Angeli Nella mia vita. Le opere selezionate

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ANGELI NELLA MIA VITA SOCIETÀ DANTE ALIGHIERI Fondazione Opera Immacolata Concezione Onlus

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libretto che raccoglie le opere selezionata dalla Giuria del concorso 2010, presieduta da Antonia Arslan

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ANGELI NELLA MIA VITA

SOCIETÀDANTE ALIGHIERI

FondazioneOpera Immacolata Concezione Onlus

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Prima edizione: settembre 2010

ISBN 978 88 6129 586 5

© Copyright 2010 by cleup sc“Coop. Libraria Editrice Università di Padova”Via G. Belzoni, 118/3 – Padova (Tel. 049 8753496)www.cleup.it

Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento,totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresele copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.

Grafica di copertina di Massimo Maltauro.

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Indice

Presentazioni

Un appuntamento che si rinnova 7Angelo Ferro, Presidente Fondazione OIC Onlus

Angeliche presenze 11Antonia Arslan, Presidente della Giuria

28 agosto 2010 – S. Agostino d’Ippona 13Luisa Scimemi di San Bonifacio, Presidente emerita Società Dante Alighieri – Comitato di Padova

Le vite degli Angeli 17Alessandro Russello, Direttore «Corriere del Veneto»

Essere angeli nel quotidiano 21Fabio Franceschi, Presidente Grafica Veneta SpA

Gli angeli sono tra noi 23Ambrogio Fassina, Presidente Cleup

Racconti

Lucia e il suo angelo 27Un Angelo di nome Bakhita 31Gli otto angeli nella mia vita 34

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Angeli bianchi in Africa 37La storia di Primo Gioppo “Lassù c’è qualcunoche non vuole che il suo cuore muoia” 38Nonna Elsa: il mio Angelo 40I miei angeli bianchi e i miei angeli celesti 42I miei cinque nipotini angioletti 43L’angelo della Piave 44Il clown: l’angelo del sorriso 49Le foto dell’angelo 52A Gianfranco 58Un angelo non sa di esserlo finchè non glielo dicono 63Quell’angelo di mia figlia 67L’angelo dal golfino bianco 68

Poesie

Angelo mio 75Presepi 76Volano gli Angeli 77Valentina 78Vorrei 79Le ali bianche 80Troppo presto 81El me angelo 82È un velo 84Angeli nella demenza 85Essere custoditi 86Angeli attorno a noi 87Nome: Angelo Cognome: Custode 88

I partecipanti 91

I promotori 93

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Presentazioni

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Un appuntamento che si rinnova

Ogni anno, nella prima domenica di autunno, la Fonda-zione Opera Immacolata Concezione celebra con il concorso “Longevità e Cultura” la messe di valori spirituali maturata nel trascorrere dei tanti decenni esistenziali.

Una ricorrenza significativa perché la terza età, nel les-sico familiare, è ancorata alla stagione autunnale.

Perché, come nelle ore del tramonto si avvertono colori speciali, straordinari che fanno risaltare sfumature e croma-tismi prima sommersi nell’abbacinarsi solare, così il cumulo degli anni, nel distaccarsi dalle cose, apre scenari straordina-ri di interiorità vissuta.

Perché, liberati dalle ansie del lavoro e della carriera, delle preoccupazioni circa il crescere dei figli, dai dubbi per le scelte intraprese di fronte all’evolversi tumultuoso degli eventi, si avverte la voglia di manifestare, in forme prima non sperimentate, sentimenti e sensazioni, per collegarsi, con lo spirito, ad una dimensione trascendente.

È l’andare oltre memorie e ricordi, per guardare ad un futuro di speranza nel Bene, nella Giustizia, per sempre; ed in un’epoca di frammentazioni, di orizzonte breve, di egoi-smo prevalente, trasmettere questi valori, non inventati, ma incarnati, suona come messaggio di fiducia in un domani migliore, anche perché chi li esprime ha contribuito a farci uscire dalla povertà e dalle divisioni del dopoguerra portan-doci nel ristretto novero dei Paesi più sviluppati.

Si è venuta così collaudando la formula operativa, con un concorso a tema; la condivisione di ambienti qualificati

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sul piano imprenditoriale, accademico, della comunicazio-ne e dell’Università; la selezione di una Giuria presieduta da una grande personalità; la pubblicazione con un libretto diffuso su carta in migliaia e migliaia di copie e su internet nel sito.

Nel 2008 si iniziò con “La poesia nella longevità”; nel 2009 si proseguì con “Il Sogno, il magico, il fantastico: i non-ni accompagnano i nipoti nel mondo delle fiabe”. Quest’an-no per rappresentare “Gli Angeli nella vita” oltre al genere letterario, la modalità si è allargata alla fotografia.

Tappe significative per far avanzare le frontiere della “longevità come risorsa”.

La tendenza, sempre più marcatamente incrementale, dell’allungamento della durata della vita, stenta a provocare nella società l’individuazione di un approccio che – liberando le energie dei longevi – produca progresso. In questo mondo complesso, ora gravato da una crisi spaventosa, purtroppo ci sono tanti ‘interessi’ (come l’uso smodato di cure sani-tarie, l’eccessivo consumo di farmaci, un assistenzialismo burocratico ecc.) che operano per comprimere e sterilizzare queste energie o addirittura per sfruttarle in funzione di far profitti dalle fragilità psico-fisiche.

Liberare queste energie è invece necessario e indiffe-ribile. I longevi rappresentano la risorsa – silenziosa ma ri-voluzionaria – per ridare slancio e coesione ad una società frammentata e indebolita nei riti del declino: hanno matura-to in pieno il senso della vita accumulando esperienze, pos-siedono entusiasmo nel trasmettere la gioia dell’avventura esistenziale (emblematico è il rapporto nonno-nipote); di-spongono di tempo per promuovere comportamenti di ag-gregazione comunitaria. Un patrimonio di incommensurabi-le valore che incardina nei longevi un ruolo non subalterno ma da protagonisti, testimoni del dono della vita per sé e per gli altri, educatori di cultura e di civiltà.

Un grazie a tutti i partecipanti e a coloro che sono stati prescelti. Un grazie ai ‘magnifici quattro’: Corriere del Ve-

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neto, Dante Alighieri, Cleup e Grafica Veneta che sostengo-no con passione l’iniziativa. Un grazie alla Giuria e alla sua presidente Antonia Arslan. È la messe preziosa per la se-mina del Bello, del Buono, del Giusto racchiuso nella figura dell’Angelo che sempre ci fa percepire la perfezione ultima della nostra vita e nell’avanzare dell’età diventa messaggero di liberazione dai nostri crescenti limiti. Il nostro tempo è il tempo intermedio, che nella longevità di accorcia. Si at-tende l’ora della sera per passare all’altra riva: per rivedere i propri cari, gli amici; per ritrovare la felicità trascorsa ed attingere a quella promessa; per conoscere ed integrarsi nel mondo perfetto delle Beatitudini; quel sogno che dura per l’infinito, di un mondo senza sofferenze, senza ingiustizie, senza diseguaglianze, senza prevaricazioni, senza egoismi, ma pieno di Gioia, di Amore, di Assoluto. L’avveramento del-le Beatitudini è sospeso tra il Cielo e la Terra. Gli Angeli che in vita sentiamo vicini ce lo preannunciano.

Angelo FerroPresidente Fondazione

OIC Onlus

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Angeliche presenze

Si chiamava Touched by an angel (Toccato da un an-gelo) una serie televisiva di molto successo negli Stati Uniti qualche anno fa, nella quale agivano addirittura tre angeli, a volte insieme, a volte no: una nera vistosa, grassa e saggia di nome Tess, che era il capo, una giovane irlandese dal tene-ro cuore e dal sorriso incantevole, Monica, e infine Andrew, l’angelo della morte vestito di nero, dal viso gentile, affabile e malinconico. Quando lui compariva, le altre due sapevano che per il loro protetto di turno la situazione era gravemente compromessa.

Ogni puntata partiva descrivendo una situazione di crisi profonda, apparentemente irrimediabile, riguardante una persona che stava meditando qualcosa di terribile, come un delitto, una fuga, il suicidio. Poi arrivava l’angelo, in veste di compagno o amico, o più spesso di benintenzionata cono-scenza casuale, che riusciva a impedire il peggio, a stimolare la coscienza, e infine a mettere a posto le cose. La lotta fra il bene e il male si dipanava con vigorosa drammaticità.

Ma il fatto più importante era che i tre angeli non ap-parivano che nella loro forma umana, e si comportavano da normali esseri umani, dando così allo spettatore il sottile bri-vido del possibile, di un incontro con il soprannaturale che non si rivestiva di aureole e canti celestiali ma di concreta presenza affettuosa, nelle vesti di una persona dall’aspet-to qualsiasi, che però irradiava il bene e riusciva a guarire il male spirituale.

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Qualcosa di simile accade anche nei racconti e nelle poesie raccolti in questo libretto, come un mazzo di umili fiori variopinti che raccontano un contatto con l’angelo. In tutti, da voci diverse e con diverse sfumature, viene narrata la storia di qualcuno che è stato raggiunto da uno dei tanti angeli che, inavvertiti ma attentissimi, attraversano le no-stre giornate. Come la storia deliziosamente umanissima del pompiere che avrebbe voluto fare il ragioniere, e che diven-ta eroe per sbaglio quando un fagottino di bimba gli cade letteralmente sulle braccia; o come le amichevoli infermiere o i cari volontari di cui parlano, con godibile semplicità, tan-ti anziani. Le loro dolci mani soccorrevoli fanno trascorrere una vita più serena a chi è affaticato o inabile, consolano le loro famiglie, sollevano i loro cuori.

E la raccolta di questi ‘grazie!’, che qui presentiamo, scalda il cuore e ci rinfranca in silenziosa ammirazione.

Antonia ArslanPresidente della Giuria

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28 agosto 2010 – S. Agostino d’Ippona

Siamo lieti e grati, noi della Dante Alighieri, di essere tra le associazioni di volontariato che fin dal primo momento sono state invitate ad aderire a questa meritevole iniziativa promossa dall’Opera Immacolata Concezione, partecipan-do alla lettura e alla selezione dei numerosi elaborati giunti alla Commissione valutatrice, presieduta da Antonia Arslan, scrittrice padovana nota in tutto il mondo, donna di cultura e di intensa, originale sensibilità.

“Non cercare lontano, guarda in te stesso: nel cuore dell’uomo abita la verità” (Noli foras exire, in te ipsum ingre-di: in interiore homine habitat veritas), scriveva Sant’Ago-stino più di 16 secoli fa. E all’intimo della coscienza umana ha fatto ricorso il prof. Angelo Ferro, nel suggerire il titolo: “Angeli, nella mia vita” come tema della terza edizione del Concorso annuale indetto dalla Fondazione dell’Opera Im-macolata Concezione.

C’è infatti una persuasiva corrispondenza tra le immagi-ni toccanti di vita quotidiana cui si ispira la gran parte delle composizioni pervenute alla Commissione valutatrice, e il disegno originale che sta alle fondamenta della stessa Opera Immacolata Concezione.

Sintesi luminosa ed eloquente di questa corrisponden-za è appunto la figura dell’Angelo, intima presenza positiva nel cuore di ciascuno di noi, proposta alla riflessione e alla fantasia creativa di ospiti, familiari, operatori dell’oic, e dei tanti amici che si dedicano con generoso impegno alle at-

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tività di assistenza nell’ambito dell’Opera. Angeli essi stes-si, potremmo definirli dunque, in quanto messaggeri della ‘buona novella’, protagonisti di un progetto di apostolato e di assistenza solidale.

Seguendo ancora Sant’Agostino, siamo indotti ad assi-milare l’oic ad un’umanissima Civitas Dei in divenire, dove ci si prodiga nell’intenzione di realizzare il disegno salvifico della Provvidenza Divina, e nelle cui attività viene coinvolto anno dopo anno, grazie anche all’adesione promozionale di stampa e di istituzioni pubbliche e private, un sempre mag-gior numero di ‘persone di buona volontà’ che ‘raccontano’ i valori conferiti al proprio impegno quotidiano, riscoprendo, secondo prospettive singolari, quel senso autentico della vita che ciascuno sceglierà poi di preservare, di trasmettere al prossimo e alle generazioni future. Angeli, dunque, sono i personaggi stessi che abitano le pagine qui raccolte, che vivono fra queste righe struggenti e accanto a ciascuno di noi: abitanti del Cielo e della Terra. Soggetto affascinante, attuale oggi come non mai; concetto presente, fin dall’inizio dei tempi, nel patrimonio comune di un’antropologia positi-va che ci induce ad una riflessione ricca di implicazioni per-sonali, di delicate suggestioni iconografiche, eterne e incor-ruttibili, ma anche di considerazioni universali, che toccano l’anima di ogni uomo.

Da sempre legato all’uomo e alla presenza del divino accanto a lui, immagine allegorica di un disegno provviden-ziale e edificante che coinvolge il creato intero, la troviamo rappresentata in mille modi diversi, nel bene e nel male, come una nostra proiezione extracorporale.

Ideale, astratto e insieme familiare, l’Angelo può allo-ra rivelarsi nella voce che viene dal cuore, o in quella di un messaggero che arriva da altrove; può apparire come uno sconosciuto che si manifesti all’improvviso davanti a noi, così come un amico, il fratello che cammina al nostro fian-co, che ci sostiene e ci corregge, che chiede il nostro aiuto,

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che ci offre, imprevisto, il suo conforto. È l’ospite inatteso, lo straniero che bussa alla nostra porta, che invoca soccorso, solidarietà. È custodito nello sguardo fiducioso di un bam-bino, fra le mani tremanti ali estenuate da una lunga fatica di un nonno indulgente. Foriero di buone novelle, sollecita in noi un impegno responsabile che ci avvicina sempre più al nostro prossimo, che ci proietta verso l’Assoluto, invitan-doci a riscoprire, nel complesso delle nostre esperienze, il senso ultimo della condizione umana, divinamente riassun-to nel racconto biblico del peccato originale sancito dall’Ar-cangelo Michele, esecutore della volontà di Dio e garante dell’ordine del creato. Prerogativa dell’umana natura, del significato così difficile da infondere alle nostre scelte, è la libertà, dono fatale di cui l’Angelo ci esorta a fare buon uso, e a convertire, con amore fedele, in occasioni sempre nuove di riscatto esistenziale. La scelta, cui ci troviamo di fronte in ogni istante della nostra vita, non si compie mai una volta per tutte: nella nostra coscienza viene percepita come un duello che si combatte fino all’ultimo respiro contro un pre-sunto, inafferrabile nemico, davanti al quale, oscuramente e perennemente, la nostra fragile umanità rischia di soccom-bere. Perché la libertà di scelta sia fondata, è irrinunciabile la presenza accanto a noi di un alleato celeste, oggettiva te-stimonianza della nostra buona coscienza.

È l’Angelo Custode della nostra tenera infanzia, che accompagna e dà un’apertura solidale, chiara e generosa, a quella dialettica interiore che ci vede confusi, sempre in pericolo di scegliere ‘contro’, invece che ‘a favore’, di guar-dare all’io, invece che a Dio, al proprio interesse invece che a quello del prossimo.

Ed è proprio la straordinaria forza evocativa di questa immagine struggente e domestica che troviamo rappre-sentata in modo così vario e coinvolgente dagli autori dei racconti pubblicati di seguito! Simbolo del conforto divino sempre vicino a noi, criterio di bene e protezione dal male, si traduce nella metafora universale che, sotto le più diverse

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latitudini accompagna idealmente ogni essere umano: un raggio di luce divina che illumina, custodisce, regge e gover-na noi che gli fummo affidati dalla pietà celeste…

Luisa Scimemi di San BonifacioPresidente emerita

Società Dante Alighieri – Comitato di Padova

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Le vite degli Angeli

Mio padre morì dieci anni fa. All’ospedale. Dopo trenta giorni, vissuti uno sull’altro, di agonia. Mi diceva con gli occhi che voleva morire gridando il dolore silente di chi ama pro-fondamente la vita e alla vita vuole restare ostinatamente aggrappato. Lo guardavo e mi sentivo io, di morire. Perché mi sembrava che la mia troppa vita gli togliesse il suo poco respiro. Così gli stringevo la mano, cercando di dargli un soffio di energia trasferita con l’amore del figlio che pensa la propria mano taumaturgica per un vincolo di sangue, storia, gesti, parole, passione. Mi sarei annullato in lui, gli avrei sottratto il dolore con il terrore di chi teme il male.

Fu una grande fatica. Anche se era mio padre, la mia carne. Mi vergogno ancora, mi sento zero. Non so quanto avrei resistito, quanto ancora stretto quella mano, quanto respirato la sua sofferenza.

Era chiaro. Non avevo la forza e il coraggio degli «angeli». Gli angeli che giorno e notte lo curavano, lo accudivano, gli parlavano. Infermieri e volontari. Angeli invisibili, miracoli spiazzanti e laterali perché la loro dedizione ci appare così naturale dal metterla nel conto di un semplice ‘mestiere’. Angeli invisibili così presenti dall’essere pietre angolari di quell’amore che spesso nemmeno un familiare riesce a mo-strare. Angeli invisibili che amano l’umanità a prescindere, che eleggono ognuno a loro padre, madre, fratello. Che nei loro gesti hanno la spiritualità, religiosa o laica, del dono e della testimonianza.

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Mi piace che l’omaggio all’‘Angelo’ sia il tema scelto quest’anno dall’oic per dar dare volto e parola alla ricchezza dei suoi ospiti. Angeli essi stessi, portatori di sofferenza e dispensatori di umanità, tra gli Angeli. I giornali e in genere chi comunica dovrebbero raccontare di più questa ‘invisi-bilità’. E raccontare di più chi li racconta, in questo caso i cittadini di un mondo aperto ma ‘protetto’ come la comunità dell’oic, esperimento unico che in una dimensione inclusiva e multigenerazionale offre una chance ad ospiti ed esterni per reinventarsi, lì ed ora, una seconda (o terza, o quarta) Vita.

Ricordate Second Life? Era (e residualmente è) la vita parallela che spopolava in internet fino a qualche anno-luce fa (sul web le ère si bruciano in pochi attimi e diventano subito lontanissime sconvolgendo la natura del tempo). Vita virtuale fatta di avatar, nuovi profili, nuovi lavori, proiezioni di sogni mai esauditi, perfino un’economia fittizia ma in grado di produrre un mercato – soprattutto pubblicitario – concre-tissimo poiché profittevole. Una vita parallela che sembrava più reale della realtà ma che alla realtà dell’esistenza clonata non ha retto. Fallita, non se ne parla più. Perché la realtà, per quanto frequentata e condizionata dai nuovi geni (nel senso di genetica) della comunicazione virtuale, è ancora quella reale. Pur nell’accoglimento perfino a tratti entusia-stico dei nuovi mondi delle comunità virtuali, cifra alla quale la società ‘immateriale’ non può rinunciare, proprio l’Uomo Longevo porta la bella provocazione dell’imprevista e nuova dimensione che s’affaccia col prolungamento dell’età media della vita. Caricata dei significati e della forza della perduta materialità e dell’esperienza nel senso di ‘esperire’, del cono-scere vivendo, della costruzione dell’esistenza come processo di fatti, fatica, pensiero.

Oggi viviamo senza esperienza e abbiamo bisogno di chi, avendola vissuta per scelta o destino, trasferisca non solo il patrimonio acquisito che è il background di una vita ma anche le modalità e le forme del suo farsi e del suo apprendimento. A cominciare dalla capacità di relazione, dall’empatia con la

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natura, dallo sguardo sull’altro, dalla connessione ancora fisica e sensoriale con un mondo che non si può pensare di mettere in moto solo con un clic.

E, anche, dal senso della meraviglia. Che appartiene, oltre che ai bambini e agli scienziati, a chi senza bisogno di sfidare il tempo taroccandone gli ingranaggi è capace di reinventar-selo assecondando la nuova ma fisicissima natura dei suoi settanta o novant’anni.

Alessandro RusselloDirettore «Corriere del Veneto»

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Essere angeli nel quotidiano

È ormai tradizione per la nostra azienda essere partner dell’annuale concorso letterario promosso dalla Fondazione oic onlus. Una partnership che affonda le sue radici nella forte condivisione di intenti e di ideali che accomunano le nostre organizzazioni, pur operando in ambiti così diversi.

Con vero piacere ho visto crescere il livello qualitativo della manifestazione, con una partecipazione di autori di tutte le età, sempre più numerosi e qualificati: segno inequi-vocabile di una ricchezza anche culturale del territorio nel quale viviamo.

Il tema degli Angeli in particolare mi è molto caro, dato che rispecchia una filosofia che ormai da anni abbiamo adot-tato in azienda e cioè quella di riuscire ad integrare genera-zioni e popolazioni diverse nel posto di lavoro, sulla base di rapporti umani basati anche alla sulla gratuità e sulla rela-zione.

In questo senso un particolare beneficio abbiamo ri-scontrato nell’affiancare nella stessa squadra di lavoro per-sone di età assai diversa. Dove i più giovani si fanno portatori di entusiasmo ed energia e le persone più anziane operano come mediatori di esperienza e relazione, agendo come e veri e propri angeli per i colleghi, volonterosi ma non ancora esperti. Un aiuto gratuito, senza secondi fini, orientato certo al miglioramento della qualità del lavoro ma anche, in gene-rale ad un miglior clima nel quale convivere.

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Questa, credo, sia la grande lezione che tutti dobbiamo imparare, soprattutto in un momento storico così ricco di tensioni ma anche di opportunità.

Fabio FranceschiPresidente Grafica Veneta Spa

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Gli angeli sono tra noi

Ancora una volta ci troviamo insieme con tutti voi per affrontare un tema legato all’età avanzata che ci coinvolge, se riusciremo ad arrivare a questa meta.

Quest’anno, in modo interessante e provocatorio, ci vie-ne proposto il tema degli angeli. Angelo è il nostro presiden-te ed è il termine utilizzato nel mondo greco per indicare il ‘messaggero’. Angelo ci dona un messaggio di impegno per passare nella serenità degli affetti e della comunità un tem-po attivo.

Racconti e poesie, dunque, con un riferimento più o meno diretto e obbligato: gli angeli.

Scorrendo i vari elaborati che sono stati inviati alla Com-missione scopriremo che il tema è stato interpretato nel modo più vario, con libertà e creatività, ma sempre con lievi-tà, con la leggerezza che accompagna chi comunque sorride alla vita, sempre.

Al lettore curioso la scoperta di tanti frammenti di vita, vita vissuta con coraggio, a volte anche inconsapevole come per il protagonista del racconto Un angelo non sa di esserlo finché non glielo dicono. Può darsi che leggendo questo li-bretto non si scoprano verità straordinarie, ma straordinarie sono le vite di tutti i protagonisti delle storie e di chi le rac-conta. Straordinaria e misteriosa è la vita dell’uomo.

Grazie ancora ad Angelo (Ferro) per l’opportunità che una volta di più ci dà per ricordare che gli angeli sono tra noi: sappiamoli sempre riconoscere, tra le persone che ci

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donano un sorriso, che ci tendono una mano, che alleviano le sofferenze del corpo e dello spirito.

Ambrogio FassinaPresidente Cleup

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Racconti

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Lucia e il suo angelo

di Valeria Balasso

La macchina sobbalza e lei, la bambina, non gradisce. Protesta scalciando e la pancia sussulta.

“Sta calma – suggerisco – è già tutto abbastanza com-plicato”.

Poi continuò: “Se per caso non avessi capito, te le spiego io le novità. Il dottore che ha controllato la situazione della tua attuale abitazione, non l’ha trovata sufficientemente… sigillata”.

Qualcosa di simile ad un battito d’ali mi fa trasalire.“Festeggi? Non ti conviene, tanto da lì, per il momento

non puoi uscire. Fra un’ora saremo a letto e ti assicuro che ci saranno giorni difficili da affrontare”.

Un piccolo calcio è la risposta al mio tono poco amabile.Mattinata grigia, fredda. Un’occhiata al termometro mi

fa rabbrividire. Un istante dopo i primi fiocchi di neve ini-ziano il loro gioco. Li osservo affascinata e intanto ripenso alle parole del medico: “Riposo assoluto per almeno venti giorni”.

Giunta a casa realizzo che quella disposizione mi compli-cherà non poco la vita. Mi soffoca l’idea di dover frequentare la camera a tempo pieno. Socchiudo le imposte e ammiro il grande acero: con le sue braccia tese verso il cielo, sembra voler acciuffare le candide farfalle invernali.

Mettiamoci comode: libri, stereo, televisione. Dura poco la tranquillità. Uno scampanellio avverte dell’arrivo de-gli uomini di casa che non gradiscono la mia apparizione in

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pigiama. E meno ancora la notizia che, in cucina, per qualche settimana dovranno arrangiarsi. Mi guardano stralunati.

Provo a sdrammatizzare dicendo che un po’ di dieta non farà male, ma che forse non sarà necessaria. Magari le non-ne si prenderanno cura del loro appetito.

Con un sorriso forzato mi seguono verso la camera. “Deve ancora nascere e porta già confusione”, mugu-

gnano Matteo e Tancredi, dopo essersi ripresi dal colpo. Se ne vanno incupiti, ma li sento trafficare con le posate. Hanno trovato una consolazione!

Rassicuro Marco: andrà tutto bene se rispetterò le indi-cazioni del ginecologo. Allentata la tensione, non si fa ripe-tere due volte l’invito ad approfittare del pasto già pronto. Mi distendo e guardo il bianco, incantevole sfarfallio. Sotto il piumone è facile rilassarsi. Stiamo bene adesso, la bimba ed io. Chiudo gli occhi e cerco nella memoria una dolce ninna nanna. Gliela canto: il suo piedino smette di spingere e poco dopo mi assopisco anch’io.

Ma chi struscia sul vetro? Sembra proprio un bambino, la figurina diafana che si confonde con il biancore della neve e che si agita per farsi notare. Mi alzo come una sonnambula e apro la finestra. Una folata di aria gelida mi investe.

“Ma… ma da dove vieni e dove vai con questa bufera? I tuoi genitori ti staranno cercando e…”

Due occhi lucenti mi fissano con aria scherzosa. Un sor-riso beato illumina il visetto. Scavalca il davanzale e si siede tranquillo prima di presentarsi: “Mi chiamo Angelo, avevi qualche dubbio?”

“Beh, non ci avevo proprio pensato, anche perché ti mancano le ali”.

“Le ali? Ma dai che sei troppo grande per credere che servano le ali per arrivare sulla terra! Fidati.”

Mi fido, non ho scelta.“Perché sei qui?”

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“Perché sono qui? Ma che domanda! Devo essere pron-to a vigilare sulla tua bambina”.

“Credo tu sia un po’ in anticipo. La piccola non dovrebbe nascere in questi giorni. Potevi risparmiarti un viaggio inter-planetario con questo freddo!”

“Meglio essere pronti, credimi. È da tanto tempo che attendevo questo momento e mai sarei voluto arrivare in ritardo”.

Rimango ammutolita. Cerco di capire se dormo o se sono sveglia e all’improvviso ricordi sbiaditi si fanno più chiari. I racconti, le preghiere, le filastrocche: nonna Madda-lena aveva una predilezione per queste figure celesti. Lei era certa che la loro protezione sarebbe stata determinante per tutta la vita e questa sua certezza rendeva sicuri i miei passi di bambina.

Angelo sta in silenzio per qualche istante prima di chie-dere: “Avete deciso come si chiamerà?”

“Certo che sì, abbiamo avuto otto mesi di tempo! Ab-biamo scelto un bel nome, breve e genuino: Lucia.”

Sorride Angelo mentre mormora: “Lo sai che nel nome di ognuno c’è già scritto un po’ del suo destino?”

“Se lo dici tu… posso anche crederci. So che significa ‘luminosa’ e questo mi sembra già di buon auspicio. Comun-que domani cercherò qualche informazione in più.”

“Domani? Ne sei certa?”Lo guardo incredula: questo ragazzino mi sta prendendo

in giro.“Sta sicuro. Il medico ha detto…”Un dolore acuto al ventre mi fa trasalire. La bambina ha

deciso di nascere. “Per fortuna sono rimasto a casa dal lavoro. Al terzo fi-

glio certi segni li so riconoscere e con questo tempaccio...”La sollecitudine di Marco è rassicurante. Vorrei raccon-

targli della strana visita, ma nel momento in cui inizio a par-lare, un’altra fitta mi toglie il fiato. Prima di uscire dalla ca-

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mera con lo sguardo cerco Angelo. Mi farebbe piacere averlo ancora al mio fianco… Non lo vedo e me ne rammarico.

La neve ha imbiancato le strade, ma fortunatamente l’auto scivola veloce verso l’ospedale.

Le ore trascorrono lente. È verso mattina che un sonoro vagito mette fine al travaglio e conferma la vitalità di Lucia. Non è un colosso. Ha anticipato di almeno tre settimane la sua nascita, tuttavia di energia ne ha in abbondanza.

Suo padre la contempla con orgogliosa tenerezza. I suoi fratelli, accompagnati dall’agitatissimo nonno Giacomo, la scrutano con stupore e con malcelata dolcezza la sfiorano per una prima carezza. Io vedo i riflessi dorati sulla peluria lucente che ricopre il capo, mentre la sua manina stringe for-te il mio dito.

E poi, finalmente, dopo tanta tensione, un po’ di quiete.Nel momentaneo silenzio una vocina sussurra: “Hai

visto che sono arrivato appena in tempo? A proposito, in-dovina che nome era dato, in tempi lontani, alle bambine che nascevano alle prime luci dell’alba? Già, proprio Lucia. Te l’avevo detto che ogni nome è molto più importante di quanto si creda!”

Non rispondo, ma non ho più dubbi.Sorrido mentre bisbiglio: “Grazie Angelo. Veglia su di

lei.”“Non la perderò di vista nemmeno per un istante. Non

sarà un compito facile, perché sin dal primo istante si è di-mostrata esuberante…”

“Ma allora c’eri in sala parto! Non ti vedevo. Credevo che tutto fosse stato un sogno!”

“Beh, ci sono sogni e sogni.”Sono le sue ultime parole prima di dileguarsi, certamen-

te per porsi accanto a Lucia. Evanescente come un miraggio, luminoso come la prima stella della sera. Proprio come lo descriveva nonna Maddalena.

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Un Angelo di nome Bakhita

di Valeria Balasso

“Mieloma multiplo. Un tumore al midollo osseo.” Guar-do il medico dell’ospedale. È gentile, tenta di tranquilliz-zarmi, mentre mi comunica questo esito. Poi m’incoraggia: “La ricerca ha fatto grandi passi in questo campo, vedrà che anche per suo marito troveranno le cure adeguate.” Ma la situazione è molto grave. Rimango impietrita.

Inizia un altro calvario. Sono trascorsi sette anni da un lungo ricovero a causa di un’altra pesantissima malattia. Per-ché ancora una prova così difficile per la nostra famiglia? Perché, mio Dio?

Sono ore piene di angoscia. E quell’iniziale silenzio di Dio sarà una delle prove più difficili da accettare.

“Ma che Padre sei se lasci i tuoi figli in tanto dolore?” Penso a quante persone stanno camminando scalzi in sen-tieri coperti di spine, attraversando mari burrascosi senza al-cun aiuto, percorrendo deserti aridi senza un sorso di acqua per sopravvivere. Mi sento impotente. Che lo sia anche Dio? La sera stringo fra le mani una piccola la croce. Penso che per non smarrirmi dovrò ripartire da lì, dalla croce. Qualcu-no mi sta indicando una strada. È al Cristo sofferente che devo rivolgermi per intravedere qualche barlume di luce.

Ma è tutto molto difficile. A volte vorrei solo dormire per non pensare, per non vedere, per calmare l’ansia e la paura. Ma qualcosa cambia… Quei sogni… È quasi mattina quando, nel sonno divenuto leggero, mi appare un’imma-

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gine del tutto imprevista. Una donna vestita di nero. Anche il suo viso è scuro e soprattutto triste. Una voce sussurra un nome: Bakhita.

Apro gli occhi e provo a fissare i particolari. Non ricordo che qualcuno mi abbia raccontato la storia di Bakhita. La me-moria non mi offre nessun particolare della vita della Santa. So che è salita all’onore degli altari solo perché giornali e televisione hanno ampiamente diffuso la notizia. Acquisto una biografia di madre Giuseppina. La sera inizio una lettura che mi farà conoscere una vita straordinaria.

Verso l’alba del giorno seguente ancora un sogno. È sem-pre lei, ma non è più il nero il colore dominante. Il suo viso è sorridente. Sorregge fra le mani una sfera luminosa che illu-mina la scena. Apro gli occhi. Mi sento rassicurata, anche se nessuna parola mi è stata rivolta. Pochi giorni dopo i medici, controllando le analisi successive alla prima chemioterapia, riconoscono un effetto insperato delle cure. Dopo sei mesi la malattia era ben regredita. Sono sicura che i medici e tut-to il personale del reparto di Ematologia di Vicenza abbiano agito nel migliore dei modi, con grande professionalità e con una delicatezza encomiabile. Ma sono altrettanto convinta dell’aiuto speciale della santa venuta da lontano che ci ha sostenuto nei momenti più oscuri. Resta forte anche la spe-ranza che continui a guidarci nelle scelte più impegnative.

Leggo e rileggo la storia dell’africana Madre Moretta (com’era affettuosamente chiamata suor Bakhita nel con-vento delle canossiane di Schio) resa prigioniera da feroci mercanti di schiavi quando era bambina. A volte credo di intuire perché questa donna sia stata posta al nostro fian-co: lei aveva conosciuto grandi sofferenze fisiche e morali. Poteva capire. Il suo incommensurabile amore per il Padre lascia sbalorditi. Non ha mai domandato a Dio perché pro-prio a lei fosse toccato in sorte un destino così crudele, a soli sette anni. Del tragico percorso effettuato assieme ai negrieri, lungo i desertici sentieri del Darfur – sua patria –

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ricorda con ammirazione il cielo stellato e lo stupore provato davanti a tanta bellezza. È felice quando, già adulta, riesce a dare un nome al Creatore di tanto splendore. Ha poco più di vent’anni quando viene battezzata a Venezia, finalmente libera dopo tredici anni vissuti in schiavitù. Non chiede al Pa-dre perché non l’ha difesa dal male. Riesce a benedire i suoi rapitori perché grazie a loro ha conosciuto Gesù.

Una semplicità disarmante, una fede purissima che la-scia trasparire il divino che diventa guida anche nei giorni irti di ostacoli. Una luce per tutti. Durante un pomeriggio più difficile degli altri mi chiedevo che senso avesse la vita se il dolore, la malattia, la cattiveria sono sempre in agguato. Per-ché vivere? Ripensando alla vita della Santa è venuta anche la risposta: tutto trova giustificazione nell’amore. Amare. Soprattutto nella quotidianità. Consolare gli afflitti, assistere con tenerezza gli ammalati, rivolgere attenzioni particolari ai sofferenti… Madre Bakhita non aveva la pretesa di cam-biare il mondo. A lei bastava testimoniare l’amore del Padre, essere una presenza confortante per il prossimo a lei più…prossimo, come chiedeva l’amato ‘Paron’.

Frequentemente ripenso a quei due ‘sogni’ speciali. Una persona straordinaria ci ha sostenuti.

Ho chiesto a un sacerdote se i santi potevano diventare angeli.

Mi ha guardato con un certo stupore prima di risponde-re: “Sono entrambi messaggeri di Dio.”

Non avevo mai pensato a quest’affinità, ma mi è piaciu-ta. Ambasciatori discreti che, soprattutto nel silenzio e nel raccoglimento, possono aiutare a comprendere, ad accetta-re, a rialzarsi anche dopo cadute rovinose.

Le letture ascoltate durante le festività natalizie mi ri-portavano spesso l’immagine di Bakhita con quel piccolo globo fra le mani: Cristo, Luce del mondo che rischiara la notte degli afflitti. Anche con la ‘collaborazione’ dei suoi ‘in-viati speciali’.

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Gli otto angeli nella mia vita

di Bruno Da Ros

Il primo angelo nella mia vita è mia mamma, che mi ha cresciuto con tanto amore, non facendomi mancare nulla. Ho vissuto con mia mamma fin prima di sposarmi. Lei mi ha sgridato e consolato e questo è stato il modo migliore per insegnarmi ad affrontare la vita.

Il secondo angelo è rappresentato dalla cultura e dalla religione cristiana. La cultura l’ho appresa attraverso la scuo-la, facendo la terza elementare a nove anni e poi arrivando alla quinta elementare a dodici anni, frequentando la scuola serale a Breda di Piave. La religione l’ho imparata frequen-tando la dottrina cristiana e in modo particolare ricordo il mattino della mia prima comunione quando i miei genitori mi hanno portato la colazione con il caffè oltre all’abituale latte e pane.

Il terzo angelo è rappresentato dalla famiglia Scarabello Pietro, ossia una ricca famiglia di contadini di Breda di Piave che hanno aiutato la mia povera famiglia. Il signor Scarabello ha chiesto a mio padre la possibilità di trasferirmi da lui per lavorare i campi e allevare le bestie (mucche e buoi). Avevo dieci anni e sono partito volentieri per il mio primo lavoro.

Il quarto angelo incoronato sulla mia testa fin da quan-do sono nato è il mio angelo custode che mi ha accompagna-to e mi accompagna tutt’ora in tutta la mia esistenza.

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Il quinto angelo è arrivato al momento della visita mi-litare quando avevo diciasette anni; ero stato chiamato per fare il soldato essendo ritenuto idoneo per il servizio milita-re. Sei mesi dopo mi è arrivata la cartolina di precetto con la quale dovevo partire per la leva, essendo in tempo di guerra. Era il 1944, però io ho disertato e non mi sono presentato al servizio militare nascondendomi fuori di casa in una sorta di tettoia dove la vegetazione del canneto era molto rigogliosa e densa. Il mio angelo custode mi ha sempre custodito non facendomi trovare da nessuno.

Il sesto angelo nell’agosto del 1946, dopo essere termi-nata da più di un anno la guerra, mi ha permesso di partire per il servizio militare in Toscana. Prima ad Arezzo per tre mesi, poi a Firenze. Dopo un anno sono rientrato a casa con molto orgoglio di avere fatto la leva militare, non senten-domi più in colpa per averla disertata prima. Il mio angelo custode mi ha sempre difeso e aiutato.

Il settimo angelo incoronato sulla mia testa mi ha mes-so di fronte alle condizioni della mia casa e alle condizioni lavorative dei miei familiari. La mia abitazione era spiana-ta perché vecchia e colpita dai bombardamenti della prima guerra mondiale del 1915-1918. Avendo avuto l’occasione di trasferirmi in Svizzera per lavorare, con i soldi guadagnati ho potuto ricostruire la mia casa facendola nuova. I miei genito-ri, quando io e i miei tre fratelli siamo partiti in Svizzera per lavorare, sono stati aiutati da noi figli con i soldi che stava-mo guadagnando. Ciò è stato possibile perché il mio angelo mi ha fatto sapere che in Svizzera diversi proprietari terrieri cercavano degli operai agricoli italiani e allora l’angelo mi ha aiutato a partire permettendomi di prendere il passaporto.

L’ottavo angelo è incarnato da un mio caro amico che si chiama Arturo Campion, che lavorava con me in Svizzera

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e mi ha dato l’indirizzo dell’azienda agricola Federich Bar-tolomei che ricercava operai agricoli italiani. Poco dopo mi è arrivato il contratto di assunzione lavorativa e ho potuto partire subito e iniziare a lavorare. Mi sono trovato molto bene e ancora ringrazio il mio amico Campion.

Il mio angelo custode mi ha aperto la porta della vita, grazie anche alla presenza dei miei tre fratelli che mi sono sempre stati vicini. L’angelo ci ha donato tanta salute e ab-biamo fatto un bel cerchio, potendo contare sulla nostra indipendenza economica. Abbiamo vissuto con serenità e amore guardando sempre al futuro con il sostegno dell’an-gelo custode.

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Angeli bianchi in Africa

di Sofia Giachin

Ci sono persone che vanno in Africa, in terra di Missio-ne, portano aiuti alle persone che vivono in modo inimma-ginabile per noi, per tanti bambini superare i primi anni di vita è veramente difficile. Queste persone con gli aiuti che vengono dall’Italia, costruiscono pozzi per fornire loro acqua potabile, asili, case decenti, centri sanitari e ambulatori per la diagnosi dell’Aids, aiutano le persone che vivono ancora nelle capanne, senza servizi e senza luce elettrica, manca l’acqua e dormono stendendosi per terra.

Arano la terra ancora con gli aratri di legno tirati dalle mucche, dissodano dei piccoli quadrati di terreno per poter seminare. Da quelle parti l’industria non esiste, la maggior parte delle persone è composta da contadini che allevano pecore, asini e cammelli. Le vie percorribili sono strade bian-che molto polverose.

Le persone che si avventurano in luoghi come questi, mettendo a repentaglio la propria salute, sono gli Angeli Bianchi. Gli Angeli non sono soltanto in cielo, ci sono anche fra noi, è che alle volte non abbiamo occhi per vederli.

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La storia di Primo Gioppo“Lassù c’è qualcuno che non vuole che il suo cuore muoia”

di Sofia Giachin

Sono a Rimini steso sul mio lettino da spiaggia e guardo il cielo, penso a molte cose ma soprattutto alle sofferenze subite nella mia vita.

Rivedo spesso nella mia immaginazione e risento la voce di una giovane donna che chiede aiuto, c’è terrore, angoscia per lei ma soprattutto per il suo bambino. Poi lo schianto, due vite spezzate e, tanto, tanto dolore.

Da sedici anni questo ricordo mi segue, provo compas-sione e dispiacere per loro che non ci sono più, per i familiari che hanno molto sofferto.

Mai ho pensato grazie a quell’incidente sono vivo.La persona che ha perduta la vita in quell’incidente, gra-

zie alla sua generosità, era iscritta all’Aido.

Ero ammalato da molti anni, soffrivo di una grave insuf-ficienza cardiovascolare.

Lavoravo ugualmente, tiravo avanti usando molti far-maci, la mia famiglia aveva bisogno di me e anche del mio lavoro.

L’ho fatto fino a che non ne potevo più, tralasciai il lavo-ro perché dovevo ricoverarmi continuamente all’ospedale, aumentavo di peso in modo esagerato, per il gonfiore mi ri-trovavo addosso dai dieci ai quindici chilogrammi in più.

Il mio cuore era talmente malato da non tenere il giusto equilibrio. In ospedale mi facevano espellere l’acqua in più che avevo addosso, ma passavo molto tempo all’ospedale.

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Ero agli estremi quando mi fu comunicato che ci sarebbe stata la possibilità di trapianto per me, il cuore della giovane donna che aveva avuto l’incidente era compatibile con il mio. Partii immediatamente; ero atteso nella Cardiologia dell’ospedale di Padova, il prof. Casarotto e la sua equipe mi operarono, andò da subito tutto bene. Nei giorni che seguirono l’operazione il rigetto si manifestò in modo poco preoccupante.

Dopo qualche mese tornai a casa. I miei familiari, ma so-prattutto mia moglie, erano all’apice della felicità, mai avreb-bero creduto che la mia malattia potesse essere risolta.

Qualche anno fa sono stato colpito da un ictus cerebri, sono stato tempestivamente ricoverato in ospedale, curato e guarito.

Ora mi trovo in vacanza a Rimini, faccio vita normale, mi godo i bagni di sole, faccio nuoto e lunghe passeggiate con mia moglie.

Non dimentico mai la donna che ha perduta la vita in quell’incidente, ma soprattutto la ricordo nelle mie preghie-re ed ho la sensazione che lei mi protegga e non voglia che il suo cuore muoia.

Io considero Angeli senz’ali le persone che sono iscrit-te all’Avis-Aido e a molte altre istituzioni benefiche: salva-no molte vite, al contempo vivono assieme alle persone che hanno beneficato e da lassù le proteggono.

Ciò che ho saputo di quell’incidente è stata un’indiscre-zione, non viene mai rivelata la provenienza degli organi, la cosa è del tutto segreta.

Grazie a Primo che mi ha raccontata la sua storia, ma so-prattutto grazie a tutti i coraggiosi che sono iscritti all’Aido.

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Nonna Elsa: il mio Angelo

di Beatrice Luni

Sei quella che non poteva stare con le mani in mano, che s’innervosiva se non c’era nulla da fare. Nel vocabolario tutto tuo non esisteva la parola noia, probabilmente non la conoscevi neppure.

Le giornate piene di amici, le ore piene di lavoretti da sbrigare, le notti piene di pensieri, e se ti avanzava un po’ di tempo lo occupavi subito creando piccoli mazzi di fiori raccolti dal giardino, con un raffinato gusto nell’accostarne i colori. I fiori e la natura erano la tua passione, adoravi i boc-cioli di rose e gli occhietti della Madonna. Per non parlare dei crocus, quelle gemme gialle che volevi piantare dapper-tutto. Ne avevi sempre qualche seme in tasca e non appena vedevi un vaso vuoto provvedevi subito a cancellare il buio di quel terriccio con il tuo piccolo seme, aspettando con cura e pazienza che sbucasse una fogliolina.

Il profumo dei calycanthus poi ti faceva impazzire, e ogni estate riempivi il bocchettone dell’aria condizionata della macchina con cui ti portavamo a casa di tante stelle bordeaux profumate, le più belle dell’albero.

Ma la cosa che ti faceva ancora più impazzire forse era-vamo noi! Ogni giorno ce n’era una… ho perso il conto di quanti Padri Nostri ti abbiamo fatto recitare per tutti i com-piti e gli esami che dovevamo sostenere! (...ed ogni volta il tuo aiuto è stato infallibile!)

Tra incidenti in macchina o in motorino, pantaloni e cal-zini bucati, capelli spettinati, “braghe col cueo basso”, pance fuori “che te ciapi el coera”, infiniti punti del latte da tagliare

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e guide spericolate con te a bordo... tu ti arrabbiavi e poi ridevi, perché sapevi che in fondo non saremmo mai cam-biati e l’unica cosa che potevi fare era prenderci in giro, sol-levando gli occhi al cielo, sospirando, scuotendo la testa e sorridendo.

Ti bastava spostare lo sguardo sul tuo nuovo nipotino e i tuoi occhi s’illuminavano: “Quanto beo!” Il tuo piccolo Alessandro, la sua grande bisnonna.

Sei quella che sapeva sempre tutto, una perla di saggez-za al giorno, una poesia, una filastrocca per i bambini. Sapevi in anteprima tutti i gossip delle persone che ti circondavano, l’oroscopo, il meteo, le notizie del giornale.

Riuscivi a capire se c’era qualcosa che ci era andato stor-to o se avevamo qualche problema anche se non ti avevamo detto niente. Te lo sentivi dentro e ci chiamavi chiedendoci se andava tutto bene, pur sapendo che non era così.

Una fonte di conoscenza e di esperienza con una sensi-bilità che ancora non riesco a spiegare.

Adesso sai cosa c’è di là, nonna. E sono certa che stai meglio e che continui a guardarci crescere e a ridere per tutti i nostri piccoli difetti che non cancelleremo mai.

Sarai sempre il nostro bellissimo fiore giallo che colora lo scuro terriccio dentro ai nostri vuoti.

Ti voglio bene.

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I miei angeli bianchi e i miei angeli celesti

di Luigi Meneghetti

Nel 1941 è scoppiata la guerra in Jugoslavia ed io mi tro-vavo a combattere sul fronte. Prima ho combattuto a Lubiana, poi mi sono spostato in Croazia. Per noi italiani le condizioni di vita al fronte erano molto dure e il cibo era molto scarso, di cattiva qualità e non era sufficiente per sopravvivere. La popolazione locale mi ha aiutato dandomi da mangiare bur-ro, latte, pane, patate e mele. Avevo vent’anni e tanta fame… Senza l’aiuto della popolazione slava e croata non avrei po-tuto sopravvivere e ritornare a casa. Quindi posso affermare che i miei angeli bianchi erano le persone slave che mi hanno soccorso con i viveri, mentre gli angeli celesti erano quelli di nazionalità croata che mi hanno aiutato nello stesso modo.

Io ho due nipoti, i loro nomi sono Rita e Paolo. Ho spo-sato mia moglie Emma il 15 aprile 1944. Non avendo avuto figli, i miei nipoti hanno preso il loro posto. Rita e Paolo erano sempre disponibili a prendersi cura di me e di mia moglie, sia di giorno sia di notte. Nemmeno nei momenti più difficili ci hanno lasciati soli: infatti, quando ci siamo ammalati ci hanno sempre accompagnato in ospedale e poi riportato a casa. Da quando è morta mia moglie Emma sono stato accudito per un po’ di tempo da alcune badanti, però non mi sono trovato bene, pertanto ho deciso di trasferirmi nella residenza per an-ziani OIC “Simonetti”, trovandomi da subito a mio agio. Tutto-ra i miei cari nipoti mi sono vicini e vengono a trovarmi nella mia nuova casa. Rita e Paolo sono veramente i miei angeli cu-stodi: Rita è l’angelo bianco, mentre Paolo è l’angelo celeste.

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I miei cinque nipotini angioletti

di Lodovica Parpinello

Mi chiamo Lodovica, ho novanta anni e sono la bisnon-na di cinque splendidi nipotini. Quando li vedo mi sembra di vedere cinque bellissimi angioletti. Dico questo perché i miei nipotini sono tanto belli, intelligenti, qualcuno di loro è ab-bastanza vivace e sono anche molto simpatici. C’è una sola femminuccia e gli altri sono dei maschietti. La femminuccia è particolarmente brava, frequenta la terza elementare, va a nuoto, segue la danza ed è anche molto brava a cantare. I maschietti sono ancora piccolini, si assomigliano tra di loro perché si imitano, sono tutti estroversi e abili nell’osservare e imparare quello che fanno i genitori e i fratelli.

Secondo me i miei nipotini assomigliano proprio a degli angioletti, infatti potrebbero avere delle alette che spuntano dalla schiena. Ed io penso che i miei angioletti mi vorranno sempre bene. Però posso dire che uno di questi angioletti, che si chiama Luca, è veramente un tesoro perché è bravo, buono e molto educato con me; lui si ricorda sempre della nonna Lodovica e qualche volta viene a trovarmi in casa di riposo dandomi tanta felicità e facendomi battere il cuore.

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L’angelo della Piave

di Annalisa Pasqualett o

Valdobbiadene – IIa guerra mondiale.Pioveva quella nott e. Una pioggerella fi ne picchiett ava

sui vetri, le gocce come piccole dita producevano un lieve e fi tt o mormorio che sembrava una ninna nanna.

Da qualche parte nel buio un cane latrava. Per quanto si rigirasse nel lett o, Caterina non riusciva a

prendere sonno, accanto al suo tanti letti ni lindi accoglieva-no altrett anti bambini, loro ora dormivano e lei ascoltava il loro respiro regolare, quando udì dei passi in corti le. Si alzò di scatt o e da un balcone socchiuso guardò fuori.

La pioggia dava alla nott e un pallore spett rale, lei, lo vide subito, veniva avanti di frett a; dalla sagoma snella ed erett a si capiva che era un uomo giovane, il volto semina-scosto si stagliava contro l’oscurità, i capelli bagnati erano incollati alla fronte; era ormai zuppo, ma sembrava non farci caso. Poi improvvisamente si udì la sua voce concitata, una voce che Caterina era sicura di aver già senti to: “A San Pietro c’è il fuoco… i tedeschi… possono arrivare fi no a qui! Bisogna portare via subito i bambini, su nei boschi, nella montagna di Pianezze…”

Erano abituati quei piccoli ai risvegli improvvisi nel cuo-re della nott e e così senza parlare, con gli occhi gonfi di son-no e sbarrati dalla paura, in pochi atti mi si vesti rono, ognuno prese in mano ciò che aveva di più caro e guidati da Caterina lasciarono la villa che li ospitava e iniziarono la lunga marcia

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nella notte piovosa lungo i fianchi della montagna, per rag-giungere un luogo sicuro.

Erano circa venti, erano i bambini rimasti orfani a causa del bombardamento che il 7 aprile del 1944 – Venerdì Santo – dilaniò Treviso; avevano dai sei ai dieci anni.

Grazie all’intervento del vescovo, monsignor Maniero, avevano potuto lasciare la loro città offesa e quasi del tutto distrutta, per trovare rifugio a Valdobbiadene in un’ala della Villa dei Cedri, messa a disposizione per loro. Ora cammi-navano silenziosi in fila, i grandi aiutavano i più piccoli, non chiedevano perché, non dicevano nulla, ma lei, Caterina era sicura che in quel momento riaffiorassero nelle loro menti i ricordi e gli incubi che tante volte li svegliavano nel cuo-re della notte, perché erano gli stessi incubi che a lei non permettevano di dormire: quando le sembrava di risentire le lugubri sirene che precedevano l’arrivo delle fortezze volanti con il loro pesante ronzio che venivano a bombardare, quan-do le sembrava di avere le gambe bloccate e di non riuscire a correre verso i rifugi… e poi i fischi, i boati, la terra che tre-mava, poi le macerie fumanti, la città sconvolta, il dolore, la disperazione, la morte… Era stato per sfuggire a tutto questo che ragazza di diciotto anni, con la sorella e la nonna aveva lasciato Mestre e i genitori, per andare sfollata a San Pietro di Barbozza, un paese vicino a Valdobbiadene.

La guerra era però ovunque e nemmeno lì poteva rite-nersi al sicuro, ma ora c’erano i bambini e per nessuna ragio-ne al mondo li avrebbe lasciati.

Era poco più grande di loro, ma aveva coraggio da ven-dere e sapeva infondere sicurezza e speranza. Così anche quella notte i piccoli ebbero fiducia in lei e la seguirono. Camminavano per i boschi cercando di non far rumore, si sentiva solo un fruscio lieve, simile a scalpiccio di fantasmi che passano, quando calpestavano le foglie secche dei casta-gni che ormai erano cadute.

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La pioggia era diventata più insistente, ma per fortuna le prime luci di un’alba livida, mostrarono in lontananza una casera abbandonata.

Raggiunsero questo rifugio, vi entrarono e attesero. Non era possibile accendere il fuoco, il fumo avrebbe potuto tradire la loro presenza. Quei piccoli avevano freddo, fame e paura, ma c’era Caterina con loro, se c’era lei nulla di male avrebbe potuto capitare.

Fu la piccola Maria a chiederle improvvisamente: “Mae-stra, ma chi ti ha mandata da noi?”

La domanda le sembrò strana, Caterina pensò un po’, poi rispose sicura: “Mi ha mandata un angelo!”

E raccontò la sua storia: Quando lasciai Mestre, alla fine di aprile, studiavo dalle Suore Canossiane per diventare maestra, a luglio dovevo diplomarmi. Per tre anni, ogni mat-tina raggiungevo con la filovia la scuola a Venezia, spesso il viaggio o le lezioni venivano interrotte dagli allarmi, erava-mo rimaste solo in dodici alunne; spesso avevo fame, perché il cibo era poco, di sera non potevo studiare perché non si poteva tenere la luce accesa… quante privazioni facevano i miei genitori per pagare la retta e comperarmi i libri!… Da San Pietro non potevo raggiungere ogni giorno Venezia, ma decisi che non dovevo mollare, non potevo cancellare tre anni di sacrifici per colpa di una stupida guerra; sarei diven-tata maestra comunque.

Così per tre volte tornai a Venezia con mezzi di fortuna, per farmi dare i compiti e i programmi d’esame, poi final-mente a fine giugno ero pronta.

Partii presto una mattina, avevo saputo che un’auto do-veva portare da Valdobbiadene a Treviso una ricca signora, le chiesi un passaggio, così avrei fatto gran parte della stra-da con lei in condizioni sicure. Arrivata però al ponte Vidor, lo trovammo distrutto, non si poteva passare, l’auto tornò indietro, ma io decisi che in qualche modo avrei attraver-

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sato il fiume, anche se non sapevo come. Passai quasi tut-ta la giornata a cercare un guado che non riuscii a trovare. Camminavo su e giù per una strada delimitata da un pendio rivestito da cespugli ed alberelli, che scendeva ripido verso le rive della Piave; il cielo cominciava ad imbrunire e si spec-chiava scuro tra le onde, cominciavo a perdere ogni speran-za, quando dalla fitta vegetazione uscì un uomo, aveva il viso nascosto dal bavero del giaccone e da un cappellaccio calato sugli occhi; mi chiese minaccioso casa facessi lì dal mattino, era chiaro che mi controllava. Gli spiegai indispettita, più che spaventata, che dovevo ad ogni costo attraversare il fiume e perché.

Fu così che mi trovai dopo qualche ora, nel cuore della notte, in una piccola imbarcazione tirata da una riva all’altra da corde, ero lì sola a mio rischio e pericolo, tutto poteva capitare! Quando raggiunsi l’altra sponda un altro ragazzo mi fece scendere, mi accompagnò in un fienile, dimostrò di essere perfettamente informato su di me e sull’esame che dovevo sostenere. Volevo lasciargli quel po’ di denaro che avevo con me, non lo volle, ma disse con voce seria e pe-rentoria “A buon rendere! Sono sicuro che ci rivedremo!” Al momento non capivo cosa volesse, ero solo infastidita da quella che mi sembrava impudenza; solo più avanti, mi fu chiaro cosa intendesse.

Arrivai a Venezia dopo due giorni, superai l’esame e tor-nai a San Pietro.

Il 7 agosto in quella zona, su un colle isolato, si diceva la S. Messa nella piccola chiesa di Sant’Alberto, custodita da un’eremita; io mi ero recata con molta fede e pregavo per chiedere la pace e un lavoro per me. Ero assorta nei miei pensieri, quando sentii una mano pesante posarsi sulla mia spalla: “Non girarti, ascolta! Ĕ giunto il momento di pagare il tuo debito. Ora sei maestra, lo sappiamo e puoi insegnare. A Valdobbiadene ci sono circa venti bambini orfani, che hanno

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bisogno di essere assistiti ed educati, non c’è nessuna altra donna che lo possa fare, solo tu qui hai i requisiti, vai da loro domani.” Avevo trovato lavoro, ma soprattutto voi!

Il racconto di Caterina terminò proprio nell’istante in cui la porta della casera si spalancò, i piccoli spaventati le si na-scosero dietro.

Il ragazzone che entrò sembrava occupare con la sua enorme mole tutta la piccola stanza, tirò fuori da una bisaccia di tela cerata alcuni pezzi di pane, formaggio, piccole mele e castagne lesse: “Mangiate!” disse. “Non dovete aver paura, restate qui, fino a quando qualcuno verrà a prendervi.”

Caterina riconobbe allora la sua voce, era la stessa del traghettatore, era quella che a Sant’Alberto le aveva ordina-to di andare dai bambini e che poche ore prima li aveva sve-gliati per avvertirli del pericolo e li aveva fatti scappare.

L’uomo stava per andarsene. “Ma tu chi sei?” chiese Ca-terina. Voleva sapere, quel ragazzo ormai cominciava trop-po a guidare la sua vita, chi era? Egli si fermò, solo per un istante ancora e rispose sorridendo un po’ sornione: “Sono l’Angelo della Piave!” …Uscì e sparì nel folto del bosco.

Caterina non lo vide più.

La guerra finì, un po’ alla volta tutto rientrò nella nor-malità, Caterina tornò a Mestre, insegnò per quasi tutta la sua vita, si sposò, ebbe due figlie e nipoti. Con loro spesso si recava a San Pietro di Valdobbiadene, anche per le vacanze e ogni volta che attraversava il ponte Vidor raccontava questa storia: così, proprio con le stesse parole con le quali l’avete letta.

Caterina era mia mamma.

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Il clown: l’angelo del sorriso

di Maria Grazia Reggi

C’era una volta, in un lontano paesino, una famiglia composta da papà, mamma e un bambino di circa otto anni di nome Angelo. In primavera nel loro paese ci fu un avve-nimento che incuriosiva soprattutto bambini e ragazzi e cioè l’installazione di un grandissimo tendone, nella piazza prin-cipale, proprio dietro la chiesa: questo tendone era colora-tissimo e attirava l’attenzione dei passanti per le numerose bandierine colorate che vi sventolavano tutte attorno.

Sì, ebbene sì, era arrivato per la prima volta in quel pa-esino sperduto ‘il circo’.

Non vi posso descrivere la gioia e la curiosità di tutti, era una festa continua e quando un animale emetteva il più pic-colo suono i bambini accorrevano, a volte anche un pochino spaventati, perchè in una gabbia c’era addirittura un leone. Si attendeva con ansia e sempre crescente curiosità la do-menica quando, alle ore diciasette in punto, avrebbe avuto inizio lo spettacolo, non c’erano cartelloni o locandine, ma il tutto era divulgato ogni giorno verso sera da un gruppetto allegro e festoso di pagliacci che con trombette e tamburi annunciavano, per le vie del paese, questo grande avveni-mento e, quasi urlando un po’, dicevano: “Signori e signore, bambini e vecchietti, venite nel nostro piccolo circo per un grande spettacolo... divertimento assicurato...”

Il piccolo Angelo era meravigliato, incuriosito e le sue guance si coloravano un po’ di rosso quando vedeva passare i pagliacci, anche a lui sarebbe piaciuto avere quella pallina rossa così buffa da mettere sul naso, oppure con un gesset-

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to bianco avrebbe voluto colorarsi le guance, o disegnarsi le labbra con le matite colorate, che bello!!! pensava e so-gnava, attratto da tutte queste novità, non era mai accaduto nulla del genere nel suo piccolo paesino un po’ sperduto e distante dalle grandi città.

Dopo questa impaziente attesa ecco finalmente arri-vare il momento dell’entrata al circo, accompagnato dalla mamma e dal papà col suo bel vestitino della festa e sempre più pieno di aspettative, Angelo entra nel grande mondo di questo spettacolare divertimento.Inutile dire che tutti erano meravigliati e guardavano i trapezisti ed i giocolieri con la bocca aperta e il respiro quasi bloccato. Gli animali feroci erano accompagnati dai domatori col frustino in mano e i cavalli, quando giravano attorno alla pista erano fieri nel loro portamento... e che dire degli elefanti così maestosi; sì, tutto era veramente bello, ma la cosa che più divertiva il piccolo Angelo erano i pagliacci che giravano nella pista del circo fa-cendo capriole, salti e si tiravano il vestito, che era sempre troppo grande o troppo piccolo per loro, e le risate per le divertenti battute non si potevano contare. Angelo guardava i pagliacci, ma guardava anche i suoi genitori, sembravano non essersi mai divertiti tanto, e guardava i vecchietti che con le loro facce rugose ridevano accentuando ancora di più i loro segni espressivi del volto. Ma più di tutti si divertivano i bambini; avevano quasi le lacrime agli occhi dal gran ridere e qualcuno aveva dimenticato il gelato o il lecca lecca che avevano in mano, facendolo colare fin sui polsi. Ecco: era questo che Angelo avrebbe voluto fare da grande, sorridere e far divertire gli altri. La sera quando se ne tornò a casa contento e felice disse ai suoi genitori: “Io da grande voglio fare il pagliaccio”.

I genitori lo presero un po’ in giro dicendo: “Ma lo sei già, perché qualche volta ci fai già ridere.” E così se ne anda-rono a letto soddisfatti per la giornata trascorsa.

Certamente questi erano sogni di un bimbo, direte voi, ma dopo aver studiato con impegno, ora Angelo è diventato

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grande, ha il suo lavoro, non è entrato nel mondo magico del circo, ma è un pagliaccio che in qualche ora della settima-na fa il volontario in ospedale e intrattiene i piccoli pazienti della Pediatria, facendo la Clownterapia, che aiuta a vive-re le brutte esperienze delle malattie, portando un pizzico di allegria. Basta un minuto e a volte il faccino triste di un bimbo o l’espressione preoccupata di un adulto si trasfor-mano e accennano un sorriso. Questi volontari svolgono il loro servizio andando nelle corsie di ospedali o nelle case di riposo. Con poco si può portare a tutti una piccola goccia di spensieratezza.

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Le foto dell’angelo

di Giorgio Rigo

I tornanti si stavano susseguendo da più di un’ora, l’au-tomobile, una berlina comoda e spaziosa, sembrava risen-tirne. Il panorama che si poteva scorgere dal finestrino di destra, lussureggiante e collinare, dava sollievo almeno agli occhi e alla mente. I muscoli delle braccia e delle gambe, quasi intorpiditi per la lunga guida, avevano bisogno di ripo-sare. Il cielo, plumbeo e minaccioso sembrava presagire un temporale imminente, piccolissime gocce di pioggia ora si notavano sul parabrezza, intervallate da minuti di assenza, per poi riprendere a cadervi. La strada sembrava fosse infi-nita, il percorso a volte tortuoso, a volte sgombro da curve impegnative sembrava volgere alla fine.

Dei tuoni in lontananza uniti al cinguettio dei piccoli uccelli appollaiati sui rami dei costoni fornivano ai due oc-cupanti della vettura un accompagnamento musicale formi-dabile e suggestivo.

Dall’alto dei tornanti ora il panorama era diventato una tavolozza disomogenea e piena di colori scuri e difficilmente distinguibili tra loro. Tra il cielo e il fondo della vallata c’erano però loro, Gianluca ed Eleonora. Lui era un ingegnere che la-vorava stancamente presso un consorzio di società informati-che, lei una insegnante di aerobica in una palestra del centro.

Accomunati da una intonsa, per il momento, passione per le escursioni naturali, si erano trovati ora alla sommità di un pianoro dai tratti poco rassicuranti. La pioggia batteva forte sul cofano e la strada sdrucciolevole scuriva il volto del guidatore.

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Le gomme zigzagavano pericolosamente e non era cosa semplice dare stabilità alla manovra. Le nuvole sembravano correre verso una meta misteriosa, sembravano quasi uno stormo d’uccellli senza il loro capo, lasciate quindi ad un ca-suale movimento senza inizio né fine.

Estenuante quanto agognato, il percorso giunse alla fine. Alla spianata della collina corrispondeva un ammasso di pietre e fascine di legno accatastate da chissà quanti anni. Un piccolo crocefisso di legno consumato dalla pioggia che sembrava stesse terminando di cadere e una casa diroccata dalla porta divelta e dalle finestre aperte.

I due emotivamente tesi e stanchi, con circospezione si avvicinarono alla casupola e nell’irreale silenzio di quella vallata oscura, entrarono prima uno poi l’altra. Al suo inter-no, un pagliericcio ingiallito, dei sassi, una fitta erbaccia e una panca di legno con una crepa nel mezzo, segno quasi che qualcuno fosse abituato a distendersi o a sedersi.

La pioggia, che invece aveva ripreso a cadere con forte intensità, aveva ricoperto di pozzanghere tutto lo spazio cir-costante suggerendo ai due di rientrare nell’auto e di conti-nuare il loro percorso.

Giunti infine al paese, che stava al centro di una piccola conca naturale ove confluivano più stradine per la maggior parte non asfaltate, parcheggiarono in un vicolo sterrato, circondato da piccoli alberelli e arbusti, che sembravano creare un piccolo garage. La pioggia stavolta era davvero cessata e sia Gianluca che Eleonora erano esausti. Arriva-ti alla piazza del paese, era appena iniziato il pomeriggio, e dopo non aver praticamente incontrato anima viva, alzaro-no come rapiti da una forza magnetica il loro sguardo.

Campeggiava solenne la chiesa. Non era però una chie-sa come tutte. Era un monumento tanto solenne quanto mi-steriosamente sinistro, almeno questa era l’impressione che tale costruzione suscitava in loro. Gianluca disse: “Nora”, questo era il nomignolo che usava, “Guarda in alto!”.

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Nora alzò nuovamente lo sguardo e sopra le arcate del-la chiesa, insidiate e infestate da erbe e sterpaglie di ogni ge-nere, troneggiava un angelo di pietra dalla testa abbassata e le ali ripiegate. Sarebbe stato a dir poco inusuale inventare, costruire, un angelo, chiaramente il protettore della chiesa e l’anfitrione dei fedeli, con movenze, seppur di pietra come quelle. Ma era proprio così.

Eleonora guardò l’ingegnere che con uno sguardo tanto assorto quanto magneticamente catturato da quella figura rimase in silenzio.

La chiesa, alta circa trenta metri, di stile romanico, non era stata mai portata a termine. L’incompleta costruzione era infatti evidente dal fatto che era stata tutta transennata per il suo perimetro a tal punto che sarebbe stato difficile accedervi. Oltre a ciò, all’interno, all’esterno della arcate e delle navate in mattoni scoperti, era sorta una piccola fo-resta che sembrava avesse inghiottito la chiesa, impotente nella sua solennità, giorno dopo giorno.

Tolta dalla custodia la macchina fotografica, il primo im-puso di Gianluca, fu quello di fotografare subitaneamente l’angelo e lo fece più volte, per poi dedicarsi, avendo attiva-to il grandangolo, alla chiesa nella sua totalità. Il pomeriggio era ormai inoltrato. Si erano seduti sull’unica panchina della piazza, anch’essa in pietra. Si guardarono e accennarono ad un lieve sorriso.

Alla fine, dal momento che prospicente alla stessa, vi era un bar, decisero di entrare sia per bere sia per chiedere ragguagli su quella costruzione così inquietante. Il gestore, un signore piuttosto anziano ma ancora in grado di servire gli avventori con lucidità, e che avrebbe di sicuro conosciuto il perchè di quella storia, disse alcune cose ai due giovani, non senza attimi di imbarazzo e di dissimulata omertà.

La chiesa, quindi, risaliva ai primi anni quaranta, alla so-glia della fine della guerra e per beghe burocratiche, ripicche tra politici e torbidi rapporti tra ecclesiastici, i fondi stanziati per la sua ultimazione erano stati dirottati per la costruzione

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di un’altra molto più piccola che stava a valle della città, in prossimità della tenuta del sindaco del paese che si diceva studioso di stane cose. Il parroco si dimise e nessuno da allo-ra lo vide più, ma l’angelo era stato costruito per primo e ora la sua tristezza stava tutta nelle sue ali ripiegate.

I due fidanzati uscirono e Gianluca prese il biglietto da visita del bar per ricordo. Ne aveva una collezione. Il barista aveva parlato abbastanza ma aveva detto molto poco.

Allora, non paghi delle informazioni ricevute, tentarono di bloccare qualche passante, ma questi quando realizzava-no che avrebbero dovuto fornire delle notizie sulla chiesa, perché questa era la richiesta dei due, se ne andavano stiz-ziti, quasi stranamente infastiditi.

Gianulca le disse: “Cosa dici se entriamo?”“Ma stai scherzando?”, rispose la donna. “Non vedi che

ci sono erbe alte due metri?”“D’accordo stai qui, vado io!”Non senza un forte rimprovero da parte di Nora, l’uomo

scavalcò le transenne e si avvicinò alla parete laterale della costruzione.

Guardò per terra tra le erbacce, gli sterpi, le bacche e quant’altro notando per terra una piccola striscia di terra scura, liscia, priva di erbe. Era chiaramente un piccolissimo sentiero, dovuto per forza, pensò l’uomo, a delle precedenti esplorazioni. Entrato dalla parete che dava ad oriente della chiesa, dopo una piccola volta, si trovò all’interno di un lo-cale in muratura scoperta. Per terra vi erano arnesi e tracce varie degli operai che al tempo vi avevano lavorato.

Era come se un evento improvviso Ii avesse costretti ad andarsene. Gianluca chiaramente teso e con ovvia circospe-zione avanzò e alla sua destra, e oltre un andito stretto e oscurato dalla mancanza di luce naturale, trovò un muretto alto più di lui che correva per circa una decina di metri. So-pra il muretto qualche coccio di bottiglia e dei fili elettrici. Saranno state più o meno le diciotto. Il sole stava calando lentamente all’orizzonte. L’uomo appigliandosi con le mani

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alla sommità del muretto con un colpo di fianchi riuscì a sa-lirvi e poi a scavalcarlo. Si trovò all’interno delle chiesa. C’era una imbarazzante solennità data dalle arcate che fungevano da perimetro a questo monumento incompleto. I bassi raggi del sole all’orizzonte penetravano dalla volta centrale e co-loravano d’oro l’immensa distesa arborea che aveva ricoper-to tutta la pavimentazione e parte delle colonne. Il tetto non era stato costruito e quindi l’ingegnere vedeva il cielo e dove sarebbe dovuto essere l’altare, qualche pietra liscia che pro-babilmente era servita per riposare, agli operai dell’epoca.

Gianluca alzò lo sguardo e vide l’angelo, ovviamente di spalle, la ali ripiegate e la testa reclinata.

Ovviamente l’aveva già visto, ma di fronte, pochi minuti prima e questa visione da un’altra prospettiva gli provocò un certo turbamento.

Fece molte fotografie a quell’ambiente innaturale, commistione di foresta e religione e se ne andò per la stessa strada per la quale era entrato.

Nora lo aveva chiamato più volte al cellulare perché in pensiero, e Gianluca se ne accorse alla sua riaccensione vi-sto che lo aveva spento prima di entrare. Sarebbe stato un momento solamente suo, senza intromissioni, quasi un ap-puntamento al quale dovesse essere presente solo lui.

Nora e Gianluca non erano più insieme, la loro storia era finita e con loro, i ricordi, i regali, le gite e i bei momenti insieme. Le foto l’ingegnere le aveva portate per il loro svi-luppo in un laboratorio nel centro di Milano, al quale era solito rivolgersi ma visto che riguardavo un momento che non voleva ricordare, le aveva lasciate lì e non era più pas-sato a ritirarle.

Si decise e passò. Era un involucro che non aprì subito. Lo avrebbe fatto sorseggiando un caffè.

Sapeva che la visione delle foto gli avrebbe procurato dolore ma le aveva comunque fatte e visto come erano an-date le cose, valeva la pena di vederle.

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Dopo che il cameriere gli portò il caffè, Gialuca cominciò ad esaminarle ad una ad una. Lo sguardo attonito si posò sulla prima. L’angelo non c’era. Ma come? Se lo aveva fo-tografato più volte e stava ritto nei suoi oltre due metri di pietra alla sommità della chiesa? Chiaramente risposte non ce n’erano. La chiesa era quella e c’era anche Eleonora nelle foto. Non erano altro che quelle foto, quelle che aveva fatto lui!

Proseguì a sfogliarle. Ora stava guardando quelle fat-te all’interno di quella chiesa mai portata a termine. Tutto regolare. Era rimasto colpito dal gioco di luci provocato dai raggi del sole che stava scendendo a valle e che filtravano dai mattoni. Si soffermò sull’ultima. L’angelo stava ritto, immutato, uguale a se stesso dove sarebbe dovuto sorgere l’altare, tra le pietre liscie. Pietra con pietra. Non credeva ai propri occhi. Si alzò e dopo aver terminato il caffè uscì. Avrebbe voluto ripassare al laboratorio fotografico ma per dire cosa? Quella notte e le notti successive dormì poco.

Come al solito si recò al lavoro, l’angelo e Nora nella testa.

Le collezioni servono sempre a qualcosa e l’ingegnere telefonò, dopo aver trovato il bigliettino di quel bar sulla piazza, a quel signore anziano.

Gli chiese se l’angelo fosse sempre al suo posto o se per caso fosse caduto o fosse successso qualcosa, qualsiasi cosa a quella ‘quasi’ chiesa.

Il barista candidamente rispose che l’angelo era sempre al suo posto e lievemente ironico gli disse che non era ancora volato via anche se aveva le ali spiegate. Gianluca sbiancò in volto chiese inoltre da dove provenisse quel roboante suono di campane che disturbava la loro conversazione. “Sono le campane della chiesa signore! Sta per iniziare la messa!” rispose il gestore del bar.

Gianluca riguardò le foto una ad una. Le rimise nella cu-stodia. Nella testa l’angelo e Nora. Il suono delle campane era cessato. L’ingegnere salutò il signore anziano e riattaccò.

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A Gianfranco

di Federica Simonetto

Premessa

È difficile descrivere ciò che passa tra due esseri umani nei primi incontri. Non c’è nulla che valga tanto quanto vi-vere accanto ad un malato terminale, dove ogni gesto, ogni parola, ogni movimento vanno a costruire una relazione che rimane unica e irripetibile. Con questo entusiasmo ho co-nosciuto profondamente pazienti e da ciascuno ho ricevuto sicuramente di più di quello che ho dato.

Il racconto

Le consegne di quel giorno grigio di novembre del 2008 non erano incoraggianti. L’ospite arrivato il giorno preceden-te, oltre a presentare un tumore al pancreas, era una per-sona che non aveva accettato la malattia. Chiuso nel suo si-lenzio, comunicava solo con la moglie, mentre col personale aveva solo semplici contatti per informarsi sulla terapia. Il caso si presentava difficile sia per l’età, Gianfranco, così si chiamava, aveva solo cinquantasei anni, sia per il suo stato sociale quale ex direttore di banca, rigoroso e scupoloso. An-che l’igiene personale veniva gestita dalla moglie.

Non fu una sfida la mia, ma dopo un turno di lavoro di completo silenzio al mio rientro in servizio sentivo dentro di me che dovevo far crollare quel muro. Qull’uomo elegante col pigiama di seta a righe nascondeva sotto i suoi baffetti

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un’aria smarrita, inquieta, rassegnata, che non mi lasciava indifferente. Conosco anche i miei limiti e soprattutto quelli della mia professione, ma qualcosa dovevo smuovere, alme-no per potergli stringere le mani e fargli capire che non sa-rebbe stato solo, forse a lui sarebbe bastato.

Quel giorno con l’intenzione di pulire la stanza di Gian-franco bussai timidamente alla porta ma non sentii risposta. Entrai ugualmente, salutai, ma lui non rispose. Mi fissava se-duto sulla poltrona con le braccia abbandonate lungo i fian-chi. Il silenzio era pesante, presi coraggio e gli dissi: “Genti-lissimo direttore mi chiamo Federica, sono un’operatrice, ho il diploma di ragioneria, i miei genitori per me sognavano un posto in banca, lei che nel suo lavoro è arrivato ad alti livelli mi restituirebbe un po’ di dignità se almeno contraccambias-se il mio saluto.”

L’eco di quelle parole ruppero il silenzio e ogni barriera, lui sorrise lievemente e mi fece una serie di domande sui miei studi, sugli hobby. Forte di quel momento cominciai a recitare articoli del codice civile o a soffermarmi su quello che ricordavo delle teorie economiche keinesiane, di Mal-thus e di Adam Smith.

In pochi minuti avevamo già individuato due cose fon-damentali che ci univano: il voler sempre pianificare la vita, cioè la nostra parte razionale, e la voglia di evasione. Lui con la sua barca, io con le mie poesie.

Il turno dopo mi salutò, scambiò poche parole sul suo appetito scarso, sui dolori, ma dalle consegne seppi che non era cambiato, nessuno lo aveva ancora ‘accudito’, non vo-leva farsi toccare dal personale: tutto gravava sulla moglie.

Io non feci più nessuna provocazione: aspettai. Pensavo tristemente tra me e me che sarebbe arrivato il giorno in cui la malattia non gli avrebbe più permesso neanche gesti semplici, a quando ancora arrabbiato con il mondo avrebbe avuto bisogno di noi, ogni nostro intervento avrebbe pesato.Se il rapporto non è di fiducia totale, quasi di abbandono alle cure, tutto diventa più difficile e penoso.

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Il turno successivo, alle due di notte Gianfranco suonò il campanello, andai a rispondere e lo trovai seduto a bordo letto, gli chiesi se avesse dolore, ma lui mi disse di sedermi vicino, mi guardò negli occhi e mi chiese: “Federica, Dio esi-ste?”. Ora capivo lo smarrimento, era alla ricerca della veri-tà, di quella più profonda che avrebbe dato un senso al suo umano soffrire. Mentre rispondevo, le parole uscivano dalla mia bocca senza quasi me ne accorgessi. Alle due di notte non si ha l’acutezza di fare sermoni teologici, parlai a ruota libera: “Dio l’ho sempre riconosciuto su tutto ciò che di più bello mi circonda: l’infinito del cielo, la perfezione del susse-guirsi delle stagioni, l’amore infinito di mia madre, il vento che soffia e fa navigare.” Lo invitai a riflettere a quanto vicino a Dio, lui che stava per mare per mesi, si fosse trovato tante volte. Gli feci capire a quanto prezioso poteva essere il tem-po che gli rimaneva da vivere, e alla qualità che potevano assumere pochi istanti di conversazione reciproca.

Erano le tre. Avevamo chiacchierato per un’ora, sem-brava sereno, ma tanto stanco, troppo stanco. Lo aiutai con naturalezza a coricarsi, gli raccolsi le gambe, lui accettò il mio sostegno, mi chiese di tenere la porta della stanza aperta e si augurò di vedermi presto e con un filo di voce accennò: “Federica, in banca saresti sprecata, buon lavoro”.

Natale 2008: a pranzo Gianfranco era solo in stanza, la moglie e il figlio erano stati presenti tutta la mattina, ma a mezzogiorno andarono a casa di parenti per festeggiare il Natale. Era l’unico paziente che avrebbe pranzato solo.

Preparai con cura il piatto, piccole porzioni come piace-va a lui, con tanti colori. Nel vassoio aggiunsi il fiore di una stella di Natale, che mi era stata regalata nella mattinata.

Quel giorno stranamente mangiò tutto, e fu entusiasta per come avevo preparato il vassoio. Mi chiese qualcosa sul-

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le mie poesie, sui miei studi, quasi a voler approfondire la conoscenza. Parlammo di arte: la mostra di Emilio Vedova che avevo visto all’isola di Sant’Erasmo e quella di Mimmo Paladino presso i giardini di Villa Pisani a cui avevo dedica-to una poesia dal titolo L’Orangerie. Gliela recitai. Gli ultimi cinque minuti di quel turno li passai tenendolo per mano a leggergli una pagina della rivista per esperti velisti. Poi alla mia domanda: “Gianfranco, questo è un linguaggio troppo tecnico, non capisco tutto… spedare… Che significa spedare l’ancora?” Non ebbi più nessuna risposta. Gianfranco dormi-va. Fu l’ultima volta che lo vidi.

Andando a casa pensai a quanto con poco si possa ren-dere più leggera la vita altrui e a quell’ancora spedata: impi-gliata, o non buttata a mare?

Lessi il significato sul vocabolario verso sera.Scrissi di getto queste poche righe:

A Gianfranco

Un anno a spedarela tua ancora,vola alta la tua ala.

Ora sfiora col blula fredda materia.

Salpa la tua animache annulla la caparbia mente.

Sciolto il fioccopunti la vela a ponente.

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Il turno successivo Gianfranco non c’era più. A marzo partecipai d’impulso al concorso letterario nazionale PANTA REI, mandai questa lirica, quasi un epitaffio per gli esperti.

Mi qualificai al primo posto. Fu così che vinsi il mio pri-mo premio letterario, fu così che Gianfranco, il mio angelo volle ringraziarmi per aver fatto un po’ di luce lungo la strada buia della sua malattia mettendo un paio d’ali anche alla mia poesia per farla volare nell’infinito.

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Un angelo non sa di esserlo finchè non glielo dicono

di Nicola Tonelli

Due suoni lunghi e uno breve.Ci muoviamo all’unisono. Infiliamo giacca, stivali, cintu-

ra e guanti. Con l’elmetto in mano siamo pronti per partire in meno di tre minuti. Non importa cosa stai facendo, anche fosse che sei in bagno nel bel mezzo di una spinta, o a guar-dare la tele con un dito nel naso; devi lasciare tutto e muo-verti. Anche con le brache in mano.

In caserma abbiamo un codice dei suoni che tradurlo a parole farebbe più o meno così: due suoni brevi – niente paura, nessun pericolo –; due suoni lunghi – Madonna san-ta, è successo un casino d’incidente –; due suoni lunghi e uno breve – datevi una mossa, c’è gente in pericolo –.

E stamattina, poco prima di finire il mio turno, capita proprio quest’ultimo. Pensare che ho scelto il turno di matti-na perché è statisticamente provato che ci sono meno chia-mate. Le persone comuni, quelle mediocri che passano una vita a lavorare, sono ancora addormentate. Le altre che noi chiamiamo speciali, sono appena tornate da una notte di ba-gordi: troppo stanche per mettersi in pericolo.

A salire nella camionetta sono il primo, mica perché sono un eroe, ci mancherebbe altro, ma per fare buona im-pressione sul comandante.

Ho sempre sognato di fare il ragioniere. Quando ero pic-colo, i miei coetanei immaginavano di diventare poliziotti, vigili del fuoco e astronauti.

Mamma, dissi un giorno, voglio imparare a fare di conti. Come sarebbe a dire?, fa lei. Ricordati, tuo nonno era vigile del fuoco, tuo padre era vigile del fuoco, tuo fratello, pace all’anima sua, è morto salvando una donna da un incendio. E

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tu, mi vieni a dire che vuoi stare seduto per una vita, dietro a una scrivania? Non se ne parla neppure.

La radio gracchia che in un condominio del centro c’è un incendio. Tra il quarto e il quinto. Persone bloccate al sesto. E come ci arriviamo, chiedo al comandante. Le scale arrivano a mala pena fino al quinto e la cesta non ci passa per quelle strade strette.

Mi guarda impassibile, lo so che non mi sopporta, e dice che è un bel giorno per diventare un angelo. Si è bevuto quel poco di cervello che ha.

Risposta degna del suo personaggio preferito: Gion Uein.

Un omone che nei film salva sempre tutti: l’amata, l’ami-co, il cane del vicino, il nemico, il verme solitario.

Gli altri stanno in silenzio: alcuni finiscono di abbotto-narsi la giacca, il mio vicino gioca con una moneta facendola passare tra le dita della mano destra.

È la prima vera missione cui partecipo; finora solo ga-rage allagati e la zampa di un cane impigliata nella griglia di un tombino.

Arriviamo che nella via c’è una confusione pazzesca: donne che gridano, piccoli che piangono, uomini che escono con materassi luridi e mucchi di vestiti. Un fumo nero esce dalle finestre del quarto piano e più in alto visi affacciati che si sbracciano. Sono tutti di colore; d’altronde, in questi vicoli dimenticati, ci vivono solo loro.

Vai dentro insieme al barba e a Graziano, dice il coman-dante, dividetevi per piano e fate uscire tutti. Chi vuole che ci sia, dico: sono di colore, mica stupidi.

È un ordine, grida.Secondo me deve ancora digerire lo scherzo del denti-

fricio che ho fatto a Giuseppe: il signor “sotuttoio”.Due mattine fa ho strizzato un tubetto di dentifricio nei

suoi stivali.Il comandante era incavolato nero: ancora uno scherzo

del cazzo – ha detto proprio così – e ti faccio un richiamo scritto. Sei il disonore della divisa, ha continuato con le vene del collo che si gonfiavano, e di chi con coraggio ti ha prece-duto.

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Stava parlando di mio padre e di mio fratello più grande. Vabbè comandante, ho pensato perdendomi dentro i suoi occhi neri, starò buono, diciamo per tutta la settimana.

Al primo pianerottolo il barba entra in corridoio e non ne esce più. Proseguo con Graziano, il vecchio della compa-gnia e al secondo scompare pure lui.

Mentre sudo dentro la giacca ignifuga e arranco sulle scale mica posso sapere cosa succede fuori: non sono on-nipresente. Il telone non può essere steso, una mamma di-sperata, al quinto piano invaso dal fumo, è affacciata dalla finestra del bagno con la figlioletta seduta sul davanzale. Grida, chiama il marito che dal marciapiede corre a destra e a sinistra, le altre donne mandano lamenti che nel vicolo si amplificano. E io, con la maschera ad ossigeno, non sento una mazza.

L’importante è dare l’impressione d’essere efficiente: arrivare al piano, far finta di cercare tra le stanze, magari rompere qualche porta con l’accetta.

Il sudore mi cola fino alle mutande. Mi aggiro per le stanze e trovo tanta miseria. Sopra un

tavolo sbeccato, con dei mattoni al posto di una gamba, c’è una foto con tanti bambini sorridenti in uno sfondo di terra rossa.

La metto in tasca e vado verso il balcone più vicino.Mi faccio vedere dal comandante e poi scendo, tanto

qua non c’è anima viva, e neppure morta se è per questo.Il balcone è proprio in linea con la finestra del bagno,

dove nel frattempo la donna è scivolata all’interno, sopraf-fatta dal fumo.

La piccola oscilla pericolosamente avanti.Il comandante mi vede e fa dei gesti che non capisco.

Troppo casino là sotto, avvicino la mano all’orecchio per dire che non sento nulla.

Tutti che indicano verso l’alto. Apro le braccia con le mani rivolte verso l’alto, come fa

il papa, in un gesto sconsolato e proprio in quell’attimo – né un secondo prima né un secondo dopo – la piccola cade.

Sulle braccia che sembrano aspettarla.Piange grandi lacrimoni.

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Mi tolgo la maschera e faccio le linguaccie come un cre-tino.

La bambina ride.Scendo le scale con in braccio il fagotto.Nel vicolo tutti mi stanno attorno, sono sorridenti. Il papà della piccola continua a baciarmi le mani e a

chiamarmi angelo. Nessuno sembra rendersi conto che il mio non è stato

un gesto eroico. Neppure il comandante che continua a darmi pacche

sulle spalle. Ma che importa?Forse un angelo non si rende conto di esserlo finchè

qualcuno non glielo dice.

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Quell’angelo di mia figlia

di Beatrice Maria Trozzo

Dopo la morte di mio marito Francesco, il mio angelo custode è stata mia figlia Stefania. Gli altri miei figli si erano trasferiti a Padova, erano lontani da me, ed io trascorrevo le mie giornate a piangere. Stefania mi saltava sulle gambe, mi baciava e mi diceva: “Mamma non piangere, papà adesso è in paradiso, le sue sofferenze sono finite; adesso lui è felice accanto a Gesù e ai suoi genitori. Mamma mia stai tranquilla perché io non ti lascerò mai sola.”

Stefania poi si è sposata a Oderzo e non mi ha mai ab-bandonato, facendomi trasferire in questa bella cittadina per avermi vicina.

Da circa tre anni vivo nella casa di soggiorno OIC “Simo-netti” di Oderzo: i dirigenti, gli operatori e gli animatori sono gentili e disponibili. Noi ospiti non siamo mai lasciati soli, sia-mo sempre tenuti impegnati in attività piacevoli e rilassan-ti. In questa struttura residenziale ho trovato una seconda casa, devo dire che sono serena e tranquilla.

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L’angelo dal golfi no bianco

di Oriett a Zenari

È una bella matti na, il cielo è azzurro, la primavera inol-trata, con tutt e le sue piante in fi ore, invita ad uscire. Anche l’aria è ti epida.

Come tutt e le matti ne la nonna si alza presto, deve rag-giungere dalla frazione dove abita, con la corriera, la casa di suo fi glio, per accudire il suo nipoti no che ama immen-samente. Da diverso tempo si occupa di lui perché la sua mamma è al lavoro. Svelta svelta, innaffi a i gerani rossi sul terrazzino e, con un “guarda che belli che siete” parlando tra sé, richiude la porta.

Intanto il caff è è salito, lo sorseggia preparandosi per uscire, poi dall’atrio soffi a un bacio alla cornicett a con la foto del marito.

«Ciao Elena, ci vediamo oggi pomeriggio» dice alla sua vicina uscendo. Fanno parte tutt e e due del coro della parroc-chia; a lei piace molto cantare e non perde mai una prova.

Arriva nel paesino vicino giusto in tempo per abbrac-ciare i bimbi più grandi, Maria e Paolo. Stanno aspett ando il pulmino che li porta a scuola.

«Ciao nonna» dice Maria. «Quando hai un po’ di tempo, puoi insegnarmi a ricamare il punto croce sul centrino?»

«Certo tesoro,» dice nonna Livia «ma non oggi perché ho già un altro impegno».

E Paolo: «Nonna, a me puoi mostrare i fossili che hai trovato?»

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«Sì» dice nonna, «ricordamelo la prima volta che vieni a casa mia, ma attenti, sta arrivando il pulmino. Ciao e com-portatevi bene, mi raccomando».

Entra in casa e posa un bacio leggero sulla fronte del bimbo più piccolo che dorme beato nella culla e fa compa-gnia alla nuora con un goccio di caffè, poi la saluta con un «Ciao, buon lavoro».

Più tardi esce con il piccolo dicendo «Dai tesoro che ci godiamo questo bel sole, andiamo a prendere il pane».

Gli sistema i riccioli biondi sotto il cappellino e si avvia. C’è molto traffico, ma lei è sempre attenta, attraversa la stra-da sulle strisce pedonali.

Purtroppo un’auto veloce, troppo veloce. La nonna ter-rorizzata capisce che non fa in tempo a schivarla e allora cer-ca di salvare il piccolo spingendo via a tutta forza il passeggi-no dalla traiettoria dell’auto.

Sbattendo con le ruote sul bordo del marciapiede que-sto si capovolge, il piccolo cuscino attenua la caduta del pic-cino che sbatte con meno violenza la testina sull’asfalto.

Cerca il suo ciuccio lì vicino, ma trova solo una scarpa della nonna.

Poi spaventato da tanto trambusto, gente che urla, che corre, che cerca di sollevarlo, disperato cerca l’attenzione della sua nonna. Lei lo sente da un mondo già ovattato e con un filo di voce bisbiglia «Ciao amore santo» prima di chiude-re gli occhi e salire al cielo col suo golfino bianco macchiato di rosso, come un angelo fra gli angeli, regalando al suo ama-to nipotino il dono più grande, la sua vita.

Un giorno il papà e la mamma decidono di fare una gita in montagna con Maria, Paolo e il piccolo. Si fermano in un bel prato per fare un pic-nic e Maria riconosce il posto dove tempo prima l’aveva portata la nonna.

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«Mamma, mamma, sai qui sono già venuta con nonna e quel giorno è stato bellissimo. La nonna ci ha mostrato tanti fiori, ci ha parlato di tante cose e ce ne ha insegnate molte altre.»

«Davvero?» chiede il papà che ascoltava raccogliendo un po’ di legna per cucinare.

«Sì, sì. Ci ha fatto vedere la casetta dei cacciatori e ci ha tranquillizzati quando abbiamo visto un serpente grigio molto lungo. La nonna ha detto che era una “Anda” e che sarà stato lungo un metro e mezzo, però non sapeva il nome in italiano.

Poi ha raccolto un mazzolino di fiori di diversi colori e ha detto guardandoli fisso da vicino: «Ma chi ha creato que-ste meraviglie? Deve essere grande questo Dio, una scienza infinita! Venite a vedere come sono fatti e guardatevi intor-no, ma pensate un momento: se per noi ha creato questo mondo meraviglioso, vi immaginate come deve essere bello quello dov’è lui? Mah!»

Poi abbiamo divorato i panini e lei ci ha raccomandato di non lasciare cartacce e di raccogliere anche il più piccolo tappo.

La mamma si accorge che Paolo è pensieroso e gli chie-de «Paolo cosa c’è, a che pensi?» «Sto pensando alla nonna. Mamma, ma allora, secondo te, lei adesso lo vede già quel bel posto? E se lo vede chissà com’è contenta!»

«Penso proprio di sì» risponde la mamma stupita dal-la domanda. Poi alza gli occhi a guardare il cielo in cerca di qualche risposta.

Una brezza leggera fa danzare l’erba alta nel prato pieno di fiori. I rami dei pini si dondolano come sospinti e da un faggio lì vicino, alcune foglie cadono ondeggiando.

Una di esse sfiora le guanciotte del piccolino. È un bacio che arriva dal cielo e lì si posa leggero. L’amore sì, può fare questo.

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E il vecchio angelo col golfino bianco sorridendo ripren-de a volare tra i faggi e i pini e si allontana nel cielo azzurro.

Dedicato alla nonna che davvero è volata in cielo qual-che tempo fa per salvare il suo nipotino.

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Poesie

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Angelo mio

Diede il bisogno un pretesto al destinoche, misterioso, l’incontro voleva:là, oltre i monti, gli affetti lasciavi,qui, un aiuto da un letto attendevo.

Mondi diversi dovesti affrontare,di anziani e malati fosti compagna,ma la tua scelta non fu per l’avere:tu nell’amore immergesti il lavoro.

Mille attenzioni, parole gentili,dolci sorrisi, preoccupazionisorte soltanto da un animo puro

fanno leggeri i miei giorni di pena,sono carezze al bisogno d’amore.Angelo mio, ti lascio il mio cuore.

Beniamino Bettio

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Presepi

L’Angelo, trasparenza di Dio,attendeva l’ora con lo stuporedi un bimbo toccato dal miracolo.I suoi giorni chiari si eranocolmati, fino a grondarne,di un nome: Gesù.Solo non sapeva, lui, dove maiquel Bimbo si sarebbe collocato,se neppure il paradiso gli eradegna dimora!E quando apprese di quel villaggiobianco arroccato sulla collina,di quella “casa del pane” calcinatadal sole, l’Angelo s’intristì.Fu notte e fu giorno sulle collinedi Giuda, sulle gibbosità deldeserto, sui laghi salati come mari.Ma quando l’Angelo scese con miriadidi altri Angeli da lui diversie con lui beati, fu soltanto giorno,un giorno bianco come nessuno.E l’Angelo per un istante rimpiansedi non essere un uomo.

Italo Bonassi

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Volano gli Angeli

Volano gli Angeli sopra il cielodi Canale, scendono in picchiata suitetti delle case, si affacciano trale decorazioni e gli archia mezzaluna, capitelli e portali:giocano sacri giochi lungo l’absidedelle piccole chiese medioevali,siedono ridendo per terra, tra i fiori,sostano, perplessi, sui cornicionie si lasciano trasportare dal ventoper ascoltare, tra le onde, il cantodelle creature abitanti del lago.Volano gli Angeli sopra il cielodi Canale.

Italo Bonassi

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Valentina

Ecco, ti aspettavo.Con curiosità, con orgoglio, con un po’ di timore,con la certezza che ti avrei tenuto testa.Invece zero!Hai travolto ogni difesa con il solo apparire, con l’esserci.Hai sgretolato concrezioni accumulate in mezzo secolo di regole e convenzioni;ridicolizzato la mia idea di forza,abbattuto l’orgogliosa diga delle lacrime.Un piccolo movimento di quelle fragili dita,esili steli di margherita,e si è sciolto come gelatina il fortino di ferroche avevo nel petto.Ti aspettavo.Ed ancora aspetterò il primo sorriso e le prime paroleche mi solleveranno da terra e mi faranno fluttuare.Ti terrò testa!Aspetterò i primi barcollanti passi, le prime domande, i tuoi occhi che vogliono imbrogliarmi,e le grida mentre giochi.E quando piangerai ti terrò la mano,asciugherò le lacrime e ti darò ragione.Poi aspetterò che tu mi venga incontro,altrimenti lo farò io, e ti accarezzerò.

Giuliano Brandoli

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Vorrei

Vorrei che il giorno fosse senza sera, vorrei che il mare fosse senza bufera, se voglio troppo non darmi niente,mi basta il tuo viso allegro e sorridente.

Adelina Campi

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Le ali bianche

Per la Prima Comunionedei nostri figli

I nostri angeli indosserannoali bianche, quel giorno.Andranno verso la Luce,volando con ali nuove.Ci offrirannogioia allegra e colorata.

Innocenza di voci e di manis’unisce in lode.

Oh, se noi madri,se noi padri,potessimo vegliaree conservare nel tempoquel candore puro,la freschezza intatta,non avremmo da temerel’invisibile arte del dèmonesulla loro strada.Le ali bianche sono il vostro tesoro:conservatele, figli cari!

Laura Da Re

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Troppo presto

Non ci son più le voci dei bambini,dove sei tu che mi proteggevi?Dove sono i tuoi buffi sberleffi,le ginocchia sbucciate,le lacrime asciugate,le mani in tasca,il fischiettio per le scale,le corse pazze giù per Mezzaterra,le barzellette, le tue ammiratrici i tuoi amici...?Fratello mio, amico grande e buonoche mi portavi sulla schiena fragileraccontandomi le storie che inventavi...Sei diventato grandeun mito per noi che ti amavamosei stato un angeloper tutta la tua vita,la tua vita che è finita...troppo presto.

Anita Feltrin

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El me angelo

Amiga mia.Te jeri la mejo,te saré senpre la mejo.Mi go fato in tenpo‘starte apena un fià vissine zà te me ghe lassà.No go più podesto mandarte i me timiditremolanti sentimentide un core sensa malissia.No inporta più se i te xe ‘rivà.Ormai xe passà el tenpode vardare ‘vanti!Ga durà massa poco el sognoe pure go sentio lo stesso un palpito,come na caressa de un angeloche me sfiorasse.Tacà de ti no podeva nassare pensieriumani, lassivi e volgari.Un soriso ingenuo e s-ciéto,raramente velado,iluminava el to viso pulito.La to vosse soavemente dolsecome vegnù dal cielo al cielola tornava cantando in ciesa.I to oci sinceri, lanpri e gentilitraversà da cualche refolo de mestissiamostrava la to anema candida

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e provocava solo desideride teneressa e amore.Te vardo ‘desso là imobilee pare che te me soridi uncora,ma xe solo ‘na fotomessa pa ricordare a tutiche le to soferense xe finiee che finalmente te si Serena,par senpre.

Rino Forese

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È un velo

La tenda mossa dal ventosi alza, si abbassaÈ un veloÈ un’ala bianca la morteche da la dimensione dell’assenza.Eppure basta un soffioper rifiutare la mancanzadi colui che ti era accantoIl velo si muove, ti avvolgeUn angelo ti accarezza il capoTi fa sentire vicino il suo respiroTu tendi la mano, la paura scompareTu vivi nel ricordo di quella voce che penetra nei tuoi pensieriTi conduce per manonel cammino della vitaTi sta sempre accanto Scompare la notte Tutto diventa luce.

Rita Mazzon

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Angeli nella demenza

Quando cerchinella corteccia cerebrale,lisa come un vecchio lenzuolo,qualche traccia di spiritualità.Quando approfittidi rari momenti di luciditàper suggerire una piccola preghiera.Quando sfruttil’armonia di un fugace sorrisoavvolto nella dimenticanza.Anche quando fai tutto questo,svolgi il Tuo compito, santificandoTi.

Renato Omacini

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Essere custoditi

Eppure Voi non sapetequant’è difficilediventare santi avendo un corpo.Sono questi fratelli che,in verità, Vi custodisconoe, insieme a Voi, cantano,miracolo della carità,sotto una voltaaffrescata dal Beato Angelico.

Renato Omacini

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Angeli attorno a noi

Nei dipinti son sempre giovani, belli, con tanti riccioli d’oroma gli Angeli in verità come saranno?Forse han gli occhi azzurri e furbi di Regina che a suo modo fa tanto ordine in camera e appena ti vede chiede: “Mettiamo su il caffè?”O il sorriso dolce di Francesca, non può più parlare,ma il suo sorriso vale più di mille parole.I capelli, oh sì, i capelli son quelli di Barbarina,sempre a posto, saggi riccioli grigi e tanto buon umore.Le braccia, le mani son forse quelle di Pietro,ormai rigide, ma ancora volonterose nel voler portareil cucchiaio alla bocca senza essere aiutato.Le gambe son certa son quelle di Irma,mai ferma, mai sazia di andare su e giù per il corridoio,ha fretta deve andare a casa: la mamma ha già messo la po-lenta in tavola.Quanti Angeli, volti sofferenti eppur taciturni,occhi persi nell’oblio della malattia e chissà nei ricordi del passato. Quanti Angeli non sappiamo di avere attorno che ci insegnano che la vita è anche questo.

Francesca Rigoni

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Nome: AngeloCognome: Custode

Co gero picininacoe manine zonte pregavo el me angioetoprima de andar scola la matinae ala sera dentro el leto.Xa la matina lu scoltavatute le me racomandasionpa un compito in classeo na interogasion.Diremo che gero un po’ discoeta,ma lu lo scoltavo da brava toseta.Nele orasion dela matinagaveo na lista, un bel da fare!Ancora i oci da lavare eanca la poesia da ripasare.E lu sempre lì tutto tacaissovisin de mi che el fasea de tutopar darme dele driteda metarme in testa un poco pì fisse.Gnanca par strada co ndavo scolanol tasea un fià:“Te ghe da far la brava,scoltare la maestra,non essar dispetosa,non dire parolasse

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e gnanca contar busie,se no te vien le mace sule onge,bestia!”.Che angioeto che me se capità,ma col tempo go imparàche el me gà insegnà puito.Un poco me gavea anca afesionà.Finchè non vien l’ora de ‘nare in leto,eco che taca anca staserala resa dei conti dea giornata:se go fato tuto queo che el me ga dito,nol se dismentegava gnente.Par gnente el se ciamava angelo custode.Che mi sapiafra un par de ani el dovaria andare in pension.Ma el Padre Eternoche el me conosce ben,el sa che non poso stare sensa.E so anca cheel ghe ga dito:“Dai angelo,ancora par pocoporta pasiensa”.

Clara Sinigaglia

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I partecipanti

Astolfi AnnalisaBalasso ValeriaBertolo MariaBettio Beniamino Boito MarcellaBonassi ItaloBordin GabriellaBortoletto ClementinaBrandoli GiulianoBuio MarinaCallegaro BrunaCampi AdelinaCarone AdaCarraro AngeloCarrer ZulemaCeccon LoredanaCerinato MariaCinefra GiovanniCorazza IrmaDa Re LauraDa Ros BrunoDal Cin FabioDe Fort IdaDe Marchi ChristianFantin MartaFeltrin AnitaForese RinoFurlan DosolinaGaron EnnioGaronzi Gabriella

Gasparon GiovanniGiachin SofiaGobbo FrancaGrotto BeppinoLavarini Anna MariaLongo CesiraLongo CesiraLuni BeatriceMaccan Micaela IvanaManente MichelaMarchetto DanteMazzon RitaMeneghetti LuigiMilanese MaddalenaMiniati BenitaModenato AlfredoNardin DonatellaOmacini RenatoOrfali AlessandroPapes RacheleParpinello LodovicaPasqualetto AnnalisaPedroni AntonioPezzelle RenzoPezzelle SandroPrior EmanuelaRappo EldaReggi Maria GraziaRettore GeseaRigo Giorgio

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Rigoni FrancescaRocca GiovannaRoldan MartaRoncato Maria Rossi CristianaRossi IolandaSailer Anna RosaSerafin PaolinaSimionato PaoloSimonetto FedericaSinigaglia ClaraSoavi Mina

Soldi CarmenTacchetto ImeldaTognon DonatellaTonelli NicolaTonello MarilenaTrozzo Beatrice MariaVaccari MartaVenturato RobertaZarpellon FrancoZenari OriettaZorzetto FrancaZorzetto Maria Grazia

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I promotori

Tra le grandi onlus europee, la Fondazione Opera Immacolata Concezione Onlus da oltre 50 anni fornisce servizi integrati per persone longeve e diversamente abili, grazie a nove residenze nelle province di Padova, Venezia, Treviso e Vicenza e un Centro Polifunzionale (il Civitas Vitae di Padova).Perno di una comunità multietnica di oltre 5.500 persone (2.200 ospiti, 1.500 dipendenti di 24 nazionalità diverse nonché le relative famiglie), promuove un approccio alla terza età basata sul mantenimento delle competenze e abilità seppur residue, valorizzando la capacità del longevo di costruire beni relazionali anche intergenerazionali.www.oiconlus.it

La Società Dante Alighieri, fondata a Roma nel 1889 con il compito di salvaguardare e diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo, promuove “un’opera altamente ed essenzialmente civile e pacifica, a cui ogni italiano, qualunque sia la sua fede religiosa o le opinioni politiche, deve sentire il bisogno e il dovere di prendere parte”. Aderire ad uno dei 500 Comitati della Dante diffusi in tutto il mondo è per chiunque motivo di fierezza e di considerazione: significa esprimere, rappresentare e sostenere princìpi e valori universali, operando secondo ideali di solidarietà, di progresso e umanità da tutti condivisi.www.ladante.it

GRAFICA VENETA Spa di Trebaseleghe in provincia di Padova è uno dei più vasti e attrezzati luoghi europei per il confezionamento di milioni di libri.

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In quasi dieci anni d’attività ha raggiunto una posizione di rilievo nella produzione libraria internazionale collaborando con i più importanti editori, augurandosi che in un futuro prossimo ogni persona abbia vicino almeno un libro.Quale operatore di mercato, investita di una responsabilità sociale, l’azienda si impegna con la propria attività a divulgare la cultura in tutto il mondo attraverso la stampa di volumi nel convinto rispetto per l’ambiente. Data la particolarità della materia prima utilizzata, si prefigge inoltre di ridurre l’incidenza dei costi sociali, migliorando l’efficienza dei processi produttivi, utilizzando materie prime provenienti da foreste razionalmente gestite.Tutto ciò in un ambito che privilegia la qualità, come dimostrano le certificazioni per gli standard qualitativi e di tutela ambientale come il marchio Forest Stewardship Council, meglio conosciuto con l’acronimo FSC rilasciato da un’organizzazione internazionale non governativa, indipendente e senza fini di lucro.www.graficaveneta.com

La casa editrice Cleup (Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova) è presente da oltre 40 anni nel panorama editoriale ed è specializzata nella stampa di testi universitari e professionali, contando all’interno del catalogo un numero significativo di pubblicazioni volte alla conoscenza e valorizzazione del territorio e della cultura. Accanto all’Università di Padova, principale partner istituzionale, Cleup annovera collaborazioni con numerosi altri atenei italiani e con importanti centri di ricerca, fondazioni e associazioni.www.cleup.it

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Finito di stampare nel mese di presso

Via Malcanton, 2 - Trebaseleghe (PD)Printed in Italy

The first carbon-free printing company in the world

This book is printed by the sun

settembre