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Marinai d’Italia 37 Allo scambio della guardia, ai posti di navigazione, le sole fra- si pronunciate erano: nulla di nuovo? Niente, sempre niente! All’alba ,risvegliandoci, scrutiamo il mare cercando un punto qualsiasi sperando di renderci conto della rotta presa della na- ve. Mentre regna ancora un profondo silenzio, rotto qua e là da brevi e secchi comandi ci rendiamo conto che decine di navi ci sono attorno. Come mai? saranno mica inglesi, per caso! In- vece si tratta del grosso della Flotta Italiana che, con il suo lento rombare di macchine, s’avvia verso il triste esilio. Ancora non lo sappiamo con esattezza, ma una frase di certo sfuggita a qualche Ufficiale aveva fatto radici nelle nostre menti, domandandoci se veramente questa sarebbe stata la fi- ne della gloriosa e temuta «Tigra dei Mari». Oh,no! centomila volte meglio morire con onore sul campo di battaglia piuttosto che affrontare a capo chino la dura via dell’esilio. Ecco perché non dissero nulla ai marinai. Sapevano benissimo che nessu- no avrebbe condotto le navi alla resa! Nobiltà d’animo e abne- gazione al dovere da parte dei nostri superiori, ma a noi cosa importavano queste virtù seppur belle. Ora, a mente fredda, si potrebbe anche ragionare, ma in quei momenti era impossibi- le, poiché per noi stessi la Patria rappresentava l’intrinseco della giovane nostra esistenza. Poche ore dopo si profilano all’orizzonte le Bocche di Bonifa- cio. Si incrocia per qualche ora in quei paraggi, ed infine si en- tra a La Maddalena. Non ci par nemmeno vero di aver già rag- giunta la mèta …. e purtroppo doveva essere così. Come un fulmine a ciel sereno si sparge la voce che La Maddalena è occupata dai tedeschi. Con precisione non si sa da dove fosse arrivata questa notizia. Per taluni sarebbe stato un «Avviso Scorta» inviato in perlustrazione, per altri un ordine giunto dal Ministero. Comunque sia, con nostra sorpresa, la rotta viene invertita a «tutta barra», mentre i telegrafi di macchina squilla- vano: «avanti a tutta forza!» La formazione navale è invertita: la testa passa in coda, e viceversa. Avanti a noi è il Vittorio Ve- neto e per ultima segue la Roma. Dopo poche miglia, nei pres- si dell’Asinara, le vedette segnalano aerei ad alta quota. N el settembre 1943, in ottemperanza con le clausole del- l’armistizio, la flotta lascia La Spezia e si dirige verso sud. Dopo l’affondamento della Roma le navi raggiun- gono Malta. Una volta alla Valletta parte di esse verranno di- rottate verso i Laghi Amari per essere internate. Questo sorta di esilio cessò solo all’inizio del 1947. In precedenza, nel 1946 i vincitori si erano ormai accordati per destinare l’Italia, ex Littorio, lievemente danneggiata, agli Sta- ti Uniti e il Vittorio Veneto all’Inghilterra e venne per la prima volta ventilata l’ipotesi, proprio dagli inglesi, di lasciare l’unità all‘Italia, chiedendo che venisse demolita. L’idea di utilizzare il Vittorio Veneto come nave bersaglio fu in seguito abbandona- ta per evitare di «inasprire ulteriormente il risentimento italia- no», come scrisse l’ambasciatore inglese a Roma. Nel settembre 1947 infine gli Stati Uniti rinunciarono alla quo- ta di navi che spettava loro, il che spinse l’ambasciatore ingle- se a chiedere nuovamente a Londra un provvedimento del ge- nere, dal momento che «...l’opinione pubblica [italiana] aveva un atteggiamento scioccamente emotivo nei confronti della flotta», ma ancora una volta tale appello cadde nel vuoto, per il fatto che l’Ammiragliato riteneva di avere ancora bisogno del Vittorio Veneto, ed era quindi deciso ad impadronirsene per in- serirlo nei suoi ranghi. » Inoltre scrisse l’Ammiragliato: «restituire l’orgoglio della flotta italiana [...] rappresenterebbe ben più di un gesto di magnani- mità necessario ricordare loro che ci hanno dichiarato guerra e che sono stati sconfitti. Ma prima della loro disfatta, ci han- no procurato danni irreparabili, che noi non possiamo ed essi non dovrebbero dimenticare. A causa di tali danni noi ora sia- mo una nazione povera, tanto quanto la loro, e non possiamo fare doni caritatevoli come gli Stati Uniti [...]» Alla fine del 1947 la Gran Bretagna si dimostrò disponibile a concedere il Vitto- rio Veneto all’Italia, con la condizione che esso venisse demo- lito ed i materiali recuperati le fossero consegnati. 36 Marinai d’Italia Testimonianze I Laghi Amari Il Grande Lago Amaro visto dallo spazio Il Grande al-Buhayra al-Murra-al-Kubr è un lago salato situato tra l’Africa e il Sinai che si divide in una parte nord e in una parte sud il canale di Suez ed è unito al Piccolo al-Buhayra al-Murra al-Sughr. Per la Marina Militare questi luoghi rappresentano una triste tappa della sua storia, poco nota e che il nostro periodico ha deciso di divulgare grazie a recenti lettere di soci che sono stati testimoni diretti di questi avvenimenti. La speranza è che sulla vicenda dei Laghi Amari pervengano altre informazioni di prima mano in modo che nei numeri seguenti di “Marinai d’Italia” se ne possa sapere sempre di più. 1ª testimonianza LA TRISTE ROTTA DI UN DOLOROSO ESILIO Primo Maneo Socio del Gruppo di Ivrea La Spezia, a bordo della R. Nave da Battaglia Italia (ex Littorio) O tto settembre 1943, giornata di gran movimento e di indi- menticabile emozione. Tutto era pronto per la partenza ed ognuno era impaziente di salpare. L’ordine venne dato a notte inoltrata e, mentre nel silenzio delle tenebre la prua tagliava un solco spumeggiante nelle placide acque del golfo, ognuno di noi era invaso da mille domande: dove andremo? Cosa fare- mo? Si ritornerà? E quando rivedremo i nostri cari? Mistero im- penetrabile per noi uomini di mare avvezzi a guardare in fac- cia la morte, combattendo con leale sentimento per la causa impostaci dal dovere. Qualcuno, prima della partenza, aveva disertato e ora qualcun altro malediva il momento in cui non aveva saputo. L’ambiente non era più quello di pochi giorni pri- ma: non più sorrisi sulle nostre labbra; non più scherzi fra ami- ci ma, domande! Domande! Insistenti e torturanti, con il cuore e con la parola, per le quali nessuno sapeva darne una rispo- sta, forse neanche il Comandante. Nessuno sapeva cosa sa- rebbe accaduto. A «radio prora» si vociferava un possibile au- toaffondamento delle Unità, oppure il rifugiarsi in un porto neu- trale, oppure ancora la battaglia finale contro la flotta inglese. Il Littorio a Taranto il 25 giugno 1942, con l’equipaggio schierato in occasione della visita a bordo di Benito Mussolini successiva ai favorevoli esiti della battaglia di «Mezzo giugno» Coll. E. Bagnasco via M. Brescia

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Marinai d’Italia 37

Allo scambio della guardia, ai posti di navigazione, le sole fra-si pronunciate erano: nulla di nuovo? Niente, sempre niente!All’alba ,risvegliandoci, scrutiamo il mare cercando un puntoqualsiasi sperando di renderci conto della rotta presa della na-ve. Mentre regna ancora un profondo silenzio, rotto qua e là dabrevi e secchi comandi ci rendiamo conto che decine di navici sono attorno. Come mai? saranno mica inglesi, per caso! In-vece si tratta del grosso della Flotta Italiana che, con il suolento rombare di macchine, s’avvia verso il triste esilio. Ancora non lo sappiamo con esattezza, ma una frase di certosfuggita a qualche Ufficiale aveva fatto radici nelle nostrementi, domandandoci se veramente questa sarebbe stata la fi-ne della gloriosa e temuta «Tigra dei Mari». Oh,no! centomilavolte meglio morire con onore sul campo di battaglia piuttostoche affrontare a capo chino la dura via dell’esilio. Ecco perchénon dissero nulla ai marinai. Sapevano benissimo che nessu-no avrebbe condotto le navi alla resa! Nobiltà d’animo e abne-gazione al dovere da parte dei nostri superiori, ma a noi cosaimportavano queste virtù seppur belle. Ora, a mente fredda, sipotrebbe anche ragionare, ma in quei momenti era impossibi-le, poiché per noi stessi la Patria rappresentava l’intrinsecodella giovane nostra esistenza. Poche ore dopo si profilano all’orizzonte le Bocche di Bonifa-cio. Si incrocia per qualche ora in quei paraggi, ed infine si en-tra a La Maddalena. Non ci par nemmeno vero di aver già rag-giunta la mèta …. e purtroppo doveva essere così. Come unfulmine a ciel sereno si sparge la voce che La Maddalena èoccupata dai tedeschi. Con precisione non si sa da dove fossearrivata questa notizia. Per taluni sarebbe stato un «AvvisoScorta» inviato in perlustrazione, per altri un ordine giunto dalMinistero. Comunque sia, con nostra sorpresa, la rotta vieneinvertita a «tutta barra», mentre i telegrafi di macchina squilla-vano: «avanti a tutta forza!» La formazione navale è invertita:la testa passa in coda, e viceversa. Avanti a noi è il Vittorio Ve-neto e per ultima segue la Roma. Dopo poche miglia, nei pres-si dell’Asinara, le vedette segnalano aerei ad alta quota.

N el settembre 1943, in ottemperanza con le clausole del-l’armistizio, la flotta lascia La Spezia e si dirige versosud. Dopo l’affondamento della Roma le navi raggiun-

gono Malta. Una volta alla Valletta parte di esse verranno di-rottate verso i Laghi Amari per essere internate. Questo sortadi esilio cessò solo all’inizio del 1947.In precedenza, nel 1946 i vincitori si erano ormai accordati perdestinare l’Italia, ex Littorio, lievemente danneggiata, agli Sta-ti Uniti e il Vittorio Veneto all’Inghilterra e venne per la primavolta ventilata l’ipotesi, proprio dagli inglesi, di lasciare l’unitàall‘Italia, chiedendo che venisse demolita. L’idea di utilizzare ilVittorio Veneto come nave bersaglio fu in seguito abbandona-ta per evitare di «inasprire ulteriormente il risentimento italia-no», come scrisse l’ambasciatore inglese a Roma.Nel settembre 1947 infine gli Stati Uniti rinunciarono alla quo-ta di navi che spettava loro, il che spinse l’ambasciatore ingle-se a chiedere nuovamente a Londra un provvedimento del ge-nere, dal momento che «...l’opinione pubblica [italiana] avevaun atteggiamento scioccamente emotivo nei confronti dellaflotta», ma ancora una volta tale appello cadde nel vuoto, peril fatto che l’Ammiragliato riteneva di avere ancora bisogno delVittorio Veneto, ed era quindi deciso ad impadronirsene per in-serirlo nei suoi ranghi. »Inoltre scrisse l’Ammiragliato: «restituire l’orgoglio della flottaitaliana [...] rappresenterebbe ben più di un gesto di magnani-mità necessario ricordare loro che ci hanno dichiarato guerrae che sono stati sconfitti. Ma prima della loro disfatta, ci han-no procurato danni irreparabili, che noi non possiamo ed essinon dovrebbero dimenticare. A causa di tali danni noi ora sia-mo una nazione povera, tanto quanto la loro, e non possiamofare doni caritatevoli come gli Stati Uniti [...]» Alla fine del 1947la Gran Bretagna si dimostrò disponibile a concedere il Vitto-rio Veneto all’Italia, con la condizione che esso venisse demo-lito ed i materiali recuperati le fossero consegnati.

36 Marinai d’Italia

Testimonianze

I Laghi Amari

Il Grande Lago Amarovisto dallo spazio

Il Grande al-Buhayra al-Murra-al-Kubr è un lago salato situato tra l’Africa e il Sinai che si divide in una parte norde in una parte sud il canale di Suez ed è unito al Piccoloal-Buhayra al-Murra al-Sughr.

Per la Marina Militare questi luoghi rappresentanouna triste tappa della sua storia, poco nota e che il nostroperiodico ha deciso di divulgare grazie a recenti letteredi soci che sono stati testimoni diretti di questi avvenimenti.La speranza è che sulla vicenda dei Laghi Amaripervengano altre informazioni di prima mano in modoche nei numeri seguenti di “Marinai d’Italia”se ne possa sapere sempre di più.

1ª testimonianzaLA TRISTE ROTTADI UN DOLOROSO ESILIO

Primo ManeoSocio del Gruppo di Ivrea

La Spezia,a bordo della R. Nave da Battaglia Italia (ex Littorio)

O tto settembre 1943, giornata di gran movimento e di indi-menticabile emozione. Tutto era pronto per la partenza ed

ognuno era impaziente di salpare. L’ordine venne dato a notteinoltrata e, mentre nel silenzio delle tenebre la prua tagliava unsolco spumeggiante nelle placide acque del golfo, ognuno dinoi era invaso da mille domande: dove andremo? Cosa fare-mo? Si ritornerà? E quando rivedremo i nostri cari? Mistero im-penetrabile per noi uomini di mare avvezzi a guardare in fac-cia la morte, combattendo con leale sentimento per la causaimpostaci dal dovere. Qualcuno, prima della partenza, avevadisertato e ora qualcun altro malediva il momento in cui nonaveva saputo. L’ambiente non era più quello di pochi giorni pri-ma: non più sorrisi sulle nostre labbra; non più scherzi fra ami-ci ma, domande! Domande! Insistenti e torturanti, con il cuoree con la parola, per le quali nessuno sapeva darne una rispo-sta, forse neanche il Comandante. Nessuno sapeva cosa sa-rebbe accaduto. A «radio prora» si vociferava un possibile au-toaffondamento delle Unità, oppure il rifugiarsi in un porto neu-trale, oppure ancora la battaglia finale contro la flotta inglese.

Il Littorio a Taranto il 25 giugno 1942,con l’equipaggio schierato in occasionedella visita a bordo di Benito Mussolinisuccessiva ai favorevoli esitidella battaglia di «Mezzo giugno»Coll. E. Bagnasco via M. Brescia

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Continuando la nostra rotta, si seppe finalmente dove sarebbeterminato il nostro percorso: in un porto qualsiasi, purchè fos-se «Alleato» … Erano trascorsi due giorni dalla partenza quan-do, dopo aver costeggiato l’Algeria, Bona, Biserta e Punta diCapo Bon, una Squadra Navale inglese ci incrocia per scortar-ci fino a La Valletta, nell’Isola di Malta.Salirono a bordo da noi alcuni Ufficiali inglesi e qualche mari-naio al seguito. Gli inglesi a bordo si stupirono circa la nostraefficacia al tiro, avendo spiegato il nostro uso di telemetri, nonpossedendo il radar.La mattina dell’11 raggiungemmo Malta per ancorarci nella ra-da di La Valletta. Un aereo inglese a bassa quota e sfiorandol’acqua era penetrato tra le nostre navi, quando dalla Littoriogli furono sparati contro alcuni colpi da «90» dai Complessi disinistra. Atto compiuto da alcuni nostri cannonieri in modopersonale e arbitrario, mandando in «bestia» l’Ufficiale alle Ar-mi e «deludendo» i presenti per il mancato bersaglio. Si seppepoi che l’aereo aveva il compito di girare un film-documenta-rio dal titolo «L’arrivo a Malta della Flotta Italiana». Natural-mente l’aereo sparì velocemente. Non così lo fu per molte im-barcazioni civili che attorniarono le nostre belle navi, curio-sando o riprendendo foto e filmini. Nel pomeriggio si salpò perraggiungere la piccola baia di Marsa-Scirocco, poco lontanada La Valletta. Subito notai che lungo la costa ci erano moltifinti cannoni dipinti sulle rocce. Alcune barche di cittadini mal-tesi di origine siciliana si avvicinarono, cantando canzonetteitaliane e scambiandoci parole da buoni connazionali. Restam-mo a Marsa-Scirocco per tre giorni, durante i quali le barchedei «Siciliani» spesso ci visitavano, dandoci un po’ di conforto.

Intanto scarseggiava l’acqua dolce a bordo, senza poterne ot-tenere da parte inglese: si dovette in parte sopperire steriliz-zando e desalinizzando l’acqua di mare con nostre apparec-chiature. Al terzo giorno si ripartì, salutati dalla riva dai nostri«Siciliani». Eravamo scortati da due Corazzate e alcuni C.T.della Marina Inglese, come pure da qualche squadriglia aerea,con rotta verso Alessandria d’Egitto. Due giorni dopo, navigan-do lungo la costa africana per meglio evitare eventuali attac-chi tedeschi, si arrivò al largo di Alessandria d’Egitto, ancoran-doci in rada. Gli inglesi ordinarono lo sbarco totale delle muni-zioni e la riduzione del personale di bordo del Littorio e del Vit-torio Veneto, perché destinate all’internamento ai Laghi Ama-ri, mentre le altre nostre Unità ebbero altra destinazione. Ilpersonale sbarcato era in maggioranza costituito da marinainon membri degli equipaggi ma proveniente da altri Comandi,che con l’armistizio si erano rifugiati sulle navi in partenza a LaSpezia, con lo scopo di evitare lo sbandamento o la loro cattu-ra da parte tedesca.La fase di sbarco munizioni si dimostrò dura e faticosa, trattan-dosi in prevalenza di centinaia di proiettili da «381» dal pesoognuno di un quintale, oltre alle rispettive «cariche» e di altromunizionamento vario. Dal sottobordo era un susseguirsi con-tinui di bettoline sotto carico e altre in attesa dopo lo scaricoa terra. Rimase a bordo solo un piccolo quantitativo di munizio-namento minore. Successivamente, a bordo, corse voce chegli inglesi intendevano «segare» le canne di tutti i cannoni, mu-tilando così le navi, orgoglio e vanto della nostra Marina. Equi-paggi, ufficiali e Comandanti si ribellarono a quello che noi siconsiderava con dignità un disonore ed onta grave, minacciando

Pochi minuti trascorrono nell’attesa, mentre due domande ri-mangono in sospese sulle nostre labbra: saranno amici o ne-mici? Osservando che gli aerei (tre o quattro) persistevanonella loro rotta sulla nostra verticale, venne dato l’allarme. So-no tedeschi, accerta il Comandante.Aprite il fuoco! Telemetri, distanza! Centrale, avvisate appenapronti! Comandi secchi dalla plancia comando. Un aereo ci èquasi sulla verticale, ma nessuna bomba è sganciata. impossi-bile, eppure è vero.Dal mio telemetro, essendo ormai fuori campo, alzo il viso dal-la mascherina e osservo l’ultima distanza trasmessa alla Cen-trale di Tiro: 12.000 metri. Dall’aereo, a perpendicolo sull’Unità,fra le miriadi di nuvolette bianche si nota una breve fiammata.In un baleno, alcuni gridano: l’abbiamo preso!

Ma sapevo che era impossibile in quanto i «90», a tiro vertica-le, raggiungono i 6.000 metri di gittata. Non posso precisarecosa succedesse (erano trascorsi pochi secondi dalla fiam-mata). Un tremendo boato sconvolse la nave, poco dopo se-guito da una violenta caduta di acqua mista a fango. Tutto ciòsi svolse in un attimo e la sorpresa fu enorme.L’aereo, indenne si riunì agli altri e ben presto scomparverotutti alla nostra vista. Si trattava nientemeno che di un nuovotipo di bomba: la «bomba razzo». Di questo genere di bombar-damento ne abbiamo subiti altri durante le ore pomeridiane,uno ogni 15’ dalle ore 15.40 alle 19.00, miranti prima alla prua epoi al centro.Dopo il terzo o quarto attacco, essendosi nel frattempo la for-mazione suddivisa in alcuni gruppi per prestare minor bersa-glio e proteggere al meglio le Unità di grosso tonnellaggio, os-serviamo una enorme nuvola di fumo bianco: di certo una na-ve colpita, ma quale? Ci guardiamo attorno e non si distinguepiù il Roma, la cui agonia durò 15’ Prontamente alcune Unità sistaccarono dal «grosso» dirigendosi in soccorso ai naufraghi,fra cui l’Attilio Regolo e il Fuciliere.Si seppe in seguito che queste navi ripararono poi in Spagna,le stesse che durante la mattinata avevano soccorso i naufra-ghi dei due C.T. Vivaldi e Da Noli: il primo, forse il perlustrazio-ne, colpito e affondato da batterie costiere tedesche della Cor-sica; il secondo affondando dopo l’urto contro una mina, neltentativo di soccorrere i naufraghi del Vivaldi.Nel frattempo, alle ore 17.30, anche noi della Littorio si era «in-cassato» uno di questi indesiderati «confetti» perforanti di 10quintali che per fortuna, forando il solo ponte di coperta all’al-tezza della torre 1 g.c. e danneggiando alcuni stipetti equipag-gio e alcune cuccette di un Quadrato Sottufficiali, andò a fini-re in mare attraversando il lato dritto dove, scoppiando, contri-buì largamente ad ingrandire la già notevole falla riportata du-rante i precedenti bombardamenti in porto.

38 Marinai d’Italia

Testimonianze

Un giornalino stampato su Italia ex Littorioin occasione della Santa Barbara del 1943durante l’internamento in Egitto nei Laghi Amari.Da notare che la carta su cui venne stampatoproveniva da brogliacci di bordo ricicilati

Malta, 11 settembre 1943,la flotta italianasfila nelle acque maltesi

Il Vittorio Veneto a Malta, poco fuori il Grand Harborl’11 settembre 1943, poco dopo l’arrivo

delle unità italiane nelle acque dell’isola Imperial War Museum via M. Brescia

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di ostacolare ad oltranza e ad ogni costo un atto tanto vilequanto oltraggioso, anche a costo dell’autoaffondamento. L’e-videnza era che ci si voleva umiliare. Il nostro atteggiamentoinvece, pugnace e giustificato, convinse gli inglesi ad accor-darsi nel risolvere la vertenza neutralizzando i cannoni me-diante l’asportazione, da ogni singolo «pezzo», del solo pistoneda sparo, di culatta. Inoltre gli inglesi, considerandoci prigio-nieri, intendevano che dal pennone fosse ammainato il «Trico-lore». Ci rifiutammo di eseguire un tale sproposito, anche que-sto offensivo e mortificante, da noi inteso come atto di vilipen-dio da parte inglese. Questo fatto si risolse poi da solo a nostrofavore, poiché il Governo Provvisorio Italiano avendo nel frat-tempo dichiarato guerra alla Germania, a quel punto non pote-vamo più essere considerati prigionieri di guerra, ma bensìcombattenti internati su nave, anche se non Alleati (cobellige-ranti). E così la nostra amata e bella Bandiera Tricolore conti-nuò a garrire al vento, libera e tranquilla nel più alto della Na-ve, fiduciosa in un avvenire migliore di pace e di serenità.Venti giorni ancora di dolorosa e angosciante permanenza epoi partenza per i Laghi Amari, risalendo il Canale di Suez conle sue «chiuse», da Porto Said e ancorandoci in località Fana-ra, lontano da IsmayliaLa situazione non era delle migliori, l’acqua dolce era scarsa:dovevamo sopperire, per quanto possibile, con la filtrazione edesalinizzazione di acqua sala utilizzando ancora le nostre ap-parecchiature d’emergenza. Anche i viveri, di qualità moltoscadente, scarseggiavano. Fortuna che dopo i primi mesi, dal-l’Italia ci giungevano rifornimenti via mare, trasportati periodi-camente dall’antiquato Riboty e dal più moderno Oriani (equalche altro).Che dire sullo stato d’animo dell’ equipaggio, oltre che di unmirabile comportamento dignitoso, disciplinato e di sopporta-zione altrettanto ammirabile, da veri uomini di mare? L’esisten-za a bordo trascorreva al meglio, tra l’acciaio rovente e il cir-costante orizzonte privo di vita, sotto un sole bruciante chenon dava tregua, causa pure di ostacolo e disturbo per un nor-male riposo. Infatti mai una pioggia, o una fresca brezza a cuieravamo abituati in navigazione, ma solo vento caldo comefuoriuscito da un forno.

La biblioteca di bordo era sempre disponibile agli interessati.Inoltre vi era chi si dilettava alla pittura, oppure alla realizza-zione di piacevoli piccoli oggetti ricavati dai bossoli vuoti dicannone o mitraglia, utilizzando il macchinario dell’officinameccanica di bordo. Anch’io mi feci costruire un funzionanteaccendino da sigarette, lavorando il fondo in ottone di un bos-solo di medio calibro. Fra di noi ci si dilettava in svariati giochicome la tombola, le carte, la dama o gli scacchi; oppure ad in-nocenti scherzi alle reclute, come quello di recarsi dal CapoElettricista a richiedere un… «bugliolo di elettricità».Tra l’altro era fortemente sentito il desiderio femminile. Al pro-posito circolavano a bordo alcune caste riviste italiane e non, intema «osé», i cui possessori le facevano circolare a pagamen-to, per una visione a tempo. La presenza di una tale rivista origi-nava sempre un nutrito affollamento di marinai, estatici e so-gnanti… Saltuariamente e a certa distanza, poiché era proibitoavvicinarsi troppo se non autorizzati, alcune barche di turisti

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con donne a bordo incrociavano soffermandosi a curiosare,probabilmente provenienti da Ismaylia. In tali occasioni unamassa di marinai accorreva numerosa lungo il fuoribordo, ap-poggiandosi pericolosamente alle draglie di murata.Ovviamente il personale di bordo non era più quello di prima,ma sapeva con decoro celare la propria angoscia. Eravamo fe-riti e dolenti nella dignità e nel nostro profondo orgoglio di uo-mini prima liberi e ora doventi sottostare ad una «reclusioneforzata», in balìa di una situazione tanto critica quanto contro-versa. I nostri sentimenti migliori venivano così frustrati dalcompleto isolamento, quasi a mancare la speranza di un pre-sto risolversi di un fatto che il destino ci aveva assegnato. Lanoia e la nostalgia venivano sopperite dal lavoro di bordo,sempre impeccabile per impegno e perizia, e nel darsi da fareonde non cadere in un pericoloso deliquio. Di certo vi sonostati casi in cui i più deboli venivano presi dal panico per mo-tivi vari. Bisogna capire che l’Italia era ridotta ad una fucina diuno contro l’altro. Combattimenti, invasioni, sfollamenti, odi diparte, angherie, prepotenze, soprusi e quanto altro erano al-l’ordine di ogni momento. Le sofferenze, le privazioni e le per-secuzioni non mancavano. Anch’io, in più occasioni, ho avutomodo di consolare al meglio qualche compagno caduto in cri-si profonda, piangenti e disperati perché pensavano con amo-re ai loro cari lontani, in zone battute da guerra e guerriglie. Epensare che anch’io mi trovavo in una situazione di angosciasimile, ma seppur con le lacrime agli occhi e un grosso nodoalla gola trovavo sostegno e conforto consolandomi nel daresostegno e conforto a coloro che ritenevo più bisognosi.Alcuni dei sentimenti dai più in noi palesi e iradicati, oltre aquello rivolto alle proprie famiglie, era di toglierci d’attorno l’a-marezza inglese, compreso l’ansiosa forte volontà di rimpatria-re, per poi reimbarcare su altra nave e contribuire alla libera-zione militare di una Italia atrocemente martoriata. Come infat-ti, io riuscii a realizzare. A vent’anni, sorretti da un ideale di amorpatrio e grande volontà e abnegazione sia della vita è facilmente

superabile, anche se doloroso. Il difficile viene quando ci si ab-bandona all’apatia inconsulta e incontrollata.Gli undici mesi trascorsi in questo orribile luogo, tra l’acciaiorovente delle murate, del ponte di coperta e sovrastrutture, ilsole bruciante e i venti caldi del deserto, senza mai una pioggiaristoratrice, senza alcuna soddisfazione che il continuo refrige-rio nelle acque del lago e la prossimità della piccola oasi sullaomonima riva, lascio a capire chi non ha vissuto in campo diconcentramento, sotto le continue privazioni materiali, morali espirituali, nel più completo isolamento in luogo isolato.Ancora oggi ricordo la forte emozione provata, densa di ango-sciosa tristezza, quando alcuni anni dopo ripassai per questoluogo di indimenticabile sofferenza, durante il trasferimento inSomalia con il primo contingente militare italiano in Missionedi Pace nel mondo, nel 1950, trascorrendovi altrettanti undicimesi come quelli di permanenza in questo dannato inferno. Maallora fu tutto diverso.

2ª testimonianzaUN FATTO STRAORDINARIOCOLLEGATO A RICORDI LONTANI

Giuseppe BaldacciSocio del Gruppo di Roma

L’ Armistizio con le Potenze Alleate era già stato proclamatola sera dell’8 Settembre e da quel momento l’Italia viveva

una stagione di lacerazioni profonde e di drammi inimmagina-bili che si sarebbe poi protratta a lungo. A noi della Regia Ma-rina, dopo che per tre anni avevamo tenuto testa alle due più

Testimonianze

Il vecchio cacciatorpediniere Augusto Ribotya Venezia; foto dicembre 1942

(Coll. E. Bagnasco via M. Brescia)

Il cacciatorpediniere Alfredo Oriani (nell’immagine alla fondafuori Golfo Aranci a marzo del 1943) fu utilizzato, insieme al Riboty,per il rifornimento delle navi da battaglia Vento e Italiadurante l’internamento ai Laghi Amari(Coll. E. Bagnasco via M. Brescia)

Il caccia di scorta HMS Lamerton, della Royal Navy(classe «Hunt», qui in una foto risalente ai primi mesi del 1943):una delle quattro unità che scortarono Veneto e Italiadurante la navigazione da Malta ai Laghi AmariImperial War Museum, coll. M. Brescia

L’HMS Wilton, anch’essoappartenente alla classe «Hunt»in un’immagine del 1945Imperial War Museum, coll. M. Brescia

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Marinai d’Italia 43

Nel farlo gridò forte con rabbia: “Come avete fatto a perdere laguerra con navi come queste?”. Fu in quel preciso istante checapimmo che erano soldati italiani prigionieri. Povera gente cheda mesi o da anni soffriva la prigionia e sognava la casa lontana,la Patria; povera gente che aveva sperato di vederci arrivare vin-citori e liberatori e che invece aveva sentito dire che l’Italia, la lo-ro Patria, si era arresa ed ora vedeva passare quelle possentiNavi, irte di cannoni, in cammino verso l’internamento.Nessuno, fra le non molte persone dell’equipaggio che in quelmomento erano in coperta e che videro quel gesto e sentironoquel grido, ebbe l’animo di rispondere, di reagire. Tutti capim-mo lo stato d’animo che li aveva provocati, tutti sentimmo il no-stro disagio, tutti provammo la stessa amarezza. Un motivo inpiù che aggiungeva peso allo sconforto che era in noi dal gior-no dell’armistizio”........Rimasi per due anni a bordo della mia nave, confinata al cen-tro di quella vastissima desolata distesa d’acqua, senza maiscendere a terra. Ma questa è una storia che in altra occasio-ne potrei raccontare.

Alcuni anni dopo accadde un fatto straordinario. Si era all’iniziodegli anni settanta. I duri tempi della guerra e del dopo guerraerano ormai un ricordo, anche se sofferto ricordo. La gente pen-sava più al presente ed al futuro, piuttosto che ad un passato dadimenticare. A quel tempo avevo già lasciato da non molto laMarina e lavoravo in una grande Industria multinazionale che sioccupava di Telecomunicazioni e di Elettronica. Per la mia spe-cializzazione radaristica facevo parte di un piccolo gruppo che,insieme ai tecnici di una nostra consociata francese, progetta-va un radar terrestre capace di scoprire la postazione di unmortaio nemico, a partire dal rilevamento della traiettoria deiproiettili da esso sparati. Questo comportava frequenti miei

viaggi a Velizy-Villecoublay vicino a Parigi ed altrettanti dei tec-nici francesi a Roma. Finalmente il prototipo venne realizzato eper effettuare le prove sul campo l’Esercito italiano mise a no-stra disposizione uomini, mortai e mezzi nel poligono di tiro diMonte Romano dalle parti di Viterbo. Le prove erano lunghe, lente e piuttosto noiose. Il mortaio, ap-postato in una vallata lontana, sparava e noi cercavamo colnostro radar sperimentale di intercettare le traiettorie deiproiettili per localizzare la sua postazione, affinando la messaa punto dei circuiti elettronici. Quando sopraggiungeva la not-te non restava che trovare rifugio sotto le tende che l’Esercitoaveva predisposto, unitamente ad una piccola cucina da cam-po. Così la mattina dopo eravamo pronti a riprendere le prove.Dopo cena si parlava in attesa di dormire alla meglio sullebrande da campo. Con me c’era un Colonnello dell’Esercitospecializzato in Artiglieria e fu lui, la seconda sera, ad avviareuna conversazione incentrata sui ricordi di guerra. Insieme anoi c’erano un paio di giovani ufficiali, alcuni sottufficiali, untecnico della ditta. Gli altri erano in altre tende. Meno i due giovani ufficiali, troppo giovani per aver avuto espe-rienze di guerra, gli altri qualcosa raccontare l’avevano e cosìanche io cercai di non essere da meno. Mi venne in mente diparlare del mio imbarco sulla Littorio, dei fatti conseguenti al-l’armistizio, del nostro incontro con le navi dell’ex nemico, delnostro viaggio verso il Grande Lago Amaro. Quando fui sul pun-to di raccontare della scarpa che ci era stata tirata contro, vidichiaramente che uno dei sottufficiali, un uomo robusto sulla cin-quantina, si alterava visibilmente. Nel momento in cui, anche ioemozionato per quanto vedevo e cominciavo ad intuire, ripeteila frase che avevo sentito tanti anni prima, quel sottufficiale sialzò di scatto in piedi esclamando: “Io, ero io”. Ci guardammotrasecolati e poi la commozione, lo stupore, l’istinto, ci gettaro-no l’uno nelle braccia dell’altro. Ora eravamo due uomini matu-ri, allora due ventenni le cui vite si erano sfiorate per un attimoin uno scenario drammatico, sotto un cielo ancora pieno di in-cognite. Ma il destino aveva già caricato l’orologio e fissato l’at-timo successivo. Perché anche questo tale poi restò.

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potenti Marine da Guerra del mondo, quella inglese e l’ameri-cana, era stata almeno risparmiata l’angoscia di dover decide-re se continuare a combattere a fianco dei tedeschi o rivolge-re le armi contro di loro. La Regia Marina non aveva avutogrande scelta e, in ottemperanza alle dure clausole armistizia-li, aveva salpato le ancore nella notte stessa e le navi grigie sierano mestamente avviate per incontrare la flotta del nemiconon più per combatterlo come eravamo pronti a fare, ma peraccodarsi ai vincitori e seguirli dove avessero voluto.A quel tempo io ero imbarcato da diversi mesi sulla Regia Na-ve Italia (ex Littorio) che con le gemelle Roma e Vittorio Vene-to era fra le più moderne e potenti corazzate che solcavano imari. Avevo compiuto venti anni da appena un mese e sullemaniche avevo il piccolo gallone dorato da GuardiamarinaDopo una lunga sosta a Malta ed una altrettanto lunga adAlessandria d’Egitto, sempre ancorati al largo sotto la minac-cia dei cannoni delle navi inglesi, qualcosa era finalmente ac-caduta e così, dopo aver sbarcato una consistente parte degliequipaggi, il 16 Ottobre del 1943 le due Navi da Battaglia Italia(sulla quale come ho detto ero imbarcato) e Vittorio Veneto,scortate da due Cacciatorpediniere inglesi (Lamerton e Wil-ton) e due greci (Kanaris e Themistocles), salparono dal largodi Alessandria d’Egitto per dirigersi verso il Canale di Suez edar quindi fondo nei Laghi Amari, dove sarebbero poi restateper oltre due anni. Nel corso di quel malinconico trasferimento accadde un pic-colo episodio significativo che, tuttavia, penso sia giusto ri-cordare perché può servire per riproporre l’atmosfera di queimomenti. Per farlo apro il diario che in quei lontani giorni pun-tualmente tenevo. Ecco cosa scrivevo: “Con a bordo due funzionari della Ammi-nistrazione del Canale di Suez ed alcuni membri della RoyalNavy, navigavamo lentamente lungo il Canale stesso. Le suesponde, vicinissime alle nostre fiancate, talvolta erano basse,altre volte superavano l’altezza della Plancia Ammiraglio sulla

quale io mi trovavo e dalla quale guardavo malinconicamentequello che mi sfilava davanti. Il paesaggio era per lo più spo-glio, monotono, sabbioso a perdita d’occhio, con solo qualchepalmizio e qualche misera costruzione.Una strada carreggiabile correva vicino alla riva e su di essasi svolgeva un discreto traffico di mezzi prevalentemente mili-tari che sollevavano una gran polvere. Gruppetti di indigeni odi soldati inglesi si fermavano per guardare le Navi del nemicosconfitto. Un gruppo più consistente si accalcò per guardarelo spettacolo insolito: non avevano addosso il caffettano degliarabi e neppure le divise kaki inglesi, ma si presentavano piut-tosto dimessi, molti a torso nudo, armati di pale e zappe. Ca-pimmo ben presto che erano dei prigionieri di guerra italiani otedeschi impiegati per lavori stradali.Noi sfilavamo lentamente davanti a loro che ci guardavano insilenzio. In quel punto la riva era piuttosto elevata e, comesempre, vicinissima a noi. Potevamo guardarci in faccia. Ad untratto uno di essi, con un gesto improvviso, si tolse una scarpasformata e polverosa e la gettò verso di noi: la vidi cadere sul-la coperta, a dritta, fra le torri dei cannoni antiaerei da 90 mm.

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Testimonianze

Analogo a quello del Kanaris fu il servizio del caccia di scortagreco Themistocles, entrato in servizio con la Royal Navycome HMS Bramham nel 1942 e trasferito nel 1943alla Marina ellenica, ove prestò servizio sino al 1960Imperial War Museum, coll. M. Brescia

Anche i due cacciatorpediniere di scorta greci che presero partealla scorta di Veneto e Italia durante il transito verso i Laghi Amariappartenevano alla classe «Hunt» della Marina britannica:l’HMS Hatherleigh venne trasferito alla Marina della Grecia già durantela costruzione, e operò sotto bandiera ellenica con il nome di Kanarissin dall’entrata in servizio il 27 luglio 1942: la fotografia risaleal 1944/1945. Fu infine radiato nel 1960Imperial War Museum, coll. M. Brescia