome usato dai veneziani al tem-po della loro dominazione sull’iso-la greca –, l’antica Heraklion al

centro dell’isola di Creta) e fu chiama-ta Eghennaza (o Eghenanza) che in lin-

gua loro [greco] significa “padella” peressere questa sopra uno scoglio fatto a

modo d’una padella, ovvero a modo di unafessura».

È noto che nel IV secolo a. C. la Messapia ces-sò di essere terra libera e indipendente, perché

Roma la invase e l’annesse all’impero. Allo-ra i Romani, giunti qui con le armi, conqui-

starono e sottomisero i Messapi. Così l’intera realtà sitrasformò in qualcosa d’altro rispetto all’esistente. Ciò che iGreci non avevano fatto in qualche millennio riuscirono a far-lo i Romani in appena mezzo secolo. •

Trozzella messapica

Maurizio Nocera

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Negli ultimi tempi eravamo diventati amici come nonmai. Un rapporto che mi onorava oltre misura, nel

quale cercavo di donare il mio piccolo nulla, a fronte delsuo immenso tutto, per un affabile sorriso, che mi giunge-va immancabilmente sincero e contagioso, aprendomi leporte a conversazioni senza limiti.

Dalla sfera del classicismo e dell’umanesimo puro si scon-finava volentieri alla vita di ogni giorno o si attraversavanoricordi mai sopiti, richiamando sentimenti di altrettanta pu-rezza, come quelli delle proprie radici, dei grandi padri emaestri, dei giochi e della giovinezza, dei sogni e dei desti-ni da compiere.

Era anche un filosofo, Mario Marti. Un maestro a tuttotondo. Come tutti i grandi maestri di questa nostra sor-prendente e amabilissima terra contadina, solida e forte disaggezza terrigna, ma capace di volare lontano, oltre ogniinaccessibile orizzonte.

Aveva anche qualche piccola nostalgia, ma col futurosempre davanti. Con aule di allievi da meravigliare. Conaltri libri da scrivere, da leggere o da recensire. Con nuoviincontri. Nuove seminagioni. Nuovi raccolti. Un maestroda classica Scuola d’Atene, con il piacere e la gioia di do-nare scienza e sapere, virtute e canoscenza.

Non lo dava a intendere, ma aveva sempre da fare, il Ma-gnifico. Anche perché ricercatissimo da studenti, colleghi,amici, ammiratori. A ottanta, novanta, cento anni, la suamente era sempre in costante fibrillazione, e la sua casa di-ventava spesso un salotto di cultura assoluta. Direi, anzi,di vera ricreazione culturale. Affollato di altra e alta sa-pienza, E di vita tout-court.

A volte, con quei baffetti spesso sarcastici e canzonatori,appariva quasi come un ‘soricicchio d’uomo’, un ‘topolino’– come mi divertivo a chiamarlo talvolta, lui compiacente–, ma con ali d’angelo e pensieri da gigante.

Straordinario, irresistibile, maestoso, ti mostrava sem-pre con compiacenza il suo ultimo libro. E cercava subi-to di convincerti, rimarcando che era proprio l’ultimo,che non avrebbe avuto più il tempo o la forza di scriver-ne altri. Ma – scordandosi o facendolo apposta (perché, incelie e scherzi era un vero brigante) – pochi minuti dopoti parlava, con entusiasmo massimo, che stava lavorandoa un nuovo progetto.

Di lui mi affascinava il sorriso quasi ‘arcobalenico’, chepassava dalle tonalità dell’allegria e del più schietto buo-numore a quello dell’apprezzamento autorevole e dellacondivisione; o ancora, dello spirito e della sapidezza ar-guta fino alle soglie dell’ironia quando non anche della

drammaticità severa di concetti, parole, pensieri elevatis-simi.

Allora, le sue folte sopracciglia vibravano, lo sguardo di-ventava più serio, magnetico, e il salotto si trasformava perun momento in un’aula austera e solenne.

Il sorriso di Mario Marti era il passaporto felice per viag-giare liberamente nella sapienza e nell’ironia o nell’armo-nia, di cui “il Magnifico” era naturale e prediletto depo-sitario, e allo stesso tempo generoso donatore.

Per me, suo discolo allievo di Università, le volte che ac-cadeva d’incontrarci (sempre nella sua bella casa di Lec-ce), era come stare in una specie di Parnaso o comunque inun magico luogo incantato, dove di tanto in tanto passava-no i Grandi della Letteratura italiana maggiore e minore,che ci salutavano con cordialità e discrezione: un giornoera Dante, aureo, irraggiungibile, leggendario; un altrogiorno Bembo, poi Boccaccio o Ariosto, un altro ancora ilsuo diletto Leopardi, ma anche gli amati scrittori e poetipugliesi e salentini, da Bodini a Gatti, Pierro, De Donno,fino al popolaresco De Dominicis alias Capitano Black, cheamava particolarmente, anche per elezione di patria.

Lui me li presentava tutti, e di me parlava che ero statouno dei suoi studenti meno studiosi ma di maggior estroe interesse alle sue lezioni, comprovando tale asserzionecon un per me storico ‘ventisei’ che mi aveva assegnato almio primo esame di Letteratura umanistica – giugno 1963,se ricordo bene –, intuendo che, nell’occasione, io i libridi testo sui quali avrei dovuto prepararmi non li avevoneanche aperti, ma in compenso non m’ero perso una so-la parola delle sue lezioni all’Ateneo leccese, assorbendo-ne perfino ogni emozione, e in parte restituendoglielequasi in facsimile.

Poi, per anni, non ci siamo più rivisti. Mi sono trasferi-to a Roma, anche come studente universitario, e i miei in-teressi si sono subito dopo orientati prevalentemente algiornalismo e ad altre attività collaterali.

Anche da lontano, non ho mai abbandonato il mio Sa-lento. Nell’ambito scientifico-culturale i miei rapporti conl’aria di casa erano (come in gran parte sono ancora) tenu-ti in simbiosi con molti maestri e amici – vecchi, nuovi, fe-delissimi – che per l’occasione mi piace salutare tuttiinsieme, appassionatamente.

Nei miei ritorni, uno dei desideri più forti era quello di ri-vedere il Magnifico. Non succedeva spessissimo, come for-se avremmo voluto, ma quando accadeva era quasi unapiccola festa. A volte, lo vedevi rannicchiato, silente, assor-to, quasi rimpiccolito nella sua comoda poltrona. Ma come

Mario Martidonatore di sapienza e armonia

di Antonio Mele ‘Melanton

I GRANDI MAESTRI SALENTINI

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la conversazione lievitava e si faceva più intrigante, notavisubito il suo sorriso aprirsi rapidamente, ed era come se sitogliesse di dosso i suoi ottanta, novanta, e più anni, e par-tiva sparato a seminar domande e risposte, curiosità, com-menti, promesse, provocazioni, battute, giudizi, facezie.

Se poi riuscivi a cogliere il ‘momento magico’ – come ac-cadde in un bel pomeriggio d’agosto di qualche anno fa,quando andammo a trovarlo, insieme a mia moglie Tere-sa e al direttore del Galatino Rossano Marra per una bellaintervista – lo vedevi cercare gli occhi della sua splendidasignora Franca, in un tacito e complice accordo per siste-mare l’armonium, e dopo un minuto o due, era già sedu-to, alla stregua di un capitano di marina, come sul ponte diun veliero, per incantarci con la musica di Mozart, di cuiera sommo ammiratore.

Così, veniva fuori che da ragazzo aveva fatto parte del-la banda musicale di suo padre, lu tata Antoniu, fabbrican-te di scarpe, che con la moglie Concetta si era trasferiti daSoleto a Cutrofiano, dove nacque il 17 maggio 1914 MarioMarti, il più piccolo di dieci figli, destinato a diventare ilMagnifico Rettore dell’Università Salentina di Lecce, som-mo dantista, studioso leopardiano, autore di decine e de-cine di testi autorevolissimi, celebrato nel suo 100°compleanno dall’Università della North Carolina – fra le

più antiche d’America (fondata nel 1789) – con il 31° volu-me degli Annali d’Italianistica, a lui personalmente dedica-to, in qualità di “Decano degli Italianisti di tutto il mondo”.Onore fra i massimi, che da solo basterebbe a inquadrarequel ‘soricicchio’ d’uomo come un autentico ‘monumento’di storia e di letteratura patrie.

Quand’era colmo di gioia, gli occhi di Mario Marti scin-tillavano come stelle in campagna. Scintillavano anchequella volta, in cui – dopo averci fatto dono del suo ultimostudio sul Convivio di Dante – ci descrisse con amorevo-lezza e dovizia di particolari il famoso genis, che Mariosuonava appunto nella banda di suo padre: strumento chefaceva parte della famiglia degli ottoni, e che oggi nessu-no chiama più genis (così citato anche da Umberto Eco neIl pendolo di Focault), ma più tecnicamente, e meno roman-

ticamente, ‘flicorno contralto in mi-bemolle’.

Dei suoi genitori, Mario Marti par-lava quasi in punta di labbra, evocan-do splendide parole d’amore egratitudine. Nell’ultima intervista,pubblicata sul Galatino a fine dicem-bre 2013, avevo riportato un suo ri-cordo di straordinaria tenerezza,quando la madre, per giocare con lui,piccolo di pochi anni, faceva finta dinon vederlo, e lui stava al gioco, ‘na-scondendosi’ per così dire, dietro unadelle gambe del tavolo da cucina.

Mamma Concetta, allora, gironzo-lava nella stanza, come per cercarlo,e a voce alta chiedeva per aria:- Do-v’è il mio bambino, che non lo trovo?Dove s’è nascosto?...

«Mo’, ditemi voi – commentava ilMagnifico –, era mai pussibile ca nupiccinnu, pe’ quantu piccinnu, se putìascundire a rretu a lu pete de la banca?».

Anche questo faceva parte dellasua ricchezza e completezza d’esse-

re. Questo Mario Marti mi piace ricordare. Che alla vigiliadei suoi cento anni sapeva giocare ancora con sua madre(e non noi) a rimpiattino. Quest’uomo-bambino lo possia-mo anche baciare e abbracciare. A quell’altro Mario Marti,del cui ingegno e lavoro sono piene le biblioteche e le uni-versità di tutto il mondo ci inchiniamo con grande solen-nità e orgoglio salentino.

Comunque amandolo. (Roma, marzo 2015) •

Antonio Mele/Melanton intervista il rettore Mario Marti (dic. 2013)

Antonio Mele ‘Melanton’

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Forsan et haec olim meminisse juvabit (Forse un gior-no gioverà ricordare tutto questo). Eleonora Fonseca Pi-mentel, intellettuale e patriota, tragica protagonista

della Repubblica napoletana del ‘99, prima di salire sulpatibolo, pronunciò questo famoso verso di Virgilio. Poi ilsuo corpo fu esposto al ludibrio del popolo ca-naglia, in seguito misteriosamente scomparvequando la chiesa, Santa Maria di Costantino-poli, che lo custodiva insieme a quelli deicompagni uniti dallo stesso destino, fu de-molita.

La storia di Eleonora è nel romanzo Il re-sto di niente di Enzo Striano, ed. Loffredo-Napoli,1986.

Càpitano delle esperienze di lettura che ti cattu-rano sicché vorresti condividere l’esperienza,discuterne; a chi ama essere sedotto dallascrittura sono rivolte queste righe. Si trattadi un capolavoro assoluto che la critica hacolpevolmente trascurato. Così le ragio-ni di un invito alla lettura o alla rilettu-ra di questo classico sono di almeno dueordini di motivi. Il primo è che ogniclassico, alla rilettura, si scopre inedito,nuovo e inaspettato perché sono muta-te le prospettive storiche; il secondo -credo il più importante - è che, si par-va licet componere magnis, l’opera diStriano va annoverata tra i romanzi storici del Novecentoaccanto ai più grandi, ai russi, ai tedeschi, ai francesi e, na-turalmente non ultimo, all’esponente per eccellenza del ro-manzo storico, Alessandro Manzoni.

Striano è forse l’epigono perché la stagione del romanzod’autore in Italia si è spenta con Italo Calvino, a parer mio.Invece si è voluto farne un autore di nicchia che ha scrittoun’opera di nicchia, un modo francamente ipocrita di mar-ginalizzare un autore per ragioni mercantili e politiche.Striano seppe “monetizzare” l’esclusione quasi fosse unazona franca che gli garantisse quella libertà di dissenso chegli permise nel ‘56 di lasciare il quotidiano L’Unità e ilP.C.I. per i fatti d’Ungheria; e non è poco.

Si diceva, si tratta di un romanzo storico se proprio si de-ve orientare il giudizio senza riuscire a prescindere da ca-tegorie e correnti (Leopardi fu forse un ortodossoromantico?). Sì, è romanzo storico e molto altro: è romanzo diformazione, c’è il bozzettismo naturalistico, c’è l’influenza del-lo Sturm und Drang, c’è il monologo interiore, ovunque nel-lo scorrere delle pagine ci si imbatte in quell’insoddisfatta

tensione verso la libertà che va chiamata come i tedeschi lachiamano Sehnsucht: le ragioni della semantica… E c’è unostraordinario plurilinguismo di matrice dantesca, una capa-cità mimetica della lingua assolutamente affascinante escevra da compiacimenti oleografici capace di disvelare -

quasi con la tecnica pittorica di un affresco - la re-altà storico-sociale di un’epoca di disordine stori-

co, quella Babele che era Napoli nel ‘700: lospagnolo dei Borbone, il tedesco di Maria Ca-rolina, il portoghese di Eleonora, il francesedei philosophes imbastardito dagli intellettua-li napoletani filofrancesi, poi l’inglese quan-

do era Nelson, erano gli inglesi i nuovipadroni, infine il dialetto napoletano, un’altra lin-

gua.Plurilinguismo dunque e pluridiscorsi-vismo perché le vicende umane, intellet-tuali e politiche di Eleonora siintessono con la realtà del popolo deibassi; i punti di vista si intersecano per-ché la tragedia della rivoluzione giacobi-na napoletana possa avere pieno risaltoe Striano è abilissimo a dar voce al po-polo attraverso il colore e, direi, l’animadel dialetto.

Il resto di niente è insieme vicendaumana e storica di una pasionaria evicenda di una pagina di storia no-

stra nazionale, soprattutto meridionale e pugliese perchénon vanno dimenticate le efferatezze dei saccheggi dei san-fedisti a Gravina, ad Altamura; storia esemplare di un fal-limento annunciato.

Se si volessero distinguere l’una dall’altra si farebbe tor-to all’una e all’altra, e a un autore capace di una narrazio-ne intensa, vivida, dolorosa e assolutamente organica.Sono due piani narrativi che si interfacciano, quello dellastoria e quello della biografia romanzata, lo dice in una no-ta lo stesso autore: il mio è un romanzo storico, tutti i roman-zi sono storici e tutti sono sperimentali.

L’opera non aggiunge un nuovo tassello, né dà una di-versa chiave interpretativa delle ragioni del fallimento del-l’unica rivoluzione che avrebbe potuto dare un altrodestino al Meridione e forse all’Italia (i tempi erano certopiù maturi di quelli dei Ciompi e di Masaniello) alla rico-struzione storica di Vincenzo Cuoco; al contrario si hal’impressione che gli occhi di Eleonora vedano attraversoquelli di Cuoco e poi Striano veda attraverso quelli di lei.

Lo stesso titolo Il resto di niente dà la misura della con-

Eleonora Fonseca Pimentel

Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo

Eleonora Fonseca Pimentel

di Tony Tundo

Eleonora Fonseca Pimentel

EROINE DEL RISORGIMENTO

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sapevolezza della vanità di ogni sforzo eroico che attraver-sa l’esperienza di Lenòr (il nome portoghese con cui lachiamavano in casa) ancora adolescente, promettente poe-tessa: Che cosa resterà di tanto tribolare, di me? Nulla di nulla.Nada de nada, il resto di niente! Lei sapeva che era propriovero quello che diceva Cuoco: A Napoli la rivoluzione pochi

la capiscono, pochissimi l’approvano, quasi nessuno la desidera.E se nessuno la desiderava, diventava incomprensibile, Mi-to, Moda. Può una rivoluzione voluta da principesse e intel-lettuali piacere al popolo, la cui parte superiore ha vendutole sue opinioni a uno straniero? Le rivoluzioni non siesportano! Perché la lezione della storia è rimasta sempreinascoltata? Se ne ricorderà tante volte Eleonora nel farsidell’epilogo tragico, quando dalle pagine del Monitore na-poletano lancerà accorati appelli al popolo, l’ultimo del 9marzo del ’99.

Se ne vendevano pochissime copie, del primo numerosolo 37: per chi scriviamo, se chi è interessato non sa leggere?Quanta nostalgia delle lunghe conversazioni - sulla lineatracciata da Filangieri e Genovesi - con i “moderati inuti-li” Cirillo, Sanges, Pagano, Carac-ciolo, Jeròcades (uno dei giuda chetradirono, poi, la causa) e, per l’ap-punto, quel giovane molisano, in-telligentissimo, pelle olivagna,Vincenzo Cuoco, che sapeva concertezza che si sarebbe trattato diuna rivoluzione passiva. Lui affer-mava che i processi di cambiamentonascono dall’interazione di molteplicifattori, interessi, passioni condivise,essi rivestono un peso maggiore del-l’astratta ragione.

Il segreto delle rivoluzioni riusciteè conoscere ciò che il popolo vuole,e farlo. Una rivoluzione indotta efavorita dal successo di un’altra ri-voluzione, dall’intervento di unesercito straniero fallirà, perché larivoluzione deve scaturire dall’autono-ma crescita di un movimento indige-no. Il “voto di tutti” guardava aobiettivi di buon governo e al-l’eversione della feudalità, invece ipatrioti napoletani sul modello francese introdussero dap-prima l’abolizione de’ culti, la libertà delle opinioni, l’esenzionede’ pregiudizi.

Niente di tutto questo allora poteva sollecitare il popolo

che non era posto nelle condizioni di teorizzare, né si sa-rebbe mai mosso per raziocinio, per bisogno piuttosto.

A Eleonora non sfuggivano le condizioni del popolo, neaveva conoscenza diretta, penso alle figure di secondo pia-no nel romanzo - ma ogni sfumatura è utile ai chiaroscuridel ritratto di Striano - a quella tragica, e tenera nella suaignoranza, della servetta Graziella convinta che prostituir-si fosse non solo il destino ma la fortuna stessa e che, ma-lata di sifilide, tornò da lei, sola, già vecchia e sdentata atrent’anni.

Da citoyenne della Repubblica e cospiratrice Eleonora eb-be solo due “contatti col popolo”. Le bastarono, e ne ebbepaura, paura di vedere vacillare la fermezza della sua ideadi libertà. Con Lauberg e De Deo era andata a incontrare ilazzari, chiedevano loro di ascoltarli “Simmo napolitani pu-re noi, simmo fratelli, lavoriamo per darvi la libertà”. E questafu la risposta: “La libertà… Guagliu’. Lo cavaliere ‘nce vo’ da’la libertà. Cavalie’, tu vuoi da’ la libertà a me? Tu si’cchiù libe-ro de me? Cavalie’, mo, te ‘mparo ‘na cosa: Napoli sai de chi è?Primma de San Gennaro, poi de lorre, e poi è d’’a mia”.

Tu vuoi dare a me la libertà. Perché, credi di essere più liberodi me? Già!

Lenòr il popolo lo conosceva dall’adolescenza per sensi-bilità e curiosità intellettuale e umana, amava impadronir-si di tutti i segnali, le persone, le abitudini che scandivanoi ritmi della vita quotidiana, aveva tante volte passeggiatofino ai vicoli della città vecchia con l’amico fraterno Vin-cenzo Sanges. Aveva scoperto un’infinità di inverosimilimestieri: il latrinaro passava a pomeriggio inoltrato e al gri-do di ‘O Latrinàaaarooo i garzoni uscivano dai palazzi e con-fluivano verso la navazza stercoraria a svuotare pitalistrabordanti, che emanavano un fetore ammorbante; sep-pe chi fossero le capère, solitamente donnone dalla chiomacorvina che nelle vie attendevano, armate di bottiglietted’olio e fitte spazzole, clienti infestate dai pidocchi. Poi isaponari e verso il mare di ostricari ne contava a decine, in-faticabili.

La città era cadente, slarghi lutulenti, ovunque sudiciu-me, paglia lercia, stracci sporchi disangue, carogne. Un terribile tanfoesalava dal terreno, dai buchi dellecase, capanne sgretolate. A questopopolo si voleva dare la libertà dipensiero e non il lavoro, non il pa-ne, non l’affrancamento dall’igno-ranza! Almeno col Tanucci i nobiliavevano denaro e avevano bisogno dellavoro del popolo, lui aveva fatto paga-re le tasse al Clero, da quando c’eranoi francesi non si capiva più niente.

Lenòr, acuta e mite, aveva vistocon molta chiarezza che lo iato pro-fondo fra i due mondi era comesaldato da un’attitudine comunealla volgarità, che albergava anchenell’animo di nobili e borghesi.Non solo l’aveva ben colta ma neera stata schiacciata.

Aveva accettato un marito, comeera costume ai tempi, che le garan-tisse un titolo e benessere economi-co; la sua dolcezza le suggeriva, a

dispetto delle prime avvisaglie della brutalità dei suoi mo-di, che col tempo avrebbe anche imparato ad amarlo quel-l’uomo.

Non occorse molto tempo, bastò la prima notte di noz-

Eleonora Pimentel davanti ai giudici

Eleonora Pimentel condotta al patibolo

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ze: col lenzuolo macchiato di sangue brandito con orgo-glio da un marito meschino e infame alla finestra, segnodella illibatezza della sposa, usciva di scena Lenòr.

Ora doveva essere Donna Eleonora Tria.La sventurata accettò anche questa umiliazione, consue-

tudine oltraggiosa che ignorava. Ma il dramma continuòinesorabile, l’illusoria felicità di aver messo al mondo unasua creatura finirà dopo appena otto mesi: il piccolo saràportato via dalla “grippe”, febbre catarrale, un’epidemiache stava falcidiando mezza Napoli, contagiato da quel pa-dre che portava a casa tutte le sozzure dei bordelli.

L’episodio, tragico in sé, è fonda-mentale perché porta Lenòr a lascia-re l’uomo, che - pur ridotto sullastrico da una vita di vizi - dovràcorrisponderle un sostegno economi-co. Era libera, ma sola: un’altra vitto-riosa sconfitta.

La chiave di lettura del romanzo diStriano è - credo - nell’analogia fraquesta vita di donna e la storia che simuove intorno a lei: trionfo e sconfit-ta - ossimoro fatale - coniugati insie-me quasi che nessun trionforaggiunto escluda la sconfitta subìta,anzi la sconfitta deve essere il prezzoda pagare per un pezzo di libertà.

Eleonora pensava, andando a mor-te, alle parole di Voltaire: il faut culti-ver notre jardin, bisogna dunquecontinuare a coltivare il nostro giar-dino, ne nasceranno un giorno fruttie fiori, i bambini potranno mangiare.

Se nessuno s’occupa del giardino,il mondo finisce. La stringente neces-sità! Non conta null’altro. Nada de na-da, il resto di niente. Furono dunquefierezza e ardore di libertà temperatima non scalfiti da un latente nichili-smo a guidarne le battaglie; è questo il volto più tragico,credo.

Ardita nel pensiero e di grande delicatezza nei modi,non le era sfuggita, ancora giovane donna, l’arroganzachiassosa della nobiltà azzimata in giamberghe, parrucche,favoriti e calzonetti di seta, all’apertura della stagione delSan Carlo: lazzi, espressioni triviali, gente che beveva neipalchi, vociava senza freno.

La classe dirigente di Napoli! I pilastri sociali!E il Clero? Non era da meno.Lenòr si era formata in una famiglia aperta al nuovo, in-

coraggiata alle letture degli illuministi dal padre e dallozio, l’amato Titìo, e lui ne era convinto “Troppa gente diChiesa si occupa di cose che non le competono, dimenticando cheil nostro Signore ha detto: Regnum meum non est de hoc mun-do”.

Non lo dimenticherà, i sanfedisti di Ruffo saranno i suoicarnefici.

Non solo i sanfedisti: Ruffo aveva saputo coordinare i laz-zari, è vero, ma ci era riuscito perché i giacobini non aveva-no saputo farlo.

Più avanti negli anni e nella storia le notizie che arriva-vano, clandestine, dalla Francia circa i costumi della clas-se dirigente non erano più edificanti: Mirabeau,presidente della Costituente, era morto in un’orgia… Spes-so a Napoli le capitava di incontrare liberali che avevano

assunto un fare falso, sussiegoso, politico.Resistere alla tentazione dei sentimenti di giudizio, non

lasciarsene condizionare: questo era l’impegno!Occorreva guidare, illuminare. A tutti i costi, anche al co-

sto di un’altra - l’ultima - vittoriosa sconfitta.Le risuonavano nel cuore, calde e confortanti come pre-

ghiere, le parole della Dichiarazione americana: “[…] Chetutti gli uomini siano creati uguali e che essi siano dotati dal lo-ro Creatore di alcuni diritti inalienabili, tra cui la vita, la liber-tà, la ricerca della felicità. Che vengano istituiti governi, i qualitraggano i giusti poteri dal consenso dei governati. Che ogni qual

volta una forma di governo divenga di-struttrice di tali fini, il popolo ha il dirit-to di modificarla o di abolirla”.

Washington, Jefferson, Franklincosa avevano fatto se non mettere afrutto le idee dei philosophes, dimo-strare che le idee devono farsi cose,fatti; che si può? Le idee, i fatti, le an-tiche discussioni così accese…: Nes-suno di noi ha realizzato il bene proprio,allora ci occupiamo di quello altrui. E’assai più facile. E comodo. La libertà de-ve essere intera, deve farti felice. Evoca-vano Atene, Sparta. L’Utopia!L’America ha avuto la fortuna di nasce-re senza storia, senza inceppi sociali, tut-ta libera subito.

Ma a Napoli l’albero della Libertànon aveva messo le radici, il terrenoessendo incolto cosicché l’avventurarivoluzionaria era risultata - si è det-to - esemplare per la sua astrattezza.Nessun frutto. Il resto di niente! Peg-gio: una Storia bloccata, irrisolta.

Senza retorica, ci troviamo di fron-te a un’opera di respiro universale, ènecessario soltanto decontestualiz-zarla (non meno de I Viceré, non me-

no de Il Gattopardo che il podio dei grandi non hannofaticato a conquistarselo).

Di respiro universale almeno - io credo - per un’altra ra-gione: non c’è slum, favela, banlieu che non abbia dentro lamonnezza fisica e morale dei bassi, e la pena; non c’è palaz-zo del potere che non abbia lo sfarzo prepotente e sfaccia-to di quelli della Napoli del ‘700, e l’ipocrisia. •

Eleonora Pimentel sul patibolo

Tony Tundo

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Roberto Ferri nasce a Taranto nel 1978, si diploma al-l’Accademia delle Belle Arti di Roma nel 2006 e su-bito si impone alla critica contemporanea per

l’eccellenza delle sue doti artistiche.Attento osservatore della realtà, perfetto conoscitore del

corpo umano, raffinato disegnatore, maestro del colore.Elabora subito un suo stile pittorico improntato su

un’approfondita conoscenza della pittura del Seicento ita-liano, in particolare di quella del Caravaggio, da cui la de-nominazione di pittore neocaravaggista.

In lui si assiste al ritorno a una grande classicità delleforme, alla plasticità dei corpi, segno di sublime bellezza,e alla suggestione del chiaroscuro, crocevia tra classicità emodernità.

In ogni sua pennellata è infatti visibile l’influenza dei ca-noni caravaggeschi resi contemporanei grazie alla straor-dinaria capacità di Ferri di fondere passato e presente inmondi in cui il nudo padroneggia incontrastato e diventasimbolo di carnalità e spiritualità insieme.

Roberto Ferri, fiore all’occhiello della pittura figurativaitaliana, lascia incredulo chi si appresta ad osservare le sueopere e lo attira in un crescendo di stupore e ammirazio-ne dinanzi a “immagini più vere del vero”, laddove la bel-lezza e la perfetta tornitura dei corpi sottendono a unrealismo spesso crudo e provocatorio.

Tutto è da ricondursi infatti all’interpretazione della con-dizione umana da parte dell’artista tarantino.

Il tema del Male affascina il giovane maestro che lo ri-propone ossessivamente in una serie di tele, incarnando-lo nella perfezione del corpo.

Quest’ultimo ci affascina nell’immediato con forme sedu-centi e poi ci inquieta con un particolare che lo stravolge:corna, artigli, ali spezzate, squarci, scioglimento della pelle,astrolabi e sestanti connessi o immessi nelle membra a ri-cordare quanto il tempo e lo spazio nella sua arte superinoi limiti dell’umano (Requiem, olio su tela, 205x205, 2012).

Nel balletto di sensazioni che l’anima compie attraversole tensioni del corpo, Ferri affronta la conoscenza dell’uo-mo e dell’amore in tutte le sue manifestazioni, fino all’in-tervento dell’Egoismo che induce al peccato e allacorruzione.

Così il Male è contrapposto al Bene, il Vero al Falso, il

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ARTISTI SALENTINI

Nel chiaroscuro il cieloRoberto Ferri e la tensione dell’anima

di Raffaella Verdesca

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Divino al Demoniaco, in un’eterna lotta che rompe ogni or-dine e induce l’artista alla tormentata ricerca della verità.

Il risultato visibile di questa personale visione del giova-ne pittore si traduce nei due poli dialettici del suo fare Ar-te: Attrazione e Repulsione.

Ferri spinge le sue immagini su un piano avanzato e tor-mentato di perfezione esecutiva dando a chi guarda l’ideadi una precisissima capacità di riattivare il mondo dellaBellezza (Attrazione) per poi, arrivato alla massima rea-lizzazione del suo intento, aggredire questa benefica virtù,

corroderla, estrarne una componente malata, malvagia cheporta al decadimento dei corpi, al senso dell’orrido (Re-pulsione) che secondo l’artista è parte integrante del mon-do dell’uomo.

Così un pittore che ama il rock e la danza, che veste spor-tivo e indossa con orgoglio la coppola per onorare le sueorigini meridionali, un giovane uomo del nostro tempo,insomma, si ritrova diviso tra il sogno e una realtà impos-sibile e non visibile se non con gli occhi della pittura.

Questo il modo tutto ferriano di rendere corporeo, affa-

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Nella morte avvinti - olio su tela

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scinante e coinvolgente il mondo dell’Arte. Alla tormentata ricerca dell’essenza umana Roberto

Ferri oppone la sua personale visione della sofferenza edella salvezza presentando le quattordici stazioni dellaVia Crucis, ciclo realizzato per la recuperata cattedrale diSan Nicolò a Noto e a lui affidato da un’apposita Com-missione di esperti, fra cui Vittorio Sgarbi, con la sovrin-tendenza della Diocesi di Noto e delle autorità locali.

Roberto Ferri, completamente padrone della natura del-l’uomo e del mondo esterno, affronta così il viaggio alla ri-cerca di Dio: solo partendo da sé l’uomo può raggiungerela verità e quindi Dio stesso.

Il giovane pittore, potente nel risultato, non si fa condi-zionare né spaventare dal piccolo formato delle tele(70x70) e arriva a coniugare perfettamente i valori esteti-ci e artistici con quelli spirituali.

Nel ciclo della Via Crucis l’artista dimostra che la salvez-za non è solo nella via della bellezza, ma anche nella ricer-ca del Cielo.

Ferri riesce infatti a cogliere il senso del Sacro superan-do il problema del Bello: non c’è interpretazione del-l’espressione artistica solo in base al suo gusto soggettivodel Bello, ma indagine dei temi del Vero e del senso del Sa-cro nascosti nella forma, nello spazio, nella prospettiva e fi-nanche nella luce.

L’abile pittore tarantino è chiamato a dare il massimo ri-salto proprio alla luce interiore del Cristo, illuminato a sua

volta da una fonteesterna a indicare lapresenza costante delPadre lungo la via del-la Passione (III Stazio-ne, Gesù cade per laprima volta, olio su te-la, 70x70, 2013).

Roberto Ferri lascialetteralmente stupitiper l’abilità tecnica concui costruisce vere eproprie icone della fisi-cità anche nei perso-naggi della Via Crucis.

Nell’osservare le Sta-zioni dipinte dal giova-ne erede del Cara-vaggio è impossibilenon soffermarsi sul si-gnificato di Passione,non interrogarsi sullastoria densa di dram-matica speranza che sisvolse sul Calvario.

Ed ecco il miracolopittorico, ecco la tra-sformazione del Pathosdell’elemento mistico inun’opera dai contorni

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I Cavalieri dell’Apocalisse

III Stazione, Gesù cade per la prima volta

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umani (I Stazione, Gesù è flagellato, olio su tela, 2011).Roberto Ferri ci presenta il suo Cristo virilmente mu-

scoloso, atletico, armonico e seducente pur nella furia del-la violenza subita.

Nel nudo del Cristo si esalta la poetica della statua, raf-forzata dalla rappresentazione degli ampi panneggi (IXStazione, Gesù cade per la terza volta, 2011; X Stazione,Gesù è spogliato delle vesti, 2012).

Nessun particolare delle figure è tralasciato, segreto diforza e intensità dei dipinti, audace è la rappresentazione

degli scorci, sapiente il cromatismo, superba la tecnica pit-torica. Ogni tensione del corpo diviene tensione dell’animasia del soggetto che dello spettatore, e la sofferenza del Cri-sto si trasforma in sofferenza dell’uomo (XI stazione, Ge-sù è inchiodato alla croce).

Per Roberto Ferri, Cristo ha un solo volto e lo strazio del-la sua Passione non si può esprimere in forme diverse daquelle stabilite. Non esiste a suo avviso nessuna interpre-tazione alternativa e nessuna diversa iconografia.

La narrazione ferriana della Passione e della morte delMessia non prefigura il disfacimento del corpo, ma losmacco alla morte e l’apertura alla vita eterna (XIV Stazio-ne, Il corpo di Gesù è sepolto nel sepolcro, 2011). •

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X Stazione, Gesù è spogliato delle vesti

Requiem

Gesù deposto dalla Croce

Raffaella VerdescaAde

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Poi, arriva il tempo in cui si sente il bisogno di an-dare via. Dall’adolescenza in avanti, ogni età è buo-na per partire, viaggiare, trasferirsi, migrare.

Di solito, il momento arriva improvviso. Cresce primanascostamente, in silenzio. Senza neanche avvertire presa-gi pur minimi di quel senso intricato che lievita rapidodentro: diventando di volta in volta, o anche tutto insie-me, progetto, avventura, fuga, conquista. O desiderio, am-bizione, sperimentazione, necessità, speranza...

Poi, magari, non si va neanche più via. Per resistenze, lepiù varie e indicibili. O per mutate condizioni e fortuiti im-pedimenti. Ma nulla sarà più come prima. Il viaggio è co-munque iniziato.

Siamo, in definitiva, emigranti (reali o ideali) ad ogni età.Quello che già abbiamo, e conosciamo, e amiamo, non ci èpiù sufficiente. Avvertiamo forte il bisogno di andare ol-tre. Esplorare orizzonti diversi. Salvo poi a rientrare nelnostro caldo e sicuro luogo abituale, e qui fermarci come inun grembo materno. Amando finalmente il nostro luogocome il più bello possibile. Conoscendolo meglio. Forsescoprendolo a tutto tondo. O riscoprendolo nei suoi miste-ri e prodigi segreti.

Perfino Ulisse è ritornato a Itaca.Così, per una volta, in segno d’amore, e col permesso dei

Lettori, ho preparato questa puntata monografica di sto-rie vere e leggendarie dedicate esclusivamente alla mia cit-tà, Galatina, dalla quale forse sono partito più volte senzadavvero partire mai.

67. Ci fu un tempo – e furono esattamente gli anni spa-ventosi tra il 1866 e il ’67, quando in Terra d’Otranto scop-piò una terribile epidemia di colera che mieté vittime adismisura – che alla guida del Convento dei Cappuccinidi Galatina (fondato tre secoli prima per volontà testamen-taria di Niccolò Zimara) c’era un sant’uomo.

Tanto santo che il suo vero nome era Primo, ma egli stes-so aveva imposto a tutti d’essere chiamato Ultimo perché,nella sua umiltà, si riteneva l’ultima creatura della terra. Eancora più santo – precisavano i molti fedeli che gli voleva-no bene – perché era giunto alla soglia dei cento anni e il Si-gnore non l’aveva ancora chiamato a sé, nonostante nonrisparmiasse a quell’età veneranda le proprie limitate ener-gie fisiche e mentali, intraprendendo viaggi frequenti anchefuori della città, e specialmente d’inverno, per portare con-forto alle famiglie dei contadini più poveri, che vivevano so-

litari nelle campagne:un dovere al quale Pa-dre Ultimo non avevamai mancato, nellasua costante e straor-dinaria funzione diassistenza, carità e mi-sericordia.

Vennero altri gior-ni, e altri ancora, egiunse anche il tempoche nessuno vide piùil Padre Ultimo: nédentro il Convento néfuori, né in città néverso le masserie néaltrove. Per quante ri-cerche fossero stateiniziate anche nei luo-ghi più nascosti e sco-nosciuti del territorio,il suo corpo non fupiù trovato.

Finché, un’anzianapia donna rivelò cheuna notte le era anda-to in sogno, confidan-dole che il coleraaveva stravolto i suoitratti somatici, ren-dendolo irriconoscibile, ma che per tuttoil tempo dell’epidemia, allorché il Con-vento stesso fu adibito a lazzaretto, egliaveva assistito i malati fino all’ultimo, redimendoli deipropri peccati attraverso la confessione, e ora tornava an-che lui alla casa del Padre.

68. Forse, a suo modo, è anche una leggenda la storia diuno dei massimi musicisti del Settecento napoletano: Pa-squale Cafaro o Caffaro, detto anche Caffariello.

Egli nacque da civile famiglia in San Pietro in Galatina ilgiorno 8 febbraio 1715 (e non nel1706 o 1708, come altrove sostenuto),giacché lo stesso Cafaro, giovane ditalento straordinario – inizialmenteavviato agli studi di Diritto – dichia-rò di avere vent’anni, al momento delsuo ingresso nel Conservatorio napo-letano della Pietà dei Turchini il 23dicembre 1735.

In quel luogo importantissimo, tan-to più per un giovane di belle speran-ze, giuntovi dalla lontana Provinciad’Otranto, il suo protettore Marchesedi Odierna, scorgendone il marcatotalento musicale, gli aveva procuratola necessaria istruzione affidandolo al celebre MaestroLeonardo Leo. E dopo dieci anni d’intenso studio, il giova-ne galatino ebbe modo di esordire come compositore conl’oratorio Il figliuol prodigo ravveduto.

Caffaro fu tanto bravo che dopo pochi anni succedette

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terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia ter-

Quando muoiono le leggende �niscono i sogniQuando �niscono i sogni, �nisce ogni grandezza

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Ventiduesima puntata

di Antonio Mele ‘Melanton’

Galatina (LE) - Convento dei Cappuccini

Musica alla corte di re Ferdinando IV

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proprio al suo Mae-stro Leo nella Dire-zione del Conserva-torio, facendo poi ilgran salto come Mae-stro della CappellaReale di Napoli,istruendo nella musi-ca il sovrano Ferdi-nando IV e la suasposa, la regina Caro-lina, scrivendo piùvolte per il Teatro SanCarlo, diventando in-fine fra i musicisti piùeletti d’Europa.

È bene aggiungereche Cafaro – merite-vole di una più ap-profondita attenzionee ricerca da noi poste-ri suoi concittadini –competé nell’inse-gnamento con Mae-stri illustrissimi, co-me il Maestro di Cap-pella alla Corte diVienna Antonio Sa-lieri, noto anche per ipresunti contrasti che

questi ebbe con Mozart.Fra le opere maggiori di Cafaro (conser-

vate manoscritte nei Conservatori di Na-poli, Milano, Parigi, Bruxelles, e al British Museum diLondra) sono: Creso (del 1758, che ebbe un tale successo aTorino, che i torinesi avrebbero voluto trattenere a forzal’Autore nella loro città), Ipermestra, Olimpiade (entram-be su libretto di Pietro Metastasio), Arianna e Teseo, e loStabat Mater (1785), tra le sue creazioni più ispirate, chepoté (e può ancora oggi) sostenere il confronto con l’omo-nimo capolavoro del Pergolesi. Onore al merito.

69. Via Fedele Albanese, 12. Inter-no sera. Anno 1950-‘51. Sul finiredell’inverno.

Il tavolo ovale scintilla di sorrisi.Sono quelli di noi bambini e bambi-ne. Almeno cinque o sei. Siamo cir-condati da tre donne di mezza età –zia Cetta, zia Triestina, Rosaria –, dadue donne anziane – la zia Teresinae la zia Ninetta –, e da una minutavecchietta più che ottuagenaria, pic-cola e immensa: nonna Anna. È leiche dirige il balletto dei cunti.

Potete entrare liberamente. La ca-sa, come sempre, è aperta a tutti, e c’è ancora posto ancheper voi. L’importante è non dare fastidio ai cani che dor-mono ai quattro angoli della stanza: Tom, Bebi, Fanny, Dia-na. Due bracchi maschi e due setter femmine. Domattinaall’alba andranno a caccia ai Laghi Alimini con papà, zio

Nino e zio Pippi. Lasciateli riposare. Nonna Anna questa sera sorride: le sue figlie e nipoti la

sollecitano a raccontare anche a noi più piccoli la sua per-sonale “leggenda”, di quando andò in sposa al nostro avo,nonno Paolino (noto a Galatina come Patrunu Paulinu),ricco possidente terriero e produttore di vini.

Il nonno era rimasto vedovo in giovane età, con due fi-glioletti da crescere e,durante una visita presso vecchicompari di famiglia a Sogliano Cavour, aveva visto e subi-to sceltola bellissima nonna Anna, appena diciottenne, co-me nuova sposa e madre dei suoi figli futuri (furono altriundici: sei maschi e cinque femmine).

Per nonno Paolino fu un autentico colpo di fulmine. «Iu,invece – racconta la nonna Anna – nun abbìa tenutu mai nuzzitu, ed era mutu ingenua e cruda cruda». «Tantu ca – conti-nua, convintamente – quandu ca se fôra preparate le nozze, em’ìanu ccumpagnata a la Chiesia vestuta de biancu (ca me pen-sava ca se rripetia la cerimonia de la Prima Comunione e de laCresima), e poi foe organizzata na crande festa a la campagna

nòscia de lu Colamaria, dopu lu banchettu, all’ora de li saluti, vi-dendu ca sta sse salutavanu puru cu la mamma e lu tata miu, meazài de la seggia, fici la riverenza a lu sposu, e lu ringraziai cututtu lu core ca m’avìa ‘mbitatu: “Grazzie a ‘ssignuria, patru-nu Paulinu – li dissi –, pe’ la bellissima festa, e pe’ tutti ‘sticomplimenti, ma mo’ devu turnare a casa mia cu la mamma ecu lu tata... Grazzie ancora, e arrivederci cu la bbona salute!”. Efatta n’addha riverenza, sta me ne scìa deveru a casa questa que-ta, tra le risate generali, comprese quiddhe de lu nonnu Paulinuvòsciu, pace a l’anima sua...».

Forse non andò esattamente così, ma la leggenda di fa-miglia così passa ancora da figli a nipoti a parenti e cum-pari, quando alla nonna Anna viene il desiderio di tornarefra noi.

marzo/aprile 2015 Il filo di Aracne 21

terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia ter-

Quando muoiono le leggende �niscono i sogniQuando �niscono i sogni, �nisce ogni grandezza

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Ventiduesima puntata

di Antonio Mele ‘Melanton’

Galatina (LE) - Via Fedele Albanese

Musica alla corte di re Ferdinando IV

(22. continua)

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22 Il filo di Aracne marzo/aprile 2015

SCULTORI... E NON SOLO

Quasi tre anni fa, nel maggio 2012, l'Università po-polare 'Aldo Vallone' ha voluto onorare un cittadi-no galatinese importante, l'allora anzianissimo

professor Giuseppe (Pippi) Piscopo, organizzandoun incontro, al quale ho partecipato con uno dei figlidi Giuseppe Piscopo, Cesi, anche lui artista, e con ilgiovane nipote omonimo, Giuseppe.

Pochi giorni fa, Giuseppe Piscopo è venuto a manca-re. È deceduto nella tarda serata del 7 marzo, a Parabi-ta. Tra pochi mesi avrebbe compiuto cento anni, perchéera nato a Galatina il 24 luglio del 1915.

Una lunga vita, che non merita, certamente, di esseredimenticata, ma che proprio la sua lunghezza rende dif-ficile ricordare, per la varietà di interessi, per le iniziati-ve intraprese e per l'incisività costante della suapresenza.

Galatinese per famiglia e, direi, per mentalità, GiuseppePiscopo si forma nel prestigioso Liceo Colonna della suacittà, e non è una semplice formazione scolare: un suocompagno di classe, ricordando quegli anni e quellascuola, dirà "un istituto di prestigio e di civiltà: nostrocircolo culturale, quando i circoli culturali non esistevano; nostraaccademia quando le accademie si erano avvilite a salotti monda-ni, luogo d'incontro civile, ove l'emulazione era la regola e la li-

bertà il primo ed unico modo di essere".In quegli anni sono al Colonna Mario

Marti e Aldo Vallone, e pochi anni dopoEnzo Esposito e Donato Moro, e mol-

ti altri che hanno lasciato una trac-cia. Come Piscopo, che già allora,e subito dopo, mostra una sua in-clinazione artistica, e una venaironica non mai dismessa, nellavita e nell'arte, disegnando e, insostanza, scrivendo da solo ungiornale umoristico per studen-

ti universitari galatinesi delquale conservo una raracopia: Le vesciche e gli spilli.Si laurea a Napoli, inScienze naturali nel 1940.Durante la guerra è, mi

pare, artigliere; poi inizia la suacarriera di professore nei Licei

Classici, ed un suo allievo, Giuseppe Metti, lodescrive, con tratto felice e autentico "sobrionella classica eleganza del vestire, il viso semprerasato di fresco, il baffetto alla Errol Flynn; un

gentleman".Intanto si trasferisce a Parabita, per-

ché sua moglie, Matilde Garzia, com-pagna fedele e sincera di una lungavita è di là. Anzi a Parabita, nel 1957,fonda una libera Scuola d'arte che di-venterà il locale Istituto d'Arte. Già datempo dipinge, ma soprattutto si oc-cupa dell'arte ceramica, fin dal 1947;in più largo senso egli è, e si sente,scultore.

In un suo libro, appunto, Sculture,edito a 80 anni, e dopo una continuae prestigiosa serie di mostre, prolun-gata fino all'Omaggio galatinese a lui,

nel maggio 2012,egli dice a sinte-

si di sé, come artista, di essere 'speri-mentatore', e in questo agile volu-metto, come in altro precedente(del 1991) dallo stesso titolo,nel quale sceglie le sue ope-re migliori dal 1952 al 1990,sono in vista creature dallacreta, dal tufo o dal carpa-ro, dal cemento, dalla cartao dalla tela consolidata, dallegno, o assemblate dalle piùestreme cianfrusaglie di rigat-tiere, e sono quest'ultime chehanno dato forma a un Ciclistadi staordinaria dinamicità, o aquel Cavaliere segnato per fame e persventura che s'iscrive, come ancorami sembra, nella storia della fortu-na figurativa del Chisciotte.

Però Piscopo non è soltanto questo; negli anni Sessantaha scoperto la bellezza e la forza attrattiva del Ciolo, lamarina di Gagliano, a un passo da Leuca, e n'è stato unodei primi convinti frequentatori, per l'occasione anche diBagnante

Madre mediterranea

Nudo di donna

In ricordo di

Giuseppe Piscopo

di Giancarlo Vallone

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marzo/aprile 2015 Il filo di Aracne 23

studiarne le condizioni geologiche e naturalistiche. Soprat-tutto, è stato grande appassionato di antichità, amante del-l'arte nella sua stessa forma storica, ed esperto indiscussodi dipinti, di legni, e di ceramiche; anche di ferri.

Ricordo bene che raccoglieva tut-to, come in un museo, nella sua bel-la villa fuori Parabita, al pianoterreno. Soprattutto è stato collezio-nista di ceramiche; sapeva dove tro-varle, le riparava, se necessario, leconosceva come pochissimi, finquando gli furono portate via, in unadrammatica rapina del 1984: fu im-bavagliato con sua moglie e rinchiu-so in una stanza, mentre i ladricaricavano centinaia e centinaia dipezzi su un camion, per poi sparirenella notte.

Comprendo che abbia voluto libe-rarsi del poco che restava, e che oggicostituisce parte integrante del Mu-seo della Ceramica di Cutrofiano,voluto e organizzato da Totò Matteo.

Basterebbe tutto questo per rende-re utile e giusta la vita di un uomo;eppure Piscopo ha fatto di più; un dipiù che significa molto per ciascunodi noi.

Nel 1961, alla vigilia di Natale, viene scoperto, scavando,lo Zeus (si pensava fosse un Poseidon) di Ugento: tra di-versi benemeriti - in particolare Sofia Nicolazzo, SalvatoreZecca - anche Piscopo s'impegna per impedire - e ci si rie-sce - che il reperto prenda vie diverse.

Un'altra straordinaria avventura lo vede protagonista trail 1965 e il 1966; una campagna di scavi che egli conduce,nella qualità di Ispettore onorario ai monumenti e comemembro del Gruppo Speleologico Salentino di Maglie, e

con il figlio Cesi ed altri, in agro diParabita; ed è qui, in una grotta, cheegli rinviene le due piccole e famose'Veneri' paleolitiche in osso, una del-le quali sembra incinta e ha fatto per-ciò pensare al culto mediterraneodella Madre, dalla quale lo stesso Pi-scopo, come scultore, ha cavato fre-quente ispirazione.

Egli consegna le statuine, attraver-so il prof. Pagliara, al celebre pale-ontologo, e docente a Pisa, A.M.Radmilli, che gli riconosce la scoper-ta, e insieme firmano alcuni breviscritti, nel 1966, uno dei quali ristam-pato anastaticamente pochi anni fa.

La scoperta è straordinaria intantoper sua rarità (19 Veneri, si dice, intutta Italia) e per la sua datazione,che risale ad quindicimila a ventimi-la anni fa.

Piscopo ci ha donato il più antico,forse, dei nostri simboli identitari, eha prolungato di millenni la storia

della nostra cultura. Certo è poco cavarsela soltanto con questo breve ricordo,

ma, per ingiusto che sia, dubito che riusciremo a fare dipiù. Io lo spero. •

Le Veneri di Parabita (LE)

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Nel Settecento, il barone amministrava arbitraria-mente il suo feudo e vi esercitava la giustizia civi-le, penale e l’intervento militare.

La prepotenza dello stesso feudatario era, quindi, asso-luta.

Le categorie più produttive: contadini, operai e artigia-ni sopportavano il peso fiscale.

La Chiesa, al contrario, era esente dai tributi alla pari del-le categorie aristocratiche. Sicché verso la metà del XVIIIsecolo, re Carlo III di Borbone, che governava il Regno del-le Due Sicilie, ebbe l’idea illuminata di sanare le gravi spe-requazioni che caratterizzavano il suo regno. E, al fine diottenere un’equa esazione dei tributi, ordinò che fosse fat-to in ogni Università (poi Comune) il censimento delle per-

sone e dei beni. Il sovrano emanò il Real Dispaccio il 4 ot-tobre 1740 e, negli anni seguenti, delle istruzioni della Re-gia Camera della Sommaria, i cosiddetti CATASTIONCIARI.

Con tali disposizioni, il sindaco di ogni Università dove-va stabilire precise disposizioni in merito alla “RIVELA”,ossia alla dichiarazione, da parte di tutti i cittadini, dei be-ni posseduti: case terreni, masserie, colture, animali, moli-ni, trappeti, arte e professioni, il numero dei FUOCHI(famiglie), lo stato personale, come: zitelle, bizzoche, vivedi suo, ragazzi adottivi, sacerdoti, barbieri, calzolai, brac-ciali, conciatori, vettorali, speziali in medicina, dottore fi-sico, suolachianelli, studente, custode di pecore, sartore,legnaiolo,

Per la composizione del catasto, la commissione era com-posta da SEI DEPUTATI, appartenenti ai diversi ceti: dueper il ceto nobile, due per gli artieri e due per i braccianti.

In SAN PIETRO IN GALATINA (poi divenuta Città diGALATINA) le categorie predominanti erano quelle deiBracciali, Conciatori e Calzolai.

Sta di fatto che nelle Università meridionali il peso mag-giore della contribuzione ricadeva sui cittadini abitanti lai-ci per via del cosiddetto “TESTATICO”, ossia la tassaimposta sul numero delle “TESTE” (o famiglie), invece chesulla ricchezza dei proprietari espressa dal ceto aristocra-tico e da quello ecclesiastico.

La riforma CAROLINA tenta, quindi, di limitare questesacche di privilegio, coinvolgendo il CLERO ed obbligan-dolo al pagamento della metà dell’intera imposizione fi-scale, del tutto assente prima del varo del CATASTO.

E’ intuibile che la nuova CATASTAZIONE, voluta daCarlo III, era fortemente osteggiata dal Clero, essendo perla prima volta sottoposta al peso fiscale.

Il tutto fu concordato con la Santa Sede.Nel CATASTO vennero riportati tra l’altro i BENEFICI,

consistenti in appezzamenti di terreno dati in USUFRUT-TO ad Enti ecclesiastici, affinché potessero vivere di rendi-ta di quel terreno o di quei beni.

Alle funzioni ecclesiastiche era legato, quindi, il godi-mento di un BENEFICIO, finalizzato ad un patrimoniopiù o meno grande. Esso era inalienabile, le cui rendite ser-vivano al mantenimento del monastero.

Spesso i patrimoni del Beneficio erano ingenti. Non ve-nivano dissipati, al contrario erano soggetti ad ingrandi-

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C’ERANO UNA VOLTA...

Carlo III di Borbone

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mento, dovuto ai LASCITI e DONAZIONI, grazie ai qua-li ai “donanti” era garantito un “suffragio” o una “ricom-pensa” nell’aldilà, quando passavano a nuova vita.

Nel Catasto di San Pietro in Galatina sono elencati n° 45BENEFICI, che, qui di seguito, vengono elencati e denomi-nati.

ARCHIVIO DI STATO di LECCESCRITTURE UNIVERSITA’ E FEUDI

CATASTI ONCIARI

1)“ Beneficio di Santo Lazaro (foto 1);2)“ della Beata Vergine della Pietà;3)“ della Beatissima Vergine del Soccorso;4)“ di Santa Maria Maddalena;5)“ di Santa Lucia;6)“ di Santo Onofrio;7)“ di Santo Giuseppe;8)“ di Santo Martino;9)“ di Santo Antonio de Jure Patronates della Casa

di Raimondo Capani;10)“ di Santo Bartolomeo;11)“ di Rev. D. Giacomo Antonio RAINA’ – Beneficiato;12)“ del Santissimo Sacramento de Jure Patronatus

della casa di Gio. Battista Mongiò;13)“ di Santo Spirito;14)“ di Santo Lorenzo;15)“ di Santa Maria a Veteris;16)“ della Visitazione;17)“ di Santa Croce;18)“ di Santo Giorgio;19)“ della Immacolata Concezione;20)“ di San Giovanni Evangelista;21)“ di Michele Arcangelo;22)“ della Grottella (foto 2);23)“ di Santo Rocco;24)“ di Santo Gorgonio;25)“ di Santo Andrea;26)“ di Santo Pantaleone;27)“ di Santo Spirito intus Maria;28)“ del Santissimo Crocefisso e Santo Giorgio de’

Rubertini;29)“ di Santa Caterina a Veteris e Santo Basilio;

30)“ di Santo Leucci31)“ dei Santi Pietro e Paolo;32)“ di Santo Spirito;33)“ di Santo Salvatore intra Maria;34)“ di Santo Sebastiano;35)“ delle Sante Anna e Veneranda;

36)“ di Santa Pleuma;37)“ di San Nicola de Robertinis;38)“ della Madonna di Forlano;39)“ di Santa Candelora;40)“ di Santa Elia;41)“ della Sant.ma Concezione de Jure Patronatus

della casa del chierico Domenico Lubelli;42)“ della Sant.ma Trinità;43)“ di Santo Antonio di Vienna;44)“ di Santa Eufemia;45)“ di San Giovanni Battista (foto 3). •

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Foto 1

Foto 2

Foto 3

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Nessuno a Gallipoli pianse la morte di GiuseppeCastiglione, avvenuta il 14 luglio 1866, nella suapovera casa sita sul versante di scirocco della “cit-

tà bella”, alle spalle della cattedrale, dopo lunga e doloro-sa (atroce) malattia, per un cancro alla gola che gli impedì,negli ultimi giorni, non solo di parlare, ma perfino di de-glutire: soffriva in modo tale che scrisse su un bigliettino almedico, Emanuele Garza, che ogni tanto andava a visitar-lo: “Dottore, se lei non mi uccide, commet-te un delitto”.

Non lo piansero neppure le donneche lo assistettero fino all’esalazionedell’ultimo respiro: la moglie Fortuna-ta Lucia Cingoli, una popolana che ave-va sposato segretamente nel 1842 (ilmatrimonio fu reso pubblico solo quin-dici anni dopo), e la figlia Ernestina,magra, smunta, misera, sfiorita, già mi-nata dalla tisi, che morirà l’anno dopo,a soli venticinque anni. E forse nemme-no il figlio Emilio Andrea, che se ne erascappato di casa anni prima per arruo-larsi volontario nei garibaldini, e mori-rà a Digione, nel 1870, combattendo peri francesi.

Non lo piansero nemmeno i parentinobili, i Briganti (sua nonna Vincenzi-na era figlia del famoso Tommaso, giureconsulto di statu-ra europea, che aveva dato lustro a Gallipoli e all’Italia), apartire dal cugino Domenico che, da Sindaco di Gallipoli,aveva fatto di tutto per farlo uscire dal suo endemico sta-to di bisogno economico, senza riuscirvi, per assoluto me-nefreghismo da parte di Castiglione, che si considerava unbohemien, un artista, e voleva vivere come tale, pur avendomoglie e figli da mantenere. Certamente non lo rimpianse-ro gli altri intellettuali dell’aristocrazia gallipolina, per isuoi continui cambi di bandiera, dal punto vista politico.Politica che non aveva mai ben compreso, tanto da far di-re a Emanuele Barba – che pure lo stimava come poeta –che in lui “non albergarono mai gli alti sentimenti di cari-tà verso il prossimo, e di fraterno affetto”, alludendo al fat-

to che non si era allineato con un partito progressista eumanitario di quel tempo.

E men che meno lo pianse il popolino, verso cui si eradimostrato democratico solo per chiedere soldi in prestito,o far crediti dai fornitori. Era debitore verso tutti, dal lat-taio al verduraio, dal panettiere al macellaio, aveva chiestosoldi perfino al bidello della scuola dove di tanto in tantofaceva qualche lezione. Tutti, o quasi, a Gallipoli, vantava-

no un piccolo credito nei confronti di“don Pippi” Castiglione. Insomma erariuscito nella non facile impresa di es-sere da tutti considerato un fallito e unparassita, a trecento sessanta gradi.

Eppure Giuseppe Castiglione è sta-to senza alcun dubbio uno dei pochiscrittori di talento dell’Ottocento galli-polino. Ha scritto romanzi importanticome “Roberto il Diavolo”, dramma sto-rico nel pieno filone romantico dei mag-giori scrittori del tempo (TommasoGrossi, Cesare Cantù, Giuseppe Guer-razzi, per non parlare del Manzoni chesicuramente il Nostro conosceva benetanto da dedicargli un’ode assai enfati-ca e mediocre), che rievoca il famoso as-sedio dei veneziani a Gallipoli av-venuto nel maggio del 1484. Il roman-

zo era stato pubblicato dalla più importante casa editricenapoletana, la Vaspandoch, che aveva messo in stampa intre tomi – odi, odi! – nientemeno che i “Promessi sposi” diAlessandro Manzoni (va detto che allora non esistevano idiritti d’autore) ed aveva ottenuto un buon successo di cri-tica e di pubblico, tanto da far scrivere al Castiglione, - chesembrava ormai avviato verso una luminosa carriera di ro-manziere - :“Ecco, vedo coronato il mio sogno, vivere solodi letteratura”. Ma allora sperare di vivere facendo lo scrit-tore era pura utopia: perfino Leopardi non ci riuscì, ma an-che lo stesso conte Manzoni, che non aveva problemieconomici, quando volle stampare in proprio, ci rimise ditasca una somma piuttosto cospicua, ben centomila lire diquell’epoca.

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ROMANZIERI SALENTINI

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Ma la validità del romanzo di Castiglione è rimasta intat-ta nel tempo, se è vero come è vero che anche un secolodopo, ai tempi nostri “La vendetta gallipolina”, piéce teatra-le che il canonico Don Sebastiano Verona aveva tratto pa-ri pari dal romanzo, e messo in scena negli anni 1974-1977,ottenne uno storico strepitoso successo, con numerosissi-me repliche, a cui partecipò praticamente l’intera popola-zione di Gallipoli e dei paesi limitrofi. E successivamente,siamo già al terzo millennio, il maestro Enrico Zullino neha tratto un’opera lirica assai robusta ricalcando certi sche-mi tipici del romanticismo verdiano.

Giuseppe Castiglione era nato nel 1804 nella casa ma-terna, tra le colline odorose di timo di Sannicola, allora fra-zione Gallipoli. Ricordò sempre quelle campagne natie,con l'occhio che spaziava per chilometri e chilometri sulledistese di maestosi olivi, il percorso delle antiche edicolevotive, le vecchie cisterne che raccoglievano la preziosissi-ma acqua piovana, i vitigni, il frumento dei campi. (“Nonnominare le cose, indo-vina le cose, suggeriscile cose, ecco la cosa se-greta, ecco il sogno, lapoesia”), ma era dasempre vissuto a Gal-lipoli e non volle maistaccarsene “comel’ostrica dallo sco-glio” per tutta la suatribolata esistenza,nonostante avessecoltivato ambizioni esogni di gloria lette-raria, soprattutto do-po la sua iscrizioned’ufficio, per alti me-riti letterari, all’Arcadia, e la nomina a corrispondete del-l’Istituto di Francia. Erano solo voli pindarici, sogni che gliavevano fatto sperare che un giorno avrebbe potuto emu-lare (e magari superare) le gesta del suo concittadino Pa-squale Cataldi, grande poeta improvvisatore, consideratoun aedo sublime in tutte le corti europee, da Napoli a Vien-na, da Parigi a Mosca, città che Castiglione poté vedere so-lo sui libri di storia e geografia. Ormai aveva fatto la suascelta totalizzante, si sarebbe dedicato solo alla storia fa-volosa della sua amata città, che infatti sarà fonte di ispi-razione di tutti i suoi vari scritti, dalla biografia del prozioFilippo Briganti, alle prose “Il ponte di Gallipoli”, “Un nau-fragio a Gallipoli”, fino all’ultimo suo romanzo, ”La Cingal-legra”, in cui sono molti elementi autobiografici, pergiungere alla monografia “Gallipoli” che, ristampata nel1985 per i “Quaderni” di “Nuovi Orientamenti”, volle do-narmi il compianto giudice Michele Paone, che ne avevacurato l’introduzione, con questa dedica: “Ad Augusto Be-nemeglio, con augurio e cordiale ricambio” (gli avevo donatol’anno prima una copia del mio ”L’ isola e il Leone”, che rie-voca in modo surreale le vicende dell’assedio veneziano aGallipoli).

Bene, in questo libro, che è una sorta di bozzetto-gui-da, una mini enciclopedia storico-geografica e antropolo-gica di Gallipoli, scritto nel 1856, Giuseppe Castiglionerivela senza infingimenti (ed è un gran merito, tenuto con-

to che l’opera storica gli fu commissionata dal Comune) ilsuo rapporto vero con Gallipoli e i gallipolini. “Il bozzetto– scrive Paone nell’introduzione – fu pensato e compostoda chi della città conosceva tutti i segreti delle virtù, i gua-sti, le corruttele, di chi sapeva le voci e i volti dei concitta-dini, i suoi malesseri, i suoi ritardi, le sue miserie, le suesperanze”. E’ lo scritto di uno che ama molto la sua città,ma con “rabbioso amore, con il risentimento di un poetache aveva finito per identificare la sua vita in quella dellasua città e l’osmosi di questo rapporto lo esaltava e lo av-viliva al tempo stesso”. E la cosa straordinaria è che moltecose riferite alla Gallipoli di centocinquanta e più anni fasono ancora in certi casi dolorosamente attuali.

Prendiamo, ad esempio, il capitoletto sui bambini assaitrascurati dai loro genitori: “Esseri infelicissimi, abbandona-ti dai genitori, che li lasciano razzolare per le strade tutto il gior-no con risultati assai dannosi, non ultimo il poco rispetto chequesti sogliono avere per i genitori”. O sul carattere dei galli-

polini, che, se da unlato sono molto ver-sati nella poesia, nelteatro e nella musica(“Sono tutti poeti.Qualsiasi cosa av-venga che colpiscal’immaginazione, ec-coti una canzone na-turalmente bella…Amantissimi del teatro,di qualunque condizio-ne o istruzione sieno,rappresentano perfetta-mente qualsivoglia far-sa o dramma; arden-tissimo è il genio per la

musica, che in ogni età si è coltivata con vera passione”), dall’al-tro essi sono imprevidenti, vanesi, dissipatori come cicale(“Sono spensierati, cattivi massai; l’avvenire non ha giammaiturbato i loro sonni. I travagliatori quindi sprecano in un gior-no il guadagno di una settimana. I ricchi commercianti sciupa-no tutto nel lusso fine a se stesso, per vanteria; i poveri nellegozzoviglie da taverna… Appena isterilisce il commercio e man-ca il lavoro, ecco la miseria con l’orrendo codazzo di cento maliopprimere quei lavoratori che non seppero serbare una bricioladel pane che sovrabbondantemente mangiarono”).

E poi si parla del rapporto, inesistente, tra i gallipolini(uomini di mare) e la terra: “Gallipoli non ha agricoltori. Niu-no dei suoi abitanti sa versare una stilla di sudore sulla terra perchiedere il compenso di un pane”, e della piaga dell’usura:“scaturigine di ogni miseria… vero flagello per gli sventuratiche, tratti da imperiosa necessità, qualunque condizione accetta-no per aver denaro… questo vampirismo esiziale che si nutre delsangue dei poveri e riduce in miseria le classi operaie assorben-do ogni loro guadagno”.

Castiglione parla anche dell’attaccamento viscerale che igallipolini hanno per la loro piccola patria che “amanod’amore infinito, da cui, se per circostanze imperiose talvolta siallontanano, restano vittime della nostalgia” e della loro reli-giosità, che ha sempre qualcosa di superstizioso, barocco,teatraleggiante e pagano: “Il popolo gallipolino è sempre in-tento a compiere i suoi religiosi doveri; solo non è commendevo-

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Gallipoli (LE) - Fontana greco-romana agli inizi del ‘900

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le qualche usanza che sa alcun poco disuperstizione. Continue sono le festivi-tà religiose che vengono celebrate conogni sontuosità. Nelle processioni fan-ciullette di tenera età, vestite con peri-pli, cantano le laudi. Belle comeangioletti, ricche di chiome che in folteciocche scendono sugli omeri, redimitedai fiori, dotate di voce armoniosissima,colla melodia dei loro canti t’infondononel cuore una misteriosa dolcezza, cheal pianto t’invita”…

…delle congregazioni religioseche gareggiano tra loro “nel tributa-re a Dio col culto esterno, nel frequen-tare i rispettivi oratori e nell’addobbarele chiese col lusso maggiore che posso-no… e non sai se sia maggiore lo zelo, ola munificenza nell’adornare la lorochiesa di preziosi suppellettili e nel ce-lebrare le feste sontuosissime”.

… dei pregiudizi dei suoi concit-tadini: “Si crede alle streghe e alle ma-lie: per salvare i fanciulli da maleficiinflussi de’ malocchi si caricano dicento cianfrusaglie, e di cornetti di corallo”.

E, infine, con sorprendente attualità, si sofferma sullacarenza di insegnanti degni di questo nome (sic!) e sulle

fosche prospettive per i giovani diquel tempo (doppio sic!!) “Gallipoliavrebbe meritato in altra età il nome diAtene della provincia, ma ora l’istruzio-ne manca, e la gioventù non così facil-mente trova una guida che la conducasicura a traverso le spine e i mali tribo-li che ingombrano il sentiero de’ buonistudi. Dove sono i precettori? La gio-ventù fruga e rovista invano per rinve-nirle, desolata nell’inutile ricerca, restaper lo più abbandonata ad una fataleignoranza”.

E su quest’ultime condivise paro-le chiudiamo il nostro glossariettodi Giuseppe Castiglione, sulla suacittà odiosamata, Gallipoli, che èstata il suo tutto, inferno e paradiso.

“Gallipoli” è un pamphlet moder-nissimo, sembra che sia stato scrittoieri, e non centosessant’anni fa, maevidentemente un vero scrittore rie-sce sempre ad essere attuale, anchequando scrive la cronaca del suotempo. E poi chi l’avrebbe mai detto

– ironia della sorte - che uno scioperato bohémien, un arti-sta sfaticato come Giuseppe Castiglione dovesse essere ri-cuperato “anche” come moralista? •

marzo/aprile 2015 Il filo di Aracne 29

Gallipoli (LE) - Casa natale diGiuseppe Castiglione

Augusto Benemeglio

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Avanti, prego. Dopo alcuni importanti interventi diripristino, la “Sala Aurora”, una struttura costrui-ta a Sogliano Cavour a metà degli anni cinquanta

del secolo scorso ed operativa come cinema per circa un

trentennio, è stata di recente riaperta al pubblico con larappresentazione di una commedia in dialetto, “Lu Ternua Lottu” dell’autore Lorenzo Calogiuri. L’opera è stata mes-sa in scena il primo febbraio 2015 dall’associazione “La Ple-iade”, che opera sul territorio con iniziative culturali divario genere, tra cui anche il teatro.

L’evento ha registrato un notevole successo, non solo peril gradimento che in genere il teatro dialettale riesce sem-pre ad ottenere per la sua vivacità così vicina al sentire po-polare, ma anche perché nella circostanza molti spettatorihanno riassaporato il gusto di stare insieme in un localeche in tempi passati ha rappresentato il principale luogo diritrovo nelle serate trascorse con familiari ed amici a se-guire la proiezione di un film.

L’effetto nostalgia si è così affiancato alla spinta realiz-zativa del presente, generando una proposta ritenuta de-gna di attenzione ed indubbio interesse.

Il cinema come modus vivendi. Per le generazioni piùanziane il cinema ha rappresentato, oltre ad una particola-re modalità di intrattenimento, un importante dato di co-stume, specie nei primi decenni del secondo dopoguerra.

Prima dell’avvento della televisione, che a partire dagli an-ni settanta cambiò radicalmente le abitudini di molti, indu-cendoli a rimanere pigramente tra le mura domesticheseppur privi di occasioni di contatto e condivisione, l’anda-

re a cinema rappresentava un modo impre-scindibile di impiegare gradevolmente efruttuosamente il proprio tempo libero.

In ogni comune d’Italia la sala cinemato-grafica era una sorta di istituzione dove tra-scorrere le ore serali non destinate al lavoro,al pari della chiesa, dell’oratorio, dell’osteria,del circolo ricreativo, della sede di partito, odelle varie associazioni sindacali, culturali osportive.

Se si pensa che ogni centro urbano, perquanto piccolo, aveva almeno una sala cine-matografica (le città più grandi, specie i ca-poluoghi di regione o provincia, ne avevanoparecchie) si può facilmente ipotizzare unnumero totale di sale operative almeno dop-pio o triplo rispetto al numero dei comuni(8.300 circa), tenendo conto delle frazioni piùo meno distanti dal comune di appartenenza

che disponevano di sale proprie, ed anche dei vari cinemaparrocchiali, che facevano concorrenza alle sale più impor-tanti, proiettando a passo ridotto pellicole di 16 mm inve-ce delle normali pellicole da 36 mm.

Oltre l’immaginario. Quando si sente affermare che laRAI ha svolto un ruolo fondamentale nell’acculturare ed

30 Il filo di Aracne marzo/aprile 2015

TRA PASSATO E PRESENTE

Sogliano Cavour (LE) - Sala “Aurora” (interno)

Spettatori anni ‘60

A Sogliano Cavour

NUOVO CINEMA AURORAUna sala cinematografica riapre i battenti

di Giuseppe Magnolo

NUOVO CINEMA AURORA

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amalgamare linguisticamente il popolo italiano, viene daobiettare che sotto questi aspetti il cinema ha avuto un me-rito forse ancora più grande, dal momento che è stato stru-mento di formazione ed informazione per intere gene-razioni, che attraverso la visione e l’ascolto dei film sonorihanno imparato non solo a parlare, a pensare, e a compor-tarsi, ma anche a conoscere il mondo, ad emozionarsi, esoprattutto a sognare.

È interessante al riguardo quanto rivelato da alcuni stu-

di di settore riferiti agli anni più fiorenti dell’industria ci-nematografica, i quali hanno messo in evidenza un assaipiù alto indice di propensione da parte degli italiani ad an-dare al cinema anziché a teatro, contrariamente a quantoavveniva presso le popolazioni nord-europee (ad esempioin Gran Bretagna e nei paesi scandinavi).

Questo dato è spiegabile con la tendenza dei popoli nor-dici alla riflessione introspettiva, alla emozionalità intimagenerata dall’esperienza teatrale, che si svolge in un luogo-circoscritto, e in qualche modo racchiude gli spettatoridentro una realtà fisicamente percepita mediante il contat-to diretto tra attori e pubblico.

Il cinema invece risponde ad esigenze diverse, soprat-tutto di spazialità e dinamicità, sulla base dei requisiti chegli sono propri e che meglio si addicono all’immaginazio-ne fantasiosa dell’anima latina. La visione di un film da unlato preserva nello spettatore la consapevolezza che la pro-iezione a cui sta assistendo è soltanto fatta di immagini fu-gaci ed illusorie per quanto plausibili, ma al tempo stessoproduce quel grande effetto di suggestione che solo il cine-ma possiede, riuscendo a creare sensazioni ed emozioniben oltre l’immaginario, verso il sogno e la pura fantasia.

Funzione formativa e immedesimazione. Nel passatorecente il cinema ha svolto in sostanza una importante fun-zione educativa, ponendosi significativamente al fiancodelle altre “agenzie formative” che, ora come allora, ope-rano su qualunque individuo plasmandone la personalitànegli anni della sua formazione, sia quelle di tipo istitu-zionale (la scuola, il catechismo, la società sportiva, la se-de di partito politico), che quelle informali (la strada, ilquartiere, il gruppo di appartenenza). In molti casi, primaancora che dal libro sussidiario, la storia di fatto è stata ap-presa dai film storico-mitologici; la geografia e i vari habi-tat si palesavano nei generi western e di ambiente esotico;la coscienza di classe si è sviluppata grazie al cinema neo-

realista e di impegno civile assai più che attraverso la let-tura di trattati di politica; il gusto musicale era stimolatodalle produzioni cinematografiche di opere liriche, musi-cals e varietà; ed infine vi erano i film strappalacrime cheinculcavano i buoni sentimenti esaltando i valori della fa-miglia, della patria, o della religione.

La percezione visiva agiva potentemente come apripistaanche nella sfera sentimentale ed emotiva. Quante volte èscattata in ogni spettatore di qualunque età una spinta al-l’immedesimazione con questo o quel protagonista, unsenso di ammirazione per l’avvenenza o la prestanza fisi-ca di un personaggio maschile o femminile, un trasportoestatico di fronte al fascino maliardo di dive brave e formo-se che hanno a lungo rappresentato dei veri canoni di bel-lezza e portamento. Alcuni spettatori erano così profon-damente conquistati dalle vicende narrate nei film da ve-derli per due volte di seguito (nei giorni feriali) o anche tre(la domenica).

Ridimensionamento e sopravvivenza. Che cosa è rima-sto di tutto ciò in termini di strutture, consuetudini ricrea-tive e culturali, senza poi tralasciare quel tanto di posti dilavoro connessi al funzionamento delle sale cinematogra-fiche? Ben poco.

Per una famiglia media andare al cinema oggi risulta piùcostoso e logisticamente assai più complicato di una sera-ta trascorsa in pizzeria. Molti cinema, specie nei piccoli co-muni, hanno chiuso da tempo, non riuscendo a coprire icosti di esercizio. Tra quelli dismessi, alcuni hanno avutodestinazioni diverse: dal supermercato alla sala-gioco, dalmagazzino di deposito al centro polivalente, dalle ristrut-turazioni per ottenere locali utilizzati come ufficio o pic-colo negozio ai box per auto. Altri sono in attesa dimanutenzione e di nuova destinazione d’uso.

Di quelli sopravvissuti nei grossi centri, e che portano

nomi un tempo rinomati e gloriosi, alcuni continuano afunzionare grazie agli incentivi pubblici, ma ogni tantoqualcuno è costretto a chiudere, nonostante le proteste deidipendenti e degli abitanti di quartiere che lamentano ildisservizio anche nell’ambito dello svago e l’impiego deltempo libero.

Nonostante varie misure di incentivazione rivolte al-l’utenza (riduzioni per minori ed anziani, giorni di proie-zione a prezzi ridotti, spettacoli in orari mirati a particolarifasce di pubblico), ed un recente provvedimento (Diretti-

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Manifesto pubblicitario del colossal “Ben Hur”

Scena da “La dolce vita” di Fellini

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va del Ministero dei BeniCulturali, agosto 2014)rivolto a censire e soste-nere con sussidi le salecinematografiche ritenu-te “di interesse storico”, or-mai solo pochi cinemariescono a far quadrare ibilanci, e talvolta si trattadi agglomerati multisalacostruiti lontano dai cen-tri urbani, sì da suggeri-re una sensazione di se-gregazione, ossia l’esattocontrario di ciò che il ci-nema era e dovrebbe an-cora essere.

Le alternative attuali.Nelle abitudini quotidia-ne della gente l’andare acinema è stato ampia-mente sostituito dalla te-levisione, e per i giovanida Internet. Ma la televi-sione ormai si muove con criteri prevalentemente commer-ciali e di dozzinale intrattenimento, con rari programmiculturali e di qualità, offerti per giunta in orari alquantomarginali.

Negli ultimi decenni vi è stata poi la rivoluzione infor-matica, che ha prodotto enormi vantaggi nello scambio im-mediato dell’informazione, annullando le distanze epermettendo anche nuove forme di organizzazione del la-voro.

Le possibilità di contatto sono attualmente centuplicaterispetto alla comunicazione telefonica via cavo. Ma a benriflettere, tutta questa mole di dati che transita attraversoInternet ha finito con l’accentuare ancor di più il senso diisolamento già provocato dalla televisione (i cui indici diascolto preservano in qualche modo una parvenza di con-divisione), addirittura producendo una sorta di vuoto esi-stenziale che attanaglia chi rimane impigliato nella rete (iltermine net implica anche questo), ed è costretto alla prov-visorietà dei dati del momento, alla precarietà di una real-tà solo virtuale, freddamente avvertita dalla mente, e privadi qualunque altra percezione sensoriale tranne quella vi-siva.

Se si confronta l’insieme di pensieri ed emozioni che sigenerano nel tempo dedicato alla visione di un film conl’effetto di parzialità ed incompiutezza prodotto da dueore spese come intrattenimento davanti al computer o unsuo equivalente, si comprenderà la profonda differenza in-dotta sulla condizione psico-fisica di qualunque spettato-re-utente.

La prova evidente di tale divario è nel fatto che molti gio-vani, seppur dotati di ottime competenze operative e stra-colmi di dati informativi, spesso si dimostrano incon-cludenti quando si tratta di interpretarli o semplicementedi esprimerli in modo personale.

La mancanza di partecipazione affettiva porta inevita-bilmente ad esiti di questo tipo.

Il canto del cigno. Nel 1988 il regista Giuseppe Tornato-

re ha diretto la produzione del film NuovoCinema Paradiso, da cui si è tratto spuntoper intitolare quest’articolo.

L’opera ideata e realizzata da Tornatoreè sicuramente da considerare una pietramiliare nella storia del cinema, una testi-monianza sincera e toccante dell’amoreprofondo verso questa forma di espressio-ne artistica, e al tempo stesso una mestaelegia per qualcosa che appartiene al pas-sato, anche se talvolta riemerge prepoten-temente nella memoria sia individuale checollettiva.

Tra i molti pregi presenti in quel capo-lavoro, ci piace ricordare il particolare ef-fetto prodotto dalla proiezione (film nelfilm) di alcune scene recuperate di am-plessi ed effusioni che la censura implaca-bile aveva sottratto al pubblico, incon-sapevolmente alimentando ancor di più latensione immaginativa prodotta dai foto-grammi che riuscivano a salvarsi.

Il grande merito del regista siciliano ènell’aver saputo rievocare con efficacia il

senso corale, quasi epico, di quella esperienza, che nel fina-le del film viene avvolta in un alone di rimpianto per queitempi lontani in cui il pubblico si abbandonava così facil-mente alla commozione.

Transfert identitario. È strano come a volte sembra dipoter trovare in un film il racconto di un pezzo della sto-ria della propria vita.

Così a me è successo vedendo l’opera di Tornatore.Di recente ho anche scoperto di condividere quella par-

ticolare sensazione con l’amico Raffaele Del Savio, che co-me me da adolescente ogni sera vedeva un film dallacabina di proiezione nel cinema del suo paese natale (Co-

rigliano d’Otranto), che apparteneva alla sua famiglia.Forse è stato anche grazie al cinema che poi ciascuno di

noi due ha trovato la sua strada nella vita.D’altronde ogni esperienza lascia dietro di sé delle trac-

ce sedimentali, alcune non semplici da decifrare.Ebbene sì: è con profondo piacere che ho rivisto la “Sala

Aurora”di Sogliano riaprire le porte al pubblico.Per ora va bene così. Poi si vedrà. •

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Manifesto pubblicitario di “Gilda”

“Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore

Giuseppe Magnolo

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Aveva oramai calcato ipulpiti di varie cittàdel Regno e predica-

to «con plauso in que’ tempi»1

da meritarsi attenzione econsenso sì grande da rag-giungere la fama e la notorie-tà di altri confratelli suoicomprovinciali e contempo-ranei ed ottenere il titolo diPadre Predicatore Generale del-l’ordine suo, quando il nostrofra’ Alessandro Tomaso Arcu-di (1655-1718) pubblica, il 1712,le sue Prediche Quaresimaliper i tipi della stamperia lecce-se di Tommaso Mazzei.

La sua era una predicazio-ne impetuosa ed estenuante,ma dal linguaggio semplice,diretto, privo di quella am-pollosa e pomposa retoricabarocca del tempo poiché, so-steneva, che «nel pulpito non si tratta una causa forense, ma ce-leste: non il jus civile, ma il jus spirituale dell’anima, che non sispiega con la frase affettata del Boccaccio, ma collo stile pungen-te dei Profeti»2, tutto ciò con il solo intento di commuoveregli ascoltatori verso propositi di moralità e di santità: «nonha bisogno di fuci la parola di Dio, che insegna il ben vivere, nonil ben parlare, colla bassezza dello stile conduce l’Uomo, anchepiù erudito, e letterato alla cognizione di dottrine altissime, e dimisteri divini»3.

Eletto, il 1702, priore del convento di Galatina, carica chemantenne sino al 1713 quando è chiamato in Lecce a reg-gere il suburbano convento dell’Annunziata, confessa, conuna lettera del 30 ottobre 1709, al vescovo neretino Anto-nio Sanfelice (1707-1736): «da che io presi l’abito domenicanom’applicai con ardenza alla santa predicazione, e più di venticinque anni continui ho predicato la Quaresima non solamentenei luoghi più cospiqui della mia Provincia, ma anche nella Lom-bardia e fuor d’Italia nella Repubblica di Ragusa: onde pensai fi-nalmente di riposarmi da tante fatighe e sono due anni che nonpredico Quaresima, ma nelle altre sole feste e domeniche dell’an-no e ottavarij»4 e manifesta «qualche scrupolo per aver risolu-

to cessare da tal fatiga, mentre il Signore mi con-serva ancora la sanità e le forze». Supplica per-tanto, il presule «che si compiacesse di aggradirech’io la servisse per il pulpito di Nardò (dove hopredicato due volte l’Avvento) o di Galatone o diCopertino quale a lei sarà ispirato da Dio, purchèvi sia convento della mia religione, perché lo stan-ziare in casa secolare l’ho stimato sempre d’inquie-tudine al genio mio solitario».

Quando il 1712 finalmente esce questo suo«nuovo figlio ad accompagnare gl’altri suoi fratel-li alla luce», l’Arcudi avverte il CORTESE, EBENIGNO LETTORE: «Quanti travagli poi, edafflizioni ho sofferto nel corso di questi tre anni, equanti ramarichi mi costasse questo Quaresimalelascio la cognizione alla sola sapienza divina, per-ché non occorre a te di sapergli. Mi sarebbe stataperò ogni amarezza addolcita, se fusse riuscita per-fettamente la Stampa, e non avesse incontrata lasolita fatalità, ed impossibile ad evitarsi, di tutti iTorchi; né posso dissimularla, perché la vedi. Glifogli passati sotto all’occhio mio, data comparazio-ne, son correttissimi, benché pure dalle medesime

mie pupille sonosfuggiti alcuni er-rori men gravi:ma quando indi-spensabili occu-pazioni non mipermettevano lapersonale assi-stenza, non ebbemai fortuna d’uncorrettore perito,ed amoroso. Ti hofatto nel fine l’Er-rata Corrige, so-lamente di quel-l’errori che ponnotenere sospeso iltuo animo nel-l’intelligenza delvero senso dellamia mente: ma

marzo/aprile 2015 Il filo di Aracne 33

ANTICHI USI RELIGIOSI

Frontespizio dell’edizione dedicataal cardinale Imperiale

Pagina dedicatoria card. Imperiale

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dove sono accaduti abbagli di lettere, omancanti, o raddoppiate, o trasportate, ocontro il genio della me usata Ortografia(della quale io ti rimetto alla mia FerolaApologetica) gli ho tralasciati alla tua eru-dizione, acciocché non credessi che io ugua-glio il tuo giudizio a quello dell’Impressori.La tua Caritativa benignità compatisca laMalasorte non meno dell’autore, che dellesue opere»5.

Già, perché la malasorte sembra per-seguitare l’autore. Dopo infatti, le dueedizioni della Anatomia degl’Ipocriti(Venezia, Girolamo Albrizi, 1699)6, ledue della Galatina Letterata (Genova,Giovan Battista Celle, 1709) e le duedell’opuscolo titolato Le due Galatine di-fese. Il libro e la Patria, con lo pseudoni-mo di Francesco Saverio Volante,entrambe stampate a Genova il 1715, una prima, come giàsegnalato da Rosario Coluccia7, presso Antonio Casamaradedicata al vescovo neretino Antonio Sanfelice «ritirata edil frontespizio sostituito»8 con altro dove non compare il no-me del presule, ed una seconda presso la Stamparia di Gio-van Battista Celle senza dedica alcuna, stessa sorte pare siatoccata anche alle Prediche Quaresimali, delle quali sono sta-

te rintracciatedue edizionientrambe stam-pate a Lecce, il1712, per ilMazzei, ma de-dicate una alcardinale Giu-seppe RenatoImperiali e l’al-tra a GiacintoGaetano Chyur-lia vescovo diGiovinazzo9.

«Io non potreiscegliere in tuttoil circolo dellaterra Prencipepiù proporziona-to di V. S. Emi-nentissima, a de-dicare queste mieEvangeliche fati-ghe, e per la ma-teria, che si

tratta, e per la forma, che la dispone», scrive l’Arcudi, nelledue paginette dedicatorie al cardinale Giuseppe RenatoImperiali (1651-1737), abile Prefetto della Congregazionedel Buon Governo dello stato ecclesiastico con ampi pote-ri amministrativi e gestionali delle pubbliche rendite. Perle sue qualità, il 1711, è nominato da papa Clemente XIILegato a latere della Santa Sede a complimentarsi per l’ele-zione di Carlo VI a re di Spagna10, e così l’Arcudi lo ricor-da: «Onde sarebbe temerità della mia penna mendica tolta alle

ali di una notturna CIVETTA se tentasseimpiegarsi alle laudi d’un AQUILA, checol sublimassimo volo tutta la eloquenzade’ Greci, e de’ Latini Oratori, stimata uni-camente degna dalla Santa Suprema Seded’inviarla per suo Legato a complimentarenell’anno trascorso in Milano l’AQUILAdell’IMPERO, nella persona del NostroGloriosis. Monarca CARLO VI». Ma ilcardinale Imperiali, «intendentissimodelle belle arti», non solo fu protettore dimolti artisti e collezionista di ragguar-devoli dipinti, ma soprattutto costituìuna straordinaria biblioteca, famosa intutta Europa, che quando Giusto Fon-tanini, il 1711, ne pubblicò il catalogo11,comprendeva più di 15.000 volumi,con una prevalenza di testi di diritto,filosofia e letteratura. Così conclude

l’Arcudi la sua dedica, datata S. Pietro in Galatina 8 settem-bre 1712: «Chi non conosce le virtù Eroiche di V. Em. prende ar-dimento a lodarle: ma chi le conosce le adora, e come inabile atanta impresa col silenzio le riverisce, insegnando il Filosofo, cheMagnorum non est laus, sed silentium: quindi con riverente si-lenzio profondamente inchinandomi le bacio la sacra veste».

L’altra edizione è invece dedicata a Giacinto GaetanoChyurlia (1693-1730), dell’ordine dei predicatori, vescovodi Giovinazzo che nella lettera dedicatoria datata S. Pietroin Galatina 8 settembre 1712, l’Arcudi scrive: «Dovendo iodunque mandar in luce le mie Prediche Quaresimali, non dove-vo offrirle, che ad un Personaggio intendente così dell’arte, chegli fusse propria la Santa predicazione; ed a V. S. Illustrissima ètanto propria che fu assonta alla dignità Vescovale doppo aver-la esercitata molti anni nella nostra Religione, la quale meritòdalla suprema Sede Apostolica, il titolo de’ Predicatori; titoloproprio de’ Vescovi. Quindi V. S. Illustrissima si rese meritevo-le della Cattedra Ponti-ficale con tanto gloriosedisposizioni allo che siaggionge un’altra vali-da circostanza, ch’es-sendo io, ed ella figlid’una medesima Pro-vincia, non dovevo an-dar mendicando dafuori soggetto adegua-to mentre l’avevo cosìvicino su gl’occhi, conessi passata una reci-proca corrispondenza,di padronanza dallasua parte, e di servitùdalla mia riceva dun-que la cortesia di V. S.Illustrissima questopicciolo dono in quan-to alla debolezza dell’artefice; ma sublimissimo in quanto allamateria che tratta qual è l’Evangelio di Cristo: e lo riceva secon-do la generosità innestata al suo cuore dalla natura per la nobil-tà de’ natali, e dalla dignità per l’eccellenza de’ meriti».

Ma qui, in una nota adirata al CORTESE LETTORE, due

34 Il filo di Aracne marzo/aprile 2015

Pagina dedicatoria card. Imperiale

Frontespizio dell’edizionededicata al vescovo Chyurlia

Pagina dedicatoria vesc. Chyurlia

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carte non numerate aggiunte alla fine di questa edizione,che manca in quella dedicata all’Imperiale, l’autore se lapiglia con l’editore che non solo nonha perfettamente compiuto il suo do-vere, ma è venuto meno agli oblighidelle correzioni e delle sostituzioni didue pagine, ch’egli s’era assunto, eperciò era stato chiamato in tribuna-le12: «Non anno avuto questa fortuna iparti della mia penna fin ora: Sono pas-sati per loro disgrazia più sotto l’unghie,che sotto le lingue dell’Orse. Infelicissi-mo sopra tutti è stato il presente Quare-simale: parto che per ogni parteconsiderato mi costa infiniti dispendij:ma sarebbero nulla, se non fussero ac-compagnati d’altri infiniti dissapori. Siaggiunse per ultimo quello che non devo,né posso dissimulare. Era obbligato loStampatore di ristampare due carte, del-le quali a tal fine fu da me tralasciata lacorrezione: ma come venne l’ora di esse-re questo povero figlio consignato al suopadre, non fu possibile di persuaderlo alcompimento del suo dovere, acciocchésoddisfacesse appresso gli uomini, ed appresso Dio. Molti Tipo-grafi miserabili esercitano così bell’arte per il lucro, non perl’onore: e fanno uscire mutilati da torchi tanti parti prodotti per-fettissimi dalla mente. Io ero stufo tre anni continui di farmi sen-tire per questa causa ne’ Tribunali, e troppo si arrossiva unUomo, abitatore di solitarie Cellette, di piatire in giudizij foren-si: tanto più che mi consiglia il nostro Salvatore: Ei qui vult te-cum in sudicio contendere, et tunica tollere, dimitte ei et pallium.Mat. 5.42. Supplica dunque all’altrui malizia la tua bontà, si co-me supplisce la tua pazienza; e nelle carte che dovevano ristam-parsi, qui ti pongo la Correzione»13. •

NOTE:* Si ringrazia la dott.sa Romina Rea della Biblioteca Diocesana “Cardina-le Cesare Baronio” di Sora (FR) per averci fornito copia delle PredicheQuaresimali dedicate al cardinale Giuseppe Renato Imperiali.

. E. D’AFFLITTO, Memorie degli scrittori del Regno di Napoli, Napoli 1782,I, p. 423. Cfr. anche F. A. SORA, Memorie storico-critiche degli storici napo-letani, Napoli 1781, I, p. 46.

2. A.T. ARCUDI, Prediche Quaresimali, Lecce1712, p. 6.3. A.T. ARCUDI, Prediche Quaresimali etc., cit.,p. 6.4. Cfr. M. CAZZATO, Un’inedita lettera di A. T.Arcudi al vescovo Sanfelice, ne “La Città” (di Ga-latina), II, 1994, 7 (novembre), p. 5.5. A.T. ARCUDI, Prediche Quaresimali etc., cit.,p. 7.6. Cfr. G. VINCENTI, Infelicità della stampa e in-fedeltà dello stampatore: a proposito della Anato-mia degl’Ipocriti di Alessandro Tomaso Arcudi, ne“Il filo di Aracne” (di Galatina), VII, 2012, 3(maggio/giugno), pp. 24-25.7. Cfr. R. COLUCCIA, La Puglia in F. BRUNI (acura di), L’Italiano delle Regioni. Lingua naziona-le e identità regionali, Torino 1992, p. 704; A. LA-PORTA, Saggi di storia del libro, Lecce 1994, p.17. Una copia di questa edizione era presentepresso la Biblioteca Provinciale di Lecce "Nico-la Bernardini" (coll. XXXII-A-28), oggi pur-troppo è irreperibile.8. A. LAPORTA, Uomini e libri a Nardò durantel’episcopato di Antonio Sanfelice, in M. R. TAM-BLÈ - B. VETERE (a cura di), Un vescovo, unacittà. Antonio Sanfelice a Nardò (1707-1736),Nardò 2012, p. 271.9. A. LAPORTA, Settecento tipografico leccese

(Note per la storia dell’arte della stampa a Lecce nel ‘700), in M. LANERA – M.PAONE (a cura di), Momenti e figure di storia pugliese. Studi in memoria diMichele Viterbo (Peucezio), Galatina 1981, II, p. 99 accenna all’esistenza diuna seconda edizione del 1716 pubblicata dallo stesso stampatore all'in-saputa del suo autore. Copia di questa edizione esistente presso la lecce-se biblioteca provinciale (coll. XXXII-E-214) ora è purtroppo è irreperibile.10. Cfr. G. CHIAPPONI, Legazione dell'eminentissimo, e reverendissimo signorcardinale Giuseppe Renato Imperiali alla sacra real cattolica maestà di Carlo 3.Re delle Spagne l'anno 1711, Roma 1712.11. Cfr. G. FONTANINI, Bibliothecæ Josephi Renati Imperialis Sanctæ Roma-næ Ecclesiæ diaconi cardinalis Sancti Georgii catalogus secundum auctorumcognomina ordine alphabetico dispositus una cum altero catalogo scientiarum &artium, Roma 1711.12. Cfr. a tal proposito M. MARTI (a cura di), Scrittori salentini di pietà fraCinque e Settecento, Galatina 1992, p. 361.13. A.T. ARCUDI, Prediche Quaresimali, cit., Cortese Lettore.

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Pagina dedicatoria vesc. Chyurlia

Giovanni Vincenti

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Tutti a lavorare nella ramesa, esclusa la madre di Chic-co che, dopo il pranzo frugale e veloce consumato inpiedi attorno alla matthra, quasi un buffet, rimaneva in

cucina per riassettare la stanza, pulire il tavolo e riporre aisuoi lati le quattro sedie zoppe e malandate, usate dai piùpiccoli.

Con una robusta scopa, costruita con mazzetti di saggina,ristretti con giovani rametti verdi di salice attorno a un ma-nico di giunco, o a ‘nnu cavaddhrone de vulia (lu minnaturu), ri-puliva, con quattro colpi ben assestati, il pavimento.

Questo era mattonato con chianche de leccisu, alcune gib-bose, altre concave e, comunque, tutte con le fughe talmen-te larghe e sconnesse dasembrare camminamenti ditrincea in un campo di bat-taglia.

Ma si intonavano bene earmonicamente con l’arre-do che una vera stanza dicasa colonica doveva avere.

E non poteva essere di-versamente.

Finito il suo compito, lascopa veniva riposta in pie-di, poggiata al muro, dietrol’anta destra della porta,che, rimanendo accostataverso l’interno, la protegge-va e soprattutto la nascondeva alla vista.

Le cummari, che di pomeriggio venivano a far visita allanonna, ma più che altro per pitteculisciare, non avevano cosìalcun motivo pe’ tajare.

E così tutto era più ordinato. O, per lo meno, così sembra-va.

Un sottile strato di tufo, finemente sbriciolato, completavail riassetto della stanza e il suo colore bianco conferiva unainsospettabile, ma apparente, sensazione di pulito.

Per questo la breccia di tufo, conservata in un capiente re-cipiente circolare di latta, veniva sparsa anche sulla terra bat-tuta davanti alla porta d’ingresso, immediatamente a ridossodel limbatale e per tutta la sua lunghezza.

Proprio lì dove il padre di Chicco, nonostante sua moglieavesse cacciatu i pili a lla lingua nel chiederlo, non aveva maiavuto il tempo di sistemare do’ chianche de leccisu, per evita-re il piastriccìo della melma durante i giorni piovosi.

La breccia fungeva così da zerbino, sulla quale ci si dove-

va strofinare i piedi scalzi in estate, o le scarpe d’inverno,prima di entrare in casa, specialmente quando il piazzale an-tistante era bagnato e melmoso.

I più piccoli, in particolare, a volte non lo facevano.Entravano in cucina con distrazione, o con negligenza, ma-

gari correndo e giocando, o vurrisciandu fra di loro.E rischiavano, di sicuro, ‘nu corpu de scupa, quella a porta-

ta di mano, nascosta dietro l’anta destra della porta.Se la scopa era impegnata per le sue domestiche incom-

benze, si rimediava cu ‘na fiondulisciata inthru ll’anche de ‘nuzòcculu de tavvula.

E gli effetti ammonitori e correttivi erano più o menouguali.

La nonna, seduta accantoal camino con sorniona di-sattenzione, sferruzzava suuna ruvida, pesante magliadi lana, quella filata in casacu llu fusu, e che aveva lafunzione di ripararti le cò-stule d’invernu.

A lei era riservato il com-pito di controllare che lastanza, una volta riassetta-ta, rimanesse pulita perquanto più tempo possibile.

All’occorrenza, quandu vi-dìa lu mundu mmale paratu,

senza scomporsi, sospendeva il lavoro, infilando i ferri nelrotolo di lana che conservava, durante il lavoro, in una tascadel mantile, ricamato con delicati quadretti bianchi e azzur-ri .

Sollevava per un attimo dal lavoro a maglia gli occhi, pro-tetti da un paio di occhiali a culu de buttìja poggiati ad inca-stro, senza astine laterali, sul dorso del naso, e… pun-tualmente vi provvedeva con sorprendente precisione.

Nu’ cannava ‘nu corpu!Come, a volte, non mancava di compensare anche le buo-

ne azioni cu ddo‘ fiche ‘ncuddhrate, le più pregiate, quiddhre culla mèndula, o cu lli nuci, prelevate da la capaseddhra, conser-vata nello stipo a muro, protetto da due robuste ante di le-gno.

Lo teneva chiuso a chiave cu ‘nnu chiavinu di ferro abbru-nito, che custodiva gelosamente in tasca.

Veniva aperto solo per le grandi occasioni, durante una fe-sta particolare, o per regalare ‘nu crottu al figliolo della cum-

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SUL FILO DELLA MEMORIA

Fichi durante l’essiccazione sul “cannizzu”

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mare che veniva in visita di cortesia.O diventavano un premio privilegiato, quando si portava

a casa, dalla scuola, la pagella del trimestre per la firma (“delgenitore o di chi ne fa le veci“).

A condizione però chenon vi comparisse nemme-no un cinque.

Il fortunato, per premio,andava a scuola o alla mesciaper tutta una settimana cu‘nna francata de fiche cu llamèndula, che profumavanoallegramente il suo panierinodi giunco e solleticavanol’invidia del compagno dibanco.

Gli altri invece (li cchiùciucci) dovevano acconten-tarsi più semplicemente diquelle scasate de la capasa, che abitualmente costituivano, pertutti, la merenda proletaria che si portava a scuola, per con-sumarla durante l’intervallo della ricreazione.

Ogni volta che si sollevava il coperchio di terracotta, la ca-pasedddhra spandeva nell’aria un intenso profumo di foglied’alloro, cotte, insieme a lle fiche, nel forno a legna, posizio-nato all’esterno, dietro la suppinna.

Dal vasetto veniva fuori quel profumo particolare e ine-briante, che ti riconciliava l’anima e ti faceva venire l’acquo-lina in bocca.

Si ottenevano questi risultati se si utilizzava solo la mate-ria prima più pregiata, cioè i fichi di migliore qualità e, fraquesti, soprattutto quiddhri (in verità molto rari) senza crid-

dhri.Su tutti primeggiavano lu

fracazzanu, la pizzuteddhra, lafica dell’Abbàta, la fica paccia, laculumbara, la casciteddhra, l’ot-tàta, lu sassone, la fica de la Si-gnura e lu giammicu.

Poi era necessario racco-glierli al momento giustodella loro maturazione, scar-tando accuratamente quid-dhri ‘nfesati, o cu llu culupertu.

Il padre di Chicco era inca-ricato della selezione e dellaraccolta.

Con un capiente paniere, quello intrecciato con vinchi devulia o de cutugnu e stecche di cannette secche, e cu llu ‘ncina-luru de mèndula, o de vulia si arrampicava sugli alberi, anchesenza usare la scala, se non per le cime più alte e sottili, chediventavano, diversamente, irraggiungibili.

A piè dell’albero, i più piccoli ingannavano il tempo, man-giando solo i fichi dai rami più bassi, mentre il più grandi-cello fra loro aveva il compito di fare provvista de brucacchiae riciteddhra pe’ lli cunij, che conservava accuratamente in unsacchetto di juta.

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“Fica cu llu culu pertu”

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Tutti aspettavano che venisse giù il paniere ricolmo.Lo sganciavano dall’uncino e vi appendevano quello vuo-

to. Poi correvano a spandere sui cannizzi i fichi raccolti, chela nonna e la mamma di Chicco, dopo un ulteriore, somma-rio controllo, provvedevano a spaccare in due parti simme-triche, con un coltello a seghetto ben affilato, senza staccarlecompletamente.

Venivano disposti, leggermente ‘ntajàti, l’uno accanto al-l’altro, e, a file susseguenti come soldati inquadrati, allinea-ti e coperti, sulla piazza d’armi, riempivano lu cannizzuin tutta la sua ampiezza.

Intanto api e mosche, attrattedall’odore dolciastro e volut-tuoso, cominciavano a in-trecciare, tornu tornu, iloro rodei.

Per questo erano giàpronti i teli, tessuti a retefitta e trasparente, perproteggere le fiche spacca-te.

E così essiccavano al so-le lentamente.

Dopo circa una settima-na occorreva rivoltarli,perché anche la parte po-steriore del frutto potesse appassire.

Di notte dovevano essere protetti con tovaglie e strofinac-ci, per non farli inumidire e poi scoprirli al primo sole delmattino.

Con accurata solerzia e ossessiva perizia a ciò provvedevala nonna.

Il rituale poteva durare dalle due alle tre settimane, al ter-mine delle quali, i fichi dovevano essere lavati e poi messidi nuovo ad asciugare, almeno per un paio di giorni.

Quando arrivava il momento di infornarli, normalmente afine settembre, sembrava un giorno di festa.

Tutti erano addetti ai lavori, dai grandi ai più piccoli. Concompiti diversi, ma tutti erano coinvolti.

I più piccoli, in particolare, camminando a tantùni, perchénon riuscivano a vedere al di là della fascina ingombrante acui erano abbracciati, erano incaricati de carisciare le ramàje,che il padre di Chicco utilizzava per preparare il forno conla temperatura giusta per la cottura.

Facevano su e giù dalla suppinna, procedendo traballantiin fila indiana, come formiche affannate a stipare le provvi-ste nel proprio nido.

I più grandi invece, proprio perché più robusti, trasporta-vano a spalla li limbi chini de fiche llavate.

Qui, una volta cotti, finiva il lavoro di tutti, ma non quel-lo della nonna e della mamma di Chicco.

Esse poi dovevano provvedere a guarnire gli altri fichi sec-chi, i migliori, con le mandorle (possibilmente le acatucce),una per fico, o con i gherigli di noce spezzati a metà.

Non mancavano i necessari profumi, come i pezzetti sot-tilissimi di buccia di limone, quasi trinciato, sempre dispo-nibile .

L’uso del pepe garofano, o della cannella, invece, era mol-to raro.

Quando le risorse loconsentivano, la mammadi Chicco mandava acomprare con le poche li-re che aveva risparmiatole bustine da lu Farloccu,o da l’Astarita.

Insieme ai profumi,quando c’erano, ricon-giungevano le due sezio-ni rimaste attaccate, pre-mendole delicatamentefra i polpastrelli dell’in-dice, del medio e del pol-

lice, in modo tale che il ficoriprendesse la sua forma origi-

naria, anche se appassitae raggrinzita.

Una volta infornati, venivano adagiati a strati, intervallaticon foglie d’alloro, nella capaseddhra.

Le altre fiche siccate e ‘nfurnate venivano ‘ncasate, appenaappena calde (non bollenti) pressandole vigorosamente coni pugni chiusi di entrambe le mani, protette con un robustocanovaccio, in una capiente capasa.

Ma quando la produzione era abbondante, le fiche venìanu‘ncasate in una cascia di legno di noce, dove venivano schiaccia-te con i piedi, coperti con pesanti calze di cotone.

Per questo i più piccoli entravano a turno nella cascia perpressare i fichi, ma più che altro pe’ vurrisciare.

A intervalli regolari, fra strato e strato, venivano inseritele foglie di alloro, appena svampate nel forno ancora caldo.

Prima di abbassare il coperchio, le fiche venivano protettecon un morbido telo de vambace, tessutu a llu talaru.

Finitu de ‘ncasare, bisognava aspettare l’inverno per assa-porare queste delizie.

Nella casa colonica niente si gustava all’istante. Solo il la-voro era immediato e aveva precedenza assoluta.

Per tutto il resto si attendeva sempre il dopo. E più passa-va il tempo, più aumentava il desiderio.

E così il dopo diventava ancor più prezioso.Si ripeteva la magia della casa colonica, da anni, dove i so-

gni e le speranze, ma solo quelle, si trasformavano in ric-chezza. •

38 Il filo di Aracne marzo/aprile 2015

pippi onesimo

“Fiche cu lla mendula”

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