Anima nera

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Stefano Milighetti, thriller Anima Nera è un romanzo violento, moralmente discutibile, socialmente deprecabile. È un romanzo con una spiccata venatura misogina, politicamente scorretto, al limite del sopportabile. È un romanzo malvagio, e la malvagità è incarnata nella figura del protagonista, David, che fin da ragazzino scopre la “bellezza”, il fascino della morte, di uccidere e distruggere le donne. Un romanzo dove più realtà si fondono, dando origine a un intreccio di follia e sangue che si snoda nell’arco di quarant’anni e che, alla fine, avrà sempre una sola, grande protagonista: la morte.

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In uscita il 30/5/2016 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2016

(3,99 euro)

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STEFANO MILIGHETTI

ANIMA NERA

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ANIMA NERA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-99992-0 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Maggio 2016 Stampato da

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A Te: lo sai tu, lo so io.

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Prologo Mancavano cinque minuti alle sedici quando trillò il campanello. Un cicalio aspro e gracchiante che Elisa voleva cambiare già da tempo. Il citofono era un apparecchio di ultima generazione che, oltre alle solite suonerie, aveva in memoria più di cento tra can-zoni, colonne dei capolavori del cinema e sempreverdi della mu-sica classica. Lei, che aveva ereditato da suo padre un discutibile gusto per il retrò, considerava affascinante che ad annunciare l’arrivo di qual-cuno fosse Paint It Black dei Rolling Stones, o magari un pezzo dell’immortale Ennio Morricone: il tema del film Per qualche dollaro in più era così sublime che le toglieva il respiro ogni volta che lo ascoltava. A suo padre era sempre piaciuto Mozart, ma, nonostante ne rico-noscesse la grandezza, Elisa poco tollerava i suoni graffianti di violini e strumenti simili. Se proprio doveva scegliere, meglio qualcosa di duro e cattivo in stile Metallica. Mettendo in standby il nuovissimo tablet ricevuto per il suo tredi-cesimo compleanno, pensò che avrebbe effettuato il cambio quel giorno stesso: un tocco di classe in più non guastava mai nella ca-sa dove vivevano due donne. Si avvicinò al citofono e sfiorò un’icona rossa sul display. «Sì?» chiese a bassa voce: sua madre stava dormendo. Dietro prescrizione del medico, prima di andare a dormire la donna ave-va cominciato a prendere un blando sedativo, una pillolina traspa-rente che le serviva da catalizzatore per il sonno, permettendole di addormentarsi quasi subito. Era tuttavia un sonnifero molto leggero e i rumori più forti potevano svegliarla.

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Elisa non voleva che si svegliasse: quando non dormiva Concetta non faceva che piangere e sbraitare contro il marito, prendendose-la con il destino bastardo che aveva mandato all’aria la sua vita impeccabile e ordinatissima. Lei, invece, si era dimostrata triste e affranta, parola che nella sua mente, chissà perché, evocava immagini di macine gigantesche per la spremitura delle olive, facendo sfoggio del suo dolore solo nei momenti che lo richiedevano. In realtà, tutto quello schifo le era scivolato addosso senza lascia-re tracce. Era pragmatica e, in quell’anno di gloria, ciò che contava davvero erano gli esami di giugno. Non le piaceva studiare, ma aveva ca-pito da tempo che c’era un solo modo per restare a galla in quel posto spietato che era il mondo: eccellere rispetto agli altri. E lei, da quando se ne era resa conto, era sempre stata la studentessa migliore dell’intero istituto. Ogni anno, a partire dalla quinta elementare, aveva primeggiato su tutti, facendo scomparire anche i figli di quei ricconi strafot-tenti che si credevano migliori degli altri solo perché pieni di sol-di. «Corriere espresso», disse un’anonima e scocciata voce femmini-le, sottolineata dal rumore caotico del traffico: la palazzina era nelle vicinanze di un gigantesco centro commerciale costruito da una multinazionale cinese che, un pezzetto alla volta, aveva ac-quistato terreni e immobili in mezza città. La strada pullulava a ogni ora del giorno di macchine, furgoni, scooter e tutto quello poteva muoversi spinto da un motore. «C’è un pacco per Concet-ta De Salvo, è lei?» Abbozzò un mezzo sorriso: no, non era lei e non voleva neppure esserlo. Voleva un mondo di bene a sua madre, eppure come mo-dello di femminilità lasciava piuttosto a desiderare, legata a vec-chi stereotipi che ormai non avevano più ragione d’essere. Il fatto stesso che fosse una casalinga e che in tutta la sua vita non avesse mai lavorato la diceva davvero lunga sul suo modo di stare al

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mondo. Lei, Elisa, considerava un insulto l’idea di dipendere in tutto e per tutto da un uomo. Dignità era la parola che le veniva in mente ogni volta che sua mamma chiedeva la carta di credito e il denaro contante a suo pa-dre. Era giusto darsi una mano, ma l’atteggiamento di sua madre era a dir poco stomachevole: la faceva apparire ai suoi occhi co-me qualcosa, e non più una persona, di totale proprietà dell’uomo che aveva sposato. Ogni volta che mendicava soldi era come se rinunciasse a una briciola della sua libertà e per Elisa questo era inaccettabile. «Mia madre non c’è in questo momento», mentì. «Se vuole può lasciarlo a me.» «Sì, sì: va bene!» replicò sbrigativa l’altra. «Mi apre?» Elisa schiacciò un’altra casellina, verde con sopra una chiave do-rata: al pianoterra scattò la serratura con un colpo di metallo e il portone si socchiuse. «L’appartamento è al terzo piano», la informò Elisa prima d’interrompere la comunicazione. Sorrise di nuovo: stava aspettando quella consegna da quattro giorni ormai. Con un sorriso compiaciuto, di chi la sa davvero lunga, si affac-ciò sul pianerottolo in attesa del corriere.

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1 Lizzy aveva partorito la vigilia di Natale: quattro gattini, due era-no bianchi con toppe nere proprio come la mamma. Il terzo era un pezzettino di carbone, mentre l’ultimo era di un rosso schietto con appariscenti striature bianche sulla schiena. Si capiva subito, guardandogli le zampe paffute, che crescendo sarebbe diventato un bel gattone, uno di quelli che spadroneggiano e dettano legge sugli altri. Un gatto pirata insomma. Iolanda aveva sistemato in una cesta un maglione che Donato, suo marito, non metteva più. C’era disegnata una giraffa rossa sorridente e lui, anziano scorbutico di sessantasei anni, aveva confidato alla moglie che si vergognava a uscire con quel coso addosso. Voleva vivere la vecchiaia con sobrietà, non vestendosi come un pagliaccio. Quella mattina di fine dicembre, gatta e gattini stavano tranquilli e beati vicino al focolare, dove ardeva un grande fuoco rosso che Donato aveva acceso di buon’ora. Poco prima delle otto arrivarono Mirko e David, i loro nipoti. Una volta in casa, Mirko mise in funzione la nuovissima consolle che aveva ricevuto per Natale e cominciò la prima di una serie in-finita di partite. Il più piccolo, David, traballante e incerto, andò invece dai gatti-ni: ne era innamorato e passava ore intere a guardarli, a fissare quei batuffoli di pelo che non facevano che mangiare, dormire e stare con la loro mamma. Iolanda, dopo aver preparato la colazione ai nipoti, si mise il cap-potto e un grosso copricapo grigio simile a un colbacco, regalo per niente romantico ma utilissimo di Donato.

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«Dai un’occhiata a tuo fratello mentre vado fuori», si raccoman-dò. «Sì, nonna», rispose Mirko che in realtà non aveva capito una so-la parola: era al comando di una stilizzata ma efficientissima a-stronave impegnata in una battaglia contro giganteschi asteroidi. Era diventato abilissimo in quel gioco, anche se era ben lontano dal record di Gennaro, il suo migliore amico. Il giorno prima si erano sentiti per telefono e l’altro gli aveva detto gongolando di aver superato i centomila punti. «WOW! Grande!» era stata la risposta incredula di Mirko. «Co-munque vedrai che per quando ricomincerà la scuola, supererò il tuo record.» E quella mattina la sua unica ragione di vita era bat-tere il punteggio dell’amico. Iolanda, guardando il nipote imbambolato davanti al televisore, preso da quelli che lei chiamava “i giochini cretini”, uscì. Voleva fare il più in fretta possibile, perché Mirko era del tutto inaffida-bile e David era invece capriccioso e instabile come il tempo: ba-stava poco perché il sereno si trasformasse in tempesta. Cercando di sbrigarsi, cominciò ad arrancare attraverso la neve caduta per tutta la notte e che avrebbe impedito a molti di festeg-giare l’ultimo dell’anno fuori casa. Nel frattempo, David, con in mano una tazza di latte e cioccolato, era accanto alla cesta con gli occhi fissi sulla cucciolata. Nella sua mente, fatta per lo più d’immagini e sensazioni più che di rea-li pensieri, si vide disteso insieme agli animali, con la faccia spro-fondata nel pelo della gatta e la bocca attaccata a una tetta, be-vendo latte a più non posso. Rise di gioia ed emozionato fece vacillare la tazza: la maggior parte del liquido cadde per terra. Nel camino il fuoco continuava a bruciare e le fiamme richiama-rono la sua attenzione. Appoggiò la tazza da qualche parte a caso e, imitando un gesto visto fare al nonno, allungò le braccia lasciando che le mani si scaldassero. Quando il calore cominciò a essere insopportabile, le

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ritirò: il fuoco era pericoloso, questo lo aveva capito già da un po’, tuttavia gli piaceva il suo colore. Un colore schietto che sembrava vivo e pieno di magia. Più di una volta aveva sognato un grandissimo fuoco che stringe-va la mamma e i nonni. A volte c’erano perfino il papà e suo fra-tello, però il sogno più bello, che lo faceva ridere perfino nel son-no, era quello della mamma che gli cantava la ninna nanna seduta su un divano pieno di fuoco. Un fuoco che era stato lui ad accen-dere. All’improvviso, rimuginando sul rosso del fuoco, David si voltò verso la cesta: un gatto era di quello stesso colore. Un gattino di fuoco: cominciò a battere le mani, strillando a più non posso. Suo fratello non sentì niente: sullo schermo, il suo vascello era circondato da decine di meteoriti e da un’astronave aliena che lo stava attaccando senza il minimo ritegno. Era una situazione così delicata che richiedeva la massima concentrazione, tutto il resto non aveva la ben che minima importanza. David, gorgheggiando, continuò a fissare il micio rosso. Aggrottò la fronte e sul suo viso comparve un’espressione seria e di profonda riflessione: possibile che fosse davvero di fuoco? Con gli occhi della mente si vide mentre accarezzava l’animale. Vide anche la sua mano cominciare a bruciare, proprio come se avesse toccato il fuoco nel camino. Un broncio cupo gli fece tremare le labbra: se era fatto veramente di fuoco, alla fine Lizzy e i gattini avrebbero cominciato a brucia-re. Un singhiozzo distorto accompagnò come una marcia funebre la lacrima scivolata giù per la gota cicciottella: bisognava fare su-bito qualcosa. Si guardò intorno: la nonna non c’era e Mirko stava giocando. Sbirciò meglio: neppure il nonno era lì con lui. La saggezza dei suoi tre anni e mezzo gli suggerì che doveva sal-vare i gattini e metterli al riparo da quello di fuoco. Avrebbe do-vuto farlo da solo, perché nessuno lo avrebbe aiutato.

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Sentendosi abbandonato e ormai prossimo alle lacrime, allungò una mano verso il gatto. Lentamente, come se stesse sprofondan-do il braccio in una densa pozza di fango invisibile. Lizzy guardò la mano che stava calando su di lei e, beatamente felina, cominciò a ronfare con maggiore intensità, certa che l’umano le avrebbe regalato una carezza affettuosa. Il bambino chiuse gli occhi e con un ultimo slancio posò la mano sul gattino rosso, pronto a schizzare via se avesse sentito il dolore dell’ustione, come la volta in cui aveva accarezzato la pentola della minestra. Un male pulsante gli aveva mangiato le dita e Da-vid aveva pianto disperato fino a quando non era arrivata la non-na. Iolanda, strillando a sua volta, lo aveva sollevato di peso per portarlo al lavello, dove aveva cacciato la mano ferita sotto l’acqua fredda. Lo schiaffo di rimprovero era arrivato dopo, quando ormai l’ustione era solo un ricordo spiacevole. Se si fosse di nuovo bruciato avrebbe pianto, avrebbe urlato, sicu-ro che la nonna sarebbe arrivata ad aiutarlo. Forse lo avrebbe pic-chiato, ma non aveva importanza: i gattini erano in pericolo. Appoggiò la mano sul gatto: aprì gli occhi e urlò di felicità quan-do sentì soltanto il pelo morbido sulle sue dita. Non c’era fuoco, ma una nuova ombra gli increspò gli occhi: era solo questione di tempo, poi sarebbe divampato. Il bambino guardò il gatto e gli altri, uno per uno. Fissò la mac-chia nera che Lizzy aveva sotto il mento, una macchia che la fa-ceva assomigliare a papà, con la bocca circondata da un folto ce-spuglio di barba nera. Quando ci riusciva, a David piaceva pren-dere quel ciuffo di peli e tirare a più non posso. Strattonare fino a quando papà non alzava la voce dicendogli un poco divertito: «Smettila subito che mi stai facendo male!» Lasciando perdere la barba del padre, riportò la sua attenzione sui gatti: Lizzy era molto brava e le voleva bene. E proprio perché le voleva bene, doveva proteggerla dal fuoco.

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Guidato da qualcosa che era dentro di lui, come una voce pacata e dolce che gli spiegava cosa fare, il bambino agì con fermezza: sollevò il gatto che subito cominciò a miagolare. Lizzy, impegna-ta ad allattare gli altri si limitò ad alzare la testa per miagolare un ammonimento quasi silenzioso: guai a te se farai del male al mio cucciolo! David lo tenne davanti a sé, strizzandolo. L’animale iniziò a mia-golare terrorizzato, al che la gatta scattò in piedi, messa in allar-me da quel lamento doloroso. Gli occhi grandi e preoccupati di Lizzy si posarono su quelli chiusi del gattino, un attimo prima che David lo scaraventasse nel focolare. Il lancio fu perfetto e l’animale finì tra ciocchi in fiamme e brace incandescente. La povera bestia emise un singolo, gutturale rantolo d’agonia, poi le fiamme lo avvolsero, annientando in alcuni secondi quella vita indifesa. Ci fu un boato che riempì la stanza: Iolanda era rientrata nel mo-mento in cui il bambino aveva scaraventato il gatto nel fuoco e, per l’orrore, aveva lasciato cadere la legna. Si precipitò al focolare, ma fu costretta a distogliere lo sguardo per non vomitare la colazione: una massa nera e sfrigolante era tutto quello che rimaneva della povera bestiolina. Si voltò verso il nipote e, incapace di trattenersi, lo schiaffeggiò. Il bambino, che non ne capiva il motivo, cominciò a piangere. Iolanda, in preda alla collera, lo sollevò da terra e gli intimò di stare zitto. «Smetti subito di frignare David!» gridò, «se no te ne do talmente tante che dovranno portarti all’ospedale!» Il bambino, insensibile alle minacce, continuò a strillare, dime-nandosi, chiamando la mamma. Iolanda, irosa, lo mise su una sedia e gli puntò il dito contro: «Smettila subito!» e fece partire un altro ceffone. «Stasera le prenderai anche da tua madre!» e il terzo schiaffo arrivò implaca-

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bile come l’ultima figura di una trinità depredata della sua inno-cenza. David in lacrime, con il viso gonfio di dolore, immaginò la nonna nel focolare insieme al gatto: smise di piangere e abbozzò un mezzo sorriso. Vederla bruciare sarebbe stato meraviglioso. Tirò su con il naso e, mentre le lacrime cominciavano a diradarsi, emise un leggero gridolino: vedere la nonna mentre bruciava sa-rebbe stato bellissimo. Fantastico come il latte al cioccolato e l’abbraccio della mamma. Mirko aveva concluso indenne il sesto livello, preparandosi ad af-frontare il successivo. Di quello che era successo attorno a lui non aveva colto assolutamente niente: una nuova sfida spaziale stava per cominciare.

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2 Quanti giorni erano passati da quando l’aveva imprigionata? La guardò, cercando di ricordare. David studiò la linea delle sue gambe, le rotondità del seno, il de-serto di crepe che erano le sue labbra. Lei, intrappolata in quel letto, mugolava, gemeva. Tremava. Quando l’aveva intrappolata? Una settimana? Un mese prima? Era una domanda difficile, perché negli ultimi anni la sua perce-zione del tempo aveva cominciato a fare cilecca. Le ore potevano accorciarsi fino a diventare insignificanti come secondi, oppure c’erano minuti che si dilatavano come un elastico, tanto da assu-mere le dimensioni di secoli. Se avesse contato le siringhe avrebbe capito, sarebbe risalito al giorno esatto, ma sarebbe stata un’inutile perdita di tempo, pri-vandosi dello spettacolo di quel corpo pieno di droga e morte. La donna, anzi la ragazza, era in un abissale stato d’agonia e ve-derla inerme e schizzata era appagante. Gli faceva provare sensa-zioni elettriche, scariche di adrenalina che facevano impallidire le passate emozioni, sia spirituali che fisiche. All’inizio l’aveva perfino scopata, forse due, al massimo tre vol-te, poi l’atto stesso di prenderla mentre la sua mente era risuc-chiata nel buco nero della droga lo aveva annoiato. Lo spasmo di piacere che accompagnava la spruzzatina bianca finale non vale-va la fatica che lo precedeva. Molto meglio starsene sul bordo del letto e guardarla. Spiarla mentre la vita la abbandonava un respiro alla volta, lentamente, come una sigaretta che brucia senza essere fumata.

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In mano aveva una siringa piena per tre quarti di una sostanza tra-sparente e densa. Era insapore e questa caratteristica gli aveva permesso di compiere il suo attacco. Le aveva offerto da bere e mezz’ora dopo era piombata nello sta-to di semi incoscienza indotto dalla droga. Era stato tutto molto rapido, un’azione fulminea della quale sarebbe stato orgoglioso un pluridecorato generale tedesco della seconda guerra mondiale. Da quel momento, da quando l’aveva prima spogliata e poi legata al letto, le aveva somministrato la droga ogni otto ore, impeden-dole di tornare a uno stato di lucidità che avrebbe compromesso il suo divertimento. Il chimico, un pazzo che aveva lavorato in un laboratorio segre-tissimo dell’esercito, aveva sintetizzato quella meraviglia e, per poche centinaia di euro, gliene aveva venduta una quantità indu-striale. Si conoscevano da dieci anni e, proprio perché amici, il chimico gli aveva dato una sola raccomandazione: «Non usarla mai su te stesso!» Il tono era stato quello di un ordi-ne indiscutibile. «Crea dipendenza immediata, ma questo è niente rispetto al suo più grande pregio: questa droga brucia da dentro, consuma come un fuoco acido e l’organismo inizia a morire già dopo la prima dose. Ho creato questa sostanza non per arricchir-mi, non me ne frega niente del denaro. Lo vuoi sapere perché ho sintetizzato questo capolavoro?» David, che non era certo di voler conoscere la risposta, aveva comunque annuito: aveva imparato che al mondo c’erano solo due categorie di persone che dovevano essere sempre asseconda-te, i pazzi e i geni e quel chimico era entrambe le cose. «Per spazzare via dalla faccia della terra i drogati, per ammazzar-ne il più possibile di quelle sanguisughe buone a niente. Sono so-lo un peso per lo Stato e se ce ne liberiamo sarà un guadagno per tutti.» David non aveva detto niente.

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«Comunque», aveva proseguito il chimico abbandonando quei deliranti discorsi di risanamento sociale, «fanne quello che vuoi, basta che non te la spari in vena.» La tentazione era stata forte, ma alla fine aveva rinunciato, chie-dendosi come usarla. Spacciarla era fuori discussione: lo avrebbe-ro preso e messo al fresco per un mucchio di anni. E mentre fissava quel bidone da cinquanta litri, rimuginando sul da farsi, l’idea era arrivata da sola, fresca e ridente come l’alba del primo mattino d’estate: avrebbe provato la sua forza distrut-trice su una donna, scelta a caso tra le tante anime perse delle quali nessuno avrebbe sentito la mancanza. Una di quelle donne che dalla vita avevano preso solo calci. Lui, il calcio glielo avrebbe dato definitivo. All’inizio aveva pensato a una puttana, scartando l’idea: una pro-stituta presupponeva un protettore e il suo rapimento non sarebbe passato inosservato. Aveva così iniziato a spiare decine e decine di ragazze, cercando negli angoli più bui e solitari della città, alla ricerca di una donna senza legami, senza amici. Piena di solitudine. Una notte, quando stava ormai per rinunciare, aveva trovato la cavia perfetta e mentre camminava da sola lungo la strada che l’avrebbe riportata a casa l’aveva avvicinata. Parlava un italiano appena comprensibile e si comportava in mo-do falso per apparire più matura e interessante di quanto fosse. L’aveva portata in un locale dove aveva cercato di metterla a suo agio, facendole credere che lui era un bravo ragazzo che aveva percepito la sua grigia solitudine. Mentre bevevano roba del tutto innocua, erano passati dall’italiano all’inglese, così lei, Lorena, gli aveva raccontato la sua storia, triste e dolorosa. La storia di una vita che David aveva ascoltato senza sentire. Si era limitato ad annuire nei momenti giusti, a fare qualche domanda quando era richiesto, ma niente di più: Lorena era carne da macello per il suo esperimento, solo quello era importante.

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Aveva rivelato che il suo amore, quello della sua vita, era partito per un viaggio e che, da quando l’aereo era decollato portandolo via, si era sentita schiacciare a terra colma di disperazione. «Quando tornerà?» aveva chiesto David: la presenza di un “amo-re” avrebbe potuto mandare tutto all’aria. «Non lo so», aveva risposto lei in un inglese dal forte accento slavo, «i suoi viaggi di lavoro non hanno mai una data precisa per il rientro, comunque non prima di due mesi», e la voce le era tre-mata, prossima al pianto. David dentro di sé aveva sorriso: entro due mesi di lei non sareb-be rimasta nessuna traccia. Dopo un tempo che aveva giudicato più che sufficiente, le aveva proposto l’ultimo bicchiere, poi un giro in macchina e la velata prospettiva di un incontro futuro. Senza nessuna complicazione, solo una cena tra due persone diventate amiche: era legato a un’altra donna. Lei aveva annuito felice, così era sgattaiolato fino al banco e ave-va chiesto due bicchieri d’acqua tonica con succo d’arancia. In quello di Lorena aveva aggiunto una cospicua dose di droga: il chimico gli aveva detto che diluendola in una sostanza a base a-cida, l’effetto sarebbe stato ritardato. Dopo aver bevuto se ne erano andati. David aveva guidato fin quando si era spenta. Stava dicendo qualcosa sui suoi genitori e, nel mezzo della frase, dalla bocca le era uscito un verso gracchiante, poi il silenzio. La testa era crollata di lato, cozzando sul finestrino. Lui si era voltato trionfante: non ne poteva più delle sue farneti-cazioni. Se era scappata da un paese povero, non era un suo pro-blema. Se aveva visto morire sua madre e i suoi fratelli, erano af-fari suoi. Se era arrivata in Italia nascosta nello scompartimento segreto di un tir, erano solo cazzi suoi. Di lei, a David, interessa-vano solo le vene. Aveva guidato fino a una casa sperduta nella campagna fuori cit-tà, lasciatagli in eredità da suo nonno. Negli ultimi anni di vita, la

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lucidità mentale di Donato aveva cominciato a perdere colpi, tan-to che poco a poco si era liberato di tutto quello che, stando a quanto diceva, era inutile e superfluo. In quella grande casa, fatta eccezione per il letto, il tavolo della cucina, la televisione e la stu-fa, non c’era più niente. Il letto però l’aveva lasciato e David ci aveva legato Lorena. Il chimico gli aveva scritto con precisione la durata dell’effetto in base alla quantità di droga somministrata. Nel bicchiere aveva diluito quanto bastava per tenerla buona un paio d’ore, giudicandolo un tempo sufficiente per fare quello che doveva. L’aveva spogliata, notando quanto fosse magra: le costole erano protuberanze legnose sotto a un sottile strato di pelle. Solo il seno era abbondante e sodo, in netto contrasto con il resto del corpo. Le aveva toccato una tetta e Lorena aveva sospirato: la sua mente era lontana, tuttavia provava ancora piacere se stimolata nei punti giusti. David aveva sorriso compiaciuto. Le aveva legato mani e piedi: Lorena, dalla pelle incredibilmente pallida, risaltava come una grande X bianca sulla coperta sotto di lei, rossa con arabeschi dorati. Poi aveva cominciato ad aspettare, studiandola. Pensando a quel-lo che stava succedendo dentro di lei, a quello che la droga aveva cominciato a fare ai suoi organi: un fuoco acido. Gli era piaciuta l’immagine, tanto che, ispirato, il giorno dopo lo avrebbe scritto con una bomboletta spray sul muro di una casa abbandonata. FUOCO ACIDO! Aveva passato più di un’ora a spiarla, ad ascoltarla e quando era-no comparsi i primi segni del suo ritorno alla realtà, le aveva i-niettato una seconda dose. Dopo quella siringa l’aveva scopata e i rantoli di Lorena, inconsi-stenti come se arrivassero dall’aldilà, lo avevano divertito, lo a-vevano eccitato. David si era sentito potente come uno di quegli

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antichi imperatori che avevano goduto del diritto di vita e di mor-te sui propri sudditi. Lorena era nelle sue mani: aveva annullato la sua volontà, la pos-sibilità di agire, di fare qualsiasi cosa. Tutto dipendeva da lui, da David: poteva tenerla in vita per mesi, oppure ucciderla subito. Era diventata un burattino e lui un nero Mangiafuoco che non a-spettava altro che bruciare il suo giocattolo più prezioso. Fissò la ragazza: un rigagnolo di saliva aveva cominciato a scen-derle dagli angoli della bocca. Un leggero tremito la scosse: stava per riemergere. Si chinò sul letto. Forò una vena della coscia e schiacciò lo stantuffo. Lorena s’irrigidì per un istante, poi un sospiro di sollievo misto a beatitudine annunciò che era tornata in orbita. David si mise a sedere sul bordo del letto, le accarezzò una gam-ba, dov’era cresciuta una leggera peluria. Non sentì niente, nessun desiderio. Il vero piacere era guardarla morire. Si accese una sigaretta e continuò a fissarla, pensando al mostro chimico che la stava mangiando viva dall’interno.

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3 Celestino, il vecchio stronzo, era fuori. Maddalena, sua moglie, una donna ingobbita che ricordava una strega mangia bambini del mondo delle fiabe, lo aveva spinto all’ombra del salice che dominava la piazza davanti a casa. Se ne stava lì, seduto a fissare un punto imprecisato in quel pano-rama immobile di brulli campi incolti. Loro erano invece acquattati in un fosso polveroso, a spiarlo co-me belve feroci che studiano la preda prima dell’assalto mortale. David, alto, dinoccolato, vestito con una maglietta e un paio di pantaloncini militari, comprati appositamente per quella giornata, fissava il vecchio con la determinazione di un cecchino sul punto di sparare a un nemico ignaro. Le mani erano strette come gli artigli di un lupo mannaro su un tubo d’acciaio scovato in cantina. Ne aveva sigillate le estremità, non prima di averlo riempito di segatura mista a un’infinità di pallini di piombo. Era solido e ben imbottito: una mazza letale che presto avrebbe maciullato carne di vecchio. E per lui, ragazzo di tredici anni dal sorriso splendente e dagli oc-chi di fuoco, quell’invalido muto e dal perenne ghigno imbroncia-to era un vero nemico. Se qualcuno glielo avesse chiesto, se qualcuno avesse voluto sa-pere il perché di tanto disprezzo, avrebbe risposto che era per via della sedia. Per quel trabiccolo con le ruote che gli sbatteva in faccia ogni santo giorno la fragilità e la vulnerabilità del corpo umano. Lo odiava perché era paralitico, lo odiava perché dipen-deva da sua moglie e non poteva né mangiare né pulirsi il culo da solo. Lo odiava perché i suoi occhi erano spenti e privi di qualun-que scintilla vitale.

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Lo odiava perché non si decideva a morire. Lo odiava perché esisteva. Assieme a David c’era suo fratello, Mirko, più grande di cinque anni, e se l’altro assomigliava alla loro madre, donna bellissima che in molti avevano desiderato e amato, lui era la copia sputata di suo padre, un uomo basso e tozzo dotato dello stesso fascino di un tappo di sughero. Quando era stato annunciato il matrimonio, in tanti si erano chie-sti come avesse potuto una donna come Adele sposare un aborto come Simone. Un uomo cui puzzava il fiato e con la sigaretta sempre in bocca, ubriacone e per di più interessante e simpatico come un batterio dannoso. Eppure l’aveva addirittura portata all’altare e da quando si erano sposati lei non aveva più guardato nessun altro. Fedele in un modo così disgustoso che tutti pensa-vano ci fosse sotto qualcosa di losco. Ma erano solo chiacchiere che alla lunga si erano dissipate come la ben nota nebbia al sole. Del padre, Mirko aveva ereditato sia la poca passione per l’igiene personale che il carattere: così timido e impacciato da sembrare non solo un pesce fuor d’acqua, ma addirittura un pesce fuor d’acqua ritardato. Anche quando interpellato direttamente parlava di rado, cosa che a scuola gli aveva provocato grossi problemi, costretto a ripetere la prima media per due volte. David aveva già fatto strage di cuori femminili, per Mirko invece le ragazze erano un pianeta sconosciuto dotato di quella forza re-pulsiva che respinge due calamite avvicinate per lo stesso polo. Un giorno indecoroso, l’insegnante di educazione fisica lo aveva chiamato in disparte e gli aveva fatto un discorso sulla pulizia del corpo e di come sarebbe stato rispettoso verso i suoi compagni, ma soprattutto nei confronti delle sue compagne, farsi la doccia tutti i giorni. «Ricordati Mirko che le donne sono molto sensibili ai cattivi odo-ri e tu, mio caro, puzzi. Vuoi che scriva una nota ai tuoi genito-ri?» e nel chiederlo si era chinata in avanti: la maglietta, dall’ampia scollatura, si era chinata con lei, mettendo in mostra le

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sue tette senza reggiseno, grosse e dai capezzoli del colore di due fragole mature e piene si polpa. Mirko, ammaliato da quella visione di femminilità totale, aveva emesso un guaito simile in tutto e per tutto al raglio di un mulo: nelle mutande aveva lasciato un ricordino bianco e dall’odore in-confondibile, del quale si sarebbe accorto solo in tarda serata. La professoressa, un bocconcino biondo che aveva una relazione focosa con il campione della squadra locale di pallamano, aveva sentito subito il nuovo olezzo provenire dalle mutande di Mirko, ma, mossa da quello spirito di compassione che solo le madri possono provare, non aveva infierito oltre. Si era voltata, lascian-do perdere quel piccolo sgorbio, parodia per niente ironica dei ra-gazzini che ogni giorno le ricordavano di aver fatto la scelta giu-sta: suo padre avrebbe voluto che diventasse avvocato, mentre lei aveva scelto di diventare insegnante. Non se ne sarebbe mai pen-tita. «Sei sicuro di volerlo fare?» chiese Mirko in un bisbiglio stridulo. Senza staccare gli occhi dal vecchio, David sibilò un secco: «Smetti di fare la fighetta!» «Ma potrebbero scoprici!» David si voltò per colpirlo sulla guancia con il dorso della mano: un colpo debole, che però non ammetteva altri piagnucolii. A-vrebbe ucciso per suo fratello e si contavano sulle dita di una ma-no le volte che lo aveva picchiato. In quel momento però l’atteggiamento di Mirko era controproducente. Era il comporta-mento di un imbecille che si rifiuta di guardare in faccia la realtà: dovevano farlo, era il loro destino, punto e basta. Non c’era spa-zio per le lacrime o i ripensamenti. Celestino doveva morire. «Se farai come ti ho detto, non ci scoprirà nessuno: la casa più vi-cina è quella dei nonni ed è lontana. Il fornaio passa alle 11 e per allora ce ne saremo andati da un pezzo.» Mirko guardò il fratello con gli occhi lucidi: voleva dirgli che era una faccenda sporca, orribile, e che lui voleva tirarsene fuori, ma

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lo sguardo di David non ammetteva repliche: era lo stesso sguar-do di quando aveva preso a bastonate un cane intrufolatosi nel pollaio del nonno. Era lo sguardo che aveva avuto quando, un pa-io d’anni prima, lo aveva portato a fare una scarpinata attraverso il bosco e gli aveva spiegato i fatti della vita. Erano occhi ardenti che avrebbero bruciato il mondo se ne fosse-ro stati capaci e Mirko ebbe la certezza che se non avesse smesso di lagnarsi, se avesse continuato a fare la “fighetta” quegli occhi lo avrebbero incenerito. «Anche lei?» «Certo», rispose David, «soprattutto lei e sai una cosa? Potrei scoparmela prima di farla fuori. Un’ultima chiavata prima di mandarla giù all’inferno!» E ridacchiò felice. Mirko, che nonostante i suoi diciotto anni, non aveva ancora compreso tutte le implicazioni della parola “sesso”, sentì esplo-dergli le viscere: l’immagine nella sua mente, di David nudo so-pra di lei altrettanto nuda, era raccapricciante. «Avrà novant’anni, non puoi voler… fare quelle cose con Madda-lena!» C’era calore e disgusto nella sua voce. «È due anni più giovane della nonna», replicò l’altro riportando l’attenzione sulla sedia a rotelle, «sembra più anziana perché è invecchiata male.» A Mirko venne voglia di vomitare: la nonna aveva settantadue anni. Correndo tutti i rischi del caso, Mirko stava per esprimere di nuo-vo le sue perplessità quando la donna uscì. Si avvicinò al marito, si chinò su di lui e con un fazzoletto gli pulì la bocca. Gli passò una mano sulla guancia e poi s’incamminò verso le ca-panne. «Sta andando al pollaio», bisbigliò David. «È il momento», e fur-tivo si mise in piedi. «David…»

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«Mirko ho bisogno di te», tagliò corto lui. «Devi solo spingere la sedia in casa, al resto penserò io», e dalla tasca dai pantaloni pre-se un paio di guanti e li passò al fratello. «Mettiti questi così non lascerai impronte» e, silenzioso come una donnola, la inseguì. Mirko, terrorizzato, indossò i guanti e, con le gambe cedevoli come burro, andò verso il salice. Arrivato alla sedia a rotelle co-minciò a piangere a scroscio: si sentiva davvero una fighetta. David, invece, arrivò alle spalle della donna mentre stava aprendo il cancelletto del recinto. Le guardò la vistosa gobba, promontorio di materia organica sim-bolo del tempo che era scivolato su di lei, marchio implacabile della dissoluzione della carne. Era vestita di nero, con una vestaglia logora e rammendata in più punti con pezze tra il grigio e il marrone. Ai piedi portava un paio di scarpe nere e informi. Quella sinistra aveva perfino un grosso buco dal quale si vedeva il piede nudo. La testa era coperta da un fazzoletto sdrucito a tema floreale: rose e tulipani e margherite. Fiori stinti e appena riconoscibili. Quella donna, con i suoi settant’anni, era la personificazione di un mondo e un modo di vivere che non esistevano più. Per un attimo fugace e quasi impalpabile, David provò una gran-de pena per lei: dalla vita non aveva avuto nessuna soddisfazione e la poca felicità che aveva ricevuto era stata scalzata dall’amaro delle tragedie. Il marito, che da giovane era stato un eroe di guer-ra con tanto di medaglie, era stato colpito da un’emorragia cere-brale che lo aveva trasformato nel vegetale che era. Una delle sue figlie, Costanza, era morta in un incidente stradale, investita da un camion mentre andava al lavoro con la sua vespa. L’altra, Giorgia, si era trasferita con il marito in Australia. Il solo contatto stabile con la madre era il vaglia che le spediva ogni me-se per le spese mediche del padre. Una mattina di qualche mese prima, David l’aveva sentita mentre parlava con la nonna.

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Maddalena, disperata, le aveva confidato che la sua era stata una vita di merda e che spesso aveva pensato alla morte come a una liberazione. C’erano giorni in cui un treno o la canna di un fucile sembravano la soluzione più semplice e indolore per farla finita una volta per tutte. «Maddalena!» aveva risposto una sbigottita Iolanda, per poi stringerla in un abbraccio goffo ma sincero. «Non pensi a tuo ma-rito? Quello che fai adesso può sembrarti duro e ingiusto, ma il Signore saprà ricompensarti per la croce che porti ogni giorno: non arrenderti, mai! Questa è la prova che Dio ha messo sulla tua strada prima di raggiungere la vita eterna.» Un discorso fatto da una donna con una fede incrollabile. David, che in fatto di fede era sterile quanto una manciata di pie-tre, sapeva che a parlare era una donna che non aveva conosciuto il lato crudele della vita. Iolanda, a parte gli stenti della guerra aveva condotto un’esistenza agiata e piena di gioia. Se Iolanda avesse ricevuto in faccia soltanto la metà della merda piovuta ad-dosso a Maddalena, la sua fede si sarebbe spenta come un fiam-mifero al vento. Troppo facile parlare di misericordia e ricompense divine sulla base delle sue croci, fatte di frivoli mal di denti e un’occasionale gamba rotta. Maddalena, a differenza di sua nonna, aveva conosciuto il dolore vero, la sofferenza che annichilisce e schiaccia a terra con brutali-tà, e vedendola quella mattina vestita di stracci, ignara della mor-te che era arrivata alle sue spalle, a David sembrò la persona più sfortunata del mondo. La possibilità di andar via, lasciandole vivere quell’ultimo scam-polo della sua misera esistenza, gli sembrò non solo plausibile, ma in qualche modo giusto: perché uccidere una donna che era stata punita abbondantemente dalla sua stessa vita? Era un con-trosenso troppo crudele perfino per lui.

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Mosse un passo all’indietro e il destino fece il suo corso: la ghiaia sotto le sue scarpe scricchiolò e Maddalena, sobbalzando, si vol-tò. Gli occhi erano due fessure madide di paura e, seguendo l’istinto alla difesa innato in ogni essere umano, alzò il secchiello del gra-no come se fosse uno scudo. Vedendo chi era, sul viso di lei tornò un sorriso traballante. «David sei tu, non ti ho sentito arrivare», e con una punta di ver-gogna, dopo aver riabbassato il secchio confessò: «mi hai spaven-tata.» Il ragazzo la guardò negli occhi e la pietà che lo aveva fatto quasi desistere fu spazzata via da un nuovo e rinvigorito disprezzo: da-vanti a lui c’era la donna che non era riuscita a togliere di mezzo quel relitto inutile di suo marito. «Lo so che non mi hai sentito», rispose stringendo il tubo d’acciaio nascosto dietro la gamba. «Hai bisogno di qualcosa?» domandò Maddalena sbrigativa: la voce era quella di una cornacchia appollaiata sulla zolla di un ci-mitero. «Sì», disse, «ho bisogno di qualcosa.» Tono amletico, le dita strette attorno alla mazza. «Cioè?» Maddalena voleva arrivare al punto. «Devo ancora pen-sare agli animali e tra mezz’ora devo dare le medicine a Celesti-no.» «Ho bisogno di lui», ribatté il ragazzo e la paura tornò a deforma-re il viso della donna, facendola apparire per ciò che era veramen-te: una vecchia che aveva vissuto una vita di merda. «Che vuoi dire?» un tremito scomposto simile al picchiettio della grandine sulla lamiera di una macchina: le sue poche certezze e-rano state cancellate dalle parole di un adolescente che aveva vi-sto nascere e crescere. «Lo sai cosa voglio dire», disse David con la pazienza di un mae-stro che ripete la lezione, appena spiegata, al più stupido della classe.

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Maddalena cominciò a scuotere la testa, singhiozzando. Si mosse in avanti per andare da suo marito, ma David le sbarrò la strada e in quel momento mise in mostra la sua arma. «David, ti prego, non avrai intenzione di…?» «Sì Maddalena, ho proprio intenzione di!» e le puntò contro il tu-bo. «Mi sono rotto i coglioni di vedere Celestino, di vedere quella cazzo di sedia e la bava che gli cola dalla bocca. E non puoi capi-re quanto mi sono rotto il cazzo di te brutta stronza! Avresti do-vuto ammazzarlo quando lo hanno dimesso dall’ospedale! Sei una lurida vigliacca che non ha mai avuto il coraggio di fare quel-lo che è necessario.» Odio assoluto, odio perfetto e maledetto. L’odio dell’incomprensione e del disprezzo per ogni forma di mi-sericordia. «David che stai dicendo? Devi sentirti male, non puoi pensare ve-ramente queste cose! Ti conosco, tu non sei così!» «Tu non sai un cazzo di me!» Il tubo sempre puntato contro la sua faccia. «David!» «Zitta!» Poi, dopo aver preso fiato gridò: «Lo hai preso?» Non ci fu risposta: Mirko doveva essere già in casa. «Chi c’è con te?» chiese terrorizzata Maddalena. «Non fargli del male, ti prego, ti scongiuro! Non fargli del male, oh dio onnipo-tente!» e cominciò a piangere: lacrime terrorizzate di una persona stanca e impaurita. «Mio fratello ha preso tuo marito», rispose soddisfatto. Maddale-na aveva sempre avuto un debole per Mirko, ragazzino buono e dolce dagli occhi ingenui come quelli di un agnellino. Sbatterle in faccia che non era così buono e dolce come aveva pensato gli provocò un compiaciuto senso di dispetto. Le si spalancarono gli occhi, cominciò a boccheggiare in cerca di aria, come se la verità la stesse soffocando. «Mirko? No Mirko no! Lui è…»

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«Lui non è buono come hai sempre pensato, è malvagio quanto me», e con un movimento rapidissimo portò il tubo dietro la spal-la. «David…» bisbigliò lei in un’ultima, inutile supplica. Caricò con tutta la sua forza e colpì. L’impatto fu distruttivo: il tubo la centrò alla tempia, sfondandole il cranio. Sangue e schegge d’osso volarono dappertutto. La donna morì senza rendersene conto. Crollò a terra e David, soddisfatto per averla uccisa con un colpo solo, si chinò sul cadavere. Cadendo, la veste le si era sollevata, mettendo in mostra le gam-be: pelle bianca e flaccida segnata da un intrico vomitevole di ve-ne bluastre. Vedendo quelle gambe morte, intaccate dalle vene, la prospettiva di farsela non gli sembrò così invitante. Sospirò: quella carne era comunque lì ed era passato troppo tem-po dall’ultima volta che era stato con una donna. Le sue coetanee non gli interessavano: troppo piccole, troppo stu-pide e lui della stupidità non sapeva che farsene. Non voleva per-dere tempo dietro ad amenità come l’amore, i sospiri, le paroline dolci e tutto quello che un legame adolescenziale comportava. David voleva una donna adulta con la quale poter andare a letto senza nessuna complicazione o impegno sentimentale. La sua prima volta era stata l’inverno precedente con Mascia, un’amica di sua madre. Una donna bella, matura, che lo aveva preso in macchina mentre lo riportava a casa dopo un pomeriggio passato assieme a suo figlio. Lei aveva usato la bocca ed era stato velocissimo, intenso, lucente. Con gli occhi chiusi, scosso dal quel singulto di piacere, David aveva pensato che le donne fosse-ro utili per una cosa soltanto: il sesso. Con Mascia era andata avanti per un paio di mesi e dall’ultima volta con lei, consumata sempre in macchina mentre il mondo in-torno a loro era sferzato da un violento acquazzone, non era più riuscito a trovare una donna disposta a fare sesso con un tredi-cenne.

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Aveva tentato un approccio diretto ma infruttuoso con Roberta, la maestra del doposcuola dove ogni tanto sua madre lo costringeva ad andare. Lei era una donna mingherlina che gli aveva rifilato una sberla sonora: lo aveva minacciato dicendogli che se avesse allungato di nuovo le mani avrebbe raccontato tutto non a suo pa-dre, ma a suo nonno. E se David era indifferente agli esseri umani nella loro generalità di specie, suo nonno era l’unico che temeva davvero. Donato: arcigno, dalle mani grandi e con braccia simili a blocchi di granito, dal fisico possente nonostante fosse avanti con gli an-ni. Dagli occhi pieni di consapevolezza. David lo rispettava come nonno e lo temeva come uomo: nel profondo della sua anima, David era sicuro che suo nonno sapesse cosa si nascondeva dietro la sua faccia da bravo ragazzo. Donato lo guardava sempre di traverso, con sospetto, come se si aspettasse di essere colpito alle spalle. Si voltò: pensare a suo nonno gli fece provare la sensazione che fosse lì, dietro di lui. Conoscendo il tipo, non avrebbe chiamato né polizia né carabinieri: avrebbe sistemato la faccenda di perso-na, ammazzando i nipoti come i cani rabbiosi che erano. Ma suo nonno non c’era. Era a una visita per un controllo al suo cuore malandato e, sebbene non ne fosse consapevole, David a-veva scelto di colpire Celestino e Maddalena quella mattina pro-prio per l’assenza di Donato. Sospirò: suo nonno era lontano mentre ai suoi piedi c’era il corpo di una donna che aspettava solo il suo uccello. Che fosse più vecchia di quasi sessant’anni era insignificante. Che fosse morta, irrilevante. Lasciò cadere il tubo d’acciaio e si chinò su Maddalena. Le sollevò la veste fin sopra la vita e quando vide i mutandoni scoppiò a ridere: erano più grandi dei pantaloncini che aveva ad-dosso, lunghi fin quasi al ginocchio e pieni di merletti e trine. Gocciolanti d’urina: si era pisciata addosso.

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La risata morì, spezzata da una furia amorfa che lo colpì come un pugno sullo stomaco: non poteva scopare quello schifo. Digri-gnando i denti, bestemmiando in modo selvaggio, David agguan-tò il tubo e dopo essersi rimesso in piedi cominciò a colpire il ca-davere. Le fracassò la testa, riducendola a una sacca sanguinolenta e irri-conoscibile. Le spezzò le braccia, le gambe. Le distrusse le costole, spappolando la maggior parte degli orga-ni. Il medico che avrebbe eseguito l’autopsia, parlando con un colle-ga avrebbe confessato che in vent’anni di carriera non aveva mai visto niente di simile. Dentro a quel cadavere tutto era ridotto a un ammasso simile a spezzatino. L’autopsia, però, ci sarebbe sta-ta solo tre giorni dopo: in quel preciso istante David, che una vol-ta aveva cantato in una chiesa gremita nella notte di Natale, infie-rì su Maddalena fino a quando le spalle cominciarono a bruciargli come una batteria sul punto di esplodere. Con il fiatone, riprendendo il controllo di sé, guardò quello che era stato un essere umano: l’aveva distrutta. Annientata era la parola che meglio si adattava a quello che aveva fatto. Dalla tasca dei pantaloni prese le sigarette di suo padre, puzzolen-ti sigarette italiane senza filtro. Lasciare il mozzicone sarebbe sta-to rischioso, ma contava di farlo sparire, buttandolo lontano dal cadavere di Maddalena e poi, pensò David, al diavolo ogni ri-schio: non poteva privarsi del piacere di una sigaretta dopo quello che aveva fatto. Dopo il sesso, Mascia aveva sempre fumato. Gli aveva confidato che non c’era niente di meglio di una sigaretta dopo una scopata vigorosa. David aveva provato, scoprendosi d’accordo: dopo il sesso una sigaretta era come il “e vissero tutti felici e contenti” che chiude-va il finale perfetto delle favole più belle.

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Con il corpo di Maddalena circondato da un sudario di sangue, David si sentì appagato come se avesse fatto dell’ottimo sesso e non poté fare a meno di fumare. Era felice, soddisfatto nella carne e trionfante nello spirito, come un messia risorto che annuncia al mondo un nuovo messaggio di evangelizzazione: massacra il prossimo tuo con tutto l’odio che riesci a provare. Pensandoci bene, il rapporto avuto con Maddalena, volendolo de-finire così, era stato più intimo e profondo del sesso. Il sesso lo accomunava a tutti gli uomini del pianeta: probabil-mente in quel preciso istante c’erano migliaia di uomini che fu-mavano una sigaretta dopo aver goduto del corpo di una donna. L’omicidio di Maddalena era stato qualcosa di meravigliosamen-te unico: nessun altro avrebbe potuto ammazzare di nuovo quella donna e lui era stato il fortunato che aveva stroncato quella singo-la, irripetibile persona. La morte di Maddalena era sua e sua soltanto, non l’avrebbe mai dovuta dividere con nessun altro uomo. Mentre la sigaretta gli si consumava tra le labbra, perso in quei pensieri di morte e piacere, David capì che il sesso era qualcosa di misero rispetto a quello che aveva fatto e l’illuminazione, epi-fania maledetta piovuta su di lui dai bui reconditi dell’inferno, ar-rivò maligna come un tumore assassino. Le donne non servivano per provare piacere, quella era solo la facciata esterna, quella che tutti potevano vedere. Lui era andato oltre, aveva squarciato il velo che opprimeva la verità, quella di cui avrebbe potuto parlare un filosofo degli inferi: le donne esi-stevano solo ed esclusivamente per essere ammazzate. Dalla loro morte un uomo poteva trarre un piacere superiore, da non confondere però con qualche insulsa pulsione da necrofilo. La morte di una donna regalava il piacere sublime della distru-zione. David finì di fumare, spense il mozzicone in un secchio pieno d’acqua per poi ficcarselo in tasca.

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Una volta a casa lo avrebbe sepolto da qualche parte. Avrebbe la-vato anche i vestiti, ma quelli erano tutti compiti per il dopo. Adesso doveva finire quello che era stato cominciato e l’idea di far fuori Celestino gli scivolò giù per la gola come un dolcissimo miele che arriva ad accarezzare lo stomaco. Maddalena gli aveva spalancato le porte di una nuova verità e Celestino sarebbe stato un dessert sfizioso. Fine anteprima.Continua...