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PosteItalianeS.p.A.-Spedizioneinabbonamentopostale-D.L.353/2003(conv.inL.27/02/2004n.46) -art.1,comma1,D.C.B.Trento-Periodicoquadrime- strale registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1132. Direttore responsabile: Sergio Benvenuti - Distribuzione gratuita - Taxe perçue - ISSN 1720 - 6812 IN QUESTO NUMERO LA CIVILTA’ DEI CIBI anno dodicesimo numero trentatre set./dic. 2010

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Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) - art. 1, comma 1, D.C.B. Trento - Periodico quadrime-strale registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1132. Direttore responsabile: Sergio Benvenuti - Distribuzione gratuita - Taxe perçue - ISSN 1720 - 6812

IN QUESTO NUMEROLA CIVILTA’ DEI CIBI

anno dodicesimo numero trentatre set./dic. 2010

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ALTRESTORIE – Periodico quadrimestrale di informazionePeriodico registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1.132 ISSN 1720-6812Comitato di redazione: Paola Bertoldi, Giuseppe Ferrandi, Patrizia Marchesoni, Paolo Piffer, Rodolfo Taiani (segretario)Direttore responsabile: Sergio BenvenutiHanno collaborato a questo numero: Quinto Antonelli, Silvia Bertolotti, Stefano Chemelli, Rinaldo Dalsasso, Massimo Monta-nari, Carlo Pedrolli, Francesca Rocchetti, Maria Letizia Tonelli, Marta Villa.Progetto grafico: Graficomp - Pergine (TN).Stampa: Alcione - Lavis (TN).In copertina, Bartholomeus van der Helst: banchetto della guardia civica di Amsterdam per la celebrazione della pace di Münster

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anno dodicesimo numero trentatre set./dic. 2010

IN QUESTO NUMEROLA CIVILTA’ DEI CIBI

Editoriale 4

Cibo e civiltà: un percorso gastronomico attraverso la storia di Pietro Gerbore, a cura di Stefano Chemelli 5

La “polizia” dei cibi: alimentazione e salute in Trentino fra Sette e Ottocento di Rodolfo Taiani 10

Dalla scrivania dello storico al fornello del cuoco: interviste con Massimo Montanari e Rinaldo Dalsasso a cura di Paola Bertoldi 14

Il cucchiaio dello scapolo di mondo: le ricette di monsieur Momo, al secolo Henri de Toulouse-Lautrec, artista e viveur di Maria Letizia Tonelli 20

Il banchetto 22

“Un gioco quasi saporito” di Quinto Antonelli 23

A carnevale… ogni cibo vale di Marta Villa 25

Mangiare sul lavoro di Carlo Pedrolli 28

Cucina a porter: quando l’estetica è nel piatto di Silvia Bertolotti 31

Dialogo sulla qualità del cibo di Guido Barilla e Carlo Petrini 35

Le ricette diventano best sellers di Paola Bertoldi 38

I custodi degli antichi sapori le confraternite enogastronomiche di Paola Bertoldi 39

Infomuseo 40

Edizioni FMST: novità 45

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Non c’è mezzo di comunica-zione, a stampa o radiotele-visivo, che non dia spazio a

rubriche più o meno approfondite, dedicate alla cucina. Molti prodotti editoriali di successo sono spesso raccolte di ricette gastronomiche rivisitate, a seconda dei casi, in chiave raffinata o popolare, regionale o internazionale. Si tratta di un interesse che attesta una sorta di rivo-luzione nelle abitudini alimentari, nelle culture per-cettive del gusto e soprattutto nel modo stesso di consumare e vivere i momenti conviviali del pasto. La preparazione dei cibi, le modalità di servirli e con-sumarli sono diventati elementi rappresentativi di sti-li di vita e/o condizioni sociali. Gli spazi dell’alimen-tazione collettiva, dai ristoranti alle abitazioni private, sono diventati luoghi di socializzazione, condivisione e interscambio di esperienze che valicano lo stretto ambito nutrizionale e accolgono contaminazioni di ogni genere: il contatto stesso con il cibo dell’altro, oltre che momento di godimento personale, diven-

Editoriale ta occasione di conoscenza e in-tegrazione, talvolta sperimentato una prima volta nel corso di un viaggio e quindi proseguito. Il con-cetto stesso di ricetta è diventato metafora di corretto metodo di agire, dove all’esatta proporzione e preparazione degli ingredienti

corrisponde il raggiungimento di risultati eccellen-ti tanto davanti ai fornelli quanto nelle occorrenze quotidiane. In questo numero di Altrestorie non si vogliono certo sviluppare tutti gli elementi che emer-gono dalla lettura dell’evoluzione della cosiddetta “civiltà della cucina”, ma solo offrire una serie di spunti che possano orientare il lettore in un percorso di approfondimento, inutile dirlo, ricco di sapori, ma soprattutto di saperi che accompagnano e riflettono l’intera storia dell’uomo con tutte le sue implicazioni storico-economiche, storico-sociali e storico-cultu-rali. Si può ben dire che è l’intera storia dell’umanità ad essere servita nei piatti che ogni giorno bandisco-no le tavole di tutto il mondo (rt).

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Nell’antichità il lusso delle mense cominciò dopo le guerre persiane e raggiunse l’apice nel III secolo a.C. Farao ne, fagiani, pavoni, uro-galli furono serviti insieme a piccioni, anatre e oche. I Greci, però, sarebbero morti di fame se il mare non li avesse generosamente nutriti. Aristotele enumerava centodieci varietà di pesci. I primi fornai si ebbero sol-tanto nel 170 a.C., ma il pane rimase per secoli un cibo di lusso. Dai Greci i Romani avevano ricevuto la vite e l’o-livo; la prugna era già diffusa sotto Augusto. Tuttavia fu Virgilio il primo a nominare la castagna e Lucullo a portare la ciliegia a Roma. Arte di vivere, ideale del bello e del buono, il kalos kaga-thos dei Greci, sono tratti e caratteri dell’uomo ateniese che agisce nell’agorà, intes-sendo relazioni umane sulle note della simpatia. Il pranzo, deipnon, come il simposio, che a esso seguiva, era la scena prelibata della conver-sazione, dei piacevoli con-versari. Il Romano faceva tre pasti (jentaculum fra le 7 e le 9, prandium fra le 11 e le 12, coena a notte fonda). Una coena prevedeva l’antipasto (gustatio) ed era formata da cibi, uova, insalate e legumi, tartufi, pesci salati e marinati, ostriche; si beveva mulsum, un vino mescolato con miele. Il pasto includeva un numero sempre più grande di por-tate. Gli antipasti erano ricci di mare, ostriche crude, mol-luschi, allodole su asparagi, pollastre, ragù di ostriche e molluschi, crostacei e bec-cafichi, filetti di capriolo e cinghiale, pollame in crosta, lumache. Piatti forti sono le mammelle di scrofa, la testina di maiale, la fricassea

di polli, anitre arrosto e bol-lite, lepri, pollame, arrosto, torte di formaggio.Un must davvero indimen-ticabile poteva essere il seguente: per una vulva di scrofa riempita, preparare un ripieno di carne di maiale tri-tata, pepe pestato e comino, due porri e garum (salsa piccante). Aggiungete pepe e pinoli. Riempite la vulva bene lavata, lasciatela bollire nell’acqua con olio, garum, aneto e porri.Il contributo dell’artigiano greco all’arte di vivere fu l’an-fora che permetteva al vino di giungere gradatamente all’apice della perfezione. I Greci diedero al vino il nome e sorprendenti sono il suono come la grafia dei termini derivati: dal greco oinos pro-vengono il latino vinum, il tedesco Wein, il russo vinò, l’inglese wine, il francese vin, lo spagnolo vino e il porto-ghese vinho. La storia del vino in Italia comincia nel 750 a.C. con la colonia greca di Cuma. Due generazioni prima di Plinio, il Falerno era sul mercato, anche se i vini greci erano più apprezzati. Giulio Cesare celebrò i primi trionfi con Falerno e Chios, ma nel suo terzo Consolato egli sor-prese i convitati con una lista che comprendeva quattro vini: Falerno, Chios, Lesbo e Mamertino. Nell’età omerica i Greci usavano tappi di terra-cotta. In Campania si è usata per duemila anni la pozzo-lana che rivestirà poi anche i tappi di sughero. Il poeta Ausonio ha scritto sulle colline della Mosella versi immortali: «Quale colore dipinge i guadi dei fiumi, quando Espero ha sospinto le ombre della sera e trascolorato la Mosella con

Cibo e civiltàun percorso gastronomico

attraverso la storia

di Pietro Gerbore a cura di Stefano Chemelli

Le note storico-gastronomiche raccolte nelle pagine seguenti sono state curate da Stefano Chemelli che ha attinto al ricco materiale di Pietro Gerbore conservato presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze. Pietro Gerbore, diplomatico, giornalista, scrittore, è nato a Roma nel 1899 e si è spento a Firenze nel 1983. Originario da una famiglia valdostana all’avvento della Repubblica, per rimanere fedele al giuramento fatto alla Monarchia, si dimise dal servizio diplomatico in cui era entrato nel 1924. Collaborò a il Borghese dal 1951 al 1957 e scrisse successivamente per il quotidiano Roma. Personaggio di straordinaria erudizione, nonché instancabile scrittore, Pietro Gerbore ebbe modo di occuparsi di svariati argomenti, attingendo alla sua fornitissima biblioteca. Fra questi anche la storia della gastronomia. In particolare per le notizie qui riportate si avvalse dei seguenti volumi: Physiologie du gout, di Jean Anthelme Brillat-Savarin (Parigi 1826); Le maitre d’hotel francais ou parallèle de la cuisine ancienne et moderne di Marie Antoine Careme (Parigi 1822); Le cuisinier parisien (Parigi 1828); L’art de la cuisine française au XIXe siècle (Parigi 1835-1838); Guide culinaire, di Auguste Escoffier (Parigi 1902); Almanach des gourmands di Alexandre Balthazar Laurent Grimod de La Reynière (Parigi 1803-1810); Manuel des amphitryons (Parigi 1808); Geist der kochkunst di Karl Friedrich von Rumohr (Francoforte 1822).

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il verde delle colline. Le cime delle colline tremolano nelle increspature delle onde, i pampini s’agitano in lontananza e i grappoli si gonfiano nella corrente cri-stallina».

Il MedioevoI monasteri promossero la pietà, l’amore del pros-simo e l’agricoltura. Una cosa non potevano trasmet-tere: l’arte di vivere. Essa venne dall’Oriente. L’Egitto insegnò metodi di irrigazione del terreno, che gli Arabi portarono in Spagna. Il riso, giunto dall’India a Babilonia, seguì gli Arabi in Egitto e in Spagna. Le lingue moderne documentano la sua diffusione: l’arabo ruzz si trasformò nel greco oryza, nello spa-gnolo arroz, nel francese riz e nel romeno orez. Chi legge le Mille e una notte, un libro composto in Egitto alla fine del Medioevo, può rendersi conto di quanto gli Arabi fossero golosi di sorbetti, dolci, gelati. L’a-rancio (arabo nârang, spagnolo naranjo, francese orange) era stato portato dall’India alla costa orien-tale dell’Arabia. In Siria gli Arabi conobbero la prae-coqua, le aggiunsero un articolo facendone albarkuk quindi la piantarono in Sicilia, nell’Italia Meridionale e in Spagna, dove fu conosciuta come albericocca, albicocca e albericoque. Anche in Siria essi ave-vano incontrato il malum persicum, denominandolo

firsich (tedesco Pfirsich) o firsik, e ne trassero una specie finissima, che battezzarono dorâkin, che in Sicilia e in Italia fu la «duracina».Con la villa romana era scomparso il triclinium: sol-tanto nel secolo XVIII verrà nuovamente distinto un ambiente speciale per i pasti. Il signore feudale visse come un contadino: famiglia, ospiti e servi mangia-vano allo stesso tavolo. Nel secolo XI il Signore e la sua Dama disponevano di una tovaglia, simbolo che denotava rango e eguaglianza di nascita. Apparivano i potages, ai quali seguivano pesci e arrosti. Culmine del pasto erano gli entremets, dolci, gelatine variopinte, cigni, pavoni e fagiani arrostiti, interi maiali e vitelli. Il dessert consisteva di frutta cotta e fresca, quindi il pasto finiva con la issue, nel corso della quale si servivano pasticcerie. «Tagliare» era un’arte superiore che spettava al scissor, un ruolo che mirava alla perfezione. Signore e padrone della cucina era il queux (coquus, cuoco), che assag-giava i potages e i brodi e controllava in modo ferreo i ragazzi che lavorano con lui. Il destino del vino fu deciso dal barile di legno. L’an-fora sopravvisse soltanto a Bisanzio e in Spagna. L’aringa, fondamentale per la Lega Anseatica, sfamò buona parte di un’Europa bisognosa. L’oca e il pavone erano appannaggio dei grandi. Cigno, cicogna e cor-

morano erano considerati com-mestibili, scoiattoli, ricci e orsi finivano in cucina, il capriolo e il cervo erano destinati ai re. Apice dell’arte culinaria erano i pasticci, i ragù e gli arrosti.

Il Rinascimento e l’etá del baroccoNel De Civilitate (1526) Erasmo indicava regole di rispetto reci-proco e buona creanza da tenere anche a tavola in un periodo nel quale il riso e i pomodori diven-gono il fondamento della cucina nell’Europa meridionale e la patata sostituisce i cereali nel settentrione. Si diffonde l’olio a scapito dello strutto. Bartolo-meo Sacchi (1421-1481) scrisse nel 1473 l’Opusculum de obso-niis ac onesta voluptate, un saggio di filosofia e igiene che abbraccia generosamente la culinaria. Verso la metà del XVI secolo a Firenze si usa diffusa-mente la fuscina, la forchetta ma è a Venezia dove si trovano i cibi migliori: ostriche, pesci, tartufi,

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mortadella, salcicce, formaggio, storioni, allodole, quaglie provenienti da buona parte della penisola.Sotto Luigi XIV la Francia proietta la sua arte gastro-nomica a livello internazionale. L’appetito del sovrano, attestato da familiari e commensali, era for-midabile: spesso il re vuotava quattro scodelle piene di minestre diverse, mangiava un intero fagiano, una pernice, un grande piatto di insalata, due grosse fette di prosciutto, carne d’agnello con sugo e aglio, un piatto di pasticceria, frutta e uova bollite. Dieci clisteri quotidiani ovviavano a eventuali indi-sposizioni.A Versailles il freddo era comunque così intenso da gelare il vino nei bicchieri; spesso i cibi giungevano sulle tavole già senza calore. La Francia è la patria dei potages, ben cinquecento varietà, ma sono le entrées la parte più solida di un pasto, mentre l’ar-rosto assurge a piatto centrale del pasto. Il gelato giunge a Parigi dall’Italia dopo il 1660 e nel XVIII secolo la pasticceria in genere toccherà lo zenith. Cavolfiori, carciofi, spinaci, melanzane, piselli, gra-noturco, fagioli sono ampiamente apprezzati. La patata debutta come alimento in Europa nel 1573 a Siviglia, ma solamente dopo molti decenni il suo consumo si diffonderà nelle cucine europee, al con-trario di tè, cacao, e caffè. Il primo spopola a partire dal 1658 in Olanda e successivamente a Londra.La pianta di cacao era originaria del Messico; la pol-vere tratta dal suo seme fu utilizzata per la prima volta da Antonio Carletti sul finire del secolo XVI a Firenze e in seguito entrò lenta-mente nelle cucine di tutto il con-tinente.Il caffè si afferma definitivamente in Europa a partire dal 1669 a Parigi con la sua vendita diffusa in vari negozi; nel 1721 i caffè a Parigi erano 300, ma già nel periodo della Rivoluzione il loro numero era salito a 2.000.

L’eta dei LumiQuando Luigi XIV morì, nel 1715, si aprì una stagione caratterizzata da colori vivaci, tessuti leggeri, mode e costumi più spigliati. Wat-teau e le sue tele rappresentano l’emblema di una società nuova capace di far emergere con evi-denza la nota della socievolezza e dell’arte della conversazione. Il senso del gusto e l’importanza del cibo, al di là della mera neces-sità di sussistenza, si affermano in larghi strati della popolazione.

I gesuiti Brunoy e Bongeant, nella prefazione a un manuale di cucina apparso nel 1739, esposero un modello di culinaria moderna più semplice, più pulito e forse ancora più sapiente e consapevole. La scienza dell’artista di cucina consiste nell’ana-lisi, nel ricavo dell’essenza intima dei cibi, dei sughi nutritivi, in una combinazione dove tutto si fa valere e nulla domina. Il suo fine è di conferire ai cibi quella composizione che dai diversi ingredienti persegue l’armonia di tutti i sapori riuniti. I cibi divenivano più fluidi, tendevano a trasformarsi anche in creme, la masticazione si faceva meno faticosa. Compito del cuoco era di mettere in atto un vero processo di metamorfosi degli alimenti e degli ingre-dienti. In una città di provincia francese intorno al 1740 il pranzo poteva consistere in tre portate: manzo bollito, una entrée di vitello, un hors d’oeuvre – un tacchino, legumi, insalata, crema – formaggio, frutta, marmellata. Dopo il 1700, nel corso della guerra per la successione di Spagna, apparvero i primi servizi di porcellana di Sèvres, che si imposero per l’eccelsa bellezza e qualità. Con la caduta dell’Impero romano e l’introduzione del barile al posto dell’anfora s’inter-rompe la produzione del vino nobile. Gli azzardi della politica estera dopo la rivoluzione inglese del 1668 ne determinarono la rinascita: questo felice avveni-mento ebbe luogo in Portogallo. Dopo la scoperta del Brasile nel 1500 i navigatori portoghesi conse-guirono il monopolio del commercio d’importazione

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delle materie transo-ceaniche. I mercanti dell’Europa nordica si stabilirono nei porti portoghesi per scam-biare le loro lane e i loro pesci salati con zucchero, spezie e avorio. In tal modo lo stoccafisso divenne il cibo nazionale dei Portoghesi. Ma verso la fine del secolo XVII l’Europa settentrionale cominciò a importare direttamente le merci prima di allora ricevute dal Portogallo. Nel frattempo i rapporti commerciali fra Inghil-terra e Portogallo si erano intensificati e gli esportatori inglesi non volevano perdere quel mercato. Quindi anda-rono in cerca di altre merci di scambio e pensarono al vino. Gli inglesi accordavano ai vini portoghesi una riduzione doganale in cambio della quale i Portoghesi permettevano l’im-portazione delle pregiate stoffe inglesi.La bottiglia permetteva di trasportare il vino dal barile al bicchiere. Piccola e spessa era una variante della caraffa. In Inghilterra già sotto Elisabetta I il vino veniva imbottigliato e tappato con turaccioli di sughero. Poiché all’epoca non era stato ancora inventato il cavatappi, il sughero veniva introdotto nella bottiglia solo parzialmente; rimanevava all’esterno un’estre-mità lunga due centimetri, che poteva essere affer-rata per estrarre l’intero tappo.Nel 1639 nacque a Sainte Ménéhoulde, in Francia, Pierre Pérignon. A 19 anni si ritirò nell’abbazia di Hautvillers presso Epernay dove visse fino al 1715. Nel 1688 divenne cantiniere grazie anche a un palato sensibile e a un‘eccezionale memoria dei vini.Dom Pérignon fu il primo nella Champagne a pro-curarsi turaccioli di sughero e grazie a questo espe-diente potè imbottigliare in primavera il vino delle ultime vendemmie in bottiglie tappate con sugheri fortemente legati. L’Abbazia poté così vendere a prezzi elevati champagne spumeggiante.Nel 1743 Claude-Louis-Nicolas Möet fondò la Möet

et Chandon e dieci anni più tardi espor-tava in Inghilterra, Germania, Olanda, Austria e Russia.

La Rivoluzione fran-ceseLa Rivoluzione fran-cese fu un periodo di grandi trasformazioni anche per la culina-ria. Dalle cucine ari-stocratiche i cuochi migrarono nelle trat-torie, che aumen-tarono in quegli anni rapidamente di numero: se nel 1789 a Parigi erano attorno al centinaio, nel 1804 erano salite a 600. La trattoria fran-cese aveva caratte-ristiche equivalenti alla taverna inglese, mentre a un grado superiore si colloca-vano i restaurants. Ragù con l’aglio, la brandade di mer-

luzzo, ostriche, insalate di pollo, tartufi, acciughe, fagioli di Genova, alcune offerte che infiammavano il gourmand, ovverossia il buongustaio, la nuova figura del tempo.Impiegare un cuoco eccellente, ordinare la cantina come una biblioteca, invitare ospiti accuratamente selezionati a una mensa elegantemente imbandita erano compiti non secondari nella buona società francese; in questo contesto si inseriscono Grimod de la Reynière e Brillat-Savarin, gli autori dei più importanti libri letterari di cucina dei primi decenni del XIX secolo. Nasce una dottrina del gusto, cioè del senso che ci mette in relazione con le cose sapo-rite attraverso la sensazione che esse provocano. La gastronomia indaga anche l’effetto delle vivande sulla mente dell’uomo, sulla immaginazione, sullo spirito, sul giudizio, sul coraggio e sulle percezioni.

L’Ottocento: il secolo dell’alta borghesiaLa rispettabilità quale ideale sociale maturò negli ultimi due decenni del secolo XVIII e raggiunse il suo apice tra il 1840 e il 1855, per poi spegnersi gra-dualmente. Il sostanzioso pasto della sera divenne un vero evento sociale.

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Un ampio numero di prescrizioni sapienziali regolava la vita del signore agiato, acculturato, dignitoso: un numero massimo di dodici commensali per consen-tire una conversazione pacata, una scelta accurata dei convitati con affinità di gusti e tratti amabili ma senza eccessi, pietanze in numero limitato, vini di prima qualità, con una progressione corretta di cibi e bevande a decrescere per forza e sostanza, a mez-zanotte tutti a letto. Questo mondo, solo per fare un esempio, è vividamente rappresentato nei Bud-denbrook di Thomas Mann.Un’opera letteraria rappresentativa di una nuova mentalità fu il Geist der Kochkunst di Karl Friedrich von Rumohr (1785-1843), pubblicato nel 1882: l’arte di cucinare viene rappresentata come capacità di trasformare la natura in cultura rispettando il dogma secondo il quale bisogna percepire il sapore genuino di quello che si mangia. Questa nuova concezione,

estranea al pensiero francese, proveniva dalla corte di Hannover, dove non si soffrivano complessi di inferiorità nei confronti di Parigi e dintorni. Qui nel 1826 ebbe luogo lo storico pasto al quale Balzac invitò il suo editore Werdet e nel corso del quale il romanziere divorò cento ostriche di Ostenda, dodici cotolette d’agnello, un’anitra giovane, un paio di pernici arrosto, una sogliola, senza dimenticare gli antipasti e la frutta, mentre l’editore si accontentò di un potage e di un quarto di pollo. Sainte-Beuve, il Principe Napoleone, lo storico Taine, gli scrittori About, Flaubert e Renan il 10 aprile 1863 non furono da meno in una colossale mangiata di trote e fagiani divenuta proverbiale.

L’epoca dei nazionalismiIl massimo centro gastronomico spagnolo è Bilbao, dove nasce il Gargantua di Rabelais. I suoi piatti carat-teristici sono il besugo (pagellus acarne – orata), le sardine, il vitello di mare, le anguille. Il migliore cocido

(bollito) di Spagna è quello dell’Alava (filetto a la ala-vesa). Piatto nazionale delle Asturie è la fabada, per la quale occorrono salcicce indigene, estongos e fagioli di prima categoria; in questa ricetta il patriottismo locale ravvisa il prototipo della cassoulette toulou-saine. Madrid vanta i callos a la madrilena, una trippa speciale. In Estremadura gli embustidos, salumi, nella Mancha il pisto. A Burgos la fanno da padrone gli arrosti, a Arèvalo il tostón, il maialino di latte cotto, in Andalusia il gazpacho, a Malaga le cazuelas anda-luzas, eccelse minestre. In Inghilterra svettano i pies, pasticci di tradizione medievale, l’Ham and Veal Pie (prosciutto e vitello) e il Partridge Pie, a base di per-nici. Per la Francia scegliamo la Borgogna per l’armo-nia tra cibo e vino e il Périgord, terra di Mointaigne, ma anche di tartufi.In Italia la culinaria regionale è un mosaico di civiltà: a nord del Po la terra del riso, a sud del Volturno quella dei maccheroni (un libro di Prezzolini ne narra la storia). Altrove la vocazione centralizzatrice della nazione seppe manifestarsi anche in una haute cui-sine unitaria; la cucina italiana continuò sempre a essere un’“espressione geografica” e a mantenere forti differenziazioni regionali. Torino fu la prima città d’Italia che ebbe un restaurant di livello parigino. L’Emilia e la Romagna sono le Fian-dre dell’Italia: il mercato di Bologna è come quello di Anversa; «alla bolognese» indica un sugo di carne arricchito con pomodori rossi e spessi nonché molto formaggio. I maccheroni sono una caratteristica del vero napoletano, che li mangia soltanto con il formag-gio; tuttavia essi sono menzionati nelle fonti più anti-che lontani dalla Campania, in Sardegna o in Sicilia. In Trinacria, si trovano tutti i dolci citati nelle Mille e una notte.Chiudiamo con il menu di un celebre pranzo tedesco: Vorspeise (antipasto a base di caviale), Suppe (zuppa), Seezunge (sogliola del Mare del Nord), Masthuhn (pollastro), Süsse Speise (un semifreddo). Prosit.

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“L’attenzione pel vitto non è sola-mente necessaria per la conser-vazione della salute; ella è altresì importantissima nel governo de’ mali”. Così Wilhelm Buchan, nel suo celebre trattato Medicina domestica, scritto nella seconda metà del Settecento, sintetiz-zava dal punto di vista medico la duplice valenza di una corretta ed equilibrata alimentazione: da una parte strumento preventivo per la tutela dell’integrità fisica e dall’altra indispensabile supporto a qualsiasi terapia nella cura delle infermità.Già nei secoli precedenti numerosi autori medici si erano occupati di questo tema soffermandosi sulle caratteristiche e le cautele di assunzione dei diversi alimenti. Basti citare, a titolo d’esempio, l’illustre medico umbro Castor Durante da Gualdo (1529-1590). Costui nella sua opera Il tesoro della sanità (1586), che conobbe grande diffusione, dedicò ampio spazio al tema del cibo. Accanto alle norme igieniche per ogni momento della giornata e per ogni condizione della vita umana (il sonno, la veglia, il moto, la quiete, i diversi stati d’animo) l’Autore esa-mina singolarmente decine e decine di prodotti sud-divisi per gruppi: vegetali (frumenti, legumi, erbe, radici, frutti), animali (carni e pesce), condimenti e bevande. Di ognuno indica le proprietà generali ed

espone le avvertenze necessa-rie per la migliore assunzione; sono così ricordate le qualità, gli effetti positivi o negativi sul corpo umano e gli eventuali rimedi. I medici che a più riprese nel corso del Settecento tornarono ad occuparsi di alimentazione ricorsero a una modalità espo-

sitiva identica a quella proposta ancora due secoli prima da Castor Durante da Gualdo, sia nei conte-nuti, sia nei principi di riferimento, quelli della medi-cina ippocratico-galenica.Qualcosa però era mutato nelle motivazioni e negli obiettivi di chi scriveva. Questi non erano più mossi solo dal desiderio di fornire ai singoli individui un bagaglio di utili suggerimenti per “vivere sano”, rei-terando la tradizione medioevale dei regimen sani-tatis, ma anche d’istruire la popolazione nel suo complesso affinché potesse beneficiare dei vantaggi garantiti da un’attenta osservanza delle regole sug-gerite, tanto rispetto al vivere quotidiano quanto, più nello specifico, all’alimentazione. Si voleva in altri termini saldare l’enunciazione medico-scientifica di principi teorici con l’azione politico-amministrativa volta al perseguimento del cosiddetto “benessere pubblico”.In questa prospettiva s’inserirono i fondamentali

La “polizia” dei cibialimentazione e salute

in Trentino fra Sette e Ottocento

di Rodolfo Taiani

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lavori del già ricordato Buchan, ma soprattutto di Samuel August Tissot e di Johann Peter Frank. Le loro teorizzazioni esercita-rono un notevole influsso in tutta Europa e contribu-irono a delineare una sorta di “mappa dei disordini” sulla cui base esercitare una preventiva e attenta sorveglianza per la tutela della “salute pubblica” anche nel settore alimen-tare.Tolte le caratteristiche di ogni singolo alimento che ne suggerivano il consumo in particolari combinazioni, in determinati momenti dell’anno o della giornata, in certe preparazioni o quantità, l’assillo costante di coloro che fra Sette e Ottocento si occupano di alimentazione da un punto di vista politico-sanitario sembra ricondursi univoca-mente al potenziale venefico che ogni prodotto, qua-lora utilizzato ad uno stadio di maturazione imper-fetto, “inquinato” da agenti esterni o semplicemente deteriorato a causa di tempi o pratiche di conserva-zione inadeguati, poteva sprigionare: così il grano e i vari vegetali, ma anche carni, pesci, grassi e con-dimenti nonché ogni genere di bevanda. Sarebbe oltremodo lungo percorrere l’ampia casistica, che, prodotto per prodotto, i teorici della polizia medica predispongono a sostegno della visione complessiva di base. In questa sede è sufficiente ricordare quelle che potremmo definire le principali avvertenze.Si sollecita soprattutto l’attenzione nei confronti dei grani, cui si lega la “commestibilità” del suo prin-cipale e più diffuso derivato, il pane. Le alterazioni patologiche delle piante, la presenza di muffe, la commistione con “erbacce” non meglio specificate, il comportamento deliberatamente fraudolento di alcuni rivenditori e panettieri senza scrupoli erano altrettante fonti di danno per l’integrità fisica delle persone. Altra eventualità, cui viene ricondotta la casistica dei “disordini” relativi ai vegetali, è il consumo acci-dentale di piante tossiche, sul quale inciderebbe, secondo un’opinione diffusa, più l’ignoranza che la malizia. I funghi, che sono segnalati come la prin-cipale causa di avvelenamento, avrebbero dovuto, secondo Tissot, essere addirittura banditi dalla

tavola se non proprio dalla vendita.Anche il consumo di frutta immatura avrebbe com-portato rischi per la salute umana. Una corretta nor-mativa avrebbe dovuto garantire l’abbondanza e il giusto prezzo della frutta fresca e matura contra-stando l’usanza del pas-sato, ricordata sempre da Tissot, di proibire il con-sumo della frutta matura alla fine dell’estate, quando insorgevano maggior-mente dissenterie e infer-mità intestinali.Dai vegetali alle carni il genere di preoccupazione non cambia. L’avvertenza principale suggerisce la massima cautela rispetto alla “contaminazione” occulta delle carni in caso di animali deceduti per

malattia o per tecnica di macellazione errata.Anche per le bevande il timore centrale è sempre costituito dai rischi dell’adulterazione. Fra i princi-pali imputati sono segnalati gli interventi sul vino per migliorarne artificiosamente le qualità e le caratteri-stiche di bevibilità, ma anche la pratica di diluire il latte con l’acqua, di venderlo scremato o addirittura d’imitarlo con una miscela di acqua, amido e zuc-chero. Tanto per gli alimenti solidi quanto per quelli liquidi si stigmatizza infine il pericolo di tossicità qualora preparati e conservati in recipienti non idonei a tale scopo: in particolare contenitori di piombo, di peltro o di rame.Il quadro teorico sinteticamente esposto orientava giocoforza l’osservazione finalizzata a segnalare ele-menti di rischio reale o presunto per la salute umana. Se ne ha puntuale riscontro guardando ad esempio all’area trentina della prima metà dell’Ottocento. In una lettera-rapporto del 6 giugno 1812, indirizzata al Podestà di Riva del Garda, il medico rivano Beni-gno Canella denunciava il crescente consumo nella zona in cui operava di pane confezionato con solo granoturco o con grano di cattiva qualità, preve-dendo, in mancanza di serie misure di correzione del fenomeno, uno sviluppo incontrollato della pellagra (Archivio di stato di Trento, Giudizio distrettuale di Vezzano, Sanità, 1822, cart. nn.).A nulla, dunque, sarebbero valsi gli ausili della

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scienza medica e le cure dispensate alla popolazione contro la malattia che cominciava allora ad affacciarsi appena nella parte meridionale del Trentino se prima non si fosse riusciti ad assicurare ai poveri contadini un vitto sicuramente più abbondante, ma soprattutto più “sicuro” di quello consumato in quel momento. Ancora Benigno Canella, nel medesimo rapporto, criticava il consumo di una bibita diffusa specie in periodo di vendemmia. Si trattava del cosiddetto “acquarolo”, sorta di “liquore fermentato”, ottenuto dalla miscela di tanta acqua con una minima quan-tità d’uva di qualità inferiore. Il medico riconduceva l’insorgenza di numerosi malesseri all’uso di questa bevanda. A tale convincimento sembra far eco un rapporto del Giudizio distrettuale di Vezzano dell’8 marzo 1822, che indicava nella proibizione dell’”uso del vino derivante da uve immature e quindi acido di sua natura” un utile provvedimento per contrastare la temuta diffusione della pellagra (Archivio di stato di Trento, Giudizio distrettuale di Vezzano, Sanità, 1822, cart. nn.).In un altro rapporto del 16 luglio 1815, nel pieno della terribile carestia che imperversò nel triennio 1814-1816, il medico rivano torna ad esprimere i suoi timori nei confronti del drastico peggioramento regi-strato nella quantità e nella qualità dei cibi ordinaria-mente presenti sulla mensa delle frange più povere della popolazione. Mais e qualche verdura di qualità scadente formavano la gran parte del vitto caratte-rizzato, dunque, a suo dire da una grave penuria di carne, pane di frumento, latte e suoi derivati e perfino patate, la cui coltura doveva essersi già largamente affermata (Archivio comunale di Riva del Garda, Atti riguardanti la sanità, cart. 45).Quanto testimoniato dal medico Canella in termini di percezione ed atteggiamenti culturali trova piena corrispondenza nell’azione intrapresa dalle autorità politico-amministrative, che non solo mostrano di accogliere le cosiddette avvertenze generali elabo-rate dai teorici della polizia medica, ma cercano di applicarle in altrettanti interventi normativi, volti a contrastare quelle che erano ritenute “errate” abitu-dini alimentari.Un avviso reso noto dal Podestà di Riva del Garda il 10 maggio 1811, così come un ordine del Capitanato circolare di Trento del 23 agosto 1836, proibiva la vendita di frutta fresca non perfettamente matura. Un avviso pubblicato dal Giudizio distrettuale di Vezzano nel 1823 vietava la raccolta e la vendita delle “nocciu-ole immature”. Una circolare, infine, del Capitanato circolare di Rovereto, datata 29 settembre 1850, invi-tava i parroci a far opera di convincimento presso i fedeli, affinché rinviassero la raccolta dei “prodotti del suolo” ancora immaturi a causa di una stagione particolarmente inclemente.

Altrettanto sentito appare il timore nei confronti dell’avvelenamento accidentale causato dell’in-gestione di vegetali tossici, specie i funghi. A più riprese specifici avvisi pubblici con i quali s’invitava la popolazione a prestare la massima attenzione nella raccolta e nell’ingestione raccomandavano prima di ogni consumo la preventiva ispezione da parte di “esperti conoscitori”. Una circolare del Capitanato di Trento, datata 30 dicembre 1820, incaricava i vari uffici giudiziali “d’invigilare che non si portino e si vendono sulle pubbliche piazze, che quelle specie di funghi che sono riconosciuti da tutti per innocui, e di ordinare ai curatori d’anime del proprio distretto di avvertire il popolo dall’altare di non raccogliere e di non cibarsi d’altra sorte di funghi, che di quelli, che sono riconosciuti generalmente buoni”. Non manca-rono neppure suggerimenti circa gli accorgimenti di cottura da adottare per eliminare eventuali tracce di veleno. Un avviso del 1837 del Capitanato circolare di Trento invitava a mangiare le spongiole solo dopo lunga cottura in abbondante acqua.Particolare riguardo è riservato ai bambini. Il Capi-tanato circolare di Trento, ad esempio, avvertiva nel 1822 tutti i maestri affinché istruissero adegua-tamente i propri scolari sul modo di riconoscere alcune piante ed erbe palesemente pericolose e in particolare la cicuta, poiché le sue foglie e le sue radici erano spesso confuse rispettivamente con il prezzemolo e le carote. La circolare appena ricordata recepiva anche le conclusioni cui era giunta un’appo-sita inchiesta promossa per appurare quale genere di bacche potessero causare “cattive e funeste con-seguenze” se ingerite.Altra eventualità da contrastare e della quale si trova puntuale riscontro nella normativa era il consumo di carni prelevate da bestie decedute per morbo. Un decreto governativo del 13 settembre 1829 stabiliva, nel caso di bestie “crepate”, l’obbligo della preven-tiva autorizzazione da parte di un medico prima di ogni uso alimentare. In simile prospettiva sarebbe stato quanto mai opportuno poter attivare in ogni paese o distretto la figura del cosiddetto “scortica-tore” chiamato a svolgere funzioni di visitatore delle carni e più nello specifico a sorvegliare l’esatta appli-cazione delle norme che proibivano ogni tipo di ille-cito utilizzo dei capi di bestiame vittime d’infermità contagiosa. Innumerevoli, infine, sono gli “avvertimenti” circa lo stato dei recipienti utilizzati per la cottura e la conser-vazione dei cibi. Già un’ordinanza aulica del 14 aprile 1771, rinnovata il 2 agosto 1773 e infine nuovamente pubblicata per la Provincia del Tirolo il 28 marzo 1816, imponeva l’obbligo di stagnare i recipienti di rame. Successivamente un’”ordinazione concer-nente la vendita di veleni, il traffico di merci, ed erbe

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velenose, l’uso di vasi di cucina, da tavola, e da bere, di lavoro da pentolajo, di rame, e di ottone, e final-mente la falsificazione delle bevande”, pubblicato il 18 dicembre 1829, insediò speciali commissioni giu-diziali incaricate di visitare annualmente le rivendite autorizzate di veleni, le drogherie, i “trafficanti di pro-dotti chimico-farmaceutici”, i “negozianti d’erbe”, ma soprattutto le locande e le osterie per verificare che i recipienti in rame utilizzati per cucinare o conservare i cibi fossero perfettamente stagnati.Anche le disposizioni che si occupano di bevande riprendono, infine, gli argomenti cari alla cosiddetta “mappa dei disordini” elaborata dai teorici della poli-zia medica. Una circolare governativa del 10 febbraio 1821, ma non è che uno dei tanti provvedimenti, proi-biva la preparazione di bevande vinose utilizzando la feccia o vini di qualità inferiore, mentre per quanto riguardava l’acqua l’attenzione era perlopiù concen-trata da una parte sull’uso promiscuo delle acque delle fontane e dall’altra sulla scarsa attenzione posta nelle operazioni di imbottigliamento delle acque di fonte destinate alla commercializzazione. In un caso s’intervenne con la reiterazione di regolamenti pub-blici che vietavano determinate lavorazioni nelle vasche delle fontane e dall’altra con l’emanazione di precise nome sui sistemi di chiusura da adottare o sui controlli da effettuare in relazione alle partite in giacenza nei depositi. Non esistevano altri modi per far fronte altrimenti al pericolo rappresentato dall’ac-qua impura o, con concetto che stava prendendo forma proprio in questo periodo, non potabile.Ad esempio una normale della Reggenza del Tirolo italiano del 3 giugno 1853, constatato che in diversi luoghi della città di Trento si vendevano acque aci-dule di Rabbi e di Pejo in bottiglie “mal otturate”, ordinava una visita a tutti i depositi di acque minerali della città e il sequestro immediato di tutte le botti-glie con caratteristiche non corrispondenti a quelle previste dalla normativa.L’intervento volto a favorire la più ampia diffusione possibile di comportamenti aderenti ai principi teo-rici affidava, tuttavia, le proprie chances di successo non solo allo strumento normativo. Altrettanto importante era ritenuta l’azione pedagogico-corret-tiva sviluppata attraverso un’agguerrita pubblicistica che suggeriva stili di vita più adeguati alle finalità di salute pubblica perseguite. È il caso emblema-tico dell’opera Uberto ossia le serate d’inverno pei buoni contadini, scritta dal religioso Francesco Tecini (già autore nel 1805 dell’Omelia contro i pre-giudizi che ancora s’oppongono alla vaccinazione). In quest’opera l’autore immagina le conversazioni del saggio contadino Uberto tenute all’interno delle stalle, quando nelle lunghe e fredde serate d’inverno le persone s’incontravano a fare filò. Le conversa-

zioni, lasciate da parte quelle che l’Autore definisce “assurde fiabe”, sarebbero dovute diventare occa-sione preziosa per lo scambio e apprendimento di tutta una serie di utili ed elementari precetti nel campo della medicina, dell’igiene, dell’agricoltura e via dicendo.Al di là di quanto tratteggiato da alcune teorizzazioni e dalle conseguenti norme sembra però che la popo-lazione conoscesse il nesso alimentazione-salute e sapesse gestire i propri bisogni alimentari meglio di quanto queste fonti non facciano supporre, muoven-dosi con padronanza fra le risorse offerte dall’am-biente in cui vive immerso. Le voci di molti medici o altri testimoni occasionali costituirebbero in tal senso più il segnale di sensibilità e attenzioni partico-larmente accentuate su determinati aspetti, che non la rappresentazione reale della gravità di una condi-zione o semplicemente della sua esistenza. L’impres-sione è che una cosa sia la situazione disegnata dalle trattazioni teoriche e altra quella corrispondente allo stato reale delle cose, almeno per tutta la prima metà dell’Ottocento. La riflessione medica stessa, fedele alle impostazioni del passato, scontava una fonda-mentale ignoranza rispetto ai meccanismi biologici della nutrizione e quindi di una corretta alimenta-zione. Siamo nel 1871 quando il medico trentino Leonardo Cloch dà alle stampe i suoi Avvertimenti al popolo per vivere lungamente sano di corpo e di mente: sono passati tre secoli ma ben poco sembra cambiato rispetto al modello prospettato da Castor Durante da Gualdo o per citare altro esempio, altret-tanto noto, da Baldassarre Pisanelli con il Trattato della natura de’ cibi, et del bere (1583).

Trattato della natura de’ cibi, et del bere è il titolo della fortunata opera scritta dal medico bolognese Baldas-sarre Pisanelli: apparsa per la prima volta a Roma nel 1583, ebbe più di 25 edizioni fino a tutto il Settecento. L’autore prende in esame i vari pro-dotti alimentari e di ognuno descrive le caratteristiche, “i giovamenti e i nocumenti” che tale alimento può provocare con i relativi rimedi. Pisanelli studiò a Bologna, dove si laureò in medicina e insegnò fino al 1562, quando comin-ciò i suoi viaggi in Tunisia per studiare la peste. Rientrò a Roma, dove fu medico all’ospedale di Santo Spirito di Saxia. La prima edizione del for-tunatissimo Trattato è seguita da edizioni di for-mato più piccolo, dimostrazione della diffusione più popolare del testo.

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Abbiamo intervistato, met-tendo a confronto fra loro due diverse visuali, un noto storico dell’alimentazione Massimo Montanari e un apprezzato chef trentino, Rinaldo Dalsasso. Massimo Montanari è professore ordi-nario di Storia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Bologna, dove insegna anche Storia dell’alimentazione e dirige il Master europeo in Storia e cultura dell’alimentazione (attivato assieme alle università di Tours, Barcellona e Bruxelles). È codirettore della rivista Food & History, pubblicata dall’Institut Européen d’Histoire et des Cultures de l’Alimentation. Tra le principali pubblica-zioni: L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo (1979), Alimentazione e cultura nel Medioevo (1988), La fame e l’abbondanza: storia dell’alimentazione in Europa (1993), Il cibo come cultura (2004), Il formag-gio con le pere: la storia in un proverbio (2008), L’iden-tità italiana in cucina (2010). Con Alberto Capatti ha scritto La cucina italiana: storia di una cultura (1999).

Massimo Montanari: “Le abitudini alimentari sono legate alle condizioni naturali, ma anche ai condi-zionamenti culturali di ogni società”.

Dal punto di vista storico, in che periodo il cibo smette di essere solo il soddisfacimento di un biso-gno primario e diventa in qualche modo parte della tradizione e della storia di una popolazione? Come e quando si è cioè sviluppata una “cultura del cibo”?

Io credo che di “cultura del cibo” si possa parlare da sempre. In modi diversi, più o meno complessi, più o meno elaborati, gli uomini hanno sempre vis-suto il rapporto col cibo come qualcosa di più che un semplice gesto nutrizionale. Basta pensare alla con-vivialità, alla spartizione del cibo come espressione tipica della specie umana: in quel momento, il cibo non solo s e r v e, ma s i g n i f i c a. Perciò non credo esista un momento storico in cui questo accade. La storia dell’uomo coincide con la storia della cultura del cibo. Allo stesso modo, l’esigenza del piacere accompagna da sempre l’esigenza di nutrirsi. Sono tutte varianti (il bisogno, il piacere, la comunicazione) che si fondono insieme a costruire il patrimonio di saperi e di idee, le “tradizioni”, materiali e intellet-tuali, che conferiscono identità a un gruppo umano.È quindi possibile analizzare una società, il suo “dna” anche attraverso le abitudini alimentari? Le tradizioni gastronomiche non dipendono probabil-mente solo da elementi legati alla natura e all’am-biente, ma avranno a che fare anche con la storia, l’organizzazione sociale, le credenze religiose, le abitudini culturali. Esiste cioè una sociologia della gastronomia?Certamente. Le abitudini alimentari sono legate alle condizioni naturali, ma anche ai condizionamenti cul-turali di ogni società. D’altronde, la storia umana vive sempre in questa interazione fra natura e cultura. La cosiddetta “natura” è la pre-condizione su cui si costruisce la cosiddetta “cultura”. I due termini inte-

Dalla scrivania dello storico al fornello del cuoco

interviste a Massimo Montanari e Rinaldo Dalsasso

a cura di Paola Bertoldi

Ha curato Il mondo in cucina: storia, identità, scambi (2002); con Jean-Louis Flandrin, Storia dell’alimentazione 1996; con Françoise Sabban, Atlante dell’alimentazione e della gastronomia 2004. I suoi lavori sono tradotti in numerose lingue. Rinaldo Dalsasso è oggi uno dei più

noti chef del Trentino, anche se, parlando della sua professione, lui preferisce essere chiamato “brusa padele”. Originario di Borgo Valsugana, 58 anni, dalla fine degli anni sessanta, dopo la scuola alberghiera, ha sempre operato nel settore e collezionato ricono-scimenti. Ha lavorato inizialmente a Verona, poi ha gestito la trattoria Celeste di Rovereto, fino a quando, il 27 ottobre 1979, giorno del suo compleanno, ha inaugurato il ristorante Al borgo di Rovereto, che l’ha reso famoso ed è stato il primo in Trentino ad otte-nere la stella Michelin. Dopo aver lasciato la guida del Borgo nel 2004, si è trasferito, l’anno successivo, a Besenello, dove continua a lavorare, tiene corsi di cucina e organizza cene e catering.

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ragiscono continuamente: il biologico sul culturale, il culturale sul biologico.Un aspetto importante della storia della gastrono-mia è la trasmissione del sapere. A questo propo-sito, quando nascono i primi ricettari e come ven-gono tramandate le tradizioni culinarie? Prevale una tendenza a divulgare ricette e informazioni oppure si tende a considerare l’abilità culinaria come un segreto da custodire e non diffondere?Direi che la tendenza principale (a parte il “gioco” dei segreti, che ogni tanto ci piace fare) è quella a insegnare e trasmettere i saperi. Ciò è il fondamento di ogni cultura. La trasmissione avviene, per quanto riguarda la cucina, sia in forma orale, sia in forma scritta. Le società che trasmettono i saperi in forma esclusivamente orale tendono a essere più statiche, quelle che si affidano anche allo scritto riescono ad “accumulare” di più, a proporre anche sperimenta-zioni, a essere insomma più innovative. Però questa regola conosce anche eccezioni. In ogni caso, i ricet-tari (o almeno, le ricette) sono scritte fin da quando – e là dove – l’uomo usa la scrittura. Ce ne sono perfino nelle tavolette cuneiformi dell’antica Mesopotamia. Viceversa, anche le società molto alfabetizzate come quelle moderne amano spesso affidare alla parola, al “consiglio” orale l’apprendimento e l’insegnamento culinario. Oggi siamo sommersi di libri di cucina, ma quando abbiamo bisogno di un’informazione telefo-niamo alla mamma o a un conoscente “esperto”.Nella società occidentale sono stati messi a punto una serie di “canoni gastronomici” in occasioni di varie celebrazioni. Nell’antica Roma si celebrava il matrimonio mangiando una focaccia di farro alla presenza del pontefice massimo. Da allora è iniziata la tradizione di festeggiare le nozze sedendosi a tavola. Come si è evoluta da allora la consuetudine del banchetto nuziale, sia dal punto di vista dei cibi che della “scenografia”?Il banchetto di nozze è un momento essenziale della socialità, ossia di rituali che in tutte le società espri-mono principalmente col cibo l’idea della festa e del rito. Quindi l’evoluzione del banchetto di nozze segue l’evoluzione degli usi culinari: ciò che rimane stabile è l’idea di concentrare in quell’evento una quantità di energie positive, il “meglio” di ciò che si può elabo-rare e offrire. Il banchetto di nozze è lo sforzo estremo di produzione e di rappresentazione della propria cultura (alimentare, ma non solo). Aggiungerei che, in passato, questo momento aveva un valore ancora più forte di oggi: nel Medioevo, per molti secoli, il matrimonio non è concepito come un rito religioso ma, fondamentalmente, come un banchetto in cui le famiglie si incontrano, si festeggiano, si manifestano all’esterno.

Come sono cambiate nel tempo, le “buone maniere” a tavola o il modo di apparecchiare? Ci sono state significative trasformazioni attraverso i secoli?Non si può parlare di “buone maniere” come se si trattasse di realtà “oggettive”. Ogni società ha le sue. Anzi: all’interno di ogni società, qualcuno definisce che cosa sono le “buone maniere” al fine, princi-palmente, di distinguere un gruppo, una élite dalla massa: separare chi pratica le “buone maniere” (definite tali dagli stessi che le praticano) da chi n o n le pratica. In ogni caso, non credo si possa parlare di un’evoluzione in questo campo, ma solo di realtà diverse nel tempo e nello spazio. Ciò che in Europa oggi è definito “buona maniera” può non esserlo in Giappone, o poteva non esserlo qui da noi nel Medioevo. E chi giudicherà questa “bontà”? In realtà, soprattutto in casi come questi, siamo costretti ad accettare un relativismo culturale assoluto.Nella storia della società occidentale, il cattolice-simo ha spesso considerato peccaminosi i piaceri della buona cucina, imponendo digiuni o limitando alcuni cibi. In generale, come ha influito la religione sulla tradizione culinaria?In tutte le società, la religione ha avuto un’importante influenza sui modi di vivere e di pensare. La tradi-zione cristiana è stata da questo punto di vista molto contraddittoria: da un lato ha condannato la gola come peccato capitale; dall’altro ha tollerato i pia-ceri della gola come piaceri “minori”. D’altronde pro-prio i pensatori medievali sottolinearono l’imperiosa necessità di domare i peccati di gola, poiché pur costituendo il primo e più semplice, all’apparenza innocente, piacere della vita, si trascinava dietro mali ben più pericolosi. Altri, però, hanno proposto immagini diverse: non tanto di penitenza, quanto di rispetto della natura e del mondo, di sobria moderatezza. La tradizione cristiana insomma propone soluzioni molto diverse. Il cattolicesimo, in particolare, ha accettato general-mente meglio i piaceri della tavola, mentre il mondo protestante ha sviluppato una maggiore severità nei confronti del corpo e dei suoi piaceri. La differenza sta nell’interiorizzare di più (per i protestanti) i mec-canismi della colpa, mentre il sacramento della con-fessione libera il cattolico da questo peso. Ciò non toglie che, come dicevano le nostre nonne, “più una cosa è cattiva, più fa bene”. Che è un discorso dalla radice moralistica, molto legato all’idea cristiana del corpo come qualcosa di cui si deve diffidare.Molto spesso, nella storia, cibi e piatti sono stati immortalati sulle tele dei pittori. All’inizio del Nove-cento una delle avanguardie, il Futurismo, ha cer-cato persino di cambiare la gastronomia. È possi-bile descrivere o comunque interpretare il rapporto che nei secoli ha legato l’arte alla gastronomia?

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L’arte medievale, legata a soggetti prevalentemente sacri, rappresenta il cibo e la tavola soprattutto come sfondo occasionale di episodi sacri, oppure come elemento centrale di episodi sacri (per esempio le Nozze di Cana). In età moderna il cibo e la tavola vengono rappresentati più direttamente, come sog-getti che interessano di per sé. Il realismo della “vita quotidiana”, o quello delle “nature morte”, diventa un vero genere artistico. Oggi mi pare che prevalga una visione piuttosto metaforica del cibo, che viene rappresentato soprattutto come immagine di qual-cos’altro (stati d’animo, rapporti interpersonali, ecc.).Oggi siamo abituati a fare attenzione ai cibi più salutari, più ricchi di sostanze benefiche per il nostro corpo, in grado di prevenire certe malattie. Questo aspetto caratterizza solo la nostra epoca oppure ha radici più lontane? Quando nasce l’inte-resse per l’educazione alimentare?Il tema della salute accompagna fin dall’antichità il rapporto col cibo. Anzi, i medici antichi (fino al Medioevo) erano profondamente convinti che il pia-cere e la salute sono funzionali l’uno all’altro: che solo un cibo che piace può fare bene. In ogni caso, la riflessione dietetica è sempre andata di pari passo con l’elaborazione gastronomica: quest’ultima, direttamente o indirettamente, ha sempre recepito e rielaborato le idee trasmesse dalla scienza diete-tica. Molti modi di cucinare, di abbinare le vivande, di ordinarle nel menu hanno avuto, storicamente, origine nella cultura dietetica, che era la prima e principale competenza che si richiedeva dai medici. Sbaglieremmo perciò a pensare che l’interesse per la salute sia tipico del nostro tempo. Anche se sono cambiati, ovviamente, i modi di interpretare la realtà. Ogni epoca ha avuto una sua dietetica e di conse-guenza una sua gastronomia.Il suo ultimo libro, L’identità italiana in cucina, propone uno studio sulla cucina italiana e sul suo contributo a rafforzare lo spirito identitario degli italiani. Anche alla luce del 150° anniversario dell’u-nificazione del Paese, si può parlare di modelli ali-mentari e gastronomici come elementi che hanno in parte aiutato e sostenuto l’unità d’Italia?Sicuramente sì. Credo che un paese, prima ancora che un’unità politica, si definisca come una realtà culturale. E poiché la cucina è un elemento essen-ziale della cultura, ritrovare un’identità culinaria “ita-liana” almeno fin dal Medioevo (come io propongo in questo libro) è un modo per riconoscere che gli italiani esistevano ben prima dell’Italia. Una cucina “italiana” esisteva, fin da allora, come “rete” di saperi e di pratiche locali, che però si confrontavano e si conoscevano reciprocamente. Ecco il punto: la cul-tura italiana è una rete di realtà locali. Il problema è: chi usa questa rete, chi ne è partecipe? Per molto tempo, poche persone: l’aristocrazia di corte, i maggiorenti cittadini che potevano permettersi di

spostarsi, o comunque di frequentare realtà diverse dalla loro; questa circolazione di idee, uomini (anche i cuochi), libri (ricettari), prodotti (attraverso i mercati cittadini) era prerogativa di pochi. In età moderna e contemporanea, gli utilizzatori di questa “rete” sono cresciuti di numero e l’unificazione anche politica dell’Italia ha certamente aiutato il fenomeno. Deci-sivo è stato il libro di Pellegrino Artusi, che ha dif-fuso questi saperi fra la piccola borghesia. Decisiva la prima guerra mondiale, che per la prima volta ha messo fianco a fianco anche gli umili, i contadini, che hanno potuto confrontare le loro abitudini. Attraverso tutti questi meccanismi si è allargato il pubblico che condivide una cultura “italiana” della tavola. Ciò che non è cambiato, e che ancora rimane, è il metodo del confronto, della condivisione, del mettere insieme le esperienze locali. La cucina italiana, come la cul-tura italiana in genere, ha avuto sempre un carattere “dialettale”, senza codificazioni unitarie, omogenee. Questo, credo, è il segreto della sua ricchezza.

Il più celebre manuale di cucina italiana è senz’altro La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene dello scrittore e gastronomo Pellegrino Artusi. Nato a Forlimpopoli (provincia di Forlì-Cesena) il 4 agosto 1820, pubblicò il testo nel 1891. Dopo un iniziale insuccesso divenne uno dei libri più letti dagli italiani e ad oggi conta 111 edizioni, con oltre un milione di copie vendute. Si tratta di un volume che raccoglie 790 ricette, dai brodi ai liquori, passando attraverso minestre, antipasti, secondi e dolci. L’ap-proccio è didattico (“con questo manuale pratico – scrive Artusi – basta si sappia tenere un mestolo in mano”), le ricette sono accompagnate da rifles-sioni e aneddoti dell’autore. La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene costituì un vero e proprio spartiacque nella cultura gastronomica dell’epoca. Ad Artusi va il merito di aver dato dignità a quel “mosaico” di tradizioni regionali, di averlo per la prima volta pienamente valorizzato ai fini di una tradizione gastronomica “nazionale”.

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Rinaldo Dalsasso: “Il vero cuoco deve cercare di ricordare e rispettare la tradizione che lo ha pre-ceduto, la storia dell’arte culinaria, la cultura della cucina”.

Lei lavora in questo settore da più di 40 anni. In generale quali sono stati i principali cambiamenti nei modelli alimentari e nel modo di rapportarsi alla scienza gastronomica?Negli anni è cambiato l’approccio alla tavola, al ser-vizio e alla presentazione dei piatti. In questi ultimi decenni lo stile di vita delle persone si è molto modi-ficato ed ha allargato le opportunità, basti pensare alla tecnologia o alla possibilità di spostarsi, che prima era molto più limitata di adesso. Lo stesso vale per l’arte culinaria. Oggi possiamo conoscere i gusti e i sapori delle altre tradizioni e questo permette con-taminazioni e incroci fra le diverse gastronomie. Inol-tre oggi possiamo contare su mezzi impensabili fino a qualche tempo fa dal punto di vista della cottura e conservazione dei cibi, come i forni polivalenti, l’ab-battitore, il microonde, la tecnica del sottovuoto. Tutti questi cambiamenti non devono però farci dimenti-care la filosofia di base dell’arte culinaria che è stret-tamente legata all’aspetto storico. Spesso, infatti, abbiamo cose belle ma con meno gusto, oppure ci troviamo in luoghi dove non si mangia più nei piatti di foggia tradizionale, ma in quelli con forme geome-triche strane che vogliono solo imitare la moda.Il vero cuoco deve cercare di ricordare e rispettare la tradizione che lo ha preceduto, la storia dell’arte culinaria, la cultura della cucina, pur avvalendosi dei nuovi mezzi messi a disposizione dalla tecnica. È in questa filosofia di fondo che io credo profonda-mente ed è per questo che ho un nome dopo 40 anni che faccio el brusa padele.

Negli ultimi anni assistiamo, anche in Trentino, alla sempre maggiore attenzione verso cibi genuini, bio-logici e privi di sostanze chimiche. Come si possono interpretare questi nuovi bisogni dei consumatori?Bisogna premettere che spesso si tratta più di una questione di marketing che non di una reale sensibi-lità verso cibi più sani. Io collaboro con la Coopera-zione e da anni vado nei supermercati e cerco di aiu-tare le persone ad acquistare prodotti di qualità, cer-cando anche di farli risparmiare. Fino a 5 o 6 anni fa c’era solo un piccolo scaffale con la merce biologica, mentre adesso la maggior parte delle cose esposte viene presentata con questa etichetta. È chiaro che a questo punto molto dipende da cosa intendiamo esattamente per alimento biologico perché spesso vengono semplicemente applicati diversi anticritto-gamici alla frutta e alla verdura, ma questo non cor-risponde ad una maggiore qualità. Inoltre, sono gli stessi consumatori che vogliono una mela che sia allo stesso tempo biologica e bellissima, senza una ammaccatura. La cosa importante è offrire una reale qualità anche al di là delle diverse definizioni che cambiano in base alle tendenze del momento.Un’altra tendenza di quest’ultimo periodo riguarda la riscoperta di cibi che facevano parte della cucina povera di un tempo e che oggi vengono sempre più apprezzati, grazie anche a iniziative come lo slow food. È possibile spiegare questo cambiamento?Lo slow food è un progetto buono e lodevole, contri-buisce a riscoprire e valorizzare storia e cultura di un territorio. Uno degli aspetti più rappresentativi della ricchezza della nostra tradizione è la grande varietà della proposta culinaria. Mi spiego: se noi proviamo lo stesso piatto in due valli diverse del Trentino, ci accorgiamo che il primo non avrà lo stesso sapore del secondo, anche solo per qualche sfumatura nel gusto. Il tortel di patate della val di Non è diverso da quello della val di Sole e questo vale anche per il resto d’Italia, perché, ad esempio, il radicchio trevi-giano è diverso da quello di Chioggia e di Mantova. La cucina italiana è fatta di dettagli, di maestria, di paziente preparazione. È un’arte ed è questo che distingue la nostra cucina dalle altre, nonché quello che ci rende grandi nel mondo.Per quanto riguarda il Trentino, quali sono gli aspetti critici dell’offerta della cucina proposta dai ristoranti del territorio?Io credo che il problema principale stia proprio nell’incapacità di puntare sulle nostre specificità e di valorizzare i nostri piatti più tipici. Faccio un esempio: su 100 ristoranti trentini, noi troveremo gli spaghetti allo scoglio in più di 96. Ma solo in 4 o 5 ci sarà sul menu un canederlo al formaggio o alle verze. Questo perché la tendenza è quella di uniformare tutto, senza offrire una maggiore e più diversificata offerta.

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Questo ha naturalmente delle ricadute sul turismo perché a chi decide di passare le vacanze in Tren-tino dovrebbero essere offerte le nostre specialità. Gli spaghetti allo scoglio sono indubbiamente molto buoni, ma li si può mangiare ovunque. Lo stesso non vale per un buon piatto di canederli preparato come si deve.Come si potrebbe fare per rimediare a questo defi-cit dell’offerta locale?È necessario agire sulla preparazione dei cuochi affinché tutti gli elementi che fanno parte della ric-chezza culinaria e che hanno a che fare con storia e tradizione si radichino e vengano trasmessi. Al giorno d’oggi la maggior parte dei cuochi che lavo-rano nelle nostre cucine non sono trentini; sono ottime persone con una grande voglia di lavorare, ma non hanno nessuno che insegna loro le ricette tipiche. Io credo che da parte delle istituzioni o delle varie associazioni di categoria dovrebbe esserci uno sforzo per garantire una adeguata formazione. Al momento la situazione è piuttosto stagnante e mi chiedo cosa succederà fra 10 o 20 anni se nessuno avrà trasmesso alla nuova generazione di professio-nisti il nostro sapere e le nostre tradizioni culinarie. Quando il 70% o 80% dei cuochi saranno stranieri c’è da un lato la possibilità di avere nuove espressioni culinarie, ma dall’altro anche il rischio di una perdita di un patrimonio importante. Così come è importante valorizzare le Dolomiti, che rendono unico il nostro territorio, allo stesso modo dobbiamo salvaguardare e tramandare le ricette di piatti tradizionali, resi unici dalla grande varietà delle nostre valli.Salvaguardare le ricette più tradizionali non limita in un certo senso la creatività di un cuoco?Non si tratta di un limite, anzi; questa motivazione viene usata quasi come scusa facile per evitare di confrontarsi con la storia che ci ha preceduti. È appunto in questa sfida che emerge l’intelligenza e la sensibilità di un vero professionista. Faccio un esem-pio: perché i canederli devono essere grandi come una mela? Io preferisco farli più piccoli perché a mio parere sono più belli, più facili da mangiare e hanno un sapore più moderno. E nessuno mi vieta di usare, nell’impasto, del prosciutto cotto al posto del lardo. Questo non significa snaturare le ricette del passato, tutt’altro: è proprio grazie ad una costante ricerca e curiosità nei confronti della tradizione che è possibile mettere passione nella creazione di piatti tipici e por-tare avanti il nostro grande patrimonio culturale, che vive anche attraverso le produzioni gastronomiche.Quanto è importante oggi educare le persone ad un corretto approccio nei confronti della loro alimen-tazione?Direi che è molto importante, non solo per un discorso esclusivamente legato alla salute, ma anche per le

sue implicazioni sociali. Io non sono contrario a Mc Donald’s, anzi. Penso che vada bene andarci qualche volta, ma la cosa fondamentale è non fare propria la “cultura” del fast food. Oggi in famiglia entrambi i coniugi lavorano e non c’è più molto tempo, ma questo non deve diventare un pretesto per evitare di sedersi tutti attorno a un tavolo, almeno una volta al giorno. La mia filosofia in cucina è la semplicità, io non faccio cose straordinarie, però metto molta attenzione nella scelta delle materie prime. Io credo che sia sufficiente un po’ di attenzione per preparare piatti buoni e sani che contribuiscono, allo stesso tempo, a tenere unita la famiglia. Mangiare un mine-strone fatto in casa, anche se semplice e non buonis-simo, non è la stessa cosa che consumare lo stesso piatto fatto con il preparato in busta. Mettere un po’ di cuore anche nella preparazione di cibi semplici rappresenta un valore aggiunto che alla lunga può dare tanto all’unione e armonia della famiglia. Non dobbiamo infatti dimenticare che la cucina è una specie di “anticamera”, è forse l’unico luogo della casa dove si riesce a parlare.Quali sono secondo lei le caratteristiche che deve avere un buon cuoco al giorno d’oggi?Il buon cuoco di oggi deve essere come quello di ieri, con il vantaggio di avere a disposizione stru-menti più avanzati. Direi che deve avere un’ottima conoscenza della materia prima, deve rispettare la cultura, la tradizione e avere una grande sensibilità in modo da apprezzare e sentire come suo tutto il patrimonio di conoscenze e abilità che lo hanno pre-ceduto. E infine, un buon cuoco deve avere cuore, una dote che è il segreto di chi fa bene questo lavoro oggi come ieri.

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Baccalà (stoccafisso) in umido alla trentina di Mamma RosaIngredienti per 6 persone circa: 1,200 Kg di baccalà bagnato (stoccafisso), 1 litro di latte circa, 1 bicchiere di vino bianco, 1 bicchiere di olio extra vergine di oliva, 2-3 patate (pelate, lavate e tagliate a pezzi), 150 g di sedano rapa (pulito e tagliato a quadretti), 4-5 filetti di acciughe o 2-3 sardelle sotto sale lavate e pulite, 1 cipolla tritata, 2 spicchi d’aglio tritati, 2 cucchiai di prezzemolo tritato, 100 g di formaggio grana grattugiato, 50 g di farina bianca, sale q.b., pepe in abbondanza.Procedimento: In una pentola d’acqua bollente salata mettete i pezzi di baccalà e fateli bollire leggermente per 3-4 minuti. Scolateli e una volta raffreddati un po’, privateli della pelle e delle lische. Ponete il baccalà in una teglia da forno dai bordi alti e aggiungete la cipolla e l’aglio tritati, le acciughe/sardelle, il prezzemolo, la farina, il grana grattuggiato, le patate, il sedano rapa, sale e pepe. Mescolate bene allargando il tutto nella teglia. Aggiungete il latte, l’olio e il vino e mettete sul fuoco, mescolando con un cucchiaio di legno fino a bollore. A questo punto mettete la teglia con il baccalà nel forno a 160°-170°. Lasciate cuocere per circa 1 ora mescolando di tanto in tanto. Servite con polenta fumante. Grazie a mamma Rosa che tanti anni fa mi ha insegnato a farlo così!NB: Come tutti gli umidi, se si preparano la mattina per la sera o addirittura il giorno prima, una volta riscaldati sono più buoni.

Minestrone di pasta e fagioli alla moda del “Borgo”Ingredienti per 6/8 persone circa: 600 g di fagioli borlotti secchi, 1 cipolla pulita e tagliata a pezzi, 1 carota pulita e tagliata a pezzi, 3-4 patate pulite e tagliate a pezzi, ½ gambo di sedano tagliato a pezzi, ½ porro tagliato a pezzi, 2 spicchi di aglio puliti.Condimento: 250 g di olio extravergine di oliva, 2 rametti di rosmarino (solo gli aghi), 4-5 foglie di salvia, 5 spicchi di aglio puliti e tagliati a metà, 1 cipolla pulita e tagliata a julienne, sale e pepe q.b.Procedimento: Mettete a bagno i fagioli secchi in abbondante acqua fredda (per 8-12 ore). Dopo averli scolati mettetene 100 g in una pentola con abbondante acqua fredda (l’acqua deve coprire bene i fagioli) e cuocete per 45-50 minuti. Poi metteteli da parte aggiungendo il sale a fine cottura. Mentre i fagioli cuociono, in un’altra pentola capiente mettete i rimanenti fagioli e tutte le verdure pulite e tagliate a pezzi, aggiungete abbondante acqua fredda e cuocete per circa 2 ore, mescolando di tanto in tanto. Se necessario aggiungete altra acqua (anche in questo caso il sale va aggiunto a cottura ultimata). In un pentolino preparare il condimento, met-tendo l’olio, la cipolla tagliata a julienne, il rosmarino, la salvia e l’aglio, cuocete a fuoco medio-basso finché le cipolle e il resto delle verdure sono ben dorate. Dopo circa 2 ore, una volta cotta la zuppa, passatela al frullatore o passaverdure, rimettetela nella pentola aggiungendo i 100 g di fagioli cotti separatamente in pre-cedenza (se la zuppa risulta troppo densa si può aggiungete anche l’acqua di cottura dei fagioli). Rimettete sul fuoco e far riprendere il bollore, continuando a mescolare perché il minestrone tende ad attaccare. Mentre il minestrone bolle passate al colino il condimento soffritto e versarlo nel minestrone mescolando finché è ben assorbito, aggiustate di sale e pepe. Aggiungete 1 o 2 nidi di pappardelle sminuzzate e fate cuocere per 3 minuti continuando a mescolare, quindi spegnete e lasciate riposare per almeno mezz’ora. Servite impiat-tando aggiungendo un filo di olio extravergine del Garda e una macinata di pepe fresco.

Le ricette di Rinaldo Dalsasso...

Brodetto bianco per dieci minestrePer fare del brodetto bianco per dieci minestre piglia mezza libbra di mandorle dolci e pestale bene, unen-dovi un po’ d’acqua fresca affinché non facciano l’olio. Prendi poi venti bianchi d’uovo, un po’ di mollica di pane, un po’ d’agresto, un po’ di brodo di carne, o di cappone, un po’ di zenzero bianco e pesta tutte queste cose assieme con le mandorle, passandole poi per una stamigna e facendole infine cuocere […]

Brodetto con pane, formaggio e uovaPer fare un brodetto con pane, formaggio e uova fa bollire del pane grattugiato per un quinto di ora nel brodo di carne. Prendi poi del formaggio grattugiato e sbattilo insieme a delle uova, mentre lascierai alquanto raffreddare il pane bollito nel brodo. Poi gettavi dentro le uova e il formaggio, e mescola tutto bene assieme. Fa in modo che tale minestra diventi di un colore giallo, per lo zafferano che vi spargerai, e alquanto spessa.

… e le ricette quattrocentesche di Martino de Rossi rielaborate da Aldo Bertoluzza nel volume Libro di cucina del maestro Martino De Rossi, Trento, UCT, 1993, p. 67:

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L’esperienza del cibo, e della sua preparazione, non rispar-mia alcun essere umano, di qualunque epoca, estrazione e cultura. Lapalissiano, certa-mente. Eppure molto spesso i ricettari e l’immaginario che li accompagna rimandano nella maggior parte dei casi ad interni familiari, a massaie d’un tempo e a moderne donne di casa, a cuochi di fama, a cul-tori di sapori antichi e a gastronomi amanti di com-plicate acrobazie del gusto, se non a cucchiai d’oro e d’argento, perfino a conventi e a suore, germane o meno che siano. Ma non occorre essere né un gastronomo né una madre di famiglia per avere un ricettario. Scritto o mandato a memoria che sia, pub-blico o segreto, ognuno di noi, anche il più scalci-nato degli umani, ha un proprio ricettario minimo. In quest’epoca di scapoli e donne nubili, separati e divorziati, che godono tutti dell’esotica denomina-zione di single, e di cibi precotti sempre più diffusi – che siano quattro salti in padella o tre nel micro-onde – vogliamo riproporvi la cucina dello scapolo d’antan, quando il termine aveva ancora una valenza a suo modo totalizzante, come il suo equivalente femminile – seppur iniquo – zitella.Uno scapolo di mondo, certo, nonché d’eccezione: infatti tra le raccolte di ricette di golosi e cucinieri d’ogni sorta spicca un’operina di pubblica utilità creata da due amici e sodali che tra l’altro si dilettavano di cucina. Dal loro maschio inte-resse per la gastronomia nasce un ricettario decisamente fuori dall’ordinario, rivolto peral-tro a un interlocutore altret-tanto originale, ovvero il celibe (nell’originale francese, céli-bataire). Categoria speciale e specifica di cuoco e amante del gusto, solo miseramente potremmo tradurne la valenza con il moderno e malnato ter-mine di single (ma il francese, curiosamente o più laicamente, ha conservato ancor oggi il ter-mine célibataire senza varianti di sorta). I suoi desideri e le sue possibilità non sono unica-mente dettate, orientate, limi-tate dalla necessità ed urgenza di sfamare o dilettare coniuge o figliolanza o altro parentame,

se non in rare occasioni. Solo egli può, se desidera, mangiare alla sua ora, digiunare e cuci-nare se e come crede. Volendo può essere cuoco anticonven-zionale e anarchico, votato al solo e puro piacere della gola, al godimento di sé medesimo e, se desidera, dei suoi com-mensali e ospiti. Se mangiare in compagnia è certo un pia-cere, cucinare e consumare il

pasto da soli può far raggiungere le vette del piacere di solitudini perfette ed incomparabili. Certo, vale solo per gli amanti del genere…Il nostro uomo, con il suo originale ricettario, è uno scapolo di mondo nella Parigi del tardo Ottocento. Aristocratico di nascita, borghese per scelta, segnato per destino personale, Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901), meglio noto come monsieur Momo nella cerchia degli amici, oltre che grande artista fu anche un amante della buona cucina nonché cuoco dilettante ma decisamente capace e originale. Ospite capace di stupire i suoi invitati con i sapori e l’origi-nalità delle pietanze di sua produzione, si dilettava di cucina e dedicava ai fornelli parte delle sue artistiche energie. A testimonianza della sua estrosa maestria rimane un ricettario, opera condotta a due mani, a beneficio di chi si voglia misurare sul campo con il menu dello scapolo mondano della Parigi di fine Ottocento: Henri il cuoco e l’artista, il suo fido amico

Maurice l’ideatore della pubbli-cazione dello speciale ricettario. Perfetta fusione di arte e gastro-nomia, questo piccolo manuale del gusto corredato da bellis-sime illustrazioni è uno dei frutti del profondo e duraturo rap-porto di amicizia che legò i due. Vicinissimo a Toulouse-Lautrec sin dagli anni di scuola, Maurice Joyant (1864-1930) fu amatore e conoscitore di cose d’arte, uomo brillante e ben inserito nell’am-biente mondano; sostenitore fin dagli esordi delle prove arti-stiche dell’amico carissimo, nel 1890 sostituì Theo Van Gogh, fratello del più celebre Vincent, nella galleria d’arte Boussod & Valdon. Curatore dell’eredità di Toulouse-Lautrec, Joyant ne fu anche il primo biografo nonché fondatore del monumentale museo intitolato all’artista ad

Il cucchiaio dello scapolo di mondole ricette di monsieur Momo, al secolo Henri de Toulouse-

Lautrec, artista e viveur

di Maria Letizia Tonelli

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Albi, città d’origine di Henri.Il volume che raccoglie il sapere e l’estro culinario di Toulouse-Lautrec fu pubblicato solo nel 1930, dunque molti anni dopo la morte dell’artista, con il titolo di La Cuisine de Monsieur Momo, célibataire e con una ricca veste grafica di mano dello stesso Henri. Le ricette propongono sostanzialmente la cucina francese classica, pur con molte originali varianti e con un senso estetico degno dell’autore. Rampollo di antica famiglia della Francia meridionale, i gusti di Henri erano certo stati educati al desco nobiliare di tradizione, arricchito dai sapori della campagna albi-gese, poi raffinati alla mensa parigina e rinverditi dalla frequentazione di cucine straniere in occasione dei suoi viaggi. Antipasti, entrée, hors d’oeuvre, relevé, potage, carni e pesci, verdure, salse, dessert e dolci, nulla manca al ricettario dello scapolo di classe, la cui cucina sapeva stupire i commensali, coniugati o meno che fossero, sia per i sapori che per la presen-tazione delle pietanze. La sapienza gastronomica di Toulouse-Lautrec si univa ad una vasta conoscenza

dei vini di Francia e di liquori di varia natura, anche se il suo gusto per le bevande alcoliche degradò tri-stemente nell’alcolismo. Nonostante la nascita alto-locata, le notevoli possibilità economiche e la grande acutezza d’ingegno, il giovane Henri non ebbe, infatti, vita facile a causa dei suoi gravi problemi di salute. Di lui resta l’esito altissimo della sua esperienza arti-stica e questo piacevole breviario del gusto che ben illustra l’uomo, il suo desiderio di godere dei piaceri della vita, la sua privata passione per la cucina, il suo modo di essere parte di una socialità mondana che lo vide tra i protagonisti della scena parigina del suo tempo. Frequentatore assiduo di ristoranti e di locali notturni – oltre che di case d’appuntamento ove in quanto célibataire amava eleggere il suo domicilio –, l’artista fece di questi luoghi e della fauna umana che li abitava uno dei principali soggetti della sua opera; molte le scene di sua mano che illustrano gente a tavola, che si intrattiene a bere e a mangiare, molti i riferimenti alla convivialità, numerosi gli aneddoti della sua biografia che riportano al profondo rap-porto che univa Toulouse-Lautrec al cibo, alla sua preparazione e degustazione, nonché al piacere di condividerlo con gli altri, come nelle occasioni in cui amava riunire alla sua tavola una decina di commen-sali ben assortiti per interessi e spirito e dar loro in pasto le sue golose ricette.

Maurice Joyant, La Cui-sine de Monsieur Momo, célibataire, Editions Pellet, Paris 1930 (illustrato con 24 acquarelli e disegni di Henri de Toulouse-Lau-trec, frontispizio di Vuil-lard). Successive edizioni sono comparse in Francia, Svizzera e in Gran Breta-

gna. In Italia è stato pubblicato da Mondadori e più di recente (2005) da Ibis edizioni di Pavia.

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Il principio del nutrire regge il mondo e corre attraverso il mondo, diceva Goethe. Ma è forse nell’opera di Rabelais che assistiamo alla messa in opera più spettacolare delle immagini conviviali legate al cibo e ai riti a esso collegati. Più precisamente al banchetto, che si svolge durante la festa popolare. La strabordante ab-bondanza del bere e del mangiare diventa la nota dominante, quale lievito sfrenato, gioioso e tellurico quanto il gigantesco pane che lo incorpora. Il corpo che mangia e che è mangiato è il riflesso organico di uno spettro articolato di azioni; la macellazione del bestiame ad esempio, ma anche lo smodato spalan-care della bocca e il vorace inghiottire e deglutire. Per non parlare di ventri sbracati nell’atto fertile della nascita, che precede la crescita tumultuosa e irre-golare di corpi che sfidano la propria spazialità, la stessa norma di un tempo che è solo proprio. L’incontro dell’uomo con il mondo avviene nella propria bocca: sgranocchiare, dilaniare, masticare, assaporare, sono azioni che consen-tono di assaggiare il gusto del mondo, e accanto a questo c’è l’incanto della pa-rola, della conversa-zione, della battuta di spirito, del witz.Il mangiare è l’altra parte del mondo, l’emisfero che com-pensa il lavoro, un avvenimento so-ciale e individuale insieme, alieno alla tristezza, vicino alla festa vitale, alla pie-nezza del vissuto, lontano dalla morte, che è per definizione assenza di vita come la perfezione.Il banchetto che si concepisce come u n’ a f f e r m a z i o n e della vittoria, del trionfo, si accom-pagna alla conver-sazione conviviale, al simposio (non

necessariamente antico o clas-sico, ma pure alla modernità di un Beethoven e ai suoi straor-dinari discorsi conviviali). Man-giare e parlare, cibo e verbo, sembrano essere fraterni amici, origini di un linguaggio comune. E se il pane del Panta-gruel è simbolo di abbondanza smisurata, ecco che l’olio co-stituisce il simbolo magro della

serietà devota, un’accezione estranea alla concezione liberatoria di Rabelais. Il pane e il vino scatenano la parola, la vivificano dall’interno, in una dimensione che è tutta terrena e lontana da ogni suggestione mistica, mentre l’alterazione dell’ubriachezza porta verso il futuro: l’immaginazione di ciò che deve an-cora essere, nella voce sciolta senza limiti che fluttua in un pensiero dilatato e contagiato di speranza. Il banchetto in Rabelais incarna la potenza e l’ardore di una parola liberata, in grado di andare oltre la pietà e la paura divina, per dirigersi decisamente verso il gioco gioioso e disinibito. In questo senso il vino e il pane si ergono a paladini di una sazietà possibile,

di un’abbondanza giustificata da una propria intima verità: la libertà impavida della forza umana, materiale e corpo-rea, dove non vige la paura ma la temera-rietà. Per parte nostra mettiamo il Folengo a rappresentare la tra-dizione delle nostre terre. Lui descrive la cucina degli dei con il verso; il tono è qui parodico, letterario, e la gioia folle del banchetto piega in altra direzione, il si-mulacro del cibo si profana nello sma-scheramento e nel travestimento, nella sottolineatura del maccheronico, me-taforico e parallelo universo di un’irri-sione vertiginosa ma diversa dal Rabelais, vicina ma non ade-rente a essa.

Il banchetto

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Germania 1917-1918. Tra il dicembre 1917 e il gennaio 1918, presso il campo di prigionia di Celle (Hannover), vennero inviati 2.921 ufficiali e sottoufficiali ita-liani fatti prigionieri durante la rotta di Caporetto. Dopo giorni e giorni di viaggio, giunti stremati al lager di Celle, furono abban-donati a se stessi e dovettero affrontare con mezzi del tutto inadeguati il freddo e la fame. Anche se la loro sorte fu migliore di quella dei soldati semplici, il cui livello di mortalità per fame raggiunse cifre spaventose, pure l’esperienza vissuta dagli ufficiali fu terribile. Il cibo divenne per tutti un pensiero ossessivo: “La fame continuata non ci faceva pensare che al man-giare, al mangiare, al mangiare; si parlava di questo, si pensava questo, si ricordava questo”. Scrivono i superstiti nelle loro memorie. “Quando si discorre, l’argomento è sempre lo stesso, e cioè il mangiare”. “La fame, a poco a poco, divenne una vera idea deli-rante: non si parla che di mangiare, non si aspetta che l’ora in cui sarà distribuita la misera scodella di brodaglia”.Inutilmente sperarono nell’intervento dello Stato italiano che al contrario aveva adottato una politica punitiva nei confronti dei prigionieri e aveva preso la scellerata decisione di impedire l’invio di aiuti sia da parte della Croce Rossa, che da parte dei privati. Come scrive Giovanna Procacci “l’attribuzione della rotta di Caporetto a un fenomeno di diserzione collet-tiva – a seguito della nota interpretazione di Cadorna del disastro – spinse infatti gran parte dell’opinione pubblica, e tra questa Sonnino, a credere che la maggioranza dei militari catturati si fosse volontaria-mente arresa al nemico. D’Annunzio bollò i prigio-nieri con l’attributo di “imboscati d’oltralpe”; su vari giornali – e in particolare su quelli di trincea – essi vennero raffigurati come uomini finiti, distrutti dalla colpa e dalla paura”. Durante il lungo inverno, i prigionieri passavano i giorni perlopiù cori-cati, economiz-zando le energie, aspettando con ansia l’ora della mensa. Bona-ventura Tecchi, recluso con Carlo Emilio Gadda e Ugo Betti nella Baracca 15c, scrive che

“durante la fame, non si parlò mai d’arte e di letteratura, né di matematica e neppure di donne, noi che avevamo poco più di vent’anni e che, entro il filo spinato, da mesi non vedevamo più viso di donna. Lugubre, pesante scendeva il buio della sera su quelle nostre cucce di legno, ripiene di aghi di abete, allineate in fila come

bare; il silenzio era il solo commento della giornata o un parlottìo discreto, che rievocava lontani pranzi e cene”. Perché, come ricorda ancora Tecchi, era un gioco “quasi saporito” mischiare ricordi e fanta-sie, “come se anche il sogno, nel ricordo lontano, potesse per un momento ingannare la fame”.In altre baracche il gioco “quasi saporito” di rime-morare i cibi di casa e della vita civile prende let-teralmente corpo nei quaderni dei prigionieri che si trasformano in veri e propri ricettari. Due sottote-nenti, Giuseppe Chioni e Giosué Fiorentino, ognuno per conto suo, si fanno promotori di una raccolta di ricette interpellando i compagni di baracca. Così che “dallo scambio reciproco di ricordi, rimpianti e desi-deri”, come scrive Chioni, nascono più di un qua-derno intitolato all’arte culinaria. “Questa raccolta di ricette di culinaria, fatta nel campo di prigionia di Celle, è il frutto di uno dei più strani fenomeni psicologici senza il quale sembrerebbe inspiegabile come tante giovani energie, come tanto rigoglio di vita e di giovanilità fervida non abbia tro-vato modo migliore di manifestarsi ed espandersi. E chi non è vissuto fra noi, chi non ha avuto un’idea delle nostre sofferenze fisiche e morali potrebbe sor-ridere ironicamente pensando alla metamorfosi che ci ha mutato da guerrieri in cuochi; però se si pensa ai lunghi digiuni che ci costringono a stare rannichiati per sentire meno i crampi della fame, a non muoversi per intere giornate onde sprecare meno energie, che

ci rendono delizioso come una golo-sità il famoso pane Rappa e se si pensa che la fame presente ha un triste risalto con l’ab-bondanza tra-scorsa sembrerà naturale come ognuno riso-gnando il dome-stico focolare abbia ricordato

“Un gioco quasi saporito”ricettari di prigionia

di Quinto Antonelli

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le squisite pietanze e gli intingoli appetitosi prepa-rati dalle mani premurose e delicate della mamma o della sposa lontana; abbia ripensato ai tempi in cui felice presiedeva all’allestimento di essi e dallo scambio reciproco di ricordi, rimpianti e desideri ne sia scaturito questo ricettario. L’utilità di esso è discutibile, non fosse altro ci farà ricordare di tante ore tristi e monotone in tempi migliori che con un simile riscontro sapremo salutare traendone inse-gnamenti ed esperienza”. Sono ricettari nazionali, forse più rappresentativi delle diversità regionali della Scienza in cucina di Pellegrino Artusi. Chioni e Fiorentino, genovese il primo e siciliano il secondo, mettono insieme ricette che provengono dal nord come dal sud, dal Piemonte come dall’Abruzzo o dalla Puglia, dal Veneto come dalla Sardegna. Ma esprimono, a ben leggere, anche un immaginario di opulenza, espressione di un sogno che conduce oltre il filo spinato della prigionia, verso un paradiso gastronomico dove è possibile mangiare e bere a dismisura, un mondo capovolto rispetto a quello del campo. Grassi, ripieni e condimenti la fanno da padroni. Ecco la ricetta del riccio al forno: “Si riem-pie il riccio molto grasso e grosso, con prosciutto, funghi, sedano e qualche pezzetto di corteccia di for-maggio pecorino, noce moscata, zenzero. Con detto composto si riempie pure la gobba del riccio, si cuce e si pone in un testo insieme a patate condite con lo strutto, sale, pepe, prezzemolo”. Si aggiungono il guanciale di maiale all’arrabbiata, la lepre in salmì, il coniglio ripieno al forno, le costate di maiale al latte, le lasagne imbottite, la polenta con lardo e prosciutto grasso o pasta di salsiccia.Germania 1943-1945. Di nuovo la fame. I prigionieri dei nuovi lager nazisti vivono in condizioni materiali ancor più precarie, a volte ai limiti della sopravvi-venza: sono tormentati da una fame continua che riappare monotona e ossessiva nelle note dei diari che registrano la pessima qualità del cibo, le dosi insufficienti delle razioni alimentari, il rito della divi-sione del pane, e poi la nostalgia dei cibi di casa,

l’ansia e la preoccupazioni per i pacchi familiari che non arrivano. Il pasto principale è una brodaglia di rape con l’aggiunta di una fetta di pane di segala, o in alternativa 20-25 grammi di margarina, un cuc-chiaio di marmellata, 25 grammi di zucchero, 500 grammi di patate ogni due o tre giorni, crauti crudi, un mestolo di brodo nero detto caffè. L’ossessione alimentare ritorna perfino nei sogni come scrive nel suo diario Giuseppe Volpe, internato a Sandbostel: “Quante volte mi sogno di trovarmi a casa tra i miei che mi offrono pietanze su pietanze di ogni specia-lità e abbondantemente… Questo perché? Perché il nostro subcosciente, anche nel sonno, continua a battere sulle nostre necessità impellenti: mangiare. Ieri mi raccontavo il nuovo piatto che certamente dovrà essere squisito: maccheroni al forno. Ieri sera a letto vi ho lungamente pensato. Questa volta ho sognato di aver fatto scorpacciate di maccheroni con sugo abbondante. E stamane poi mi sono alzato con un buco”. Così non è un caso che il ricettario di prigionia di Ferruccio Fanizza, in appendice al suo diario, sia intitolato “I nostri sogni”: nostri, perché anche in questo caso si tratta di una raccolta messa insieme trascrivendo le ricette dei commilitoni che provenivano da ogni parte d’Italia: troviamo i mez-zarelli alla siciliana (pasta, pomodoro, melanzane fritte, mozzarella, parmigiano) e l’agliata provenzale; la cucina meridionale dell’olio d’oliva e quella set-tentrionale del burro; le verdure mediterranee e la carne; le minestre e le creme francesi. Le fantasiose annotazioni di ricette, come testimonia una recente antologia di lettere e diari degli internati militari, sono più frequenti di quello che è dato immaginare, perché, come scrive Riccardo Zipoli a commento del ricettario del padre, “Piatti casalinghi e locali del perfetto gefangene e di Chelm”, la dimensione ali-mentare e culinaria permea “gran parte della vita sia materiale sia immaginaria del lager, configurandosi, tale dimensione, non solo quale aiuto per la soprav-vivenza fisica ma anche come sfogo e conforto men-tale degli internati”.

Le informazioni sul lager di Celle e la condizione dei prigionieri italiani sono riprese dal volume di Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; la citazione di Bonaventura Tecchi è tratta dal suo libro Baracca 15c, Milano, Bompiani, 1962; i ricettari di Giuseppe Chioni e Giosuè Fiorentino sono pubblicati nel volume La fame e la memoria: ricettari della Grande Guerra: Cellelager 1917-1918, a cura di Quinto Antonelli e Gianfranco Bettega, con saggi introduttivi di Fabio Caffarena e Annarita Caputo, Feltre, Agorà, 2008; il brano di Giuseppe Volpe si trova nell’antologia di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Gli internati militari italiani: diari e lettere dai lager nazisti: 1943-1945, Torino, Einaudi, 2009; il ricettario di Ferruccio Fanizza è conservato, insieme al diario, presso la Fondazione Museo storico del Trentino-Archivio della scrittura popolare; la citazione di Riccardo Zipoli è tratta dall’introduzione a Gefangenennummer 40148: memorie dai lager nazisti del capitano Mario Zipoli, Venezia, Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, 2003.

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A carnevale… ogni cibo vale!

Marta Villa

Il carnevale è un momento dell’anno dove anche per la gola ci sono delle deroghe…: alcuni studiosi fanno derivare l’origine del nome da carnem levare indicando in questo modo non la festa ma il periodo successivo, quello della Quare-sima dove la liturgia cristiana imponeva l’astinenza dal con-sumo di carne. Gli Statuti di Trento, ad esempio, prescrive-vano che i prezzi della carne dovessero essere regolati da un particolare calmiere soprat-tutto nel periodo carnevalesco, quando l’aumento del con-sumo causava una lievitazione dei prezzi. Festa probabilmente cristianizzata e quindi inserita all’interno del periodo che va dall’epifania alle ceneri, il carnevale ha però origini più lontane: soprat-tutto in area alpina trova ancora adesso una ritualità legata alla fertilità, ai riti agricoli stagio-nali, alla volontà di scacciare l’inverno e di propiziarsi una buona stagione. Per Rang si può scor-gere l’origine della festa nel lontano 3000 a.C. in Caldea; in una delle più antiche epigrafi della storia è scritto che si celebra una festa dove l’ancella prende il posto della signora e lo schiavo incede nel rango del signore e i potenti sta-vano in basso come uomini comuni (Florens C. Rang, Psi-cologia storica del carnevale, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 49). Per Bachtin, il carnevale, in opposizione alla festa ufficiale, era il trionfo, in una specie di liberazione temporanea dal regime esistente, l’abolizione dei rapporti gerarchici, di pri-vilegi, regole e anche tabù. Autentica festa del tempo e del rinnovamento, si opponeva ad ogni fissità e ad ogni termine definitivo: era la festa dell’avvenire incompiuto.

Festa dell’uguaglianza per eccellenza, nella piazza car-nevalesca regnava la forma particolare del contatto fami-liare e libero tra le persone (Mikhail Mikhailovich Bach-tin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, 2001, p. 13). Nell’im-maginario collettivo il carne-vale ha come caratteristica peculiare la possibilità di non sottostare alle regole, anzi di rovesciarle o stravol-gerle, per cui erano note fin dall’epoca moderna crida di autorità cittadine per frenare scherzi e burle. Ne abbiamo una emanata dal principe vescovo Sigismondo Fran-cesco d’Austria nel 1663 che

imponeva restrizioni tra cui quella di non masche-rarsi il volto “occultando e nascondendo la

cognizione loro”, “ne manco mutare abito over travestirsi” pena il pagamento di

39 ragnesi, se il malcapitato era trovato senza armi e del doppio se invece le portava.

Un tempo carnevale significava anche trasgressione alimentare, o meglio grande abbuffata: infatti,

venivano organizzate, ora non più, delle vere e proprie gare per vedere

chi riusciva a mangiare più polenta, pasta o gnocchi. In molti carne-

vali storici abbiamo iperboli legate al cibo come le sal-sicce giganti del carnevale di età moderna di Norimberga o le medievali montagne di maccheroni al ragù dove cascava una nevicata di parmigiano che riempivano i sogni del paese di cucca-gna descritte dallo stesso Boccaccio. Eco di queste usanze si ritrova ancora oggi nella distribuzione gratuita di bigoi o maccheroni al ragù o con le sarde, maltagliati al sugo, gnocchi. I dolci, oltre alla pasta, fanno da sovrani nella festa carnevalesca di ogni paese: abbiamo ricette tramandate per grostoli, fri-

“Il carnevale è un pezzo di storia della religio-ne e il riso carnevalesco, la prima blasfemia.È una pausa, l’interregnum tra un’abdicazio-ne e un’ascesa al trono; perciò è una proces-sione, un corteo; l’immagine di un processo celeste: dalla processione delle stelle fino a che l’astro-sovrano dell’Anno Vecchio non ècompletamente declinato e l’astro-sovrano dell’Anno Nuovo è salito sulla sommità del trono”(Florens C. Rang, Psicologia storica del car-nevale)

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tole, crafuns, krapfen e straboi (o stroboi). Altro piatto tipico del giovedì grasso è lo smacafam, uccidi la fame, “onto e bisonto soto tera sconto, sconto ‘n te ‘na cassetta se te ‘ndovini ten dago ‘na fieta”: lo smacafam viene cotto sotto la cenere e ha come ingredienti farina bianca, latte, olio, lucanica fresca, pancetta affumicata, burro e sale.Un carnevale che non si svolge più è quello dei Galli-nari delle valli del Noce. Interessante perché vedeva coinvolti i ragazzini dai 12 ai 14 anni che dal 17 gen-naio, giorno di Sant’Antonio Abate, fino alle Ceneri giravano per le case vestiti da eremiti e recitavano a memoria il De Profundis e il Miserere in cambio di offerte di cibo, prevalentemente grasso e farina, che veniva raccolto e poi cucinato il giovedì grasso e distribuito a tutta la comunità dai giovani della zona.A Condino i ragazzi il giovedì grasso giravano trave-stiti con maschere paurose per il paese trascinando una slitta con sopra la giubiana (strega) e chiedendo in offerta farina, frutta e fiaschi di vino.Altro carnevale particolare si svolge a Romarzollo, frazione di Arco. La tradizione qui impone la costru-zione dei carnevali, delle piramidi di legno di bambù decorate con alloro, gusci d’uovo, salsicce, arance e biscotti che vengono portati in processione per le vie del paese e poi bruciati sul doss del carneval, una altura sopra la frazione al canto della filastrocca dia-lettale: “Carneval buta ‘jal/butel bèm. Smaca i ovi nel capel/‘l capèl l’è descosì./Tuti i ovi for de lì./Viva la Quaresima/che ‘l carneval l’è na./Polenta e pessa-tine/doman se magnerà!” Al termine del falò ora ven-gono distribuite torte, frittelle, vino caldo. A Varone, invece, nel comune di Riva del Garda, abbiamo la consueta polenta e mortadella, di origini settecen-tesche, ancora oggi come allora, organizzata da un apposito comitato. La polenta è quella gialla di Storo

e la mortadella viene confezionata secondo partico-lari ricette segrete sia per la mistura di carne che di spezie, tramandata dagli organizzatori di generazione in generazione, segrete sono le essenze di legno che vengono impiegate per affumicare il salume. Nelle vicine Giudicarie invece si prepara il capu(s), che, a dispetto dell’assonanza con il termine dialettale impiegato per indicare il cavolo cappuccio, non com-prende fra gli ingredienti questo ortaggio: sono pac-chettini di pane grattato mescolato a verdura verde, formaggio grana, uova, burro, uva sultanina, sale, pepe e aglio che, dopo una lunga cottura, vengono gustati con saporiti insaccati.In un ricettario del Settecento redatto da don Felice Libera troviamo come ricetta tipica del carnevale trentino la culata di porco fresco cotta in umido e ser-vita con gnocchi di pane e verza.Dalla vicina Verona il Trentino ha assunto la tradizione de el vendro sgnocolàr. Carnevale antico e risalente al Rinascimento, quello di Verona si impone per gran-diosità e partecipazione ancora oggi. Interessante è notare che avviene una vera e propria elezione con regole, candidati, schede elettorali e pubblicità per nominare el Papà del Gnoco, il re del Bacanal del Gnocco, figura centrale della rappresentazione. L’e-lezione avviene circa un mese prima della festa nel quartiere di San Zeno dove vengono allestite le cabine elettorali: i diversi candidati si presentano e pubblicizzano con manifesti e grida la loro candida-tura. È un onore diventare Papà del Gnocco cui si prestano anche i giornali locali che pubblicano a tutta pagina il nome e il volto dell’eletto. Migliaia di citta-dini, fino agli anni ottanta solo i residenti sanzenati poi tutti i veronesi, votano nella piazza di San Zeno, attendono con pazienza il proprio turno e ottengono in cambio un piatto di gnocchi; in città molti ricor-

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dano ancora l’elezione del 1984 con il Papà eletto con 22.000 preferenze, un vero record.Figura importante, sia nel periodo della festa che durante tutto l’anno, il Papà deve far conoscere la tradizione del carnevale, e per un giorno (il venerdì) ha in mano le chiavi della città consegnategli diretta-mente dal sindaco in piazza Bra all’inizio della sfilata, e insieme ai gobéti, suoi aiutanti, dispensa caramelle a tutti i bambini. Cavalca una mula che viene man-giata al termine del carnevale sotto forma di pastis-sada e ha in mano lo scettro con il simbolo del suo potere: una forchetta con infilzato un grosso gnocco. Il costume abbonda le sue forme, in particolare evi-denza la pancia piena e il volto rubicondo dalla barba fluente. In tutte le case e osterie si cucinano i tradi-zionali gnocchi di patate al sugo o al ragù. La festa di piazza dura parecchie ore e sempre più quartieri della città e paesi della provincia concorrono con carri e maschere. Un altro rito che si svolge il sabato grasso, ma che forse ha poco a che fare con il carne-vale come lo intendiamo oggi, è il Plufziehen di Stilfs in Vinschgau. Letteralmente è il tiro di un vecchio aratro per le strade del paesino che vede coinvolti tutti i giovani, maschi, divisi in due gruppi, i conta-dini, con il Bauer e la Bauerin che guidano l’aratura e i loro aiutanti, e dall’altro lato le streghe e i rappre-sentanti della modernità, ossia tutti quei mestieri fatti da ambulanti girovaghi interpretati negativamente dagli abitanti dei masi perché portatori di novità ma stranieri. Il rito vede una vera e propria “battaglia” tra i personaggi del bene (i contadini) e i personaggi del male che tentano di rubare l’aratro e di interrom-pere così la semina e la battitura. Vi sono anche dei distributori di uova sode alle ragazze in età da marito, segno propiziatorio anche per l’arrivo della nuova stagione. Il canovaccio nella sostanza è sempre uguale, tramandato oralmente da generazioni, ma c’è un ampio margine di improvvisazione nei dialoghi. Il rito si conclude sempre nella piazza della chiesa dove c’è, come ultima azione rituale, il furto dei canederli bollenti fatto dalle streghe e impedito dal Bauer. Poi avviene la distribuzione gratuita dei canederli rimasti a tutti. Risulta quindi evidente quanto sia importante il cibo e l’azione del mangiare nelle feste carnevale-sche e non solo, dove venivano portati in processione anche gli utensili della cucina o venivano esagerate le stesse dimensioni dei cibi preparati. Possiamo allora concludere invitando a curiosare tra i carnevali della nostra regione e con l’eccellente consiglio di un saggio medico, François Rabelais, per condurre una vita felice:”ho sentito una volta in un bel giardino, in un giardino segreto, sotto un bel frascato, intorno ad una bella siepe di bottiglioni, giamboni, pasticci e ad alcune quagliette con busto, dei bei musicisti che cantavan graziosamente…”.

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Non è molto che l’uomo ricerca nel cibo una dimensione col-lettiva; è probabile che l’uomo cacciatore e successivamente il cosiddetto raccoglitore vives-sero il pasto nella sua dimen-sione famigliare e di piccolo gruppo. L’inizio di una dimensione più ampia trae sicuramente la sua prima esemplificazione nel convento medievale. I pelle-grinaggi, infatti, hanno posto i conventi nella necessità di for-nire dei pasti a una miriade di viaggiatori, pellegrini, che ad un tempo chiedevano un cibo, ma erano anche portatori di nuove abitudini alimentari e anche a tipi di preparazioni sconosciute ai monaci o comunque ai responsabili delle cucine di tali istituzioni. Anche le collettività militari hanno via via posto lo stesso problema; soprattutto quelle confinate in spazi molto ristretti, come per esempio le navi, con oggettive difficoltà di rifornimento e di conservazione degli alimenti. Con la rivoluzione industriale, infine, il problema si estese progressivamente anche al mondo del lavoro. In Italia ciò accadde soprattutto con la cosid-detta seconda rivoluzione industriale, quando l’ope-raio fu costretto a subire un inquadramento che lo collocava in una posizione di netto subordine, in cui le stagioni e le necessità della famiglia non avevano più importanza; l’operaio diventa parte di un ingra-naggio produttivo in cui il lavoro si presta 14-16 ore al giorno e all’interno di tale periodo è praticamente obbligatorio inserire una pausa per mangiare; la cosa interessante è che nel momento iniziale di tale rivolu-zione industriale pochissime sono le fabbriche dotate non solo di una mensa, ma neppure di una cucina, per cui la breve pausa pasto viene fisicamente con-sumata dove si lavorava, in condizioni igieniche e di sicurezza assai precarie; spesso i refettori e i dormi-tori, soprattutto per la manodopera femminile, sono comunicanti con la sala stessa dove le persone lavo-rano. In certe industrie tessili del Biellese è documentato che le tessitrici consumavano il loro vitto al telaio con le macchine in funzione! D’altra parte anche le lotte sindacali alla fine dell’Ottocento avevano ben altro da tutelare e difendere che non la pausa pranzo: si pensi solo alla piaga del lavoro minorile e alla mancanza di qualsiasi tutela per la donna. Esistevano tuttavia delle oasi, del cosiddetto paternalismo padronale, dove era prevista una mensa come nell’industria “Nuova

Schio” di Alessandro Rossi. Le prime mense moderne all’interno degli stabilimenti industriali fanno la loro com-parsa nel primo dopoguerra. È del 1929 l’inaugurazione a Trento della prima mensa presso la Michelin, assieme al pensionato femminile per le operaie residenti fuori città; sia la mensa che il pensionato femminile furono ospitate in un primo tempo (si può imma-ginare la precarietà della situa-zione) presso il vicino Palazzo delle Albere.In seguito è incominciata anche per le mense operaie la que-stione del razionamento bellico (si parla del secondo conflitto

mondiale); esso è stato affrontato in vario modo da diversi stabilimenti industriali; per esempio in Lom-bardia la Falk, la Vanzetti e l’Unione Industriale det-tero origine al Servizio approvvigionamenti stabili-menti industriali (SASI), per favorire la fornitura delle mense industriali in modo collettivo ed economica-mente vantaggioso. Le forze di occupazione tedesche obbligarono altre industrie “storiche” milanesi come la Siemens, la Breda, la Borletti, la Magneti Marelli ad aderire alla SASI. Il problema principale era rappre-sentato allora dalla disponibilità del secondo piatto, obbligatorio per legge, dal momento che ricadeva sotto la responsabilità delle aziende; il primo invece ricadeva sotto la responsabilità della società pubblica SEPRAL. Nel 1944 il SASI venne d’autorità incorpo-rato nella Sezione provinciale per l’alimentazione (SEPRAL, società pubblica istituita con R.D.L. 18 dicembre 1939, n. 2.222, quale organo periferico del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, per quanto riguardava il “Servizio degli approvvigionamenti per l’alimentazione nazionale in periodo di guerra”, e del

Mangiare sul lavoro

di Carlo Pedrolli

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Ministero delle Corporazioni, relativamente al “Servi-zio della distribuzione dei generi alimentari e del con-trollo degli stabilimenti dell’industria alimentare”). La situazione portò ad un fatto veramente paradossale; gli industriali pur di potersi approvvigionare per i loro operai erano di fatto autorizzati a ricorrere alla borsa nera tanto che si stimò che per il secondo piatto le disponibilità alimentari provenissero per 1/5 da carte annonarie, e per i restanti 4/5 dalla cosiddetta “borsa nera”. Le cronache dell’epoca, comunque, parlavano per gli operai della FIAT motori di Torino di un calo ponderale medio, negli anni di guerra, di 10-15 kg. Non va poi taciuto come, di fatto, le mense delle grosse concentrazioni industriali di Milano, rimaste in piedi durante la guerra, siano diventate un centro politico di primo livello sia in senso antifascista prima che di militanza politica ai tempi del CLN poi.La mensa diventò dopo la seconda guerra mondiale un fatto acquisito, ma vissuta dal lavoratore più che come una conquista in sé, come una parte integrante del salario che se non veniva goduta doveva essere in qualche modo risarcita; e la cosa divenne ben presto motivo di frizione con i cosiddetti “padroni” della fabbrica che vedevano invece nella mensa un fatto assistenziale che doveva aumentare la produt-tività della forza lavoro in fabbrica. La cosa portò a vivaci vertenze sindacali in cui la mensa si pretendeva venisse inserita nel salario come parte integrante del lavoro e quindi computata nella retribuzione impo-nibile ai fini del calcolo dei contributi assicurativi; la cosa durò non meno di dieci anni con risposte non sempre omogenee non solo di tipo legislativo ma anche di tipo giuridico. Nel complesso le mense del dopoguerra si presentavano in modo molto diverso; si andava dalle mense della Ercole Marelli di Sesto San Giovanni, la Stalingrado di Italia, in cui il vitto era ultra controllato sia nella sua qualità che nella quantità da un’apposita commissione; gli operai ricevevano un’indennità mensa mensile di £ 1.500 e per 25 pasti al mese spendevano £ 1.970; quindi con £ 470 l’ope-raio mangiava tutto il mese e talora talmente bene da preferire il pasto della mensa a quello di casa. Ma già negli anni sessanta altre industrie “pilota”, come ad esempio la Breda di Milano, affidavano per la prima volta in gestione a terzi il servizio mensa, modalità che venne seguita da altre industrie. Non mancavano i lavoratori che, per ottenere l’in-dennità mensa in contanti, preferivano consumare un pasto portato da casa e contenuto nel cosiddetto “baracchino” (chiamato in Trentino soprattutto dagli operai edili “gamela” e che era costituito da un con-tenitore di alluminio diviso internamente da una sorta di coperchio che separava la parte bassa con il cibo liquido, di solito minestra, dalla parte alta con il secondo piatto e il contorno; il baracchino veniva

spesso mal conservato e il contenuto consumato in condizioni igieniche assai precarie, spesso proprio nei locali di lavoro, alle temperature più varie. Negli anni sessanta gli operai passarono dalla civiltà della “sussistenza” alla società del “benessere”; si incominciò a guardare non solo alla quantità del cibo fornito dalla mensa, ma anche alla sua qualità. Il tutto con delle contraddizioni stridenti se è vero che lo stabilimento FIAT di Rivalta, inaugurato nel 1967, non prevedeva nel progetto iniziale né sala mensa né cucine. Si incominciavano ad affacciare i primi sistemi rivoluzionari di cucina come per esempio i cosiddetti cibi surgelati. La mensa nel ‘68 e negli anni delle lotte sindacali presenta ulteriori peculiarità: alcune riven-dicazioni spostano l’obiettivo dal diritto alla mensa alla possibilità di monetizzare il valore del pasto; diventa quindi sempre meno importante la qualità del vitto, passaggio sancito anche dal fatto che pro-gressivamente si tende ad effettuare un outsourcing della mensa, cioè ad attribuirne la responsabilità e la gestione all’esterno della fabbrica stessa. In altre parole si passa dalla figura di industriale che noto-riamente assaggiava di persona il vitto degli operai e ne consentiva la distribuzione solo se di gusto sod-disfacente, a un cibo spersonalizzato posto sotto il controllo di personale esterno all’azienda e quindi, in tal senso, deresponsabilizzato. Emerge chiaramente dall’analisi dei documenti sin-dacali del tempo come la mensa fosse più sentita come locale di ritrovo e quindi “spazio di lotta” piut-tosto che luogo dove si doveva consumare un pasto. La mensa diventa soprattutto il luogo delle assem-blee sindacali, il luogo dove i lavoratori si trovano per discutere i proprio diritti, luogo di aggregazione per ogni forma di lotta, anche clandestina.Finita la stagione delle grandi lotte sindacali, incomin-ciata la crisi industriale degli anni ottanta e novanta, la mensa subisce tutti i contraccolpi; molte fabbriche di grandi dimensioni chiudono o vengono ridimen-

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sionate nei loro organici, prosperano gli stabilimenti industriali di piccole dimensioni, spesso artigianali, che non sono in grado di fornire da soli il servizio mensa. É tempo allora di altre grandi novità:1. la mensa che serve più di uno stabilimento, non

legata ad una singola industria ma al distretto dove si trova; su di essa convergono le maestranze di varie fabbriche, di solito molto vicine e che rag-giungono a piedi la mensa dove consumano un

pasto con una compartecipazione della loro ditta ed una personale; si tratta di mense che di solito forniscono un servizio dal punto di vista nutrizio-nale più che dignitoso.

2. I cosiddetti buoni pasto: il lavoratore ottiene un voucher del valore di alcuni euro che può spendere presso bar, ristoranti convenzionati. Se il buono non è sufficiente a coprire la spesa, il lavoratore paga di tasca propria la quota restante. Spesso questo sistema ha dato luogo a degli abusi, nel senso che il lavoratore non si è fatto dare il cor-rispettivo dovuto, ma altri prodotti alimentari di pari prezzo da consumare poi in famiglia; inoltre questo sistema ha favorito l’utilizzo indiscriminato dei “fast food” peggiorando notevolmente, dal punto di vista nutrizionale ma anche relazionale, il momento del pasto.

Appare quindi evidente come seguendo le modalità del pasto collettivo nei secoli, si riassuma gran parte dello sviluppo dell’uomo; quanto poi questo svi-luppo abbia significato un reale miglioramento delle condizioni di vita e di relazione dell’uomo, lasciamo giudicare al lettore.

Cibo, gioco, festa, moda, a cura di Carlo Petrini e Ugo Volli (vol. VI de La cultura italiana, diretta da Luigi Luca Cavalli Sforza, Utet, 2009-2010)Quali sono le discipline, gli ambiti di indagine che hanno contribuito a costituire e modificare quella che oggi chiamiamo la cultura italiana del cibo? Di quali elementi si compone l’italianità di questa cultura? E ancora: dove occorre andare a ricercare le caratteristiche che la rendono riconoscibile e distinta in quanto cultura italiana? Queste le domande da cui ha mosso i primi passi il gruppo di lavoro che ha partecipato alla ste-sura dei 20 saggi che compongono questo sesto volume dell’enciclopedia Utet La cultura italiana. L’intento di ogni singolo saggio, che si concentra su discipline differenti, è quello di rispondere sempre alla stessa domanda: come si è stratificata la cultura italiana rispetto alle questioni ambientali, alle diverse agricolture, al mondo del vino, al diritto alimentare, ai consumi, alla ristorazione, all’alimentazione?

Identità italiana in cucina, di Massimo Montanari (Laterza, 2010)“L’Italia è fatta, facciamo gli italiani” proclamò Massimo D’Azeglio all’indomani dell’u-nità nazionale. In realtà gli italiani esistevano da secoli, ben prima che l’Italia nascesse come entità politica. Erano pochi, certo: solo una piccola élite. Ma erano e si sen-tivano italiani, pur vivendo in Stati diversi. L’identità del paese non coincideva con le sue forme politiche, ma si realizzava piuttosto nei modi di vita, nei gusti lette-rari, artistici e anche gastronomici. Se per “cucina italiana” vogliamo intendere un modello unitario, codificato in regole precise, è abbastanza evidente che essa non è mai esistita e non esiste tuttora. Se però la pensiamo come “rete” di saperi e di pra-tiche, come reciproca conoscenza diffusa di prodotti e ricette provenienti da città e regioni diverse, è evidente che uno stile culinario “italiano” esiste fin dal Medioevo, soprattutto negli ambienti cittadini che concentrano e rielaborano la cultura alimen-tare delle campagne, e al tempo stesso la mettono in circolazione, attraverso il gioco dei mercati e i movimenti di uomini, merci, libri. Si forma così un sentimento “italiano”, un’identità non teorica né utopistica, ma concreta e quotidiana, fatta di sapori, di prodotti, di gusti. L’unità politica del paese non fa che accelerare questo processo, allargandolo progressivamente a fasce più ampie della popolazione.

Proposte di lettura a cura della Biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino

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Archistrato di Gela, nato nel IV sec. a.C., può essere considerato uno dei più grandi trattatisti gastrono-mici di tutti i tempi; contempora-neo di Alessandro, uomo eclet-tico, colto, poeta e grande viag-giatore, nel 330 a.C. ca. compose un poemetto in esametri dal titolo Hedypátheia, I piaceri del gusto, o come alcuni molto più libera-mente traducono Vita di delizie. La ragione che rende immediata-mente singolare e notevole, ma soprattutto ardita, l’operazione letteraria di Archistrato, è quella di aver voluto piegare la solennità e il riconosciuto valore universale del verso epico ad una materia assolutamente umile, quotidiana e prosaica. Viaggiare per mare e per terra, spingersi sempre più lontano al fine di scoprire ricette dal valore straordinario, dove qualità e stile si fondono ai mas-simi livelli, superando così il vin-colo del pregiudizio e dei campa-nilismi, sembra essere la più vera cifra della ricerca gastronomica di Archistrato. Tutto ciò facendo incontrare l’alto con il basso, il serio con il faceto e chiamando in causa la propria esperienza e un acutissimo senso dell’osser-vazione e una predilezione per le specialità ittiche. Il termine gastronomia, che nasce perciò all’interno dell’orizzonte culturale della Grecia antica, significa in senso letterale “leggi-regole del ventre”; ma, ci possiamo chiedere, di quali regole e di quali leggi si tratta? Dettate dalla necessità? Dalla ragione? In grado di decretare il buono e il bello? L’e-satto equilibrio tra gli ingredienti? Il termine gastronomia enuclea la presenza di una dualità teorica e propone senz’ombra di dubbio un interessante spunto dialettico; il termine racchiude in sé sia un’accezione alimentare e un intrinseco rife-rimento alla tecnica di elaborazione dei cibi, sia un’i-stanza estetica, che postula la facoltà di assaporare e giudicare il grado di bontà delle pietanze medesime. Ecco che la figura di Archistrato, gourmand raffi-nato e cosmopolita, ci indica la direzione di un per-corso fatto anche di speculazione filosofica. Estetica ed edonismo si incontrano in cucina e da un felice connubio nasce una gastronomia sapiente, colta

e, quando involontariamente ingenua, assolutamente straor-dinaria. Con il binomio Gastro-nomia-Aesthetica il sapere e l’esperienza della bottega si mescolano alla sensibilità che sa cogliere qualità e bellezza, e all’i-stinto personale; il “buon gusto” fa da trait d’union autorevole e assoluto. La gastronomia segue (e allo stesso tempo ne è compo-nente imprescindibile) lo spirito del tempo. La cucina futurista di Marinetti (il cui Manifesto uscì in Italia sulla Gazzetta del Popolo di Torino il 28 dicembre 1930) propugnava una nuova filosofia alimentare, una rivoluzione otti-mista dei costumi della tavola, un “progetto nutrizionista”, una riforma totale che enunciava tra i suoi capisaldi l’abolizione del “quotidianismo mediocrista dei piaceri del palato”, auspicava una cucina chimica e dichiarava guerra alla pastasciutta, che induceva a scetticismo, pessi-mismo, inattività nostalgica, in un’ottica politica, ideologica, ma anche estetica; alla pastasciutta si preferiva il riso. La poetica futurista è stata per certi aspetti profetica nel cogliere, infatti, il processo di estetizzazione della prassi e dei riti della vita quoti-diana, che ha poi portato ai nostri giorni ad una sorta di pericolosa risoluzione immateriale e virtuale del mondo, un fluttuare infinito

di immagini gettate in rete, una spettacolarizzazione della realtà che si va sostituendo all’anima delle cose e al vissuto personale. Nella società post-moderna, a partire dalle classi medie il cibo ha subìto inoltre un forte processo di simbolizzazione, divenendo meta-fora di fobie e ossessioni e risponde non più solo alle esigenze biologiche e alle pratiche della necessità, ma a una sorta di rituale estetico in cui si riscontrano forti valenze culturali e identitarie.La cucina oggi assume sempre più i connotati di un mondo aperto, fucina del gusto, naturalmente, ma anche amplificatore e catalizzatore di suggestioni e tensioni contemporanee, ha saputo trasformare se stessa in un laboratorio straordinario spalancando le proprie porte a fotografi, architetti, designer. La cucina è il cuore pulsante, il fulcro vitale da cui si

Cucina a porterquando l’estetica

è nel piatto

di Silvia Bertolotti

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irradiano le esperienze tecnico-artigianali della tradi-zione e, nel medesimo tempo, le spinte di sperimen-tazione e di rinnovamento di ciascun milieu culturale. È l’immagine a dominare il mondo dell’alimentazione e della nicchia gastronomica e la gastronomia a sua volta rientra ormai a buon diritto nell’area della visual culture, materia privilegiata dei cosidetti visual studies, un ambito di ricerca sviluppatosi sulla scia degli studi culturali anglosassoni. Il concetto di design e di applicazione fotografica all’arte gastronomica, alle pietanze e alle sue mate-rie prime, è un fenomeno fortemente veicolato e dif-fuso in special modo attraverso i più attuali media, quali web, blog e social network. Canali di comuni-cazione costantemente attivi, mutanti e dinamici che in tempo reale registrano mode e umori, rappresen-tando la più chiara cartina di tornasole di una società perennemente instabile e alla ricerca del proprio senso. Da sempre piace parlare di segreti ai fornelli, sapori, creatività, sensazioni del gusto; il mondo degli ingredienti e delle preparazioni alimentari intrattiene un rapporto molto stretto con la pagina scritta e con il linguaggio, per Roland Barthes il cibo rappresenterebbe del resto un’unità funzionale di comunicazione, in possesso di una grammatica pro-pria (le ricette), di un lessico (l’ordine delle vivande nel menù) e di una retorica (il comportamento dei conviviali). La gastronomia contemporanea ha com-piuto un ulteriore passo avanti, ha coniato un proprio vocabolario: foodies, food-design, still-food, food photography, food-writers all’interno di una galassia di fenomeni culturali che vengono ad incrociarsi e ciascuno ad apportare un originale contributo, ed il nuovo codice, ormai alla portata di tutti, è mutuato dalla lingua inglese. È avvertita sempre più inoltre l’e-sigenza di conoscere passato e presente dei prodotti alimentari, in un’ottica di riscoperta della tradizione, ma anche di grande attenzione al benessere e a una cucina della salute e del rispetto dell’ambiente; paral-lelamente la materia gastro-nomica intrattiene i lettori con una infinita serie di argomentazioni tutte miranti alla creazione di atmosfere, scenografie e spazi dell’im-maginario, di volta in volta sempre nuovi e creati in occasione e in onore di una tavola esteticamente stu-diata, una tavola che diviene innanzi tutto espressione d’arte. E’ chiaro come oggi la curiosità per la cucina abbia una natura duplice e contrastante, se da un lato

ci si appassiona alla cucina essenziale e di recupero (ammirata per la sua sobria eleganza), spesso legata alla tradizione rurale e ai cicli stagionali, dall’altra, una tensione assolutamente dinamica e centrifuga è alla ricerca di una tavola trasgressiva, pronta ad accogliere neo-ricette e preparazioni fusion. L’edito-ria gastronomica, che va moltiplicando esponenzial-mente il proprio successo, è lo specchio più veritiero di tutte queste curiosità e tendenze. Aumentano le case editrici specializzate e le riviste di settore, anche il pubblico dei fruitori è diversificato, compare un let-tore molto più attento, preparato e sperimentatore; i nuovi lettori sono in particolare quelli che vengono chiamati foodies, vale a dire i buongustai dell’era moderna, appassionati insuperabili in grado di rasen-tare picchi di vero e proprio fanatismo enogastrono-mico, e pronti a sobbarcarsi ore e ore di viaggio pur di assaporare un prodotto tipico o una ricetta in via d’estinzione. Tuttavia, il dato forse più rilevante fra tutti è che l’immagine fotografica dei cibi conquista un ruolo di assoluto primo piano. Nel grande calde-rone dell’editoria culinaria i generi, ovvero le cate-gorie attente a rispondere ai miti contemporanei quali, tra i più ricorrenti, il biologico, la filiera corta, la genuinità, il melange multietnico, il cibo come elisir di salute e giovinezza, sono indubbiamente innumerevoli, ma a essere prediletti dai lettori sono principalmente due filoni, quello narrativo e quello fotografico. La produzione editoriale gastronomica predilige, sulla scorta dell’eredità artusiana, la forma del racconto, narrando si tramandano le ricette della memoria, si descrivono viaggi ed esperienze biogra-fiche che assumono la veste del romanzo, si spiega l’incrocio di diverse culture, si racconta del territorio attraverso un suo prodotto principe. Lo stesso connu-bio letteratura-fotografia trova un discreto successo attraverso il recupero, la citazione e lo studio di scrit-tori e poeti che abbiano tematizzato nella loro opera la materia gastronomica. Dall’altra i migliori ricettari

del mondo, ma anche i più agili manualetti per dilet-tanti, sono accompagnati da immagini di raffinate, golose o rustiche preparazioni immortalate da grandi foto-grafi internazionali e non. La gastronomia è sempre più di frequente “in posa” e la rete è un vero proliferare di scatti fotografici che hanno il cibo come unico protago-nista. La gastronomia viene interpretata e rappresentata da questi creativi dell’imma-gine in modo sempre nuovo

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e personale. La fotografia rappresenta un medium dalle funzioni molteplici. Incontriamo veri e propri “grand tour fotografici” nel gusto e nel paesag-gio, dove i cibi e i pro-dotti immortalati si fon-dono con la natura e la suggestione dei luoghi in cui trovano origine; sono geografie dell’immagine e dei sapori che trac-ciano un “atlante delle emozioni” e che possono condurci dalla campagna toscana al bistrot di Parigi, da Central Park alle coste del Nord Africa. Con la food photography si sviluppa un incredibile ventaglio di tipologie fotografiche che vanno dall’ingrediente, al piatto realizzato, dall’uten-sile di cucina, al ritratto dello chef al lavoro, senza dimenticare l’ambiente circostante, ovvero la parti-colare location e gli aspetti legati alla mise en place. Il cibo è esperienza squisitamente sensoriale, un’e-sperienza che inizia innanzi tutto attraverso la vista. I portfolio di molti fotografi ormai includono anche sezioni tutte dedicate allo still life del cibo. Pensiamo (solo a titolo di esemplificazione) al “cibo fatale” degli scatti di Daniela Edburg, agli incredibili “paesaggi alimentari” dell’inglese Carl Warner, alla grazia equi-librata e composta di Jacob Stanley, alla sensualità di Amelie Lombard. Daniela Edburg con la sua serie Drop Dead Gorgeous ricostruisce set surreali di forte impatto emotivo, che interpretano il cibo come fat-tore di pericolo, di insidia dalla quale è difficile tro-vare scampo, eleggendo ingredienti ed alimenti a metafora visiva, di quei mostri e fantasmi che abi-tano l’inconscio della nostra epoca; viaggiando nel suo portfolio possiamo incontrare giovani donne che fuggono sotto la minaccia di nuvole di zucchero filato rosa, o sopraffatte da biscotti, gelatine di frutta e altri dolciumi. Amelie Lombard associa invece l’im-magine del cibo ad una sensualità tutta femminile, sono immagini seducenti, languide, dove i cibi allu-dono ad atmosfere e giochi voluttuosi. Carl Warner realizza straordinari foodscapes luoghi immaginari che mostrano cascate, mari, foreste, montagne, uti-lizzando pane, verdure, frutta, formaggi e affettati.La “fede estetica” ha perciò convinto celebri stilisti, architetti, ricercatori, designer e grandi realtà azien-dali ad investire notevoli risorse nel futuro del food-design. Questa nuova disciplina trova le sue regole e le sue norme unendo i parametri delle arti visive con il concetto di “polisensoriale”. Le applicazioni prati-che del food-design sono molte: interior, product e

industrial design, tecni-che sempre più aggior-nate di mise en place, creazione di ambienti, fino a influenzare o con-dizionare il contenuto dei piatti stessi. Si com-prende come la fina-lità del food-design sia funzionale-emozionale e trovi la sua matrice e ori-gine storico estetica nei movimenti del Bauhaus, del futurismo e dell’E-spressionismo, ma anche tangenze e notevoli punti

di raccordo con la Nouvelle cuisine e la gastronomia molecolare. Può capitare così che laboratori, studi e cucine operino in una sorta di simbiosi progettuale attraverso la cromatologia, la modellazione 3D, la chimica, le ricette tradizionali o contemporanee. Una simbiosi non solo ideale, ma soprattutto operativa, che ha scelto come base sulla quale costruire e appli-care le proprie metodologie la cosiddetta “cultura di progetto” per la quale il food-design lavora in tre direzioni: per il cibo, con il cibo e per la progettazione di portata. Al food-design sono dedicati “eventi” e locali show-room, si realizzano (solo per menzionare alcuni tra i numerosissimi esempi possibili), articoli per packaging, catering, soluzioni per banqueting, ristorazione e degustazione di finger-food, ovvero i tradizionali stuzzichini, ma in chiave estremamente rivisitata. Ecco che i piatti-foglia in morbido silicone tramandano in chiave moderna e contemporanea la tradizione della cultura giapponese, mentre gli “aperitivi luminosi”, ovvero porzioni di molluschi, formaggi o frutta in gelatine, comportandosi come piccole fibre ottiche diffondono invitanti bagliori. Può capitare che siano gli stessi chef a diventare dei food-designer appropriandosi di ulteriori linguaggi tecnico-artistici e creando oggetti d’arte materiati di sfumature e capaci di rivelare la filosofia che sot-tende alla preparazione dei piatti, ma non di meno un’interpretazione tutta personale ed originale degli ambienti; così nel progetto “Alajmo design” elementi e materiali quali il vetro, il legno, il ferro, la modula-zione della luce, il diffondersi del profumo sono con-cepiti come ingredienti e concorrono alla ideazione e realizzazione di calici, posate, elementi d’arredo e profumi d’ambiente, in grado di offrire agli ospiti della tavola un’esperienza poli–sensoriale in cui la convivialità è condivisione di suggestioni, parole ed emozioni, dialogo ininterrotto tra anima immate-riale e materiale, ma anche spazio privilegiato per la memoria.

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Anche chi si occupa, all’interno del mondo gourmand, della tanto discussa cucina molecolare non può non fare a meno di riflettere sul quid este-tico della gastronomia. La cucina molecolare, com’è noto, nasce in Francia, presso il Collège de France di Parigi, alla fine degli anni Ottanta ad opera del fisico e gastronomo Hervè This e di Pierre Gilles de Gennes (premio Nobel per la Fisica nel 1991). È una disci-plina scientifica che studia e spiega i meccanismi che stanno alla base dei processi di trasformazione degli alimenti durante la loro preparazione. Rappre-senta una nuova frontiera dell’alimentazione che si propone di investigare e studiare i detti e i proverbi popolari, sviluppare le ricette classiche e inventarne di nuove, introdurre infine nuovi ingredienti, metodi e utensili in cucina. Hervè This in un’intervista per il Gambero Rosso spiega che la sua è una cucina fatta di note a note, ovvero tocco su tocco, potremmo dire pennellata su pennellata; si tratta fondamental-mente di arte, e l’arte culinaria non va considerata come differente dalle altre forme artistiche, le si pos-sono applicare le stesse teorie estetiche e il mede-simo tipo di critica. È la “dimensione” dell’arte in cucina a fare la diffe-renza, rispetto ad esempio ad una pratica culinaria di concetto e impostazione artigianale. C’è un’idea di sublimazione dell’ingrediente e una filosofia tutta specifica alla base della gastronomia molecolare: innanzi tutto lo scienziato-chef gioca con le “consi-stenze” degli alimenti, con la loro texture e la loro destrutturazione. Ma soprattutto si evince una fortis-sima e prioritaria idea progettuale; è su di una pro-gettazione ben codificata che nasce il piatto moleco-

lare. L’atteggiamento “futurista” degli chef molecolari è inequivocabile, la cucina deve avere un approccio quasi ludico con la materia, deve dominarla e supe-rare di slancio le ricette “passatiste”. Hervè This, Pierre Gilles De Genne, Ferran Adria, o gli italiani Davide Cassi ed Ettore Bocchia fanno della cucina una chimica estetica, un’arte che viene definita “mul-tisensoriale”: la cui finalità è anche di confutare o chiarire, dopo averle analizzate, le credenze popolari e di affidare poco alla sapienza misteriosa che ci è stata lasciata in eredità dai nostri avi; una cucina che sembra anche sbarazzarsi del cosiddetto “segreto dello chef”; tutto è scientificamente concatenazione di fenomeni, perciò di relazioni causa-effetto. Compa-iono in tavola i “dolci frattali”, dolci con una struttura che si ripete su scala diversa, gli “gnocchi moleco-lari”, il “rombo assoluto”, filetto di rombo fritto in una miscela di zuccheri fusi, la “salsa tartara di lecitina di soia”, il “gelato estemporaneo all’azoto liquido”. Tutt’oggi il dibattito attorno a questa concezione di mettersi ai fornelli con il modus operandi di chimici e fisici è estremamente acceso e controverso i detrat-tori di tale disciplina scientifico-culinaria richiamano l’attenzione in particolare nei confronti dell’utilizzo di additivi chimici e della possibilità di adulterazione e contraffazione delle sostanze alimentari, tendenti perciò ad alterare il gusto e la genuinità dei cibi; ma gli chef molecolari si difendono a spada tratta in nome di Lavoisier, in nome di un inesausto deside-rio di scoperta e apertura al futuro, e in nome di un ideale per cui “il bello è il buono”.Filippo Tommaso Marinetti sosteneva: “mangia con arte, per agire con arte”.

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Dialogo sulla qualitá

del cibo

Guido Barilla – Carlo Petrini

Barilla. La nostra idea è portare alla gente alimenti tradizionali, con ricette tradizionali, nel modo più semplice e diretto possibile. Penso che l’industria ali-mentare abbia fatto negli ultimi 50 anni passi enormi in questa direzione. La gente ha avuto a disposi-zione alimenti comunque salubri con ricette sempre migliorabili e migliorate nell’arco del tempo, a prezzi accettabili. Petrini. Io penso che siano due cose diverse che hanno diritto tutte e due di stare non solo sul mer-cato ma anche nella vita quotidiana della gente. Non c’è dubbio che l’industria ha dato un grande contri-buto a far uscire il Paese dalla carenza alimentare del dopoguerra. Ma la vera questione è un’altra. Strada facendo questo processo ha mortificato le piccole produzioni. Con un disastro per quel che riguarda l’agricoltura mai così grave come oggi. Oggi infatti le piccole produzioni di qualità vanno sce-mando. Slow Food e il sistema Madre Terra lavorano per la difesa di questi piccoli produttori. Il che non vuol dire delegittimare gli altri perché in una società complessa hanno tutti diritto di esistere. Guai però se il vaso di coccio viene stritolato. E la piccola produ-zione in questo momento è il vaso di coccio. Barilla. Condivido i principi teorici di Petrini, non la colpevolizzazione in termini pratici di una parte del settore agroalimentare. L’industria ha fatto un mestiere a cui il mercato la chiamava. Questo imperatore che chiamiamo mercato vive sulla domanda e questa è mediata dalla distribuzione che svolge un ruolo importante per la capacità di rag-giungere i consumatori ma che sovente, attraverso le promozioni, li alletta con il miraggio di prezzi sempre più bassi. E quello del prezzo è un argomento fonda-mentale su cui discutere. L’industria non ha distrutto

il piccolo commercio. Ha fatto un percorso a volte di successo, altre no. In questi anni molte aziende ci hanno lasciato le penne. La buona industria si è affer-mata con politiche di straordinaria attenzione alla qualità. Che molti piccoli produttori siano scomparsi non dico che sia nella logica dei fatti, ma forse ha una spiega-zione nella mancanza di propositività e di competiti-vità. Rifiuto completamente l’individuazione del fan-tomatico colpevole nella grande industria e nei suoi marchi. Petrini. Mi sembra una scusa non richiesta. Non ho detto che la colpa è della grande industria. Barilla. Ma lo sottintendi spesso. Hai detto in pas-sato cose abbastanza gravi sulla grande industria. Hai sostenuto che cela informazioni sulle filiere dei prodotti per far sì che siano competitive. È un’accusa pesante. Petrini. Ma questo è successo. Barilla. Non da parte di tutti. Dicendo genericamente grande industria colpevolizzi tutto il settore. Petrini. Allora dirò che la colpa è di Bajon, come can-tava mia nonna. O che se dobbiamo individuare un colpevole va cercato su vari fronti compresi i consu-matori, cioè noi tutti. Stiamo vivendo una crisi le cui proporzioni sono sottovalutate. Una crisi cui si danno risposte vecchie come l’incitamento a consumare, quasi fosse l’unica strada per risollevare l’economia. Alla crisi bisogna rispondere invece con alleanze che impegnino tutti in un processo virtuoso. In primo luogo la difesa dell’ambiente, poi quella della biodi-versità e qui c’è anche la diversità culturale dei piccoli. Poi la giustizia sociale perché un Paese come il nostro che mostra sulle televisioni di tutto il mondo come tratta i neri che raccolgono i pomodori non fa una bella figura. Non possiamo però dimenticare che le

Riprendiamo da La Stampa di dome-nica 28 novembre 2010 pp. 16-17 un interessante dialogo sul rapporto industria e stili alimentari, fra Guido Barilla, noto imprenditore dell’indu-stria alimentare e Carlo Petrini, fon-datore, fra le altre cose dell’Associa-zione Slow food.

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politiche di Bruxelles non sono determinate dai pic-coli produttori ma dalle multinazionali. Poi c’è da dire che la distribuzione è quella che mangia la torta più grande a scapito sia dei piccoli produttori che delle industrie. La via nuova che tutti dobbiamo seguire è tornare a dare valore al cibo che abbiamo ridotto a merce. Barilla. Su questo ultimo punto sono d’accordo. È necessario tornare a dare valore al cibo. Fare capire sia alla gente che alla distribuzione che la corsa al prezzo sempre più basso è un meccanismo non virtuoso ma folle. Perché genera un abbassamento della qualità. Inoltre abbiamo avuto la fortuna di un lungo periodo di prezzi stabili delle materie prime e la crisi porterà in futuro uno strutturale aumento di questi prezzi. Biso-gna ricominciare a dare alla gente più informazioni su cosa è un cibo di qualità e cosa comporta produrlo. Che cosa sono le filiere, come nascono i vari alimenti e quali sono i costi della qualità. Petrini. Sono convinto anch’io che il ruolo dell’infor-mazione sarà sempre più importante e anche la pub-blicità da immaginifica dovrà diventare informativa. Non è possibile che alleviamo i nostri figli senza che sappiano cosa significa la fermentazione del pane, come si fa la pasta o come si coltivano i pomodori. Si sta diffondendo una forma gravissima di ignoranza che la società contadina non aveva. In Italia e in Ame-rica buttiamo tonnellate di alimenti ogni giorno. Nei nostri frigoriferi ci sono cibi che chiedono pietà, li compriamo e poi non li mangiamo. E questo è anche frutto di prezzi troppo bassi. Ho detto che vendere Barolo a due euro è una follia. Ne sono profonda-mente convinto, significa distruggere i produttori seri. Barilla. Aggiungerei che ci si scandalizza per il prezzo di quel che mangiamo ma si dimenticano i milioni di euro buttati ogni giorno nel gioco d’azzardo o in altri consumi superflui. Petrini. Non sono per l’esasperazione del Made in Italy. Credo che significhi saper portare il nostro savoir faire, anche utilizzando materie prime di altri Paesi. Credo che su questo terreno l’industria potrebbe fian-cheggiare i piccoli produttori. C’è da sottolineare poi che la nostra tradizione non è genericamente italiana ma si rifà ai vari territori.

Barilla. Il nostro simbolo è quasi un marchio di ita-lianità. Il Made in Italy per noi però non è legato alla materia prima, ma piuttosto alla competenza e alle macchine che trasformano i prodotti. Pensare che tutta la materia prima di quel che facciamo nel mondo sia italiana è una stupidaggine. I prodotti che distribuiamo in America escono dai due stabilimenti che abbiamo lì. Sono identici a quelli che escono dagli stabilimenti italiani perché gli standard qualita-tivi nella produzione della pasta sono identici. In più in America vanno i nostri tecnici e portano compe-tenze accumulate in 100 anni di esperienza nel fare la pasta in Italia. Direi che il Made in Italy sta più nell’e-sportare un concetto, un modello ed è questo che ci viene riconosciuto. Petrini. Anche se non coltiviamo il caffè, non pos-siamo dire che il nostro caffè non sia Made in Italy. Ma vado in collera quando vedo che i pastori sardi sono sempre più poveri perché per fare il pecorino pecorino romano o sardo si usa il latte di pecora che viene dalla Romania e costa meno di quello locale. In questo caso non si tratta di pecorino Made in Italy ma di un falso che depaupera i nostri piccoli produttori.Barilla. I nostri prodotti non contengono organismi geneticamente modificati. Sotto questo nome esiste un’enorme varietà di mutazioni genetiche, dalle più aggressive alle più dolci. La tecnica della ibridazione è nata con gli Egizi. Dobbiamo chiederci quali passi possa fare la scienza per permetterci di fronteggiare l’incremento della popolazione. Non c’è da essere contrari all’innovazione e alle possibili scoperte purché garantiscano la salubrità e non siano un pericolo.Petrini. Gli esiti dell’incrocio fra regno animale e vegetale né la storia né la pratica né l’osservazione a medio termine possiamo garantirli. Pensa al fenomeno di mucca pazza esploso a 25 anni di distanza dall’inizio dell’alimentazione dei bovini con farine animali. Non demonizzo l’ibridazione: nel secolo scorso ha salvato i nostri vigneti dalla pero-nospora. Grave è che siano tre multinazionali a dete-nere i brevetti degli Ogm. Confondere gli Ogm con le biotecnologie è un errore. La scienza deve dialogare con i saperi tradizionali senza pensare che la verità stia solo da una parte.

Slow Food è un’associazione internazionale senza scopo di lucro nata nel 1986 a Bra in provincia di Cuneo e si pone come obiettivo la promozione del diritto a vivere il pasto, e tutto il mondo dell’enogastrono-mia, innanzitutto come un piacere. Fondata da Carlo Petrini e pensata come risposta al dilagare del fast food e alla frenesia della vita moderna, Slow Food studia, difende e divulga le tradizioni agricole ed enogastrono-miche di ogni parte del mondo. Attraverso progetti, pubblicazioni, eventi e manifestazioni si è impegnata per la difesa della biodiversità e dei diritti dei popoli alla sovranità alimentare, battendosi contro l’omologazione dei sapori, l’agricoltura massiva, le manipolazioni genetiche.

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Academia Barilla nasce a Parma nel 2004 con l’obiettivo di essere centro internazio-nale di riferimento dedicato alla diffusione della cultura gastronomica italiana, in grado di offrire formazione, servizi e prodotti rigorosamente selezionati, scelti dal patrimo-nio gastronomico regionale e nazionale. Academia Barilla mira all’obiettivo di difen-

dere e tutelare i prodotti alimentari italiani dalle contraffazioni e dagli usi impropri di denominazioni e marchi, promuovendo e diffondendo la conoscenza dei prodotti e della cucina italiana nel mondo, cercando di sviluppare e sostenere la gastronomia italiana. La biblioteca gastronomica è ricca di oltre 7.500 volumi relativi a tutti i settori e temi dell’alimentazione, è organizzata in oltre 825 differenti sezioni tematiche, tra cui: vino, pasta, verdure, dolci, pane, cacciagione, frutta, pesce e formaggi sono le più fornite. Esistono anche sezioni riferite ad aree specifiche dell’editoria alimentare, come la storia e la cultura del cibo, i ricettari dei grandi chef, gli interessi culinari di uomini famosi, i problemi dietetici e igienico-sanitari, le materie prime alimentari e il loro corretto utilizzo. Vi sono rappresentate le cucine regionali italiane e le principali cucine nazionali del mondo. Una sezione comprende volumi storici dell’Ottocento. Si possono consultare una quarantina di riviste specializzate in aggiunta a una rasse-gna significativa di pubblicazioni aziendali. I testi sono individuabili al sito: http://opac.unipr.it. Note-voli le stampe della collezione Barilla con alcuni pezzi di grande suggestione artistica e immaginativa. Academia Barilla è dotata di una straordinaria serie di attrezzature state of art per la pratica culinaria che consentono di saggiare in prima persona la cultura gastronomica italiana sul campo, guidati da chef d’eccezione. Siamo in presenza di un vero centro culturale del territorio con respiro internazio-nale, basti pensare alla rilevanza dell’azienda sul mercato del grano con un giro d’affari primario a livello internazionale in grado di alimentare il più grande pastificio del mondo che si trova a Parma. Per informazioni: www.academiabarilla.it

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Le statistiche ci dicono che negli ultimi anni è aumentato il numero di italiani che sceglie un libro come regalo da mettere sotto l’albero. È noto che nel periodo natalizio le vendite salgono ma se a dicembre dello scorso anno si consultavano i siti con le classifiche dei libri più venduti, tutti segnalavano una novità: il successo dei libri di cucina, i protagonisti delle top ten natalizie. Questo dimostra che le pubblicazioni di carattere culinario non sono più semplici libri dove scovare qualche ricetta, ma sono usciti da un settore di nicchia e, specialmente in certi periodi, riescono a colonizzare il mercato. Nella settimana del 20 dicembre 2010, al primo posto della classifica dei libri più venduti c’era Benvenuti nella mia cucina di Benedetta Parodi, al terzo Cotto e mangiato della stessa autrice, mentre al quinto si trovava Antonella Clerici con Le ricette di casa Clerici.È curioso che pubblicazioni di questo tipo diventino best sellers e tengano testa a “pezzi da novanta” come Umberto Eco e Ken Follet. E infatti i commenti lasciati da chi naviga in rete non sono spesso molto benevoli. Questi libri vengono accusati di essere raccolte di “ricette nazionalpopolari fatte per vendere ma che non si possono certo definire capolavori letterari” e che propongono una “rassicurante quanto stereotipata versione della donna in cucina, grembiule-munita”. Quindi, come si spiega questo inaspettato successo?Secondo i dati della classifica generale, è evidente l’influenza della televisione e dei suoi personaggi sulle scelte del grande pubblico. Secondo l’Istat, infatti, 25 milioni e 300 mila in Italia sono i lettori abituali, anche se non con cifre molto alte: in media queste persone leggono almeno un libro l’anno, ovvero il 45,1% della popolazione. La fascia d’età col più alto numero di lettori è quella scolare, fra gli 11 e i 17 anni, mentre crescendo la tendenza alla lettura diminuisce sempre di più. Senza dubbio, però, le donne risultano essere lettrici più accanite, a dispetto di età e zona di residenza, rispetto agli uomini, mentre le percentuali di lettori si concentrano maggiormente nelle regioni del Nord Italia. E se alcuni fattori socio-economici restano indicativi per capire chi e cosa compra, le scelte di lettura degli italiani sono oggi più che mai cambiate in rapporto alle nuove tecnologie: si pensi anche

a come sono cambiate le strategie di comunicazione di grandi e piccoli, vecchi e nuovi editori per promuovere scrittori e libri.Va detto anche che questi testi campioni di incassi non hanno, non solo almeno, una funzione didattica: lo scopo non è insegnare come preparare un piatto ma intrattenere, raccontare una storia, divertire. Ultimamente la tendenza dei libri di cucina è

uscire dal tono del semplice ricettario e condire dosi e preparazioni con aneddoti e riflessioni personali dell’autore. Forse è per questo che vanno a ruba in librerie e auto-grill, o forse è perché per muoversi nella densa vita di tutti i giorni servono anche in cucina dei trucchi salva tempo. Ma una cosa è certa: l’interesse per i libri a sfondo culinario non è in diminuzione ma è anzi un genere che sta esplorando nuove possibilità e contaminazioni. Solo per fare due esempi, all’inizio dell’anno fra le novità editoriali in uscita c’era Volevo essere un grande chef di Loredana Limone, un’opera a metà fra il romanzo e il libro di ricette visto che ad ogni capitolo corrisponde una ricetta alla quale è connesso un piccolo frammento di storia, un racconto, una parte del romanzo generale. Tra le novità di fine gennaio c’era anche il nuovo libro del cuoco e scrittore americano Anthony Bourdain, che con Al sangue mette in luce come negli anni molte cose nell’ambito della gastronomia siano cambiate. Lo fa analizzando le cucine dei ristoranti e svelando ai lettori cosa nasconde la porta dalla quale i camerieri sfilano mentre portano le “prelibatezze” ai tavoli.

Le ricette diventano

best sellers

di Paola Bertoldi

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Dalla confraternita del cacio pecorino a quella del prezze-molo, dall’ordine dei cavalieri della grappa all’arcisodalizio per la ricerca del culatello supremo: sono centinaia in tutta Italia le associazioni create con specifi-che finalità enogastronomiche. Spesso hanno nomi curiosi o comici che ricordano la goliar-dia ma il loro obiettivo è nobile e ambizioso: difendere i prodotti e le ricette dei nostri antenati, che caratterizzano la gastronomia di un paese o di una regione, con l’at-tenzione di evitare la tanto odiata globalizzazione. È per questo che esiste addirittura un organismo europeo che le rappresenta, il Ceuco, il Consiglio Europeo delle Confraternite vinicole, gastronomi-che e dei prodotti agro alimentari.Iniziative di questo tipo non mancano in Trentino, terra che vanta numerosi prodotti tipici. La più nota è forse la Confraternita della vite e del vino, la più antica associazione bacchica d’Italia, fondata il 22 aprile del 1958. Era da poco terminata la ricostru-zione postbellica ed il paese si stava muovendo velocemente per guadagnare posizioni e natural-mente nuove opportunità di lavoro e di sviluppo. Un gruppo di ex allievi dell’Istituto agrario di San

Michele all’Adige l’anno prima aveva visitato in Francia le coltiva-zioni viticole del bordolese ed era entrato in contatto con le asso-ciazione bacchiche. La Provincia stava intanto sensibilizzando i contadini per la sostituzione dei vecchi ceppi vitati: c’era in quel periodo molta confusione nei vigneti, venivano allevate piante di vario genere e molte di queste erano poco adatte a produrre vini

di qualità. Nello stesso tempo si pensava alla valo-rizzazione dei vini, così come alla loro promozione, ed ecco che su questo tema, oltre al rafforzamento dell’allora Comitato vitivinicolo, si è pensato alla fondazione della Confraternita della vite e del vino. Da allora sono trascorsi cinquant’anni, nel corso dei quali la Confraternita, tra alti e bassi, è sempre pro-sperata promuovendo incontri, dibattiti, assemblee e naturalmente cercando di migliorare e di diffon-dere, sia tra i propri aderenti che nel pubblico, la conoscenza e la cultura del prodotto “vino”.Fondata in anni più recenti a Sporminore, è la Con-fraternita della torta e del tortel de patate, nata nel 1998 su iniziativa di un gruppo di amici che ha come motto quello di far conoscere e divulgare la torta e il tortel de patate. Dai 15 componenti iniziali la Con-

I custodi degli antichi sapori

le confraterniteenogastronomiche

di Paola Bertoldi

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fraternita conta oggi ben 290 confratelli che abitano in 3 continenti diversi. A questo proposito è curioso il rituale per l’elezione di nuovi confratelli, che è riservata al Capitolo e avviene nel corso di una cerimonia di intronizzazione. Ogni candidato deve essere presentato da almeno due confratelli che allegano alla proposta un breve curriculum attestante la personalità del candidato ed i suoi meriti. Il candidato, dopo aver promesso di promuovere e diffondere la ricetta tradizionale, viene proclamato confratello. Il Gran Maestro recita la formula di rito ponendo la

grattugia (che si usa per la preparazione del tortel) sulla spalla destra.Queste non sono le uniche due confraternite pre-senti in Trentino, ma ne esistono altre dedite alla memoria e promozione delle specialità tradizionali. Per fare due esempi si possono citare la Confrater-nita dello Smacafam, depositaria della ricetta origi-nale di questo piatto rustico e vigoroso che non può mancare a carnevale, e il Cenacolo roveretano, che si occupa del recupero storico di ricette, della forma-zione di cuochi e che ha l’obiettivo di promuovere le tradizioni enogastronomiche trentine.

Ordine obertengo dei cavalieri del raviolo e del gavi (AL)Confraternita del cacio pecorino piceno (AP)Ordine dei cavalieri della polenta (BG)Emerita confraternita della patata di Bologna (BO)Confraternita della nocciola “tonda gentile di langa” (CN)Venerabile confraternita del cappellaccio di zucca alla ferrarese (FE)Ordine dei cavalieri della confraternita del pesto (GE)Ordine dei cavalieri del “grappolo d’oro” (IM)Confraternita del pampascione salentino (LE)Confraternita della chiocciola... detta anche lumaca (MN)Confraternita del capunsel (MN)Nobile accademia del prezzemolo (MI)Confraternita del gorgonzola di Cameri (NO)Confraternita del nepente (NU)Eccellente arcisodalizio per la ricerca del culatello

supremo (PR)Confraternita del cotechino caldo (PV)Confraternita del cotechino magro (PV)Venerabile confraternita del baccala’ alla vicentina (VI)Confraternita della tagliatella (RA)Circolo “gusto sapiens” (RE)Confraternita del bavarolo (RO)Confraternita del moscato di Gallura (SS)Confraternita del capocollo (TA)Sovrano ordine dei cavalieri della grappa e del tomino (TO)Congrega dei radici e fasioi (TV)Confraternita del pancucco (VA)Club dei 12 apostoli dell’enogastronomia (VE)Confraternita del vino e della panissa (VC)Confraternita del radicchio rosso veneto (VR)

ALTRE CONFRATERNITE IN ITALIA

Proposte di lettura a cura della Biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino

Gli italiani e il cibo: appetiti, digiuni e rinunce dalla realtà contadina alla società del benessere, di Paolo Sorcinelli (Clueb, 1995)Attraverso un secolo di storia italiana, questo libro insegue le tracce dei digiuni e degli appetiti insoddisfatti, dei guasti patologici, delle culture e dei riti legati al cibo. Dalla “frugalità” e dalla “sobrietà” delle polente, fino all’esubero calorico e proteico degli ultimi decenni, quando, in concomitanza con il “miracolo economico”, si è potuto mangiare di più e meglio e l’abbuffata, che generazioni di italiani avevano sognato e accarezzato, poteva dirsi a portata di mano. Eppure i nuovi ritmi di vita e di lavoro hanno fatto sì che si continuasse a mangiare in maniera precaria, nelle mense, nei fast food e nelle tavole calde, o addirittura a saltare i pasti. Anche se non si trattava più di una questione di mancanza ma di abbondanza, si riproponevano le regole della rinuncia e dei condizionamenti, tanto che l’appagamento del mangiare con gusto e piacere forse non è durato neppure il tempo di una generazione. Al desiderio del cibo che non si aveva, è subentrata infatti l’ansia di averne troppo e di non poter soddisfare gli appetiti in nome della “leggerezza” culinaria e della sbrigatività gastronomica, degli effetti dietetici e delle conseguenze sanitarie.

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SETTEMBRE 2010

Storia dell’alfabetizzazione in Trentino

Domenica 5 settembre si è tenuto l’ultimo degli appuntamenti per il 2010 organizzati alla Frabica delle scritture di montagna in Val Canali al Prà del Cimerlo. L’incontro, dal titolo “Quando il popolo inco-minciò a leggere…Note sull’alfa-betizzazione in Trentino” è stato condotto da Quinto Antonelli, che ha tracciato un profilo storico della scuola trentina e dato conto di una ricerca in corso che cerca di stabilire il grado di alfabetizza-zione in Trentino nei primi decenni dell’Ottocento.

Festa di via Veneto

All’interno della tradizionale “Grande festa di via Veneto” che sabato 11 settembre ha animato la via cittadina con mercatino del riuso, laboratori per bambini e ra-gazzi, giochi di una volta e prove sportive, la Fondazione Museo storico del Trentino ha proposto una piccola mostra foto-docu-mentaria sulla costruzione e la vi-ta nei «Casoni», curata da Elena Tonezzer.

A tu per tu con il Museo

Il 22 e il 23 settembre il Labora-torio di formazione storica della

Fondazione Museo storico del Trentino, in collaborazione con il Museo degli usi e costumi della gente trentina, con il MART, con il Castello del Buonconsiglio e con il Museo tridentino di scienze naturali, ha organizzato l’inizia-tiva dal titolo “A tu per tu con il Museo. Giornate aperte 2010”. I due pomeriggi di incontro e cono-scenza con insegnanti ed educa-tori impegnati nel sociale si sono svolti presso le Gallerie di Piedi-castello, dove è stato possibile prendere visione in modo unitario delle attività didattiche e laborato-riali proposte per l’anno scolastico 2010-2011.

Parole nel tempo. Piccoli edi-tori in mostra a Belgioioso Per la prima volta, anche le pub-blicazioni del Museo storico sono state presenti alla mostra mer-cato “Parole nel tempo. Picco-li editori in mostra”, il consueto appuntamento di fine settembre con l’editoria di qualità, giunta al ventesimo anniversario. Nelle bel-le sale del Castello di Belgioioso (Pavia) il 25 e il 26 settembre è stato possibile trovare quei nomi che ormai da alcuni anni si sono affermati nel panorama editoria-le, ma anche i marchi emergenti da poco affacciatisi sul mercato.

OTTOBRE 2010

Il Coro Bianche Zime alle Gallerie di Piedicastello

Il 9 ottobre il coro Bianche Zime di Rovereto, diretto dal Mae-stro Mattia Culmone, ha tenuto un concerto sui canti di trincea presso le Gallerie di Piedicastello. L’iniziativa ha preso il titolo dalla mostra “Parole e musica dei sol-dati” allestita a Trento nel dicem-bre 2009.

INFOMUSEO

La “Strada di De Gasperi” al Reli-gion Today Filmfestival

Il 9 ottobre, presso il teatro San Marco di Trento, nell’ambito del-la XIII edizione del Religion Today Filmfestival (8-21 ottobre 2010), è stato proiettato il documentario “La strada di De Gasperi”, pro-dotto dalla Fondazione Museo storico del Trentino per la regia di Elena Negriolli. Assieme al-la regista hanno partecipato alla serata la figlia dello statista Ma-ria Romana De Gasperi, Maurizio Gentilini della Direzione genera-le del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma e Giuseppe Ferrandi, direttore della Fonda-zione Museo storico del Trentino. Il documentario, attraverso una serie di testimonianze, racconta la parabola umana di Alcide De Gasperi in modo non cronologico ma geografico, seguendo l’evento straordinario che fu il viaggio del-la sua salma da Sella Valsugana a Roma.

La vita in uno scatto

Il 12 ottobre, presso la residenza sanitaria assistenziale Marghe-rita Grazioli di Povo, è stata inau-gurata la mostra “La vita in uno scatto. Immagini, racconti, oggetti di un tempo”. L’esposizione, rima-sta aperta fino al 5 novembre 2010, è stata realizzata in collabo-razione con il Comune di Trento e la Fondazione Museo storico del Trentino.

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Ora Veglia

La Compagnia aria Teatro e la Compagnia teatroBlu hanno messo in scena il 12 ottobre, al Teatro Cuminetti di Trento, lo spet-tacolo “Ora Veglia. Il silenzio e la neve” (drammaturgia di Susanna Gabos e regia di Nicola Benussi). Lo spettacolo, incentrato sulla Resistenza in Trentino e in Veneto, è stato realizzato con il soste-gno della Provincia Autonoma di Trento, Ufficio per le pari oppor-tunità e la collaborazione dei Comuni di Pergine Valsugana, Trento, Borgo Valsugana e Bol-zano, dell’Anpi, dell’associazione Terre del fuoco e della Fondazione Museo storico del Trentino.

Mostra fotografica sulla Sloi

La mostra fotografica di Franco Visintainer “A 620 metri da casa mia. Sloi, trent’anni dopo” è stata inaugurata il 15 ottobre 2010 nelle Gallerie di Piedicastello. L’esposizione, che ripercorre l’in-terno della fabbrica abbandonata ex SLOI, oggi luogo spettrale e rifugio di disperati, è stata rea-lizzata grazie alla collaborazione dell’Arci del Trentino, della Fon-dazione Museo storico del Tren-tino e della Circoscrizione Centro

storico-Piedicastello ed è rima-sta aperta al pubblico fino al 30 novembre 2010.

Attività per gli studenti universi-tari

Il 20 ottobre, nell’ambito della manifestazione “Associati! Opera fuori dall’aula”, dedicata alla pre-sentazione delle associazioni stu-dentesche, la Fondazione Museo storico del Trentino è stata pre-sente dalle 19.30 alle 23.30 presso il bar dello Studentato di San Bar-tolameo a Trento per far cono-scere agli studenti universitari le proprie attività didattiche e cultu-rali.

In ricordo di Fabio Giacomoni

A un anno dalla sua scomparsa, la Biblioteca della Fondazione Mu-seo storico del Trentino il 20 otto-bre ha ospitato l’incontro dedica-to al ricordo di Fabio Giacomoni. La figura di Giacomoni, docente di Storia economica presso l’Univer-sità di Trento ed editorialista del Corriere del Trentino, è stata trat-teggiata da Giuseppe Ferrandi, di-rettore generale della Fondazione Museo storico del Trentino, Fran-co Panizza, assessore provinciale alla cultura, rapporti europei e co-operazione, Diego Schelfi, presi-dente della Federazione Trentina

della Cooperazione, Luigi Blanco dell’Università di Trento e Alber-to Ianes, responsabile del Centro sulla storia dell’economia coo-perativa della Fondazione Museo storico del Trentino.

Conferenza su Leopoldo Pergher

A cinquant’anni dalla scomparsa del dott. Leopoldo Pergher, illu-stre medico chirurgo, la sezione cultura del Circolo Comunitario di Montevaccino, il Punto di Prestito di Montevaccino, la Fondazione Museo storico del Trentino e la Circoscrizione Argentario hanno ricordato la sua figura propo-nendo per il 22 ottobre la serata dal titolo “Un medico e il suo tempo: Leopoldo Pergher e le nuove sfide del Novecento”. L’incontro, presso il Centro sociale di Montevaccino, è stato introdotto da Gianko Nar-delli del Centro di documenta-zione storica “Ceresa Costa”; in seguito ha presentato la sua rela-zione Rodolfo Taiani della Fonda-zione Museo storico del Trentino.

Iniziative per i quarant’anni della Whirlpool

La fabbrica Whirlpool fa parte della storia del Trentino dal 1970; per festeggiare questi quarant’anni di storia, di persone, di lavoro, di passione, la direzione dello sta-bilimento, in collaborazione con il Comune di Trento – Politiche Giovanili, la Fondazione Museo storico del Trentino e la Fonda-zione Galleria Civica di Trento, ha organizzato una serie di eventi. Sabato 23 e domenica 24 ottobre, presso lo stabilimento Whirlpool, gli attori Andrea Castelli e Andrea Brunello, volti noti della scena tea-trale trentina, hanno proposto lo spettacolo “Whirlpool, la fabbrica delle emozioni”.Il martedì successivo, alle Galle-rie di Piedicastello, è stata invece inaugurata la mostra “Whirlpool Art”: 7 giovani artisti trentini emer-

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genti sono stati chiamati a reinter-pretare 7 frigoriferi Whirlpool. Le sette opere d’arte – realizzate all’in-terno dello stabilimento di Spini di Gardolo da David Aaron Angeli, Flavia Decarli, Ilaria Bassoli, Marta Bettega, Federico Lanaro, Jacopo Mazzonelli e Marco Merulla – sono rimaste esposte al pubblico fino al 28 novembre 2010.

Storia dell’agricoltura in val di Non

Nell’ambito del ciclo di conferenze “Le Radici e il Tempo” i Musei di Ronzone e la Fondazione Museo storico del Trentino il 29 ottobre hanno organizzato la conferenza dal titolo “Paesaggi agrari. Il cam-biamento. Cento anni di storia in Val di Non”, con proiezione del docu-film “Paesaggi in movi-mento. Storia e agricoltura in Val di Non”. Sono intervenuti Alessandro de Bertolini, ricercatore della Fon-dazione Museo storico del Tren-tino, e il regista Lorenzo Pevarello. La conferenza e il filmato hanno preso spunto dalla mostra, ospi-tata presso il Portale della storia e della memoria del Val di Non (Loc. Santa Giustina – Tassullo) fino al 31 ottobre 2010, che ha illustrato il mutamento della valle nel corso di un secolo, da fine 800 quando l’agricoltura serviva quasi esclusi-vamente per soddisfare i bisogni familiari, a fine 900 con l’espor-tazione della frutta sui principali mercati internazionali.

Trekking urbano

Il 31 ottobre L’APT Trento, Monte Bondone, Valle dei Laghi ha propo-sto la Giornata nazionale del trek-king urbano: un percorso inedito alla riscoperta dell’antico quar-tiere di Piedicastello, intervallato da degustazioni enogastronomi-che, momenti di intrattenimento e approfondimento storico-cultu-rali. Presso le Gallerie di Piedica-stello un operatore della Fonda-zione Museo storico del Trentino ha condotto i partecipanti in una breve visita alla galleria nera.

NOVEMBRE 2010

La fabbrica del freddo

La sera del 10 novembre il Cinema Astra di Trento ha ospitato la pro-iezione del documentario “La fab-brica del freddo”, prodotto dalla Fondazione Museo storico del Trentino, per la regia di Micol Cos-sali e Valentina Miorandi. Erano presenti in sala le registe, Giu-seppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino e Lucia Maestri, asses-sore alla cultura, turismo e giovani del Comune di Trento.Le registe Cossali e Miorandi hanno costruito un ritratto di gruppo a partire dai racconti sog-gettivi degli uomini e delle donne che hanno lavorato e lavorano nello stabilimento Whirlpool, con-ducendo una campagna di intervi-ste e una ricerca di carattere sto-rico e sociale che investe gli ultimi 40 anni del complesso rapporto tra società e fabbrica in Trentino.

L’ombra del passato. Seminario su mass media e memoria

Il seminario annuale su mass media e memoria, promosso dalla Fondazione Museo storico del Trentino e giunto alla sua terza edizione, quest’anno si è tenuto il 17 novembre presso la Facoltà di Economia di Trento. All’incontro, dedicato alla nostalgia tra cinema e televisione, dopo i saluti del direttore della Fondazione Museo storico del Trentino Giuseppe Fer-randi e di Andrea Giorgi, diret-

tore del Dipartimento di Filoso-fia, Storia e Beni Culturali dell’U-niversità degli Studi di Trento, hanno presentato le loro relazioni Leonardo Gandini (Università di Modena e Reggio Emilia), Con-stantine Verevis (Monash Univer-sity, Melbourne), Vera Dika (New Jersey City University), Emiliano Morreale (Università di Teramo), Sara Zanatta (Università di Trento), Paolo Caneppele (Öster-reichisches Filmmuseum), Gian-luca Farinelli (Cineteca di Bolo-gna), Andrea Bellavita (Università di Trento), Adriano Filippucci (Fox Channels Italy), Micol Cossali (regista).

Riflessione sugli anni settanta

Prendedo spunto dal testo tea-trale di Angela Demattè “Avevo un bel pallone rosso” – dedicato alla storia di Margherita Cagol e al conflitto generazionale esploso negli anni settanta – il 29 novem-bre, presso la Fondazione Museo storico del Trentino, si è tenuto un confronto-dibattito dal titolo “Leggere gli anni settanta”, mode-rato dallo storico Vincenzo Calì. Vi hanno partecipato Angela Demattè e Andrea Castelli, interpreti dello spettacolo sulla Cagol, Roberto Antolini, autore del romanzo “Ivan il terrorista”, Alberto Conci, cura-tore del volume “Sedie vuote: gli anni di piombo dalla parte delle vittime”, Tersite Rossi (pseudo-nimo di Marco Niro e Mattia Mai-stri), autore del romanzo “È già sera, tutto è finito”.

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DICEMBRE 2010

Convegno sul paesaggio

Nell’ambito del convegno inter-nazionale “Di monti e di acque. Le rughe e i flussi della terra. Paesaggi, cartografie e modi del discorso geostorico“ (Trento – Palazzo Geremia e Biblioteca comunale, 1-4 dicembre 2010) il 1° dicembre Alessandro De Ber-tolini, ricercatore della Fonda-zione Museo storico del Trentino, ha parlato di “Fonti e metodi per una storia del paesaggio. La testi-monianza orale e la fotografia: il caso della Val di Non”. Il 3 dicem-bre Vincenzo Calì, vice-presidente dell’Associazione Museo storico in Trento, ha presentato invece la relazione dal titolo “Una porta d’Italia col tedesco per portiere: Battisti, Tolomei, Salvemini e il confine settentrionale”.

Mostra sulle chiese tradizionali rumene nelle Gallerie

Il 4 dicembre nelle Gallerie di Piedicastello, alla presenza del Console Onorario di Romania per il Trentino-Alto Adige, è stata inaugurata la mostra fotografica curata da Aurel Chiriac dal titolo “Miracoli di legno. Chiese tradi-zionali di Romania”. Il racconto fotografico e di video-immagini è rimasto a disposizione del pub-blico fino al 13 febbraio 2011.

I libri della Fondazione alla Fiera “Più libri più liberi”

Come di consueto un’ampia sele-zione delle opere edite dalla Fon-dazione Museo storico del Tren-tino sono state presenti a “Più libri più liberi”, la fiera nazionale della piccola e media editoria di Roma, giunta alla nona edizione, che, dal 4 all’8 dicembre presso il Palazzo dei Congressi dell’Eur,

anche quest’anno ha dato la pos-sibilità alle piccole case editrici di far conoscere le proprie proposte.

Conferenza su Andreas Hofer

Il 7 dicembre la Facoltà di Lettere e Filosofia di Trento ha ospitato la conferenza del Prof. Laurence Cole (University of East Anglia) su “Il mito di Andreas Hofer”. L’in-contro è stato realizzato dal Dipar-timento di Filosofia, Storia e Beni Culturali dell’Università di Trento in collaborazione con la Fonda-zione Museo storico del Trentino.

Incontri in Galleria

Il 10 dicembre le Gallerie di Piedi-castello sono state teatro di varie iniziative organizzate dal Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani e dalla Fondazione Museo storico del Trentino.

Alle 17 si è tenuto l’incontro con la narratrice di Sarajevo Kanita Focak. A seguire è stata inaugu-rata la mostra, con illustrazioni di Jimi Angelo Trotter e testi di Quinto Antonelli, dal titolo “Quello che, per tutto il corso di sua lunga vita... Scene dalle Memorie di Angelo Michele Negrelli”.Alle 19.30 il Comitato feste S. Apollinare e l’Associazione Romeni del Trentino Alto Adige hanno offerto una cena a base di specialità trentine e romene. La serata si è conclusa con uno spettacolo di musica e danza popolare romena a cura dell’As-sociazione Romeni del Trentino-Alto Adige, “ARTA-A”.

L’invenzione di via Verdi

L’11 dicembre la sala di Palazzo Calepini a Trento ha ospitato l’inaugurazione della mostra “L’in-venzione di via Verdi. Una strada di Trento tra Otto e Novecento”, curata da Elena Tonezzer, ricerca-trice della Fondazione Museo sto-rico del Trentino.L’esposizione, aperta fino al 27 feb-braio 2011, è composta da oggetti originali e da grandi riproduzioni di immagini e mappe. Anche grazie all’uso della moderna tecnolo-gia multimediale, ha permesso al visitatore di ripercorrere i cam-biamenti di questa importante via della città di Trento.

L’emigrazione italiana in America

La Fondazione Museo storico del Trentino e la Presidenza del Consi-

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18 settembre 2010, DarzoNell’ambito della manifestazione “Darzo in sagra”, che dal 17 al 19 settembre ha animato il paese della Valle del Chiese, è stato pre-sentato il libro di Andrea Petrella “L’oro bianco di Darzo. Ritratto di un paese”.

30 settembre, 2010, Trento”Nagoyo, la vita di don Angelo Confalonieri fra gli aborigeni d’Australia 1846-1848”, il volume curato da Angelo Pizzini, è stato presentato presso la Sala Depero del palazzo della Pro-vincia di Trento, all’interno della seconda edizione di “Sulle rotte del mondo”, iniziativa della Pro-vincia autonoma di Trento e dell’Arcidiocesi di Trento che, tra il 27 settembre e il 2 otto-bre 2010, ha voluto “riportare a casa”, per qualche giorno, i quasi 500 missionari trentini impegnati nei cinque continenti.

22 novembre 2010, RoveretoIl Palazzo della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rove-reto ha ospitato la presentazione del libro di Andreas Oberhofer “Andreas Hofer (1760-1810). Dalle fonti alla storia”. Assieme all’autore è intervenuto Hans Heiss, archivista e docente di storia moderna e contempora-nea all’Università di Innsbruck.

16 dicembre 2010, TrentoPresso il cinema Astra è stato presentato il libro di Alberto Ianes “Cuore di comunità. Alle radici della Cassa Rurale di Trento (1896-1950)”, pubblicato in occasione del 10° anniversario della nascita della Cassa Rurale di Trento. Contestualmente si è tenuta la presentazione del dvd di Lorenzo Pevarello “Testimoni di cooperazione. La Cassa della città e la sua gente”, allegato al volume. Assieme agli autori sono intervenuti Giorgio Fra-calossi e Michele Sartori, pre-sidente e direttore della Cassa Rurale di Trento, e Giuseppe Fer-randi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino.

16 dicembre 2010, TrentoNella biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino Giu-seppe Ferrandi, direttore della Fondazione, e Günther Pallaver, professore all’Università di Innsbruck, hanno presentato il volume “Università e nazionali-smi. Innsbruck 1904 e l’assalto alla Facoltà di giurisprudenza ita-liana”, curato dallo stesso Palla-ver. L’incontro è stato moderato da Vincenzo Calì.

glio Regione Trentino-Alto Adige hanno inaugurato il 18 dicembre la mostra “Partono i bastimenti” che ripercorre, attraverso fotogra-fie e documenti, la storia dell’emi-grazione italiana oltre Atlantico.

Nuova donazione di volumi da parte di UCT

L’Associazione Uomo città e terri-torio di Trento ha donato alla Fon-dazione Museo storico del Tren-tino oltre un migliaio di volumi che documentano i vari settori di indagine e di studio sviluppati in tanti anni di attività. Già in passato la medesima Associazione ha con-tribuito ad accrescere il patrimo-nio librario e documentario della Fondazione, versando materiali librari e archivistici, di UCT conflu-iti nel Centro di documentazione Mauro Rostagno. Rivolgiamo un particolare ringraziamento per la sua sensibilità al direttore Sergio Bernardi.

PRESENTAZIONI

E D I Z I O N I

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La memoria e il cinema hanno, non da oggi, un destino comune, nel segno di un reciproco inte-resse a promuovere la propria immagine pubblica e la propria funzione sociale. Dopo oltre un secolo di percorsi e destini paralleli la memoria e il cinema si trovano oggi a un punto di convergenza che si configura, a tutti gli effetti, come un luogo d’ibridazione. È ancora possibile parlare di un rapporto fra memoria e cinema, alla luce del fatto che qualsiasi relazione prefigura un incontro, più o meno articolato, fra due entità contestuali, ma distinte e differenziate? O invece le dina-miche della compenetrazione e della contaminazione sono tali da imporre una riflessione legata in modo imprescindibile alla dimensione memoriale del cinema e alla dimensione cine-matografica della memoria?A queste domande tentano di rispondere i saggi contenuti in questo volume che raccoglie gli atti del convegno svoltosi a Trento nel dicembre 2009.

Luigi Blanco e Elena Tonezzer (a cura di), L’invenzione di via Verdi. Una strada di Trento tra Otto e Novecento, pp. 129, € 14,00 Catalogo che accompagna la mostra omonima; si avvale di importanti collaborazioni scienti-fiche ed è punto di sintesi e divul-gazione delle ricerche storiche in corso relative allo scorcio di fine XIX secolo dedicate a Trento. La mostra “L’invenzione di via Verdi” ci racconta, attraverso la voce dei protagonisti e la docu-mentazione dell’epoca, la storia di una piccola ma fondamentale parte del centro storico della città. Via Alessandro Vittoria - dive-nuta poi via Verdi - ha una data di nascita ben precisa: nel 1888 il Municipio decide di abbattere una casa che si trovava di fronte

Lorenzo Gardumi (a cura di), Feuer! I grandi rastrellamenti antipartigiani dell’estate 1944 tra Veneto e Trentino, pp. 95, € 12,00

Catalogo dell’omonima mostra che, tra agosto e settembre 2010, il Museo storico del Tren-tino ha allestito presso maso Spilzi a Costa di Folgaria. La mostra ha posto sotto una diversa e più approfondita luce i «rastrellamenti antipartigiani» organizzati dalle forze di occu-pazione nazifasciste tra l’estate e l’autunno 1944. Le operazioni di repressione attuate dai Comandi militari germanici furono dirette ad annientare le «formazioni partigiane» che, a partire dall’e-state 1944, avevano messo in pericolo i collegamenti stra-dali e le vie di transito lungo la fascia di confine tra il Veneto e

la Zona d’operazione delle Pre-alpi (Alpenvorland). In gioco vi era il controllo strategico della linea di comunicazione del Bren-nero attraverso la quale giunge-vano truppe e rifornimenti dalla Germania all’esercito tedesco schierato sul fronte italiano. Sono state poste in risalto le diverse formazioni partigiane attive e operanti nell’estate 1944. Contemporaneamente, l’attenzione si è concentrata sui reparti nazifascisti, sui singoli militari, impegnati nell’intero ciclo operativo di rastrellamento e sulla loro esperienza bellica, di fatto compiutasi sul fronte orientale e nell’Italia centro-set-tentrionale nei mesi precedenti. È in questo quadro che è stato inserito l’episodio di malga Zonta anche attraverso il dif-ficile e complesso rapporto tra civili, tedeschi e partigiani sull’altopiano, nonché il tema della «memoria» legata alle varie commemorazioni dell’eccidio compiutosi il 12 agosto 1944. Completa il catalogo un glossa-rio informativo e di approfondi-mento.

Leonardo Gandini, Daniela Cec-chin, Matteo Gentilini (a cura di), Memorie riflesse: lo schermo tra vero e falso, pp. 117, € 10,00 (Quaderni di Archivio trentino; 26)

N O V I T À

E D I Z I O N I

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all’entrata del Duomo e così nasce l’idea della nuova strada. Oggi via Verdi ospita palazzi che si riconducono prevalentemente alla vita universitaria della città, ma nella loro evoluzione hanno rivestito funzioni significative del momento storico in cui sono stati costruiti.

Alberto Ianes, Cuore di comu-nità. Alle radici della Cassa Rurale di Trento (1896-1950), pp. 255 + dvd, € 25,00Il libro documenta le origini, i binari di partenza di quattro ceppi cooperativi, le Casse di Povo, Villazzano, Vigo Cortesano e Sopramonte, quattro realtà che rimasero autonome e separate per tutto l’arco temporale qui considerato (dal 1896 al 1950) e per un lungo tratto ancora, prima di avviare un percorso che le avrebbe condotte alla sintesi unitaria, dando vita alla Cassa Rurale di Trento. La storia nar-rata è anche la storia delle donne e degli uomini che hanno fatto le quattro Casse, di coloro che hanno scandito i passaggi cru-ciali e vi hanno trovato le forme e i modi, molto personali, ma anche collettivi del riscatto. Il libro è anche (e forse soprat-tutto) il racconto di una società che cambia, il riflesso di una fine Ottocento e di una prima metà Novecento, segnate da due guerre mondiali, e, nel caso del Trentino, da un cambio di con-fini. Ne esce un affresco, una sorta di concerto collettivo in cui

le vicende delle realtà del credito cooperativo non emergono da soliste, ma da importanti coriste, inserite, come sono, in una amal-gama con il tessuto sociale. Il testo è corredato da un appa-rato iconografico che completa lo scritto e lo impreziosisce.

Beatrice Primerano, Ernesta Bit-tanti e le leggi razziali del 1938, pp. 200, € 17,00Il Diario di Ernesta Bittanti è una delle rare «cronache» della quo-tidiana infamia dell’applicazione delle leggi razziali del 1938, rac-contata per di più non dalla voce di chi subiva quell’infamia come oggetto dell’odio razziale, ma dalla voce di chi, contro la sua volontà e coscienza, assisteva alla tragedia con la consapevo-lezza di veder crollare un intero ordine etico-giuridico, quello dei valori post-risorgimentali del progresso morale e sociale nella libertà e nell’eguaglianza, sotto le garanzie dello Stato di diritto. Il lettore troverà nel volume il senso di una viva e umana par-tecipazione, che sono il segno tangibile della sensibilità storica verso un documento che resta pur sempre la storia di un’anima (e di un’anima grande, quale fu quella di Ernesta Bittanti).

DVD Lorenzo Pevarello (regia e sceneggiatura), Testimoni di cooperazione. La Cassa della città e la sua gente, 60’, € 8,00In questo documentario rivi-vono - attraverso una coralità di voci - alcuni momenti fondamen-tali della storia del novecento del Trentino e della nostra Città. Sono storie del passato, che i Soci della Cassa Rurale raccon-tano con lo sguardo rivolto al futuro perché, anche grazie a queste testimonianze, le gene-razioni che verranno sappiano custodire e rivalutare la storia della nostra Comunità.

Lorenzo Pevarello (regia e sce-neggiatura), Spinale e Manez. Le antiche regole ritrovate, 50’, € 8,00 (Memorie di comunità; 8) “Nella proprietà collettiva, accanto al primato della cosa, emerge il primato della comunità sull’individuo... Il regime dei beni si compenetra col regime sociale generalmente identificato in una sorta di consorzio soprafa-miliare...un intreccio fra lavoro, produzione, sangue e terra...”.Le Carte della Regola (diffuse in Trentino in epoca medioevale) erano la trascrizione di antiche usanze, dapprima trasmesse a viva voce e solo in seguito per mezzo della scrittura, che rego-lamentavano le attività agricole, silvo-pastorali e i criteri di convi-venza in generale.Il documentario, attraverso la testimonianza di alcuni rego-lieri (Zeffirino Castellani, Miriam Endrizzi, Elisa Fedrizzi, Pio Fer-rari, Livio Giovanella, Angelo Cipriano Leonardi, Battista Leo-nardi, Clemente Lorenzi, Corne-lio Lorenzi, Giovanni Paoli, Livio Paoli), ripercorre la storia recente della “Comunità delle Regole di Spinale e Manez”. Una storia fatta di battaglie che questa pic-cola comunità ha dovuto soste-nere nel corso del secolo scorso per far sopravvivere il suo “altro modo di possedere”.

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OGGI, UN LUOGOUNICO PERATTRAVERSARELA STORIA.

TRENTO

PIEDICASTELLOLE GALLERIE

Le Gallerie. Scavare nel passato.

IERI, DUE GALLERIETRAFFICATE.

IA SOL 700 MT. Z

DALLA STA IONE

DI TRENTO

FONDAZIONE

DEL TRENTINOMUSEO STORICO

www.legallerie.tn.it