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ANDY McNAB LO STERMINATORE (Aggressor, 2005) PARTE PRIMA 1 Lunedì 5 aprile 1993 Ce ne stavamo aggrappati tutti e tre al tettuccio del Bradley, il cingolato da combattimento che procedeva a salti e sbandate sul selciato sconnesso. I gas di scarico che uscivano dalla griglia posteriore minacciavano di soffo- carci, ma per lo meno erano tiepidi. Se di giorno si bolliva di caldo, la not- te si ghiacciava. Con la destra mi reggevo al maniglione gelato accanto alla torretta e con la sinistra stringevo la cinghia dello zaino. Avevamo percor- so in volo cinquemila chilometri per mettere in azione quel congegno, e se si fosse danneggiato non c'era modo di sostituirlo. Tutto il lavoro sarebbe andato a puttane e io sarei sprofondato dritto nella merda. I fari da ricognizione Nightsun montati sui quattro AFV sventagliavano la facciata degli edifici bersaglio. Solo sul nostro viaggiava una squadra SAS (Special Air Service) di tre uomini al completo, gli altri veicoli si li- mitavano a un lavoro di copertura. Sempre che tutto fosse filato liscio. Il nostro autista sterzò bruscamente a sinistra in direzione della parte po- steriore del bersaglio e il Nightsun tracciò un sentiero di luce nel cielo not- turno come in una scena di Blitz. In quell'operazione il capo era Charlie, come testimoniava la cuffia con microfono ad astina che teneva in testa. La cuffia era collegata alla scatola delle trasmissioni all'esterno dell'AFV e serviva per comunicare con l'e- quipaggio. Charlie muoveva le labbra ma non avevo la più pallida idea di che cosa stesse dicendo a causa del rombo del motore e dello sferragliare dei cingoli. Smise di parlare, si tolse la cuffia, la infilò nella griglia e con una pacca sulle spalle a Mezzoculo e a me urlò di tenerci pronti. Qualche secondo dopo l'AFV rallentò sino a fermarsi, il segnale per noi di saltare. Ci lasciammo scivolare a terra facendo attenzione che gli zaini non si impigliassero da nessuna parte. Il veicolo ruotò su se stesso in una cascata di fango sollevato dai cingoli e tornò indietro sulla strada da cui era arrivato.

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ANDY McNAB LO STERMINATORE

(Aggressor, 2005)

PARTE PRIMA

1

Lunedì 5 aprile 1993 Ce ne stavamo aggrappati tutti e tre al tettuccio del Bradley, il cingolato

da combattimento che procedeva a salti e sbandate sul selciato sconnesso. I gas di scarico che uscivano dalla griglia posteriore minacciavano di soffo-carci, ma per lo meno erano tiepidi. Se di giorno si bolliva di caldo, la not-te si ghiacciava. Con la destra mi reggevo al maniglione gelato accanto alla torretta e con la sinistra stringevo la cinghia dello zaino. Avevamo percor-so in volo cinquemila chilometri per mettere in azione quel congegno, e se si fosse danneggiato non c'era modo di sostituirlo. Tutto il lavoro sarebbe andato a puttane e io sarei sprofondato dritto nella merda.

I fari da ricognizione Nightsun montati sui quattro AFV sventagliavano la facciata degli edifici bersaglio. Solo sul nostro viaggiava una squadra SAS (Special Air Service) di tre uomini al completo, gli altri veicoli si li-mitavano a un lavoro di copertura. Sempre che tutto fosse filato liscio.

Il nostro autista sterzò bruscamente a sinistra in direzione della parte po-steriore del bersaglio e il Nightsun tracciò un sentiero di luce nel cielo not-turno come in una scena di Blitz.

In quell'operazione il capo era Charlie, come testimoniava la cuffia con microfono ad astina che teneva in testa. La cuffia era collegata alla scatola delle trasmissioni all'esterno dell'AFV e serviva per comunicare con l'e-quipaggio. Charlie muoveva le labbra ma non avevo la più pallida idea di che cosa stesse dicendo a causa del rombo del motore e dello sferragliare dei cingoli. Smise di parlare, si tolse la cuffia, la infilò nella griglia e con una pacca sulle spalle a Mezzoculo e a me urlò di tenerci pronti.

Qualche secondo dopo l'AFV rallentò sino a fermarsi, il segnale per noi di saltare. Ci lasciammo scivolare a terra facendo attenzione che gli zaini non si impigliassero da nessuna parte.

Il veicolo ruotò su se stesso in una cascata di fango sollevato dai cingoli e tornò indietro sulla strada da cui era arrivato.

Mi ricongiunsi a Charlie e Mezzoculo dietro un paio di auto. Un na-scondiglio ridicolo, ma l'avremmo utilizzato per pochi secondi. In ogni ca-so, se i Nightsun avevano lavorato a dovere, chiunque stesse guardando dall'interno del bersaglio doveva aver perso completamente la visione not-turna.

Noi tre eravamo appiattiti a terra: gli occhi spalancati, le orecchie tese, concentrati.

Il nostro AFV sferragliava dall'altro lato delle costruzioni insieme ai suoi compagni. I Nightsun ne mitragliavano le facciate. Adesso che erano suffi-cientemente lontani dalla portata delle nostre orecchie, gli altoparlanti montati su ogni veicolo cominciarono a emettere un lamento straziante, acuto, come di coniglietti squartati. Andavano avanti così da giorni. Igno-ravo l'effetto che aveva sulla gente all'interno del bersaglio, a me faceva impazzire.

Dal retro del complesso ci separavano cinquanta metri. Guardai il Baby-G: mancavano all'incirca sei ore all'alba. Controllai il nastro adesivo che fissava l'auricolare e i sensori dei due microfoni alla gola.

Anche Charlie si stava occupando delle comunicazioni. Quando ebbe as-sicurato l'auricolare, premette il pulsante che pendeva da un filo aggancia-to al bavero del giubbotto di velluto nero a coste e parlò. A bassa voce. Lentamente. «Qui Squadra Alpha. Possiamo procedere? Passo.» Già gli inglesi avevano seri problemi con la sua pronuncia dello Yorkshire, mi domandai cosa cazzo avrebbero capito gli americani.

Era in contatto con un P3 che sorvolava in cerchio le nostre teste a un'al-tezza di circa ottomila metri. L'aereo era dotato di una moltitudine di rile-vatori termici per individuare eventuali pericoli durante le operazioni, e di un faro a luce infrarossa ad alta potenza. Controllai che il quadratino di na-stro fluorescente fosse fissato alla spalla.

Il fascio di luce IR era invisibile a occhio nudo, ma il riflesso dei qua-dratini avrebbe fornito le nostre coordinate sui monitor dell'aereo. Ci fos-sero stati problemi e avessimo subito un attacco, il P3 sarebbe stato in gra-do di indirizzare la QRF (Quick Reaction Force, forza di reazione veloce) al posto giusto.

La risposta dal P3 raggiunse anche il mio auricolare. «Sì, via libera, Al-pha, via libera.»

Charlie si limitò a rispondere premendo due volte il pulsante. Poi si ac-costò e avvicinò la bocca al mio orecchio. «Se va male, faresti una cosa per me?»

Lo guardai, annuii e mossi le labbra per dire «Cosa?» Avvertii il suo fiato caldo sulla guancia. «Vedi che Hazel abbia quelle

tre sterline che mi devi. Fanno parte dell'eredità.» Mi elargì un sorriso che gli avrebbe fatto guadagnare un'audizione con i

Black and White Minstrels. Erano passati anni da quando aveva pagato quel cazzo di panino alla pancetta, ma da come continuava a ricordarmelo sembrava che avessi acceso un mutuo con lui.

Rotolò di lato e cominciò a strisciare. Sapeva che l'avrei seguito e che Mezzoculo ci avrebbe guardato le spalle. Anche Mezzoculo era dotato di auricolare e microfono, ma li teneva infilati in tasca. Sarebbe stato i nostri occhi e le nostre orecchie mentre Charlie e io lavoravamo al bersaglio.

Il terreno era umido e fangoso. In un attimo felpa e jeans si inzupparono e mi pentii di non aver messo i guanti e qualche strato di protezione in più.

Come gli altri due, tenevo gli occhi fissi sui punti del bersaglio che il P3 non poteva raggiungere: dietro le finestre. Il lamento dei conigli e i fari a-vrebbero dovuto tenere impegnati gli occupanti finché non avessimo porta-to a termine il lavoro, ma il minimo movimento ci avrebbe paralizzati. Non dovevano né vederci né sentirci.

«Squadra Alpha, trenta metri al bersaglio.» Dal P3 cercavano di dare una mano.

Individuai la luce di una torcia a una finestra del primo piano. Era diretta verso l'interno. Nessuna minaccia per noi.

Avanti. Dopo sei minuti di faticosa strisciata, raggiungemmo il punto stabilito.

2

Le tavole di legno con la vernice bianca scrostata formavano solo il pri-

mo di tre strati. Gli schemi dell'edificio indicavano che potevano essercene altri due: un foglio di isolante contro l'umidità e il muro portante rivestito all'interno da intonaco, da carta da parati o da entrambi. Vista la sofisticata strumentazione in nostro possesso, il problema non si poneva.

Come pianificato, avevamo raggiunto il tratto di muro compreso fra due finestre del pianterreno, contro cui poggiava il gabbiotto degli impianti, grande quanto una legnaia. Il posto ideale per il tipo di congegno che do-vevamo piazzare.

Charlie aprì la porta con una chiave a sezione quadra, e con la minitorcia che teneva coperta con le dita ispezionò il vano.

Mezzoculo aveva estratto la pistola, teneva gli occhi fissi sulle finestre e le orecchie su tutto il resto. Durante un'operazione di qualche anno prima una granata gli aveva portato via una chiappa e in quel preciso momento mi domandai se questo significava che aveva il culo freddo la metà del mio. Sua moglie avrebbe voluto che facesse la plastica per non spaventare i bambini quando li accompagnava in piscina, ma la mutua non passava l'intervento e lui si rifiutava di farla da privato. «Sono di culo troppo stret-to», diceva sempre, «anzi, mezzo culo...» Non rideva mai nessuno. Non era uno scherzo divertente e del resto non lo era neanche lui.

Sapevamo che nei diversi Pod erano in molti a seguire sugli schermi le immagini dei rilevatori termici e dei raggi infrarossi che il P3 rifletteva. Ci tenevamo a fare bella figura, «siamo i migliori» era il messaggio che vole-vamo trasmettere, ma in quell'istante quello era l'ultimo dei nostri pensieri; per quanto riguardava me, avevo un'unica aspirazione: finire il lavoro e u-scirne vivo. Era la mia ultima missione prima di lasciare il reggimento. Sa-rebbe stato il colmo di tutte le sfighe se mi avessero ucciso o ferito proprio allora.

Mi sfilai lo zaino dalle spalle. Una voce lontana all'interno dell'edificio gridò qualcosa, ma la ignorammo. Avremmo reagito solo se qualcuno si fosse messo a urlare perché ci aveva visto, altrimenti dovevamo fermarci ogni cinque minuti. L'importante è rimanere concentrati, continuare il la-voro e smettere solo in presenza di un pericolo reale. Per quello c'era Mez-zoculo.

Dopo aver calcolato dove voleva fissare il congegno, Charlie segnò il legno con l'unghia a pochi centimetri da terra e annuì. Estrassi dallo zaino una piramide in lega alta diciotto centimetri. Al posto del vertice aveva un buco e viti di fissaggio ai quattro angoli. Alla luce della minitorcia retta da Charlie la posizionai in modo che il foro fosse perfettamente in linea con il segno che aveva fatto e la tenni bloccata mentre lui affrontava la prima vite con il cacciavite a batteria. La punta del cacciavite ruotava lentamente, precisa. Furono necessari quasi due minuti per stringerla sino in fondo. Prima che finisse di avvitare la terza, avevo le mani intorpidite.

Dall'interno ci giunse una voce diversa. Era più vicina ma non parlava di noi. Un uomo si lamentava del suono stridulo e acuto dei conigli. Impossi-bile dargli torto.

Il sudore era ormai gelido sulla schiena, e artigli di vento mi si facevano strada lungo il collo.

Finalmente Charlie terminò di avvitare l'ultimo perno e io mossi la strut-

tura a sinistra e a destra per controllarne la stabilità. Il capomeccanico era lui, io ero solo il garzone dell'officina. Da lì in avanti il lavoro sarebbe sta-to tutto suo.

Recuperò dallo zaino una punta di trapano da sette millimetri lunga circa mezzo metro e la infilò con cura dentro il buco della piramide. Era total-mente concentrato, il resto del mondo per lui non esisteva.

Si soffiò sulle dita per riscaldarle, poi fece scivolare la punta ancora più all'interno fino a toccare il muro. Quell'apparecchio non poteva essere ma-novrato da uno scimmione qualsiasi, per cui io risultavo automaticamente escluso.

Charlie era il migliore in assoluto, diceva sempre che se non avesse fatto quel lavoro gli sarebbe piaciuto diventare un chirurgo del cervello. Non credo che scherzasse, una volta l'avevo visto dividere con un rasoio una banconota da cinque sterline in due metà perfette e vincere una scommes-sa. A Hereford lo chiamavano il CEO (Chief Executive Officer) of MOE (Method of Entry). Non esisteva al mondo un sistema di sicurezza che riu-scisse a resistergli. E se per caso ne incontrava uno, non ci perdeva il son-no. Mi chiamava perché lo facessi esplodere.

Estrasse un cavo di alimentazione collegato con una pila al litio alloggia-ta in fondo allo zaino e lo innestò nella piramide. Un attimo di pausa, poi le ganasce all'interno della piramide si strinsero attorno alla punta del tra-pano che cominciò a ruotare così lentamente da sembrare ferma. L'unico rumore era un ronzio a bassa frequenza appena percepibile.

Non potevamo fare altro che attendere mentre l'attrezzo cominciava a farsi strada in silenzio, lentamente, in modo metodico, all'interno dei due centimetri e mezzo di legno, del foglio di isolante e del mezzo centimetro di gesso. Mi spostai contro il muro per offrire un bersaglio più piccolo se a qualcuno fosse venuto in mente di guardare dalla finestra. Sollevai la fel-pa, posai la mano destra sull'impugnatura della pistola infilata nella fondi-na alla cintura dei jeans. Con la sinistra sollevai il collo dell'indumento, chiuso dalla cerniera, fin sopra il naso nel tentativo di riscaldarmi.

Il congegno funzionava con la stessa tecnologia che usavano i neurochi-rurghi: se si deve trapanare un cranio, è di aiuto avere uno strumento in grado di fermarsi in prossimità delle meningi. Il nostro si comportava allo stesso modo quando era sul punto di perforare l'ultimo strato di pittura o di carta. Inoltre - per non lasciare traccia - raccoglieva automaticamente detri-ti e polvere a mano a mano che avanzava.

Charlie scollegò la corrente ed estrasse la punta, quindi prese un cavo a

fibre ottiche con una luce alla sommità. Lo fece avanzare all'interno della piramide solo per accertarsi di non essere sul punto di sbucare dall'altra parte del muro. Tutto a posto. Ripose la fibra ottica, inserì la punta del tra-pano e ripristinò la corrente. Il lieve ronzio riprese.

La rotazione accelerò quando colpì lo strato di isolante e rallentò di nuo-vo al momento dell'impatto con l'intonaco. Charlie si fermò e ripeté l'ope-razione con la fibra ottica.

Guardai Mezzoculo. Era sdraiato sulla schiena, i piedi contro la parete, la pistola appoggiata sullo stomaco e puntata verso le finestre del primo piano. Doveva avere il culo, o quanto ne restava, completamente congela-to. Pensai agli americani nei Pod che osservavano i nostri progressi sor-seggiando caffè, fumando sigari e chiedendosi perché cazzo non ci davamo una mossa.

Ci volle quasi un'ora prima che il trapano smettesse di girare per la terza e ultima volta. Charlie ripeté il giochetto con la fibra ottica e sollevò i pol-lici verso di noi. Mise da parte la punta, appoggiò il cacciavite al primo bullone e lo fece ruotare in senso antiorario.

Terminato di staccare la piramide, Charlie estrasse il microfono. Anch'esso era attaccato a un cavo a fibre ottiche, pronto per essere posi-zionato correttamente.

Toccò a me riporre il congegno, un pezzo alla volta, nel mio zaino. Non c'era motivo di muoversi in fretta e rischiare di fare rumore.

Con uno svolazzo della mano Charlie collegò il microfono alla batteria al litio e srotolò sul terreno un metro di cavo antenna.

Non appena lo accese mi giunse nell'auricolare un suono gracchiante. Il segnale veniva irradiato ai Pod e fatto rimbalzare a noi. Non volevamo cer-to connetterci in rete per scoprire se avevamo fatto il lavoro a dovere.

Sentii il fruscio del microfono mentre Charlie lo infilava nel buco appe-na fatto. Ogni tanto si fermava, lo tirava un pochino indietro e poi lo spin-geva dentro. Quando fu vicino all'ultimo strato, sentii una donna sussurrare qualcosa al figlio e un uomo agonizzante che si lamentava. Doveva essere quello che si era beccato un colpo allo stomaco durante il primo attacco.

Era tempo di muoversi. Charlie chiuse il gabbiotto e girò la chiavetta mentre io seppellivo il filo e livellavo il terreno. Il mio compagno ispezio-nò alla svelta la zona alla luce della Maglite e cancellammo un paio di im-pronte. A quel punto cominciammo a indietreggiare strisciando verso il Bradley.

Mentre avanzavamo mi raggiunsero delle voci: un uomo che borbottava

versetti della Bibbia, un bambino che piagnucolava e chiedeva dell'acqua. Avevamo fatto la nostra parte. Era arrivato il momento di passare i nostri giocattoli agli americani.

3

Due settimane dopo I conigli si erano lamentati tutta la notte. Anche per noi che ci trovava-

mo a seicento metri dall'azione era praticamente impossibile riuscire a dormire. Immaginai che inferno fosse per il centinaio di uomini, donne e bambini che si beccava in pieno i lamenti registrati su un nastro a ripeti-zione continua e amplificati migliaia di volte dai potenti altoparlanti degli AFV.

Era ancora buio. Aprii la lampo del sacco a pelo quel tanto che bastava per tirare fuori il braccio. Avvicinai il polso al viso e premetti il pulsante che illuminava il Baby-G. Erano le 5.38 del mattino.

«Cinquantunesimo giorno dell'assedio a Mount Carmel», annunciai con un calcio al sacco a pelo accanto al mio. «Benvenuto a un nuovo giorno in paradiso.»

Anthony si mosse. «Sempre la stessa musica del cazzo?» Era strano sen-tirlo imprecare in perfetto accento di Oxford.

«Perché, amico? Hai qualche desiderio?» «Sì.» Anthony mise fuori la testa. «Portami via di qui.» «Non credo di conoscerla.» Non rise. «Che ore sono?» «Cinque e mezzo. Caffè?» Grugnì e cambiò posizione. Tony non era abituato a dormire per terra.

Faceva parte del mondo dei camici bianchi inamidati, del laboratorio dove rigirava le provette sui becchi Bunsen e non era fatto per una vita senza comodità in compagnia di un tipo come me che non usava lo spazzolino da secoli, aveva i denti coperti da una patina spessa un dito e le calze della consistenza del cartone.

«Ieri i giornali lo hanno definito l'assedio di Mount Apocalypse», disse Anthony. «La strage degli innocenti, piuttosto.» Parlava con il cuore. Non era per niente contento di quello che stava accadendo.

Dopo che avevamo piazzato il microfono, si erano tutti dimenticati degli

inglesi mandati a Waco in veste di osservatori e consulenti. Rappresenta-vamo un'eccedenza non necessaria. Erano seguiti tre giorni di consultazio-ni con Hereford che si era messa in contatto con l'FCO che aveva interpel-lato l'ambasciata a Washington che aveva parlato con chissà chi altro, dopo di che Charlie e Mezzoculo erano tornati in Inghilterra. A me era stato or-dinato di rimanere, come scorta a Tony. Forse gli americani potevano ave-re ancora bisogno dei marchingegni che aveva portato con sé.

Rotolai fuori, accesi il piccolo fornello a gas e presi il bricco. Sul fronte delle comodità non avevamo altro. Non c'era uno spazzolino da denti in vi-sta e questo forse spiegava perché gli americani si tenevano a distanza.

Guardai attraverso il foro di un proiettile nel fianco del carro bestiame che costituiva la nostra dimora da cinque giorni. Il buio della prateria texa-na era squarciato da un intreccio di fasci di luce. Gli AFV giravano attorno al bersaglio come indiani attorno a una diligenza, i Nightsun impazzavano. Gli psicologi continuavano a rendere un vero inferno la vita delle persone intrappolate all'interno. I media ci avevano visto giusto. Eravamo sul set di Apocalypse Now.

Il complesso, come i federali chiamavano la sede della setta dei davidia-ni, era un agglomerato di edifici in legno di due o tre piani e una grande torre rettangolare per l'acqua. In qualsiasi altra lingua sarebbe stata descrit-ta come una comunità religiosa, ma all'FBI non stava bene. L'ultimo dei loro desideri era che quell'operazione puzzasse di persecuzione, quindi si trattava di un complesso.

A proposito di assedi, vige la regola dei dieci giorni: se entro quel termi-ne non si arriva a una soluzione, vuol dire che le cose si mettono male sul serio. Il termine era stato superato cinque volte. Presto sarebbe successo qualcosa. Allo stato dei fatti il governo non si era mosso con intelligenza, e ogni giorno che passava la situazione non faceva che peggiorare.

D'un tratto le urla lancinanti che facevano aggrovigliare le budella si zit-tirono. Il silenzio divenne assordante. Guardai attraverso il buco. Tre o quattro AFV si erano raggruppati in prossimità del parcheggio. Da infor-matori, ex membri della setta, si sapeva che in molti tenevano le loro cose nel bagagliaio delle auto perché lo spazio all'interno era minimo.

Il primo AFV ondeggiò in avanti, si aprì un varco nello steccato e prose-guì dritto. Richiamai l'attenzione di Tony con un altro colpetto. «Cazzo, Tony, guarda cosa fanno.»

Tony si mise seduto. «Hai visto? Schiacciano tutte le auto e i bus.»

«Cosa diavolo vogliono fare?» «Stringere amicizia ed esercitare il loro ascendente, direi.» Assistemmo al derby della demolizione mentre l'acqua cominciava a

bollire.

4 Quando l'ultimo veicolo fu appiattito al suolo, gli AFV si divisero e ri-

presero l'accerchiamento con la biancheria pulita dei davidiani infilata nei cingoli. Poco dopo dagli altoparlanti esplosero di nuovo i lamenti degli a-nimali.

C'era un gran movimento di gente che andava e veniva dalle docce, dai bagni e dai carri ristoro che erano spuntati ovunque nella tendopoli di set-tantasette acri. I soldati possono marciare sullo stomaco, ma le forze dell'ordine degli Stati Uniti che arrivano in lunghe limousine hanno anche lo straordinario pagato.

Gli uomini da nutrire non mancavano. Squadre SWAT, squadre per la liberazione degli ostaggi, agenti federali e sceriffi locali. C'erano tutti. I Pod sparpagliati nel campo erano almeno quattro. Il Pod Alpha si trovava accanto al nostro carro, gli altri tre avevano organizzato il loro comando. Nella prateria c'erano più capi che indiani, non c'era dubbio, e nessuno di loro aveva il comando totale. Per peggiorare la situazione, tutti avrebbero voluto comandare e tutti non vedevano l'ora di dar fuoco al più grande e terribile dei giocattoli militari. L'operazione aveva tutte le caratteristiche per concludersi in un grande casino con tanto di scontro armato. E con noi c'era un pubblico da concerto rock ansioso di esserne testimone. Innume-revoli Airstream con carrozzeria di alluminio lucido, Winnebago scassati, pick-up ordinari, tutti parcheggiati in fila dietro il cordone. Venivano da lontano per trascorrere una giornata diversa dal solito, se ne stavano seduti sul tetto con i binocoli puntati e si divertivano un sacco. Era spuntata an-che una specie di fiera con banchetti di ogni genere che vendevano di tutto, dagli hot dog ai fornelli da campo, comprese magliette con la scritta DA-VIDIANI 4 - ATF 0 (dove ATF era l'Ente di controllo per alcolici, tabacco e armi da fuoco).

Questa è terra di cowboy per più di una ragione. Waco si trova a circa centocinquanta chilometri da Dallas ed è sede del museo dei Texas Ran-ger. Tutti quelli che avevo visto al parco dei divertimenti indossavano uno Stetson. Tutti tranne quelli del Ku Klux Klan, a dire il vero. Si erano pre-

sentati tre giorni prima offrendo all'FBI il loro aiuto per entrare nel com-plesso e sterminare quella setta di pedofili drogati.

Tony e io ci ricalammo giù a finire il caffè mentre io ne preparavo un al-tro. Era l'alba.

Fuori dal carro si mescolavano voci e risate che andavano e venivano. Sentii puzza di sigarette. Il rumore di fucili caricati e di velcro dei giubbot-ti antiproiettile che si apriva indicava il cambio di turno. Secondo i miei calcoli, sul posto c'erano come minimo trecento poliziotti e veicoli di con-seguenza. Quasi tutti indossavano BDU (Battle Dress Uniform, uniforme da combattimento) e armi sufficienti a respingere una piccola invasione.

Anche la Delta Force da qualche parte aveva una squadra. La Delta era nata negli anni '70 ed era organizzata sul modello del SAS. Probabile che stessero facendo le stesse cose che facevamo noi, attaccati a un Pod senza sapere un cazzo di niente di quello che succedeva, costretti a dormire per terra in un carro bestiame. Comunque, era quello che speravo.

Sapevamo tutti che l'impiego di reparti militari contro cittadini america-ni era illegale. Il Posse Comitatus Act lo vietava per operazioni di ordine pubblico interno, e «interno» includeva cinque chilometri di acque territo-riali. La regola prevedeva un'unica eccezione: il presidente Clinton aveva firmato una clausola di esenzione che permetteva ai funzionari di polizia impegnati in operazioni antidroga di impiegare uomini e mezzi militari per combattere le forze schierate contro di loro. In altre parole, l'ATF e l'FBI avevano pescato la carta ESCI GRATIS DI PRIGIONE e, a giudicare dai carri armati Adam parcheggiati dall'altro lato della strada, sembrava che avessero intenzione di usarla alla prima occasione.

David Koresh e i suoi seguaci non sapevano di sicuro in quale guaio si stavano cacciando quando avevano opposto resistenza al primo attacco dell'ATF, circa due mesi prima.

5

L'acqua bolliva. Versai il Nescafé nelle tazze e le riempii. Nella tendo-

poli i punti di ristoro erano un'infinità ma non avevo nessuna voglia di mettermi in coda per la colazione, tanto meno al cambio di turno. E poi, comunque, fuori faceva freddo e cercavo sempre di ritardare il momento di uscire fino al sorgere del sole. Tenni in mano la tazza di Tony mentre liti-gava con la cerniera del sacco a pelo. Si strofinò gli occhi e cercò a tastoni gli occhiali alla debole luce del fornelletto. Era un tipo a posto, credo. A-

veva più o meno trent'anni e un naso che portava a credere che i suoi ante-nati provenissero dall'isola di Pasqua. I capelli castani erano pettinati stile professore matto. I casi erano due: o non immaginava lontanamente l'a-spetto che aveva oppure, eventualità più probabile, se ne sbatteva, perché lui era unico e aveva la testa così piena di formule da non sapere neppure che giorno era. La DERA (Defence Evaluation and Research Agency, A-genzia valutazione e ricerca per la Difesa) contava circa novemila teste d'uovo alle sue dipendenze e Tony era una di quelle. Non si chiede mai a tipi del genere a quale degli ottanta organismi sparsi per l'Inghilterra ap-partengano, ma ero piuttosto sicuro, visto che si trovava lì, che non fosse del tutto estraneo al laboratorio di guerra batteriologica di Porton Down, nel Wiltshire.

Mi era già capitato di occuparmi di geni come lui, li avevo tenuti per mano in ambienti ostili, li avevo scortati in luoghi dove nessuno dei due avrebbe dovuto trovarsi, e in genere mi limitavo a metterli in grado di por-tare avanti il loro lavoro. Meno sapevo e meno casini avrei avuto se le cose si fossero messe male. Sono lavori che hanno la tendenza a tornare indie-tro, con un calcio nei coglioni. Ma una cosa non riuscivo a capire: Tony e quelli come lui avevano cervelli grandi come mongolfiere e passavano la vita alle prese con i segreti dell'universo; come diavolo era possibile che non fossero in grado di preparare un caffè?

Un container, aviotrasportato insieme a noi dalla RAF, era stato portato a Fort Hood e da lì rimorchiato sul posto. Le chiavi le aveva Tony. A me dava l'impressione di essere un pacifista, quindi forse era pieno di polveri-na magica che ci avrebbe fatto ballare tutti insieme davanti agli edifici, ma avevo i miei dubbi. L'FBI si era dimostrata piuttosto interessata a mettere le mani sui congegni di intercettazione installati da Charlie, ma quello che volevano realmente era il contenuto della testa di Tony. Era un esperto mondiale di gas avanzati e si dava del tu con tutte le molecole dell'univer-so, ma soprattutto sapeva con esattezza come mescolarle per ottenere effet-ti diversi, uccidere, immobilizzare, o invalidare al punto da poter solo stri-sciare.

Dalla tenda del comando del Pod Alpha si levò una sarabanda di ordini sbraitati a tutto volume. L'agente speciale Jim D. «chiamatemi Buster» Ba-stendorf si schiariva la gola per la sessione del mattino quando impartiva gli ordini ai comandanti del nuovo turno, vale a dire un gran cazziatone per tutti. O almeno così sembrava.

A Bastendorf piaceva davvero essere chiamato Buster, ma non ci met-

temmo molto a ribattezzarlo Bastardo Sordo e, visto che era troppo lungo, Bastardo e basta.

Bastardo era texano e quindi aveva tutto - spalle, braccia, mani e soprat-tutto pancia - più grosso del dovuto. Non gli avrebbe fatto per niente male evitare le bistecche con l'osso da un chilo dopo Natale. Rigoroso taglio mi-litare di capelli e baffi alla Kaiser Guglielmo generosamente impomatati. Rigirava in continuazione le punte verso l'alto come se lasciarle cadere fosse un segno di debolezza. Sissignore, Jim D. Bastendorf sapeva esatta-mente qual era il suo dovere: calci nel culo, teste fracassate, problema ri-solto.

Tutto era una battaglia per lui; ciascun minuto di ciascun giorno una lot-ta che doveva vincere. Masticava tabacco senza un attimo di pausa, ogni quarto d'ora sputava una poltiglia nera ricoperta di saliva in un bicchiere di plastica, ne staccava un altro pezzo dalla scatola di latta che teneva nella tasca posteriore e riprendeva a masticare.

I nostri problemi con lui cominciarono con la pronuncia di Tony. Ogni volta che Tony domandava qualcosa od offriva un suggerimento, si limita-va a guardarlo privo d'espressione e lo definiva «quel finocchio britannico del vagone» che «non sa distinguere la merda dal lucido da scarpe». Io ero 'l'altro inutile inglese che continua a fare domande troppo stupide': «Cos'è questo? A cosa serve quello? Credete davvero che tenerli svegli venti-quattr'ore al giorno per sette giorni su sette li farà uscire da là dentro?»

A pensarci bene, non avevo idea di cosa cazzo stessimo facendo lì. L'in-contro con lui era stato breve e chiaro. Se non gli stavamo fra i coglioni, se portavamo il regolamentare pass azzurro appeso al collo e se eravamo pronti a condividere la sua visione della situazione, e cioè che avremmo bighellonato come inetti incapaci finché lui non avesse risalito la collina come il Quinto Cavalleggeri alla carica, allora potevamo restare anche per sempre, per quello che gliene fregava. Mi stava bene, neanche a me impor-tava. Se Bastardo non voleva ascoltare nessuno, non era un problema mio. Ai davidiani era stata tagliata la fornitura dell'acqua, quindi abbastanza presto sarebbero stati spinti dalla fame, dalla sete o dell'inedia a uscire, per cui io mi sarei limitato a preparare il caffè a Tony fino alla comparsa delle bandiere bianche.

Udii Bastardo ridere fragorosamente. Qualcuno strepitava l'ordine di raggiungere il comando. Stava succedendo qualcosa.

«Chiudete quelle bocche del cazzo!» tuonò Bastardo. «Ascoltate, co-mincia lo spettacolo!»

Aprii la lampo del sacco a pelo e mi alzai in piedi. Si sentiva un suono nuovo, oltre al lamento dei conigli e al fragore dei cingoli. Bastardo aveva girato un interruttore per far ascoltare ai suoi il dialogo fra i negoziatori e i davidiani.

Una bambina di non più di cinque anni era al telefono all'interno del complesso. Sullo sfondo pianti soffocati. «Mi ucciderai?» chiese la vocina infantile.

6

Il negoziatore si trovava in una base dell'aviazione americana distante

chilometri, altro errore tattico. Parlava con calma, mentre i ragazzi di Ba-stardo nella tenda del comando urlavano e fischiavano. «No, piccolina, nessuno verrà a ucciderti.»

«Sei sicuro? I carri armati sono sempre lì fuori...» «I carri armati non ti faranno del male, piccolina.» Dalla comunità si inserì una voce maschile. «Perché permettete ai vostri

uomini di calarsi i pantaloni davanti alle nostre donne?» Era incazzato ne-ro. «Le nostre sono donne per bene, non ci si comporta così. Come pos-siamo fidarci di voi?»

Bastardo scoppiò a ridere. «Era l'ora che quelle puttane vedessero chiap-pe di prima qualità!»

Da quanto si sentiva, i suoi ragazzi erano d'accordo con lui. Avrei scommesso che stavano mostrando il culo all'altoparlante.

Scambiai un'occhiata con Tony che fissava il suo caffè. Ascoltammo il negoziatore che cercava di confezionare una risposta plausibile. «Sapete come sono fatti quelli che guidano elicotteri e carri armati: non hanno la nostra mentalità. Cercherò di fare qualcosa, d'accordo?»

Bastardo scoppiò in una risata sguaiata. «Cazzate, e 'fanculo a te, Signor Mentalità! Tu continua a parlare e lascia il lavoro pesante ai ragazzi più grandi.»

Si sentì un altro applauso. Riuscivo a immaginare i ragazzi più grandi calarsi di nuovo le mutande e agitare il culo.

Presi un sorso di caffè. Qualsiasi cosa dicesse il negoziatore, per Koresh e il suo gruppo non si metteva bene. L'ATF aveva ignorato l'invito dei da-vidiani a entrare e ispezionare il posto per controllare la presenza di armi o altro, e aveva invece montato un'azione armata in grande stile.

Forse si trattava di una coincidenza, ma in quel periodo l'ATF era in de-

bito di credibilità a Washington ed era tempo di bilanci e stanziamenti. Era chiaro che volevano farsi pubblicità, avevano invitato i giornalisti e li ave-vano fatti sedere in prima fila. Anche le loro telecamere erano in funzione, guai a correre il rischio di perdersi qualche fase dell'azione.

I davidiani avevano intuito che qualcosa non andava per il verso giusto quando avevano visto gli operatori montare le attrezzature. I loro sospetti erano stati confermati dall'arrivo degli elicotteri che volteggiavano sul re-tro della tenuta, per distrarre l'attenzione dai carri bestiame pieni di agenti dell'ATF, armati fino ai denti, che raggiungevano l'ingresso principale, ma anche perché gli americani potessero vedere sullo schermo della TV come erano spesi i dollari delle loro tasse.

I davidiani avevano risposto al fuoco, era un loro diritto sancito dalla legge. Avevano anche chiamato il 911 per informare la polizia che erano attaccati e chiedere soccorso.

La sparatoria era durata più di un'ora, la più lunga nella storia delle forze dell'ordine americane. Alla fine, quattro agenti dell'ATF giacevano a terra morti e altri sedici risultavano feriti. Quando il fratellino viene preso a cal-ci, arriva il fratello maggiore a sistemare le cose. Subentrò l'FBI. Da quel momento i davidiani erano condannati. Quel film non avrebbe avuto un lieto fine.

Tony prese un sorso di caffè e mi guardò con occhi tristi mentre ascolta-va il seguito.

I davidiani chiedevano acqua... I negoziatori replicarono che, loro malgrado, non erano in grado di im-

partire ordini. Avevano le mani legate. Stavano cominciando a morire di sete... Forse l'FBI avrebbe potuto fare qualcosa se alcuni membri della setta

fossero usciti e si fossero arresi. Un segnale di buona volontà. Cosa ne pensavano?

Tony era un vero pesce fuor d'acqua. Non gli piaceva il rumore dei carri armati, non gli piacevano le urla che erano parte integrante della divisa delle forze dell'ordine. E in particolare non sopportava quando comincia-vano a sparare. In quel preciso momento avrebbe dato tutto ciò che posse-deva pur di trovarsi rintanato nel suo laboratorio a somministrare gas esila-rante al topo Roland o qualsiasi altra cosa facesse la gente come lui. Ab-bozzò un sorriso coraggioso. «Un altro giorno, un altro dollaro, eh?»

«Più facile dirlo che farlo, amico.» Cercai di mostrarmi ottimista per lui. «Meglio non angosciarsi per quello che non si può cambiare. Ti farà venire

il mal di testa.» Tony distolse lo sguardo. Fissò senza vedere la parete del carro mentre il

pubblico di Bastendorf continuava a divertirsi alla grande.

7 Non ero particolarmente interessato alla piega degli avvenimenti. Avevo

solo una gran voglia di tornarmene a Hereford e allo squadrone. Entro due mesi avrei lasciato il reggimento e dovevo risolvere alcune faccende. Non che avessi molto da organizzare. La Ditta (Secret Intelligence Service, Servizi segreti) si sarebbe occupata di tutto: sistemare i conti correnti ban-cari e impossessarsi della mia vita.

In Algeria dal 1992, anno in cui avevano conquistato il potere con le ar-mi, i fondamentalisti islamici effettuavano una strage dietro l'altra. La vio-lenta campagna terroristica era diretta verso un ampio spettro di bersagli: civili, leader storici dell'opposizione, giornalisti, artisti, studiosi e stranieri, soprattutto stranieri dell'industria del petrolio.

C'era una forte richiesta di guardie del corpo per i petrolieri e le piatta-forme; lo stipendio era il triplo di quello che prendevo io, non c'era da pen-sarci troppo. Perché fermarsi altri cinque anni nel reggimento, per poi fini-re a fare lo stesso lavoro? Perché non cominciare subito? Di lì a cinque an-ni sarei stato comunque fuori, mi piacesse o no. L'esercito mi aveva pulito il culo da quando mi ero arruolato a sedici anni. Usavano non più di tre fo-gli alla volta - uno in su, uno in giù e uno per le rifiniture - ma continuavo a chiedermi come sarebbe stato reggermi sulle mie gambe. Fine del tor-mento, l'avrei scoperto presto.

Consegnato il preavviso, la Ditta mi aveva contattato per un appunta-mento una settimana più tardi. Non avevo ancora chiaro perché ma non m'importava. Non avrei più dovuto compilare il modulo delle tasse né pa-gare l'affitto. Cosa volevano da me l'avrei scoperto presto.

Stavo per proporre di raggiungere la mensa per vedere a che punto era la coda, quando dal complesso arrivò una scarica di rumori fortissimi.

«Ma cosa fate? Ci sono dei bambini, volete far del male ai bambini?» Il negoziatore passò immediatamente a un tono di voce neutro. Bastardo

e i suoi smisero di fare casino per ascoltare. «Non aprite il fuoco. Questo non è un assalto. Non entreremo nel complesso. Ripeto, non sparate, non è un assalto.»

La comunicazione venne interrotta. Poco dopo gli altoparlanti dei carri

armati ripresero a trasmettere ad alto volume e con lo stesso tono monoto-no del negoziatore. «L'assedio è finito, non sparate. Questo non è un assal-to. Non è un assalto, non sparate.»

Tony e io posammo le tazze e ci precipitammo in fondo al carro per ve-dere meglio. Tre CEV cingolati (Combat Engineer Vehicle, veicolo da combattimento del genio), mostri armati con un colossale ariete sul muso, rombavano in cerchio attorno agli edifici. Uno penetrò in un muro come un dito attraverso la carta bagnata.

Riflettori e Nightsun torturavano il bersaglio. Un altro CEV spinse l'arie-te nell'angolo più lontano della costruzione e si bloccò.

«Oh mio Dio, oh mio Dio...» Tony non riusciva quasi a parlare. I riflet-tori danzavano ancora come dervisci quando il terzo CEV fu inghiottito per metà all'interno.

«Questo non è un attacco», sbraitarono gli altoparlanti. «Non aprite il fuoco.»

Tony non riusciva a credere ai suoi occhi. «Se questo non è un attacco, allora cosa cazzo è? Guarda, Nick, guarda...»

Io guardavo, e circa duecento agenti dell'ordine pubblico stavano fissan-do la scena insieme a me, in piedi sul tetto dei veicoli. Alcuni avevano le macchine fotografiche puntate, pronti a portare a casa qualche scatto.

Tony scavalcò il cancello del vagone come un bambino imbranato. Giunto a terra scattò di corsa verso il Pod Alpha.

Lo seguii. Tubi pieni d'aria compressa reggevano la struttura. All'esterno ronzava un generatore. Era un comando americano, quindi dotato di aria condizionata. L'aria calda ci colpì in viso. C'era un forte odore di caffè. Fumare era proibito, come ricordavano i molti cartelli appesi. Fa sempre bene vedere iniziative per la salute e la sicurezza nelle zone di guerra.

Ogni scrivania rigurgitava di TV e computer, e il pavimento era solcato da fasci di cavi elettrici. Gli operatori radio erano piegati sui loro apparec-chi, ammutoliti. Tutti tenevano gli occhi fissi sugli schermi.

I monitor inquadravano ciascun edificio bersaglio ma non la parte poste-riore. I due video dedicati al retro erano neri e mossi. Due schermi mostra-vano le riprese aeree del P3 che sorvolava il campo a ottomila metri di al-tezza. Le immagini termiche e dell'infrarosso sembravano negativi in bian-co e nero. Una forte luce bianca indicava il calore dei gas di scarico del CEV sul retro della costruzione, poi fiamme bianche quando l'autista scalò la marcia prima di speronare il muro.

Bastardo stava in piedi davanti agli schermi e si capiva che quanto vede-

va gli piaceva molto. «Eccovi serviti!» urlò verso lo schermo. Poi borbottò piano qualcosa ai

suoi e sputò saliva e tabacco nel bicchiere di plastica. Gli altri unirono i lo-ro incitamenti.

«Attenta, mammina!» Trenta secondi dopo il veicolo ingranò la retromarcia. «Ehi, Koresh, ti piace il nuovo deodorante?» «Ti accorgerai che il culo del carro armato puzza più del nostro!» Guardai Tony. «Gas?» «Iniettano veleno come zanzare.» L'FBI aveva perso la pazienza. Li avrebbero gasati e quindi catturati

mentre barcollavano fuori fra rantoli e colpi di tosse, perdendo liquidi da ogni orifizio. La fermata successiva sarebbe stata il pianale di un carro o un'ambulanza per raggiungere il pronto soccorso cittadino. Dopo di che li avrebbero arrestati.

«Buone notizie.» Sorrisi a Tony. «Ci vedo già su un aereo verso casa.» Ma Tony non rideva. Si avvicinò a grandi passi a Bastardo. «Che gas

usate?» Bastardo non staccò gli occhi dai monitor. Scrollò le spalle. «Che ne so,

vecchio mio, il gas è gas.» Tony era agitato, si guardò attorno in cerca di qualche supporto morale.

Non ne trovò. Anzi, un paio di uomini di Bastendorf ghignavano, pregu-stando il divertimento. Tony puntò il dito verso un monitor mentre un altro CEV si schiantava contro il bersaglio. «Hanno maschere antigas là dentro? E i bambini? In spazi così ristretti li ucciderete! Perché non escono anco-ra?»

Bastardo lo ignorò. Fuori riprese la sinfonia di animali sgozzati e un al-tro CEV andò a incastrarsi nel muro. Rimase fermo per venti secondi e poi si staccò. Un'altra zanzara che inoculava veleno.

Bastardo era immobile, incollato ai monitor. Tony gli afferrò una spalla e lo fece girare, aveva il viso a un centimetro

dal suo. «Li ucciderete, non capisci?» Aveva la voce strozzata per l'emo-zione. «Moriranno tutti!»

Bastardo ghignò beffardo. «Non ti riguarda, figliolo. Togliti di mezzo, ho da fare.»

Nessuno fiatò. Io ero rimasto sulla soglia. La visibilità era ormai buona. Dagli spettatori lungo il cordone si levò un applauso.

Scrutai il perimetro e capii. Dov'erano le ambulanze per i feriti? Dov'erano quelli che dovevano regi-

strare i prigionieri? E i furgoni per portarli via? Perché stavano tutti a guardare invece di partecipare all'azione?

8

Mi voltai. Bastardo aveva raggiunto il limite della sopportazione. «Leva-

ti dai coglioni, finocchio! E comunque, cosa cazzo ci fate qui, voi ingle-si?»

Bastardo sollevò una mano grande come una vanga e la spinse contro il viso di Tony. Lui non era fatto per dormire per terra e non aveva il fisico per essere preso a sberle. Barcollò all'indietro e cadde addosso a un radio-fonista. Il ragazzo si alzò ma non per aiutarlo. Quella era roba del capo.

Con tre passi veloci mi misi in mezzo. Nella tenda del comando calò il silenzio, rotto soltanto dai conigli e dai cingoli dei CEV. Bastardo non a-veva bisogno di parlare. La sua espressione diceva tutto. Tony era riverso sulla scrivania del radiofonista, sul punto di scivolare a terra.

«Lo porto via io. Mi dispiace, non è abituato a vedere cose del genere. Te lo tolgo dai piedi.» Sollevai la mano in segno di pace.

Ma Bastardo era troppo arrogante per smettere. Mi piantò un dito in mezzo al torace. «E tu chi cazzo sei? Un altro finocchio di inglese?»

Ero lì per proteggere il genio. Mantenni la calma. Tony mi urtò le gambe con le spalle mentre tentava di alzarsi.

Allungai una mano e toccai la giacca di Bastardo. Era dura. Lo stronzo indossava il giubbotto antiproiettile. Guardai a destra e a sinistra per intui-re quanti sarebbero stati dalla sua. Tutti, mi risposi.

Non sarei riuscito a spuntarla. Bastardo era grande e grosso e tutti i suoi erano pronti a unirsi alla mischia alla prima reazione. Se era scritto che fra noi ci sarebbe stato il giorno della resa dei conti, quel giorno non era anco-ra giunto.

«Adesso noi andiamo.» Tenevo gli occhi fissi nei suoi. «Non è roba per lui.»

Uno dei ragazzi della tenda si avvicinò a Bastardo e gli posò una mano sulla spalla. «Lascia perdere, Buster. Sono stati mandati per aiutare. Rap-porti speciali, lo sai...»

Bastardo mi fissò minaccioso, digrignando i denti, mentre soppesava il da farsi. Non staccò mai gli occhi dai miei. Poi, senza una parola, girò sui

tacchi. Condussi via Tony che non mi seguì volentieri. Lui voleva delle rispo-

ste. Fuori, si vedeva la bandiera americana sull'antenna di un CEV che gira-

va attorno al complesso. Non era l'unica Stelle e Strisce che svolazzava. Mi chiesi se qualcuno si fosse accorto di quella, molto più grande, appesa al palo dei davidiani.

I cingoli dei carri armati avevano torturato il terreno circostante così a lungo da farlo sembrare quello della battaglia della Somme. Il vento si era alzato, spazzando l'immondizia dei bidoni che erano stati schiacciati.

Tenevo un braccio sulle spalle di Tony per dirigerlo verso il nostro car-ro. Non voleva andarci. «Devo controllare una cosa.»

«Cosa possiamo fare? C'è...» Tony si liberò e cominciò a correre. Il container d'acciaio trasportato dal-

la RAF si trovava a circa duecento metri di distanza. Lo seguii. Non c'era niente di male e comunque si sarebbe allontanato

dal Pod Alpha di duecento metri. Mentre ci avvicinavamo vidi che il container affondava nel terreno di

quattro centimetri o qualcosa di più. Quando fummo vicini notai il solco a semicerchio nel terreno lasciato dalle porte. Erano state aperte. Il lucchetto tranciato.

Tony era talmente furioso che quasi non riusciva a respirare. «Non ne avevano il diritto, Nick. Tu conosci i patti. Erano autorizzati a prenderlo solo dopo avermi consultato. In nome di Dio, Nick, cos'hanno fatto?»

Guardai dentro. Mancavano diversi bidoni di media grandezza. Il gas contenuto all'interno era talmente pressurizzato, mi aveva spiegato Tony, da risultare allo stato solido; tolti i sigilli, degradava in particelle sottili che potevano essere pompate a pressione in una struttura.

Tony si appoggiò al container come se gli avessero sferrato un pugno al-lo stomaco. Non me ne ero accorto prima, ma i lamenti degli animali erano cessati. Gli unici suoni erano lo sferragliare dei cingoli e Nancy Sinatra che cantava These Boots Are Made for Walking. Raffiche di vento percor-revano la prateria. Chiusi le porte del container.

Un'ovazione si levò dal pubblico. Tony seguì con lo sguardo il fermento di attività lungo i molti 4x4 sulla strada che portava al cordone che delimi-tava l'area. Con i binocoli puntati, gli amanti del brivido erano al massimo dell'eccitazione mentre masticavano ciambelle fresche per colazione. Nel giro di un paio d'ore la fiera sarebbe ricominciata, e le bancarelle delle no-

vità avrebbero sfornato enormi quantità di magliette DAVIDIANI 4 - ATF 0. Ma a quel punto il risultato era cambiato.

Mi appoggiai al container accanto a Tony. Alcuni poliziotti con il giub-botto antiproiettile e l'M16 in spalla si aggiravano in modo disordinato con tazze di caffè e panini alle uova fra le mani, ansiosi di riuscire a conquista-re un buon posto da cui godersi lo spettacolo.

Tony scosse la testa. Non riusciva a crederci. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Moriranno là dentro, Nick. Non usciranno vivi. Forse alcuni bambini sono già morti. Dobbiamo fermarli. Con chi dobbiamo parlare? Chi chiamiamo? È una follia!»

Voltai la testa. «Non riuscirai a fermare proprio niente, amico mio. Ma guardali.» Gli uomini in BDU scattavano una foto dietro l'altra e cantavano insieme a Nancy. «Non serve a niente frustare un cavallo morto.»

Le lacrime gli rigavano il viso. «Cosa? Ma cosa stai dicendo?» «Cosa cazzo credi che stia succedendo? Guarda.» Indicai i CEV che si

aggiravano minacciosi nel complesso. «E ti lascio immaginare quello che succede dietro gli edifici. Perché pensi che abbiano tagliato le comunica-zioni? È tutto organizzato. Li vogliono morti.»

Gli crollò il mento. Tony non aveva la mentalità da Rambo di quelli den-tro i carri armati e gli elicotteri. Tony inventava giocattoli per loro, ma era chiaro che non era abituato a partecipare al gioco.

«Guardali, non sono loro a prendere le decisioni. Gli ordini arrivano da stipendi molto più alti. Questi si divertono a eseguirli. Dammi retta, molto più in alto. E puoi scommettere fino all'ultimo dollaro che non avrebbero toccato il tuo gas se l'Inghilterra non avesse dato il permesso. Appena han-no messo le mani sulla tua attrezzatura, ti hanno sbattuto fuori dal piano.»

«Ma ci sono donne e bambini là dentro. Li uccideranno! Qualcuno deve fare qualcosa!»

Gli posai una mano sulla spalla per farlo smettere di saltellare e anche per essere sicuro che non scappasse di nuovo cercando di fare qualcosa cui non sarei riuscito a porre rimedio. «Ascolta. Da quando è iniziata questa storia hanno descritto Koresh e i suoi come adoratori di Satana. Prova a immaginare come pensa Buster. È un mondo in bianco e nero, e gli altri stanno dalla parte dei cattivi.»

Tony si teneva la testa fra le mani e gli tremavano le spalle. «Io vado a scaldare l'acqua.» Gli diedi una pacca sulle spalle. «Caffè?» Cos'altro c'era da dire?

9 Alle undici, nel mio punto di osservazione privilegiato sul tetto del carro

bestiame cominciava a fare caldo. Avevo portato a Tony numerosi caffè, ma a quanto avevo potuto constatare l'ultima volta che ero andato da lui non ne aveva toccato neppure uno. Se ne stava immobile con il culo nel fango e la schiena contro il container.

Mi sfilai la giacca e tirai su le maniche della felpa. Raffiche di vento so-spingevano rotoli di rovi nella foschia di calore tra la nostra postazione e il bersaglio. Per come si presentava la situazione, non mi sarei stupito di ve-der entrare in azione Clint Eastwood.

Dagli edifici non era uscito ancora nessuno. Forse il gas li aveva già uc-cisi, forse avevano preferito il suicidio piuttosto che arrendersi, forse Ko-resh li teneva prigionieri. Mi domandai cosa fosse successo sul retro. Non riuscivo a vedere, ma ero in grado di riconoscere il rumore dei fucili auto-matici quando lo sentivo. I nostri, i loro o tutti insieme? Chi poteva dirlo? A quel punto della giornata spettava soltanto alle due parti decidere di farsi fuori a vicenda. Io volevo solo che finisse tutto per far fagotto e tornarme-ne a casa. Forse mi sarei anche comprato una maglietta ricordo.

Mi voltai per controllare Tony. Era sempre lì, perso nel suo piccolo mondo. L'insistente rumore di un CEV che tornava alla carica mi costrinse a puntare lo sguardo verso il bersaglio. Si preparava un altro scontro, men-tre Nancy Sinatra veniva rimpiazzata dalla voce metallica: «Non è un at-tacco, non sparate». Come se ripetere all'infinito il messaggio potesse con-vincere tutti che fosse vero.

Il turno di notte dei poliziotti e degli sceriffi era finito da ore, ma erano rimasti per assistere al gran finale. Ora cominciavano a dar segni di noia. Se Tony non si sbagliava, i davidiani dovevano essere quasi tutti morti. Al-lora perché l'FBI non faceva entrare in azione le squadre con le maschere antigas alla ricerca dei superstiti? Non provavo simpatia per gli adulti del gruppo, ma i bambini non avevano chiesto di essere lì.

Sentii un urlo infuriato provenire dalle parti della tenda del comando. Saltai in piedi per riuscire a vedere meglio.

Tony e Bastardo erano l'uno di fronte all'altro. Tony era sul punto di sal-tare alla gola di Bastardo e lo faceva arretrare, mentre l'agente dell'FBI cercava di passare. Si era formato un capannello. Ma sapevo che nessuno sarebbe intervenuto. Il linguaggio del corpo di Bastardo comunicava con chiarezza che avrebbe affrontato da solo la questione.

10

Saltai giù e mi precipitai verso di loro. Quel giorno Tony mi stava fa-

cendo sudare lo stipendio. Mi aprii a gomitate un varco tra la folla. «Tony, calmati. Va tutto bene.» Non mosse un muscolo. Teneva gli occhi gonfi e rossi fissi su Bastardo. «No, non va tutto bene.» Puntò un dito verso gli edifici. «Hai un'idea di

quello che succede là dentro?» Stavo per rispondere ma capii che la domanda non era rivolta a me.

«Sono morti tutti in modo orribile. Il gas è lo stesso che viene usato per le condanne a morte. Lo sapevi?»

Figurarsi se Bastardo si preoccupava di rispondere. Tony, in ogni caso, non gliene avrebbe dato il tempo. «Lo sai perché legano gli uomini prima di premere il bottone?»

Neppure un battito di ciglia da parte di Bastardo. Ma tutti gli altri aspet-tavano la spiegazione di Tony.

«Perché i muscoli si contraggono con tale violenza da spezzare tutte le ossa del corpo della vittima. È questo che sta accadendo alle donne e ai bambini là dentro!»

Bastardo fissò Tony con sguardo inespressivo. «Tutti noi siamo qui per portare a termine il lavoro. Tu che cazzo di problema hai?»

«Te lo dico subito qual è il mio problema.» Si avvicinò di un passo. «I locali sono troppo piccoli. Li state uccidendo!»

Bastardo tolse i freni al sorriso che gli si allargò spietato sul volto. Si gi-rò verso di me e parlò con voce così calma da dare i brividi. «Informa que-sta mezzasega del tuo amico che quella è gente cattiva. Sono fanatici reli-giosi che...»

«Fanatici? La ragazzina che abbiamo sentito parlare avrà avuto sì e no cinque anni!» Schizzi di saliva gli uscivano dalla bocca. «Cosa state fa-cendo? Cosa succede? È pura follia! È omicidio!»

Bastardo lo guardò dall'alto in basso mentre si asciugava il viso. «Omi-cidio? Bene. Allora manda giù questo. È il tuo gas del cazzo, e questo ti rende complice.»

Tony arretrò, scioccato. Bastardo si divertiva un mondo. «Fa male? Ti prende alla gola, vero?»

Si guardò attorno per condividere il momento con la folla. «Ora che ci penso, non è così che fa anche il tuo gas?»

Era troppo, per Tony. Cercò di sferrargli un pugno, ma Bastardo era più rapido e lo colpì per primo in mezzo al torace. Quando ritrasse la mano per colpirlo di nuovo, mi spostai dietro di lui, gli afferrai il braccio e tirai con forza. Girò sul posto di centottanta gradi.

Bastardo riprese in fretta posizione di fronte a me che ero rimasto im-mobile, invece di attaccarlo con una combinazione di pugni per mandarlo a tappeto. Era la cosa giusta da fare; dopotutto non se l'era presa con me. Aveva perso la faccia e doveva rimediare, giusto, ma non potevo lasciar-glielo fare. Era così forte che, se uno dei suoi pugni mi avesse colpito, a-vrei avuto bisogno di una di quelle ambulanze inesistenti. Ma adesso non avevo tempo per preoccuparmene: ormai era tardi.

Bastardo fece un passo verso di me, ma in quel momento dalle auto si levò un urlo, un misto di paura e gioia. «Fuoco! Fuoco!»

Bastardo girò la testa. Afferrai Tony. «Raccogli tutto, portiamo via i co-glioni.»

Mentre correvamo vidi quattro o cinque pennacchi di fumo salire dai tet-ti del complesso. Anche se i vigili del fuoco fossero stati sul posto, la combinazione fra il caldo del giorno, il vento e il gas, che al momento do-veva essere sotto forma di polvere sottile, rendeva le probabilità di spe-gnerlo pari a zero.

Con perfetto tempismo un poliziotto saltò giù da un carro, coprì qualche metro di corsa in direzione del campo e poi si voltò verso la folla. Dispie-gò la bandiera dell'ATF in modo che tutti potessero vederla. «È una stufa dalla pancia grossa», urlò quasi divertito, «apriamola e bruciamoli tutti, questi bastardi!»

Sventolò la bandiera e dozzine di uomini inneggiarono e urlarono. Sullo sfondo sentii il suono di un organetto. La fiera era ripartita.

PARTE SECONDA

1

Noosa, Queensland

Giovedì 21 aprile 2005 Il sole mi stava arrostendo il collo del piede, ma ci misi parecchio prima

di accorgermene. La sabbia davanti a me era di un bianco troppo accecante e l'azzurro del mare troppo splendente.

Spostai il piede sotto il tavolo e mi sporsi in avanti per succhiare l'ultimo sorso del frullato. Facevo sempre dei rumoracci con i rimasugli, per prin-cipio. Non che importasse qualcosa a quelli del Surf Club, erano tutti trop-po impegnati a spazzolare e ripulire i colossali vassoi di cibo che Silky e io avevamo appena messo da parte.

Mentre aspettavo che tornasse con i gelati, tirai un'ultima sorsata rumo-rosa e ripresi ad ammirare il panorama. Sole, mare, sabbia e migliaia di chilometri di boscaglia alle spalle. Sì, andare lì era stata la scelta giusta.

Silky tornò con due coni che le gocciolavano già sulle mani. Mi passò quello al cioccolato.

«Sai che non riesco a credere che tu volessi andare in giro per l'America invece di venire qui?» Silky si leccò un po' di tutti-frutti dalla mano libera e sedette. «Ho appena visto George Bush alla televisione. Ha annunciato che Iran e Siria sono i prossimi della lista. Io non riesco a capirlo. Ma che problemi ha quell'uomo?»

Silky era di Berlino. La conoscevo da tre mesi e il suo modo di parlare continuava a ricordarmi i film di guerra in bianco e nero che vedevo da bambino.

«Ma perché non si limita a parlare con loro?» Spostò una ciocca dei ca-pelli biondi lunghi fino alle spalle dietro l'orecchio per liberare il viso, e si dedicò con maggiore attenzione al cono. «Sono stata in Siria, sono un po-polo simpatico.»

«Colpa tua perché hai guardato la televisione.» Mi raddrizzai. «Io non leggo più neppure i giornali. Tutte cazzate. E con un panorama del gene-re», dissi con un cenno verso le onde che si frangevano sulla sabbia, «cosa si può volere di più?»

Si girò di scatto e mi trafisse con i suoi occhioni azzurri sopra gli occhia-li da sole. «Osi chiederlo dopo la notte scorsa?»

Sorrisi. «L'oceano sarà ancora qui, domani. Ma ci sarà Silky? Difficile dirlo con voi hippy.»

Inarcò un sopracciglio. «Anche se Bush continua ad aggiungere nomi al-la sua lista, Nick, questo non vuol dire che tu devi cancellarne dalla tua...»

«Sono fatto così. Soltanto bagaglio a mano.» Silky annuì pensierosa, posò ciò che restava del cono sul piatto e si pulì

le mani. «Che Bush viva il suo sogno.» Tornai a guardare il mare. Una riga di

surfisti dominò egregiamente un'onda. «Io vivrò il mio.» Ed era così. Facevo la vita del vagabondo in giro per l'Australia, con l'at-

trezzatura per i lanci nel bagagliaio e un'autostoppista al fianco. L'unico momento di stress di ogni giornata era decidere se rimediare la figura dello scemo su una tavola da surf o dedicarmi a qualcosa che conoscevo bene: lanciarmi da un aereo. Un unico codice di abbigliamento, maglietta, panta-loni corti e infradito di gomma, oltre alla miriade di braccialetti dell'amici-zia che avevo accumulato al polso negli ultimi mesi. I soldi non costitui-vano un problema. Quando ero senza, andavo a un boogie (raduno di para-cadutisti per lancio libero) e piegavo l'attrezzatura. Nessun rimpianto per aver cestinato il piano A: comprare una moto e girare gli Stati Uniti. Era bastata un'occhiata alle previsioni della CNN per il mese di novembre quando ero a Washington.

Silky guardò l'ora. «Ci conviene partire se vogliamo arrivare prima di sera.»

«Davvero vuoi accompagnarmi?» «Certo. Voglio conoscere i tuoi amici.» Si alzò e sistemò i calzoncini

Levi's. «E poi noi hippy non rifiutiamo mai la possibilità di un letto gra-tis.»

Ci dirigemmo verso la macchina. Mi piaceva che tutti gii uomini presen-ti si voltassero a guardarla mentre si passava una mano sulle lunghe gambe abbronzate per togliere la sabbia. Aveva recepito alla lettera il mio discor-setto sulla sabbia. Quella roba doveva restare sulla spiaggia, al suo posto, e non in macchina né in tenda.

Il sole mi batteva feroce sulle spalle e sulla testa, e sapevo cosa ci aspet-tava. Dentro, il tozzo Combi VW del 1980 color senape era un forno. Il ti-po che me l'aveva venduto a Sydney mi aveva regalato il pieghevole di stagnola per il parabrezza, ma scordavo sempre di metterlo.

Silky effettuò un ultimo controllo sabbia e gettò un telo da mare sul se-dile bollente.

«Vedrai che mentre andiamo si raffredda», dissi. «Cosa si raffredda?» chiese imbronciata. «Il furgone o noi?» Il Combi con l'aria condizionata ansimò lentamente fuori dal parcheggio

e in mezzo al traffico delle strade della cittadina turistica. Sembrava che avesse fatto il giro del pianeta un paio di volte, figurarsi di un solo conti-nente. Speravo che non esalasse l'ultimo respiro prima di tornare a Sydney, dove, dopo una radicale eliminazione degli strati di moscerini spiaccicati, avevo intenzione di rivenderlo a un altro gonzo come me.

Imboccammo l'autostrada sud in direzione Brisbane e subito misi il pilo-ta automatico, gomiti sul volante e sguardo fisso sul nastro di asfalto, at-

traverso la luccicante foschia da calura. Silky selezionò una cassetta dalla scatola da scarpe alloggiata in mezzo a noi. Non ne erano rimaste molte di integre: un pomeriggio l'aveva dimenticata sul sedile e si erano sciolte quasi tutte, tanto da poter entrare a buon diritto in una tela di Salvador Da-lí.

La voce dei Libertines uscì dai gracchianti altoparlanti nelle portiere e cominciò la gara con il vento dei finestrini laterali.

Silky si sistemò sul sedile e poggiò i piedi, senza togliere i sandali, sul cruscotto. Dopo un paio di canzoni si voltò verso di me. «Siamo un'ottima accoppiata, vero?»

Non so dove avesse preso quell'espressione, ma aveva ragione: andare lì e incontrarla erano state le cose migliori che avessi mai fatto.

Senza troppi ripensamenti avevo liquidato George, di cui non ero mai riuscito a scoprire neppure per quale dipartimento della CIA o del Penta-gono lavorasse, e francamente adesso me ne sbattevo.

Una mattina mi ero svegliato, avevo infilato tutto quello che possedevo in due sacche da pochi soldi e nello zaino ed ero andato in ufficio. A Ge-orge avevo detto la verità. Che ero stufo. Che ero uscito di testa. Ero rima-sto seduto dall'altro lato della sua scrivania in attesa della solita risposta: «Mi servi finché non ti uccidono, o finché non trovo qualcuno meglio di te anche se sei ancora vivo». Ma non era andata così. Tutt'altro. «Sparisci en-tro domattina», mi aveva detto. La guerra sarebbe continuata anche senza di me.

Mentre uscivo dall'ufficio per l'ultima volta, diretto al mio ex apparta-mento per prendere le mie cose, non provavo altro che un senso di sollie-vo. Poi avevo pensato: Cazzo! George avrebbe dovuto impegnarsi come minimo un po' di più per farmi cambiare idea.

Rallentai, sembrava che sul tetto ci fosse un manovale ubriaco che bal-lava il tip-tap. Sapevo bene cos'era quel rumore. Silky saltò a terra e si mi-se in piedi sul predellino. La sua tavola da surf si era di nuovo slegata e il vento minacciava di portarsela via. Le avevo comprato una montagna di elastici nuovi, ma niente, era convinta che due fossero sufficienti, e neppu-re il fatto che dovessimo fermarci tre o quattro volte al giorno minava la sua certezza.

Saltò dentro, richiuse la portiera e mi sorrise, poi riprese a battere il tem-po della musica sulle gambe mentre continuavamo il viaggio. La storia dell'hippy era solo uno scherzo. Ci eravamo incontrati in un boogie vicino a Sydney. Era vicina ai trenta e aveva passato gli ultimi sei o sette anni a

viaggiare, aveva lavorato nei bar, raccolto frutta e fatto l'autostop. Tutto era cominciato con l'anno sabbatico dopo il liceo, poi si era semplicemente dimenticata di tornare a casa. «Le spiagge sono meglio qui che a Berlino», scherzava. «Scommetto che per te è lo stesso.»

Mi aveva chiesto un passaggio verso nord. Perché no? Si trattava soltan-to di qualche migliaio di chilometri in più nel viaggio magico e misterioso che lei chiamava vita. Cominciavo a crederci anch'io.

Silky smise di battere il tempo e frugò sul sedile posteriore per trovare la bottiglia dell'acqua. Tornò accanto a me, sistemò l'asciugamano e me la passò. «Chi è Charlie, esattamente?» Tra i Libertines e la furia del vento era stata costretta a urlare.

«Tindall? Lo conosco da anni. Lavoravamo insieme.» Raccolse i capelli sulla nuca e prese un sorso. «Cosa facevate? Mi ero

messa in testa l'idea che tu lavorassi in un'officina e non in una fattoria.» «È dove si trova adesso, prima facevamo dell'altro, lanci e cose così.» «Si lancia ancora? È questo che andiamo a fare?» Indicò il paracadute

Raider a cinque spicchi sul sedile dietro. «Non lo so. Mi è venuta voglia di vederlo, dato che sono qui. Sai come

capita. Per un certo periodo si è a stretto contatto e poi ci si perde di vista per anni. Ma l'amicizia resta.» Presi la cartina dal sedile e gliela lanciai. «Ma prima dobbiamo riuscire a trovarlo.»

Dopo quattro ore di strade dritte e una sosta per il rifornimento, ci trova-vamo nei pressi di una cittadina che sembrava più uno scioglilingua che una località sulla cartina. Le istruzioni che Charlie mi aveva mandato per e-mail dicevano di superare un negozio con il tetto in lamiera e tre cavalli sellati legati allo steccato. Imboccammo il sentiero sulla sinistra immedia-tamente dopo una cassetta per la posta azzurra, fatta con un bidone del lat-te inchiodato di traverso su un palo.

Un paio di curve dopo, cominciammo a intravedere nella calura una se-rie di tetti di lamiera rossa disposti a casaccio e la torretta con la cisterna per l'acqua. Eravamo arrivati alla fattoria di Charlie. In realtà era di suo genero, ma tutta la famiglia aveva contribuito. Dopo aver venduto la loro casa erano partiti armi e bagagli per l'Australia. Quando Charlie aveva raggiunto la magica età di cinquantacinque anni, la terra del Signore l'ave-va accolto a braccia aperte a patto che si pagasse di tasca sua un'assicura-zione privata per le spese mediche e non si aspettasse che l'Australia gli corrispondesse la pensione. Charlie percepiva la sua da quando aveva la-sciato l'esercito, ma non ero sicuro che gli consentisse di vivere a caviale e

champagne. A suo tempo, quando gli era stata offerta la possibilità di pas-sare a ufficiale, Charlie aveva accettato. Un ufficiale non viene scaricato a quarant'anni ma resta in servizio per altri quindici.

Percorremmo circa un chilometro di strada sterrata fiancheggiata da steccati in legno da entrambi i lati. A circa cento metri dalla casa ci superò una donna a cavallo che gesticolava come una matta. Un berretto da basket le copriva quasi interamente il viso ma vidi comunque un gran sorriso. Rallentai, ma lei ci fece cenno di proseguire. Si fermò poi al cancello e noi continuammo.

«Chi è?» Silky non sembrava gelosa. Una che viaggia sempre non può permetterselo.

«Julie, credo, la figlia. L'ultima volta che l'ho vista aveva diciassette anni e il viso coperto di brufoli. È stato una quindicina di anni fa.»

Fermai il furgone davanti alla casa, accanto a una Land Cruiser vec-chiotta e a un pick-up che aveva visto tempi migliori.

Charlie era sulla veranda per darci il benvenuto, un omone con indosso una maglietta verde. Con i capelli rosso scuro tagliati corti era sulla buona strada per assomigliare a un semaforo. Notai che Silky si sforzava di non fissare sbalordita i calzini grigi che Charlie portava con i sandali. «Non ti preoccupare», le dissi, «mania degli inglesi.»

Hazel uscì e prese sottobraccio il marito. Era vestita più o meno come lui eccetto i calzini. Scesero insieme i gradini per venirci incontro.

Charlie era vicino ai sessanta ma era ancora in forma, non aveva un grammo di grasso in eccesso e i capelli rossi contribuivano a garantirgli un aspetto sano. Però il sole non era stato clemente con la sua pelle, che sem-brava più scottata che abbronzata. Mi porse la mano, piccola e sproporzio-nata rispetto al resto del corpo. Non si era rattrappito con l'età ed era anco-ra più alto di me di dieci centimetri buoni, ma la stretta non era forte come un tempo. «Come va? Sono contento che tu sia venuto.» Mi guardò a lun-go negli occhi perché capissi che stava dicendo la verità.

Finito con lui toccò a Hazel. Posai un braccio sulle spalle di Silky e la presentai.

«Veramente il mio nome si pronuncia Silk-a», mi corresse. «Ma Nick mi chiama Silky, forse è meglio che lo facciate anche voi per non confonder-lo.»

Hazel aveva sempre i capelli lunghi castano scuro e la pelle chiara e non abbronzata; da giovane, le rughe del sorriso si distendevano attorno ai suoi occhi, e la ricordavo allegra dietro il bancone di Dixon, sempre pronta a

mettere a disposizione di ogni membro del reggimento che entrava il suo sconto da impiegata. Adesso sembravano più vecchi e più saggi. Forse an-che più tristi.

Hazel ci invitò a entrare. «Sicuro che non puoi fermarti più di una not-te?»

«No, dobbiamo proseguire. C'è un boogie a Melbourne il nove.» Mentre salivamo i gradini della veranda, Silky prese Charlie sottobrac-

cio. «Ti lanci ancora col paracadute? Nick mi ha detto che lo facevi.» «No.» Mi guardò interrogativo. «Non più.»

2 «Mentre lei si rinfresca, dimmi, cosa sa del lavoro, al di là dei lanci col

paracadute?» Era una domanda che Charlie doveva farmi. Non voleva commettere er-

rori. «Mi crede una specie di carrozziere.» «Con un capo che ti lascia andare in ferie per un anno? O le hai detto

che sei in pensione? Sembra che abbia un debole per gli uomini più anzia-ni.»

Gli sorrisi mentre Hazel entrava in soggiorno portando il vassoio con l'a-ranciata e i bicchieri.

«Nick, non è che sta cercando di venderti un cavallo?» Qualche nota in tedesco giunse dal piano di sopra: Silky si rilassava sot-

to la doccia. «No, mi rimprovera perché non seguo il suo esempio.» «Sei troppo giovane per andare in pensione...» «In realtà mi consigliava di accalappiare una magnifica ragazza come ha

fatto lui.» Hazel sorrise e posò il vassoio. «Ti ha detto che vita stupenda facciamo

qui?» «Non ancora, ma sono sicuro che è solo questione di tempo!» Hazel dispose tutto con cura sul tavolino, riempì tre bicchieri che toc-

cammo in un brindisi muto. Indicai la finestra. «Era Julie che ho incontrato a cavallo?» Il volto di Hazel s'illuminò. «Ci raggiungerà presto. Ha telefonato per

dirci che ti aveva visto.» «Loro due sono così.» Charlie iniziò a intrecciare le dita per far capire

quanto le due donne fossero unite, ma non riuscì a compiere il gesto. L'in-dice sembrava avere una volontà tutta sua. Allora usò il pollice e il migno-lo come se fosse al telefono. «E quando non sono insieme, si attaccano alla cornetta. Ogni giorno dopo la scuola Hazel scambia e-mail con i nipoti.»

«Manutenzione, caro mio.» Hazel mi guardò negli occhi. «Se non tieni controllato il tetto, al primo temporale... Non sei d'accordo, Nick?»

Guardai le foto di famiglia sulla mensola, la solita mescolanza, qualcuna in bianco e nero, altre a colori con cornici di legno o d'argento tutte diver-se. Foto del matrimonio con pettinature anni '70; i loro due figli, Julie e Steven, ai vari stadi: orecchie grandi, senza denti, brufoli... Poi quelle del matrimonio di Julie e dei suoi bambini; sembrava che ne avessero quattro. Evidentemente il clima lì era adatto per allevare altro, oltre ai cavalli.

Posai lo sguardo sulla foto di un giovane in divisa, berretto di fanteria leggera e uniforme da cerimonia, che fissava fiero l'obiettivo, con la ban-diera americana sullo sfondo. La parata per la promozione di Steven dove-va essere stata nel 1990 perché Charlie e io eravamo ancora nel reggimen-to. Quando me l'aveva detto sembrava sul punto di scoppiare d'orgoglio. Di lui però non sapevo molto, tranne che aveva diciassette anni ed era spiccicato suo padre.

«Il tuo ragazzo cosa fa? Sempre dentro?» Hazel abbassò lo sguardo a terra. Avevo detto qualcosa di sbagliato? Poi capii: oltre a quella non c'erano

altre foto di Steven. Charlie si allungò e strinse la mano di Hazel. «È stato ucciso in Koso-

vo», disse piano. «Nel '94. Era stato promosso caporale da poco.» Abbracciò la moglie. Io mi appoggiai allo schienale, in silenzio per non

peggiorare il disastro. «Non ti angosciare, non potevi saperlo. L'abbiamo vissuto con grande ri-

serbo. Non volevamo attorno la GMTV a filmarci mentre sfogliavamo l'al-bum di famiglia.»

Hazel sollevò lo sguardo e fece un sorriso coraggioso. Forse negli ultimi dieci anni era riuscita a superare il peggio, ma doveva essere stato un incu-bo.

Silky, profumata di sapone e shampoo, scivolò nella stanza e ruppe l'at-mosfera. Indossava pantaloni azzurro chiaro e una blusa bianca, e aveva pettinato all'indietro i capelli bagnati.

Cadde un silenzio imbarazzato, Hazel si dedicò a riempire «in altro bic-chiere di aranciata. «Scommetto che ti senti meglio, adesso.»

«Per la doccia o per la cantatina?» Silky sorrise e venne a sedersi accan-to a me. Qualsiasi cosa stesse per aggiungere fu coperta dal suono di un clacson.

«Julie.» Hazel sembrava sollevata. Pochi secondi dopo un trambusto di voci infantili, urla e scricchiolii del

pavimento in legno esplose nella casa. La porta si spalancò e quattro ra-gazzini con i capelli corti dritti sulla testa e la carnagione chiara si precipi-tarono nella stanza. I due più grandi, otto e sette anni, si avvicinarono e mi porsero la mano.

«Tu sei Nick, vero?» Avevano un accento molto marcato. I due fratellini più piccoli erano già scappati fuori.

M'inchinai e strinsi le mani. «E lei è Silky.» «Che buffo nome.» «In realtà si pronuncia Silk-a. Nick mi chiama Silky perché non se la ca-

va bene con le parole troppo complicate.» A Silky piacevano i bambini. La sorella maggiore le mandava in conti-

nuazione le foto dei gemellini di sette anni alla casella postale che Silky aveva a Sydney. Ogni volta che ci fermavamo per più di due giorni in un posto si faceva spedire la posta, e mi toccava ascoltare a lungo le ultime prodezze di Karl e Rudolf.

«Da dove vieni, Silky? Parli buffo!» «Più buffo di Nick? Vengo dalla Germania. È un Paese molto lontano.» Julie e suo marito Alan entrarono insieme a Charlie che aveva i più pic-

coli aggrappati alle gambe. Ci stringemmo la mano scambiandoci le fraset-te di rito. Le mani di Alan erano grosse e ruvide. Era uomo di savana fino al midollo ed era chiaro che non amava troppo gli ospiti.

Charlie prese l'iniziativa. «Bene! È ora di accendere il barbecue! Chi mi viene ad aiutare?»

Si capiva che era la consueta chiamata alle armi. Tutti i bambini saltaro-no in piedi felici e partirono alla carica.

3

Due ore più tardi eravamo pieni di pollo, bistecche, gamberoni e birra

Tooheys. Silky era seduta con Julie e Hazel sul divano; chiacchieravano come se si conoscessero da sempre. Alan aveva scelto un DVD per i bam-bini, che erano crollati a terra sui cuscini, lo aveva fatto partire e si era se-duto a guardarlo con loro. Forse aveva intuito che Charlie e io avevamo

voglia di stare da soli. «Perché non ti lanci più?» Eravamo in piedi al buffet vicino alla caraffa di caffè, che non avevamo

toccato perché andavamo ancora di lattine. «Non era giusto per Hazel, i suoi nervi erano già abbastanza scossi.»

Silky ci raggiunse con tre tazze vuote. Guardò le foto e chiese: «Eri nell'esercito, Charlie?»

«Sì.» «Non sei cambiato affatto, sei uguale.» Charlie sorrise alla foto del figlio. «Da allora ho aggiunto qualche ruga...

e perso un po' di capelli.» Lanciai un'occhiata a Hazel. Sorrideva a Charlie per la sua gentilezza.

Silky riempì le tre tazze e tornò al divano senza accorgersi di nulla. Charlie sollevò la lattina verso di me. «Ai bei tempi andati.» Facemmo

un brindisi con le lattine e lui prese un sorso. «Cosa mi dici di Silky? Pro-getti?»

«No, la lascio dormire con me fino a che non ne trovo una meglio.» Mi guardò storto. Lo scherzo di pessimo gusto non gli era piaciuto. «Al-

lora sei proprio un coglione. Sembra una brava ragazza. Approfittane fin-ché sei in tempo.» Guardò il divano e poi disse: «Allora, vuoi uscire a ve-dere il tramonto, o no?»

Era evidente che voleva parlarmi senza testimoni. Prese altre due birre e lo seguii in veranda.

Si appoggiò alla ringhiera. Duecento metri più in là, in un recinto, un gruppo di cavalli alzava polvere.

Charlie sedette su una panchina e m'indicò l'altalena di fronte. Qualsiasi cosa avesse in mente, non era ancora pronto per parlarne. Seguii il suo sguardo fino a uno stallone che brucava l'erba da solo in un angolo.

«La sai una cosa, Charlie? Io avevo scelto te. Te l'ho mai detto?» Il maggiore istruttore dava alle reclute un solo consiglio: «Quando arri-

vate al vostro squadrone, tacete, osservate e ascoltate. Poi scegliete l'uomo che secondo voi impersona il soldato SAS ideale. Non fateglielo capire, ma osservate e imparate. Vi capiterà di non sapere come agire durante un'operazione. In quel momento dovete chiedervi che cosa farebbe il vo-stro uomo».

All'inizio Charlie era semplicemente quello che avevo scelto, ma in poco tempo diventò molto più importante. Con la mente gli avevo assegnato la più alta onorificenza che un soldato possa dare a un altro. La verità era che

mi sentivo pronto a seguirlo ovunque. Prese un altro sorso e poggiò la lattina sulla ringhiera. «Lo so, ragazzo.

Mi accorgevo che mi osservavi. Hai imparato qualcosa?» «Direi di sì. Ti ho pensato l'ultimo giorno a Waco, quando ero indeciso

se stendere quell'uomo o no. Ho fatto la scelta giusta.» «Non tutti a Waco hanno fatto la scelta giusta.» Charlie si voltò a guar-

darmi. «Ricordi quel ragazzo della DERA, l'uomo del gas? Si è ucciso l'anno dopo.»

Non l'avevo saputo, in quel periodo ero già fuori dal reggimento. «Si chiamava Anthony. Era a posto.»

Si appoggiò allo schienale. «Ottimi uomini fottuti dal sistema. Niente di nuovo.» Sollevò la birra con mano tremante come se l'emozione avesse preso il sopravvento. «Come sai, ci sono cascato da giovane. Credevo dav-vero a tutte quelle stronzate sulla regina e sulla patria. Noi eravamo i buoni e gli altri i cattivi. Ho passato trentasette anni a giocare al soldato prima di capire che si trattava soltanto di una montagna di cazzate. Forse tu ci sei arrivato prima. È per questo che ne sei uscito?»

Charlie ignorava cosa avevo fatto dopo, e non avrebbe fatto domande. Sapeva che, se avessi voluto, ne avrei parlato io.

«In un certo senso.» Si voltò a guardare il cavallo solitario nell'angolo del campo. «Lo sai che

ero nel plotone quando il mio ragazzo usciva di pattuglia a piedi a Derry?» Annuii. Un paio di uomini avevano figli con la divisa verde, mentre noi

operavano sull'acqua, nello stesso periodo. Gli uscì una risatina beffarda. «Mi dicevo sempre che ogni militante

dell'IRA che uccidevamo era uno di meno che poteva sparare a mio figlio. Mi illudevo di prendermi cura di lui. Non lavoravamo a pieno ritmo, ti ri-cordi? Eliminavamo le ASU (Active Service Unit, unità in servizio attivo) che la Thatcher e Major ritenevano d'impedimento al processo di pace.» Socchiuse gli occhi. «In realtà proteggevamo Adams e MacGuinness in modo che potessero avere colloqui segreti con i nostri governi, che pote-vano dichiarare 'Noi non trattiamo con i terroristi'. A quanto sembrava c'e-rano i cattivi buoni e i cattivi cattivi, una cosa a cui non avevo mai pensato prima.»

Alzai le spalle. Nessuno l'aveva mai ammesso ufficialmente, ma sape-vamo tutti quello che stava accadendo. Eliminare coloro che ostacolavano qualsiasi progresso, per sperare che gli altri si accodassero ai nostri uomi-ni, Adams e MacGuinness. «Forse ha funzionato. Una specie di pace l'ab-

biamo ottenuta.» «Forse. Io so soltanto che il lavoro non mi lasciava il tempo di preoccu-

parmi per Steven.» Perso per un momento nel suo mondo, guardò il cavallo. «E dopo... do-

po che è stato ucciso... me ne sbattevo della strategia, l'importante era che mi tenessero occupato.»

Sollevai la lattina. «Dev'essere stato orribile.» Esitai. «In un certo senso, ho vissuto qualcosa di simile...» Non terminai la frase perché ancora non avevo deciso cosa aggiungere. Comunque Charlie aveva già quello sguar-do d'impercettibile sfida che vedi negli occhi di chi ha perduto una persona cara, quando gli dicono «So benissimo come ti senti», anche se non ne hanno la minima idea. Mi strinsi nelle spalle. «Non era mia figlia, ma per me era come se lo fosse. Se avesse fatto ancora più male, non sarei riuscito a sopportarlo.»

Charlie si agitò sul sedile. «Chi era? Una figlioccia?» «La bambina di Kev Brown, era nell'8°, ricordi?» Charlie si sforzò senza riuscirci. «Marsha e Kev mi avevano nominato tutore nel testamento.» «Oh, sì. Ne ho sentito parlare. Ma non sapevo che si trattasse di te.» Poi

abbassò la voce. «Che cosa le è successo?» «È stata uccisa due anni fa, a Londra.» Fissai la lattina. «Aveva quindici

anni. L'ho riportata a casa sua, in America, l'ho fatta seppellire e poi in un certo senso mi sono seppellito anch'io. Un po' come te.»

Charlie annuì con un cenno lento. «Poi un giorno ti svegli e ti chiedi che cazzo di senso ha tutto quanto...»

«Qualcosa del genere. Mi dicevo sempre che non m'importava più di tanto ma, sai, le volevo bene. Perderla mi ha messo a terra. E poi mi sono ritrovato al volante di un Combi, con i capelli lunghi e il polso coperto da questi.» Giocherellai con i braccialetti dell'amicizia.

Charlie sorrise. «Penso che ognuno trovi il suo modo di reagire. Sai cosa mi ha regalato Julie per Natale? Pantofole. Stramaledette pantofole. Da quando è morto Steven, è così che lei e sua madre vedono la vita, una nu-voletta rosa sospesa nell'aria e Steven che sorride da una fotografia. Qui è tutto così. È l'ambiente ideale di Hazel, ecocompatibile e riservato, come un paradiso del cazzo per tempi migliori.»

Bevve un altro sorso di birra e mi guardò dritto negli occhi. «Venire qui è stata la scelta peggiore che potessi fare. Troppo tempo a disposizione. La gente mi guarda e pensa che io viva nell'eden, ma io sto impazzendo. Se

uno continua a muoversi, a fare, non gli resta tempo per altro. Adesso pas-so metà della giornata a pensare a lui. La stessa sensazione che avevo allo-ra, che avrei dovuto essere là, che avrei dovuto proteggerlo. Lo so, non c'e-ra nulla che potessi fare, ma continuo a pensarci lo stesso. Mi capisci?»

Mi sorrise. Un sorriso triste. Indicò il recinto. «Lo vedi quello nell'ango-lo, il baio? Un tempo era uno stallone. Nei suoi anni migliori copriva fino a quattro cavalle al giorno e passava il resto del tempo ad abbattere il re-cinto. Non usa più il suo attrezzo. Troppo stanco. L'unica differenza fra noi due è che io non bruco l'erba e non cago tutto il giorno, ma poto quei cazzo di eucalipti e guardo il tramonto. Sai qual è la cosa migliore che potrei fare per lui?» Serrò la mascella. «Puntargli un fucile alla testa e liberarlo dalla sofferenza.»

Azzardai un sorriso. «O comprargli un paio di pantofole.» «Già, comprargli le pantofole. Ma alcuni lo fanno da soli, vero? Li ho

sempre considerati dei codardi, gente che sceglieva la fuga per sottrarsi al-le responsabilità, ma non ne sono più così sicuro. Forse sono i più in gam-ba.»

Non sapevo dove volesse andare a parare con quel discorso, e non ebbi la possibilità di scoprirlo. Julie spalancò la porta e si precipitò fuori di casa con due figli per mano. Aveva un'espressione inorridita che contrastava con il tono allegro della voce. «Che film stupido, via, andiamo, è ora di andare a letto.» Qualcosa di poco piacevole aveva avuto luogo all'interno e lei cercava di sminuirlo. Li guidò per le scale mentre la madre si materia-lizzava sulla porta. Hazel era sconvolta.

Charlie si alzò e mosse un paio di passi verso di lei, poi con un cenno del capo mi invitò a seguirlo per andare a controllare.

Aprii la zanzariera ed entrai. Silky e Alan erano davanti alla televisione. Non era un DVD per bambini; sullo schermo, immagini concitate e mosse. Sentii urla e il rumore sordo di fuoco automatico.

Silky si voltò verso di me. «È da qualche parte vicino alla Russia. Un as-sedio. Uccidono dei bambini.»

L'immagine girò su soldati che cercavano di penetrare in un tozzo edifi-cio di cemento. I sottotitoli dicevano che i terroristi tenevano prigionieri trecento ostaggi. La città di Kazbegi era nel Nord della Georgia, al confine con la Russia. Si riteneva che molti degli ostaggi fossero donne e bambini.

Guardai un piccolo gruppo di soldati che scaricavano a casaccio gli AK contro le finestre, mentre altri tentavano di entrare a colpi di mazza.

La telecamera si spostò su un carro armato che speronava una porta. Da-

gli altoparlanti del televisore provenivano solo urla. Donne e bambini si precipitavano fuori unicamente per trasformarsi in

vittime di un fuoco crudele. Dai vetri rotti usciva fumo nero. Dietro le altre finestre sbucavano visi atterriti dal panico.

I soldati gesticolavano freneticamente per farli spostare, ma nessuno si muoveva. Erano paralizzati dal terrore.

L'inquadratura girò su una giornalista che si nascondeva dietro un carro armato. I suoi occhi graziosi erano grandi come piattini mentre cercava di estrarre ed elaborare le notizie in mezzo a quel caos. Attorno a lei un mez-zo esercito sbucava da ogni dove e faceva fuoco con pistole e fucili d'as-salto. Stavo osservando un disastro, in stile georgiano.

Mentre due elicotteri sferragliavano sopra la sua testa, la giornalista, con un accento dell'Europa dell'Est e un pizzico di americano, urlò nel micro-fono che l'edificio era la sede di un ufficio della regione, che era in corso un censimento e per questo c'erano tante persone all'interno. Si riteneva che l'attacco fosse opera di un gruppo militante islamico per protesta con-tro il gasdotto del Caspio. Chissà come cazzo aveva fatto la CNN ad avere qualcuno così in fretta sul posto.

L'aggiornamento dei sottotitoli parlava di trenta morti. Silky si portò le mani al viso. «Oh mio Dio, quei poveri bambini!» Un soldato attraversò di corsa lo schermo. Teneva fra le braccia il corpo

immobile di un bimbo con i vestiti carbonizzati e fumanti. All'interno dell'edificio si verificò un'esplosione. La cinepresa tremò,

mentre un lampo rapido colpì le finestre del primo piano. Il vetro esplose, poi dai buchi uscirono grandi volute di fumo.

Sentii una serie di ordini urlati, ma il caos continuava. La solita storia, più capi che indiani.

Un paio di soldati che erano riusciti a penetrare all'interno saltarono fuo-ri da una finestra del piano terra, uno aveva l'uniforme in fiamme.

La cinepresa zumò su una fila di ambulanze in avvicinamento, alcune civili, altre militari. I due elicotteri continuavano a roteare nel cielo.

Due donne coperte di sangue si precipitarono fuori dall'edificio e cerca-rono di riunire il maggior numero possibile di piccoli, storditi e sanguinan-ti, mentre fuggivano.

Ci fu un altro, lungo e indiscriminato scambio di proiettili, mentre la te-lecamera inquadrava due bambini che si lanciavano da una finestra del primo piano per sfuggire alle fiamme.

Hazel spense la TV con il telecomando. «Basta. Non in casa mia.»

4

Il mattino dopo ero seduto accanto a Silky al tavolo della veranda. Ta-

gliavo un'arancia dopo l'altra mentre la radio continuava a trasmettere ana-lisi e commenti sui fatti della notte precedente. Preparare la colazione era il minimo che potessimo fare per ringraziare i Tindall dell'ospitalità. Mi au-guravo che servisse anche a dare loro un minimo di carica. Dopo che Ha-zel aveva spento il televisore l'atmosfera si era fatta piuttosto pesante. A-vevamo aiutato a mettere in ordine quasi in silenzio e poi eravamo andati a dormire. Hazel era a disagio per come il mondo reale era entrato, non ri-chiesto, nella sua vita. Charlie era teso e angosciato.

«Hai sentito?» bisbigliò Silky. «Il bilancio è di sessanta morti e cento-sessanta feriti.» Versò il succo delle arance nella caraffa. «Oltre la metà delle persone presenti nell'edificio. È terribile.»

«Non male, per come finiscono di solito gli assedi.» Nell'angolo del re-cinto, il baio si dedicava a un bagno di polvere mattutino. «Si parte dal presupposto che moriranno tutti. Anche un solo sopravvissuto è un succes-so, in situazioni del genere.»

Smise di spremere e si raddrizzò. «Continuo a pensare a quel povero bambino tutto ustionato. Hai visto il soldato che lo teneva in braccio?»

Tagliai altre arance e gliele passai. Ma quante ne servivano per riempire una caraffa? «Probabile che avessero piazzato esplosivo all'interno della struttura. Ne abbiamo visto esplodere una parte. Mi stupisce che i morti non siano di più.»

«Ma tutti quei soldati sembravano allo sbando. Non sapevano cosa fa-re.»

«Se il 20 per cento o meno viene steso, è un successo. I soldati non fa-cevano altro che reagire a quello che accadeva, fosse la cosa giusta da fare oppure no.»

«Stesi? Cosa vuol dire? Uccisi? Per essere un carrozziere sembri piutto-sto esperto...»

«Voi teste quadrate non leggete il Times?» Silky fece una smorfia prima di riprendere a spremere. «Se c'è uno che

non lo legge quello sei tu. Non ti ho mai visto maneggiare riviste che non avessero un paracadute in copertina.»

Stavo ancora ridendo quando Hazel apparve sulla soglia. In vestaglia, con i capelli in disordine e gli occhi rossi e lucidi.

Silky saltò in piedi. «Hazel, ti senti bene?» Una lacrima le rotolò sulla guancia. «Se ne è andato.» «Andato?» chiesi. «Cosa vuol dire?» «Lui non c'è.» In una frazione di secondo mi passarono per la mente un sacco di pensie-

ri e tutti a mille chilometri all'ora. Dopo il notiziario, Charlie si era ritirato nel suo guscio. «Quella roba ha veramente sconvolto Hazel», gli avevo detto. «È così da quando Steven è morto», era stata la sua replica. «Vuole tener lontano il mondo reale per proteggerci perché nessuno di noi debba più soffrire tanto. È questo il vero motivo che ci ha portato qui.» Adesso che ci pensavo, era stato di umore cupo tutta la sera, ma avevo dato la col-pa alla Tooheys: era parso sempre più evidente che avesse problemi con l'alcol. E poi tutti quei discorsi sul cavallo da uccidere... cazzo, non è che gli era venuto il ticchio di prendere la macchina, guidare nella notte e farsi fuori? Non sarebbe stato il primo.

Silky si asciugò le mani nei jeans e abbracciò Hazel. «Non doveva anda-re da qualche parte, magari? Ti preparo un caffè, o preferisci un tè?»

Guardai lo spazio del parcheggio di fianco alla casa. La Land Cruiser non c'era. «Forse è andato a comprare dei croissant.» Sfoggiai il mio sorri-so migliore. «Mi sembra di aver visto un panificio a millecinquecento chi-lometri da qui.»

Silky mi fissò mentre cercava di consolare Hazel. «Non è divertente, Nick.» Aveva ragione, sbagliato il momento, sbagliato il luogo.

«Scusa. Sei sicura che non abbia lasciato niente di scritto, un biglietto o altro?»

Hazel scosse la testa. «Non ti ha detto qualcosa? Ieri avete parlato a lun-go in veranda.»

Mentre cercava di far sedere Hazel, Silky ci guardava interrogativa. «Qualcuno mi spiega che cosa è successo?»

Le toccai una mano. «Dopo.» Comprese. Finalmente Hazel sedette, e Silky sparì all'interno per prepa-

rare il tè come aveva promesso. «Ho paura che gli sia successo qualcosa, Nick. Era strano quando è ve-

nuto a letto. Sei sicuro che non ti abbia detto niente?» Silky tornò sulla soglia. «Hazel, il telefono sta squillando. Vuoi che...» Era già scattata. Silky m'interrogò con gli occhi, ma io volevo ascoltare e

non parlare. Mi avviai verso la porta, ma Hazel aveva già finito. «Era Julie. La Land

Cruiser è al parcheggio della stazione. Cosa succede, Nick? Mi crolla tutto di nuovo addosso, lo so...» Nascose il viso contro la mia camicia e si ag-grappò a me come una donna che affoga.

Poi mi guardò negli occhi. «Ti prego, Nick, aiutami a trovarlo. Ti pre-go...»

5

I figli di Julie facevano un casino tale che li udivo anche se la porta dello

studio di Charlie era chiusa. La TV venne accesa e le voci dei cartoni sosti-tuirono le urla e lo scalpiccio di piccoli piedi sulle assi del pavimento.

«Di sicuro non ha fatto niente di stupido, Hazel.» La guardai dalla scri-vania di Charlie. «Sai che non è nel suo stile.»

Annuì, come se volesse mettercela tutta per credermi, senza riuscirci. «Mi auguro che tu abbia ragione, Nick. Lo rivoglio a casa.»

Mi aveva già detto che nelle ultime settimane Charlie era depresso e le crisi erano sempre più gravi e ravvicinate. Ci metteva il cuore per convin-cersi che Charlie non era andato nella boscaglia per l'ultima notte buia dell'anima.

«Promettimi che cercherai di trovarlo.» Era smarrita, confusa. Si era ve-stita ma i capelli erano ancora scarmigliati, e nell'ultima ora era scoppiata a piangere più di una volta. Non l'avevo mai vista così vulnerabile e avrei voluto fare qualsiasi cosa per indurla a sorridere.

Si piegò e mi accese il vecchio PC tutto macchiato e rovinato. Ascoltai i rumori della connessione. Di certo non le avrei mai rivelato il nostro col-loquio. Forse, senza volere, una mia parola sbagliata era stata la scintilla che aveva dato il via. «Torna da Julie, Hazel. Ti chiamo, se trovo qualco-sa.»

Mentre usciva, il PC trasmise la musichetta di Windows ed entrò in MSN. Lo studio era spoglio: la scrivania, la sedia girevole su cui ero sedu-to, un mobile archivio e basta. Alla finestra una veneziana lasciava filtrare lame di luce e ombra. L'odore di legno era intenso.

Il monitor davanti a me era coperto di adesivi dei bambini. Il tappetino per il mouse era interamente dedicato a Shrek. Un boccale di vetro, con lo stemma della spada alata, pieno di matite appuntite e di penne, aveva an-che funzione di fermacarte.

Le pareti erano tappezzate di foto dei bambini. Non ero sorpreso che non ce ne fossero di Charlie in divisa del SAS. Da sempre nel reggimento vi-

gevano due scuole di pensiero. C'erano quelli che non esponevano niente legato al passato, nessun attestato, nessun encomio, nessuna baionetta o AK47 in disuso. Il lavoro era lavoro e la casa casa. Poi c'erano gli altri che appendevano di tutto e di più perché il mondo intero vedesse.

Presi il boccale fra le mani. Tutti quelli che se ne andavano ne riceveva-no uno. Non riuscivo a ricordare dov'era finito il mio. Il sergente maggiore dello squadrone me l'aveva consegnato come ultima cosa, dopo che gli a-vevo presentato il foglio di dimissioni. «Aspetta», mi aveva detto, «questo dev'essere tuo.» Aveva pescato una scatola sotto la scrivania e me l'aveva allungata, tutto qui. «Ci vediamo.»

Giusto. Andarmene era stata una mia scelta. Quando sei fuori, sei fuori. Non esiste un Club dei Bravi Ragazzi, o riunioni annuali o menate del ge-nere.

Lessi l'incisione e mi venne da ridere. A CHARLIE. BUONA FORTU-NA. SQUADRONE B. Per gli standard di Hereford era il massimo del sentimentalismo.

Sfogliai le carte che teneva ferme, conti da pagare per i pali della stac-cionata e per il foraggio, e alcune bollette al limite della scadenza.

Cominciai a esaminare i file del PC. Sul desktop ce n'erano due. Uno sugli impiastri per gli zoccoli dei cavalli e l'altro sul tasso di cambio tra il dollaro americano e la lira turca. Sapevo che erano andati a Cipro in luna di miele. Forse Charlie stava organizzando un viaggetto a sorpresa. Forse era andato in città a ritirare i biglietti.

La cartella delle e-mail non mi fruttò molto di più. Il grosso era costitui-to dai messaggi quotidiani che Hazel scambiava con i nipoti anche se abi-tavano a due passi di distanza. Mi chiesi com'era far parte di una famiglia tanto unita. Forse a volte era soffocante. Forse Charlie aveva soltanto bi-sogno di uno spazio tutto suo. Basta con quei ragionamenti, cominciavo ad assomigliare troppo a Silky.

Passai l'ora successiva a setacciare tutte le cartelle dei documenti, ma non trovai niente. Andai in rete. La cronologia del motore di ricerca era stata cancellata. Cosa voleva dire? Che Charlie voleva nascondere qualco-sa oppure che era un amante dell'ordine? Comunque, se aveva in mente di fare qualcosa di nascosto a Hazel di certo non avrebbe lasciato un cartello con su scritto SEGUI LA FRECCIA sul suo PC.

L'archivio aveva quattro cassetti. Aprii quello in basso, P-Z, e presi la cartella T. Charlie poteva andarne fiero. Le bollette telefoniche degli ultimi due anni non solo erano in ordine di tempo, erano anche ben dettagliate.

Presi quelle relative agli ultimi due quadrimestri e cominciai a scorrerle. Non ci misi molto a capire.

Nell'ultimo mese, e sempre con maggiore frequenza, c'erano state diver-se telefonate internazionali a un certo numero 01432 in Inghilterra.

Guardai l'ora. Erano le nove del mattino, la notte era ancora giovane a casa.

Presi il telefono e composi il numero.

PARTE TERZA

1 «Hereford.» Un dito mi pungolava la spalla. «Mi aveva chiesto di avver-

tirla quando saremmo stati a Hereford.» Aprii gli occhi a fatica. Non mi ero accorto che il treno si fosse fermato.

Per fortuna avevo chiesto alla vecchia signora del sedile di fronte di avver-tirmi, altrimenti mi sarei svegliato a Worcester.

La ringraziai e raggiunsi l'uscita del vagone. Mi sentivo uno zombi. Da Paddington in circa due ore avevo raggiunto Newport dove avevo preso il locale dei pendolari per «H», come dicevano i ragazzi del reggimento. Prima ancora di partire da Londra mi si erano chiuse le palpebre, e il men-to era crollato sul torace. I troppi fusi orari, e i diciannovemila chilometri in classe economica lavoravano contro di me.

Avevo anche un peso sulla coscienza. Mi sentivo in colpa per come ave-vo mentito a Silky. «Vado alla stazione per controllare che non abbia la-sciato qualche indizio sul treno» era ben diverso da «Ho parlato con l'in-termediario, e a quanto pare Charlie ha accettato un'offerta di lavoro non so dove, allora vado dall'altra parte del mondo per scoprirne di più. Ricordi quando ti ho detto che sarei tornato stasera? Ecco, invece sarò quattromila metri sopra Singapore ma, a parte questo piccolo dettaglio, tutto il resto è vero e possiamo continuare a fidarci l'uno dell'altra». Ma che alternativa avevo? L'unico modo per scoprire dov'era finito Charlie era andare di per-sona. L'intermediario non mi avrebbe aiutato. Lui metteva insieme gli uo-mini con il lavoro e di certo non li rispediva a casa. Per trovarlo e riportar-lo a casa non potevo far altro che afferrare fisicamente il vecchio babbeo, scoprire la vera natura del problema e cercare di aiutarlo.

Forse perché era la prima volta in tre mesi che mi separavo da lei, senti-vo già che Silky mi mancava un casino. Il suo accento era stupido e aveva

la fastidiosa abitudine di capire le persone meglio di me quasi sempre, ma mi ero abituato alla sua presenza e mi piaceva. Tanto. Le avevo mentito e non l'avrebbe presa bene, ma contavo su Hazel e io stesso avrei cercato di rimediare al mio ritorno. Chissà quando. Sempre che fosse rimasta ad a-spettarmi.

Mentre camminavo lungo il binario, con la sacca in mano, cercai di a-sciugare la saliva che aveva impregnato il giubbotto di pelle. La vecchia doveva aver pensato che fossi un drogato.

Uscii. Non era cambiato molto. C'era un supermercato nuovo davanti al-la stazione. Niente di più.

Montai su un taxi e chiesi di andare a Bobblestock. L'autista, un uomo sui cinquantacinque, mi guardò nello specchietto retrovisore della vecchia Peugeot 405 come uno che la sa lunga. «Sei stato lontano, eh?» Gli abitan-ti di Hereford seguivano con affetto il reggimento che aveva base nella lo-ro città, e non soltanto per i soldi che spendevano. Quello lì però aveva tratto le conclusioni sbagliate dal mio viso abbronzato e dall'aspetto di uno che ha dormito all'aperto.

«Sì.» Mi strofinai la faccia per svegliarmi un po'. «Non ricordo il nome della strada ma quando ci arriviamo l'avverto.»

Notai un nuovo pub e un paio di negozi piuttosto recenti, ma per tutto il resto Hereford era come la ricordavo. Avevo lasciato il reggimento nel 1993 e non ero più tornato. L'unica cosa in sospeso era il conto alla Hali-fax, con dentro una sterlina e cinquantadue centesimi. Mi chiesi quanto avessero fruttato di interessi.

Bobblestock era stato il primo della nuova progenie di immobili dell'era Thatcher. Le case costruite con mattoni industriali stavano vicine l'una all'altra come se volessero tenersi caldo. Con due bambini virgola quattro di media, Mondeo nel vialetto, piccolissimo giardino sul retro, praticello minuscolo da tagliare con le forbici sul davanti, la zona sprizzava la stessa personalità di una stanza all'Holiday Inn. I costruttori avevano fatto soldi a palate e probabilmente si erano comprati una bella villa d'epoca in aperta campagna.

Dave il Matto viveva nella parte alta di Bobblestock, la Fase Tre della costruzione, come mi aveva annunciato trionfante. Era l'unico riferimento che avevo, ma sarebbe bastato.

«Va bene qui.» Ci fermammo davanti a un rettangolo di mattoni con annesso garage che

sembrava montato sul posto. La casa sulla destra si chiamava Byeways,

quella a sinistra The Nook. Quella di Dave il Matto aveva soltanto un nu-mero. Tipico. Veniva dalla Boat Troop. Avevo approfondito la conoscenza con lui non sul lavoro ma al bar dove ogni domenica mattina passavamo il tempo a bere caffè, mangiare panini e a leggere i supplementi dei quotidia-ni. Lui per evitare sua moglie, io perché una moglie non ce l'avevo.

L'avevamo soprannominato il Matto proprio perché non lo era: aveva la stessa comicità di una tazzina da tè. Era il tipo che analizzava a fondo una barzelletta prima di dire: «Oh, ci sono. Molto divertente». In tutti gli anni passati con lui non era riuscito a capire cosa c'era di buffo nel cagare nello zaino di qualcuno. Ma tutti i suoi difetti, il suo essere così pignolo, lo ren-devano perfetto per il nuovo lavoro che aveva intrapreso. La discrezione era tutto. Quando al telefono gli avevo chiesto di Charlie, aveva ammesso di averlo in elenco, ma non mi aveva fornito nessun dettaglio su dove e quando. Però mi aveva invitato a fare quattro chiacchiere davanti a un caf-fè, quando ne avevo voglia, e io ero andato.

Nel vialetto non c'era la macchina ma dietro la finestra del salotto vidi del movimento. Pagai la corsa e mi avviai per la rampa di cemento che a-veva sostituito le scale.

Suonai il campanello e la porta venne aperta all'istante da due ragazzi che stavano uscendo. Erano giovani e robusti. Due possibilità, o avevano appena lasciato il reggimento o erano sul punto di farlo. Erano vestiti come me, stivali Timberland, giacca di pelle e jeans.

Mentre i due se ne andavano io chiusi la porta. La scala, che si trovava proprio di fronte, era equipaggiata con il montascale che Thora Hird pub-blicizzava sui supplementi della domenica.

La voce di Dave mi giunse da qualche parte sulla destra. «Sempre dritto, sono qua fuori.»

Attraversai un salotto senza fronzoli, con pavimento laminato, divano e due poltrone, televisore enorme e basta. Il resto dello spazio era libero. U-scii in giardino attraverso una portafinestra.

«Sono in garage.» Attraversai il quadratino di prato e affrontai un'altra rampa che portava

al garage. Doveva essere un'aggiunta recente perché il cemento era ancora fresco.

Il garage era stato trasformato in un ufficio. Un muro solido aveva sosti-tuito la porta basculante e non c'erano finestre. Dave il Matto era seduto al-la scrivania. Non si alzò. Non poteva.

2 Mi avvicinai e gli strinsi la mano. «Cosa cazzo ti sei fatto?» Dave mi raggiunse su una sedia a rotelle da corsa in alluminio. «Non

quello che credi. Sono stato sbalzato dalla mia Suzuki sulla M4 da un ca-mionista dell'Estonia e mi sono fatto la panoramica, prima un bel giro nella corsia centrale, poi un'approfondita ispezione alla carreggiata nel senso opposto. Sei mesi al centro di Stoke Mandeville. Le gambe sono andate. Entro ed esco ancora dagli ospedali come uno yo-yo. Mi mettono e mi tol-gono piastre, non sanno neppure loro cosa cazzo fare.» Mi squadrò dalla testa ai piedi. «Certo che neppure tu hai un bell'aspetto, cosa ti offro?»

Senza aspettare la mia risposta girò le ruote oltre il lavandino verso il bollitore nell'angolo. «E così mi sono trovato fuori dal reggimento. Troppo handicappato anche per essere un Rupert. Mi hanno dato la pensione d'in-validità che mi basta appena per il barbiere. Poi questo lavoro mi è caduto nel piatto. Sarei stato uno stupido a non cogliere al volo l'occasione.»

A Hereford c'era sempre un intermediario in caccia. Doveva essere un ex del reggimento perché era fondamentale conoscere le persone, chi era den-tro, chi stava per lasciare; se non lo sapeva, allora si serviva di un informa-tore.

Sentii rumore di tazze. «Naturalmente ho dovuto trasformare il garage in una specie di fortezza. Le porte sono chiuse da saracinesche di ferro, e la struttura deve essere a prova d'incendio a causa del materiale.» Accennò alla scrivania. Non c'era altro che il telefono, un blocco e due scatole con semplici cartoncini ma, per chi voleva sapere quali ditte stavano svolgendo quali lavori, avevano più valore di un intero carico di AK47.

«Come funziona, Dave? Non sono mai stato da un intermediario.» «I ragazzi vengono, o telefonano, in cerca di lavoro. Sbatto i loro dati su

una scheda che inserisco nella scatola IN ATTESA. Vedi l'altra scatola? Quella è per le BAIONETTE. Cioè dei ragazzi attualmente occupati.»

Mi augurai che l'acqua fosse sul punto di bollire. La parte organizzativa aveva un gran fascino per Dave, ma io sapevo già quello che mi interessa-va.

Fortuna, zero. Gli occhi gli brillavano di una luce perversa. Forse, dopo-tutto, Dave un po' pazzo lo era davvero. Si comportava come un amante dei treni al quale era stato chiesto di fare da guida sull'Orient Express. «Il sistema è semplice. Mettiamo che una ditta chiami perché ha bisogno di quattro medici e un esperto di esplosivi. Prendo la scatola con quelli IN

ATTESA e scorro le schede, partendo dall'inizio, fino a che non trovo le persone giuste. Le chiamo, se accettano le sposto da IN ATTESA a BAIONETTE. Se non accettano, la loro scheda finisce in fondo alla scato-la di quelli IN ATTESA. A lavoro finito, se vogliono continuare a far parte del registro, restano in fondo nella scatola dopo tutti gli altri nominativi.»

Cosa potevo dire? Gli lanciai uno sguardo molto interessato, o almeno sperai che così lo interpretasse.

Il bollitore venne finalmente in mio soccorso. Dave il Matto si diede un gran da fare con le bustine mentre io prendevo posto sulla sedia davanti al-la scrivania. Con due tazze in mano, spinse la sedia a rotelle fino da me.

La scelta era fra l'Uovo di Pasqua della Smarties o Thunderbird 4. Optai per la Smarties, la meno sbreccata e macchiata.

«Allora, cosa vuoi sapere di Charlie?» «È un dinosauro, Dave, è veramente troppo vecchio per lavorare. Hazel

lo vuole a casa.» Con un'agile manovra si portò al suo posto dietro la scrivania. «Questo vuol dire che sta sempre con quel babbeo?» Annuii. «Dato che siamo in argomento, come stanno i tuoi figli?» Si appoggiò allo schienale e prese un sorso di tè. «Sistemati e andati. Il

ragazzo è a Londra e se la spassa con una modella polacca, la figlia ha sposato un cervellone. Hanno una bella casa in città.»

Erano oltre trent'anni che Dave viveva a Hereford e continuava a chia-marli tutti «cervelloni», come se fosse appena arrivato.

Assaggiai il mio tè e per poco non soffocai. Era due terzi di zucchero. «Anche la mia ex ha sposato un cervellone», mi comunicò con un ghi-

gno da parte a parte, «un poliziotto. Che mi dici di te? Sposato? Divorzia-to? Figli?»

Scossi la testa e sorrisi. «Penso di avere ancora una ragazza tedesca in Australia che ho dovuto abbandonare a causa tua. Non credo che la mia partenza improvvisa le sia piaciuta.»

Sorrise di nuovo. «Quelle teste quadrate hanno sempre le palle che gira-no per una cosa o per l'altra.»

Avremmo potuto chiacchierare a lungo, avrei potuto raccontargli di Kelly: Dave conosceva suo padre Kev. Ma la parte formale era esaurita e io ero andato lì per trovare Charlie.

«Mi dai almeno un'idea su dove potrebbe essere? Ho promesso a Hazel di fargli un bel discorsetto. Sai bene di che cosa parlo.»

Il sorriso di Dave mi disse che lo sapeva benissimo e anche che se l'era

sentito dire centinaia di volte. «E tu sai perfettamente che non posso rive-larti un accidente, amico. È parte degli accordi con le ditte: non vogliono che nessuno sappia in quali lavori i ragazzi sono coinvolti. E se tutti tor-nassero a casa appena le mogli fanno un fischio, non lavorerebbe un cazzo di nessuno.»

Posò la tazza e si aggrappò ai braccioli della sedia. Si sollevò di qualche centimetro e rimase sospeso; forse serviva alla circolazione o per prevenire le piaghe da decubito.

«Che mi dici di te, Nick? Non ti ho sentito nominare nel circuito, cosa fai?»

«Oh, sai com'è, lavoretti in giro.» Scrollai le spalle e sorrisi. «Ascolta, non voglio sapere che incarico hai affidato a Charlie. Voglio solo poter te-lefonare a Hazel e dirle che gli ho parlato.»

Posò la tazza e mi venne vicino. «Mi dispiace, ma sei fottuto. Senza con-tare la sicurezza, che succede se lo convinci a tornare alla sua pipa e alla cioccolata? Sarei costretto a cercare un sostituto. E poi, comunque, moriva dalla voglia di lavorare. Sbaglio, o non sono stato io a chiamarlo?»

Girò la sedia e si avviò verso la porta. «Adesso vado in bagno. Ho pro-vato a far mettere un cesso qua sotto ma non mi danno il permesso, i ba-stardi.» Passò in velocità la portafinestra e giù per la rampa.

«Ehi, Nick, guarda qui!» Mi alzai e raggiunsi la soglia in tempo per vedergli compiere una piroet-

ta di 360 gradi, con le ruote anteriori sollevate. «Devo chiudere. Vuoi fini-re di bere in salotto mentre mi aspetti? Ci facciamo una birra dopo?»

Lo seguii all'esterno, osservandolo chiudere il garage a chiave. Il mazzo ne conteneva una dozzina.

Entrammo nel soggiorno e lui proseguì verso le scale. Mi accomodai mentre Dave si trasferiva sul montascale. Poi scelse un'altra chiave dal mazzo, la inserì in un quadro sul muro e la girò. La sedia scivolò verso l'al-to.

«Hai bisogno di aiuto, Dave?» «No, quassù è tutto equipaggiato come un percorso per scimmie.» Appena sentii chiudere la porta del bagno scattai in piedi e andai in cu-

cina. Nessun quadro elettrico in vista. Provai nell'armadio sotto le scale. C'erano due file di interruttori incassati in un rettangolo di plastica, ma nessuno aveva l'etichetta. Al diavolo, spensi tutto con il principale.

Estrassi il mazzo di chiavi dal quadro elettrico sul muro e mi precipitai in garage.

La scheda di Charlie era la prima della scatola BAIONETTE. Non c'era scritto per conto di chi o di che lavoro si trattava, solo che David aveva prenotato per lui una camera in un albergo di Istanbul.

Chiusi tutto e tornai in soggiorno. «Nick! È andata via quella cazzo di luce. Nick, ci sei?» «Arrivo, cosa succede?» Misi a posto le chiavi mentre lui si trasferiva da un'altra sedia a rotelle al

montascale. Picchiava sul pulsante come un ossesso. «Lo vedi? Non posso neppure cagare in pace. Prova a vedere se si ac-

cendono le luci, controlla se c'è corrente.» Schiacciai tutti gli interruttori. «Dov'è il quadro dei fusibili?» Dave me lo disse e io ci andai. Qualche momento dopo il microonde

ronzò di nuovo in vita. «Dave, mi dispiace, ma non posso fermarmi. Se ti chiama Charlie, digli

di chiamare casa perché Hazel non trova una roba che solo lui sa dov'è.»

3

Istanbul Giovedì 28 aprile 2005

Una delle prime cose che noto sempre di un nuovo Paese è l'odore. Nel

salone degli arrivi dell'aeroporto internazionale Ataturk era di dopobarba intenso, e ancora più forte quello di sigaretta nel taxi in cui mi trovavo. L'autista era già alla seconda da quando avevamo lasciato l'aeroporto.

Il traffico era caotico, e per contribuire allo strazio l'uomo cantava, tra una boccata e l'altra, sulla musica pop araba che usciva a tutto volume dall'autoradio. Continuava a voltarsi in cerca di approvazione come se mi avesse preso per Simon Cowell che stava per firmargli un contratto miliar-dario. Il talismano con l'occhio azzurro appeso allo specchietto ondeggiava instancabile, mentre sfrecciavamo da un lato all'altro della strada. Mi augu-rai che fosse efficace con i TIR almeno quanto lo era con gli spiriti mali-gni. L'autista guardava dappertutto tranne che la strada.

Ogni tratto di quel viaggio era stato un incubo, dall'Australia a Hereford, da Hereford a Stansted, da Stansted alla Turchia. Stansted da solo li batte-va tutti. Avevo l'impressione di averci passato più tempo che sull'aereo da Brisbane.

Una volta lasciato Dave, ero andato direttamente all'aeroporto senza

controllare gli orari. Mi ero fatto l'idea che un volo economico fosse la scelta migliore e speravo di trovarne uno da prendere subito. Ma natural-mente l'ultimo era partito un'ora prima e così avevo passato la notte a cer-care di dormire sui sedili antisonno del terminal. E poiché ero arrivato tar-di mi ero perso anche l'ultimo panino dell'unico bar aperto. Avevo ripiega-to su quattro sacchetti di patatine all'aceto e due caffè in tazza gigante che avevano provveduto a tenermi sveglio per tutta la notte.

Anche se era una giornata fredda, grigia e ventosa tenevo il finestrino del taxi aperto, un po' per riuscire a respirare e un po' per avere una via di fuga in caso di incidente. Finalmente raggiungemmo l'albergo Barcelo E-resin Topkapi. Indenni. La corsa era durata soltanto tre sigarette.

Non avevo avuto il tempo di collegarmi in rete per farmi un'idea del po-sto, ma aveva un'aria elegante. Un viale accompagnava la facciata del soli-do edificio a quattro piani, che non avrebbe sfigurato a Cannes fra gli al-berghi della Croisette.

Un gigantesco striscione all'entrata augurava il benvenuto agli architetti della Germania al fondamentale convegno. O per lo meno così l'avevo tra-dotto. Durante i due anni a Sennelager da soldato di fanteria avevo impara-to come ordinare una birra e mezzo pollo con patate fritte, e di solito me ne arrivavano due porzioni, se poi mi chiedevano se ci volevo sopra qualcosa ordinavo tutto da capo.

Pagai il tassista e varcai le enormi porte scorrevoli in cristallo. Nell'atrio, un ricco cordone mi guidò al metal detector, probabilmente uno strascico delle bombe del 2003. Comunque fosse, l'addetto alla sicurezza, il colletto della camicia più largo di tre taglie rispetto al collo, mi fece cenno di pas-sare e poi cominciò a torturare un paio di turchi entrati dietro di me. A de-stra della reception, in uno stand allestito per l'occasione, c'erano tre o quattro ragazze bionde dietro un bancone. Le pareti erano ricoperte di fo-tografie patinate di edifici modernissimi, e il piccolo ambiente era lette-ralmente intasato dal materiale promozionale. Gli architetti avrebbero rice-vuto un benvenuto coi fiocchi.

L'atrio era rivestito da cima a fondo di legno scuro e marmo pallido. Continuai a camminare in cerca di un cartello che indicasse il bar, il risto-rante, o anche il bagno, non importava cosa, l'importante era dare l'impres-sione di avere una meta precisa.

Puntai una poltrona in pelle alla base della rampa di scale in marmo do-ve c'era gente che beveva il tè. Ordinai un doppio espresso e poi cercai di resistere alla tentazione di appoggiare la testa all'indietro: sarei crollato in

un sonno profondo in una frazione di secondo. Il caffè non arrivava mai, ma non ero preoccupato. Nell'attesa guardavo

e ascoltavo. Un lussuoso pullman Mercedes vomitò un gregge di persone che vennero subito indirizzate allo stand di benvenuto. Presi un opuscolo. Mi informò sulle distanze dell'albergo dai punti di maggiore interesse turi-stico: solo tre chilometri dal famoso Gran Bazar, dalla Moschea di Soli-mano, dalla Moschea Blu e dal Palazzo Topkapi. Tutte le stanze dell'hotel avevano bagni lussuosi e, cosa molto importante, l'asciugacapelli privato. Ma quanto era fortunato Charlie?

Non ero mai stato a Istanbul. Della città sapevo soltanto che un tempo la stazione era un punto di scambio fra spie e che l'Orient Express si fermava lì prima di attraversare il Bosforo. A proposito dei turchi, avevo le parole del mio patrigno che mi ronzavano nelle orecchie. «Non restare mai fermo in un punto, o ti ruberanno anche i lacci delle scarpe», diceva sempre di qualsiasi popolo a est di Calais. Forse allora era vero, ma guardando fuori non avevo visto nessun fumoso mercato pieno di abili borseggiatori. Ave-vo notato donne eleganti vestite all'occidentale e tram in vetro e acciaio che scivolavano lungo viali con negozi di lusso. Poteva essere Milano, se non avessi saputo dove mi trovavo. Le vetture più nuove avevano una stri-scia azzurra sulla targa, ottimistico preparativo per l'ingresso nell'Unione europea.

Mi guardai attorno per vedere se arrivava il caffè. Forse avrei dovuto provare a telefonare a Charlie.

Il caffè arrivò, ne presi un sorso dalla tazzina piccola come un ditale e adocchiai i telefoni interni posti fra reception e ascensori. Avrei chiamato Charlie per dirgli che ero nell'atrio. Se non avesse risposto, avrei atteso il suo ritorno in strada senza perdere d'occhio l'edificio, pregando che arri-vasse presto perché stavo per crollare dal sonno che non riuscivo più a te-nere sotto controllo.

Dovevo telefonare a Silky e a Hazel giù alla fattoria? Da quando avevo lasciato Brisbane non avevo più parlato con loro né inviato una e-mail. Meglio aspettare finché non ho notizie certe, mi ero detto, ma la verità era che volevo rimandare il più a lungo possibile il momento di confessare a Hazel dove mi trovavo.

Lasciai un paio di banconote sotto il piattino e mi avviai verso i telefoni. Mentre sollevavo la cornetta arrivò l'ascensore, e un gruppo di tedeschi e turchi mi sfilò davanti con la cartellina del congresso che gli dondolava fra le mani.

La centralinista snocciolò il suo saluto in turco, tedesco e inglese. «Senta, il congresso degli architetti...» Sfoderai un grande sorriso: quan-

do si fa lo si trasmette a chi ascolta. «Sono il coordinatore degli interventi di lingua inglese, il signor Charles Tindall è salito senza ritirare il materia-le di benvenuto... potrebbe mettermi in comunicazione con lui?» Sfogliai il mio immaginario taccuino. «È nella stanza... vediamo, stanza 106... o è 206? Non riesco a leggere cosa c'è scritto.»

«Il signor Tindall è nella 317. Partecipa al congresso?» «Devo consegnargli il materiale. Oh, che caso, eccolo qua... grazie della

collaborazione. Signor Tindall, ha dimenticato...» Posai la cornetta e pochi secondi dopo premevo il pulsante dell'ascenso-

re.

4 Seguii la freccia in direzione delle camere 301-21, in un ampio corridoio

con la moquette. La stanza 317 era in fondo sulla sinistra, dunque aveva le finestre sul viale. Appeso alla maniglia il cartellino NON DISTURBARE.

Bussai e arretrai di un passo in modo che riuscisse a vedermi bene dallo spioncino. «Sono Nick.» Sorrisi.

La porta si aprì. «Sono venuto a restituirti le tre sterline che ti devo.» Charlie indossava i jeans e un maglione che poteva aver comprato sol-

tanto in un negozio per daltonici: il commesso stava ancora sorridendo per averglielo sbolognato. Mi invitò a entrare con un'espressione indecifrabile, tra l'incazzato e il sorpreso.

Entrai in una stanza grande e ben arredata. Gli elementi dominanti erano il letto in mogano e la finestra che prendeva l'intera parete. Sentii il rumore attutito di un tram giù in strada. Charlie non aveva ancora disfatto la sacca, che era aperta: vidi il necessario per lavarsi e radersi e qualche paio di cal-ze. Sul tavolo accanto al televisore, un portatile nero con il coperchio sol-levato e lo schermo in funzione.

Charlie mi venne vicino. «Non dirmi che stavi passando di qui.» «Ho dovuto sbattermi per trovarti. Hai parlato con Hazel?» «Scherzi? Mi avrebbe tranciato la testa di netto e l'avrebbe risucchiata

nella cornetta. Le ho mandato una mail, dicendole che sto bene e che la chiamerò.»

Sedetti sul letto. Se mi mettevo comodo avrebbe fatto più fatica a sfrat-

tarmi. «Vuoi fare un piacere a tutti? Sali con me su un aereo e torniamo a casa, così posso rivedere la mia tedeschina senza che tua moglie mi ucci-da.»

Aprì il minibar sotto il televisore e prese due lattine di Carlsberg. Me ne passò una e tirammo la linguetta.

«Mi dispiace.» Si appoggiò alla scrivania accanto alla TV e bevve una bella sorsata. «Può diventare un incubo quando perde la testa. La chiamerò stasera per spiegarle, adesso so quanto resterò lontano.» Fece un sorrisetto e prese un altro sorso. «Come hai fatto a trovarmi?»

Gli raccontai dell'interruzione di corrente a casa di Dave. Rise così forte che probabilmente lo sentirono anche in strada.

Mi sentivo troppo stranito per ridere e anche per bere birra. Mi posai la lattina sul torace mentre mi sdraiavo sul letto.

«Non voglio sapere niente del lavoro, amico. Sono affari tuoi. Ma se davvero hai voglia di lavorare, forse puoi trovare qualcosa di meglio. Che ne dici di Baghdad, o magari Kabul? Pagano meglio. Da quattro e cinquan-ta a cinquecento al giorno per un caposquadra, anche anziano.»

«Meno di caposquadra. E poi chi ha parlato di Istanbul?» Deglutì una lunga sorsata di Carlsberg e mi fissò. «Tre giorni di lavoro e tutti i miei problemi saranno risolti.»

Toccava a me ridere. «Risolti? Ma di che cazzo parli? Tu hai già risolto tutto. Stai vivendo il tuo sogno.»

«Il sogno di Hazel...» Sospirò. «Ascolta, non mi dispiace condividerlo. Da quando Steven è morto l'unica cosa che la mantiene sana di mente è avere attorno la famiglia al completo. Ma la fattoria non va avanti con la merda di cavallo. La pensione è appena sufficiente per pagare il mutuo, cazzo. Soldi non se ne vedono. Questo lavoro estinguerà tutti i debiti in un colpo solo, e mi resterà ancora qualcosa.»

Il rapporto lavoro-soldi aveva qualcosa di preoccupante. Di solito indi-cava un incarico che nessuno avrebbe voluto toccare neanche con un palo lungo tre metri.

«Quanto?» Sorrise ancora, questa volta con quella particolare smorfia di chi conosce

un segreto che tu non sai. «È un pezzo unico. Tariffa speciale per anziani. Duecentomila dollari americani.»

«Cazzo, e cosa devi fare, stendere Putin?» «No, quello l'ho scartato.» Portai la lattina alla bocca ma mi resi conto che non avevo voglia di bir-

ra. «Qualunque cosa sia, sei troppo vecchio per questo schifo. Vattene a casa, fai felice Hazel. Così me ne torno dalla mia tedesca.»

Charlie continuava a fissarmi, sorrideva, come se custodisse il segreto dell'universo. «Non è solo per i soldi.»

«Lo sapevo. Tutte quelle chiacchiere su quel cavallo... poi quella roba alla televisione... Vuoi solo tornare nel mondo reale e sentire di farne anco-ra parte, giusto?»

«Vorrei.» Con la schiena girata lasciò vagare lo sguardo fuori dalla fine-stra. Quando si voltò il sorriso era svanito. Rimase a lungo fermo a guar-darmi, come un poliziotto sulla porta che deve comunicare una cattiva no-tizia ma non trova le parole giuste. Abbassò lo sguardo sulle mani treman-ti, poi lo rialzò su di me.

Finalmente compresi. «Sei malato?» Distolse lo sguardo. «Non devi dirlo a nessuno. Soprattutto a Hazel.

Promesso?» Annuii. Potevo rifiutarmi? Mi fissò ancora, per un tempo lunghissimo e alla fine scrollò le spalle.

«Sto morendo.» Ero così stanco che pensai di non aver capito. «Che cosa? Cosa cazzo

hai che non va?» Guardò ancora dalla finestra. «SLA, amico mio. Sclerosi laterale amio-

trofica. Una forma di SLA. Anche alcuni americani che erano nel Golfo ne soffrono. Stanno cercando un collegamento, ma è pura accademia. Al dia-volo, quando e se ci riusciranno, per me sarà tardi.»

«Non stai scherzando, vero?» «Vorrei.» Scosse la testa. Adesso toccava a me sbarrare gli occhi. Non sapevo cosa dire. L'unica

persona con la SLA che mi veniva in mente era Stephen Hawking, l'astro-fisico. Charlie sarebbe finito su una sedia a rotelle a borbottare suoni Da-lek?

«Qual è la prognosi?» Posai la birra e mi girai per mettere i piedi a terra. «Il peggio è inevitabile?»

«Sta già accadendo.» Bevve un altro sorso e poi alzò la lattina verso di me. «A volte mi devo concentrare al massimo solo per riuscire a tirare l'a-nello di una di queste. A volte faccio fatica a girare le maniglie delle porte. Sono sei mesi ormai. Sono andato dal dottore di nascosto» - mi puntò un dito contro, la lattina ancora in mano - «e nessuno deve saperlo, almeno finché tutti i soldi non saranno in banca. Volevo avere qualcosa che smor-

zasse il colpo, quando lo dirò a Hazel.» Succhiò l'ultimo sorso e questa volta decisi di imitarlo. «Sei sicuro che peggiorerà? Cioè, non può essere che si fermi a qualche

tremito?» Scosse lentamente la testa. «Sicuro come la notte segue il giorno.» Par-

lava in modo concreto. «La fase successiva è la perdita della memoria, poi comincerò a farfugliare. In seguito non sarò più capace di camminare, di deglutire... Cinque anni è la media, poi c'è la fine.»

«Stephen Hawking va avanti da secoli.» «Uno su un milione. Sono cinque anni, alcuni ancora più in fretta. Non

mi dispiacerebbe. Quando Hazel sarà costretta a imboccarmi la banana schiacciata le chiederò di uccidermi comunque.» Cominciò a ridere, forse troppo. «O magari deciderò di scoprire quanto mi sei amico.»

5

Ci coccolammo in silenzio la nostra seconda lattina di Carlsberg. Ero

ancora seduto sul bordo del letto. Charlie era vicino alla TV e guardava fuori dalla finestra attraverso la tenda. Non avevo voglia di bere, ma se non altro era fredda e ripuliva la bocca da tre giorni interi di merda dal vassoio delle compagnie aeree. Avrei tanto voluto che lavasse via anche le notizie che mi aveva dato Charlie, ma non funzionava. Mi dispiaceva per lui e per i suoi. Era un sentimento nuovo per me. In tempi normali avrei detto sol-tanto cazzo che sfiga, ci penso io quando verrà il momento che sarai im-boccato con il cucchiaio.

«Adesso tutto ha un senso.» Non riuscivo a sopportare il silenzio. «Ma che cosa succede se le mani ti si mettono a ballare sul lavoro?»

«È un rischio che devo correre.» «Dave il Matto lo sa?» «Dave è un brav'uomo, ma non è nel giro della beneficenza.» Si strinse

nelle spalle e sorrise. «A lui ho detto quanti soldi mi servivano e che, se trovava un lavoro pagato così, l'avrei fatto. Sono gii ultimi soldi che posso guadagnare. Hazel ne avrà bisogno. E avevi ragione tu riguardo al caval-lo...» Charlie finì la birra e posò la lattina sulla scrivania. Si piegò e infilò quasi tutta la testa nel frigo mentre rovistava fra bibite e barrette di ciocco-lata. La sua voce mi giunse attutita. «Non voglio trascorrere gli ultimi giorni confinato in un angolo di un recinto del cazzo.»

Charlie non aveva visto come era ridotta Hazel, la mattina che se n'era

andato. «Perché non vai a casa, le spieghi tutto e poi riprendi il lavoro? Che succede se va a finire in merda e non ce la fai a tornare? Sarebbe la seconda perdita per Hazel e l'unico ricordo che le resterà di te è che l'hai abbandonata.»

Si rialzò con due lattine, acqua questa volta. Me ne allungò una. Posò la sua sul tavolo e provò ad aprirla, ma il medio non riusciva ad agganciare l'anello.

Finalmente l'aprì. «Mi perderà in ogni caso, qualsiasi cosa io faccia. In questo modo avrà una sorta di compensazione. Io resto.» Gli brillavano gli occhi e aveva parlato con sicurezza. Di colpo era tornato il Charlie che co-noscevo. «Meglio una gran fiammata che spegnersi piano piano. Porterò a termine il lavoro per il quale sono stato ingaggiato. Poi andrò a casa e af-fronterò i rimproveri. Ci vorrà del tempo, ma si calmerà. Mi ama davve-ro.»

Mi guardò negli occhi. «Ti va di farmi da scorta?» Si portò la lattina alle labbra e rovesciò la testa all'indietro per bere, ruotando gli occhi per non staccarli dai miei. «Guarda che non ti pago, i soldi sono tutti per Hazel. Le spese sono a mio carico e ti riporto dalla tedesca in prima classe.»

Sorrisi, anzi risi apertamente, impossibile non farlo: la situazione era troppo grottesca. In tutta la vita non avevo mai lavorato gratis. Anche da piccolo mi facevo pagare dalla mamma venti penny quando mi mandava al negozio all'angolo a comprare un pacchetto di Embassy Gold. «Ma non mi hai ancora detto in che cosa consiste il lavoro.»

Charlie percepì un accenno d'interesse. Pescò dalla tasca dei jeans una chiavetta USB e la inserì nel portatile. Una finestra di dialogo gli chiese se voleva vedere il film da dove l'aveva interrotto o voleva ricominciare dall'inizio. Schiacciò qualche tasto e apparve un'immagine molto mossa di un muro alto tre metri con pezzi di vetro cementati sulla sommità. Una processione di Lada avanzava pesantemente sulla strada tutta buchi che lo costeggiava. Si vedevano soltanto gli ultimi due piani dell'edificio in mat-toni consumati dietro il muro, ma le finestre, protette da griglie che spor-gevano dall'edificio, si aprivano verso l'esterno. La telecamera riprese i cancelli con i graffiti da bombolette. Due lastre di metallo alte quanto il muro impedivano ai curiosi di vedere all'interno. Avevano tutta l'aria di es-sere vecchie come la casa, scrostate, piene di ruggine e chiuse al centro da una serratura a leva.

Charlie premette sullo schermo e l'immagine s'incurvò. «Dilettanti del mio cazzo.» La cinepresa era stata nascosta in un sacchetto che aveva un

piccolo buco. Se ci avessero incastrato dentro l'obiettivo avrebbero potuto effettuare riprese migliori, ma così avevano fatto un pessimo lavoro e l'immagine era confusa sui bordi.

«Cosa stiamo guardando?» «Questa, amico mio, è la casa di un ministro del governo, nella terra più

onesta e illuminata, la ex repubblica sovietica della Georgia. Si chiama Zu-rab Bazgadze, ma io preferisco pensare a lui semplicemente come al vec-chio Baz.»

«Ottimo. E allora?» «Devo entrare là dentro e fare un lavoretto.» «Non può esserci nessun lavoretto per quella somma di denaro. Hai pre-

so precauzioni?» Sorrise. «Ecco perché pensavo che dovresti venire con me per aiutarmi.»

Tirò il golf. «Non ho comprato soltanto questo al duty free.» Si alzò, rag-giunse la sacca e prese una piccola camcorder. La luce rossa era accesa. «Quando hai bussato pensavo che fosse di nuovo lui...» Spense il conge-gno. «Sto cercando di mettere insieme più cose possibili per costruirmi una coperta di sicurezza. Se mi vogliono incastrare, finiranno a bagno con me.»

«Si può sapere di chi parli?» «Dell'americano più grasso del mondo, con una di quelle assurde sfuma-

ture alte.» Charlie tornò accanto al portatile, estrasse la chiavetta e la fece dondola-

re. «Mi ha lasciato questa e il computer... e prima che tu chieda, non far-lo.»

Aveva ragione. Non avevo bisogno di sapere chi era quell'uomo. Se fos-si andato con Charlie, e Sfumatura Alta avesse scoperto che c'ero anch'io, lui avrebbe potuto sostenere che non sapevo niente di niente. Non mi a-vrebbe mostrato il video comunque.

«Non m'interessa. Sono preoccupato soltanto che ti catturino. Sarà un casino per le tue mani tremanti riuscire a reggere i ferri del mestiere. In Georgia ci vanno giù duri, amico mio.»

«Entrare nel bersaglio è una cazzata. Chi pensi che si sia fatto tutte quel-le banche in Bosnia?»

«Quando ho letto la storia ho pensato a te.» Verso la fine della guerra in Bosnia, la Ditta aveva bisogno di mettere le

mani sui movimenti bancari di alcuni rappresentanti del governo e ufficiali dell'esercito sospettati di aver ricevuto tangenti dai baroni della droga e

della prostituzione. I ragazzi del MOE del reggimento si erano fatti un bel numero di banche. Lo scopo era cercare di tenere i tipi più loschi fuori dal-la scena del Paese in ricostruzione e privilegiare quelli onesti. Non che a-vesse funzionato. Non accade mai.

«Eh sì, avrei dovuto effettuare una piccola scrematura già che c'ero, un gruzzolo che mi avrebbe evitato di trovarmi qui a lavorare...»

«Mi dici di più del lavoretto che devi fare?» Quando lo schermo si spense Charlie mi guardò. «Adesso non posso an-

cora. Vieni con me, te lo dico quando ci siamo. Devo essere sul posto sa-bato. Partirò da qui appena è buio.»

«Perché sabato?» «Baz è via, ma torna domenica. Quindi non ho tempo da perdere in

chiacchiere, deciditi.» Inarcò un sopracciglio in attesa della risposta. «Segui il labiale, Nick: è ora di prendere la decisione.» Catturò il mio

sguardo. «Questo vuol dire che devi ponderare a lungo e porti una doman-da fondamentale.»

«Quanto fondamentale?» «Non ce n'è una più grande.» Fece un respiro profondo e assunse l'e-

spressione intensa che si riserva ai misteri dell'universo. «Siamo nel XXI secolo. Rispondi: ma chi cazzo è quel coglione che se ne va ancora in giro con la sfumatura alta?»

Rise a crepapelle. Rise così forte che fu costretto a tenersi i fianchi. «Ascolta», gli dissi stanco, «adesso chiami Hazel, le comunichi che stai

bene e che sono qui con te, intanto io rifletto.»

PARTE QUARTA

1

Tbilisi, Georgia Sabato 30 aprile 2005

Il mio sonno venne interrotto da un annuncio di bordo di cui non com-

presi una parola, e l'aereo cominciò la discesa. Guardai dal finestrino. Spe-ravo di riuscire a scorgere qualcosa della città, ma le nuvole erano troppo basse ed era ancora buio. Il Baby-G mi disse che erano quasi le cinque e

mezzo. Ho sempre adorato i voli che fanno arrivare con gli occhi rossi e l'energia giusta per affrontare la giornata.

Frugai nella tasca del sedile e presi i fogli che avevo stampato all'Internet bar di Istanbul. Dopo la partenza di Charlie avevo avuto un giorno intero da far passare, ed era mia abitudine scoprire il più possibile sul posto sconosciuto che stavo per raggiungere. Ma a parte tutto il resto, se avessi dovuto fuggire alla svelta, più sapevo e meglio era.

In genere consultavo il sito della CIA per conoscere fatti e cifre e le chat dei saccopelisti per le informazioni sul campo. Pagava sempre avere i pun-ti di vista degli estremi della catena alimentare. Se poi non bastava, entra-vo in Google.

La Federazione Russa, che la stampa locale definiva «il vicino aggressi-vo», sovrastava minacciosa la Georgia da nord e le due nazioni non erano in ottimi rapporti, al momento.

Dal crollo del comunismo, la Georgia, da sempre un Paese a maggioran-za cristiana, era diventata uno Stato indipendente, a favore dell'Occidente, e quindi di Bush. Pro Bush equivale ad anti Putin, e da qualsiasi parte la si guardi significa che l'uomo più importante del Cremlino era fuori dai gio-chi e incazzato nero. L'America e l'Inghilterra, infatti, avevano già dato mi-lioni di dollari in armi ed equipaggiamenti all'esercito della Georgia. Era l'ultima cosa che Putin avrebbe desiderato che accadesse nel cortile dietro casa ed era per questo che non aveva ancora ritirato le truppe, i mezzi co-razzati e l'artiglieria che ufficialmente erano ancora lì in «missione di pa-ce».

A sud-est c'è l'Azerbaigian, un Paese con la fortuna di avere un tratto di costa sul mar Caspio, ricco di petrolio. Nonostante sia terra di musulmani, viene aiutato alla grande dall'America per motivi non difficili da intuire. L'oleodotto BTP, costruito da un consorzio capeggiato dalla British Petro-leum e sul punto di entrare in funzione, si allunga per milleseicento chilo-metri da Baku alla costa del Mediterraneo, attraversando la Georgia a sud di Tbilisi. A sud sta l'Armenia, un Paese che secondo i miei calcoli è to-talmente privo di uomini fra i venti e i quarant'anni, troppo occupati altro-ve a gestire traffico di droga, prostituzione, estorsione in ogni città dell'Occidente, oltre a ogni altro genere di racket che era esclusiva della mafia prima che questi ragazzi riuscissero a scalzarla.

A sud si trova la Turchia, importante sotto diversi aspetti, che in quel pe-riodo era piuttosto soddisfatta perché avrebbe gestito tutti gli affari della parte terminale dell'oleodotto a Ceyhan, dove molto presto flotte di super-

petroliere sarebbero state in attesa di trasportare greggio in abbondanza per far muovere i 4x4 dell'Inghilterra e della costa orientale dell'America nell'immediato futuro. È probabile che si sentissero anche molto protetti perché la base militare USA di Incirlik era proprio sulla soglia di casa.

A un certo punto del 2005 l'oleodotto, del diametro di un metro e sei centimetri, avrebbe cominciato a produrre un milione di barili al giorno. Il petrolio avrebbe impiegato sei mesi per percorrere le migliaia di chilome-tri, non che alla Turchia importasse qualcosa. Sapevano di avere un ruolo centrale nell'operazione, almeno per quanto riguardava l'America e l'In-ghilterra, il che garantiva loro di diventare membro effettivo dell'Unione europea nonostante le perplessità della Germania e della Danimarca. Le targhe con la striscia azzurra erano molto più che una speranza.

Il bacino del Caspio è stato spesso centro dell'attenzione internazionale. Nel XIX secolo, quando la Russia zarista aveva qualche problemino con l'impero britannico, Kipling aveva definito la lotta per il petrolio «il Gran-de Gioco». Cento anni più tardi, il gioco è ancora molto in voga, ma con un gran numero di giocatori in più.

Tutti volevano prendere parte all'azione. La Russia aveva costruito un oleodotto verso la costa del mar Nero. Anche la Cina si stava impegnando. Una delle più grandi riserve di energia non ancora sfruttate del mondo - stimata in circa duecento miliardi di barili - giace sotto il Caspio, e dal crollo dell'impero sovietico è una preda molto ambita.

L'America era impegnata in Georgia nell'organizzazione e nell'adde-stramento dell'esercito. Gli inglesi facevano la loro parte fornendo attrez-zatura, trasporti e logistica, e l'intero impegno veniva chiamato Partecipa-zione al programma di pace; in teoria si trattava del riassetto dell'esercito nella Georgia postcomunista, in realtà era finalizzato alla protezione del «corridoio dell'energia». La minaccia di sabotaggio da parte di musulmani militanti e separatisti etnici era sempre presente.

Ogni volta che i soldati non si occupavano a dovere del loro campo di papaveri, lo rendevano un bersaglio irresistibile.

La cosa più gustosa che avevo letto era che i russi avevano costruito una loro base accanto a ciascuna base americana. Così le due parti se ne stava-no lì a tenersi d'occhio. Pace e armonia non è il nome appropriato di quel gioco, soprattutto considerando che il governo della Georgia è fra i dieci più corrotti del mondo. Tutte queste cose sommate potevano voler signifi-care un mare di guai per Charlie Ballerino. Ecco spiegata la mia presenza.

L'aereo atterrò e io recuperai la mia sacca dalla cappelliera. Quasi tutti i

passeggeri erano uomini, in parte grassi turchi con l'impermeabile, indaffa-rati ad aprire pacchetti di Marlboro per essere pronti a fumare appena den-tro l'aeroporto, in parte georgiani vestiti di nero dalla testa ai piedi. L'unico paio di jeans in vista erano i miei: li avevo comprati al mercato insieme a un maglione con una simpatica lucentezza da nylon che lo rendeva ancora più inquietante di quello di Charlie.

Sollevai il colletto del giubbotto e seguii tutti gli altri sull'asfalto bagnato di pioggia verso l'edificio del terminal considerato il massimo dal regime dei soviet, un mausoleo di cemento e vetro. Ai vecchi tempi sarebbe stato adornato con intensi ritratti del ragazzo-di-qui-che-è-diventato-qualcuno, Josif Visarionovič Džugašvili. O, come preferiva essere chiamato, lo zio Joe Stalin.

2

Nell'ultimo decennio l'interno del terminal era stato in parte risistemato,

ma a mio parere gli operai erano gli stessi che avevano lavorato alle ferro-vie di casa nostra dopo la privatizzazione: una mano di pittura ai vecchi vagoni e una rivista gratis all'ingresso delle stazioni per non farci notare che le carrozze continuavano a far schifo, i cessi non funzionavano e mai niente era in orario.

Nella sala dell'immigrazione c'erano quattro postazioni per il controllo dei passaporti. In ognuna, una ragazza sorrideva dietro al vetro. Non riu-scivo a decidere se nel tempo libero costituivano un complessino femmini-le, oppure erano tenniste che allenavano Maria Sarapova. Mi unii alla fila per i visti. Fin lì l'odore era di capelli sporchi e bagnati. I turchi con l'im-permeabile prima di me fissavano con odio i cartelli VIETATO FUMARE. Era chiaro che non li avevano previsti. Sei o sette persone alle mie spalle sentii due tipi che parlavano con l'accento del Mersey. Mi voltai con natu-ralezza per guardarli meglio.

Erano in tre o quattro, due con la barba, tutti con indosso una giacca in Gore-Tex, pantaloni comodi e stivali. Non fosse stato per il logo BP sulle targhette del bagaglio a mano, avrei pensato che fossero venuti in Georgia per aprire un centro per appassionati d'avventura o per organizzare un se-minario sulle tecniche di comunicazione aziendale.

Mi girai di nuovo. In testa alla fila, due funzionari erano troppo impe-gnati a fumare e chiacchierare fra loro per trovare il tempo di aiutare qual-cuno a compilare i moduli per superare l'immigrazione, e ricongiungersi,

forse, con le valigie. I turchi cominciavano a essere incazzati sul serio. Non so se per la lunga

attesa, o perché i due funzionari ci davano dentro con le Marlboro e loro invece no. Finalmente, finita la pausa sigaretta ma senza smettere di parla-re, cominciarono a ritirare i passaporti e a esaminare torvi gli intestatari. Il giorno prima Charlie non aveva dovuto seguire la stessa trafila. Si era fer-mato a Istanbul per avere il visto. Non aveva lasciato niente al caso, non come me: non aveva voluto correre rischi con i Chuckle Brothers e le Spice Girls.

Dopo un po' arrivò anche il mio turno. I due dell'immigrazione dietro il vetro erano seduti a un tavolo di formica che mi arrivava ai fianchi. Senza neppure alzare gli occhi, il più giovane prese il mio passaporto americano e il modulo d'ingresso, lo sfogliò e sollevò la testa. Sul volto nessuna trac-cia di espressione. «Niente visto?»

Perché cazzo mi sarei fatto la fila per i visti, se no? Sorrisi. «Mi hanno detto che potevate farlo voi.»

Se avessi avuto il tempo di andare al consolato a Istanbul mi sarebbe co-stato quaranta dollari. Ma per il fatto che ero già lì il prezzo saliva a ottan-ta. In teoria. Morivo dalla voglia di scoprire fino a che punto avrebbero sfidato la fortuna.

Non rispose al mio sorriso. «Centoventi dollari.» «Centoventi?» Giocherellai con l'idea di segnalarlo in rete, ma mi ripresi

subito. «Centoventi dollari.» Presi le banconote dal portafogli e gliele passai. Non era pagare di più

che mi dava fastidio, era una questione di principio. Mi guardò per un paio di secondi. «Perché è venuto qui?» «Per cercare un mio amico.» Le migliori storie di copertura sono quelle

che hanno un fondo di verità. «Ha lasciato la moglie, sono venuto a ripor-tarlo a casa.»

Si avvicinò al collega, che non aveva mai smesso di parlargli dei fatti suoi. Il vecchio annuì e sorrise, forse aveva rapidamente calcolato che po-teva permettersi una puttana sulla via di casa.

Il tipo contò la moneta forte, applicò il visto sul passaporto e arrivò an-che a rilasciarmi una ricevuta. Era soltanto per ottanta dollari, ma il visto era a pagina intera. Gli sorrisi per dimostrare che ero convinto di aver spe-so bene i miei soldi.

Raccolsi la sacca e mi diressi verso il controllo passaporti. Tutte le Spice

indossavano una fiammante divisa marrone con la nuova bandiera naziona-le su entrambe le maniche: la croce di San Giorgio con una croce più pic-cola in ogni quadrante bianco. Qualcosa che anche Riccardo Cuor di Leo-ne avrebbe potuto farsi spennellare sullo scudo prima di dare l'assalto a Gerusalemme.

3

Uscii. L'intera area era coperta da una gigantesca tettoia in cemento che

forse era stata costruita per celebrare un eccezionale raccolto di grano so-vietico negli anni '50. Sotto la tettoia la gente si destreggiava per conqui-stare un posto in lotta con carrelli prestaliniani in direzione dei taxi.

Dall'altro lato della strada alcuni tassisti attendevano i clienti bevendo caffè, sotto una serie di pensiline in legno illuminate a giorno.

Mentre me ne stavo lì a decidere il da farsi, vidi la squadra del seminario sulle tecniche di organizzazione aziendale che saliva su una lucida Land Cruiser che immaginai pronta a portarli in un lampo davanti a una tazza di tè caldo e una completissima colazione all'inglese.

Mi avvicinai all'interminabile coda per i taxi. Una processione disordina-ta di Lada, squadrate e tozze, serpeggiava verso di noi, le insegne fissate in modo precario con due elastici, lo stesso sistema che usava Silky per le ta-vole da surf.

Davanti a me avevo alcune donne georgiane. Alcune magre come ra-strelli, altre fatte come palle da bowling. I trent'anni sembravano il punto di trasformazione dall'una all'altra, anche se era difficile da valutare: tutte, anche quelle che avrebbero dovuto avere i capelli bianchi, li avevano o ne-rissimi o di un intenso color prugna.

Finalmente arrivò il mio turno. Mi toccò una Lada di un meraviglioso color senape e ruggine. Salii dietro. I finestrini erano appannati e la radio andava a tutto volume, forse per cercare di camuffare il rumore dei tergi-cristalli sul parabrezza incrinato.

«Al Marriott, amico, albergo Marriott.» La sigaretta che gli pendeva dal labbro inferiore si mosse in su e in giù

mentre annuiva. Ma il taxi non si mosse. «Marriott. MA-RRI-OTT?» «Marriott! Marriott!» S'illuminò e la Lada avanzò sobbalzando a velocità ridotta, forse perché

l'autista non riusciva a vedere, dato che il parabrezza era una ragnatela di

vetro incrinato, come se avesse ricevuto una scarica di fuoco semiautoma-tico.

Il tassametro era sporco di unto e di cenere di sigaretta, e probabilmente non era mai stato usato. Mi sporsi in avanti. L'autista aveva circa ses-sant'anni, folti baffi grigi e capelli grigi lisciati indietro con qualche riccio-lo sul colletto della polo nera.

Strofinai il pollice e l'indice. «Quanto?» Blaterò qualcosa che, ovviamente, non compresi. Mi sembrava swaili,

con uno strano clic e qualche suono gutturale ornamentale. Mentre mi parlava si era ricordato di accendere i fari e sorpassammo una

Land Rover a tetto rigido. Senza possibilità d'errore si trattava di un veico-lo militare inglese con targa del ministero della Difesa.

L'autista era sceso e stava appoggiato alla portiera. Giaccone impermea-bile squadrato, testa rasata, jeans sbiaditi e Nike, costose e nuovissime: doveva essere americano. Forse aveva accompagnato, o era venuto a pren-dere, un «consulente» per la Partecipazione al programma di pace.

Proseguimmo sulla strada a due carreggiate verso il centro della città, di-stante circa sedici chilometri. Lo sapevo perché l'avevo letto in Internet. Nessuna indicazione stradale in vista, soltanto gigantesche strutture per cartelloni pubblicitari che un tempo magnificavano le meraviglie del co-munismo e adesso ribadivano gli stessi concetti, ma a proposito della Co-ca-Cola e della Sony. Tetri edifici in cemento cominciarono a spuntare su entrambi i lati della strada a mano a mano che ci avvicinavamo alla città. Erano stati ridipinti di recente con colori che nessuno potrebbe mai sce-gliere da sobrio. Cubi giganti verdi, altri viola. Uno giallo.

Non era quello che mi aspettavo di vedere, cioè strade in buono stato e pittura fresca. Come se non bastasse, anche a quell'ora del mattino, nel bu-io, c'erano donne che spazzavano la strada con lo stesso tipo di ramazza che Harry Potter usa per giocare a Quidditch.

All'ingresso della città vera e propria incrociammo un convoglio di ca-mion militari con pezzi di artiglieria a rimorchio. Sapevo che Tbilisi si tro-va ai piedi di tre colline imponenti e ripide, attraversata da nord a sud dal fiume Kura. Stavamo entrando dalla pianura a est. Più aumentavano le ca-se e più aumentavano i cani. Erano dappertutto, randagi che facevano pipì su ogni auto raggiungibile o al guinzaglio per la passeggiata mattutina.

Un'auto della polizia bianca e azzurra bloccava la strada. I due all'interno della VW Passat nuova di zecca stavano sonnecchiando; da come erano messe le cose, era il giusto e meritato riposo per il duro lavoro di aver fis-

sato il nastro a strisce della polizia dallo specchietto laterale al muro, su entrambi i lati. Il mio amico dai baffi grigi scrutò attraverso il vetro incri-nato, imprecò e svoltò a destra.

La strada dal fondo regolare lasciò improvvisamente il posto a un campo minato di buche piene d'acqua così gigantesche che un autobus poteva a-gevolmente nascondercisi dentro.

Il mio autista si unì a tutti gli altri nello slalom da una parte all'altra per cercare di evitarle. Incredibile, alcuni ci riuscivano anche senza fari.

Questa assomigliava di più alla Georgia che avevo immaginato. Forse l'ente del Turismo non voleva privare i visitatori dell'autentica esperienza da gulag, e la polizia era là per garantire che non ce la perdessimo. Se non altro erano apparsi alcuni cartelli stradali scritti in russo e in un'altra lingua che immaginai essere georgiano, anche se le parole sembravano righe di graffette contorte.

Il tassista si faceva il segno della croce a ogni chiesa che incontravamo. Non sapevo se era sincera devozione o una forma di ringraziamento per essere ancora in vita, nonostante il folle modo di guidare fra quelle buche di dimensioni giurassiche.

Superammo il Kura, il più rapido - e più marrone - fiume che io abbia mai visto, per raggiungere la riva occidentale e il centro città. Il Marriott si trovava sulla via principale, un altro tratto di strada uniforme appena asfal-tata che costeggiava il fiume. Era identico in grandezza e mancanza di per-sonalità a tutti gli altri in cui ero stato, ma notai che doveva essere fra i più recenti e più eleganti della catena ancora prima di scendere dal taxi.

Dal soffitto dell'atrio, alto venticinque metri, pendevano lampadari gran-di come mongolfiere. Sembrava che tutte le persone all'interno fossero u-scite dalla vetrina di Armani un attimo prima di andare a fare colazione. Tutti, ospiti e personale, erano vestiti nelle varie gradazioni di nero.

Il cartello alla reception informava che era un onore per il Marriott offri-re il benvenuto in Georgia al congresso della BP, e che tutti i delegati era-no invitati alle due del pomeriggio nel salone St David. In quell'angolo di mondo non solo avevano accolto il capitalismo, ma lo avevano abbracciato ed erano pronti a collegarsi con Bluetooth per scaricare tutti i dettagli in ogni Blackberry disponibile.

4

«Stanza 258, signore.» Il portiere mi porse la scheda della camera.

Lo ringraziai e mi allontanai, ma non aveva finito. «Un momento.» Frugò sotto il bancone. «Questa è per lei.» Presi la busta rigonfia. Dietro c'era scritto: «Da C.T.». Mi abbassai per prendere la sacca ma un giovane fattorino mi batté sul

tempo. Mi precedette per quei quattro passi fino all'ascensore. Non avevo bisogno di aiuto ma non volevo sconvolgere il protocollo e farmi notare. E poi, comunque, non credo che avrebbe mollato la sacca e la mancia.

Schiacciò il pulsante di chiamata. «È già stato a Tbilisi, signore?» Pro-babilmente l'accento l'aveva preso dagli show televisivi americani. E anche la pettinatura: aveva capelli così puliti e perfetti che avrebbe potuto parte-cipare a The OC, e sul viso non c'era traccia di barba e neppure un brufolo.

Sorrisi e pronunciai i convenevoli di rito mentre lasciavamo passare un maggiore americano in BDU con valigetta, prima di salire al terzo piano. «No, ma mi pare che sia un bel posto.»

Annuì, ma mi lanciò un'occhiata che lasciava intendere che non ero nella posizione di dire niente, a giudicare dal mio abbigliamento.

Raggiunta la stanza mi spiegò come funzionavano l'aria condizionata e il televisore, si preoccupò anche di informarmi che le due bottiglie d'acqua minerale sulla mensola erano locali e un omaggio dell'albergo. Sapevo già tutto, ma non volevo interrompere la sua tiritera. Volevo restare il Signor Nessuno, per quanto mi consentiva il pullover a disegni arancioni, verdi, marroni e azzurri.

Quando ebbe finito il discorsetto di prassi s'inchinò e sorrise. Gli ficcai in mano una banconota da cinque dollari prima che gli venisse in mente di concedere il bis. Non avevo idea di che valore avessero in lari o come dia-volo si chiamava la valuta locale, ma se ne andò come un coniglietto parti-colarmente felice. Anche in Georgia, come in tutto il resto del mondo, il dollaro regna sovrano.

Apprezzai le tende di lusso, i mobili e gli arredi. Un bel cambiamento ri-spetto ai buchi di merda in cui alloggiavo sempre durante un lavoro. A quel punto aprii la busta di Charlie.

Il Motorola con scheda prepagata era nuovo di pacca, probabilmente la prima cosa che aveva comprato all'arrivo; sul display c'era un unico nume-ro in memoria. Lo chiamai mentre accendevo la televisione con il teleco-mando. Mi è sempre piaciuto controllare se anche negli altri Paesi subiva-no gli stessi programmi schifosi che ero costretto a guardare io.

Charlie rispose immediatamente con il marcato accento da profondo Yorkshire dalle vocali allungate, parlato dalla gente di Tetley. «Ehilà, co-

me butta, amico?» Pareva aver appena ingoiato una manciata di pillole del-la felicità.

«Piantala, scemo. Sono nella 258. Tu?» «Uno-zero-sei.» «Sistemo quattro cazzate, ci vediamo fra trenta.» «Bene benissimo, a dopo.» Chiuse il telefono. RTV1 era il canale principale. Era bello vedere che la casalinga russa

aveva la stessa espressione vagamente esasperata della sua cugina del Mi-dland mentre guardava i figli che si coprivano di fango nel Campetto, e che il Tide risolveva anche i suoi problemi.

Infilai la spina del caricabatteria in una presa e controllai le tacche. Di certo ci aveva già pensato Charlie, ma una rabboccatina non faceva mai male, soprattutto nella capitale delle interruzioni di corrente.

Continuai a far scorrere i canali. La versione russa di The Weakest Link sembrava identica a quella americana (che a sua volta era esattamente i-dentica alla versione inglese), però la donna che faceva le domande aveva i capelli castani e non aveva tic d'espressione.

Controllai la cassaforte anche se non avevo niente da metterci. I dollari che avevo ritirato dal bancomat a Istanbul, circa millecinquecento in ban-conote da cinque e da dieci, sarebbero restati con me. Il passaporto anche. La aprii per abitudine, per vedere se l'ultimo ospite mi avesse lasciato qualcosa di valore. Una cosa che facevo già da bambino quando controlla-vo le cabine telefoniche e i distributori di sigarette. Non avevo mai trovato niente, ma non si sa mai.

Aprii il minibar. C'erano le solite bottigliette di liquore ma mi sarei a-spettato molta più vodka. Coca-Cola, Fanta, birra locale con l'etichetta piena di lingua-graffette e un pizzico di russo. Un paio di bottigliette di ac-qua minerale della stessa marca di quelle da un litro che erano accanto al televisore, ma senza il cartoncino che mi informava che era l'orgoglio della Georgia, e una cartina con una freccia rossa su una città a ovest della capi-tale. E i soliti succhi di frutta.

Optai per una lattina di succo di mela. Seduto sul letto, sentendomi a pezzi, passai in rassegna i rimanenti ven-

tidue canali. Molti erano russi, un paio trasmettevano notizie locali e natu-ralmente c'erano la CNN e la BBC. Lasciai la TV sintonizzata su un pro-gramma in lingua-graffette e guardai fuori mentre andavo a fare una doc-cia.

Il tempo era sempre brutto. Aveva smesso di piovere, ma era un'alba tri-

ste e coperta di nuvole. La strada era già intasata, un misto di auto e ca-mion occidentali e tozze Lada vecchie, piegate sotto il peso dei troppi sac-chi di patate legati ai portabagagli.

Imponenti palazzi antichi di un paio di secoli costeggiavano la strada. Avevo letto sulla guida che ospitavano gli uffici del governo. Ancora più lontano vidi cupole, guglie di chiese e musei a contatto con casette in mat-toni a vista attaccate l'una all'altra lungo le stradine ripide.

Era chiaro che il regime comunista ce l'aveva messa tutta per preservare la grandiosità della città vecchia, e le schifezze nuove erano state costruite ben lontano dal palazzo municipale, forse per non doverle vedere. A pen-sarci bene, era probabile che i costruttori, finito il lavoro, avessero fatto domanda per entrare a Hereford.

Le verdi colline che circondavano la città salivano sopra i tetti e sembra-vano così vicine da poterle quasi toccare.

Infilai i calzini di poliestere fosforescente sulle mani ed entrai sotto la doccia: li avrei usati come spugne. Doppio effetto, pulito io puliti loro.

Mi era bastata un'occhiata alla hall dell'albergo per capire che avrei fatto meglio a consultare qualche sito riguardo al modo di vestire; quelli del mercato non erano adatti. Ma poi, in fondo, che cazzo me ne fregava, il la-voro di Charlie era per quella sera e quindi domani non sarei stato più lì...

Sempre che l'avessi fatto. Prima volevo sapere con esattezza di cosa si trattava. Ero in Georgia soltanto per scoprirlo, perché non c'era altro modo.

5 Ma chi volevo prendere in giro? Sentivo il dovere di salvare il vecchio Mani Ballerine da se stesso, per

che cos'altro sarei venuto, altrimenti? Ma al babbeo non l'avrei detto, per ora. Volevo tenerlo sulla corda, do-

veva fare la fatica di convincermi. Ero piuttosto preoccupato. Tutto succedeva troppo in fretta. Avrei prefe-

rito avere il tempo di ambientarmi. Ma non c'era. E poi, comunque, quello che si beccava i testoni era Charlie.

Doveva muoversi con le sue gambe, se poi avesse cominciato a tremare sarei stato pronto a reggerlo in piedi.

Cinque minuti dopo, mentre mi asciugavo, seguii lo spot migliore nell'u-niverso che invitava ad arruolarsi. Ci misi un po' per capire che non si trat-

tava della pubblicità del Colgate. Ogni soldato inquadrato aveva il sorriso perfetto e bianchissimo per cui ogni madre georgiana sarebbe morta; molte di quelle che si trovavano fra il pubblico erano sul punto di svenire mentre passava la parata. Mi aspettavo di vedere da un momento all'altro il fatto-rino dell'albergo.

La musica diffondeva serenità mentre la telecamera indugiava su fratel-lini minori invidiosi e ansiosi di arruolarsi, mentre sorelle maggiori guar-davano rapite i nuovi compagni dei fratelli. Sullo sfondo la bandiera di Riccardo Cuor di Leone ondeggiava accanto alla Stelle e Strisce, e ogni tanto si intrecciavano al vento.

Molto toccante, quasi quasi mi sarei arruolato anch'io. Charlie diceva sempre «Non hai bisogno di nient'altro...»

Lasciai i difensori della patria al momento del saluto alla bandiera e sce-si di sotto con i soldi, il passaporto, il telefono e i capelli bagnati.

Avevo bisogno di fare il punto. Il piano prevedeva di farci vedere insie-me il meno possibile. Ricognizioni separate. Ci saremmo riuniti soltanto per il lavoro, qualunque fosse, e il giorno successivo avremmo raggiunto l'aeroporto ognuno per conto proprio.

Il volo per Istanbul era alle dieci del mattino, ma se l'avessimo perso po-co male. Nelle due ore successive erano programmati voli per Vienna e Mosca che ci avrebbero consentito di lasciare la Georgia. Una volta al si-curo, si trattava soltanto di trovare il modo di raggiungere l'Australia.

A quel punto, io avrei scoperto se Silky era ancora disposta a rivolgermi la parola, e lui era libero di crepare.

La stanza 106 aveva il cartellino NON DISTURBARE, scritto in russo, inglese e in lingua-graffette, appeso alla maniglia. Bussai e arretrai d'un passo per consentire allo sciocco babbeo di vedermi bene in faccia attra-verso lo spioncino.

La porta si aprì e un Charlie molto sorridente mi invitò a entrare. Era ve-stito da uomo del petrolio con tanto di stivali americani da deserto molto consumati. L'unica cosa che mancava era il logo a fiori.

Mi squadrò dalla testa ai piedi. «Ce l'hai messa tutta per adeguarti, a quanto vedo. Assomigli ai condomini della periferia.»

Tende chiuse e luci accese. Sulla piccola scrivania vicino alla finestra c'era il computer collegato. Sul letto una cartina aperta, senza nessun se-gno, e una serie di grimaldelli e tensionatori improvvisati. Sedetti sul bor-do e presi un pezzo di fil di ferro ricavato da un appendiabiti metallico. Era piegato ad angolo retto, il lato più corto misurava sei centimetri, l'estremità

del lato più lungo era piegata a cerchio. «Sei già stato a controllare le serrature del tuo lavoretto?» «Ho studiato il filmato.» Si avvicinò al computer, inserì la chiavetta del-

la memoria nella porta USB. «Dai un'occhiata.» Bloccò l'immagine del gi-gantesco cancello a due ante in ferro. «Vedi? Una cazzata. Mi ci vorranno meno di dieci secondi.»

Aveva ragione. Era una semplice serratura a leva, facile da far saltare anche senza rico, e che ci avrebbe consentito di entrare in fretta nel giardi-no e toglierci dalla strada.

«Quando sarai all'interno cosa devi fare? Non me l'hai ancora detto.» Chiuse di scatto il computer e mi guardò. «È un'operazione CTR (Close

Target Recce, ricognizione ravvicinata del bersaglio) nascosta. Io - spero noi - devo aprire una cassaforte e prendere qualsiasi documento si trovi all'interno, poi richiudere tutto e lasciare le carte in un particolare posto. Il vecchio Baz non se ne accorgerà nemmeno; entriamo e usciamo senza la-sciare la più piccola impronta.»

Smise di parlare. «Sarà un po' come tornare ai vecchi tempi, vero?» Vero. Avevamo fatto un bel numero di CTR nascoste insieme, alle case

dell'IRA, cercavamo armi ed esplosivi o piazzavamo dispositivi per inter-cettazioni, il tutto per riempire i registri. Ma questo incarico era diverso. «Mi sembra che paghino troppo per un lavoro semplice. Sai dove si trova la cassaforte e di che tipo è?»

Charlie non riuscì a reprimere il sorriso. «Non ancora e non m'importa. Anche un minchione come te sa che le serrature vengono progettate per es-sere aperte. E poi, perché credi che paghino così bene?»

Mi alzai. «Sai cosa devi prelevare?» «No. Tutti i documenti che trovo, manoscritti o stampati.» «Sai perché devi prenderli senza che nessuno se ne accorga? Perché non

hanno assunto un ladro del posto che faccia saltare tutto?» «Non lo so e me ne frego. Potrebbero esserci migliaia di motivi.» «Vive da solo?» «Sì, solo soletto in quella grande casa. Un vero spreco.» «Sai cosa ha fatto questo Baz, o cosa sta per fare?» Charlie sapeva che avrei continuato a fargli domande a raffica per ore se

non mi avesse fermato. «Prendi fiato, amico. La situazione è sotto control-lo. Alle nove scoprirò tutto quello che c'è da sapere quando il vecchio Sfumatura Alta verrà qui. Non c'è tempo per cazzeggiare, deve parlare,

siamo troppo vicini all'ora X, io non farò il lavoro se non mi spiega tutto per bene. A Istanbul gli ho dato una lista di quanto mi occorre.»

Mi elencò tutto: equipaggiamento a fibre ottiche, sacca con gli attrezzi per affrontare ogni possibile tipo di serratura e tutte le piccole cose che non abbandonano mai la mente di un esperto.

Charlie rideva come uno scemo. Adorava parlare di lavoro; era come se fosse fuggito dal recinto. «Perché fai quella faccia? Lo so che è roba da due soldi, ma ne abbiamo bisogno per coprire tutte le evenienze, oltre al nostro culo.»

Lo ascoltavo ma, al momento, dell'attrezzatura me ne sbattevo le balle. «Sono preoccupato per te. E anche per me. Charlie, non sai un cazzo di niente. Potresti annegare in un mare di merda, essere buttato nella spazza-tura insieme a tutto il resto, a lavoro finito.»

6

«So che è rischioso. Per questo ti ho chiesto di venire. Continuo a pensa-

re che se il carro è sul punto di perdere le ruote, ci sarai tu ad aiutarmi a rimetterle a posto. Ma dopo le nove saprò qualcosa in più del lavoro...»

Non risposi, volevo che facesse la fatica di convincermi, volevo sapere di più di Sfumatura Alta e di Baz e perché dovesse rubare dei documenti da una cassaforte.

«Guarda che ho già cominciato a proteggermi. Ho spedito a Hazel con posta prioritaria la prima cassetta del ciccione. Le ho detto di non aprirla ma di tenerla al sicuro. Sopra non c'è un cazzo di importante, ma è comun-que un inizio.»

Si alzò e si avvicinò al bollitore sopra il minibar. «Va tutto bene, Nick, davvero. Metti il culo sul morbido», mi disse indicando il letto. «Ti prepa-ro un tè.» Si comportava come un nonno. Forse perché lo era.

Spostai la cartina e sedetti. Sentivo il viso in fiamme. Cosa mi preoccu-pava tanto, il lavoro o la sua sicurezza? Non riuscivo a decidere.

Il bollitore in plastica cominciò a gorgogliare. Charlie mi girava le spal-le. «Allora, sei con me?»

Aprì due bustine di tè e le infilò in due minuscole tazze da caffè. Il tè sa-rebbe finito in un sorso. «Come ai vecchi tempi, d'accordo?»

«No, Charlie, non come ai vecchi tempi. Abbiamo usato i nostri passa-porti. E non sappiamo un cazzo di quello che ci aspetta. Non abbiamo con-trollo sul lavoro.» Gli fissai la schiena. «Io non ci sto, se non scopriamo

qualcosa di più...» Non terminai la frase. «Ma perché cazzo continuo a parlare al plurale?» L'ultima frase lo divertì molto. Le spalle sobbalzavano tanto che pareva

che sghignazzasse con tutto il corpo. Dopo un minuto o due si calmò e s'impegnò a cavar fuori il latte con il

manico del cucchiaino dal piccolo contenitore di plastica. «Secondo te io non ho l'intero quadro della situazione? È proprio per questo che ho biso-gno di te, per guardarmi le spalle.»

Si voltò e mi allungò una tazza. «Che ne dici?» Aveva gli occhi lucidi e non credo che dipendesse dalla

risata. «Una cazzata da niente, se siamo in due...» Bevvi un sorso del tè più leggero del mondo. «Come hai detto che si

chiama?» «Zurab Baz-tuo-padre. Un nome così.» «Cazzo, non sai neppure il nome, ma di cosa ti sei fatto?» «Aspetta, ora ricordo. Bazgadze. Ma che importanza ha il nome? So do-

ve abita, non dobbiamo mica incontrarlo. Oggi facciamo le rico e stanotte il lavoro. E poi ce la filiamo. Al duty free comprerò anche una bottiglia da portare a Hazel. Lo sapevi che il vino lo hanno inventato da queste parti?»

Spostai la cartina, allungai le gambe e posai la tazza sul comodino. «Lei come sta?»

«Un po' irritata, ma sa che tu sei con me.» Era tornato a sorridere. «Silky era fuori a cavallo con Julie.»

A quel punto sorridevo anch'io. Erano passati soltanto pochi giorni, ma mi mancava un casino. Mi ero abituato alla sua presenza. Mi divertivo molto di più con lei che con il vecchio babbeo.

Charlie aveva centrato un nervo sensibile e lo sapeva. «Vuoi che Hazel ti scriva sul registro dei buoni? Allora ti autorizzo a dirle che mi hai convinto a tornare indietro e che il lavoro non si fa più. Che te ne pare?» Compose il numero sul suo cellulare. «Avanti, chiamala.» Lo gettò sul letto. «Le ho già detto che avresti provato a convincermi a lasciar perdere.»

Lasciai il telefono dove stava. «Che succede se non riusciamo a entrare stanotte? Esiste un piano B?»

«Assolutamente no. Ora o mai più. Dai, chiamala.» Rinunciò a bere il tè, imbevibile. «Io resto. Non ho scelta. A proposito,

le ho fatto credere che siamo ancora in Turchia. Dille che mi riporti a casa domani.» Il sorriso svanì e diventò serissimo. «Ti prego.»

Presi il telefono e premetti il pulsante di chiamata. Ci mise un secolo

prima di prendere la comunicazione, ma dopo un solo squillo ero in linea. «No», dissi. «Sono Nick.» «Quando partite? Vi veniamo a prendere all'aeroporto?» «Domani. Sono riuscito a farlo ragionare.» «Non so come ringraziarti, Nick.» Credo di non aver mai sentito nessu-

no così sollevato. «Grazie, grazie. Quando arrivate?» «Non ho ancora visto che voli diretti ci siano da Istanbul. È un casino.

Silky è lì con te?» Sentii la risposta sussurrata di Hazel e poi la voce di Silky. «Mi manchi,

Nick Stein. Torni domani?» «Uhm, ascolta, sono al cellulare, costa una tombola. Ti chiamo quando

so il volo, d'accordo?» «Sì.» «Silky?» «Cosa?» «Mi manchi molto anche tu, testa quadra.» Chiusi il telefono e lo gettai sul letto. «Grazie al cielo non c'è il video.» «Non volevi che vedesse come sei conciato?» «No, non volevo che vedesse il maglione.» Afferrai la cartina. «Bene», dissi, «come cazzo facciamo a entrare?»

7 Il cielo era grigio, pesante e ce la metteva tutta per recidere la sommità

delle colline. Gli spruzzi delle auto che avanzavano fra pozzanghere grandi quanto campi da tennis rendevano lucido il marciapiede attorno alla ferma-ta dell'autobus, dove ero seduto in attesa che Sfumatura Alta si facesse vi-vo.

Sarebbe stata una giornata brutta e afosa. Mi trovavo di fronte all'albergo dall'altro lato della strada e tenevo d'oc-

chio l'ingresso. Il piano prevedeva che avrei avvertito Charlie dell'arrivo di ogni «possibile». In camera la camcorder, che avrebbe ripreso la consegna dell'attrezzatura e le risposte alle domande di Charlie, era collegata. Il na-stro sarebbe diventato il pezzo forte della nostra coperta di sicurezza se fosse finito tutto in merda. Lo avremmo nascosto - insieme al resto su cui fossimo riusciti a mettere le mani - e fatto in modo che Dave il Matto sa-pesse che avevamo qualche scatto chiuso a chiave. Questo avrebbe dovuto bloccare ogni tentativo di fotterci da parte di Sfumatura Alta o di altri.

Ero fermo accanto alla vetrina di un'armeria. Quelli che aspettavano l'au-tobus potevano osservare un numero quasi infinito di fucili, carabine e pi-stole cromate che rispondevano a tutte le esigenze. Avevo già visto passare un paio di tizi con la fondina ascellare portata sopra la felpa, e non ci tene-vano certo il deodorante. Le felpe erano nere, ovviamente. In Georgia, il nero era un must. Quasi tutti gli uomini indossavano pelle nera sopra il ne-ro. Tutti quelli sopra i trenta avevano l'aria di aver passato la notte come buttafuori del corrispondente di Tbilisi dello Spearmint Rhino Club.

Tutte le strade che salivano da quella principale erano in pessimo stato. Pareva che avessero visto l'ultimo ritocco di asfalto ai tempi del famoso glorioso raccolto. Le buche erano molte di più delle Lada che potevano fi-nirci dentro e i marciapiedi erano così frantumati che quasi non si distin-guevano.

Branchi di cani rognosi si preparavano a passare la giornata a rincorrere la spazzatura trasportata dal vento. A terra ce n'era tanta e tanti erano i sac-chetti di plastica sbiaditi, intrappolati fra gli alberi da formare la quarta collina che avrebbe chiuso completamente la città.

Passarono altri dieci minuti. A parte l'armeria e qualche rivendita di tele-fonini, lungo la strada principale pareva che gli altri negozi fossero soltan-to librerie. Mentre osservavo i vecchi camion russi, squadrati come bun-ker, avanzare fra Mercedes e Volvo ultimo modello, notai l'assenza dei semafori. Adesso che ci pensavo, non ne avevamo incontrato neppure uno nel tragitto fra l'aeroporto e l'albergo. Forse gli automobilisti erano molto disciplinati di natura, oppure li avrebbero ignorati alla grande e quindi era-no inutili.

Poco prima delle nove, un Mitsubishi Pajero 4x4, bicolore, argento in basso e blu in alto, si fermò davanti all'albergo. A bordo erano in tre. An-che da lontano vidi che quello dietro aveva la sagoma di un bidone. Rotolò sul marciapiede, aprì il portellone posteriore, prese una grande sacca colo-rata e sparì attraverso le porte di cristallo. L'auto non si mosse. Avevo vi-sto un certo numero di limousine e di 4x4 fermarsi per prendere a bordo o far scendere qualcuno, ma questa volta avevo la sensazione che si trattasse di Sfumatura Alta.

Aprii il cellulare. La procedura operativa standard di questo lavoro era di non lasciare in memoria nient'altro se non il numero di Charlie come ulti-ma chiamata effettuata, in caso non lo avessi ricordato. «Ho un possibile che porta roba da due soldi.»

Per ammazzare l'attesa del ritorno di Sfumatura Alta decisi di giocare

con la morte, e attraversai la strada per vedere in faccia i due nel Pajero. Mentre coprivo l'ultimo tratto li avevo esattamente di fronte. I due ragazzi venivano diretti dalla sede centrale del casting per Thick Bouncers. Trent'anni, ricoperti di pelle nera. Perfettamente rasati, testa rapata; le ma-ni dell'autista, poggiate sul volante, erano curatissime. Occhiali da sole con la montatura nera.

La targa di acciaio sbalzato aveva lo sfondo bianco, e lettere nere prece-devano il numero 960: un'immatricolazione locale e civile, non militare o diplomatica. Il motore era acceso, quindi il passeggero non aveva inten-zione di fermarsi a lungo all'interno.

Il cellulare vibrò nella tasca dei jeans. Imboccai la prima a destra per to-gliermi dal campo visivo, e premetti il verde.

«Sta scendendo, ci vediamo fra dieci.»

8 Charlie tolse il nastro dalla camcorder. Indossava già i guanti. L'attrezzatura per la CTR era sul letto insieme a una sacca di tela blu gi-

gantesca quanto quella che usava Imelda Marcos per trasportare le sue in-numerevoli paia di scarpe. Charlie aveva perso tempo a costruire i suoi ar-nesi. A quanto potevo vedere, Sfumatura Alta aveva consegnato grimaldel-li di ogni tipo, genere e specie in commercio.

«Sfumatura Alta era con due gorilla. Mafia o petrolio? La cosa non ti fa pensare?»

«Forse, se ne avessi voglia. Invece no, perché pensare mi fa venire il mal di testa.»

«Capito.» Presi dal letto un paio di guanti di gomma e li indossai. Se Sfumatura

Alta o i gorilla avevano lasciato il loro DNA o impronte digitali sull'attrez-zatura, cazzi loro. Per quanto riguardava noi due, doveva restare sterile.

«Racconta. Com'è andata?» «Gli ho detto che non avrei fatto il lavoro se non mi diceva di più. Allora

si è messo a parlare mentre io, con i guanti, estraevo l'attrezzatura, un pez-zo alla volta, davanti a lui.»

C'era tutto quello che un ladro alle prime armi avrebbe potuto desidera-re, grimaldelli di ogni tipo, pistola meccanica, tensionatori vari, pile mini Maglite, portachiavi con torcia, cunei in gomma per le porte, ma mancava un oggetto fondamentale. «Dov'è la pistola? Da queste parti vanno tutti in

giro armati.» «Non serve. Come ti ho detto, dentro e fuori senza lasciare un'impron-

ta.» Charlie prese l'apparecchio a fibre ottiche, girò il cavo e la parte termi-

nale strisciò come un verme. «A quanto pare il nostro Baz infila le dita su-dice in ogni torta a portata di mano. Sta con i militanti del Nord e intasca mazzette dai russi. I due gruppi intendono sabotare l'oleodotto, con due conseguenze: l'interruzione della fornitura e il pericolo di vita per gli ope-rai inglesi e americani che lavorano sul posto. Sfumatura Alta vuole asse-stare un colpo definitivo a tutto questo ma prima ha bisogno di conoscere il contenuto delle carte che Baz tiene in cassaforte; sai benissimo di che cosa si tratta: chi è nel mirino, chi tiene il Semtex sotto il letto, e cose del genere. Quando avrà tutte le informazioni nelle sue manine ardenti, lui - e quindi il governo americano e le compagnie petrolifere, adesso che ci pen-so - può andare dai caporioni della Georgia e farlo saltare. La autorità competenti possono scattare in azione e... bingo!, sono tutti felici e conten-ti.»

Si voltò e mi guardò negli occhi. Non rideva più. «Allora, ti basta? Puoi vedere il nastro, se vuoi.»

Scossi la testa. Non era necessario. «No, se tu gli hai creduto.» «Mi pare che abbia senso. Non che m'importi, comunque sia. Come ho

già detto, farò il lavoro in ogni caso. Se quei militanti del cazzo attaccano l'oleodotto, molte persone moriranno. Le imprese conoscono i rischi, e vengono pagate bene per questo. Ma i poveri cristi no, penso a quelli che devono proteggere quel maledetto affare...»

Mi venne in mente il viso pulito dei ragazzi dello spot televisivo per il reclutamento. E capii. «Avranno più o meno l'età di Steven...»

«Non sbagli, amico. Bravi ragazzi che vengono fregati, è la stessa cosa dappertutto. Chissà, forse riesco a evitare a qualche genitore l'incubo che abbiamo vissuto Hazel e io. Non è l'unico motivo, ma sarebbe un bell'extra in più.»

Per un attimo il suo viso perse ogni espressione mentre pensava al suo ragazzo, ma si riprese in fretta. Conoscevo bene la procedura, molto bene, e mi auguravo sempre che migliorasse con la pratica.

Tornarono le rughe d'espressione. «A dirla tutta, 'fanculo i soldi, do-vrebbero darmi l'MBE della Georgia per questo! Ne vuoi una anche tu?»

«Sia come sia», dissi. «Dimmi il piano.» «Due opzioni. Sfumatura Alta dice che Baz non rientra prima di dome-

nica mattina. Si trova in qualche parco nazionale a baciare bambini, o qualsiasi altra cosa si faccia per conquistare voti in questo angolo di mon-do. Quindi dobbiamo agire il prima possibile questa notte, trovare la cassa-forte e aprirla. Prendiamo quello che c'è, richiudiamo tutto per bene e sa-liamo sul primo volo del mattino.»

«Che mi dici della DLB? Dove lasciamo la roba?» Se n'era dimenticato, glielo leggevo in faccia. «Non te l'ho detto? In un

cimitero a dieci minuti dalla casa. Dobbiamo mettere quello che troviamo in una busta di plastica e infilarla dentro una panchina di pietra davanti a qualcuno che si chiamava Tengiz. Nessun problema, la tomba si trova vi-cino all'ingresso principale.» Cambiò espressione, da un ghigno sciocco a un sorriso da amico. «Coraggio, guarda che io lavoro anche se non ho l'e-spressione preoccupata che hai tu.»

Aprì la cartina. «Non dimentichi qualcosa, sciocco vecchio babbeo? Che mi dici del pi-

ano B? Hai detto che avevamo due opzioni.» Pareva imbarazzato. «Il piano B non esiste, amico. Ho pensato che af-

fermare di avere un ventaglio di possibilità fra cui scegliere suonasse me-glio.» Si trovava divertente. Aveva un sorriso grande quanto il Kura ma si capiva che cercava di rimediare al casino che aveva fatto.

«Senti un po', Charlie, potrei andare subito a fare la mia rico mentre si-stemi le tue cazzate.» Era un modo gentile per ricordargli che doveva con-trollare che tutta la roba sul letto funzionasse prima di uscire. «Ci incon-triamo al cimitero per individuare la DLB. Poi ci separiamo e ci vediamo in albergo per fare il punto.»

Guardai il nastro accanto al televisore. «Che piano hai per quello? Ho deciso...» Lo presi e lo infilai dentro la giacca. «Lo tengo io. Hai già trop-pe cose da portare.»

Chiusi il giubbotto. «Sei sempre convinto di voler andare fino in fon-do?»

Il sorriso svanì. Stava per farmi un cazziatone. Alzai le mani. «Lo so, lo so. È l'ultima volta, promesso. Volevo soltanto essere sicuro che il tuo vecchio cervello avesse messo a fuoco tutti i rischi.»

Giocherellò con il set di grimaldelli. «Dev'essere fatto.» Tentò di estrar-ne uno ma aveva qualche difficoltà. Lo gettò veloce sul letto sperando che non me ne fossi accorto.

Feci per andarmene ma mi chiamò. «Ehi, scemo, dopo tutti gli anni che ho passato a addestrarti, vediamo se ne è valsa la pena. Uno: Sfumatura

Alta non è riuscito a scoprire la data di nascita di Baz, vuoi provarci? Due: abbiamo bisogno di cinque o sei asciugamani e un paio di estintori per sta-notte...»

Annuii e mi voltai verso la porta. «Mi raccomando, prendili dall'attico. In caso d'incendio i ricconi del

cazzo possono anche andare arrosto...»

PARTE QUINTA

1 Uscii dall'albergo controllando la cartina che avevo preso alla reception

e svoltai a destra per seguire la strada principale. Le altre persone in giro erano residenti vestiti di nero dalla testa ai piedi oppure occidentali con la tenuta d'obbligo, giacca in Gore-Tex, maglietta polo e pantaloni Rohan. Era l'abbigliamento del giorno al Marriott, ne avevo visti parecchi sciama-re verso la sala colazioni e il bar era un mare di Outward Bound.

Proseguii lungo il corso parallelo al fiume che si trovava da qualche par-te sulla destra. Erano le 11.26. C'era molta più gente adesso, mentre supe-ravo l'opera, i teatri, i musei e il parlamento. Erano edifici splendidi che già sorridevano prima dell'epoca in cui Joe Stalin arrivasse con qualche milione di camion di calcestruzzo. Proprio non riuscivo a capire: da quello che avevo letto c'erano ancora molte sue statue in giro e i vecchi sovietici che lo ritenevano il loro leader massimo erano una moltitudine, terrificante se si considera che aveva sterminato circa un milione di fedeli camerati.

Un supporto per le telecomunicazioni, alto come la Torre Eiffel, a un soffio dalle nuvole che nascondevano il cielo, trasmetteva per tutto il gior-no, sette giorni su sette, immagini di bandiere americane che sventolavano e sorridenti massaie russe.

A quell'ora del mattino c'erano diverse persone del posto in strada e non potevo sperare di passare inosservato. La mia pelle non si abbronzava in cinque secondi come la loro, non avevo i capelli neri e i miei occhi erano azzurri. Ero invisibile come Babbo Natale in Congo. La gente mi guardava come se fosse giunta alla conclusione che ero una spia, o uno pronto a far loro tutto il male possibile. Incrociai una Passat bianca e azzurra della po-lizia che avanzava lentamente. I due di pattuglia avevano AK sui sedili po-steriori, mi squadrarono a lungo, dall'alto in basso, prima che l'autista commentasse il mio aspetto da sciroccato. Andassero a fare in culo, avrei

alzato i tacchi molto presto. A ripensarci, forse erano soltanto invidiosi del mio maglione.

Comunque fosse, la preoccupazione per il lavoro aumentava, o meglio, la preoccupazione per Charlie. E, come logica conseguenza, ero preoccu-pato anche per me, per essere stato così stupido da seguirlo. Diavolo, ave-va blaterato per ore sulla lista dell'attrezzatura e si era dimenticato della DLB...

Ma poi pensai: E allora? Arriverò sino in fondo. Charlie ha bisogno di me. Non importava nient'altro. Sì, certo, aveva le mani ballerine, e ricor-dava a fatica cosa cazzo stava per fare, ma c'era ancora. Tutti gli altri amici che avevo avuto, sia che il rapporto d'amicizia fosse rimasto allo stato em-brionale, sia che fossimo arrivati al punto da scambiarci i vestiti, erano morti.

Io lo facevo per Charlie, lui lo faceva per Hazel. Non potevo abbando-narlo. Adesso si trovava in albergo, forse in preda all'agitazione al pensiero che avessi notato che in certi momenti non riusciva neppure a toccarsi la punta del naso. Oppure, ansioso di non riuscire a controllare il tremito sino alla fine del lavoro. L'unica cosa di cui aveva necessità era sapere che po-teva contare su di me: la sensazione mi faceva sentire bene.

Forse avrei fatto anch'io la mia parte per salvare la vita di una recluta, o due, di guardia all'oleodotto. Avevo visto cosa accadeva in una famiglia quando l'adorato figlio veniva ucciso, e la cosa non mi era piaciuta neppu-re un po'.

Sospettavo fortemente che l'occuparmi di Steven e Hazel mi evitasse di pensare troppo a Kelly e a me, ma non avevo i coglioni per ammetterlo. Così mi concentrai su Silky, e mi sentii subito meglio. Avrei preferito es-sere sulla spiaggia con lei e non nel cortile di un politico della Georgia.

Attraversai la strada e passai davanti a una libreria inglese con bar e ser-vizio Internet. La voce stridula di una donna americana mi raggiunse attra-verso la porta aperta: «Oh, mio Dio... è trooppoo ficooo». Presi un appunto mentale di non entrarci mai.

Mi accorsi che stavo sorridendo. Silky mi mancava. I lunghi mesi passa-ti sul divano di uno psichiatra non avevano avuto neppure lontanamente effetto sulla mia psiche quanto il breve periodo passato a viaggiare con una testa quadrata vagabonda e spensierata.

Chissà, forse sarei tornato da lei e avrei girato il continente in lungo e in largo su quel furgone per anni. Forse, invece, questo lavoro sarebbe stato il mio canto del cigno.

Passai davanti al simbolo più recente della città. Nessun dubbio a ri-guardo, il nuovo McDonald's era il più lucente e scintillante edificio di tut-ta la strada. La pioggia di quella mattina rendeva ancora più lucido il rive-stimento di marmo scuro. I nuovi convertiti erano in coda con i figli per un McBrunch georgiano.

Le Lada parcheggiate all'esterno non erano molte. Poiché era la novità del momento, dominavano le Mercedes con i vetri oscurati e c'era anche una Porsche 4x4. Se si lavora per vivere non si possono comprare auto del genere in questa parte del mondo. Sotto un albero lì vicino erano radunati gli autisti e le guardie del corpo impegnati a fumare Marlboro, operazione che interrompevano di tanto in tanto per scrollare la cenere dalla giacca di pelle, ovviamente nera.

Un vecchio, con un vestito nero ancora più vecchio, indicava con un manganello di legno i parcheggi disponibili alle macchine pulitissime che continuavano ad arrivare piene di bambini ricchi, ansiosi di rimpinzarsi di imperialistiche calorie americane. Resistetti alla tentazione di unirmi a lo-ro.

Fra poco avrei abbandonato la principale, era facile da capire perché il McD era chiaramente segnalato sulla cartina. E per fortuna, perché non sa-rei mai riuscito a leggere i nomi delle strade scritti in russo e in lingua-graffette.

Il mio piano era semplice. Se ci riuscivo, volevo fare un giro completo della casa bersaglio, in modo da vedere il più possibile. Difesa e vie di fu-ga erano le mie priorità. Sempre che non venissi preso da qualche VW bianca e azzurra. Ronzavano per la città come mosche o restavano in ag-guato parcheggiate fra le altre auto mentre quelli all'interno osservavano e fumavano.

Alla seconda traversa svoltai a sinistra e cominciai a salire in un dedalo di strade strette e case vecchie e sporche attaccate l'una all'altra. Di colpo mi trovai nella vera Tbilisi, nella parte povera e in rovina, e capii che mi sentivo a mio agio lì, lontano dalla vernice fresca e dall'asfalto nuovo di pacca.

Piccoli panifici vendevano pane e torte da un buco nel muro. Le auto sterzavano per evitare le pozzanghere e i pedoni che avevano abbandonato i marciapiedi pieni di buche. Ai lati della strada c'erano veicoli abbandona-ti e sacchi colmi di rifiuti. Forse era il giorno dedicato alla spazzatura. O forse era uno strascico del regime comunista: sei responsabile soltanto di tutto ciò che è all'interno delle tue quattro mura, a quello che sta fuori ci

pensa lo Stato, falce e martello e tutto il resto. I numeri delle case non erano un problema; erano attaccati ai muri su

quadrati di plastica sessanta per sessanta con il nome della strada scritto in russo e in graffette. Era un altro deprimente ricordo del passato regime che uniformava tutto, ma se non altro il postino non avrebbe sbagliato a conse-gnare i biglietti di auguri di Natale, se non abitavi nella zona elegante. Non sentivano il bisogno di distinguersi.

Cavi elettrici correvano in ogni possibile direzione sopra la mia testa, spuntavano fra gli alberi da cassette di derivazione che parevano fatte in casa, e forse lo erano davvero. Quando la corrente è così discontinua, la gente inventa sempre il sistema per garantirsene una quota. L'acqua piova-na gocciolava dalle grondaie che rovesciavano il loro contenuto diretta-mente in strada. A mano a mano che salivo, il sudore scorreva sempre più intenso.

Dopo aver oltrepassato altri tre incroci, giunsi a quella che supponevo fosse Barnov Street. La casa bersaglio si trovava lì, da qualche parte sulla sinistra.

Edifici vecchi, un tempo eleganti, si ergevano spalla a spalla con gli strani blocchi di acciaio e vetro. Tutti, nessuno escluso, erano protetti da alte mura, in alcuni casi intonacate e dipinte, in altri si trattava soltanto di blocchi di cemento grezzi.

Passai davanti alle ambasciate di Francia e Cina. Entrambe avevano all'esterno gabbiotti di legno completi di guardiano annoiato che leggeva il giornale del mattino. Nonostante le apparenze e la strada piena di buche, mi trovavo nella zona più esclusiva della città.

Quassù non erano le Lada le auto più gettonate, salendo avevo visto pas-sare soltanto VW e Mercedes lungo i marciapiedi stretti. Il fatto strano era che quelli al volante non erano vestiti di nero. Passò una Saab guidata da un tipo con un'orribile camicia hawaiana, fumava il sigaro e urlava nel cel-lulare, ma aveva anche modo di controllare i capelli lisciati all'indietro nel-lo specchietto retrovisore. Non aveva l'aria di un invitato a un ricevimento in ambasciata.

Puzzava di mafia. Buon per loro, ma meno buono per Charlie e me. Era facile che ci fosse una marea di sorveglianza nel quartiere.

2

Ignoravo il numero civico, ma ero in grado di riconoscere la casa bersa-

glio da quello che avevo visto nel filmato girato con la cinepresa nel sac-chetto. La sommità del muro alto tre metri luccicava di vetri rotti. Fosse stato necessario scavalcarlo non sarebbe stato un problema, solo una perdi-ta di tempo. Non mi ero sbagliato: le case dei ricchi non avevano i numeri.

Superai i rugginosi pannelli del cancello sulla sinistra. Fin lì la rico non aveva fornito ulteriori elementi rispetto a ciò che avevo visto nel video, tranne forse qualche nuova imbrattatura in russo e in graffette. La serratura era un semplice congegno a tre leve che Charlie con i suoi arnesi poteva far saltare in un paio di secondi.

Attraverso la fessura fra i cancelli scorsi un'auto azzurra. In basso c'era uno spazio di cinque centimetri, ogni anta era fissata a terra da un ferro. A meno che non esistesse un'altra uscita, era probabile che Baz fosse in casa.

Il muro continuava per altri tre o quattro metri prima di girare a sinistra all'incrocio. Lo seguii, e compresi al volo che non avrei scoperto nient'al-tro.

Dall'altro lato della strada c'era un locale notturno, ristorante, bar che si chiamava Primorski. Il neon era spento, ma all'esterno delle grandi porte nere si notavano i disegni di ballerine tipo Las Vegas, con le piume fra i capelli e poco altro addosso.

Dopo qualche metro il muro intonacato diventava di cemento grezzo e poi svoltava in un'altra strada. Non lo seguii, non andai a sinistra. C'era un'auto bianca e azzurra posteggiata poco oltre. Svoltai a destra, invece, in direzione del cimitero. Tanto, Charlie avrebbe percorso proprio quella pa-rallela e avrebbe visto esattamente quello che vedevo io da dove mi trova-vo: gli edifici cadenti erano così vicini l'uno all'altro che la casa bersaglio poteva essere parte di una fila di case a schiera con un'altra identica alle spalle.

Se qualcosa fosse andato storto e avessimo dovuto fuggire, la via più semplice era verso l'alto, verso i pali della luce, oltre le case. Forse era an-che possibile avanzare lassù nel buio della notte fino a portarci a livello del Marriott e poi scendere e prendere un taxi per l'aeroporto.

Ma adesso dovevo andare a controllare la DLB del cimitero che si tro-vava sulla collina davanti a me. Da lassù forse saremmo anche riusciti a vedere il cortile della casa bersaglio. Superai una fila di negozi che non vendevano altro che scarpe. Inviai un SMS a Charlie: PORTA BINOCO-LI.

Rispose OK, cancellai il messaggio e continuai a salire. L'ultimissimo negozio vendeva cibo. Mi fermai a comprare una bottiglia

d'acqua. Uguale a quella che era nel minibar del Marriott, uguale a quella vicino al televisore, l'orgoglio della Georgia.

Almeno una cosa Charlie l'aveva ricordata con precisione. Il cimitero era a soli dieci minuti di distanza, e non era difficile da raggiungere. Si tratta-va unicamente di seguire i vecchietti col bastone che avanzavano zoppi-cando, e di andare nella direzione opposta al flusso di persone di ritorno da un funerale.

Macchine che sembravano abbandonate e non semplicemente parcheg-giate affollavano un largo spiazzo in terra battuta dall'altro lato della stra-da. Forse erano in attesa di fare il pieno alla nuovissima stazione di servi-zio, illuminata da luci sgargianti, così nuova che il cemento della piazzola era ancora bianco. Entrai nel camposanto attraverso un cancello esausto aggrappato ai resti del muro diroccato, e passai sotto le forche caudine di dozzine di vecchie che vendevano fiori e lunghe candele sottili.

Il cimitero era più affollato di un centro commerciale e non aveva niente di simile a quelli delle mie parti. Al posto di lapidi ben allineate, il luogo era un labirinto di grandi aree dedicate alla sepoltura di interi gruppi fami-liari, delimitate da ferro battuto o da bassi muretti in mattoni.

Uomini e donne, seduti a tavoli sistemati vicino alle tombe, chiacchiera-vano fra loro con termos di tè o caffè tra le mani. C'era un vecchio ubriaco, anche a quell'ora del mattino, che inveiva contro una tomba. Decisi che si prendeva la rivincita dopo una vita di angherie.

I rubinetti dell'acqua, che erano a circa venti metri l'uno dall'altro lungo il sentiero centrale, erano quasi tutti in funzione; c'era chi lavava le tazze e chi riempiva i vasi.

Una donna dietro un banco di candele cercò di vendermene una quando mi vide a mani vuote, ma io continuai a camminare dritto. Le zone di lusso erano quelle adiacenti al sentiero principale; evidentemente in quel Paese si pagava un sovrapprezzo per non sporcarsi le scarpe. Raggiungere le tombe più lontane era un'impresa, si doveva strisciare fra i lotti delle altre famiglie. In una vidi un dipinto a olio, protetto da un vetro, che ritraeva un pagliaccio che ballava. Il terreno fra le proprietà era cosparso da una so-stanza granulare nera molto efficace, tanto che non c'era un filo d'erba in vista.

Tentavo di comportarmi come gli altri, curiosavo fra le tombe mentre lentamente raggiungevo quella della mia famiglia. Cercavo l'ultima dimora di Tengiz. A Charlie era stato detto soltanto che era lungo il sentiero prin-cipale. Tengiz era un uomo o una donna? Non lo sapevo ma non era im-

portante. Saremmo stati fottuti in ogni caso se la scritta fosse stata in graf-fette.

Ma la fortuna era dalla nostra. Arrivai a una grande pietra tombale in marmo nero, al centro di un quadrato coperto da sassi bianchi e cintato da una ringhiera in ferro battuto, alta una sessantina di centimetri, dipinta di vernice bianca fresca. Compresi perché Sfumatura Alta l'aveva scelta. Quattro uomini in fotografia mi guardavano. Sotto una moltitudine di pa-role in russo e graffette era incisa un'unica parola scritta in caratteri occi-dentali, TENGIZ.

Completava il quadro una panchina a due posti in marmo nero, la cui ba-se era apparentemente piena, e un bidone in ferro arrugginito colmo di fiori appassiti, appena fuori lungo il sentiero. Se non lo spostavano lo avrei usa-to come riferimento.

Un gruppo di donne sedute in fila nel lotto vicino lavorava a maglia e masticava semi di girasole. Parlavano fra loro velocissime e mentre passa-vo ci furono parecchi commenti e molte alzate di occhi al cielo. Decisi che ce l'avevano con il mio maglione.

Arrivai sino in fondo al sentiero per controllare che non ci fossero altri Tengiz fra cui scegliere, ma non ce n'erano. Era arrivato il momento di scoprire se in alto riuscivo a trovare un punto da cui vedere la casa bersa-glio.

Proprio all'estremità del cimitero una panchina solitaria guardava verso la strada e il ghetto da uno strapiombo di seicento metri. Il cancello avreb-be dovuto trovarsi lungo la strada sulla sinistra. Per raggiungerla superai file su file di lapidi messe di recente, su ognuna delle quali c'era la foto di un ragazzo o di una ragazza, tutti morti nel 1956. Sembrava che, dopo la caduta del comunismo, ai familiari fosse stato concesso almeno di poter commemorare qualcuno del milione di vittime di Stalin.

Arrivai alla panchina e mi sedetti. Adesso non mi restava da fare che cercare di capire quale fosse la casa di Baz.

Chiamai Charlie che stava ancora comprando i binocoli. «L'ho trovata, dobbiamo controllare che la base non sia piena, in tal caso significa che ho sbagliato. Prendi a sinistra dalla principale, sono in cima alla collina.»

3

Venti minuti dopo Charlie mi raggiunse alla panchina. A quel punto a-

vevo già scoperto dov'era la casa bersaglio e riuscivo a distinguere l'auto

azzurra nel cortile e la facciata dell'abitazione rivolta verso di noi. Ai lati del portone c'erano due finestre e altre due esattamente sopra, al primo pi-ano. Ma a causa della distanza erano necessari i binocoli per vedere i det-tagli.

In mano aveva un sacchetto. «Cazzo, pensavo che i cimiteri fossero luoghi di pace e silenzio, ma qui

è un gran bordello.» «Che ne pensi della DLB, giovane amico?» «I quattro tizi che guardano Dio negli occhi vicino al bidone di fiori sec-

chi? Dev'essere quella giusta. La base della panchina è un quadrato con quattro pareti. Dentro dev'essere vuoto. Comunque lo scoprirò stanotte, che ne dici?»

«Ti ho preso un giornale all'albergo, così ti puoi svagare mentre io fac-cio tutto il lavoro.» Lo estrasse dal sacchetto insieme ai binocoli ancora avvolti nella loro confezione.

Si trattava del Georgian Times, un settimanale in inglese che usciva il lunedì. Buttai un occhio alla prima pagina mentre lui si occupava dei bino-coli.

Il 10 maggio George Bush sarebbe stato a Tbilisi di ritorno da Mosca per le celebrazioni del VE, giorno della Vittoria in Europa. TBILISI IN FERMENTO PER LA GRANDE VISITA, Strillava il titolo. E sotto: TBI-LISI ASSOMIGLIA A UN PAPPAGALLO.

A quanto pareva i residenti non gradivano il giallo e il rosa gettati a sec-chiate sugli edifici per coprire lo sporco.

«Adesso capisco tutto. Dabliu è in arrivo e si asfaltano le strade. Sono pronto a scommettere che anche lui, come la regina, è convinto che il mondo intero puzzi di vernice fresca e cera per pavimenti.»

Charlie rideva e sbuffava. «Sapevo che ti sarebbe piaciuto. Forse tutta la fretta per questo lavoro è dovuta alla sua visita. Sai com'è, si sistema ogni problema in casa prima dell'arrivo del grande uomo.» Si portò il binocolo agli occhi e cominciò a regolare la messa a fuoco.

Continuai a sfogliare il giornale. Le notizie internazionali erano pratica-mente assenti. Quasi tutti i servizi riportavano foto di gruppi di persone sorridenti davanti alla sede di qualche compagnia; la didascalia esaltava le società d'impresa e l'importanza di diffondere il messaggio dell'imprendi-toria della Georgia. Un piccolo articolo riportava che il governo aveva chiesto ancora una volta ai russi di ritirare le loro truppe. E ancora una vol-ta la risposta dei russi era stata sì certo, certo, come già detto, si tratta di at-

tendere il 2008, o comunque il senso era quello. Scorsi il resto della pagina. «Notizia calda dall'oleodotto», dissi. «Qui

dice che verrà terminato in tempo. Comincerà a pompare entro la fine di maggio.»

«L'argomento non mi interessa.» Teneva il binocolo puntato sulla casa bersaglio. «Io sono andato direttamente a pagina tre. Guarda anche tu... belle montagne.»

Mi voltai. «Oh, sì, hai ragione.» Avevo davanti la foto delle colline del parco nazionale Borjomi. «È da qui che viene l'acqua.» Lessi con più at-tenzione. «Oh mio Dio, hanno fatto un bel casino. L'oleodotto passa pro-prio lì sotto, troppo, troppo vicino alle sorgenti. Se capita una frana e il condotto si rompe, l'esportazione del maggior prodotto della Georgia andrà a puttane. Il governo è nella merda. 'Gruppi di attivisti richiedono un'in-chiesta.' Il WWF è in fibrillazione. Sta succedendo di tutto. L'oroscopo c'è?»

Charlie era sempre concentrato sul bersaglio. «Cazzo, Nick!» Il binocolo gii tremava fra le mani. «A quanto pare c'è un lampione con un paio di ci-neprese che controllano il cortile. Guarda anche tu.»

Scambiai il giornale per il binocolo. Un gruppo di vecchie ci passò alle spalle, tutte avevano una candela accesa in una mano e un mazzo di fiori nell'altra. Erano interamente vestite di nero e a capo coperto.

Guardai verso la casa. «È la sua Audi?» «Sì, azzurra e scassata. Nel caso ci servisse, ho anche la targa. Certo che

se è corrotto come dice Sfumatura Alta, mi sarei aspettato qualcosa di me-glio.»

Aveva ragione riguardo all'illuminazione: la facciata della casa era deli-mitata, ai due angoli, da luci ad arco e cineprese a circuito interno. Sotto ogni lampione era fissato un cilindro di plastica nera che presumibilmente era un rilevatore. Passando non avevamo visto niente perché il muro cela-va ogni particolare.

Sull'angolo di destra una cinepresa era orientata verso il cancello e un'al-tra copriva il lato della casa ed era puntata verso il retro, esattamente come la cinepresa dell'angolo di sinistra. Di certo ce n'era una anche sulla faccia-ta posteriore. Studiai il cancello.

«Non ho cambiato idea, secondo me le serrature sono manuali.» Abbas-sai il binocolo. «Sei riuscito a guardarle quando sei passato?»

«No. Cosa ne pensi di quei due edifici annessi?»

Sollevai di nuovo il binocolo. Vidi che le uniche finestre che potevano ricevere luce al piano terra erano quelle vicino alla porta. Ai lati e sul retro il muro era distante dalla casa un paio di metri. Forse in origine soltanto una siepe circondava l'edificio che non aveva vicini.

Dirimpetto alla casa, separate dai dieci metri di cortile in cemento in pessime condizioni, c'erano due costruzioni basse in mattoni.

Se fossimo entrati dal cancello, le avremmo avute sulla destra, l'Audi davanti e il portone d'ingresso sulla sinistra. «Buon posto per nasconderci mentre sistemiamo l'attrezzatura. Se per caso lui è in casa, se non altro possiamo sederci e riflettere.»

La facciata era piatta. Tre gradini portavano a un portico coperto. Il por-tone era in solido legno di colore naturale. Due serrature sull'anta di destra. Una a un terzo dal basso, l'altra a un terzo dall'alto. La maniglia nel mezzo. Da quella distanza non riuscivo a capire se anche la maniglia aveva la ser-ratura. Il pavimento era rivestito di mattonelle rosse e una stuoia di fibra di cocco.

Sentii qualche goccia di pioggia sul viso. La foschia saliva dall'altro lato della città. Passarono tre ragazzi con il cappuccio dei giubbotti multicolori tirato sulla testa. Facevano di tutto per avere un aspetto innocente. Obietti-vo fallito.

Charlie sorrise. «Secondo me cercano un posto dove provare l'oppio na-zionale che coltivano al Nord.» Si asciugò il viso umido. «Allora, hai visto la casa... una cazzata, vero?»

«Non lo so ancora. Ho bisogno di tempo per pensarci sopra, quando tor-niamo all'albergo. Tu?»

«Facile. È molto probabile che i rilevatori servano soltanto per le luci, magari per azionare le CCTV. Che senso avrebbe collegarli agli allarmi? Scatterebbero al battito d'ali di ogni pipistrello e il povero Baz non riusci-rebbe a chiudere occhio.» Si riprese il binocolo. «Sai che ti dico, amico, andiamo e basta. La luce della strada fa schifo. Passiamo il cancello, poi giù carponi, vecchio sistema antirilevatori, fino al portone. Lo apro, fac-ciamo il lavoro, ci trasciniamo fin quassù, scarichiamo tutto nella DLB e ce ne torniamo in albergo in tempo per la colazione. Una piacevole cola-zione all'alba perché ho un appuntamento molto importante con l'Air Ge-orgia.» Abbassò il binocolo e mi guardò sorridendo. «Non ti sembra un pi-ano?»

«Mi sembra uno stramaledetto incubo.» Aprì la giacca e vi infilò il binocolo. «Dammi qualche minuto di vantag-

gio. Passo davanti al locale notturno per controllare le vie di fuga da quella parte.»

Ripresi in mano il giornale. «D'accordo, ti seguo fra un quarto d'ora.» Charlie si alzò e mi posò una mano sulla spalla. «Ascolta, amico, vorrei

ringraziarti...» Si fermò, sembrava non riuscisse a deglutire. «Prima, per un attimo, ho temuto che tu rispondessi di no. Ed ero preoccupato. Ho vera-mente bisogno del tuo aiuto. Grazie, dunque.»

Ero imbarazzato, non sapevo cosa fare. Cazzo, che intenzioni aveva? Di darmi anche un bacio? «Spero che tu non abbia scordato come si fa a tor-nare indietro, vecchio babbeo...»

Charlie sorrise, sapeva che era troppo per me. Fra uomini, a livello di sentimenti, il mio massimo era la frase scritta sul suo boccale di vetro.

«Forse sì, forse no. Se mi perdo, lo chiedo a un poliziotto. I bastardi so-no dappertutto.»

Se ne andò e mi pentii immediatamente di non avergli detto quello che provavo. Era un mio amico e io non avrei mai lasciato un amico nei guai. Ma quello era un altro dei miei mille problemi, mi veniva sempre in mente che cosa dire quando era troppo tardi.

Guardai il giornale per altri dieci minuti. Avevo la mente piena di do-mande. E se Baz fosse stato in casa? E se lo avessimo incontrato mentre salivamo il vialetto? E se la cassaforte non c'era?

Per me passare tre ore a pensare a un lavoro di dieci minuti era sempre tempo ben speso. Ma forse aveva ragione Charlie: perché preoccuparsi tan-to? Avremmo ripassato il piano, e tutti i possibili intoppi, una volta tornati in albergo.

Mi venne in mente Silky e cercai di concentrarmi solo sulle cose belle e positive. Ci misi cinque minuti buoni prima di accorgermi che non funzio-nava. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a liberarmi della preoccupazio-ne più grossa: che Charlie dimenticasse il nostro piano una volta sul bersa-glio.

Mi alzai e cominciai la discesa accompagnato dai volti sorridenti dei de-funti del 1956. Pareva che avessero tutti la stessa età di Steven quando era diventato anche lui un bravo ragazzo morto per la causa.

4

Aveva smesso di piovere e qualche stella cercava di aprirsi un varco fra

una nuvola e l'altra.

Superai il teatro dell'opera e seguii lo stesso percorso della mattina. Io mi dovevo occupare del lato della strada verso l'albergo, Charlie di quello dal lato Primorski.

Mancava mezz'ora a mezzanotte ma c'era ancora gente in giro, a piedi e in macchina. Molti negozi avevano le luci accese e il McD era sovraffolla-to. Avevo sperato che Tbilisi non fosse posto da vita notturna, cosa che a-vrebbe reso tutto più facile, ma così non era.

Avevo lasciato l'albergo intorno alle otto e mezzo, dopo aver chiesto al portiere consiglio su dove andare a cena. Piuttosto normale, direi, visto che l'albergo era invaso dalla versione in Gore-Tex dell'ONU. Il congresso del-la BP era terminato, e al bar e al ristorante le lingue straniere erano anche più delle polo.

Non che fossi nella posizione di criticare. Charlie si era incaricato di comprare per entrambi vestiti da uomini del petrolio per salire sull'aereo. Durante il lavoro ci saremmo bagnati e infangati perciò avremmo avuto bi-sogno di un cambio appena più elegante per uscire dal Paese. Io avevo una felpa azzurra piuttosto attraente, pantaloni Rohan in tinta e un giubbetto color kaki leggermente imbottito, per il ritorno a casa. Il giorno dopo, così combinato, sarei stato praticamente invisibile.

Dopo aver controllato che l'americana dalla voce stridula non fosse più nella libreria Prospero - quella inglese con bar e punto Internet -, entrai e mi collegai, con una cioccolata fumante e una pasta appiccicosa davanti. A quanto pareva era un punto d'incontro per inglesi e americani espatriati che lavoravano all'oleodotto o nelle rispettive ambasciate. O forse era l'unico locale del circondario dotato di un proprio generatore che, in caso di inter-ruzione della corrente, permetteva di rimanere collegati.

Avevo una domanda fondamentale per Google: la data di nascita di Baz. Con un pizzico di fortuna avrei trovato un elenco di politici della Georgia, con i dati personali. In ogni caso si trattava di navigare fino a trovarlo.

Entrare nella mente del proprietario è uno dei metodi per forzare una cassaforte. Il fatto sorprendente è che spesso le casseforti mantengono la combinazione di fabbrica, in Occidente di solito 100, 50, 100. Non ero ag-giornato sui numeri usati in Oriente, ma Charlie lo era di sicuro.

Se si decide di modificare la combinazione predeterminata e se ne sce-glie un'altra, di solito si passa il tempo a cercare di non dimenticarla, la stessa cosa che capita con i PIN. Per cui normalmente la gente cerca di u-sare numeri facili da ricordare, tipo il compleanno, la targa della macchina o il numero di telefono. Se invece sceglie un numero a caso, è assoluta-

mente certo che lo scriverà da qualche parte. La rubrica del telefono è un buon posto per cominciare la ricerca.

Fu più facile del previsto. Il governo della Georgia aveva un sito che pubblicava anche i dati personali. Baz aveva appena quarantacinque anni: era nato il 22 ottobre 1959. Doveva aver avuto una vita dura; la foto ritrae-va un uomo quasi calvo con qualche ciuffo di capelli grigi, magro come un rastrello. Qualche dolcetto appiccicoso come quello che stavo mangiando gli avrebbe fatto bene.

Un piccolo cartello sopra ogni computer ricordava agli utenti di non cancellare la cronologia. Forse il negozio doveva consegnarne una stampa alla polizia ogni ventiquattr'ore, forse controllavano appena il cliente usci-va. Cancellai tutto e per costruire un minimo di copertura controllai le no-tizie del giorno sulla CNN, deprimenti come al solito.

Uscii. Due incroci dopo il McD, svoltai a sinistra verso Barnov Street. Avevo il fiume alle spalle, i pali delle telecomunicazioni in diagonale a si-nistra con le luci rosse lampeggianti. Più salivo verso la zona residenziale più la luce della strada principale svaniva, sostituita solo da quella che fil-trava dalle tendine e dai fari di qualche auto. Lassù l'illuminazione non era scarsa, era del tutto inesistente.

Il cellulare vibrò nella tasca dei jeans mentre una biancazzurra transitava in direzione centro. Lo presi e premetti il verde.

«Tutto libero dalla mia parte, il chiaro è piuttosto affollato.» Aveva per-corso la strada parallela a quella della casa bersaglio, che conduceva al chiaro, il Primorski, per controllare che non ci fosse stato un omicidio o al-tro che avrebbe fatto intervenire in massa le auto della polizia e bloccato le strade. Aveva detto che voleva arrivare qualche minuto prima di me. Non ero nella posizione di discutere, lui era il meccanico, io un semplice garzo-ne.

Charlie aveva tutta l'attrezzatura MOE nello zainetto che portava sulle spalle, e per completare il look da studente attempato gli mancavano sol-tanto la sigaretta arrotolata e il cappellino di lana. Io avevo acquistato un berretto nero da basket della Dinamo Tbilisi per intonarmi all'ambiente e nascondere il sottile passamontagna nero che tenevo arrotolato sulla co-cuzza, in caso avessimo fatto casino e fatto partire una delle CCTV che avevamo individuato, o altre che non potevamo vedere. Charlie era così convinto che sarei rimasto che l'aveva comprato prima che decidessi.

Il solito rivolo di sudore tornò a farmi visita mentre effettuavo i controlli finali. Prima le tasche dei jeans, in caso vi avessi dimenticato qualche mo-

neta quando ero uscito dalla libreria, e anche per accertarmi che i guanti di gomma trasparente fossero al loro posto. Non che potessero uscire da soli, ma controllare che non l'avessero fatto mi faceva star meglio. Controlla e verifica, controlla e verifica, alla fine il gioco è tutto qui.

I guanti c'erano, le monete no. La cassettina delle elemosine aveva battu-to sul tempo le astuzie del mestiere. Tutto il resto era nella cassaforte della stanza e la chiave a scheda infilata dietro il WC del ristorante dell'albergo. Mi sentivo sempre a disagio quando, completamente sterile, effettuavo un lavoro. Ma se ci avessero presi, avremmo perso il passaporto e ci avrebbe-ro identificato. Senza documenti avevamo almeno una possibilità di lascia-re il Paese. Nella tasca dei jeans avevo anche quattrocento dollari. Non per un motivo in particolare ma perché mi faceva stare meglio.

Mi accertai che la mini Maglite fosse sempre nella tasca sinistra del giubbotto. Se l'avessi provata ancora una volta, avrei scaricato del tutto la batteria. Nella tasca destra c'era la bombola di metallo pesante di CO2 che avevo preso dagli estintori. Era lunga ventidue centimetri ed era un ottimo sostituto del manganello.

Anche Charlie ne aveva una, le avevo prese dall'attico del Marriott. Era-no la nostra attrezzatura per sembrare dei ladri. Se ci avessero sorpreso, ci saremmo comportati come facevamo quando lavoravamo per il SAS: ta-gliare la corda, rubare qualcosa e magari pestare chi ci aveva scoperto.

Un'ultima occhiata alle suole per controllare che non ci fossero pietre in-castrate, un paio di saltelli per la prova rumore e per accertarmi che la bombola non scivolasse e finalmente ero pronto. Desideravo solo che fosse già tutto finito, volevo sentire la voce degli assistenti di volo con l'accento australiano il più presto possibile.

5

Le ambasciate di Francia e Cina erano illuminate come alberi di Natale,

e dai gabbiotti delle guardie filtrava una musica lamentosa, arabeggiante. Fatta eccezione per i fari di qualche auto che saliva o scendeva, Barnov Street era avvolta nel buio.

La casa obiettivo era in avvicinamento sulla sinistra. Nessuna luce dalle finestre in alto. Nessuna finestra illuminata nelle case dei vicini che si af-facciavano sul cortile. Fin qui tutto bene.

Chiamai Charlie. «Libero.» «Anche dalla mia. Ci vediamo fra due.»

Fine della comunicazione. Cancellai il numero prima di spegnere, tanto ormai lo sapevo a memoria. Sul telefono non c'era più niente, non che ser-visse a molto in caso di cattura. Era sempre possibile rintracciare le chia-mate in entrata e in uscita.

Osservai lo studente attempato che scendeva dal Primorski. La strada dietro di lui era libera. Non avevo idea di come fosse quella alle mie spal-le, ma me ne sbattevo. Una volta avvistato un problema, Charlie avrebbe tirato dritto invece di fermarsi al cancello. Lo stesso valeva per me. A quel punto, fatto un giro completo, ci avremmo riprovato.

Raggiunse il cancello per primo, si tolse lo zainetto dalle spalle e lo posò a terra con calma. Dall'ultima volta che l'avevo visto si era aggiunta una nuova spruzzata di graffette. Se non altro copriva la ruggine. Charlie guar-dò un'ultima volta in giro e si inginocchiò. Io poggiai la schiena contro l'anta di sinistra e infilai i guanti mentre scandagliavo la zona.

Charlie stava guardando attraverso i cinque centimetri di fessura sotto il cancello. A quanto sembrava, dall'altra parte era tutto a posto. L'Audi non c'era, perché lui estrasse dallo zainetto il tensionatore che si era costruito e iniziò a farsi la serratura. Forse usare i suoi strumenti e non quelli comprati un tanto al mucchio da Sfumatura Alta, lo faceva sentire meglio.

Purché riuscisse a farci entrare in fretta nel cortile cosa cazzo me ne fre-gava?

Ci fu un impercettibile raschio di ferro contro ferro. Aveva cominciato. Sembrava davvero di essere tornati ai vecchi tempi. Ebbi anche un flash di déjà-vu, che risaliva a quando lavoravamo sull'acqua. Facevamo insieme una CTR in una casa del quartiere Shantello a Derry. Cercavamo un timer che l'IRA aveva intenzione di collegare a due chili di Semtex prima di piazzare l'ordigno in un centro sociale dall'altro lato del fiume. Al Bogside, tre chilometri più in giù, una squadra teneva d'occhio un giocatore e sua moglie usciti a farsi una bevuta. Prima della chiusura, cioè circa un'ora do-po, dovevamo riuscire a penetrare nella loro casa, trovare il congegno e fa-re in modo da renderlo inservibile.

Eravamo entrati dalla finestra sul retro, il primo obiettivo era stato con-trollare tutte le stanze per accertarci che i due non avessero lasciato un bambino che dormiva al piano di sopra o che non ci fosse qualcuno che a-scoltava musica in cuffia nella stanza accanto.

Finalmente raggiungemmo il pianerottolo sotto il tetto. Ero salito sulle spalle di Charlie, avevo aperto la botola e mi ero issato nella soffitta. A quel punto avrebbe dovuto passarmi la Maglite con cui ispezionare il loca-

le prima di perquisirlo. Avevo lasciato penzolare la mano per afferrarla ma non era successo

niente. Mi ero sporto ancora di più, forse non ci arrivava, e poi ancora un po', fino al punto di rischiare di cadere. Avevo abbassato lo sguardo per capire quale fosse il problema e avevo visto che lui spostava la Maglite sempre più giù, solo per il gusto di farlo.

Era stato costretto a coprirsi la bocca per soffocare i grugniti della risata. Molto divertente, almeno per lui. Conclusione, non avevamo trovato un cazzo di niente, come al solito. I pub stavano per chiudere e avevamo avu-to soltanto dieci minuti per uscire e lasciare tutto esattamente come prima.

Charlie ci stava mettendo un'eternità. Una serratura a leva è piuttosto semplice; anche con attrezzi improvvisati, non occorrono più di trenta se-condi. Staccai gli occhi dalla strada e gli sferrai un calcetto. «Cazzo, sbri-gati, vecchio babbeo.»

Le spalle di Charlie rollavano in una risata silenziosa. Fari che scende-vano da sinistra. Mi staccai e cominciai a salire verso il Primorski. Sapevo che Charlie si sarebbe alzato e mi avrebbe imitato, mani nelle tasche, come me, per nascondere i guanti. Entrambi avremmo effettuato un giro comple-to.

Il veicolo, una Mercedes taglia grande, girò a destra verso il Primorski, nell'esatto momento in cui svoltavo anch'io. Accostò al marciapiede e sce-sero tre ragazze sui vent'anni, seguite da un uomo che aveva passato i cin-quanta da un po'. Alla luce dei neon azzurri e rosa, i lustrini dei vestiti del-le donne erano uno sfavillio nel buio. Ecco spiegato perché il nonno indos-sava gli occhiali da sole.

Zaffate di profumo altamente infiammabile e puzza di sigaro si disper-devano nell'aria mentre passavo. Due gorilla spalancarono le porte nere del club per farli entrare e mi giunse rumore di voci, di risate e musica.

Svoltai a sinistra per completare il circuito. Ero preoccupato per Charlie. Ci stava mettendo troppo per aprire il cancello. Accesi il telefono. Anche lui avrebbe dovuto farlo, sempre che se ne fosse ricordato. «Ascolta, ce la facciamo a entrare, o cosa? Vedi di darti una mossa.»

La sua risposta si perse nel rumore di un'auto che passava, ma avrei giu-rato che rideva. «Saggezza ed esperienza faranno un altro tentativo, poi largo ai giovani testa dura.»

Il telefono era ormai spento ma lo tenni in mano lo stesso. Un altro paio di auto passò fra sobbalzi e spruzzi fra le buche. E finalmente raggiunsi Barnov Street.

Chiamai Charlie. «Sono sulla principale.» Anche lui aveva fatto il giro, ma dall'altro lato della strada, in modo da

non incrociarci. Fra poco si sarebbe portato sul lato dell'obiettivo. Una La-da mi superò rombando, non svoltò nella via del club ma proseguì dritta.

Quando giungemmo al cancello, Charlie non perse tempo. S'inginocchiò senza neppure togliere lo zainetto. Lo guardai. Vidi che lottava su due fronti, con la serratura e con le sue mani. Lo colpii piano sulle ginocchia. «Porca puttana, fammi da palo. Ci provo io.»

Mi guardò e si strinse nelle spalle. Cambiammo posto. «Per la miseria», borbottai mentre iniziavo. «Questa serratura è quasi più

vecchia di te.» Il grimaldello era sempre inserito. Sentii che premeva sulla leva in alto,

poi girò. Fatto. Estrassi l'arnese e lo passai a Charlie. Tolsi il berretto da basket, srotolai il passamontagna, e lo indossai di nuovo. Charlie m'imitò. Fine delle mie preoccupazioni, in fondo il lavoro era di Charlie. Doveva occuparsi lui delle condizioni avverse, se si presentavano.

Con delicatezza spinsi l'anta di sinistra verso l'interno. Solo di quel tanto da riuscire a sgusciare dentro. Non c'era modo di sapere a quale livello di reazione erano stati tarati i sensori di movimento, o qual era il loro raggio di azione. Avanzai pianissimo lungo l'anta di destra, diretto verso il muro. Se resti abbastanza lontano dai sensori e contro qualcosa di solido hai buo-ne possibilità di riuscire a farcela.

Raggiunto il muro restai immobile in attesa di Charlie. Con la schiena e la testa accostò il cancello, senza chiuderlo del tutto. Era l'unica via di fuga conosciuta e volevamo che restasse tale.

Dalla strada giunse un monologo urlato in lingua-graffette da una voce maschile. Non udii la risposta, doveva essere un ubriaco, un matto o qual-cuno al telefono.

Guardai verso destra. Tre o quattro metri ci separavano dalle costruzioni basse in mattoni, che ci avrebbero offerto copertura mentre studiavamo il bersaglio ed effettuavamo gli ultimi controlli prima di fare incursione.

Abbracciato al muro cominciai ad avanzare, piano, molto piano. Il complessino del Primorski attaccò Brown Girl in The Ring dei Boney

M. L'applauso educato del pubblico si trasformò dopo pochi secondi in una raffica di urla inneggianti. Dovevano essere salite sul palco le ragazze di Las Vegas.

Un minuto o due dopo eravamo al sicuro dietro le costruzioni basse, e la bocca di Charlie era contro il mio orecchio. «Questa mi piace. È la nostra

canzone.» Con le spalle accennò a seguire la musica. «Mi ricorda dei bei momenti con Hazel.»

Soffocai una risata. «Sono contento per voi due, ma non vorrei che le tue mani eseguissero tutti i movimenti.»

Probabile che sotto il passamontagna stesse ridendo come uno scemo, ma sapevo che era preoccupato almeno quanto me per le sue condizioni.

Voltò la testa e mi parlò a bassa voce attraverso la stoffa. «Aspettiamo ancora un po' e poi andiamo a vedere la porta da vicino, va bene?» Era nel suo stile, da sempre Charlie faceva passare operazioni del genere per sem-plici lavoretti di bricolage, ma adesso stava esagerando.

Recuperò il binocolo dallo zaino e sbirciò dietro l'angolo delle costru-zioni in mattoni. Me lo passò. Le lenti non erano NVG (Night Vision Gog-gles, visori notturni a intensificazione di luminescenza) ma mi aiutarono comunque a adattarmi al buio. Per prima cosa controllai le CCTV, poi la porta. Nessuna variazione.

Il complesso passò dai Boney M a Sinatra. Un gruppo di tre o quattro voci maschili molto eccitate passò davanti al cancello. Forse non vedevano l'ora di staccare una piuma o due, oppure avevano deciso che preferivano New York.

Dopo aver controllato per l'ennesima volta che i cellulari fossero spenti e che lo zainetto fosse chiuso bene, Charlie avvicinò la bocca al mio orec-chio. «Op-op, amico, forse è meglio se ci diamo una mossa.»

PARTE SESTA

1

Fin lì avevamo azzeccato tutto su sensori e telecamere, sempre che lo

fossero; coprivano il davanti della casa e il cortile fino al cancello. Le due agli angoli dell'edificio inquadravano gli stretti corridoi fra casa e muro pe-rimetrale. Ispezionare il retro sarebbe stato un vero casino, mi augurai di non essere costretto a farlo.

Il sistema di sorveglianza tuttavia aveva un difetto: lasciava totalmente scoperto il muro più lontano, quello dirimpetto al cancello da cui eravamo entrati. In un attimo decidemmo che costituiva il percorso migliore per raggiungere il portone d'ingresso.

Avanzammo piano, Charlie per primo, la schiena contro i mattoni con-sumati. Faceva ancora caldo e l'interno del passamontagna s'impregnò su-

bito di sudore e di condensa del mio respiro. Fino a quel momento gli unici rumori uditi provenivano dal club o da

qualche balordo per strada, ma di colpo avvertii una serie di passi sul mar-ciapiede oltre la proprietà. Come minimo erano in due, uno tossiva e ansi-mava, camminando nella nostra direzione. Si fermò esattamente dietro il cancello per una scatarrata in piena regola; distinsi bene la sagoma delle scarpe nei cinque centimetri di fessura. Mi augurai che non decidesse di fa-re una capatina dentro per urinare. Avanzai ancora un po' nell'ombra. L'a-mico esplose in un commento beffardo, roco e in francese. Non è una lin-gua che conosco bene, ma abbastanza per capire che il catarroso aveva an-cora un filo di bava che gli colava sulla camicia.

Si mossero, e così anche noi per raggiungere l'angolo della casa. La tele-camera puntata verso il cancello era fissata al muro sopra le nostre teste, con il sensore immediatamente in basso. Per accendersi quando Baz entra-va o usciva di casa doveva essere angolata in direzione del portico. A quel punto dovevamo diventare parte del pavimento e non più del muro.

Mentre ci abbassavamo, il gruppo del Primorski attaccò un tributo a Johnny Cash e la cosa doveva aver portato il sorriso sui volti degli uomini in nero. Mentre loro andavano avanti con il repertorio, noi gattonavamo come micetti per coprire gli ultimi quattro o cinque metri.

Piatti a terra, strisciavamo lentissimi, facendo forza sui gomiti e sulla punta dei piedi, pochi centimetri alla volta, sul cemento umido e sbriciola-to del vialetto. Muovevamo gli occhi, non la testa, per guardare oltre; mi facevano già male per lo sforzo di tenerli alti nelle orbite.

Charlie doveva occuparsi anche dello zaino. Lo spingeva in avanti prima di avanzare. Finalmente raggiunse il primo dei tre gradini che salivano all'ingresso e si bloccò per controllare l'esistenza di sensori sotto il portico. Con il binocolo non ne avevamo visti, ma dovevamo partire dal presuppo-sto che ce ne fosse almeno uno.

Rimase fermo come minimo quindici secondi, poi cominciò a far scivo-lare lo zaino in avanti. Piano e con il massimo della precauzione, lo zaino e lui salirono i gradini finché uscirono dal mio campo visivo.

Non sentivo altro che il suo respiro affaticato, confuso di tanto in tanto con il ticchettio di tacchi alti e gli occasionali trilli di risate diretti al club. Ma non dormiva nessuno da quelle parti?

Riempii i polmoni, mi sollevai sui gomiti e sulla punta dei piedi e avan-zai di altri dieci centimetri, e quando i jeans bagnati e le gambe furono di nuovo a contatto con il cemento mandai fuori l'aria.

Uno scroscio di applausi accompagnò le ultime note di Jumping Jack Flash suonato dalla band del Primorski, e nell'attimo di silenzio che seguì mi parve di percepire, non proprio sentire, un rumore molto più vicino di qualcosa che veniva trascinato.

Poteva venire dalla finestra sopra di me ma non osai sollevare la testa per accertarmene. Invece, trattenni il fiato e aprii la bocca per bloccare o-gni rumore all'interno del mio corpo e ascoltai.

Alzai il più possibile lo sguardo verso il portico. Nessuna traccia di Charlie: di certo anche lui si era immobilizzato, in ascolto, in sintonia con l'ambiente.

Qualunque cosa fosse stato, non si ripeté. Adesso gli unici suoni erano le risate lontane e la musica della notte.

Inspiravo, espiravo, tenevo la bocca aperta, concentratissimo, per avver-tire anche la minima vibrazione. Niente. Proveniva dalla finestra? Impos-sibile stabilirlo.

Attesi più o meno altri trenta secondi. Se qualcuno dal piano di sopra ci avesse individuati si sarebbe già mosso.

Cominciai ad avanzare. Non avevamo altra scelta se non comportarci come in caso di attacco. Se ci si ferma ogni volta che si sente uno sparo non si raggiunge mai il nemico. Se in casa c'era qualcuno, o se ci avevano visto, l'avremmo scoperto fin troppo presto.

2

Finalmente raggiunsi con la testa il primo gradino. La tentazione di co-

prire velocemente gli ultimi metri era molto forte, ma riuscii a resistere. È il momento classico in cui ti beccano.

Charlie era sulla destra, dal lato di apertura della porta. Aveva sollevato il passamontagna di quel tanto da appoggiare l'orecchio contro il legno.

Adesso ero anch'io nel portico, seduto contro il muro diroccato. Non sa-pevo cosa mi dava più fastidio: il sudore lungo la schiena o il cemento u-mido a poca distanza. Charlie aveva il ginocchio sinistro sul tappetino che avrebbe di certo sollevato alla ricerca della chiave - i colpi di fortuna esi-stono - e anche per controllare che non ci fosse un rilevatore di pressione. Spostò il ginocchio e indicò terra senza smettere di ascoltare.

Notai che una delle mattonelle quadrate da dieci centimetri di lato non aveva cemento intorno. La tolsi e vidi che Baz aveva rimosso cemento a sufficienza da creare lo spazio giusto per un mazzo di chiavi. Ma natural-

mente le chiavi non c'erano. Forse Baz, dopo aver ideato il nascondiglio, si era fatto furbo. Perché la gente continua a credere che a nessun altro ver-rebbe in mente di cercare vicino al portone?

Sfilai la bombola di CO2 dalla tasca del giubbotto e la posizionai nella manica sinistra: il polsino elasticizzato l'avrebbe tenuta ferma. Metterla nella destra per farla scivolare in mano al momento del bisogno è roba da film. Difficile impugnarla bene, sempre che si riesca ad afferrarla.

Le due serrature erano proprio una a un terzo della porta dall'alto, l'altra a un terzo dal basso. La maniglia al centro non era collegata con nessuna delle due.

Non c'era alcun bisogno di decidere la mossa successiva, avevamo fatto insieme lavori del genere migliaia di volte, dall'Irlanda del Nord a Waco. Charlie illuminò con la torcia il buco di quella più in basso e studiò cosa avrebbe dovuto affrontare. Mi augurai che le sue mani fossero ferme per-ché non avevo nessuna voglia di sostituirlo.

Gli abbassai il passamontagna sull'orecchio, mi piegai sopra di lui verso l'alto e spinsi piano, ma con forza, l'angolo superiore della porta per vedere quanto gioco aveva. Se non cedeva, c'erano buone probabilità che fosse sprangata e cioè un bel casino, perché sarebbe stato impossibile entrare senza lasciare traccia. Ma, ancora peggio, poteva significare che Baz era in casa, o che aveva utilizzato un'altra uscita, e a quel punto avremmo dovuto attraversare il fuoco incrociato dei rilevatori volumetrici per trovarla.

Cedette. Nessun problema. Charlie si dedicò alla serratura in alto mentre io premevo la porta in bas-

so. Cedette. Ma questo non voleva dire che non potesse essere sprangata al centro; l'avremmo scoperto presto.

Un elicottero sferragliò in cielo sopra il corso più distante del fiume, con l'accompagnamento festoso di un po' di jazz da parte del complessino del club. Charlie indicò la serratura superiore e con le mani senza tremarella sollevò i pollici. Vantaggio inatteso. Poi indicò quella inferiore, girò i pol-lici verso il basso e cominciò ad armeggiare con il grimaldello.

Lo lasciai lavorare. Mi accovacciai con le ginocchia contro il petto, la stoffa bagnata dei jeans mi pungeva le gambe e il sudore mi congelava la schiena.

È sempre meglio lasciare da solo chi si occupa di una serratura. Se gli avessi tenuto la pila, avrei fatto ombra nei punti sbagliati e ci saremmo dati fastidio a vicenda.

Il problema era uno solo. Mi lasciava troppo tempo per pensare. Perché

Baz usava una serratura sola? Aveva deciso di passare una tranquilla serata a casa? Oppure aveva fatto un salto al Primorski per una mezza pinta velo-ce? Oppure era soltanto un pigrone del cazzo che era uscito di corsa? Non sarebbe stata la prima volta. Avevo effettuato CTR di case e fabbriche pro-tette dai più sofisticati sistemi d'allarme in commercio, i migliori se qual-cuno si fosse preoccupato di inserirli. Comunque fosse, le mattonelle co-minciavano a congelarmi il sedere. Charlie ci stava mettendo troppo.

Mi sporsi in avanti. Anche nella penombra vidi che le sue dita giravano come frullini. Cazzo. Mi spostai e posai le mani sulle sue per fermarle.

Per convincermi che aveva il controllo sulla situazione Charlie teneva i ferri come fossero bastoncini per il cibo cinese. Presi la torcia e illuminai la sua mano destra: sussultava come quella di un alcolizzato con il deli-rium tremens.

Sedette stancamente contro il muro e coprì il fascio di luce della torcia con le cinque dita, e poi le aprì e richiuse due volte.

Annuii. Gli avrei concesso altri dieci minuti, anche quindici. Voleva far-cela, doveva; non solo per i soldi che prendeva ma anche perché sapevamo entrambi che era l'ultimissima volta che lasciava il recinto.

Lo capivo, ma non avevamo tanto tempo per cazzeggiare. Alle 6.30 a-vrebbe cominciato ad albeggiare e per quell'ora dovevamo aver già riempi-to la DLB.

Decisi di vedere il lato positivo. Avremmo avuto più tempo per sentire cosa capitava dietro la porta.

Sintonizzarsi con l'ambiente non è mai una perdita di tempo, continuavo a ripetermi. Non mi aveva mai convinto molto, figurarsi adesso.

3

L'attesa durò quindici minuti buoni, ma alla fine Charlie riuscì ad avere

la meglio sulla serratura. Ancora a carponi raccolse i ferri e i grimaldelli e aprì la porta con estrema delicatezza, in modo che non cigolasse o facesse rumore contro la catenella di sicurezza. Si fermò un momento in caso scat-tasse l'allarme, poi infilò dentro la testa per dare un'occhiata e un'annusata in giro.

Era giunto il momento di togliermi gli stivali e di fare la mia parte. Ave-vo il passamontagna appiccicato attorno alla bocca, la nuca fradicia di su-dore e tutto il resto di me non era molto attraente, ma 'fanculo, all'alba sa-rebbe stato tutto finito e a mezzogiorno saremmo stati sull'aereo a scolarci

un paio di birre. Infilai gli stivali nel giubbotto e chiusi la zip. Poi recuperai la Maglite e

la bombola di CO2. Charlie strisciò al mio posto. Anche lui si sarebbe tolto gli stivali, avreb-

be predisposto la camcorder e pulito il portico con l'asciugamano che ave-vo rubato all'albergo. Al ritorno di Baz non doveva esserci traccia della nostra visita. Il subconscio registra tutto: se lo stuoino non è esattamente nella stessa posizione, se la polvere sul tavolo è stata inspiegabilmente di-sturbata, piccoli campanelli d'allarme cominciano a suonare. Sono in molti a non sentirli perché non siamo abbastanza attenti a recepire tutti i segnali che il nostro cervello ci invia. Ma qualcuno sì, e Baz poteva essere fra quelli.

Sbirciai dietro la porta. L'odore era lo stesso che c'era nelle case delle zie che andavo a trovare da bambino, tè stantio, giornali vecchi e margarina rancida.

Trattenni il fiato, aprii la bocca e tesi le orecchie. L'unico suono era il ticchettio, non forte, che proveniva da un orologio alla mia destra. Di not-te, l'apertura di una porta modifica soltanto di un soffio la pressione atmo-sferica di una casa, ma a volte anche i sensi di una persona addormentata riescono a percepirla.

Socchiusi la porta con la spalla sinistra ed entrai. Tenevo la Maglite in modo che filtrasse soltanto la luce necessaria per vedere una scala che sa-liva ripida contro il muro esterno alla mia sinistra, e un corridoio non trop-po lungo di fronte, su cui si affacciavano quattro porte, due per parte. Una striscia di tappeto a fiori nel centro copriva il pavimento in parquet. Il par-quet era la prima cosa positiva dopo l'apertura del cancello: non avrebbe cigolato. Le pareti, spoglie, avevano soltanto due quadri appesi; sopra una sedia di legno erano appoggiati dei cappotti.

Baz non aveva un gran gusto per quanto riguardava l'arredamento ma di certo teneva alla sicurezza. Quando girai la Maglite verso destra il fascio di luce illuminò una grata in ferro che andava da terra al soffitto, munita di cardini per essere posizionata contro il portone d'ingresso, ma completa-mente aperta a filo del muro. Ai lati della porta c'erano gli agganci e sul pavimento due sbarre piatte e due lucchetti.

Guardai il Baby-G. Erano le 2.28. Dovevamo ancora trovare la cassafor-te e ovviamente aprirla. Se continuavamo così potevamo metterci ore, ma ne restavano soltanto poco più di quattro prima dell'alba.

Praticamente senza fare rumore Charlie indossò lo zaino e mi venne vi-

cino. La fase successiva, ispezionare le stanze, toccava a me. A lui spetta-va il controllo sulla possibile fonte di rumore, la sacca.

Coprii la lente della torcia con un dito in modo da avere la luce necessa-ria per muoverci, mi allungai e mi protesi bisbigliando: «Controlliamo se c'è un'altra uscita, nient'altro. Dobbiamo concentrarci sulla cassaforte».

Charlie rifletté per un secondo, guardò l'orologio e annuì. Avanzai cam-minando sulla striscia di pavimento larga venti centimetri lungo il bordo destro del tappeto, facendo attenzione a non calpestarlo per non lasciare orme, e senza sfiorare la parete.

Due passi, poi mi fermai per lasciare a Charlie lo spazio di entrare. Stava già filmando con la camcorder a infrarossi, ma passando mi allungò due cunei in gomma per la porta. Per fortuna il suo cervello non era nella fase «Oh, mi sono dimenticato», quando aveva redatto l'elenco dell'attrezzatura.

Chiusi piano la porta e li infilai immediatamente sotto le serrature. Se Baz fosse tornato a casa all'improvviso, ci sarebbe restato il tempo di fin-gerci dei ladri comuni. Se invece era in casa a dormine e avesse deciso di scappare gridando aiuto, se non altro non avrebbe potuto farlo in fretta.

Charlie mise in pausa la camcorder. Il piano prevedeva di filmare la di-sposizione di ogni ambiente prima di entrarci per consentirci, al momento di uscire, di lasciarlo esattamente come l'avevamo trovato.

Le porte del corridoio erano tutte aperte. Affrontai la prima di destra. Era il soggiorno e, da come si presentava, Baz non aveva seguito i consigli pubblicitari sull'uso dei piumini per togliere la polvere, anche se non aveva dimenticato di caricare il vecchio orologio del nonno. I mobili in legno scuro e la carta da parati sbiadita corrispondevano in un certo senso all'o-dore.

Sulla mensola del camino c'erano foto in bianco e nero di una coppia, forse i genitori, e di lui da piccolo. Il pavimento era coperto di riviste, al-cune anche piuttosto recenti, in russo e in graffette.

La prima fase di una perquisizione è sempre un'occhiata veloce. Infatti, sarebbe inutile esaminare a fondo ogni ambiente che si presenta per poi trovare quello che cerchi proprio in mezzo all'ultima stanza, tre ore dopo. È nella fase due che si spostano i divani, si sollevano i tappeti, si guarda nella cappa del camino.

Le due grandi cornici all'ingresso racchiudevano fotografie color seppia della casa in tempi più felici. Finestre senza sbarre, nessun altro edificio in vista, niente muro di cinta e soltanto una siepe alta un metro per impedire ai cavalli di brucare l'erba del prato, che un tempo ricopriva il cortile.

Raggiungemmo la porta sul fondo. Era socchiusa, i cardini all'interno sul lato sinistro. Controllai con la torcia che non ci fossero segnali lungo il bordo. Non ne vidi. Un cenno a Charlie che filmò come si presentava.

La spinsi con il fondo della bombola. Non ci misi molto a capire che si trattava della cucina. L'odore di margarina e di giornali vecchi era così for-te che, nonostante il passamontagna, mi venne quasi da vomitare. Anche lì i mobili erano vecchi, un tavolo in legno e un paio di seggiole. Il fornello poteva essere stato usato da Stalin per cucinarsi i fagioli. Non è che Sfu-matura Alta ci avesse mandato nella casa sbagliata?

Spalancai completamente la porta; di fronte avevo il muro esterno e la porta posteriore, peccato che fosse interamente coperta da una lastra di me-tallo fissata al muro.

Mi voltai verso Charlie e annuii. Sì, eravamo nel posto giusto.

4 Fermo sulla soglia ispezionai il locale con la torcia. Distinsi le pentole e

le padelle in alluminio, vecchie e ammaccate, appese a ganci sopra la stufa e, sul tavolo, una bottiglia piena a metà di vino rosso accanto a un quoti-diano aperto. Nell'angolo una zanzariera indicava la presenza di una specie di dispensa. Dietro la rete si intravedevano barattoli e lattine.

Rimasi in ascolto per tre o quattro secondi, ma l'unico rumore era sem-pre il greve ticchettio dell'orologio. Tornai nel corridoio, toccai Charlie sulla spalla e puntai la torcia sulla porta alla nostra destra, circa tre passi più avanti. La spia rossa della camcorder riprese a lampeggiare.

Era socchiusa. Cercai segnali lungo la cornice e poi la spinsi piano. Esat-tamente di fronte c'era una finestra protetta da una grata da cui si vedeva soltanto il muro perimetrale.

Sembrava di essere in una stanza dedicata al cucito. Nell'angolo più lon-tano, vicino a una cassapanca in legno, si trovava una vecchia Singer a pe-dale, ma non c'erano vestiti imbastiti o campionari di stoffa in giro. Nessun armadio in vista. Un tappeto a pelo lungo copriva quasi interamente il pa-vimento, lasciando scoperto un bordo di circa mezzo metro. Il caminetto sembrava inutilizzato da anni, come minimo da quando i due quadri sulla parete opposta avevano visto per l'ultima volta uno straccio per la polvere.

Camminai attorno al tappeto e controllai le cornici per eventuali segnali, volontari o involontari. Il quadro a sinistra riproduceva un vaso con dei fiori, dietro non c'era altro che un quadrato più chiaro di carta da parati,

nessuna cassaforte neppure dietro quello con le montagne. Tornai in corridoio e indicai la porta di fronte; Charlie era dietro di me e

stava già riprendendo. Questa prometteva bene. Era lo studio di Baz; sulla scrivania contro la

finestra c'era il primissimo prototipo di Bill Gates, o così sembrava, cir-condato da cartelline e ritagli di giornale che erano anche per terra. La mensola sul muro alla mia destra era curvata dal peso di troppi libri. Nell'angolo più lontano c'era un armadio, formica sottile color quercia, di quelli moderni che si comprano smontati, in cui nessuno zio Joe aveva ap-peso la divisa.

Mi spostai per lasciar passare Charlie che fece una panoramica completa da sinistra a destra, prima che cominciassimo a spostare le cose. Mi diressi subito alla scrivania, illuminando il percorso con la torcia per non rischiare di pestare i fogli sul tappeto. Speravo di trovare un numero sul telefono. Niente.

Ma l'armadio ci rivelò una bella sorpresa. Dopo aver controllato, come al solito, che non ci fossero segnali, aprii

l'anta e, bingo! trovai quello che cercavamo. Mi spostai per far vedere il tesoro anche a Charlie. La riprese per intero,

centimetro per centimetro, ogni pezzetto di vernice grigia scrostata, ogni parola in cirillico che, senza alcun dubbio, informava che era stata prodotta dai fornitori ufficiali dello zar. Era un cubo solido di sessanta centimetri. I cardini dello sportello erano sulla destra, la maniglia cromata, molto con-sumata, a sinistra, seguita dalla toppa della chiave e dal cilindro della combinazione in pieno centro. Dopo aver filmato l'esatta posizione in cui si trovavano i dettagli, Charlie mi passò la camcorder, provò la maniglia, scrollò le spalle e aprì lo zaino.

Io infilai la bombola nella manica e lo lasciai lavorare. Estrasse un asciugamano e lo allargò davanti alla cassaforte. Lo zaino

era bagnato e non voleva che lasciasse segni.

5 Charlie si inginocchiò sull'asciugamano di fronte alla cassaforte, la sacca

era sulla destra, e con delicatezza liberò il visore a fibre ottiche da un pez-zo di un altro asciugamano dell'albergo. Ogni oggetto nello zaino era stato protetto singolarmente per evitare che facesse rumore o si danneggiasse.

Con la camcorder in funzione mi avvicinai alla scrivania di Baz; per

prima cosa ripresi il piano, poi la posizione di ogni singolo cassetto. Erano dieci per lato, progettati per contenere cartelline sottili o un assortimento di penne. Alcuni erano socchiusi, altri chiusi; altri spinti all'interno più del dovuto.

Sollevai il telefono ma sotto non c'era niente attaccato con lo scotch. Vi-cino, una piccola scatola di legno rigurgitava penne, matite, elastici e fer-magli. Nessuna fortuna neppure lì.

Controllai che attorno ai cassetti non ci fossero sensori e poi li aprii uno alla volta. Trovai fogli su fogli scritti in graffette e in russo, ma non la chiave della cassaforte, o dei numeri scarabocchiati su un foglietto che as-somigliassero a una combinazione.

Guardai Charlie. Teneva la torcia con i denti e muoveva la fibra ottica infilata nella serratura come un chirurgo che esegue un'endoscopia, soltan-to che lo faceva a carponi e con il sedere per aria.

Aveva attaccato per prima quella a vista, in caso la cassaforte fosse stata chiusa soltanto con la chiave.

Ero di fronte a una scelta. La perquisizione non aveva portato a niente. Avrei potuto passare la notte intera a cercare la chiave o un indizio per la combinazione, forse con l'unico risultato di incasinare tutto. Decisi che per quel giorno avevo chiuso e mi inginocchiai sull'asciugamano accanto a Charlie in attesa che mi parlasse.

Adesso c'era un gran silenzio, come alla tomba di Tengiz, anzi forse di più, se le donnette con il lavoro a maglia erano ancora là a chiacchierare. Gli unici suoni erano il respiro del fanatico della disco dance, il ticchettio dell'orologio in lontananza e un paio di veicoli che passavano in strada.

Finalmente Charlie sfilò il visore a fibre ottiche e si sporse verso di me. Portai la bocca al suo orecchio. «Quanto pensi di metterci?» Arrotolò lo strumento nell'asciugamano e lo ripose nello zainetto. Era un buon segno, non si lasciano mai in giro le cose che non servono

più, si mettono via subito per essere pronti a un'eventuale fuga. «Una cazzata. La serratura è a leva e la combinazione è una serie di nu-

meri. Quattro ore al massimo. Non ti preoccupare, in Bosnia me ne sono fatte a dozzine come questa.» Fece una pausa e sapevo che avrebbe sgan-ciato una battuta. «Se ci metto di più, ti autorizzo a farla saltare.» Vidi il ghigno anche attraverso il passamontagna di nylon. Infilò di nuovo in boc-ca la piccola torcia, stoffa compresa.

Aveva ragione, la serratura protetta, se non altro, era facile. Ha un cate-naccio a molla con dentellatura e usava già ai tempi dei romani. Quando la

chiave combacia con la tacca, alza la leva interna che libera il catenaccio in modo che possa scorrere avanti e indietro. È chiamata «protetta» perché la dentellatura, o protezione, sia nella toppa sia nell'ingegno della serratu-ra, impedisce che funzioni con la chiave sbagliata.

Charlie srotolò un set di lunghi uncini sottili in ferro, come i vecchi al-lacciascarpe. Con un po' di fortuna uno di quelli avrebbe superato la prote-zione e avrebbe fatto scattare il catenaccio.

Una frazione di secondo dopo sentii lo scatto: la serratura era aperta. Charlie ripose gli uncini con un dondolio trionfante del capo. Adesso toccava al cilindro della combinazione. In questo caso la serratu-

ra scatta quando la freccia a sinistra del quadrante individua la corretta se-quenza dei numeri. L'unico problema è che non c'è modo di stabilire quan-do le levette raggiungono la posizione corretta; l'unico rumore si sente quando la barra scende nell'incastro, cioè quando si azzecca la combina-zione.

Charlie cominciò a ruotare il cilindro a sinistra e a destra. Forse stava provando con i numeri della targa di Baz o con la combinazione di serie della ditta costruttrice russa.

Terminate le più ovvie avrebbe provato ogni variazione possibile. In teo-ria, le piccole bastarde erano oltre un milione ma per fortuna nei cilindri vecchi e di bassa qualità come quello non era necessaria la massima preci-sione, uno scarto di una o due posizioni, sia in più sia in meno rispetto al numero giusto, avrebbe fatto scattare ugualmente la serratura. Di conse-guenza, le possibili combinazioni scendevano a sole ottomila. Non che fosse una cazzata, ma anche con le mani che si ritrovava avrebbe potuto farcela in poche ore. Una volta mi aveva detto che non pensava a quello che stava facendo ma agiva in automatico.

Mi si avvicinò. «Data di nascita?» Quando ero tornato dalla gita alla libreria non mi aveva fatto domande.

Tempo sprecato. Non avessi trovato la data di nascita di Baz, glielo avrei comunicato.

«Ventidue-dieci-cinquantanove.» Cominciò a girare il cilindro: 22 antiorario... 10 orario... 59 antiorario... Per qualche ignoto motivo era la sequenza più usata. Mi accorsi che stavo trattenendo il fiato. Niente. Nessun suono. Nessuna leva caduta nell'incastro, non bastava gi-

rare la maniglia e sentire il catenaccio che scivolava nella porta. Charlie giocò con i tre numeri in sequenza, variando però la direzione

della rotazione. Dopo una dozzina di tentativi provò 22 antiorario, 59 orario, 22 antiora-

rio. Si udì un rumore sordo all'interno della porta. Charlie illuminò con la torcia il pavimento per avere la certezza assoluta

di non aver lasciato nessun pezzo in giro. Avrei potuto aprire la cassaforte nel frattempo, ma esiste un protocollo

da rispettare in quel genere di situazione: l'onore toccava a lui. Quando fu tutto a posto si voltò soddisfatto e abbassò la maniglia. Le

spranghe rientrarono sia dal lato dei cardini che da quello dell'apertura e la porta si aprì con un lieve cigolio metallico.

Charlie aveva la torcia piccola stretta fra i denti e la testa dentro la cassa-forte. Mi avvicinai. C'era un unico ripiano nel mezzo su cui erano posate soltanto due cose: una scatola aperta con dei gioielli antichi, forse della madre di Baz, e una cartellina di plastica azzurra.

Charlie non aveva bisogno di riprendere con la camcorder la posizione della cartellina, la prese e me la passò. Una rapida scorsa con la Maglite mi disse che si trattava di una ventina di pagine di graffette scritte a mano.

Non sembrava una gran cosa, ma era evidente che per qualcuno valeva duecentomila dollari americani.

Non ebbe neanche il tempo di scrollare le spalle. La porta venne spalan-cata e le luci si accesero.

6

Erano in due, e urlavano come ossessi in russo e in graffette. Armati.

Grosse pistole tozze con il silenziatore; sollevammo le mani lentamente perché potessero vedere che, purtroppo, noi non lo eravamo. Tenevo il gomito sinistro appena angolato per non far cadere la bombola.

Erano sulla trentina, capelli neri corti, jeans e giacca di pelle, anelli e braccialetti d'oro e l'aria di non sapere bene come gestire la situazione.

Non erano mascherati. Pessimo segno. Se ne fottevano di essere ricono-sciuti. Uno aveva il viso scurito dalla barba lunga, l'altro gli occhi iniettati di sangue. Forse aveva fatto sosta al Primorski prima di arrivare.

Il volume delle urla aumentò. Rimbombavano fra le pareti della stanza. Che avessimo le mani in alto evidentemente non bastava.

Il tipo con gli occhi iniettati di sangue si comportava da capo. Mi fissò e con la mano libera si aprì più volte la giacca di pelle. Compresi. Mantenni

sollevata la destra e con la sinistra abbassai la lampo del giubbotto. Gli sti-vali rotolarono sul tappeto. Charlie seguì il mio esempio.

Adesso avevano la certezza che non eravamo armati, ma continuarono a urlare. Non capivo cos'altro potessero volere e di certo non l'avrei chiesto. Temevo che scoprissero che eravamo inglesi. Scrollai le spalle e agitai le mani.

Si urlarono degli ordini con rabbia, in fretta, poi Occhi Rossi si avvicinò a Charlie, pistola pronta, mentre Guanciavetrata lo copriva. Agitò la mano libera, gridava e indicava il pavimento.

Charlie capì: il ragazzo voleva il fascicolo. Si piegò e lo raccolse con la sinistra, la destra sempre per aria. Occhi

Rossi si avvicinò di un altro passo, lo afferrò e gli piantò la pistola nel col-lo. Vidi dei caratteri cinesi incisi lungo la canna. Era un modello vecchio e molto usata, ma poco importava. Avesse premuto il grilletto, Charlie sa-rebbe stato spacciato.

Tenendo la canna ferma esattamente dove si trovava, Occhi Rossi si chi-nò e infilò la mano nella cassaforte. I gioielli sparirono nella sua tasca con la velocità e la precisione di un gioco di prestigio. Per completare l'opera strappò la maschera a Charlie, poi mi riservò lo stesso trattamento.

Arretrò di due passi per contemplare il suo operato. Rimasero fermi per parecchi secondi ai lati della soglia. Occhi Rossi borbottò qualcosa all'a-mico non rasato, posò il fascicolo sulla scrivania e cominciò a scorrerlo. Guanciavetrata continuava a spostare la canna della pistola dalla mia testa a quella di Charlie e viceversa, in caso non avessimo capito il messaggio.

Non smisero mai di sbraitare mentre Occhi Rossi sfogliava le pagine. Non sapevo che fare. Mi ero trovato in situazioni simili fin troppe volte ed ero in grado di riconoscere l'odore e l'aspetto dell'incertezza. Dopo un po' sollevò la testa, ci guardò in cagnesco ed estrasse il cellulare.

Azzardai un'occhiata a Charlie: fissava il pavimento come se volesse imparare a memoria ogni nodo del tappeto. Conoscevo quell'espressione. Si stava chiedendo cosa cazzo poteva fare per tirarci fuori di lì. Sperai che gli venisse in mente qualcosa prima che i due avessero il permesso di farci fuori.

Una rapida successione di suoni mentre Occhi Rossi digitava il numero. Chiunque fosse dall'altra parte rispose all'istante. Occhi Rossi ci studiò a lungo e mi sembrò che ci descrivesse, poi prese il fascicolo e citò un paio di passi. Quindi ci guardò di nuovo. Non compresi cosa diceva ma il senso sì. Qualunque fosse il problema che credevano di dover affrontare nella

casa, adesso ne avevano un paio in più e non ne erano per niente contenti. Come se io lo fossi.

Nell'immediato non c'era assolutamente nulla che potessimo fare. Mi concentrai sulla pistola di Guanciavetrata, così avrei saputo cosa fare se fossi riuscito a metterci le mani sopra. Il potere del pensiero positivo.

Teneva il dito sul grilletto, la sicura era tolta; la leva a sinistra dell'impu-gnatura era tutta abbassata. Quel tipo di armi in genere ha due posizioni di tiro, colpo singolo e semiautomatico. Con la prima la carica è manuale, e a ogni colpo occorre tirare indietro il carrello di scorrimento perché possa avanzare e prendere il proiettile dal caricatore. Con l'altra, il carrello di scorrimento non è bloccato e si continua a sparare finché il caricatore non è vuoto.

Non sapevo quale posizione avesse scelto Guanciavetrata, ma avevo la sensazione che non fosse su colpo singolo.

Occhi Rossi stava ancora blaterando al telefono e sfogliando le carte quando dalla strada giunse un suono metallico. Smise di colpo di parlare. Un forte cigolio ci disse che il cancello era stato aperto.

Occhi Rossi interruppe la telefonata e si precipitò nell'atrio. In meno di dieci secondi era di ritorno e non sembrava per niente con-

tento. Arrotolò i fogli e li infilò nella giacca. Urlò un paio di ordini a Guanciavetrata e sparì di nuovo.

Guanciavetrata non perse il controllo e sollevò l'arma di qualche centi-metro.

Non c'era tempo per pensare. Mi scagliai contro di lui con l'intenzione di colpirgli lo stomaco con la

spalla. L'impatto lo fece barcollare all'indietro, sbatté contro il muro e, prima che potesse riprendere l'equilibrio, lo trascinai a terra insieme a me. Agitavo le mani. Non m'importava colpirlo, volevo soltanto impedirgli di usare l'arma. Con un po' di fortuna sarei riuscito a impossessarmene.

Sentii le gambe di Charlie che mi spingevano e poi un suono come di un cocomero che si sfracella a terra. Con l'aiuto del manganello di CO2 aveva spiegato a Guanciavetrata i fatti della vita direttamente nel cranio.

Mollai la presa e rotolai via. Il lavoro era di Charlie, poteva anche sal-targli addosso, se ne sentiva il bisogno.

Guardai il pavimento ma l'arma non era in vista e non avevo tempo di cercarla.

Mi precipitai fuori dalla stanza e infilai la mano nella manica sinistra del giubbotto. Occhi Rossi era davanti a me che armeggiava con i cunei. La

porta si aprì e la stanza venne inondata di luce. Il cancello era aperto. L'Audi di Baz entrò nel cortile. Scattai sul tappeto mentre Occhi Rossi correva e inciampava sui gradini

del portico. In una pioggia di vetri infranti scaricò l'intero caricatore sul finestrino

dal lato guidatore e fece una piroetta da torero per schivare l'auto che andò a schiantarsi nel muro.

Superai i gradini con un unico balzo, stringendo la bombola. Lo assalii prima che avesse il tempo di riprendersi, colpendolo con il pesante tubo di metallo proprio in mezzo alla testa. Il peso del mio corpo che cadeva a ter-ra aumentò la forza dell'impatto e sentii scricchiolare le ossa del cranio.

Crollò come una mucca colpita da uno storditore elettrico e io con lui. La pistola scivolò sul cemento bagnato. L'afferrai, mi voltai e gli sparai in testa. La terza volta che schiacciai il grilletto non accadde nulla. Il carrello di scorrimento era bloccato indietro in attesa di un caricatore pieno.

'Fanculo al cancello da chiudere. Gettai la pistola scarica e tornai di cor-sa in casa, forse il mio amico dalle mani ballerine aveva bisogno di aiuto.

Guanciavetrata aveva fori di sparo nel torace e sotto lo zigomo, e una pozza di sangue nero si allargava sul tappeto. Charlie era tranquillissimo. Aveva infilato il passamontagna e stava mettendosi lo zainetto sulle spalle. «Dammi cinque minuti», disse. «Provo a cercare i monitor delle cineprese di sorveglianza. Forse trovo anche le cassette registrate.»

Afferrai la mia maschera dal pavimento e mi coprii la testa mentre usci-vo dal portone.

7

Andai dritto al cancello. Non persi tempo a guardare fuori, chiusi le due

ante e le fissai con le spranghe. Poi sistemai meglio il passamontagna per-ché avevo soltanto un occhio scoperto. Dovevo assomigliare a quel cazzo di fantasma dell'Opera.

Dal Primorski giunse un rullo di tamburi e clangore di cimbali seguiti da uno scroscio di applausi; non fossi stato così distrutto avrei fatto un inchi-no.

Nel cortile illuminato brillavano vetri rotti, bossoli di proiettili, cemento bagnato e due pozze di sangue. Cercando di recuperare il fiato mi precipi-tai alla macchina.

Sembrava che qualcuno avesse gettato un secchio di sangue nell'abitaco-lo. Il corpo del guidatore era riverso sul cruscotto con la testa girata. Nes-sun dubbio, era Baz, e non aveva un bell'aspetto. Era stato colpito in fron-te, nel collo e a una spalla, e i capelli grigi erano diventati violacei.

Controllai il cofano. Il paraurti aveva assorbito gran parte della botta e un faro era rotto ma secondo i miei calcoli la Technik era ancora Vor-sprung. Aprii la portiera, afferrai il braccio di Baz e lo trascinai fuori.

Tornai in casa, avevo la gola secca come cartavetrata. «Charlie!» «Quassù.» La voce veniva dal pianerottolo in cima alle scale. «È morto. Porta qualcosa per coprire i sedili della macchina. Copriletto,

quello che trovi.» Di corsa tornai nell'ufficio e recuperai gli stivali. Non avevo tempo per

allacciarli come si deve, infilai le stringhe sotto la linguetta per non in-ciampare. La velocità era essenziale, dovevamo filare via.

Tornato in cortile, feci rotolare il corpo di Occhi Rossi ed estrassi il fa-scicolo dalla giacca. Charlie saltò i gradini trascinandosi dietro due copri-letto multicolori.

«Hai trovato la CCTV?» Scosse la testa. «Potrebbe essere ovunque, anche nel computer, per quel-

lo che ne sappiamo. Io direi di portare via i coglioni e prendere l'aereo. Ti sta bene? O vuoi restare e cercare ancora un po'? Io sono pronto, se tu lo sei.»

Rimasi fermo vicino all'auto. Aveva ragione. Che senso aveva sprecare tempo nella casa bersaglio in compagnia di tre cadaveri? «Andiamo.»

Buttammo i copriletto sui sedili anteriori. Charlie infilò dietro lo zainetto e io mi misi al volante. Mentre lui con-

trollava la strada, con un pugno tolsi i pezzi di vetro che erano rimasti at-taccati al finestrino.

Aperto il cancello, ingranai la retromarcia. Charlie chiuse alla meglio le ante, saltò accanto a me e infilò la pistola sotto la coscia. Ci dirigemmo al-la collina verso la luce rossa lampeggiante dei pali delle telecomunicazio-ni.

Mentre superavamo la traversa a sinistra del Primorski vidi due lunghe Mercedes che raccoglievano una piccola folla di ragazze molto giovani e uomini molto vecchi.

Finalmente ci togliemmo le maschere e Charlie cominciò a ridere. «Hai fatto proprio un bel casino, eh, ragazzo?»

«Su la testa, c'è la polizia.» Una biancazzurra aveva svoltato nella nostra strada e scendeva verso di

noi. Piano, senza fretta. Guardai Charlie, aveva sangue sul viso? Lui con-trollò me, ma anche se ne avevo, era troppo tardi. C'incrociammo, ci stu-diarono e due puntini rossi fra le loro labbra diventarono incandescenti mentre aspiravano.

Charlie fece un cenno di saluto. «'Sera.» Superarono la casa di Baz senza fermarsi. «'Sera? Se ti avessero sentito ci avrebbero fermato solo per investigare il

tuo modo di parlare.» Non riuscivo a smettere di ridere. Non per la battuta, ma per il sollievo.

Il vento entrava dal finestrino senza vetro. Staccai una mano dal volante e presi il fascicolo dalla giacca. Aveva un'aria provata ma se non altro non aveva buchi di proiettile.

Charlie scrutava le strade per individuare auto della polizia. «Secondo me erano già in casa, in attesa del ritorno di Baz. Lo avrebbero costretto ad aprire la cassaforte e, una volta preso il contenuto, lo avrebbero fatto fuo-ri.»

«Ma Sfumatura Alta non era sicuro che Baz non sarebbe tornato fino a domenica mattina dal parco nazionale? E se ci ha raccontato una balla su questo, cosa dobbiamo pensare del resto?»

Giravo il volante a sinistra e a destra nel disperato tentativo di evitare le buche.

«Forse erano pronti ad aspettare fino al mattino. Ci hanno visto entrare nel cortile. Questo spiega il rumore che abbiamo sentito dalla finestra sul davanti, erano loro, gli stronzi. Quando abbiamo aperto la cassaforte devo-no aver pensato che fosse Natale.»

Svoltai a sinistra in direzione del cimitero. «Sapevo che avrei dovuto guardare nella dispensa...»

«Se tu l'avessi fatto, forse ci avrebbero stesi subito.» Cominciò a ridere. «E invece siamo ancora qui, una gita veloce alla DLB e poi ciao-ciao Ge-orgia.»

Avevamo raggiunto lo spiazzo sterrato davanti al cimitero. C'era ancora qualche auto parcheggiata. Charlie indicò un posto sotto un albero, dove la luce del distributore rinunciava finalmente a penetrare nel buio.

Spensi il motore e i fari e rimasi seduto, in ascolto. «Tu come stai?» «Bene. Ma non riesco a controllare il tremito delle mani. Forse è meglio

se vai da solo. Mi sa che non faccio più parte del clan degli spostatori di

lapidi.» «Affare fatto.» Sorrisi. «E dopo, in albergo per una sistemata, barba e

doccia. Fortuna che è domenica. Facile che l'assenza di Baz non venga no-tata fino a lunedì.»

8

Charlie avvolse il plico in un sacchetto di plastica. «Le pagine sono tutte

numerate, l'ultima è firmata e ogni correzione è stata siglata. Secondo me si tratta di una dichiarazione ufficiale.»

«E secondo te chi erano Occhi Rossi e Guanciavetrata?» «E chi cazzo se ne fotte? Lasciamo giù la roba e ce ne andiamo.» «Colpi, ne hai?» Tolse la pistola da sotto la gamba. Abbassò la leva a sinistra dell'impu-

gnatura ed estrasse il caricatore. «Due qui.» Tirò indietro il carrello di scorrimento. «Uno in canna.» Lo lasciò andare, inserì di nuovo il caricato-re e la sicura e me la passò. «È pronta, con la sicura inserita.»

Controllai due volte prima di infilare l'arma davanti nei jeans e il sac-chetto di plastica nel giubbotto. Una volta sceso dall'Audi controllai com'e-ro conciato. Dovevamo ancora tornare all'albergo e passare l'ispezione del portiere di notte. Anche se eravamo a Tbilisi non credo che gradissero gli ospiti coperti del sangue di chissà chi.

Presi il telefono e lo accesi. «Ti chiamo quando ho finito. Se vedi casini fa' uno squillo, d'accordo?»

Charlie annuì mentre si spostava dietro il volante. Sarebbe rimasto di guardia al cancello.

«Mi serve anche la tua torcia.» Me l'allungò. «A fra poco.» Andai deciso verso il cancello aperto. Non c'era tempo per

appostamenti nell'ombra. Era il classico caso da affrontare così: entrare, fa-re il lavoro, uscire e tornare in albergo prima che facesse chiaro.

Controllai che il telefono avesse campo mentre mi avviavo per il vialetto centrale in mezzo alle tombe. Il chiarore dalla stazione di servizio faceva del suo meglio per inondare tutto, lapidi, panchine, alberi, di un bel verde BP. Non mi dispiaceva affatto perché, almeno così, riuscivo a vedere dove mettevo i piedi.

Un'auto passò vicino all'ingresso, dal rumore sembrava che la marmitta vivesse di vita propria e rimbalzasse dietro l'auto lungo la strada. Ma per il

resto era tutto tranquillo. Anche il circolo delle sferruzzatrici aveva chiuso bottega.

Il bidone che avevo scelto come riferimento luccicava nel buio. I quattro tizi sulla lapide Tengiz tenevano sempre gli occhi fissi in alto. Non riusci-vo a decidere se fosse un segno di adorazione o aspettassero una risposta che tardava ad arrivare. Illuminai con la torcia la recinzione in ferro battuto per capire dove mi trovavo e individuai la panchina, la raggiunsi, e provai a smuovere la lastra di copertura dalla base. Mi bastavano pochi centime-tri, ma era un pezzo di marmo che aveva l'aria di non aver voglia di spo-starsi per quella notte.

Mi piegai e spinsi di nuovo, questa volta con la spalla. Cedette con un suono stridulo e basso, e una rapida ispezione con la torcia mi confermò che si era aperta la fessura che mi serviva. Infilai dentro il sacchetto di pla-stica, misi la torcia in tasca e cominciai a spingere la lastra al suo posto.

Rumore di passi sulla ghiaia alle mie spalle. Girai su me stesso. Un'ombra scura con le mani sollevate mi era addosso

e oscurava qualsiasi parvenza di luce ambientale. Un gigante. Mentre il braccio si abbassava, scattai a sinistra nel tentativo di bloccarlo

a metà via. Ebbi fortuna. Rumore di metallo contro la pietra. Un oggetto poco rassicurante gii era caduto dalle mani.

Con la sinistra afferrai il bordo del giubbotto e lo sollevai per prendere la pistola con la destra. Fu più veloce. Urlò, mi si buttò addosso, e con ma-ni grandi come rampini mi afferrò le braccia e cercò di strapparmele. Cad-di all'indietro sul ferro battuto e ci schiantammo sul vialetto.

Urtai il marciapiede con la spalla, e il mio aggressore mi crollò addosso. Impossibile respirare. Inarcai la schiena, scalciai, mi dimenai, volevo riu-scire ad abbassare le mani, a scrollarmelo di dosso per riempirmi i polmo-ni.

Con la testa mi colpì il mento. Non avevo serrato i denti e mi morsicai la lingua.

Centoquindici, centoventi chili di muscoli mi tenevano bloccato a terra con le braccia inchiodate sopra la testa.

«Charlie!» Mentre urlavo sentii che sputavo sangue. M'inarcai, scalciai, ma il suo

corpo non si muoveva dal mio e dalla pistola. «Charlie!» Mi lasciò le braccia, aveva deciso di strangolarmi. Dita d'acciaio mi

strinsero la gola. Mi spruzzò il viso di saliva mentre impiegava ogni sua

energia per farmi uscire il pomo d'Adamo dalla nuca. Sentivo la testa sul punto di esplodere.

Non potevo fare altro che scalciare e agitarmi come un ossesso. Riuscii ad afferrargli il collo ma lui si limitò a irrigidire i muscoli, era come avere cavi d'acciaio sotto le dita. Le spostai in basso, gli afferrai i risvolti della giacca e li usai come leva per affondare i pollici nel punto di carne morbi-da, fra le clavicole alla base della gola.

Sarebbe stato costretto a usare le mani per staccare le mie. Se non l'aves-se fatto l'avrei soffocato a morte. O lui me.

Avevo il viso gonfio, sul punto di scoppiare. Spinse il mento verso il basso e irrigidì ancora di più i muscoli del collo. Cazzo quant'era grosso. La barba ispida mi grattugiò due strati di pelle dalle mani.

Il cuore batteva con violenza, avevo la vista annebbiata. Premetti con maggior forza e lui sollevò la testa. I suoi capelli mi sbatterono sul viso. Sentii la barba dura che mi graffia-

va una guancia e il flato fetido da ubriaco. Sapevo che era pronto a finire il lavoro con i denti.

9

Scossi la testa, mi sforzai di continuare a muoverla sperando di avere

una possibilità di spuntarla. Quando il suo naso fu a pochi centimetri dal mio, colsi la mia occasione.

Mi protesi in avanti e affondai i denti sul setto nasale. Strinsi con forza l'osso duro sopra la cartilagine e non mollai. Girò la testa da una parte all'altra nel tentativo di liberarsi, ma ero come un terrier che non molla il bastone.

Finalmente allentò la presa al collo e spostò le mani sul mio viso. Feci appena in tempo a serrare stretti gli occhi prima che me li schiacciasse con i pollici. Li spinse dentro le orbite, ma io aumentai la pressione del morso. Avevo il viso inondato di sangue.

Il dolore lo rese una furia, si dibatteva come un pesce arpionato. Mollai la gola, spostai le mani dietro la nuca e lo attirai a me per avere

più carne da mettere sotto i denti. Strinsi con tutta la forza che avevo e agi-tai la testa da una parte all'altra mentre lo facevo.

Serrai la mascella e l'osso si sbriciolò come una nocciola schiacciata. Il setto nasale esplose.

Dal buco nel suo viso sgorgarono sangue e muco, e lui lanciò un urlo di

dolore e rabbia. Mollai la presa e cercai di scrollarmelo di dosso a calci e pugni. Ma resi-

steva. Riuscii a farci rotolare su un fianco e infilai a forza la mano fra i nostri

corpi finché non afferrai il calcio della pistola. Portai la canna sotto la sua ascella, tolsi la sicura e premetti.

Il colpo gli centrò in pieno il torace. Premetti ancora. Niente. Schiacciato fra i nostri corpi, il carrello non aveva lo spazio per arretrare

e ricaricare. Mi staccai e a tastoni riuscii ad afferrare il carrello e a spingerlo indietro

e avanti. Rimasi per un momento immobile, sdraiato sulla schiena mentre lui tre-

mava accanto a me. Poi gli conficcai la canna nel torace e premetti due volte.

Strisciai via e andai a sedermi accanto alla lapide dei Tengiz. Oltre ai miei rantoli per recuperare il respiro, udii soltanto il rumore di un'auto che passava, la quale, a differenza dell'altra, si era separata dalla marmitta da chissà quanto tempo.

La lingua era così gonfia da toccare il palato. Il pomo d'Adamo era stato spinto dietro la gola. Rimasi seduto a sputare sangue fra il maglione e la felpa nel tentativo di lasciare in giro la minor quantità possibile di DNA.

Presi il cellulare e cercai di respirare lentamente e a fondo per farmi sen-tire da Charlie. Rispose al primo squillo.

«Gira l'auto di culo verso il cancello. Abbiamo un problema.» Non rispose e chiuse la comunicazione. Sapeva cosa sarebbe finito nel

baule. Rotolai su un fianco, e a carponi cercai di ritrovare l'oggetto con cui

Hulk voleva farmi a pezzi. Posai le dita sull'acciaio freddo di un gollock. Il ragazzo non era tipo da mezze misure. Forse lo chiamava machete, forse ascia, non era importante. L'unica cosa essenziale era che non si fosse con-ficcato nella mia testa.

Avevo avuto una gran botta di culo, niente da dire. Strisciai fino alla panchina, facevo fatica a respirare e avevo la bocca

piena di sangue. Sputai nel maglione, a stento spostai la lastra e infilai il braccio dentro. Tastai il fondo finché non urtai il sacchetto di plastica. Il fascicolo tornò nella tasca della giacca. Fino alla comparsa di Hulk, avevo

concesso a Sfumatura Alta, o a chiunque tirasse i fili, il beneficio del dub-bio, adesso non più. Io e Charlie eravamo stati fottuti alla grande. Nessuno ci avrebbe messo sopra le mani. Era nostro.

Con la torcia cercai la pistola e la infilai nei jeans. Il machete finì nei pantaloni del legittimo proprietario.

Lo afferrai per le braccia e lo trascinai sul vialetto. Non potevamo la-sciarlo lì. Gli anziani si svegliano presto e, per quanto ne sapevo, all'alba poteva già esserci una processione di vedove.

Il mio compagno faceva manovra con l'Audi. Raggiunsi il rubinetto e mi lavai. Charlie varcò il cancello e vide il cadavere a terra. «Porca puttana, ra-

gazzo.» «Ti hanno incastrato. Quello stronzo di Sfumatura Alta aveva mandato

questo armadio ad aspettarti con un machete.» Indicai il manico che gli spuntava dalla cintura. «Devo dare una pulita e poi ti aiuto.»

Mi lavai alla meglio e lisciai all'indietro i capelli bagnati, volevo avere un'aria vagamente rispettabile per l'albergo. Riempii d'acqua un paio di bottiglie di plastica che qualcuno aveva lasciato vicino al rubinetto, e tor-nai alla tomba per annacquare le chiazze di sangue più evidenti.

Non volevo che le sferruzzatrici della domenica perdessero un punto e chiedessero l'intervento della polizia.

Infilare Hulk nel baule non fu un'impresa facile. Per un attimo restò con la testa dentro e il resto del corpo contro il paraurti come uno che vomita.

Ci fu un fruscio e rumore di ghiaia calpestata. Qualcuno era nel vialetto. Zero tempo per pensare: afferrai l'ascia e tornai nelle tenebre. Raggiunsi

correndo il punto da cui era venuto il rumore, con gli occhi fuori dalle or-bite per controllare le ombre su entrambi i lati del vialetto.

Mi fermai poco dopo i Tengiz, mi nascosi dietro una tomba, e ascoltai. Un altro fruscio sulla sinistra del viale. Scattai di corsa verso un punto fra due lotti. Mi sentirono e fuggirono fra

urla spaventate in lingua-graffette. Saltai un muretto basso e atterrai sulla ghiaia di una tomba. Riuscii a di-

stinguere due sagome, un paio di lotti più in là, che scappavano inciam-pando nelle recinzioni e nei muretti. Saltai ancora e caddi su un telo di pla-stica. Sotto c'era un corpo che si lamentava ma non si muoveva.

Sollevai l'ascia, mi liberai scalciando della plastica. Incrociai lo sguardo fisso di uno del gruppo degli incappucciati, aveva il laccio emostatico at-torno al braccio e non muoveva un muscolo. Avevano legato la plastica fra

due tombe in modo da creare un rifugio. Gli piantai la luce della pila negli occhi, le pupille rimasero dilatate. Se stava fissando il suo futuro, non ave-va molto da guardare.

Gli altri erano già spariti. Non potevo fare altro se non tornare da Charlie e augurarmi che fossero troppo fatti per aver visto qualcosa. Ma, dentro di me, sapevo che se fosse stato così non si sarebbero aggirati fra le tombe.

Afferrammo una gamba a testa e mettemmo dentro Hulk. Chiusi il cofa-no. Charlie si tolse la giacca e il maglione e ripulì la carrozzeria dal san-gue.

«Mi aspettava», dissi. «Sapeva che sarei arrivato. E quindi sono pronto a scommettere che anche i due nella casa non erano là per una coincidenza.»

Charlie continuò il lavoro di pulizia mentre io mi guardavo attorno alla ricerca di qualche incappucciato o di psicopatici che si aggiravano con un machete.

«Spero che tu ti sia fatto pagare in anticipo. Il casino è generale, ma pos-siamo usare il documento come protezione. Qualsiasi cosa contenga dev'essere piuttosto importante per qualcuno; non c'è stronzo in giro che non voglia metterci le mani sopra.»

La pulizia durava troppo. «Portiamo via i coglioni da qui e continuiamo quando saremo al sicuro.»

Salimmo in auto. Io dietro il volante. «C'è un problema.» Charlie aveva l'espressione atterrita di uno che ha

appena visto un fantasma. «Cosa?» «Mi hanno dato soltanto la metà.» «Che cosa? Ma dove cazzo avevi la testa?» Charlie alzò una mano. «Fermati, tutti gli altri lavorano, io no. Avevo

due possibilità. Accettare alle loro condizioni o perdere il turno.» Puntai verso la zona in ombra più vicina, la collina dei ripetitori TV.

Non potevo credere che fosse stato tanto stupido. Si pretende sempre di es-sere pagati in anticipo. Non si sa mai con chi si ha a che fare. Arrivati all'ombra degli alberi cominciai a urlare. «Ma non hai pensato che ti pote-vano incastrare? Cosa cazzo hai in quel vecchio cervello di gelatina?»

Charlie non parlò mentre continuavamo a sobbalzare fra le curve della strada sconnessa.

Quando parcheggiai, credo in una tagliafuoco in mezzo ai pini che co-privano la montagna, si voltò e mi affrontò. Era il suo turno di mettersi a urlare. La potenza della sua voce mi perforò i timpani e mi schiaffeggiò in

pieno viso. «Cazzo, sto morendo, te lo ricordi o no? Avevo bisogno di quei soldi. Al mio posto cosa avresti fatto? Avresti girato sui tacchi convinto che Dave il Matto venisse a implorarti? Pensaci.»

Sapevo dal primo momento in cui avevo aperto bocca di avere sbagliato. «Mi dispiace, Charlie. 'Fanculo. Mettiamo lo zaino con gli attrezzi nel bau-le e portiamo via i coglioni. Finché abbiamo il fascicolo, andrà tutto bene, ne sono sicuro.»

«Già», scherzò Charlie. «Se va tutto a puttane, possiamo sempre metter-lo su eBay.»

PARTE SETTIMA

1

Domenica 1 ° maggio 2005

Il terminal era sovraffollato di passeggeri in attesa dei voli internaziona-

li, e ogni singolo volo era in ritardo. Le 10.09 di domenica: era solo questione di tempo prima che l'Audi ve-

nisse scoperta. Perfino in Georgia una macchina con i sedili sporchi di sangue e il finestrino distrutto da colpi d'arma da fuoco non passa inosser-vata.

Il nostro volo per Vienna sarebbe dovuto partire alle 10.30 ma non era-vamo ancora riusciti a fare neppure il check-in. C'era un'unica sala parten-ze, e l'aria era a malapena sufficiente per i passeggeri di un solo aereo.

Avevamo coperto al meglio le nostre tracce, ma mi sentivo a disagio u-gualmente. Occhi Rossi e il suo amico non ci avevano fatto un piacere quando ci avevano tolto la maschera, e non serviva l'ispettore Morse per collegarci all'Audi di Baz e ai cadaveri nel vialetto di casa sua. Che cazzo, volevo soltanto andarmene via. La libertà era talmente vicina che potevo quasi sputarci sopra, ma eravamo ancora dal lato sbagliato della paratia.

Me ne stavo seduto vicino ai gazebo da giardino dall'altro lato della stra-da di fronte al terminal. Se non altro le panchine erano asciutte; il sole a-veva fatto il suo dovere e adesso sbucava a intermittenza dai banchi di nu-vole che si muovevano lenti.

Eravamo in molti a esserci spostati all'esterno per sfuggire alla calca, e i tassisti erano piuttosto incazzati. Non gradivano l'invasione degli stranieri nel loro mondo. Anche i proprietari dei gazebo non erano per niente con-

tenti. Se ne stavano dietro i banchi, tutti con le stesse cose, cioccolata e gomme da masticare, e manifestavano apertamente che il piccolo televiso-re in bianco e nero sul ripiano alle loro spalle era molto più interessante dei potenziali clienti.

Una giornalista, con una gran massa di capelli neri, commentava annoia-ta le notizie su tutti e tre gli schermi. Un'altra giornata priva di notizie. Continuavano a propinarci inquadrature di soldati georgiani che indossa-vano BDU americane, con le insegne di Riccardo Cuor di Leone ovunque, seduti con aria risoluta su pianali di camion, o che correvano con vigore su e giù per le colline.

Avevamo raggiunto l'albergo intorno alle quattro. L'attrezzatura era ri-masta nel baule insieme al cadavere. Dovevamo tornare in città puliti per non correre il rischio che una biancazzurra ci fermasse per sapere che cosa stavamo trasportando a quell'ora del mattino. Il maglione di Charlie era fi-nito insieme alla pistola in un tombino aperto da cui ogni uomo o animale sano di mente si sarebbe tenuto alla larga, poi avevamo recitato la parte di due ubriachi di ritorno da una notte brava, con le giacche rivoltate legate in vita per coprire le macchie peggiori di sangue e fango. Come scoprimmo in seguito, nessuno ci degnò di uno sguardo. Un sabato sera come gli altri a Tbilisi.

Avevo recuperato il passaporto dietro la cassetta dell'acqua, in bagno, avevo liberato l'intestino, fatto la barba e la doccia e poi ero andato in ca-mera di Charlie, con gli abiti sporchi sotto il braccio, per impiegare tempo prezioso a coprire le tracce. Una volta tolto il nastro con la registrazione della CTR dalla cassetta, lo avevo bruciato con l'aiuto dei fiammiferi, o-maggio dell'albergo, quindi avevo buttato le ceneri nel gabinetto e tirato l'acqua. Ai cellulari ripuliti dalle impronte avevo riservato un incontro rav-vicinato con il tacco degli stivali. Sterili eravamo entrati in Georgia e steri-li saremmo usciti.

La registrazione fatta al Marriott restava con noi, aveva troppo valore per perderla di vista. Fra noi e Brisbane c'era un mondo intero di merda, e più cose avevamo per poter trattare meglio era.

Dopo una pantagruelica colazione in camera sufficiente a sfamare un pa-io dei cavalli di Charlie, avevamo gettato i vestiti nei cassoni della lavan-deria dietro l'albergo insieme a quello che restava della camcorder. Il na-stro era al sicuro nei nuovi pantaloni Rohan blu scuro da perfetto uomo del petrolio, e le prime dieci pagine del documento della cassaforte di Baz era-no dentro una rivista nella tasca della mia nuova giacca color kaki. Charlie,

che aspettava all'interno del terminal, aveva le altre dieci. Sarebbe uscito a comprare qualcosa al momento della partenza. Era il segnale, l'avrei segui-to dentro.

Mi dispiaceva per il vecchio babbeo, un tempo era una roccia, era forte e affidabile e adesso era preda di una malattia che gli impediva di tenere in mano un oggetto per più di cinque minuti. Mi era difficile anche soltanto immaginare la sua frustrazione. Proprio come Alì, un giorno campione del mondo e il giorno dopo un relitto. Ma al contrario di Alì, a peggiorare le cose, Charlie aveva il portafogli mezzo vuoto.

Avevo pensato tutta la mattina a quel portafogli. Forse, invece di tenere quel fascicolo come protezione, dovevamo provare a venderlo.

Già sapevo che da Vienna avrei chiamato Dave il Matto per convincerlo a metterci in contatto con l'ideatore di quel lavoro del cazzo, a cui avrei proposto di comprare il documento per il saldo dei duecentomila che toc-cavano a Charlie.

In più ci avrei aggiunto che ero pronto a resistere alla tentazione di farli fuori per aver scordato di avvertirci che ci saremmo dovuti spartire la casa con due ladruncoli di gioielli fuori di testa, e il cimitero con il cugino dell'Incredibile Hulk che roteava un machete. Ci saremmo tenuti i due na-stri con Sfumatura Alta e una copia del documento come ricordo dell'av-ventura in Georgia, in caso in seguito avessero cambiato idea, o fosse ve-nuto loro in mente di pagarci il restante con l'equivalente in mazzate.

Non mi facevo illusioni riguardo a Sfumatura Alta. Era sacrificabile quanto noi e l'avrebbero eliminato con la stessa facilità con cui erano pron-ti a far fuori Charlie. Ma se non altro avevamo qualcosa nascosto nella manica che non avrebbe fatto vedere volentieri alla famiglia riunita la do-menica pomeriggio.

Mi resi conto d'un tratto che non me ne fregava un cazzo dei soldi. Una prima assoluta nella mia vita. Li volevo per Charlie e Hazel e anche perché non mi era mai piaciuto essere raggirato, ma non per altro. L'unica cosa che desideravo da morire era chiamare Silky. Avevo bisogno di sentire la sua voce.

Non mi andava di spiegare alle ragazze che il nostro rientro era rimanda-to di un paio di giorni perché avevamo deciso di passare da Hereford per salutare un vecchio amico, così avevo lasciato parlare Charlie.

2

Quando guardai di nuovo l'orologio erano le 11.05. Ero piegato sopra un espresso così denso da asfaltare la strada, e osservavo un famoso cuoco georgiano che faceva miracoli con una cipolla e due non-so-cosa.

Il ritardo cominciava a preoccuparmi. Trovata l'Audi, con il regalo den-tro il baule, la polizia sarebbe andata a casa di Baz per cercare di capire come mai Babbo Natale fosse passato anche di lì. O forse sarebbe stato il contrario. Ma l'importante non era la sequenza dello svolgimento dell'in-cubo. Se avessero trovato i filmati delle videocamere di sorveglianza, non ci avrebbero messo molto a riunirsi attorno a un monitor per vedere cos'era successo nel cortile.

Avevo lasciato DNA al cimitero? Troppo tardi adesso per pensarci, ep-pure la cosa mi preoccupava lo stesso, ma soltanto un po'.

Adrenalina e caffeina cominciavano a farsi sentire. Mi sembrava quasi di percepire la tensione che mi fluiva nelle vene. L'unico aspetto positivo era che il dolore al pomo d'Adamo stava passando.

Presi un altro sorso di caffè tiepido e mi concentrai per assumere l'aria annoiata che avevano tutti gli altri. Mica facile, con i tagli che avevo sulla lingua gonfia. E facevano anche un male cane. Per un po' avrei fatto a me-no del sale e dell'aceto.

Fino a quel momento erano cinque i voli in ritardo. Avevo sentito parla-re in inglese e americano, ogni tanto in francese e tedesco, ma la maggio-ranza parlava in russo o in graffette.

Una Land Rover 110 dal tetto rigido era parcheggiata all'esterno del terminal, in attesa del passeggero da trasportare o per accertarsi che la per-sona accompagnata salisse sull'aereo. Mi augurai che l'autista si fosse por-tato da bere e da leggere.

Due uomini con la valigia a rimorchio uscirono dal terminal diretti verso i gazebo. Indossavano la divisa internazionale da viaggio dei dirigenti a-mericani di cinquant'anni: giacca blu, camicia con i bottoncini sul colletto, pantaloni di cotone color kaki, mocassini lucidissimi e valigetta per il com-puter. Si capiva che erano di ottimo umore e ansiosi di condividerlo con al-tri. I prescelti del giorno formavano un gruppetto che parlava francese, ma che al loro arrivo virò veloce sull'inglese. «Ottime notizie, amici, il volo per Vienna parte alle 12.25. Bisogna fare subito il check-in.»

Seguirono sospiri di sollievo e battute sull'inefficienza dei georgiani, mentre la folla recuperava le valigie e si dirigeva verso il terminal.

Mi alzai anch'io e vidi Charlie, con la borsa del computer a tracolla, u-scire dall'ingresso principale. Fece un'immediata retromarcia nel momento

in cui mi vide pronto a muovermi. Stavo per seguire gli altri quando mi cadde l'occhio su un televisore.

Trasmettevano l'ultimo notiziario, e quello che vidi mi costrinse a sedermi di nuovo.

L'Audi di Baz riempiva lo schermo. Poi la ripresa si spostò su una chiazza lucida di sangue sui fango, diret-

tamente sotto il baule. Forse mancava qualche tappo di gomma dello scari-co.

Il giornalista blaterò qualcosa e un poliziotto rispose a una serie di do-mande. In basso sullo schermo scorreva una scritta in graffette che doveva essere il riassunto della principale notizia del giorno.

La cinepresa inquadrò l'interno del bagagliaio aperto, dove Hulk stava raggomitolato come un bambino, con lo zaino dietro la schiena. Era enor-me e con la carnagione molto più scura degli abitanti del posto.

Zumò sui fori di entrata. Il personale di un'ambulanza era in attesa che quelli della scientifica finissero di prelevare campioni e impronte.

Sorseggiai distrattamente il caffè ormai gelido: non volevo dare ai pre-senti l'impressione di essere agitato. Erano ancora in molti in attesa dei vo-li, parlavano, fumavano e non degnavano la TV di uno sguardo.

Cercai di calmarmi. Mi dissi: E allora? In pochi minuti avremmo supera-to il check-in. In poco più di un'ora saremmo stati a bordo dell'aereo.

Poi il cuore riprese a martellare impazzito, e non per colpa del caffè. Con un fermo immagine dell'Audi che riempiva metà schermo, il giorna-

lista stava infilando il microfono sotto il naso di tre giovani con giacconi a cappuccio di tutti i colori, all'esterno del cimitero. Due di loro raccontava-no quanto avevano visto. Il terzo era così fuori che non avrebbe mai potuto ricordare che qualcuno gli era saltato addosso. I primi due muovevano le mani attorno ai loro visi strafatti di eroina e pieni di brufoli; cercai di nega-re l'evidenza, ma, a pensarci bene, a che cosa serviva? Stavano descriven-do come ero fatto.

Il collegamento tornò allo studio dove la conduttrice parlò per qualche momento. Ma dopo trasmisero dalia casa bersaglio, auto biancazzurre o-vunque lungo la strada, e un'inquadratura ravvicinata delle videocamere appese al muro.

Subito dopo mandarono in onda le immagini che distrussero la speranza di salire a bordo del volo delle 12.25 per Vienna.

3

Pochi secondi del filmato sfocato e in bianco e nero delle CCTV: il mo-

mento in cui rientravo in casa dopo aver steso Occhi Rossi. Lo fecero passare un'altra volta e bloccarono l'immagine della mia fac-

cia. Era confusa ma avevano rimediato con l'aiuto di un artista. Era la pri-ma volta che qualcuno mi faceva il ritratto e ne avrei fatto volentieri a me-no.

Lo spezzone successivo mostrava noi due, con indosso la maschera, mentre io salivo in macchina e Charlie apriva il cancello. Adesso era uffi-ciale. Ero nella merda. Non importava a chi attribuissero l'assassinio di Baz, a me, a Occhi Rossi oppure a noi tre messi insieme. Avevano un vol-to e lo stavano cercando.

Attraversai la strada a testa bassa e raggiunsi la lunga coda che si era formata al banco del check-in. Individuai Charlie e lo fissai negli occhi. Quando me ne andai lui mi seguì.

Mi diressi ai bagni. Presi posto a un orinatoio e Charlie in quello di fian-co. Le porte dei cubicoli erano tutte aperte. Eravamo soli.

«È già in TV. Tu sei a posto, ma hanno la mia faccia.» Charlie non sembrava preoccupato. «Adesso cosa facciamo?» «Insieme, niente. Tu prendi l'aereo lo stesso. Io non posso rischiare, an-

che se riesco a salire, cosa succede se mi beccano? C'è la televisione lassù. Forse ce la faccio a raggiungere la Turchia via terra.»

Nessuna esitazione da parte sua. «Affitto una macchina. Durante la notte raggiungiamo il confine, molliamo l'auto e continuiamo a piedi. Una caz-zata. Andiamo.»

Si avviò ma gli afferrai un braccio. «Non ho bisogno delle tue mani bal-lerine in giro per il Paese. E poi avranno controllato quello che hai cercato in rete. Di certo hanno esteso le indagini agli autonoleggi e saranno in giro a fare domande prima ancora che tu abbia infilato la chiave nella portiera. Troppo rischioso. Prendi il documento, sali su quel cazzo di aereo, vai da Dave e aspettami lì. Appena arrivo in Turchia ti chiamo e ci vediamo a H. Sono convinto che riusciremo a farti sganciare il resto dei soldi.»

Charlie non mi ascoltava. «Aspetta.» Mi passò la borsa con il computer. «Ficcaci dentro il nastro e i fogli. Se per caso ti beccano avrò qualcosa per tirarti fuori dalla merda. Seguimi.»

Si voltò, lasciò i bagni e si diresse a passo deciso verso l'uscita del terminal, mentre io infilavo tutto nella borsa, come un PA imbranato che segue il suo capo.

Ma perché, almeno una volta, non si limitava a fare quello che dicevo? Lo raggiunsi.

«'Fanculo, Charlie. Tu sali su quell'aereo. Ho un'idea su come farti avere i quattrini e forse anche togliere me dalla merda.»

Niente da fare. Non ascoltava. Teneva lo sguardo fisso alle porte a vetro. «Amico, non abbiamo tempo da perdere. Penseremo ai soldi quando sare-mo fuori di qui. Adesso chiudi il becco e seguimi.»

Uscimmo dall'aeroporto. «Aspetta.» Charlie continuò deciso verso il giovane con la maglietta azzurra seduto al volante della 110. Marciava verso l'auto con l'aria autoritaria di un ufficiale che sa cosa sta facendo. L'autista, un ragazzo bianco con i capelli tagliati a spazzola, lo seguì con lo sguardo finché non raggiunse il finestrino. Una busta di plastica verde era posata sul cruscotto. Era la custodia della scheda di lavoro della 110, il re-gistro delle ore e dei chilometri effettuati e aveva sopra la scritta AUTO DI SERVIZIO.

Charlie picchiettò sul vetro e a gesti gii chiese di abbassarlo. «Autista di servizio? Sei qui per lasciare o per prendere?» Charlie parla-

va come se lo stesse cazziando per qualche mancanza. Di solito i soldati reagiscono meglio a quel tono di voce, perché nove volte su dieci è moti-vato.

«Lasciare.» Charlie esplose. «Per lasciare, signore! Da quale campo vieni, figliolo?»

Si voltò e mi puntò un dito contro. «Resta dove sei. Non mi sembra di a-verti detto di andare da qualche parte. Portami la borsa.»

Scattai. «Sissignore.» «Portala qui, renditi utile. Non so neppure a chi l'ho consegnata, ma cosa

cazzo c'è che non va con questo qui?» Lo raggiunsi e gli consegnai la borsa. Charlie con gesti plateali finse di

cercare dei fogli nella tasca esterna, poi si rivolse all'autista. «A che campo appartieni?»

«Camp Vasiani, signore.» «È l'unico della zona?» «Sissignore.» «Allora è lì che devo andare.» Charlie si girò di scatto verso di me, sempre con tono da ramanzina.

«Perché non mi hanno mandato le istruzioni per il trasferimento?» «Non lo so, signore», dissi. «Ho anche mandato un'email per richiede-

re...»

«Non abbastanza.» Charlie era lanciato alla grande. «E perché nessuno è venuto a prenderci?»

«Io... io non lo so, signore.» «Tu non lo sai, signore? Capisco, è così allora?» Aprì la portiera poste-

riore, c'infilò il computer e mi puntò un dito contro. «Sali!» Compresi. Charlie voleva che mi sedessi davanti perché stavamo per fa-

re un piccolo dirottamento. Guardò torvo l'autista mentre io mi ci sedevo accanto. «Quanto è lontano

il campo?» «Meno di un'ora, signore. Ma devo chiedere l'autorizzazione...» La mano alzata di Charlie gli consigliò di tacere. «Tu guida e basta. Tutti

i voli sono in partenza, non lasci a terra nessuno. Sistemiamo tutto mentre andiamo. Ma si può sapere perché i vostri ufficiali del cazzo non sono ca-paci di organizzare i trasporti?»

Saltò dietro mentre l'autista accendeva la radio, e una piccola luce verde apparve sul cruscotto.

Charlie giocò d'anticipo. «Continua ad andare. Non ho bisogno di parla-re con nessuno, perché a quanto pare nessuno sa che giorno della settimana sia oggi.»

L'autista era piuttosto agitato. Si voltò verso Charlie. «Ma, signore, devo chiamare quando parto e devo avvertire quando arrivo, sono gii ordini.»

Non c'era modo di fermarlo, tutto doveva sembrare normale. Dopotutto era proprio Charlie che continuava a parlare di inefficienza. Non era certo il tipo che avrebbe violato un ordine permanente.

«Allora procedi. Andiamo.» Mise in moto e abbandonammo la zona dell'aeroporto. Charlie mi strizzò

l'occhio mentre aspettavamo che il ragazzo finisse di parlare nel microfono ad astina della cuffia.

«Giusto. Sono in due per il campo. Niente ordine di servizio?» La risposta gli fece scrollare le spalle. Charlie allungò una mano minacciosa. «Passamelo.» Abbaiò nel microfono: «Con chi parlo?» Pausa. «Molto bene, sergente

Jai DiRita, non ho ricevuto i dettagli sul trasferimento e neppure il nome della persona che sono venuto a incontrare da Istanbul!»

Charlie ascoltò DiRita. «Ah, è così? Non avete nessun visitatore in pro-gramma per oggi? Adesso ne avete uno. Sarò da voi fra poco e chiariremo questo casino.»

Passò la cuffia all'autista e guardò dal finestrino. Era furioso.

Io fissavo i casermoni color pappagallo che costeggiavano la strada a due corsie, e speravo di raggiungere presto i campi di fieno dove ci sa-remmo liberati dell'autista per andare diretti verso quel cazzo di confine.

Esaminai il cruscotto. «Hai una cartina?»

4 Proseguimmo sulla strada a due carreggiate diretti verso la città. Ogni

tanto guardavo i condomini multicolori mentre l'autista era concentratissi-mo sulla guida per evitare di incrociare lo sguardo del mostro seduto die-tro.

La cartina che mi aveva allungato era una cosetta molto semplice che ri-portava soltanto le strade principali e le città. Se non altro individuai la zo-na di Vasiani che era a circa trenta chilometri in direzione nord-est dalla città. La strada su cui eravamo ci avrebbe portato a destra, sotto Tbilisi e poi su verso il campo.

«Non hai niente di meglio? A me piace sapere dove sto andando.» Non staccò gli occhi dalla strada. «Temo di no, signore. L'auto di servi-

zio effettua sempre lo stesso tragitto da e per l'aeroporto e quando si è su questa strada non c'è molto da scegliere.»

Svoltò a destra in una strada stretta. Non ci trovavamo più nella terra dei pappagalli. Un paio di chilometri dopo eravamo fra le montagne a serpeg-giare verso il cielo denso di nuvole minacciose che si preparavano a un al-tro acquazzone.

Mentre scendevamo dall'altro lato vidi la luce rossa dei freni di due vei-coli davanti a noi. Rallentavano entrambi. Il nostro autista scalò la marcia. Adesso avanzavamo a passo d'uomo.

Un centinaio di metri più oltre, ai lati della strada, c'erano due postazioni costruite con sacchi di sabbia di plastica verde, separate da giganteschi blocchi di cemento per incanalare il traffico.

Sentii Charlie che si agitava sul sedile dietro di me e compresi che anche lui aveva visto e si poneva le stesse domande che mi facevo io: ci avrebbe-ro chiesto i passaporti o un documento d'identità? E anche se non l'avesse-ro fatto, avevano già letto il giornale o guardato il notiziario?

Si sporse in avanti per un altro cazziatone all'autista. «Perché c'è un VCP? Siamo obbligati a fermarci?»

«Sissignore. Ci sono posti di blocco su tutte le strade che portano in cit-tà.»

Davanti a noi c'era una corriera rugginosa, in equilibrio instabile sotto il peso di mercanzia di ogni genere legata sul tetto; la fila di auto dietro at-tendeva con impazienza che i poliziotti, con il giubbotto antiproiettile e AK, controllassero tutti i viaggiatori.

Charlie mi passò la valigetta con il computer. «Sistema quest'affare, io non riesco a farlo funzionare.»

«Sissignore.» Lo presi e abbassai la testa. Feci un po' di scena, armeg-giai a lungo con il pulsante di accensione e finalmente lo schermo s'illumi-nò.

A quel punto eravamo il terzo veicolo della fila. Un soldato georgiano veniva verso di noi, lato conducente, con l'arma a tracolla. Un drappello di amici suoi era all'ombra del fortino dalla mia parte.

«Posso avere i vostri documenti, signori? Devo consegnarli insieme al cartellino del tragitto.»

«Non ci posso credere», ringhiò Charlie. «Siamo qui per aiutare queste persone, e loro cosa fanno? Ci ostacolano in ogni modo. Abbiamo forse l'aspetto di militanti del cazzo?»

Il soldato raggiunse l'auto che ci precedeva. Si abbassò per parlare al conducente che aveva già i documenti pronti. Chiacchierarono un po', il soldato indicò il cielo e scrollò le spalle, forse si lamentavano del tempo. Arretrò di un passo e fece cenno all'auto di passare, quindi si avvicinò len-tamente a noi.

Mi piegai ancora di più in avanti, totalmente preso dal problema del computer.

«Signore, ho bisogno...» «'Fanculo.» Charlie scese dall'auto, rigido come un bastone. Portamento

eretto. «Tu!» Sporse la mascella verso il georgiano. «Dritta quella schiena!» Ci sono ordini che vengono capiti da ogni militare in qualsiasi lingua. Il

soldato semplice scattò sull'attenti. «Perché ci trattenete? Pensate forse che abbiamo tutto il giorno da perde-

re?» Charlie ci stava andando giù duro. Lo guardò dall'alto in basso, come per l'ispezione. Il ragazzo era tornato sulla piazza d'armi.

«La prego, signore, non la può capire.» L'autista era mezzo fuori dalla cabina. «La prego, mi lasci...» Cercava di placare la rabbia dell'ufficiale incazzato e al contempo scambiava occhiate complici con il suo pari gra-do.

Charlie colpì leggermente l'aletta aperta della tasca per la cartina sui

pantaloni da combattimento del georgiano. «E questo cos'è? Organizzati! I bottoni esistono per uno scopo preciso, non sono decorazioni. Datti una si-stemata, soldato!»

Trattenni il fiato mentre Charlie risaliva a bordo, pensavo che avesse e-sagerato nella parodia di Fanteria dello spazio.

La recluta esitò per un momento, foschi pensieri rabbuiarono la fronte slava. Allungò una mano e armeggiò con i pantaloni. Gli altri ragazzi di guardia si tenevano ben lontani dalla faccenda.

«Bene, andiamo, adesso.» Il conducente prese la cartellina dal cruscotto. Io mi dedicai interamente

allo schermo. Abbassò il finestrino e passò le carte mentre Charlie mi piantava un dito

sulla spalla e mi riservava lo stesso rude trattamento. Annuii ossequioso e pestai ancora sulla tastiera, poi alzai gli occhi al cie-

lo in cerca di salvezza. Il georgiano aprì in fretta la cartellina e controllò il contenuto.

Charlie era incandescente. «Andiamo! Sbrigatevi!» Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di subire un nuovo trattamento

che il Signor Rabbia era pronto a replicare. Scribacchiò la firma sul foglio di lavoro e allungò il suo portablocco all'autista perché firmasse a sua vol-ta, facendoci cenno di passare.

Superammo la chicane in cemento e raggiungemmo la corriera. L'autista sembrava preoccupato delle mie prestazioni con il computer, non potevo certo dargli torto, soprattutto adesso che l'avevo chiuso e passato di nuovo a Charlie.

«Penso che sia tutto a posto, signore.» Scambiai un'occhiata eloquente con l'autista mentre roteavo gli occhi. Ufficiali, eh?

L'autista parlò alla radio. «Qui veicolo di servizio. Posto di blocco Alpha superato. Passo.»

«Roger, veicolo di servizio. Posto di blocco Alpha. Chiudo.» Charlie era furioso. Il calore della sua rabbia mi alitava caldo sulla nuca

e sapevo che anche il ragazzo lo avvertiva. Abbozzai una conversazione. «Dev'essere una bella menata per te...

quante te ne capitano di queste cose?» «È stata l'unica, signore.» Percepii sollievo nella sua voce. Desiderava

soltanto non fornire a Charlie il pretesto per fare il bis. Giungemmo in una valle immensa, solcata da una rete di fiumi e ruscel-

li, come minimo dieci chilometri di terreno ondulato tra una montagna e

l'altra. In quel punto il territorio era vasto e boschivo come la Svizzera. Senza le mucche, però.

Anche se avevamo superato i confini di Tbilisi, non sarebbe stato facile impossessarsi del veicolo.

Non c'era il traffico caotico che avevamo incontrato in città, ma un co-stante passaggio di convogli militari carichi di soldati georgiani annoiati, che dondolavano la testa da una parte all'altra, e corriere strapiene di gente, con sacchi di patate e bagagli di ogni genere legati sul tetto, che avanzava-no a scossoni fra una città e l'altra. Rallentavano soltanto per riuscire a passare quando si incrociavano sulla stretta striscia di asfalto malconcio.

Superammo un ennesimo flusso di veicoli, diretto in senso contrario, e ci ritrovammo in un avvallamento lungo circa duecento metri. Eravamo al coperto. Un posto vale l'altro.

Sollevai una mano. «Ho bisogno di fare un po' d'acqua.» L'autista rallentò all'istante e si fermò nell'erba sul ciglio della strada. Scesi e passai sul davanti dell'auto in modo da portarmi dal lato di guida

prima di allontanarmi per le mie faccende. Anche Charlie uscì per sgran-chirsi le gambe. Passeggiò fin davanti al radiatore dove finse di vedere qualcosa. Indicò un punto sotto il cofano e poi guardò l'autista. «Questo cosa sarebbe? Soldato, vieni qui!»

Il ragazzo obbedì all'ordine e raggiunse Charlie davanti al veicolo. Io mi voltai e mi tenni un paio di passi dietro i due.

Charlie continuava a sbraitare. «Chi è il responsabile? Guarda in che sta-to è.»

L'autista guardò senza riuscire a vedere niente di storto. «Signore, io non...»

Gli afferrai il viso all'altezza della bocca e gli saltai in groppa. Tirai la testa contro il mio torace, allacciai le gambe ai suoi fianchi e cademmo all'indietro.

5

Atterrai sull'erba con il suo corpo addosso e intrecciai le gambe nelle su-

e. Per un paio di secondi non reagì, poi cominciò a scalciare e agitare le braccia.

«È tutto a posto, amico, tutto a posto», disse Charlie. Io aumentai la stretta e irrigidii corpo e gambe. «Non ti faremo del male. Calmati. Avanti, contegno...» Charlie si chinò

con un dito sollevato come se rimproverasse un bambino. «Tranquillo, non vogliamo farti del male Davvero.»

Come tutta risposta il ragazzo si agitò e si dimenò con maggior vigore, così lo immobilizzai del tutto.

Charlie gli frugò nelle tasche e gettò il contenuto sull'erba. Sapevo che cercava il cellulare. Se ne avesse avuto uno, lo avremmo buttato lungo la strada. A niente sarebbe servito avvertire Dave il Matto che aveva una montagna di casini da risolvere, e non aveva senso portarlo con noi in caso fosse monitorato.

Fece un passo indietro. «Niente, non ce l'ha.» Il soldato respirava più tranquillo. Charlie gli puntò di nuovo un dito contro, ma questa volta il tono di voce

era quasi di scusa. «Ascolta, figliolo, adesso noi ci prendiamo la macchina e ti lasciamo qui. So che la cosa non ti rende felice ma devi fartene una ra-gione. Se ti metti a fare cazzate allora saremo costretti a picchiarti un po' e a portarti con noi. Se ti comporti bene, invece, ti lasciamo in pace. Non è un concetto difficile da capire, vero?»

Annuì meglio che poteva, visto che gli tenevo la testa schiacciata contro la mia spalla.

«Adesso ti lascerò andare», dissi. «Tu devi soltanto rotolare via e met-terti a camminare. Questo è quanto, non devi fare altro, hai capito?»

Si calmò e abbozzò una specie di assenso. «Adesso.» Allentai la stretta, liberai le gambe e lui si comportò come richiesto. Charlie lo seguì con lo sguardo mentre io mi rialzavo e raggiungevo il

posto di guida. «Molto bene, figliolo, continua a camminare. Bravo.» Charlie salì dietro e io accesi la radio. Se qualcuno parlava di noi, volevo

sentirlo. Carburante ne avevamo. Il serbatoio era pieno a tre quarti. Me l'aspetta-

vo, i mezzi di servizio fanno il pieno dopo ogni trasporto per essere pronti al successivo.

Girai la testa. Charlie teneva il computer sulle ginocchia. «Sulla strada o per i campi?» Gli gettai la cartina.

«Non c'è un cazzo di niente, qui.» La studiò ancora un po' e scosse la te-sta. «A quanto pare dobbiamo continuare su questa, a meno che non ne in-crociamo un'altra che si sono dimenticati di inserire.»

«Ci porta direttamente attraverso Vasiani...» Charlie la esaminò ancora con attenzione. «Forse sì, forse no. Ma se an-

diamo oltre, aggiriamo la città e ci dirigiamo verso sud.» Guardò a sinistra e poi dietro. «Oppure torniamo indietro attraverso i

campi, aggiriamo il VCP, poi di nuovo sulla strada e verso sud. Non pos-siamo attraversare la città. Sarebbe troppo facile per loro individuarci su questa cazzo di strada appena l'autista avrà dato l'allarme. Fermerà la pri-ma auto che passa.»

Fece una pausa. «Che ne pensi, ci proviamo?» Continuammo per altri cinque minuti per essere sicuri di distanziare l'au-

tista, poi inserii le quattro ruote motrici e uscii di strada prendendo a sini-stra. Raggiunto il punto in cui la strada non era più in vista, sarei tornato indietro e avrei superato il posto di blocco avanzando in parallelo.

La 110 traballava e scivolava sul terreno morbido. Le giornate di pioggia intensa avevano saturato e reso fradicio il suolo. Non era l'ideale e non a-vevamo tempo da perdere, un paio d'ore al massimo, l'autista non ci avreb-be messo di più a tornare al VCP per dare l'allarme. A quel punto si sareb-be scatenata la caccia alla 110, ma non è che avessimo grandi alternative.

Se ci fossimo impantanati avremmo dovuto estrarre quel fottuto affare dal fango. Per fortuna non eravamo sul punto più ripido. Forti piogge più terreno in pendenza più superficie priva di compattezza sono la ricetta per-fetta per le frane.

Scendemmo fino in piano e girammo a sinistra, ma non ci fu niente da celebrare. Se possibile, le condizioni erano anche peggiori. Il fango vi-schioso risucchiò le ruote quasi fino agli assi. Guardai il Baby-G e poi il cruscotto. In mezz'ora abbondante avevamo percorso soltanto un paio di chilometri.

Mi rivolsi a Charlie. «Non può funzionare, amico, di questo passo non saremo neppure al VCP quando lui darà l'allarme. Se ha trovato un pas-saggio potrebbe esserci già arrivato.»

«La faccenda non cambia. Se prendiamo la strada ci beccano subito.» Afferrai la cartina e tracciai il percorso che aggirava la città a nord e do-

ve forse potevamo pure trovare una strada verso ovest per raggiungere la Turchia. Cercai anche delle stazioni di servizio, ma non erano segnate.

«Sempre meglio che restare bloccati qui. Se non altro riusciremo ad al-lontanarci. È questo che conta. Che ne dici, limitiamo le perdite?»

6

Poco prima di raggiungere la vetta della collina mi fermai e Charlie saltò

giù. Si arrampicò per vedere cosa avremmo trovato dall'altra parte, e gli ul-

timi metri li fece carponi. Non volevamo correre il rischio di arrivare in cima per poi scoprire che i nostri amici del fortino di sabbia erano lì ad a-spettarci.

Mi fece cenno di avanzare e quando lo raggiunsi salì dietro. Si sporse fra i sedili. «La strada è a duecento metri dall'altro lato della collina. Col caz-zo che abbiamo superato il VCP.»

Continuai piano fino in cima. «Sia come sia, lo scopriamo fra un attimo. 'Fanculo a loro.»

Viene il momento in cui non si può fare altro che accettare di non avere più molto da scegliere: l'unica è continuare.

Raggiunta la strada, m'inserii da sinistra e scalai la 110 a due ruote mo-trici, per risparmiare carburante.

Passato meno di un minuto scorgemmo davanti a noi l'autista. Ci vide e cominciò ad agitarsi per fermarci.

Charlie rise. «Scommetto che cambierà idea quando vedrà che siamo noi.»

Aveva ragione. Ci vide, sgranò gli occhi e fuggì fra gli alberi a gambe levate.

Un quarto d'ora dopo un camion che proveniva in senso opposto ci co-strinse a rallentare. Era stracarico di rape, e un paio rimbalzarono sul cofa-no della 110 mentre sterzavamo per non scontrarci.

Raggiungemmo la vetta della collina opposta e la valle si aprì al nostro sguardo. L'accampamento era lontano circa un chilometro dalla strada, lungo un sentiero di ghiaia bianca posata di recente.

Sembrava una piccola città. Un complesso chiuso da catene con file su file regolari di tende verdi da venti posti. Sulla destra, un labirinto di co-struzioni tipo Portakabin con dischi satellitari sul tetto, disposte a schiera o unite da viottoli in cemento.

Quattro o cinque Huey erano perfettamente parcheggiati attorno a una piazzola di decollo.

La strada principale continuava per circa tre chilometri dopo l'incrocio verso un altro campo più in alto.

Charlie si affacciò fra i sedili. «Porca puttana, è un esercito al comple-to!»

Non aveva torto. «Hai qualche idea?» Scosse la testa. «Possiamo soltanto proseguire. Non abbiamo scelta. E

poi siamo su un mezzo della ditta o sbaglio? Forse, se l'autista non è anco-ra arrivato al VCP, ci salutano e basta.»

Schiacciai a tavoletta e superammo in velocità la deviazione per il primo campo che risultò essere una massicciata. Proseguiva per un chilometro fi-no a raggiungere il cancello principale dove gigantesche bandiere della Georgia e degli Stati Uniti sventolavano l'una accanto all'altra.

I campi lungo la strada erano in piena attività. La Partecipazione al pro-gramma di pace funzionava alla grande. Istruttori americani in maglietta verde e pantaloni mimetici BDU del corpo dei marine mettevano alla pro-va le truppe dei georgiani. Davano l'impressione di divertirsi un mondo a far sputare l'anima ai ragazzi sorridenti dello spot televisivo, mentre i for-zati di fanteria erano costretti a schierarsi in pattuglie a forma di freccia.

Nessuno ci guardò due volte. Fin qui tutto bene. Dopo l'incrocio, il fondo della strada peggiorò e la 110 cominciò a sob-

balzare e sferragliare. Mantenni il piede a tavoletta mentre avanzavamo verso il secondo campo più in alto.

Scalai in terza per affrontare la salita e la 110 divorò la strada. Provai una punta di ottimismo. «Veicolo di servizio, veicolo di servizio. Siete voi sulla salita? Serve

rapporto. Passo.» Guardai la radio e poi Charlie. Lui si strinse nelle spalle. Qualcuno che

non aveva di meglio da fare ci stava osservando con il binocolo. E allora? Infilai la seconda per superare veloce il successivo campo in cima alla

collina, in caso ricevessero istruzioni di bloccarci. «Veicolo di servizio, non procedete oltre. Ripeto, non procedete. Tornate

alla vostra base. Passo.» Chissà, forse avevano bisogno dell'auto per anda-re a ritirare i panini del capo.

Li ignorammo. L'acceleratore era contro il pavimento. Il motore gemeva per lo sforzo mentre salivamo la collina.

«Non superate la linea di demarcazione. Superare la linea è contrario a-gli ordini. Ripeto, tornate alla base. Passo.»

«Linea di demarcazione?» Charlie aveva la testa accanto alla mia. Anche lui guardava verso la collina. «Crisi di rapporti fra soci?»

«Qualcosa del genere.» Indicai le bandiere che sventolavano ai cancelli del campo che era adesso a centocinquanta metri davanti a noi sulla sini-stra. Non erano la Stelle e Strisce e le Croci di Riccardo Cuor di Leone ma le righe orizzontali bianche, azzurre e rosse della Federazione Russa.

La testa di Charlie era all'altezza della mia spalla destra. «'Fanculo, an-diamo avanti e giochiamoci il tutto per tutto. Tanto non possiamo fare al-tro.»

Avevamo raggiunto l'inizio della recinzione del campo. Uomini in uni-forme sciamavano in disordine tra file sterminate di tende e veicoli. Proba-bile che avessero ricevuto l'ordine di stare all'erta.

Al cancello principale il casino era ancora più frenetico. Rallentai quan-do soldati armati si riversarono in strada. Stavano per preparare un blocco stradale?

La radio ci parlò ancora. «Veicolo di servizio, fate rapporto. Passo.» Tenevo gli occhi fissi sulle uniformi in strada. Era chiaro che si erano

vestiti in fretta; alcuni avevano giacche da combattimento non abbottonate, altri non avevano l'elmetto. Ma tutti avevano l'AK. Ne metti sotto uno e cominciano a sparare alla grande.

«Io non mi fermo. Continuo ad andare, ma piano, molto piano. Ci stai?» Guardai Charlie nello specchietto retrovisore. Mi strizzò l'occhio. «Tu chi vuoi essere, Butch o Sundance?»

7 La lancetta del tachimetro oscillava intorno ai trenta. Stavamo passando

davanti al cancello principale e in strada sembrava che nessuno sapesse co-sa fare. Tutti muovevano la bocca per il corrispondente russo di «Ma che cazzo ci fa qui una 110 inglese?» Grazie al cielo avevano ancora gli AK a tracolla e non contro la spalla in posizione di tiro.

Charlie cominciò a salutare. «Come va, ragazzi?» Lo fissarono e poi i più giovani sorrisero e risposero al saluto. Gli NCO

urlavano rabbiosi nel tentativo di organizzarsi. Avanzavamo con il motore al minimo, il principe Charlie continuava a

concedersi al popolo. E ancora nessuno ci fermava. «Veicolo di servizio, tornate indietro, fate inversione. Non fermatevi;

non fate nessuna azione che possa essere considerata aggressiva. Se vi cat-turano, ubbidite agli ordini», tuonò la radio.

«Chiudi il becco, stronzo», disse Charlie con un gran sorriso verso i nuovi sudditi.

Spensi la radio. Alcuni momenti dopo eravamo fuori dalla confusione. Ero pronto per gli

spari, che però non arrivarono. Neppure uno. Scendevamo piano verso la

valle ed eravamo già fuori vista per il campo americano. La recinzione era finita. Charlie si voltò a guardare indietro. «Non ci seguono. Continuiamo. Affonda quel piede, ragazzo.»

Nessuna obiezione su questo. Per circa trenta minuti non incrociammo nessuna strada, nessuna devia-

zione, nessun VCP, soltanto prati ondeggianti davanti a noi, un bosco a si-nistra e una valle a destra.

Il motore girava a tutto gas, e in alcuni tratti dove la superficie della strada lo permetteva andavamo a oltre novanta chilometri all'ora.

Ormai l'autista aveva certamente raggiunto il VCP. E allora? Eravamo lontani dalla zona. Probabile che un VCP di benvenuto a Tbilisi fosse in agguato lungo la strada pronto a fermarci con ogni mezzo, ma di quello ci saremmo preoccupati al momento opportuno. Adesso mi sentivo piuttosto fiero di me.

Poi però sentii un rumore che conoscevo fin troppo bene, e mi crollò il cuore.

Guardai Charlie, e la faccia che aveva mi disse che ero nel giusto. Abbassò il finestrino. Il rumore si fece più forte. Impossibile sbagliare. Era il battito regolare di grosse pale di rotori che fendevano l'aria. Avevano un oleodotto da difendere, e ovviamente avevano una QRF

sempre pronta, solo che avrei preferito che non avessero preso alla lettera la parola «veloce».

Charlie saltellava da una parte all'altra sul sedile dietro cercando di indi-viduarne con esattezza la provenienza. Io mi sporsi sopra il volante e scru-tai il cielo. Ancora niente in vista.

Il battito regolare era ormai vicinissimo, e lo Huey ci apparve di colpo dalla valle alla nostra destra a non più di un paio di metri di distanza.

La 110 rimase praticamente immobile durante quei due secondi in cui l'elicottero ci sovrastava. Riuscivo a vedere piuttosto bene il pilota. I por-telli laterali erano aperti e l'abitacolo pullulava di uomini in BDU verde scuro e due o tre in tenuta mimetica dei marine americani.

Gesticolavano agitati, le armi puntate, e ci facevano segno di fermarci. Col cazzo. Prima dovevano atterrarmi addosso. Non sollevai il piede. Lo Huey scintillò via e sparì dietro la collina di fronte. Pochi momenti

dopo, dal basso ci giunse il rumore di altri rotori che fendevano l'aria. «Ecco che arriva. Cazzo com'è basso!» disse Charlie di traverso sul sedi-

le. Huey Due ci passò sopra, a distanza di pochi metri, seguendo la strada.

Vidi bene le suole degli stivali da combattimento posate sui pattini e le bocche di fuoco degli AK che spuntavano dai portelli aperti.

La 110 ondeggiò paurosamente. Forse avevano davvero l'intenzione di atterrare sul tetto.

Charlie scrutava il cielo. «Ma dove è finito il primo?» «Lo sa il cazzo. Però direi che questo abbia un debole per noi. Guarda.» Era andato avanti duecento metri, aveva fatto inversione e ora era punta-

to verso di noi; i pattini rimbalzarono sull'asfalto e i militari saltarono a terra tra i fumi dei gas di scarico.

A destra, in avvicinamento, sentii il rumore sordo di altri rotori. Huey Uno ci superò e andò a prendere posizione dietro alla 110. Altri militari sa-rebbero scesi per non lasciarci via d'uscita.

'Fanculo. Sterzai bruscamente a sinistra in direzione degli alberi sul ter-reno sconnesso. Nel bosco non sarebbero mai riusciti a prenderci, erano troppo pochi.

Huey Uno invertì la marcia e rimase fermo in aria a pochi metri da noi, come un falco che punta un topo di campagna. Un soldato in mimetica si sporse fuori, piedi sui pattini, tenendosi con una mano al montante della porta. Mi fissò minaccioso, si passò l'indice della mano libera di taglio sul-la gola mentre scuoteva lentamente la testa.

«Che si fotta, non fermarti. Ci siamo quasi.» Mancavano trecento metri. La 110 scrollava, sobbalzava, ci sballottava

da una parte all'altra mentre procedeva fuori strada, ma continuava a salire. L'elicottero ci superò e atterrò. Ne scesero altri militari che si disposero

a ventaglio in postazione di tiro fra noi e gli alberi. Sterzai in diagonale a destra. La salvezza era a soli duecento metri. Huey Due aveva recuperato altri uomini e aveva ripreso il suo posto nel

gioco procedendo verso di noi da destra. «Decisamente molto basso...» Charlie mi faceva la radiocronaca in diretta mentre io ero concentrato

sulla guida. Procedevo sempre a due ruote motrici, ma non era il caso di rallentare per passare a quattro.

«Hanno i triboli!» Mantenni il piede a tavoletta, aggrappato al volante come per incitare la

110 a raggiungere il riparo offerto dagli alberi. Per un attimo la parte po-steriore del veicolo si staccò da terra e le ruote ronzarono impazzite come

eliche fuor d'acqua. Dovevamo battere i triboli sul tempo. Huey Due si trovava esattamente sopra di noi. La deflessione faceva o-

scillare violentemente il furgone. Si spostò un poco più avanti. Un uomo con la mimetica era appollaiato sui pattini, la striscia chiodata lunga dieci metri che teneva in mano ci dondolava davanti.

Sterzai di nuovo a destra, in parallelo con gli alberi. Mancavano solo cento metri.

Charlie prese dalla borsa del computer il nastro e il documento. Era pronto alla fuga. «Anche l'altro elicottero ha ripreso il volo, sarà qui a se-condi. Schiaccia quel cazzo di pedale.»

I triboli erano a pochi metri, dondolavano da sinistra a destra. «Attento... attento... ci hanno beccati!» I triboli toccarono terra, impossibile evitarli. In una frazione di secondo

gli pneumatici erano fottuti.

8 Per alcuni lunghi istanti il volante mi vibrò fra le mani e poi il furgone si

fermò. Sgonfiati gli pneumatici, i cerchioni erano sprofondati nel fango. Ci erano addosso tutti e due. I militari saltarono giù a pochi metri di di-

stanza, le armi in pugno. Di certo erano su di giri, alcuni sembravano ner-vosi, altri semplicemente pronti ad aggiungere una tacca al loro elenco di morti.

Sollevai le mani molto lentamente, con un gesto ampio, e le posai sul cruscotto bene in vista.

Un nero in mimetica con due strisce sul colletto si piantò davanti al vei-colo e urlò per superare il rombo dell'elicottero.

«Fuori, fuori subito tutti e due.» Non era il caso di star lì a cazzeggiare. Sbarbatelli georgiani ci accerchiarono e ci spinsero a terra a calci. Ci

frugarono. Rivoltarono le tasche e tagliarono a brandelli le giacche. Uno degli Huey si alzò in volo e si posizionò sopra la 110 mentre io ve-

nivo girato sulla schiena per essere perquisito ancora un po'. Dalla pancia scese un verricello per cavi alla cui estremità pendevano larghe strisce di nylon.

La deflessione era satura di puzza di carburante. Avevo la faccia umida della rugiada del prato e sporca di terra e di grasso.

Grazie ai triboli la 110 non sarebbe andata da nessuna parte senza aiuto,

anche se i BDU fossero stati pronti a rischiare un altro incidente interna-zionale con i russi. Gli sbarbatelli georgiani erano dappertutto come un ec-zema e fissavano le cinghie dell'imbracatura, dopo essersi fatti il mazzo con un'altra giornata di lezione in aula.

Avevamo gli AK puntati addosso. Il nero mi guardò torvo e mi perquisì un'altra volta, per nulla disturbato dal flusso dei rotori.

«L'autista sta bene. L'abbiamo lasciato a pochi chilometri dal campo. Sta bene.» Respirai a fondo per riuscire a farmi sentire nonostante il rumore degli elicotteri. «Non l'abbiamo toccato, sta bene!»

Si tende a essere più cattivi se si è convinti che uno dei nostri sia stato ferito.

Mi afferrarono le mani. Le manette erano del tipo a distanziatore di me-tallo rigido, e non a catena. Impossibile piegare i polsi. Le chiusero molto strette, ma non mi lamentai. Fissai il terreno, strinsi i denti e irrigidii i mu-scoli pronto a incassare nuovi calci.

Il capitano afferrò il distanziatore e lo strattonò. Ero in suo potere. Supe-rò con un salto i triboli e si slanciò di corsa verso il secondo Huey. Feci del mio meglio per seguirlo perché qualsiasi altra cosa sarebbe stata troppo dolorosa.

Mi voltai e vidi Charlie che trottava per tenere il passo con la sua scorta. Il capitano salì per primo. Mi sollevò e mi spinse con forza su un sedile

di rete di nylon rossa, al centro della cabina di fronte ai portelli. L'uomo di Charlie eseguì gli stessi gesti ma dall'altro lato.

Quando i georgiani salirono a bordo, l'elicottero si staccò da terra. Vidi bene l'altro Huey fermo sopra la 110. L'operazione di imbracatura era qua-si terminata ed erano pronti a partire.

I militari che aveva trasportato sarebbero rimasti a terra; immaginai che, dopo aver scaricato noi, sarebbero tornati a riprenderli.

Superammo la strada principale. Dai finestrini di una corriera arrugginita stipata di valigie, sacchetti, gabbie di galline e ogni possibile oggetto fissa-to sul tetto, volti eccitati di indigeni seguivano la scena. Li fissai e pensai che per un bel po' non avrei visto persone sorridenti.

Sorvolammo l'autobus, tenendoci alla larga dal campo dei russi sulla si-nistra. Il capitano aveva indossato le cuffie e parlava in fretta nel microfo-no ad astina. Sapevo che l'argomento di conversazione eravamo noi, ben-ché fosse impossibile sentire a causa del rumore del motore e delle raffiche di vento.

All'interno dello Huey, nulla era stato modificato da quando era uscito

dalla fabbrica del signor Bell negli anni '80. Le pareti avevano lo stesso ri-vestimento imbottito color argento, e la pittura granulosa antiscivolo del pavimento era consumata prima che quelle reclute imparassero a usare le pistole ad acqua.

Avanzavamo radenti lungo il fianco della valle per non essere troppo in vista rispetto ai russi, che di certo ci stavano osservando, riportando via ra-dio a Mosca quello che accadeva.

Volavamo bassi e veloci, e gli animali e gli alberi scorrevano via in una confusione indistinta.

Ondeggiavamo da sinistra a destra per seguire la conformazione della collina. In una particolare sbandata, il vento entrò con tale violenza nella cabina che strinsi con forza il sedile fra le gambe per non rischiare di esse-re scaraventato fra gli alberi.

Riprendemmo quota, superammo il declivio e il campo Vasiani si allar-gò di fronte a noi.

L'addestramento era in piena esecuzione, ma ormai sapevo che era tutta una finta. La Partecipazione al programma di pace, quella vera, si stava svolgendo a bordo dello Huey. I marine americani, come il ragazzo che mi sedeva a fianco, avevano il comando, i georgiani si occupavano delle puli-zie e sorridevano per le cineprese.

Restammo sospesi sopra la piazzola di atterraggio e poi scendemmo. La deflessione e i gas di scarico mi colpirono in pieno viso. Non appena i pattini toccarono terra ci trascinarono fuori in direzione di

una 110 in attesa. Un po' più lontano l'altro Huey apparve oltre il crinale, con la Land Ro-

ver che dondolava appesa alla pancia. Attorno a me regnava la più completa confusione. I georgiani ci spinsero

nel retro della 110. Uno si mise al volante, in quattro inforcarono altrettan-te moto verde pallido per farci da scorta. Il marine che aveva il comando indossava il giubbotto antiproiettile, l'elmetto e la mantella, e aveva un M16 di traverso sulla schiena. La barra sul colletto e sull'elmetto diceva che era un tenente.

Attraversammo fra scossoni e sobbalzi tutto il perimetro del campo fino a raggiungere il raggruppamento di prefabbricati Portakabin. Era inutile perdere tempo a fare dei piani. Non avevo alcun potere sugli eventi, l'unica era prendere le cose come venivano. E accettare di essere nella merda, bel-la spessa anche: se ancora non lo sapevano, avrebbero scoperto presto di aver messo le mani su due star della televisione e della carta stampata. E a

quel punto, ogni momento che passava prima che mi sbattessero in una cella georgiana con i pollici stritolati era da considerare un gran vantaggio.

Giungemmo a uno slargo di cemento su cui si affacciavano numerosi Portakabin in alluminio. La 110 frenò e i quattro in moto si arrestarono at-torno a noi.

Il tenente scese e urlò ordini a raffica. A destra c'erano tre marine sull'attenti, indossavano il giubbotto antipro-

iettile e l'elmetto in Kevlar, l'arma in posizione di tiro contro la spalla. Il messaggio era chiaro. «Mani in alto! Mostrate le mani! Ben alte per aria!»

Vidi che sui tetti dei moduli c'erano i condizionatori. Bene, avevo la sen-sazione che mi avrebbero fatto comodo.

PARTE OTTAVA

1

Quello con la barra si mise a urlare ordini sulla soglia di un Portakabin e

i marine avanzarono. Noi eseguimmo ogni cosa che ci veniva richiesta; avevamo entrambi il muso di un'arma sulla faccia.

Attendevamo istruzioni; il trucco è quello: non mostrare segni di paura o qualsiasi altra emozione che possa farli incazzare. Restare neutri, ubbidire agli ordini, attendere che gli ordini vengano impartiti.

«Tu! Tu con i capelli castani», urlò il marine più vicino a me. «Scendi dall'auto, piano, molto piano. Il vecchio resti dov'è.»

Soffocai un ghigno. Quell'espressione a Charlie non sarebbe piaciuta neppure un po'.

Altri marine uscirono dalle baracche e si riversarono nella piazza; indos-savano giubbotti antiproiettile ed elmetti in Kevlar, ma non erano armati. Avevo la sensazione che presto avremmo incontrato il comitato d'acco-glienza.

Scesi lentamente, prestando la massima attenzione a tenere le mani sem-pre in vista e a non compiere movimenti bruschi.

Il tipo che mi teneva sotto tiro aggirò il veicolo e si fermò a un paio di metri di distanza, mirando al centro del mio torace. Era piegato sul fucile, con il calcio fermo contro la spalla, puntando piuttosto in basso per non correre il rischio di colpire qualcuno che passava in caso fosse stato co-stretto a sparare.

Adesso gli ordini urlati erano rivolti a Charlie. Non lo vedevo ma sentii

che scendeva dal furgone. Non mi sarei voltato finché quello con il semi-automatico non mi avesse ordinato di farlo.

Due o tre curiosi si affacciarono dalle finestre nel punto più lontano del-la piazza. Molti altri uscirono e si disposero a semicerchio attorno a noi.

«Cosa succede? Hanno rubato la 110? Allora sono russi.» «No, trafficanti di droga.» «Sbagli, sono terroristi. Militanti del cazzo.» Era chiaro che era gente abituata a passare più tempo davanti alle repli-

che di Fantasy Island piuttosto che a guardare i notiziari, ma sapevo che era questione di poco prima che scoprissero il collegamento con Baz.

La mia scorta afferrò il distanziatore delle manette e mi tirò in avanti le mani. Un paio di suoi compagni mi perquisirono in modo rude. Non sem-bravano affatto contenti che avessimo rubato un loro mezzo.

Mi afferrarono in due sotto le braccia, mi sollevarono e trascinarono sul suolo duro e su per due gradini di legno, in un lungo corridoio privo di fi-nestre. Il linoleum grigio che copriva il pavimento saliva sulle pareti per venti centimetri tipo battiscopa. I muri bianco lucido riflettevano luce al neon.

Il primo marine ci aprì un varco fra i curiosi. «Va tutto bene, ragazzi, lo spettacolo è terminato. Tornate nei vostri uffici. La situazione è sotto con-trollo. Avanti, gente, lasciateci passare.»

Raggiungemmo un paio di porte doppie senza vetro, molto rovinate in basso, nel punto in cui venivano aperte con l'aiuto degli stivali.

Ne superammo tre o quattro prima di fermarci sulla soglia di una stanza spoglia in cui si trovavano soltanto un tavolo e una sedia di alluminio.

Charlie non era più dietro di me e la cosa non mi piaceva per niente. Uno dei ragazzi mi spintonò all'interno. L'accoppiata linoleum e pareti bianche era molto in voga da quelle parti. Mi girarono e mi fecero sedere. Poi, senza dire una parola, uno afferrò il

distanziatore e mi posizionò le mani ammanettate dietro la testa. Il peso delle braccia conficcava il metallo nella nuca. Cercai di ingobbirmi in mo-do da alleggerire la pressione ai polsi.

Mi afferrarono per i capelli per tirarmi su. «Stai dritto, stronzo.» Nella stanza con me c'erano quattro uomini e una donna. Erano tutti in

uniforme, con auricolare e pistola nella fondina in nylon nero legata alla gamba. Uno non mollava il distanziatore e avevo le nocche delle sue dita conficcate nel collo.

Mi trivellavano con lo sguardo.

La donna mi si piantò davanti. «Spogliati.» Se pensava di mettermi in imbarazzo era in ritardo di una vita intera. Ero

già stato costretto a mangiare i miei escrementi, prima d'ora, ed ero pronto a rifarlo per evitare che mi saltassero addosso. Qualsiasi cosa piuttosto che essere picchiato.

Aprirono le manette, e mentre mi toglievo i vestiti il sangue riprese a circolare.

La stanza era in silenzio, rotto soltanto dal lieve ronzio delle ventole del condizionatore fissato in alto.

La donna frugò nella borsa dei suoi attrezzi e indossò un paio di guanti chirurgici. Notai che aveva una spilletta con due serpenti attorcigliati a un bastone. Reparto medico.

Mi alzai con i vestiti ammonticchiati ai piedi, in attesa di istruzioni, an-che se sapevo con esattezza cosa mi aspettava.

Lei indicò la sedia. «Siediti.» Ubbidii all'ordine e i quattro di scorta si disposero a semicerchio davanti

a me. Uno aveva in mano una bombola di Mace pronta all'uso, un altro una Taser. Quasi come se desiderassero che dessi il via alle danze.

Il metallo era freddo contro la schiena e il sedere nudi, ma non avevo tempo per pensarci. La donna mi rovesciò la testa all'indietro e mi ispezio-nò la bocca con una spatola.

Sentii odore di fumo sulla sua camicetta, sperai che non fosse troppo in-cazzata per essere stata disturbata durante la pausa sigaretta, perché avevo la sensazione che ci sarebbero stati gesti molto intimi fra noi.

Mi chiesi cosa cazzo speravano di trovare. Droga? Una bomba in minia-tura sotto la lingua? O più semplicemente si trattava della torchiatura stan-dard?

Molto più importante era sapere che fine avesse fatto Charlie. Mise da parte la spatola e tastò le gengive con un dito. E dopo? Un vestito arancione gratis e trasferte giornaliere su un carretto

fino alla stanza degli interrogatori? Ma chi cazzo credevano che fossi? Mi controllò le orecchie, poi frugò ancora nella borsa e prese un gigante-

sco tubo di gel KY, sufficiente per un party. Era chiaro che avevano inten-zione di servirmi un Saddam completo.

Strinse il tubo e ne fece cadere un po' su indice e medio della mano de-stra. «In piedi, piegati fino a toccare la punta dei piedi.»

Avevo un'unica consolazione. Sarebbe stato peggio per lei che per me. Era tutto il giorno che non la facevo.

Sentii il dito scivolare dentro, frugare a lungo e poi uscire. «Tirati su.» Evitai di guardarla negli occhi. Non volevo concederle neppure il più

piccolo accenno di un sorriso. Il tacco di uno stivale mi colpì il fondoschiena e mi fece volare contro il

muro di fronte. Sapevo che era soltanto l'aperitivo. Si sarebbero riscaldati con altri colpi del genere prima di passare alla tortura vera e propria. Leg-gevo odio nei loro occhi.

Assorbii la caduta, mi chiusi a palla, in attesa. Stivali in avvicinamento. Tenevo il viso coperto ma un occhio aperto.

Una radio gracchiò e il proprietario si affrettò a inserire l'auricolare per-ché la comunicazione restasse riservata. Riportò sottovoce agli altri ciò che gli era stato detto. Mi guardarono, sembravano dispiaciuti. Ecco fatto, a-desso sapevano che ero una star della televisione. Adesso toccava alla po-lizia della Georgia. Provai a convincermi che forse era meglio, ma sapevo che mi stavo prendendo per il culo.

La dottoressa si tolse i guanti, li gettò in un sacchetto di plastica e ripose gli attrezzi nella borsa. Indicò la sedia. «Seduto.»

Mi alzai, ma non abbastanza in fretta. Uno dei ragazzi mi aiutò con la punta dello stivale.

L'alluminio non si era scaldato nel frattempo. Mentre cambiavo posizio-ne sentii il gorgoglio del KY, poi il rumore di nastro adesivo che veniva srotolato.

2

Mi afferrarono i polsi, li spinsero contro le tempie e quindi li attaccarono

con il nastro adesivo che avvolsero attorno a mani e testa come una benda, e poi anche sotto il mento per stare tranquilli.

Strinsi i pugni più forte che potevo per creare un po' di spazio sotto il nastro adesivo. Anche il minimo gioco garantisce che la circolazione non si blocchi. Non che m'illudessi di poter andare da qualche parte in fretta, ma saper resistere anche di quel poco mi faceva sentire meglio.

Poi si dedicarono alle braccia che legarono insieme appena sopra i gomi-ti prima di fissarle al mento.

Nessuno parlò, ma abbandonarono la stanza come un sol uomo. Mi guardai attorno. I vestiti erano scomparsi. Nessuna via di uscita. La porta era stata chiusa a chiave, avevo sentito il rumore anche se le

mani mi tappavano le orecchie; le quattro griglie di ventilazione non erano più grandi di una cassetta delle lettere. Ed era molto probabile che mi con-trollassero con una CCTV.

Mi piegai in avanti e poggiai i gomiti sulle ginocchia. Il sudore mi face-va prudere la pelle sotto il mento. Rimasi così per un'ora, forse di più.

Pensare positivo. Sempre. Nel corso degli anni ero finito più di una volta in montagne di letame,

forse non ne ero uscito profumato di rose, ma avevo sempre preservato una percentuale di me indenne dalla merda, senza fare caso alla puzza.

Lungo la strada ero stato menato forte piuttosto spesso, ma in qualche modo ero stato in grado di cavarmela. Forse era per questo che continuavo a fare quel lavoro del cazzo.

Ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo a evitare il pensiero che forse questa volta sarebbe stato diverso.

3

Sentii delle voci soffocate nel corridoio. Sollevai, per quanto possibile, il

nastro adesivo dalle orecchie. Incazzati o frustrati, non riuscivo a capire, certo è che sentii un certo numero di «Maledizione» e di «Col cazzo, gli stronzi sono nostri» rimbalzare nel corridoio. Sembrava che qualcosa di brutto stesse accadendo loro, ma questo non significava che fosse qualcosa di bello per noi.

Di colpo la cella a Tbilisi sembrava molto vicina. Rumore di stivali e pneumatici sulla ghiaia. Ho sempre odiato i momenti in cui non sai cosa sta per succedere. Forse

la polizia era già arrivata e stava torchiando Charlie per primo. Anche se non era in gran forma non gli avrebbero cavato niente.

Poi sarebbero venuti a dirmi che il vecchio babbeo aveva confessato tut-to, ma io sapevo che Charlie non avrebbe fornito loro alcun elemento. An-che se ogni tanto le mani andavano fuori controllo e se spesso la memoria lo abbandonava, ci sono cose che sono così dentro di noi da diventare una seconda natura.

Passai un paio di secondi a chiedermi dove fosse il vecchietto rimbambi-to. Una volta riuscito a scappare, sarei andato a cercarlo? Senza dubbio. Anche con le palle all'aria e le mani legate sulla testa, avrei comunque cer-cato di sfondare ogni porta del corridoio per trovarlo. A quel punto non a-vremmo avuto bisogno d'altro se non di vestiti, documenti e di un mezzo di

trasporto, già, e mia nonna aveva le ruote. Tornato nel mondo reale feci del mio meglio per distendermi e allungare

la schiena e le gambe, in modo da alleviare il dolore ai muscoli e alle parti appoggiate contro il linoleum.

Fui assalito da un'intensa sensazione di freddo e ritornai nella posizione di prima. Era probabile che avessero regolato l'aria condizionata così da ammorbidirmi un po' prima di venire a leggermi l'oroscopo.

Una mezz'ora più tardi fui costretto ad allungarmi di nuovo sul pavimen-to. Non c'era un osso nel mio corpo che non mi facesse male. Ma quale dio avevo fatto incazzare così tanto questa volta? Cosa avevo sbagliato per fi-nire con il culo che colava KY, la testa mummificata con il nastro adesivo, proprio nel momento in cui la vita cominciava a sorridermi?

Dentro di me avevo sempre saputo che sarebbe venuto il giorno in cui avrei toccato il fondo, ma non me ne ero mai preoccupato molto.

Fino a quando era arrivata Kelly. Strano come una bimbetta con il moccio al naso e un orsacchiotto spe-

lacchiato fra le mani possa far aprire gli occhi. Non mi ero mai trasformato nel cavaliere con l'armatura lucente che lei

meritava, e mai mi sarei scrollato di dosso il senso di colpa per non essere riuscito a salvarle la vita, ma anche adesso che ero tornato nel mondo a me familiare capii che niente era più come prima.

L'essere cacciato a calci nel gradino più basso della catena alimentare era il mio destino, lo sapevo e per certi versi mi piaceva anche. Ma per qualche attimo con Kelly avevo osato sperare che ci fosse qualcosa di me-glio per me dietro l'angolo.

Con Silky era ricominciato tutto da capo. Era diventata il mio guardiano, la mia interprete in un mondo che parlava una lingua che conoscevo appe-na.

Cosa stava facendo in quel momento? Com'era vestita? Cosa avremmo combinato al mio ritorno? Di sicuro l'avrei portata a fare tandem jumping e forse le avrei insegnato la caduta libera.

Non riuscivo a credere che mi mancasse tanto. Per la prima volta il tota-le generale dei miei sentimenti non era «Chi se ne frega!» Anzi, non vede-vo l'ora di stare con lei e lo volevo con tutto me stesso.

Se mai fossi riuscito a cavarmela e a tornare indietro non mi sarei mai più lamentato per come legava la tavola sul tetto del VW. E l'avrei lasciata ascoltare i Libertines per tutto il tragitto fra Cairns e Sydney e ritorno, se lo voleva.

Ne frattempo mi raggomitolai di nuovo come il cadavere nel bagagliaio dell'Audi, chiusi gli occhi e cercai di pensare a qualcosa di bello.

Al momento non potevo fare altro.

4 Ero sul pavimento gelido, le mani strette come in una morsa attorno alla

testa, il corpo intorpidito nonostante gli sforzi di cambiare posizione e di allungare le gambe in continuazione.

Ma se non altro la stanza si stava scaldando. Qualcuno aveva girato l'in-terruttore dell'aria condizionata qualche minuto prima, e dal condotto ac-canto a me filtrava aria calda. Mi misi seduto e strisciai col sedere fino a esserci proprio davanti.

Sentii il rumore di un elicottero in volo e pezzi di conversazione nel cor-ridoio.

L'impressione che davano era che ancora non conoscessero la nostra i-dentità. La maggioranza era convinta che fossimo trafficanti di droga e, da-to che eravamo bianchi, sicuramente russi. Mafia russa, forse.

Uno affermò che eravamo inglesi perché l'aveva detto l'autista, ma ven-ne liquidato in fretta. Sapevano tutti che gli inglesi erano delle teste di caz-zo, ma non fino a quel punto.

Ma non volevo illudermi troppo. E avevo ragione. Passi veloci all'esterno della porta ed ecco la notizia comunicata forte e

chiara. «Sentite l'ultima sui due stronzi. Hanno fatto fuori il politico, sì, quello dei notiziari. Gli hanno sparato venti colpi in testa e l'hanno abban-donato nel baule della sua auto. I nostri li hanno presi mentre tentavano la fuga.»

Adesso che sapevo cosa mi aspettava ero quasi annoiato. Mi avvicinai alla porta per cercare di sentire di più. Più che altro volevo

scoprire dov'era Charlie, ma per quello avrei dovuto aspettare. Non udii al-tro che cigolio di stivali e imprecazioni per il rumore.

Morivo di sete, era passato un secolo da quei caffè all'aeroporto. Avevo sonno e quindi stabilii che doveva essere molto tardi. Cercai di

assopirmi ma invano, qualsiasi posizione assumessi era troppo scomoda. Passò altro tempo e poi percepii rumore di scarpe, non stivali, in avvici-

namento nel corridoio. La porta si spalancò e la stanza piombò nel buio. Mi afferrarono in due, uno per parte. Indossavano vestiti civili, e con il

piede sinistro scontrai la fibbia di mocassini coperti di fango. Mentre mi sollevavano da terra, da destra mi giunse il tanfo di nicotina stantia e di cuoio.

Ero pronto a scommettere tutte e tre le sterline che dovevo a Charlie che la giacca era nera.

Poi non sentii altro che puzza di rape quando m'infilarono sulla testa un sacco vuoto di nylon ruvido. Mi copriva fino ai gomiti.

I miei due nuovi amici si scambiarono qualche frase in graffette, ormai ero diventato pratico. Mi trascinarono per il corridoio. Attraverso la trama del sacco filtravano schegge di luce fluorescente e dallo spazio attorno ai fianchi vidi dell'altro linoleum grigio.

Girammo a sinistra, poi attraverso una porta a battente e poi ancora at-traverso un'altra.

Venni investito dall'aria gelida che stirò tutto tranne la pelle d'oca. Co-minciai a tremare quando scendemmo una breve rampa di gradini in legno.

Mentre mi spingevano verso il portellone aperto di un'auto familiare che ci attendeva, la ghiaia mi si conficcò nei piedi. I sedili dietro erano abbas-sati e atterrai in una confusione di cenciose coperte pelose di lana e nylon. Con una serie di contorsioni cercai di avanzare il più possibile nella spe-ranza di scontrarmi con Charlie, ma l'unica ricompensa alla fatica fu che sbattei la testa contro una batteria di scorta e fui costretto a respirare la puzza insopportabile di urina e di cane bagnato. Mi gettarono addosso un'altra coperta e chiusero il portellone.

La situazione non lasciava presagire niente di buono. Avevo la sensazione di conoscere bene che tipo di poliziotti fossero e

nessuno si sarebbe sognato di fermarli per chiedere indicazioni. Le portiere davanti si aprirono, seguì qualche scossone mentre i due si

sistemavano. Il motore si accese, e il rumore di ghiaia schiacciata accom-pagnò il nostro percorso oltre i Portakabin. Chiusi gli occhi e cercai di non perdere il senso dell'orientamento.

Sentii parlare, poi il rumore di un fiammifero che si accendeva e quasi subito l'aria satura di nicotina ingaggiò una seria lotta di supremazia con la puzza di cane.

Non avevo paura del dopo. Ero soltanto depresso. E affamato. E, incredibile anche per me, maledettamente solo.

5

Ci fermammo e l'autista abbassò il finestrino. Snocciolò in lingua-

graffette una sfilza di istruzioni a qualcuno, sentii il cigolio di una sbarra che veniva sollevata e l'auto proseguì.

Avanzammo per circa un chilometro sulla strada sterrata fino alla prin-cipale, e poi svoltammo a sinistra. Fin lì niente di strano. Come gli ameri-cani, i georgiani non amavano molto i loro ex amici russi.

Procedevamo tranquilli sull'asfalto con qualche scossone quando incon-travamo una buca vecchio stile.

Cercai di calcolare la distanza contando i secondi, e arrivai fino a venti minuti senza pause.

I due davanti si divertivano un mondo. Avevano acceso la radio e ascol-tavano musica georgiana che sembrava un lamento continuo. Era la stessa stazione che trasmetteva nei capanni di sicurezza dell'ambasciata?

Non si comportarono mai come se fossero consapevoli della mia presen-za. Forse si erano dimenticati di me. Non mi sarebbe dispiaciuto.

Non c'erano state salite né discese, quindi stavamo ancora seguendo la valle. Perché non avevamo risalito la collina, perché non ci eravamo fer-mati al VCP e diretti verso la città? E se non ci andavamo, era una cosa buona o una cosa cattiva? Avevo la spiacevole sensazione di conoscere la risposta.

Altri dieci minuti fecero svanire ogni dubbio. Non era un'azione di poli-zia. Non avevamo ancora raggiunto la collina, e se fossimo stati diretti ver-so la città avremmo dovuto già esserci.

Strisciai ancora un po' nel tentativo di conquistare un altro pezzo di co-perta. La pelle d'oca era diminuita e volevo che non tornasse.

Qualcosa nel fatto di essere caldo come in un bozzolo mi portò a pensare a Silky. Ero confuso. Sapevo che accompagnare Charlie era stato giusto, ma allo stesso tempo, in quel preciso istante, avrei desiderato soltanto es-sere in Australia con lei. E non come alternativa al fatto di giacere nel retro di un'auto diretto alla situazione peggiore di tutta la mia vita, ma perché volevo stare con lei e basta. Tanto per cominciare aveva un odore assai più buono di quelle coperte.

Pensai a quando si sdraiava vicino a me sulla spiaggia, a quando guida-vo il VW con lei accanto. La mente vagava. Non riuscivo a pensare a un singolo momento con lei che non fosse stato piacevole. Ripensai a quando mi aveva detto che eravamo un'ottima accoppiata: aveva ragione, lo era-vamo sul serio. Mi mancava.

Cosa avremmo fatto al mio ritorno? C'era sempre la gita al Centro Ros-so, a quello che io chiamavo Ayers Rock e tutti gli altri, Silky compresa, Uluru.

Prima di incontrare Silky, in situazioni simili avrei evitato di provare paura e avrei anche evitato di pensare a qualcosa di bello. Sarei semplice-mente rimasto immobile. Ma cazzo, preferivo di molto com'era adesso. Dovevamo ancora andare a vela nelle Whitsundays, e c'era il parco nazio-nale di Kakadu e la Nuova Zelanda. Tutti posti di cui avevamo parlato mentre viaggiavamo insieme. Volevo visitarli tutti, e volevo farlo con lei.

La scatola del cambio emise un lamento soffocato e l'auto rallentò. Il suolo era ancora più sconnesso. Mi chiusi a riccio.

Il motore si spense. Il portellone venne aperto e le coperte spostate. L'aria fredda mi colpì

come una sberla sui coglioni.

6 Mi trascinarono al di là di un'altra auto posteggiata, su un tratto di erba

umida. Avevo la pelle come quella di un pollo appena spennato. Ci fermammo e sentii il rumore di un calcio pesante contro del legno.

Una porta si spalancò e mi trovai in una stanza che sembrava una sauna. L'aria pesante puzzava di umido e gas in bombola.

Barcollai per qualche passo e poi una mano sulla spalla mi costrinse ad abbassarmi. La sedia era di plastica. Sopra la testa sentivo il sibilo del gas acceso. Mi piegai in avanti, strinsi i denti, pronto a essere menato. Mi a-spettavo di essere sollevato con violenza da un momento all'altro, invece mi lasciarono dov'ero.

Poi, cosa ancora più sorprendente, mi tolsero il sacco. Non sollevai la testa, ma gli occhi cominciarono a lavorare sodo. Mi tro-

vavo in una stanza piccola con le pareti in pietra e il pavimento in terra pressata. Davanti avevo un tavolino pieghevole in plastica azzurra, con le gambe di metallo, che sembrava uscito dalle pagine del catalogo di Argos. Agli angoli opposti erano appoggiate due lampade da campeggio che proiettavano ombre danzanti sul muro. Il mio passaporto e quello di Char-lie si trovavano al centro.

L'autista e il suo amico erano alle mie spalle, ansimavano per lo sforzo di avermi trascinato a balzelloni dalla macchina a lì.

Dall'altro lato del tavolo apparvero un paio di stivali da deserto. I panta-

loni di cotone che li coprivano sembravano gonfiati con una pompa a pres-sione. Una calibro 22 a canna sottile era puntata in mezzo alla mia fronte. La mano salda come una roccia che la impugnava era coperta da un guanto in latex.

Quando vidi a chi apparteneva, compresi che avrei preferito di molto i poliziotti georgiani del servizio segreto.

E compresi che la mia fortuna era giunta al capolinea. Centotrenta chili di grasso che terminavano in una sfumatura alta, fin

troppo familiare, mi sovrastavano. Non mi piaceva neppure un po' il modo in cui teneva l'arma, ma lui era

ancora più minaccioso. Jim D. «chiamatemi Buster» Bastendorf, l'uomo che a Waco avevamo

ribattezzato Bastardo, non era cambiato di una virgola dall'ultima volta che l'avevo visto, dodici anni prima.

7

Abbassai la testa ma non staccai gli occhi dall'arma. D'un tratto scoprii che mi piaceva avere le mani bloccate attorno alla te-

sta. Ma serrai i denti comunque e chiusi gli occhi. Avevo sbagliato e dove-vo accettare le conseguenze.

Forse voleva che lo implorassi, o forse aveva altro in mente. 'Fanculo. Avrebbe fatto quello che voleva, qualsiasi cosa avessi fatto io, dunque per-ché sbattersi?

Sentii che si muoveva attorno al tavolo. Mi venne vicino e sentii il sibilo delle sue narici. Poi mi conficcò la bocca di fuoco nel dorso della mano destra.

Rabbrividii quando sentii il clic delle parti mobili. Impossibile evitarlo. Aprii gli occhi. Bastardo era ancora sopra di me. Godeva della mia rea-

zione, sorrideva perfino. «Dimmi, figliolo, chi cazzo sei?» «Hai il mio passaporto, perché non lo scopri da solo?» Mi guardò. La sua espressione diceva che non aveva ancora fatto il col-

legamento fra me, Anthony lo scienziato inglese finocchio e la fattoria con tanti davidiani morti. Io non l'avrei certo aiutato. Avevo fin troppi casini per conto mio.

«Non sei americano. Di dove sei?» Mi studiò a lungo con la fronte ag-grottata mentre scavava nella memoria. «Ti ho già visto da qualche parte.»

«Ascolta, abbiamo il video di te che consegni il materiale al Marriott di Tbilisi e...»

Il primo pugno diretto alla tempia destra centrò in pieno il bersaglio. Riuscii a restare seduto, ma i campanelli nella testa e le scintille negli oc-chi ci misero un po' a svanire.

«Chiudi quella cazzo di bocca! Sei nella merda, ragazzo! La polizia non vede l'ora di catturarti. Hai fatto fuori la loro risposta a quel Bob Geldof del cazzo e non trovano affatto divertente la situazione. E la sai una cosa? Sono pronto a consegnare agli stronzi quello che vogliono se non collabo-ri.»

Mi colpì altre due volte. Gran parte del dolore venne assorbita dalle ma-ni ma il secondo colpo mi spedì sul pavimento in terra battuta, e per un pe-lo non mi lussò la spalla.

«Capito adesso? Voglio collaborazione.» M'irrigidii, occhi chiusi, ginocchia contro il torace, pronto a riceverne

ancora. Non sollevai lo sguardo. Era piuttosto difficile ignorare un uomo come Bastardo, ma secondo me

era uno sforzo da fare. Il calore nella schiena era piacevole e cercai di ap-profittarne il più possibile mentre le stelline nella testa si estinguevano a poco a poco.

I due ragazzi che avevo ai fianchi si piegarono e mi sollevarono sulla se-dia. Sentii il freddo di una lama contro il lato destro del mento. Rabbrivi-dii. Poi una mano mi carezzò rassicurante la testa.

«Rilassati, Nick. Un piccolo scherzo dei ragazzi.» Aveva indossato il cappello del Signor Gentile che, anche se poco credibile su di lui, se non altro costituiva un cambiamento. «Adesso tagliano il nastro adesivo. Stai fermo. Non vuoi mica rischiare di farti tagliare i gioiellini lividi, vero?»

Piantarono le forbici nel nastro adesivo e cominciarono a tirare. Con il nastro mi strapparono ciuffi di capelli e di sopracciglia. Ma un vantaggio c'era: il sangue riprese a scorrere nelle braccia.

«Siedi tranquillo, Nick, rilassati.» Girai un pochino la testa e guardai indietro. Una stufa da giardino, ali-

mentata da una gigantesca bombola di propano, faceva del suo meglio per riscaldare l'ambiente; i due erano i picchiatori dalla testa lucida che avevo visto nel Pajero all'esterno del Marriott. Erano entrambi vestiti di nero e quello di destra stava pulendo gli occhiali da sole.

«Come va, Nick, tutto bene?» Bastardo avvicinò un'altra sedia di plasti-

ca al tavolo dalla sua parte, era gentile e gioviale. La pistola era sparita ma i guanti no.

Adesso fra le due lampade c'era un termos di alluminio. Non vedevo più i passaporti.

«Avanti, figliolo, senti l'aroma del caffè. È buono e forte.» Piegai le dita, mi allungai, presi il contenitore e svitai il tappo. In mo-

menti del genere l'unica cosa da fare è accettare qualsiasi cosa ti offrano perché non sai quando ti capiterà di nuovo. E poi, comunque, erano ore che desideravo qualcosa di caldo.

I due ragazzi alle mie spalle dondolavano da un piede all'altro. Non sa-pevo se lo facevano per scaldarsi o per prepararsi al prossimo attacco in programma. Comunque fosse, una cosa era chiara, loro erano vicino alla fiamma, io no.

La sede dello spettacolo era, a quanto potevo capire, una vecchia fattoria con travi e tegole a vista, e i buchi nel muro, un tempo le finestre, erano coperti da sacchi per rape come quello che mi avevano messo sulla testa.

Versai il caffè nero bollente in due tazze di plastica e ne spinsi una attra-verso il tavolo con un sorriso. Il profumo era sensazionale. «Dov'è Char-lie?»

Ne prese un sorso. Sapeva perché l'avevo fatto. Se era drogato, anche lui ne avrebbe subito gli effetti.

Il caffè risvegliò i tagli che avevo sulla lingua, e allora? Il sapore era pari all'odore, e mi riscaldò tutto il corpo.

«Qualche possibilità di avere i vestiti?» Si strinse nelle spalle. «Certo.» Si sporse all'indietro, sollevò un altro

sacco grigio dal pavimento e me lo posò davanti. Mi vestii in fretta e mentre lo facevo controllai il contenuto delle tasche.

Niente soldi, ovviamente niente passaporto. Niente, soltanto il Baby-G. Ma in fondo, che cosa mi aspettavo?

«Li avete dati anche a Charlie?» Durante un interrogatorio la regola è in-formarsi sui compagni. Le condizioni di Charlie erano già abbastanza compromesse e non era il caso che rischiasse il congelamento. «Vi preoc-cupate sempre l'uno dell'altro, vero? La cosa mi piace.» Posò la tazza sul tavolo. «Scusa per come mi sono comportato prima. Ma sai com'è...» - formò una pistola con le dita e tirò il grilletto verso di me - «scoprire che Chuck aveva portato qualcuno per fare il lavoro mi ha mandato fuori di te-sta.»

Aveva ancora un sorriso gigantesco incollato sul viso, ma non ne ero

troppo contento. L'ultima volta che l'avevo visto si era comportato da folle, e non era andata a finire bene.

8

Il sorriso si allargò ancora. «A me piace essere informato, mi piace che

le cose vengano fatte alla mia maniera. Avevo bisogno di sbollire un po'. Quelli come noi devono farlo ogni tanto, sei d'accordo, Nick? Tu mi capi-sci.»

Capivo, sì, perfino troppo. Non si trattava di scaricare la tensione ma piuttosto di far sapere a tutti, nel raggio di cinquecento chilometri, chi era il capo.

Mi industriai a infilare la maglia nei pantaloni. La 110, Baz e la polizia non c'entravano un cazzo. Qui era in ballo qualcosa di molto più importan-te per lui, il lavoro.

Mi misi seduto. «Allora aiutami a capire... Far fuori Charlie, una volta aperta la cassaforte. Questo significa fare le cose a modo tuo?» Arrischiai anche un sorriso. «A quanto pare, è stata una buona idea venire.»

«Io non c'entro con quello. Sono gli stronzi dei piani alti», indicò il cie-lo, «che decidono senza interpellarmi. Io so soltanto che Chuck aveva l'in-carico di fare il lavoro, io ho fornito il supporto, l'attrezzatura, le informa-zioni, quel genere di cose. Cosa cazzo credi che io sia? Una bestia? Diavo-lo, Chuck è uno di noi, uno dei buoni.»

«Chi ci sta nei piani alti? Militari? Gente del petrolio?» Scosse lentamente la testa e mi guardò con compassione. «La sai una

cosa, Nick? Mi piaci. Ma pensi che io sia completamente scemo? Suvvia, uomo. L'unica cosa che devi sapere è che oggi vi ho salvato il culo. Sei un ricercato. Se tu fossi rimasto un momento di più al campo, ti avrebbero raccolto con una pala e messo in cella come una merda.» Nei suoi occhi c'era una luce inquietante. «Attento, io so cosa fanno agli uomini come te in quelle fogne. Niente di buono, Nick, proprio niente di buono. Sono psi-copatici cazzuti, laggiù.»

Ero sicuro che avesse ragione, ma i miei pensieri vagavano in altre dire-zioni, cercavo qualcosa da dire e il modo di tenermi lontano da quei pozzi neri. Quello in cui mi trovavo mi bastava e avanzava.

«Mi dispiace, davvero, per la crudeltà di prima, è che quando mi hanno detto che eravate all'accampamento...» Rise, un po' troppo forte, e prese un altro sorso di caffè. «Non dev'essere piacevole avere una pistola puntata al-

la testa. Ma dovresti ringraziarmi per aver evitato che ti consegnassero. I ragazzi del campo? Erano piuttosto incazzati che voi non foste terroristi.» La mascella ebbe piccoli sussulti. Si godeva ogni singolo momento della situazione. «Ci credi, vero?»

Sì, ci credevo. Se avessero potuto affibbiarmi l'etichetta di terrorista sa-rei già stato in viaggio verso la baia di Guantánamo.

Mi chiesi perché non avesse ancora accennato alla valigetta del compu-ter. O fatto domande sul fascicolo e sul nastro. Forse le teneva in serbo per dopo.

«Ma la sai una cosa, Nick? Sei stato maledettamente bravo a salvarvi il culo, visti i casini che hai dovuto affrontare.»

Non era il Bastardo che conoscevo. Ma in fondo non era bastardo, era semplicemente una vecchia volpe che sfoderava tutte le tecniche di inter-rogatorio mentre io tacevo finché non ero costretto a parlare.

Adesso aveva messo sul piatto quello che il manuale definisce «Orgo-glio e Autostima». Pensava che la cattura mi avesse distrutto e quindi che avrei reagito all'apprezzamento di un lavoro ben fatto. Da un momento all'altro mi avrebbe detto che sapeva come mi sentivo e poi, dopo altre taz-ze di caffè, che ci intendevamo alla perfezione.

Ma quello che non sapeva era che io avevo appeso fuori ad asciugare or-goglio e autostima da tanti di quegli anni che me ne fottevo di ricordare quanti fossero. Avrebbe dovuto scavare molto più a fondo per trovarne traccia.

Annuii per dimostrare gratitudine per la sua comprensione. «Sì, ce la siamo cavata piuttosto bene.» Trangugiai un altro sorso. «Chi erano quelli alla casa e al cimitero?»

«Non lo so.» Bastardo scosse lentamente la testa come se Occhi Rossi, Guanciavetrata e l'uomo montagna con il machete fossero tutti sbucati fuo-ri dal nulla. «Chiunque fossero, gli stronzi hanno incasinato un'ottima ope-razione.»

Si piegò sul tavolo e prese due sigari dalla tasca del giubbotto in Gore-Tex, annuendo fra sé. «Tutti pensano che una tale missione sia scontata, ma dimenticano la variabile non controllabile: il bersaglio, giusto?» Me ne offrì uno ma rifiutai con un cenno educato del capo. Però mi versai dell'al-tro caffè che trangugiai in fretta, in caso decidesse che quella fase fosse terminata e fosse giunto il momento di virare di nuovo sul Poliziotto Catti-vo.

Se lo accese e aspirò con gusto. Sembrava che avesse abbandonato l'abi-

tudine di masticare tabacco. Forse considerava il sigaro meno dannoso per la salute.

Se stava aspettando che mi mettessi a parlare per riempire il silenzio sa-rebbe rimasto deluso.

Mai mi sarei esposto a rispondere, rischiando di scavare per me e per Charlie una fossa ancora più profonda. Strano, ma in un certo senso il fatto nuovo di sapere che c'era qualcun altro che condivideva la mia sorte mi rendeva più sicuro. Sapevo che Charlie la pensava allo stesso modo. Non mi avrebbe abbandonato e io non avrei abbandonato lui.

«La sai una cosa?» Il fumo gli uscì dalla bocca. «Il fatto che tu sia com-parso con Chuck? È stata una sorpresa. Sissignore, ha tenuto ben coperte le carte che aveva in mano. Come funziona, vi dividete i soldi?»

Annuii. «Esattamente a metà.» «Sono una montagna di bigliettoni...» Ciucciò il fondo del sigaro come

se fosse indeciso se masticarlo o fumarlo. «Ma secondo me tu dovresti prenderne di più, Nick. A me sembra che tu abbia fatto la parte del leone per tirarvi fuori dalla merda. Il giusto, non dite così voi inglesi?» Scosse un centimetro di cenere. «Suppongo che l'idea di lavorare a quattro mani sia stata di Chuck.»

«Per forza. Se no come avrei fatto a sapere del lavoro?» Da come parlava sembrava ignorare le mani ballerine di Charlie. Questa

volta un filo di bava rimase sospeso tra il labbro e il sigaro mentre staccava l'Havana dalla bocca.

Quando si resta a lungo in un posto si finisce per adattarsi all'ambiente. Ogni casa sembra estranea la prima volta che ci entri, ma se passa una mezz'ora cominci a trovarla familiare.

Ecco, lì non accadeva, gli unici elementi che trovavo familiari erano il sibilo della stufa a gas e l'odore del sigaro.

9

Mi fissò a lungo. Aspettava che aggiungessi qualcosa. Ma non l'avrei fatto, almeno non fino a quando non smetteva di compor-

tarsi da amicone. Più tardi, forse, raggiunte le pagine del manuale che ave-vano illustrazioni di piede di porco e ossa rotte; ecco, quello sarebbe stato il momento giusto di sparare tutte le cazzate possibili pur di tenere lui, e i suoi compagni georgiani, lontani dalla mia schiena.

«Chuck ti ha detto in cosa consisteva il lavoro?»

Allontanai la tazza e annuii. «Sicurezza dell'oleodotto, troppa gente che si mette di mezzo, giusto?»

«Sissignore, è così. I georgiani di qui non sono altro che una banda di stronzi corrotti.» Lanciò un'occhiata oltre la mia spalla. «Ma, e allora? Come state, teste di cazzo?» Sorrideva e annuiva rivolto ai due in pelle dietro di me. «Fottitene di questi due, Nick. Hari e Kunzru non capiscono una parola. Sono così scemi da non essere capaci di allacciarsi le scarpe da soli. Non ho ragione, figli di puttana?»

I due borbottarono qualcosa. Era così che Bastardo interpretava la Parte-cipazione al programma di pace e funzionava esattamente come piaceva a lui.

Si sporse in avanti e aspirò un'altra boccata. «Sì, cazzo, proprio così.» Altro fumo uscì dalla sua bocca. «Sei un tipo in gamba, Nick. Sono sicuro che anche tu vuoi farla finita con questo lavoro di merda e tornare a casa dai tuoi cari.» Strinse il sigaro fra i denti e mi elargì un sorriso ancora più grande. «Io sono dalla tua, amico. È il mio ultimo lavoro. Sole e sabbia at-tendono la mia pensione, e le gambe ambrate di una bella señorita su cui arrotolare i sigari... hai capito da dove vengo?»

Mi rivolse un ampio gesto cordiale con il sigaro. «La sai una cosa, Nick? Avrei dovuto stare più attento quando sono andato da Chuck, allora forse non ci troveremmo in questa... situazione difficile.» Fece una pausa e mi lanciò un'occhiata cospiratoria. «Scommetto che è stata tua l'idea di ri-prendermi. Normale che Chuck abbia portato con sé un tipo altrettanto in gamba. Voi due mi avete steso.» Si alzò e scosse la testa con sincera am-mirazione.

Hari e Kunzru si agitavano insofferenti alle mie spalle. Sentii il rumore di un fiammifero che veniva sfregato e l'odore di zolfo mi chiuse la gola. Bastardo frugò nella tasca del giubbotto in Gore-Tex ed estrasse il mio passaporto blu scuro. Era così nuovo che l'aquila d'oro degli Stati Uniti in-cisa sulla copertina brillava alla luce delle lampade da campo. «Non è mol-to che hai la cittadinanza?»

«No.» «Di cosa ti occupi sul continente?» «Lavoravo per una ditta commerciale. Devo a loro la cittadinanza. Poi,

un po' di tempo fa, mi hanno lasciato a casa per riduzione di personale, ed eccomi qui con Charlie. Posso vederlo?»

«Ogni cosa al momento giusto, figliolo. Come sei entrato in questo ge-nere di lavoro? Sei un ex militare? Come mai ti sei rivolto a quel tipo in

Inghilterra?» Mentire? Inutile. Certo che lo ero, altrimenti Charlie non mi avrebbe in-

gaggiato. «Ho conosciuto Charlie e il mediatore nell'esercito. Charlie mi ha chiesto se cercavo lavoro. Sì, ne avevo bisogno. Di questi tempi un dol-laro non dura molto, soprattutto quando è un po' che non si batte chiodo.»

Annuì ma non si era bevuto la storiella. Su quel punto, se non altro, era-vamo pari. «Ho un problema che credo tu possa risolvere per me, Nick.»

Si tolse un pezzetto di tabacco dal labbro e guardò la fine del sigaro, for-se con troppa attenzione, per vedere se ce ne erano altri.

«Credo che tu possa capire che sono piuttosto nervoso; Chuck mi ha det-to di avere registrato le due volte che l'ho incontrato in albergo. Tu stavi per dirmi la stessa cosa, vero?»

Non mi lasciò il tempo di rispondere, non che avessi intenzione di farlo. «Dice pure che avete la cosa per cui...» - fece un gesto con la mano co-

me se fossimo dentro insieme nella faccenda - «ci troviamo in questo fot-tuto Paese.»

M'impegnai a fondo per assumere un'espressione assolutamente neutra. «Quelle carte...» Ma cosa stava dicendo? Non le aveva lui? «Vedi, quelle carte... Dunque, le persone per cui lavoro hanno veramente

bisogno di consultarle, qualsiasi cosa contengano. E le registrazioni? Po-trei trovarmi in situazioni a dir poco imbarazzanti se fossero rese pubbli-che... sarebbe come mandare a puttane i miei progetti di pensionamento.»

Non era difficile capire che un video con la ripresa di qualcuno che non solo consegna l'attrezzatura ritrovata nella macchina di Baz, ma anche de-scrive il lavoro, avrebbe mandato a puttane qualsiasi piano, figurarsi quello di andare in pensione.

Aumentò il sorriso al massimo dei megawatt. Se non stava attento gli sa-rebbe scoppiata la faccia. «Ho bisogno che voi due mi aiutiate a uscirne, capito? Siete troppo astuti per me, che altro posso dire?»

Si piegò in avanti e unì a guglia le dita, sigaro e tutto. Quei sorriso l'ave-va ucciso. «Perché non sistemiamo le cose questa notte, così domattina presto siamo su un aereo e portiamo via i coglioni da questo buco di culo di Paese di merda?»

Hari e Kunzru stropicciarono i piedi e io mi preparai al peggio. Bastardo se ne accorse e si rilassò. «Non è ancora l'ora di preoccuparsi di questi due, figliolo. Ti propongo di uscirne in un modo più semplice. Che ne pensi, Nick? Cosa mi dici?»

Non dissi niente. Anche se faceva un ottimo lavoro per mascherarlo, era chiaro che stava sulle spine. Che si fottesse, da me non avrebbe ricevuto aiuto.

«Nick, abbiamo tutti bisogno di portare via i coglioni. Ma se hai inten-zione di fottermi il culo, non potrò fare assolutamente nulla per impedire a questi ragazzi di fare quello che sanno fare meglio. Non posso permettere che quei documenti restino in giro, questo lo capisci, vero?»

Sì, che capivo. E capivo pure che era molto agitato. Ma che ne aveva fat-to Charlie dei fogli e del nastro? L'unico posto che mi veniva in mente era già stato esplorato da un dito coperto da gel KY.

«Devo discuterne con Charlie, devo sentire il suo parere.» «A me ha detto di essere pronto a fare quello che decidi tu. E io sto par-

lando con te. Fregatene di lui, è ora che tu pensi con la tua testa. Sei tu quello che è finito in TV, sei tu quello che è stato identificato al cimitero. Lui se la ride.» Aveva la voce strozzata per la frustrazione. «Sei tu il ricer-cato, Nick. Tutti, proprio tutti là fuori stanno cercando te. Lui? Non ha vol-to. Lui può andarsene in giro...»

Il suo sguardo era sempre intenso ma le crepe incominciavano ad affac-ciarsi. Era come assistere all'eruzione di un vulcano. «Io sono il tuo lascia-passare. Dove potresti andare, cosa potresti fare senza il mio aiuto? Non hai passaporto, non hai il becco di un quattrino. Fra te e quei georgiani pronti a fotterti ci sono soltanto io. Sono io che decido, Nick, in un senso o nell'altro.»

Stava grattando il fondo del barile. Aveva giocato la carta di orgoglio e autostima, aveva cercato di essere estremamente gentile, ma adesso punta-va dritto verso Lasciamo Perdere le Cazzate, per farmi capire che ero in un vicolo cieco. Ma un'unica cosa avevo chiara: Bastardo si era spostato nel territorio che conosceva meglio, quello del ricatto.

Rimasi ancora zitto. «Hai terminato le cartucce, amico. Con un gesto posso ordinare a questi

due di portarti a Tbilisi e di consegnarti ai bastardi che si definiscono poli-ziotti in questo strazio di città. Io ho potere di agire in bene e in male.»

Picchiettò sul passaporto che teneva nella giacca. «Sei in fondo a un pozzo profondo, ma io ti sto gettando una fune. Posso tirarti fuori e farti tornare negli Stati Uniti. Non so che altro aggiungere per spiegarti che io sono l'unico a decidere della tua vita.»

Adesso aveva affrontato l'approccio con incentivo, poi gli restava soltan-to l'ultima possibilità. Stavamo uscendo di strada.

Mi piegai in avanti e mi allacciai le stringhe degli stivali. Non volevo ri-schiare di perderli durante l'azione che quasi con assoluta certezza sarebbe seguita. Poi sollevai lo sguardo e annuii. «Devo parlare con Charlie.»

Balzò in piedi e picchiò un pugno sul tavolo. Il termos e le tazze volaro-no via. Anche i due che avevo dietro arretrarono di un passo.

«Stronzo! Voglio i documenti e voglio i nastri! Dammeli! La tua faccia è su tutti i teleschermi della Georgia... sei nella merda... tutta la polizia della Georgia chiede il tuo sangue... Se non fai esattamente quello che dico io, ti consegno a loro... Adesso devi dirmi dove si trovano, o ti strappo il cuore a mani nude, mi hai sentito, ragazzo?»

Con gli occhi bassi, la mascella stretta e i denti serrati mi preparai ai pu-gni. Era giunto il momento Paura, e funzionava, perché era nato per quello.

«Stai dritto, prima che me ne occupi io di raddrizzarti.» Si aggrappò al tavolo con le nocche, sembrava un gorilla, con quelle narici dilatate e sibi-lanti mentre inspirava ossigeno per prepararsi alla scarica.

La pancia si sollevò mentre si piegava sopra di me. «Sto per farti molto male. Non mi lasci altra scelta.»

«Fammi parlare con Charlie e vedrai che sistemiamo tutto.» La sua risposta fu una via di mezzo fra un urlo e un grido. «Non avete

assolutamente niente di cui parlare.» Le sue parole rimbombarono contro le pareti mentre i suoi pugni picchiavano sul tavolo. Mi puntò contro un di-to grosso come una salsiccia. «Mi stai facendo incazzare.»

Aggirò velocissimo il tavolo e io irrigidii tutti i muscoli per prepararmi. Mi colpì alla guancia con la mano aperta, con una forza tale che mi ritrovai a terra.

Mi girava la testa. Tante stelline mi volteggiavano vorticosamente da-vanti agli occhi. D'istinto mi raggomitolai a palla.

Sentii che si chinava su di me. Zaffate di alito al sigaro mi dissero che avevo ragione. «Molla i nastri, molla i documenti. Ho i contatti giusti - molto forti, gente del governo - e vedrai che le cose si sistemano bene per te. Pensaci, coglione. Pensaci mentre io torno a Vasiani a sistemare il casi-no che avete combinato con l'esercito. Te ne dico un'altra. Sono quei con-tatti che ti hanno salvato il culo fin qui, questo ti dà la possibilità di fare la cosa giusta.»

Raggiunse la porta passandomi dietro. Mi rilassai ma qualche secondo dopo la puzza di sigaro mi assalì di nuovo a pochi centimetri dal viso. «Io? Io domani torno nel mondo reale, quindi devo lasciare tutto in ordine qui. In un modo o nell'altro.»

Fece un lungo respiro per calmarsi. «Nastri e documenti al mio ritorno, o questi due ve li strapperanno dalla carne prima che passiate il resto della vostra stupida vita in una prigione della Georgia.»

Sparì. «Fregare un veicolo militare del cazzo», disse con una risata pro-fonda. «Pensate di essere stati furbi?»

La porta si aprì e si richiuse. Era andato. Mentre usciva doveva aver dato ordini a gesti a Hari e a Kunzru. I due

mi afferrarono per le braccia per alzarmi in piedi. Uno prese una lampada e fui spinto attraverso un'altra porta in una zona delimitata da mura e piena di erbacce che si trovava dietro l'edificio.

Seguivamo un sentiero melmoso. In uno squarcio fra le nuvole vidi le stelle e un'altra costruzione a centocinquanta metri di distanza.

Hari - o Kunzru - cominciò a trafficare con una serratura vecchia e ar-rugginita. Mentre la porta si apriva con un cigolio sentii in lontananza un motore che si accendeva e un'auto che partiva.

Mi spinsero nel buio più completo. La porta sbatté alle mie spalle e ven-ne chiusa con un rumore cigolante della serratura.

Portai le mani davanti al viso, non riuscivo a vederle. Sedetti a terra e cercai di studiare la situazione. Non c'era il minimo spiraglio di luce. A-scoltai i passi di Hari e Kunzru che tornavano nella stanza riscaldata con il propano da cui eravamo venuti, e li sentii chiudere la porta per non fare en-trare il freddo che mi stava già gelando fino all'osso.

Ci fu un movimento di fianco a me. Mi spaventai a morte. Poi il rombo di una voce. «Ce ne hai messo di tempo, testa di cazzo.

Spero che tu abbia le tre banconote che mi devi.»

PARTE NONA

1 Il sollievo di sentirlo era tale che scoppiai a ridere. Cominciai a tastare il

terreno carponi, muovendomi in direzione del suono della sua voce. «Le ha sperimentate tutte, il ciccione di merda.» Sghignazzò. «Dall'auto-

stima al manganello. Il manuale, dall'A alla Z.» Sapevo che Charlie provava le mie stesse sensazioni. Era felice che fos-

simo di nuovo insieme, nella merda fino agli occhi ma insieme. Ma nessu-no l'avrebbe dichiarato apertamente, se lui non avesse scherzato per primo l'avrei fatto io.

«Io gli ho dato un bell'otto e mezzo per la sezione Manganello. Gli viene più naturale, per come la vedo io.» Parcheggiai il culo accanto a Charlie e abbassai la voce. «Dove cazzo sono?»

«HF 51 KN.» «Cosa? Ma sei fuori?» «L'auto di servizio. Ho infilato la rivista sotto il sedile dietro. Ho pensato

che fosse meglio nasconderla e sperare che non la trovassero piuttosto che consegnarla a Sfumatura Alta su un piatto d'argento, non trovi? Adesso non dobbiamo fare altro che andarcene da qui, trovare il furgone e usare quella merda per tornare a casa. Sei pronto?»

«Prontissimo. Soprattutto per la prima parte: uscire da qui.» Charlie scherzava, ma aveva ragione. Non sapevamo cosa ci fosse su

quel documento ma, come aveva confermato anche Bastardo, era molto importante per un sacco di gente che voleva impossessarsene. Io ero un ri-cercato e le carte davano l'impressione di avere il potere di non rendermi più tale. Anche la cassetta poteva esserci utile e, se Bastardo aveva davve-ro amicizie nelle alte sfere georgiane e voti che contavano al campo Va-siani, quella roba diventava il nostro lasciapassare.

«Il suo nome è Bastendorf. Waco, te lo ricordi? Lo chiamavamo Bastar-do. Comandava il Pod Alpha.»

«Il nome mi piace ma io non avevo nessun contatto dei cazzo con i Pod. Uno così non si può dimenticare. Ti ha riconosciuto?»

«No, e vorrei essere ben lontano da qui prima che gli venga in mente chi sono. È tornato al campo. Se hanno perquisito l'auto e hanno trovato la ro-ba, praticamente siamo già morti. Cioè il destino che Bastardo e i suoi a-mici ti avevano riservato fin dall'inizio.»

«Hai fatto caso se i gemelli sono armati?» «Non ne ho idea. Quindi è meglio pensare che lo siano.» Si strofinò la barba lunga. «Che ne dici, li chiamiamo e ci proviamo?

L'auto è partita, quindi ce n'è uno in meno.» Poggiai la testa contro il muro in pietra. Aveva ragione. Più a lungo re-

stavamo, peggio era. «Quindi sono rimasti soltanto Hari e Kunzru che guardano Coronation Street... Le tue mani come stanno? Hanno un rigido programma di ballo o sono pronte per un po' di azione?»

«Salde come rocce.» Batté le palme come se fosse una conferma. «Allora, ce ne andiamo o no?» «Sì, ma non a modo tuo. Cazzo, è come partecipare a Mission: Impossi-

ble. Partiamo dal semplice.»

Cominciammo a tastare il muro alla ricerca di un'altra uscita o una fine-stra bloccata alla meglio. Niente. Terminato il giro ci ritrovammo alla por-ta principale. Provai a scrollarla, in alto e in basso. L'unico punto di resi-stenza era al centro, ma era solido. Ci sarebbero volute un bel po' di spalla-te ben date per sfondarla.

Appoggiai l'orecchio contro il legno, ma non sentii alcun rumore dall'al-tra parte. Passai una mano lungo il muro e urtai una pietra smossa che sporgeva. Ebbi un'illuminazione.

Afferrai la giacca di Charlie. «Ricordi il Sassarolo in Colombia? Potreb-be essere il modo giusto per uscire.»

«Cazzo, allora non hai soltanto un bel culo, bravo, ragazzo!» Ci abbassammo carponi e tastammo il terreno alla ricerca di altre pietre.

Per l'azione ne avremmo avuto bisogno di un paio a testa, grandi abbastan-za da entrare nella palma della mano.

Della dimensione di un mattone sarebbe stato l'ideale.

2 Alla fine degli anni '80 avevo preso parte insieme a Charlie all'operazio-

ne congiunta Thatcher e Reagan, denominata First Strike. Quelli del SAS intervenivano con il ruolo di consiglieri per individuare e distruggere gli impianti di trasformazione della droga nella foresta pluviale.

Pattugliavamo le zone sospette, organizzavamo OP e pianificavamo gli attacchi. Non era previsto che partecipassimo direttamente; era una patata politica troppo bollente. Il nostro ruolo era aiutare e insegnare, in genere il rapporto era uno di noi per dieci poliziotti locali della narcotici.

Ogni volta che davamo ai cattivi una bacchettata sui polsi, i poliziotti della narcotici facevano intervenire i giornalisti e i politici per celebrare l'evento; noi sparivamo sullo sfondo a mandare giù caffè. I media non ve-nivano mai informati in anticipo di un attacco. Il livello di corruzione era talmente alto che se ti azzardavi a diffondere l'avvistamento di una DMP quelli del posto sarebbero svaniti in meno del tempo necessario ad aspirare due piste di polvere che dà la carica.

Ma anche così, gli elicotteri che ci venivano a prendere sorvolavano sempre la fabbrica bersaglio e mancava poco che appendessero uno stri-scione per informare i ragazzi di Cali e Medellin che era il caso di alzare le tende.

Il giorno in cui Charlie e io avevamo incontrato il ragazzo che chiama-

vamo il Sassarolo c'era stata un'operazione finita nel solito caos. Quasi tut-ti i poliziotti masticavano foglie di coca arrotolate a zollette di zucchero, terrorizzati all'idea di essere colpiti. Al momento dell'attacco, più della me-tà non era in grado di fare altro se non abbaiare alla luna.

Di solito non facevamo molti prigionieri. I giocatori resistevano, com-battevano e a volte finivano uccisi, e la cosa ci andava più che bene. Ma in quella particolare occasione ce n'era caduto uno fra le braccia perché si era servito con eccessiva generosità della mercanzia disponibile. Era così fatto che secondo me non avrebbe saputo dire se si trovava nella giungla o nella prima spedizione di uomini su Marte.

In attesa che il circo venisse a prenderci lo avevamo sistemato in una delle «fabbriche», baracche di legno con il tetto di lamiera ondulata, dotate di lunghi trogoli dove la coca veniva trasformata in pasta. Non era una cel-la di massima sicurezza. Quella in cui ero con Charlie era meglio.

Benché fosse fuori di testa come un balcone, il prigioniero era ancora lu-cido al punto che aveva afferrato due pietre e tentato la fuga dalla baracca agli alberi, roteando le braccia come un folle e colpendo tutto quello che incontrava nel percorso.

Noi quattro del reggimento eravamo seduti davanti a una tazza di caffè, e osservavamo i poliziotti che si servivano dai frigoriferi alimentati dal ge-neratore e dai portafogli dei morti.

Il drogato ne aveva mandati a terra tre con gravi ferite alla testa prima che smettessero di inseguirlo per immobilizzarlo, e lo freddassero per sempre con una 7,62. L'insieme di sorpresa e aggressività aveva funzionato bene per lui; se non avesse avuto il cervello così andato poteva anche riu-scire a farcela.

Cercammo per un paio di secondi ma non fu una ricerca lunga. Le pareti erano in condizioni pessime, e in più punti il cemento si sbriciolava. Dopo poco avevamo due belle pietre ciascuno. Raggiunsi la porta a tastoni e saggiai la parte opposta ai cardini, cercando di immaginare il momento in cui l'avrei colpita. La spalla mi faceva già male anche solo a pensarlo.

Charlie prese posizione alla mia sinistra. «Se ti sta bene, vecchio, comincio per primo.» Allungai una mano nel

buio e lo spostai un pochino più indietro. «Ci provo tre o quattro volte, poi tocca a te. Quando siamo fuori nel cortile, se non ci fermano, saltiamo il muro e scappiamo. Se finiamo divisi, andremo tutte le sere davanti al Mar-riott, più o meno in zona fermata dell'autobus. Aspetteremo un'ora dalle ot-to alle nove. Passati tre giorni senza incontrarci, ci riteniamo liberi. D'ac-

cordo?» «D'accordo», rispose. «Adesso piantala di blaterare e dacci sotto.» «Ascolta...» Sapevo di correre il rischio di diventare un sentimentale, ma

volevo confermare una cosa al vecchio babbeo. «Prima che la situazione vada fuori controllo, voglio dirti... grazie per essere restato con me. Sei stato un fesso a non salire su quell'aereo, ma grazie comunque.»

«Vuoi andare a pari con quello che ti ho detto al cimitero? Lo so, sono un bravo ragazzo, ma adesso chiudi il becco e datti da fare, prima che ti venga in mente di convocare anche Hari e Kunzru per un abbraccio di gruppo.»

Con il pugno chiuso toccai il lato destro della porta. Corrispondeva a un passo. Arretrai di altri due, prestando attenzione a restare perpendicolare. L'ultima cosa che volevo era andare a sbattere contro il muro o colpire la porta di spigolo. Entrambe le cose avrebbero fatto sganasciare Charlie, ma probabilmente mi sarei fratturato la spalla.

Due o tre respiri profondi, poi abbassai la spalla destra e caricai. Il rumo-re dell'urto fu così forte che probabilmente l'avevano sentito anche a Tbili-si. Barcollai. Era come se fossi stato investito da un'auto.

Charlie urlò. «Avanti, continua! Avanti, avanti. Troppo rumore, piantala di fare la donnetta.»

Feci altri tre passi indietro, chiusi gli occhi e caricai di nuovo. Un male cane, ma la porta cominciava a cedere.

Charlie mi era addosso. M'inondò di saliva. «E ancora! Ancora! Avanti! Continua!»

Tre passi indietro e bang. La porta si spostò ancora un po' e io crollai a terra dolorante. Rotolai verso destra in modo da lasciargli libero il percor-so. «Tutta tua, vai!»

Ci si schiantò contro e subito la porta si aprì. I cardini avevano ceduto prima della serratura.

Mi alzai e lo seguii, l'adrenalina in circolo non mi faceva avvertire il do-lore alla spalla e alla schiena. Ci trovavamo più o meno fra i cespugli che delimitavano il cortile.

Due lanterne ondeggiarono nel buio. Hari e Kunzru erano schizzati fuori dalla stanza degli interrogatori.

Li affrontai di corsa agitando le mani come un indemoniato. I georgiani si avvicinarono. Persi di vista Charlie quando si avventò sul primo. Il se-condo si beccò il contenuto della mia mano sinistra contro il collo o sulla clavicola, non lo sapevo e me ne sbattevo. Urlò quando la pietra della de-

stra gli frantumò gli occhiali sulla faccia. Mollò la lampada e io lo colpii ancora in mezzo alle spalle mentre crollava nel fango. Continuai ad agitare le braccia. Dovevo farlo, dovevo colpire e fare male. Mulinavo come un pugile sotto anfetamina.

Una mano mi afferrò una gamba, mi liberai con un calcio e gli affondai entrambe le pietre sul collo. La lampada rotolò via e proiettò ombre in-quietanti sul muro.

«Cazzo, Nick...» Charlie stava male. Era a terra accanto a un corpo privo di sensi e cercava di rialzarsi, ma la

gamba sinistra non lo reggeva. Non c'era sangue, ma era fottuta. Il corpo sotto di me si dibatteva in agonia, troppo preoccupato per le sue ferite per pensare a noi.

«Controlla se il tuo ha le chiavi! Le chiavi! Chiavi! Soldi, qualsiasi co-sa», urlai a Charlie.

Frugai nelle tasche del giubbotto del mio e trovai un portafogli, un do-cumento d'identità con fotografia, fondina vuota alla cintura, spiccioli e chiavi di casa. Charlie fu più fortunato. «Trovate! Trovate!»

Presi la lampada e i contanti e tastai il terreno alla ricerca della pistola. Era un revolver la cui data di scadenza era passata da un pezzo, ma in gra-do di fare ancora del male. Lo infilai nella giacca e mi precipitai da Char-lie. Stava cercando di scavalcare il muro.

«Le chiavi, dove sono le chiavi?» Le presi, mi passai il suo braccio sinistro attorno alla spalla e lo trascinai

nella stanza degli interrogatori. Era chiaro che avevamo interrotto una seratina intima. La radio trasmet-

teva la Hit parade georgiana, e due tazze con caffè fumante erano sul tavo-lo accanto a una batteria da auto e relativi cavi con morsetti. Non ci voleva troppa fantasia per immaginare come i due avevano intenzione di divertirsi in seguito.

Charlie notò le tazze. «Un attimo, aspetta.» Versò il caffè nel termos vuoto e raggiungemmo spediti la Lada familiare. Non era chiusa a chiave.

Aiutai Charlie a salire davanti, poi presi posto al volante. Effettuai subi-to la manovra per immettermi nel vialetto sterrato.

Charlie ansimava. Aprì il vano portaoggetti alla ricerca di qualcosa che potesse servirci.

Lo guardai. «Cos'è successo?» Charlie rise, una risata niente affatto convincente. «Sono scivolato sulle

pietre. Non riesco a crederci. La caviglia, la stronza, si è slogata.» «Poi la sistemiamo. Soldi? Pistola?» «Tutti e due.» Arricciò il naso. «Cazzo, odio la puzza di cane bagnato.»

3 Raggiunto l'asfalto piantai il piede a terra. Il motore della Lada fece un

rumore d'inferno prima di decidersi a rispondere. Alla fine la lancetta del tachimetro si mosse. Non mi sembrava di andare più veloce ma contribuì a farci sentire meglio.

Charlie accese la luce per controllare i tagli alla mano sinistra. Eviden-temente la pietra si era rotta e le schegge gli erano penetrate nella palma, ma non poteva fare altro che tenerla premuta contro la gamba per arrestare il sangue. Usando la destra aprì il portafogli che gli avevo lanciato e tirò fuori i soldi e una carta d'identità plastificata.

«Guarda che faccia da stronzo strafatto.» Il documento apparteneva a Hari Tugusi. Una dichiarazione in graffette,

russo e inglese attestava che era accreditato dal governo della Georgia. Charlie abbassò il finestrino e lanciò il portafogli di Hari nel buio della

notte. Quello di Kunzru seguì a ruota e poi ci dedicammo al caffè, cercan-do di non rovesciarlo mentre la Lada sobbalzava sulla strada.

«Hai visto la batteria?» «Sì.» Non volevo pensarci troppo. «Non ti sarebbe piaciuto che ti attaccassero i cavi ai coglioni, o sba-

glio?» «No.» «Con i miei non ci sarebbero mai riusciti. Le pinze erano troppo picco-

le.» Gli sorrisi. «Non c'è da stare allegri comunque. I due non erano lì per

scherzare. Se avessero potuto fare a modo loro non avresti più visto Hazel e i nipotini.»

«Può non essere il modo migliore, amico mio.» Scrollò le spalle. «Ma io sono già morto comunque, ricordi? Per te è diverso.» Fece una pausa. «Pe-rò non perdere tempo a sognare la tua tedeschina testa quadrata, concentra-ti per trovare il modo di passare il confine. È la tua occasione di dimostrare al mondo quello che hai imparato dal maestro.»

«Il fatto è che...» Esitai. «Sono preoccupato. L'ho pensata molto, ed è la prima volta che mi capita di provare una sensazione del genere. Tu invece

l'hai avuta per tutta la vita.» Si dimenò sul sedile. «Porca puttana, vuoi forse dire che finalmente stai

pensando di diventare un essere umano?» «Ma tu come hai fatto? Sai di cosa parlo. Tipo 'Che cazzo ci faccio qui,

mentre preferirei essere a casa a fare qualsiasi cosa, falciare il prato, cerca-re il gatto, cose così'.»

«Il trucco è riuscire a mantenere l'equilibrio. E per farlo ho dovuto in-contrare qualcuno come Hazel, una persona disponibile a capire cosa frul-lava nella mia testa dura, e pronta a conviverci. Ma è un lavoro a quattro mani, ed è anche per questo che adesso è incazzata nera con me. Dopo tan-ti anni, pensava di aver fatto abbastanza, almeno quanto suo marito.»

Guardò la mano sanguinante. «Ma quel dannato stallone nel recinto, Nick... Mi ha fatto pensare. E con queste stronze che hanno cominciato a comportarsi come se avessero una vita propria... ecco, ho dovuto fare sen-za di lei, questa volta. Se sai che capiscono quello che sta accadendo, an-che se non approvano, non c'è da preoccuparsi per le Hazel del mondo quando sei nella merda. Sai che si fidano delle tue capacità di usare il cer-vello per cavarti fuori dai guai e tornare a casa...» Non terminò la frase. «Ti sembra che abbia senso?»

Annuii. «Ritengo di sì.» «Bene. Ricordati di prenderti un appunto, ragazzo. Un'altra cosa che hai

imparato dall'esperto.» Dopo circa venti minuti di viaggio lungo il fondovalle, all'inizio della sa-

lita, la Lada cominciò a gemere. In prossimità della vetta, tolsi gli abba-glianti e avanzai piano con la speranza di non trovarmi davanti un VCP in agguato nell'oscurità sotto di noi.

Peggio. Molto peggio. A meno di un chilometro c'era un largo raggrup-pamento di luci americane che illuminavano le file di tende da venti uomi-ni e i Portakabin. Pochi chilometri più avanti e più in alto c'era un altro gruppo di luci. Le luci dei russi.

«Vasiani», borbottai. «Se non altro, almeno sappiamo dove ci trovia-mo.»

Charlie staccò gli occhi dalla ferita. «Il piano Turchia è rimandato. Dob-biamo recuperare la roba.» Accennò alle luci. «Ascolta, sarebbe un suici-dio provare a entrare là dentro per cercare il veicolo di servizio. Ci pen-siamo domattina. Tanto sappiamo dove sarà. E noi saremo lì ad aspettar-lo.»

«Sei davvero convinto che lo rimetteranno per strada?»

«Certo, quell'affare durerà più di me. Chiunque si occupi dei trasporti laggiù avrà senz'altro sostituito gli pneumatici e dato una mano di pittura ai cerchioni. E dai, siamo nell'esercito, ricordi? Perché tenerlo fermo, per la scientifica?»

Aveva ragione. Era il veicolo di servizio, niente di più. Ogni mezzo era destinato a qualcosa, e se aveva fatto un po' di fuoristrada dov'era il pro-blema? Erano fatti per quello.

Charlie mi parlò a occhi bassi. «Bastardo ti ha detto che sarebbe partito domani?»

«Sì, tanto per parlare, credo.» «Chi lo sa. Io vorrei portare via i coglioni in fretta se avessi perso il con-

trollo dei documenti che si trovano nella 110, non lo faresti anche tu?» Si voltò a guardarmi e riuscii a distinguergli una porzione di viso alla lu-

ce ambientale della valle. «Scoppierà un bel casino, motivo in più per an-dare all'aeroporto.»

All'interno del campo due o tre coppie di fari vennero accese e comin-ciarono a muoversi. Un veicolo si sganciò dal gruppo e si diresse verso i cancelli principali.

«Quindi i gemelli avevano i telefoni, mio caro Charlie. Dobbiamo supe-rare il campo dei russi o il VCP. O ti va di camminare? Anche tu andresti più veloce di quest'affare.»

Charlie posò le mani contro il cruscotto, che sporcò di sangue, e comin-ciò a dondolarsi avanti e indietro per far andare più veloce la Lada.

Vide la mia espressione. «Russi. Dobbiamo farcela. Non ho nessuna in-tenzione di sobbalzare sulle colline per tutta la notte o di incontrare la re-cluta che ho strapazzato.»

Abbassai il piede. L'aumento di velocità fu così debole che sembrava quasi che le spinte di Charlie servissero a qualcosa.

«Ecco cosa ci aspetta, far andare con fierezza una Lada dove non è mai stata prima.»

Scalai in terza, in cerca di un segno di ripresa. Il motore ronzò, ma nien-te di più. Spostai la leva del cambio di nuovo in quarta.

Avevo gli occhi fuori dalle orbite per cercare di individuare le buche. I fari della Lada, anche gli abbaglianti, non erano di nessun aiuto, illumina-vano sì e no appena un metro di asfalto davanti a noi. La deviazione sulla destra si avvicinava. Le luci che avevo visto scendevano veloci lungo la strada verso l'incrocio.

Se non fossimo riusciti a passare per primi, l'altra auto ci avrebbe bloc-

cato. «Avanti, continua!» Charlie si dimenava come in preda a una crisi. Non potevo fare altro se non mantenere la macchina in carreggiata e

spingere il piede a fondo. Quando raggiungemmo l'incrocio il motore era sul punto del collasso. Li

avevamo molto vicini, sulla destra, a circa quattrocento metri di distanza. Fra schizzi di saliva e sospiri Charlie non smetteva di incitare. «Bene

così, ragazzo, dacci sotto.» Affrontammo un'altra salita senza dubbio troppo ripida per il motore, vi-

sti i lamenti che lanciava. Tutta l'auto sussultava mentre sferragliavamo sull'asfalto irregolare, e io

giravo il volante da una parte all'altra nel tentativo di schivare i crateri. «Bene così, ragazzo, continua...» All'incrocio gli altri fari svoltarono all'inseguimento. Non ci avrebbero

messo molto a raggiungerci. Le luci del campo della Federazione erano a meno di un chilometro.

Scalai la marcia per aumentare i giri del motore di quella cazzo di macchi-na; avevo la faccia contro il parabrezza per riuscire a mantenere la strada.

Charlie guardava dietro. «Fra un attimo l'avremo addosso. Spingi quel piede.»

Come se avessi bisogno che lo dicesse. In quarta. Il motore fece un rumore incredibile. I lampioni dei russi erano più vicini ma la salita più ripida. Perdemmo velocità. In terza. Un attimo di ripresa e poi di nuovo piano. In seconda. Fummo sbalzati in avanti e il motore emise un lungo lamen-

to. «È un Pajero, Nick! Dev'essere Bastardo!» E mentre lo diceva i fari del 4x4 illuminarono l'abitacolo della Lada e

subimmo il primo attacco. Niente male, ci spinse in su. «È davvero Bastardo? Sei sicuro?» Charlie era sempre girato indietro. «Chi se ne sbatte? Schiaccia quel pe-

dale!» Un altro colpo dietro. Un altro sobbalzo in avanti. Se era Bastardo, gli

elicotteri non sarebbero intervenuti. Tutto il casino era dovuto al veicolo di servizio e non al fascicolo.

I russi non erano lontani, forse quattrocento metri. Il colpo successivo fu quasi contro la fiancata e la Lada slittò a destra. Il retro sbandò e io controsterzai come un pazzo. «Nick, sta rallentando.

Sta rallentando. Ben fatto, ragazzo, cerca solo di andare dritto.» Stavamo per raggiungere il confine del campo dei russi. Controllai il retrovisore. Charlie aveva ragione, i fari erano in ritirata.

Chiunque fosse, aveva desistito. Charlie si voltò per l'ultima volta poi se-dette comodo nel sedile.

La bandiera della Federazione sventolava alta sopra il cancello principa-le. Quattro giovani sentinelle si agitarono nelle postazioni e si prepararono per darci il tradizionale benvenuto russo. Indossavano la mimetica, gli el-metti e i fucili d'assalto AK a tracolla contro il torace. Ci osservarono sba-lorditi mentre li superavamo salutando con gesti cordiali.

«Forse avremmo dovuto fermarci», disse Charlie ridendo. «Forse uno dei ragazzi era pronto a farci un'offerta per la macchina.»

«Puoi sempre lasciargliela in eredità, stupido babbeo.» Le luci dei due accampamenti svanirono nel buio mentre scendevamo

dall'altro lato. «Prima ti riporto indietro e meglio è.»

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Lunedì 2 maggio 2005 Durante la prima ora dall'alba la fila dei taxi davanti al terminal non era

avanzata di molto. Quando il primo finalmente partiva gli altri autisti non si davano pena di accendere i motori, si limitavano a infilare dentro la testa dal finestrino e a spingere a braccia il loro mezzo più avanti.

Dall'altro lato della strada tenevo d'occhio l'ingresso principale. Mi tro-vavo nel piccolo parcheggio pieno di buche, dietro i tre gazebo, seduto su una sporgenza di cemento fra i cassonetti che traboccavano di spazzatura e quattro vecchi autobus abbandonati. Ero adeguato all'ambiente. Indossavo un berretto di lana nero che avevo trovato nel baule della Lada e che dalla puzza doveva essere stato indossato da un segugio fradicio. I lunghi co-priorecchie me ne davano anche l'aspetto, ma se non altro nascondevano buona parte della faccia.

Auto biancazzurre passavano a intervalli di pochi minuti e in quel mo-mento ce n'era una ferma davanti ai gazebo. I poliziotti a bordo fumavano e bevevano il caffè.

Charlie e io ci eravamo infilati nella tana del lupo, ma non c'era altro si-stema. L'unica possibilità che avevamo di recuperare il documento e la re-gistrazione era riuscire a infilarci nella 110. C'erano solo due posti dove

poteva parcheggiare durante l'attività dell'aeroporto, al campo o davanti al terminal.

Avremmo potuto cercare di fermarlo lungo la strada ma le SOP per i veicoli militari non prevedevano soste, e dopo il colpo del giorno prima era facile che tutti gli autisti fossero in codice di allerta rosso. Un dirotta-mento era impraticabile, necessita di uno spazio aperto per poter individua-re l'auto prima di procedere al blocco nel buio. Il piano che avevamo mes-so a punto non era il massimo, ma era l'unico possibile.

Controllai il Baby-G. Erano da poco passate le otto. Dieci minuti prima Charlie aveva raggiunto zoppicando il terminal e aveva preso posizione. Doveva agire lui allo scoperto perché non potevo correre il rischio di esse-re riconosciuto.

Era molto semplice: l'auto arrivava per lasciare o prendere qualcuno; Charlie l'avrebbe vista attraverso il vetro, sarebbe uscito, ne avrebbe preso possesso e sarebbe venuto da me nel parcheggio; io sarei saltato a bordo e poi via, verso il confine. Ma questa volta non si sarebbe messo a sbraitare una serie di ordini, avrebbe fatto affidamento soltanto sulla pistola, una piccola Makarov 9mm.

Se non si verificavano ritardi tutti gli aerei sarebbero decollati entro mezzogiorno. Se Bastardo si faceva vivo per qualche volo sarebbe stato un bonus in più, anche se la 110 non compariva.

Avevamo passato in rassegna tutte le possibilità. Cosa sarebbe successo se lui fosse arrivato prima della 110? L'avremmo trattenuto finché l'auto non fosse arrivata e usato per recuperare la roba. E se fosse giunto dopo la 110? Saremmo già andati via, a meno che Charlie non fosse riuscito a sco-prire su che aereo aveva prenotato.

Insomma, dovevamo far fronte a qualsiasi situazione, altrimenti ci toc-cava rimanere lì per una settimana a vagliare le migliaia di opzioni. L'uni-ca cosa era andare avanti e portare via i coglioni.

La mia pistola era russa e aveva l'aria di aver fatto la guerra di Crimea. Ma nel cilindro c'erano ancora sette grossi proiettili calibro 7,62 e questo mi rendeva felice. E, visto che il nostro piano puzzava peggio delle coperte dei cani, era l'unica cosa di cui rallegrarmi.

Mi appoggiai contro un cassonetto e allungai le gambe sotto quello che avevo davanti. I ragazzi della biancazzurra avevano finito di bere il caffè e se ne andarono. Altri due poliziotti si erano appostati all'esterno del terminal. Dopo l'incubo del giorno prima, erano stati tutti informati.

Avevamo abbandonato la Lada in centro alle cinque e ci eravamo nasco-

sti per attendere che la città si risvegliasse prima di salire su un taxi. Hari e Kunzru, in due, avevano nel portafogli centoventisette lari, per un contro-valore di settanta dollari. Il tassista ne aveva intascati dieci e Charlie aveva la custodia dei rimanenti. Gli servivano per ungere una o due persone del check-in per scoprire se un suo carissimo amico, Jimmy Bastendorf, parti-va quel giorno. Charlie avrebbe tanto voluto organizzargli una festa di compleanno a sorpresa al suo ritorno a casa ma non sapeva con esattezza quando partiva. Oggi, o forse domani? In una città così povera anche con pochi spiccioli puoi ottenere molto.

Un autobus giallo, coperto di ruggine e sporcizia, si fermò davanti al terminal; dal tubo di scappamento usciva un fumo da diesel così denso che si poteva tagliare col coltello. Uno o due passeggeri portavano le valigie, ma gli altri avevano l'aria di lavorare nell'aeroporto che cominciava a sve-gliarsi.

Nel fumo vidi Charlie che attraversava barcollando la strada come Long John Silver. Quando ci eravamo separati la mano stava bene, era soltanto piena di tagli e infiammata, ma la caviglia si era gonfiata come un pallone benché avessi cercato di fasciarla con due strisce di coperta.

Aveva in mano un quotidiano. «Abbiamo Bastardo, va a Vienna.» Lo lanciò verso di me, cadde fra i due cassonetti mentre lui proseguiva. «Cat-tive notizie.»

Adesso avrebbe dovuto fare un giro intero, forse fingere di cercare qual-cosa nel parcheggio. Nessuno esce da un terminal, attraversa la strada per poi tornare indietro dieci secondi dopo.

Strisciai fino al giornale e poi di nuovo alla postazione da cui potevo controllare eventuali casini. Se dieci Passat biancazzurre avessero inchio-dato davanti al terminal e avessero preso Charlie, io volevo saperlo.

Mi aveva buttato una copia del Georgian Times. All'interno c'era una ta-voletta di cioccolata formato famiglia. Tolsi la stagnola e me ne misi in bocca un pezzo bello grosso. Ma quando guardai la prima pagina mi si seccò la gola.

Una foto sgranata del cortile di fronte alla casa di Baz occupava gran parte della pagina. GIUSTIZIATO IL SANTO strillava il titolo.

L'articolo continuava con lo stesso tono, deprecava il crudele assassinio del pubblico amministratore più onesto e incorruttibile che il Paese avesse mai avuto, definito il Santo. Non assomigliava per niente al ritratto che ne aveva fatto Bastardo, ma non ne fui sorpreso.

«Il pilastro su cui poggiava la giustizia e l'onestà è stato spietatamente

abbattuto», denunciava. «Chi sono gli autori dell'efferato delitto? Il dito dei sospetti può puntare su molti obiettivi, ognuno dei quali dovrebbe esse-re colpito nella nostra nazione come un cancro.»

Per settimane sul muro davanti alla casa del santo Zurab Bazgadze erano comparse scritte minacciose che lo invitavano a desistere dalla crociata contro la corruzione a tutti i livelli del governo, scriveva il giornalista. «Nel nostro disgraziato Paese sono molte le parole diventate sinonimo di corruzione, parole come ministro e militante, commercio e privatizzazione, oleodotto e petrolio.» A quanto pareva Baz era una spina nel fianco per tutti.

Charlie non era ancora rientrato dalla sua claudicante passeggiata. La vena sul collo mi pulsava mentre continuavo a leggere.

Gli altri due cadaveri ritrovati a casa di Baz erano stati identificati come membri della banda di militanti responsabili del recente assedio a Kazbegi. Ma chi erano gli altri due uomini ripresi dalle CCTV, uno con la maschera e l'altro senza? Avevano loro il memoriale di denuncia della crescente cor-ruzione che affliggeva la Georgia, che il Santo era pronto a firmare davanti alle telecamere di 60 minuti?

Un poliziotto aveva rivelato che la cassaforte a casa di Baz era stata tro-vata aperta e che la CCTV mostrava un uomo con un passamontagna che prendeva un fascicolo dalla tasca del cadavere di un militante. Se si tratta-va del memoriale che 60 minuti era in attesa di ricevere perché fosse reso pubblico avrebbe messo in serio imbarazzo il governo, in quanto il pro-gramma andava in onda la sera prima del previsto arrivo del presidente George W. Bush.

Rimasi seduto a mangiare la cioccolata, la mente al lavoro. Un uomo giusto era stato eliminato, fin qui niente di nuovo, ma cosa ci facevano i militanti in casa di Baz?

Tuttavia il peggio doveva ancora arrivare. Le pagine interne erano piene di schemi e fotografie.

TRACCIA DEL DELITTO: RITROVATA L'AUTO DEL SANTO IN UN VICOLO DI TBILISI - AGGHIACCIANTE IL CONTENUTO DEL BAGAGLIAIO.

Mi avrebbe fatto sorridere se subito sotto non ci fosse stato il mio iden-tikit.

C'era anche la fotografia dell'Audi, con il baule aperto, sul sentiero. Dei testimoni l'avevano vista al cimitero dove due uomini avevano caricato un cadavere nel bagagliaio. Oltre a questo, apparentemente, brancolavano nel

buio. Avevo letto abbastanza. Piegai il quotidiano e ingoiai gli ultimi quattro

quadretti di cioccolata. La 110 doveva sbrigarsi ad arrivare.

5 Mentre Charlie rientrava nel terminal, un Pajero bicolore, argento in

basso e blu scuro in alto, transitò veloce davanti all'ingresso principale. Una persona a bordo. Era troppo lontano perché riuscissi a identificare il conducente, ma l'enorme sagoma al volante mi obbligò a non perderlo di vista mentre superava i tre gazebo.

Strisciai fra i cassonetti e lo vidi svoltare nel parcheggio. Il Pajero sob-balzò e ondeggiò fra le buche e raggiunse il punto più vicino al terminal fra gli autobus scassati. Il parafango di sinistra era ammaccato e sospettavo di sapere il perché.

Sparì dietro gli autobus e si confuse nel traffico. Mi voltai per controlla-re il terminal. Ancora nessun segno della 110.

Sentii, dietro gli autobus, il rumore di una portiera che si chiudeva. Per raggiungere il terminal, Bastardo avrebbe dovuto camminare per un

centinaio di metri allo scoperto. In linea retta doveva passare vicino ai cas-sonetti. Sarebbe stato un bel guaio se la 110 fosse arrivata in quel momen-to e Charlie avesse messo in atto il piano A. L'autista sarebbe dovuto veni-re con noi, non potevamo lasciare nessuno libero per il Paese.

Zero tempo per pensare. Bastardo ondeggiava verso il terminal, indos-sando l'uniforme degli uomini d'affari americani che hanno superato i cin-quanta. Tirava un trolley in alluminio. Qualsiasi cosa contenessero le carte, lui era nei casini. Se già era stato terribile perdere il controllo sul fascicolo sabato sera, ora che le registrazioni degli incontri a Istanbul e al Marriott erano in nostro possesso gli restava un'unica cosa da fare. La stessa che vo-levamo anche noi: portare via i coglioni. Secondo me non gli andava di fa-re da protagonista in 60 minuti.

Attesi che superasse il retro dei tre gazebo, poi strisciai fra i cassonetti e mi portai alle sue spalle.

Un rotolo di ciccia tremolava sopra il collo della camicia. Abbassai il berretto e lo seguii.

«Ohi, Bastardo!» Gli sorrisi mentre mi avvicinavo, ma rimasi a distanza di sicurezza.

Si rabbuiò. «Come cazzo fai a sapere il...» «Ho la pistola di Kunzru e voglio i nostri passaporti.» Rovesciò la testa all'indietro e rise. Forse trovava divertente il berretto. «I passaporti, li voglio.» «Fottiti! Adesso mi metto a urlare e tu sei storia, stronzo. Io cammino.

Cosa cazzo pensi di fare, estrarre la pistola e farmi fuori qui, di fronte al terminal?»

«Sì.» Non si fanno mai minacce a vuoto e Bastardo lo sapeva. E vedeva la mia

mano pronta a scattare. Gonfiò le narici, respirò a fondo. «Li ho bruciati», disse con aria soddi-

sfatta. Oltre la spalla di Bastardo vidi una 110 che si fermava davanti al

terminal, le portiere posteriori già aperte. Da un secondo all'altro Charlie sarebbe uscito. Non sapeva ancora che avevamo il Pajero e che non c'era bisogno di soluzioni estreme. Non doveva fare altro che mettere in scena il suo bluff per avere accesso ai sedili dietro e recuperare la roba.

Bastardo poteva avere i passaporti con sé, oppure no. Lo avremmo sco-perto in fretta. «Adesso ti volti e raggiungi la 110.»

«La cosa?» «La Range Rover. Muoviti.» Lo affiancai a sinistra, sempre all'erta per beccare Charlie. Le auto e gli

autobus che passavano mi bloccavano temporaneamente la visuale. Bastardo attaccò a parlare con troppa cordialità per un uomo sprofondato

nella merda. «Torniamo in città? Hai intenzione di costituirti o semplice-mente adori rubare i veicoli militari?»

Accompagnati dal rumore delle ruote del suo trolley raggiungemmo la strada. Due uomini uscirono dalla 110 con le valigie in mano. Charlie sa-rebbe sbucato appena fossero stati ai banchi del check-in.

«Muovi il culo. Adesso vai dall'autista e gli spieghi che qualche giorno fa eri in quel veicolo. Poi sollevi i sedili dietro dicendogli che hai perso qualcosa. Non me ne fotte un cazzo di quello che dirai, devi solo prendere la roba che c'è sotto.»

Si fermò di botto. «Stronzo!» Lo spinsi e riprendemmo a camminare, tenendo sempre gli occhi fissi

sulle porte del terminal per individuare Charlie. «Se dici qualcosa all'auti-sta o combini qualche casino, io ti sparo. Capito? Non ho niente da perde-re.»

«Fottiti.» «La considero un'affermazione.» Charlie uscì dal terminal. Teneva lo sguardo incollato sulla 110 che si

trovava pochi metri davanti a lui. Attraversammo la strada e vidi la targa anteriore. HF 51 KN. L'autista

era un altro ma l'auto era la stessa, soltanto che aveva gli pneumatici nuo-vi.

Charlie ci individuò mentre stava per raggiungere l'autista. Io scossi la testa e lui tirò dritto sempre claudicando.

Due poliziotti uscirono dal terminal, uno dei due picchiettava un pac-chetto di sigarette per farle uscire.

Mentre si avvicinavano, usando un unico accendino, vidi che Bastardo valutava la situazione. Spostò lo sguardo da loro a me.

Non potevo girare sui tacchi, non potevo nascondere il viso. Avrei attira-to la loro attenzione.

'Fanculo, se mi riconoscevano, non potevo farci niente. Smisi di pensare. L'unica è muoversi in automatico. I poliziotti andarono oltre e noi superammo Charlie in attesa che un au-

tobus si fermasse per consentirgli di raggiungere i chioschi. Bastardo mi guardò. «Devo recuperare il portafogli, va bene?» Mi fermai a un metro di distanza mentre lui si avvicinava al finestrino

dell'autista. Cominciò a parlare prima ancora che fosse abbassato del tutto. I due poliziotti si erano fermati vicino all'ingresso del terminal e si gu-

stavano la pausa per la sigaretta appoggiati contro il muro. Bastardo piazzò davanti al muso dell'autista il tesserino di riconoscimen-

to. Capivo che stava parlando perché la ciccia sopra il colletto della cami-cia sobbalzava.

Mi concentrai sull'autista. Giovane, ispanico. E soprattutto l'espressione del suo viso diceva che credeva alle parole di Bastardo.

Bastardo raggiunse la portiera posteriore della 110. L'ispanico si voltò per aiutarlo a sollevare i sedili.

Lui riemerse con la rivista in mano e picchiò sul vetro per salutarlo. Ci voltammo e tornammo da dove eravamo venuti. I poliziotti non si erano mossi, ma avevano smesso di parlare e fissare Bastardo.

Tesi una mano per la rivista. Bastardo esitò. «Posso prendere il mio volo, adesso? Vi avevo promesso

che vi avrei lasciati liberi se mi aveste consegnato la roba.» «Continua a camminare. Abbiamo altri progetti per te.»

Sentii ridere, e con la coda dell'occhio vidi uno dei due poliziotti che si stringeva la pelle sul collo e la faceva traballare.

Un secondo o due dopo, cominciò a piovere.

6 Nessuno aprì bocca mentre portavo il Pajero fuori dalla zona dell'aero-

porto. L'atmosfera era pesante. Io guidavo, Bastardo era accanto a me sul sedile anteriore. Sapeva che tenevo la pistola fra le gambe, dove lui non poteva arrivare, però io sì, e che Charlie gli puntava l'altra alla schiena, ma era impossibile prevedere cosa avrebbe potuto fare se gliene fosse capitata l'occasione. Al posto suo, sarei fuggito appena possibile.

Spostai la leva del riscaldamento al massimo per far evaporare la con-densa. Anche se il tragitto per tornare al 4x4 era stato breve, eravamo zup-pi.

Appena entrati avevo perquisito Bastardo, ma non aveva con sé i passa-porti. Sul sedile dietro, Charlie stava svuotando la valigia.

Dopo aver azionato i tergicristalli avevo lanciato a Charlie la cartina che era nella tasca laterale. «Dove vado?»

L'aveva aperta. «Cazzo, molto meglio di quella della 110. Il confine del-la Turchia è soltanto a duecento chilometri.»

«Quattro o cinque ore, dunque, o dobbiamo andare fuori strada?» Scosse la testa. «In linea d'aria. Ma secondo me la strada migliore è an-

dare a sud finché incontriamo l'oleodotto per poi seguirlo in direzione sud-ovest.»

Era una buona idea. Cosa poteva esserci di più normale di tre occidentali che si aggirano da quelle parti con il documento ufficiale de! governo che il signor Bastendorf aveva nel portafogli? Sembrava che qualcuno, con un timbro in mano, fosse uscito di testa e poi aggiungesse, in lingua-graffette e in inglese, che era ospite gradito nella nazione, e che doveva essergli ga-rantito ogni tipo di assistenza necessaria al disbrigo dell'importantissimo lavoro affidatogli dal governo. Il regalo inatteso erano i quattrocentocin-quanta dollari che aveva messo via per rimpinzarsi all'arrivo a Vienna.

Adesso che ero su un mezzo di trasporto mi sentivo più al sicuro anche se sapevo che si trattava soltanto di un'illusione. Se avessimo incontrato un posto di blocco avremmo dovuto fingere alla grande e contare su Bastardo per uscirne. Le nostre due pistole dovevano riuscire a convincerlo. E poi, era una grandissima testa di cazzo ma non era scemo. Era di quelli che so-

pravvivono. Bastardo tossì, con la bocca piena di catarro abbassò il finestrino e sputò

nei dieci centimetri di spazio. «Non ricordo di averti autorizzato.» Portai la mano sulla pistola. «Non ti

muovere se non te lo dico io. Intesi?» Bastardo sbuffo. «Pensi di avermi spaventato? Mia mamma ci riusciva

meglio.» Mi concentrai sulla strada che si vedeva appena attraverso la cortina di

pioggia così fitta da sembrare un muro. L'idea che mi ero fatto era la seguente: Bastardo non faceva più parte

dell'FBI o quantomeno non risultava dai suoi documenti. Charlie aveva finito di esaminare il contenuto del trolley. «Nessun tele-

fono neppure qui dentro.» Bastardo guardava fisso in avanti. «Ve l'ho detto che non ce l'ho. A cosa

cazzo mi servirebbe? Gli aggeggi del posto non raggiungono gli Stati Uniti o sbaglio?»

«Andavi a casa? E cosa è successo alle señoritas ambrate?» «Vai a farti fottere.» Anche a passo d'uomo, avremmo raggiunto il confine molto prima del

tramonto, cosa che ci avrebbe consentito di cercare un buon punto per at-traversarlo. Non glielo avrei detto subito, ma Bastardo veniva con noi. In quel periodo, per l'America, la Georgia era dalla parte dei buoni ed era probabile che avesse ogni sorta di accordi di collaborazione tra le forze di polizia. Seguendo il credo di Bush - «Se non sei con noi, sei contro di noi» - ogni nemico della Georgia era anche nemico dell'America e in quell'esat-to momento io ero il primo della lista dei ricercati di Tbilisi.

Aggirammo la città da ovest e presto la nuovissima strada a due carreg-giate si trasformò in una più familiare piena di buche. Ai margini, sotto gli alberi o sotto tettoie di plastica per proteggersi dalla pioggia, c'erano dei vecchi dietro i tavoli che cercavano di vendere bottiglioni e bottiglie di o-lio per il motore.

Bastardo ghignò. «Quella robaccia ha già girato in ogni camion come minimo sedici volte.»

Charlie e io non replicammo. Bastardo stava cercando di tirarci dalla sua. Prima aveva provato con la violenza e adesso cercava di fare lo spiri-toso e l'amicone.

La strada che avevamo davanti era fiancheggiata da giganteschi cubi di cemento armato con il ferro arrugginito della struttura che spuntava dall'in-

tonaco scrostato. Il rosa e l'arancio non coprivano le facciate da queste par-ti. Alle finestre era appeso il bucato che subiva un secondo risciacquo.

Bastardo tornò all'attacco. «Sono pronto a scommettere che questo viale non rientrava nel percorso di Bush.»

Continuammo a ignorarlo. Se credeva che alla fine del viaggio ci sa-remmo scambiati gli spazzolini da denti, stava ricevendo la frequenza sba-gliata.

Avanzai a zigzag fra le pozzanghere per un chilometro o due e poi vidi il cartello BORJOMI, 151 CHILOMETRI.

Mi sentii subito meglio, l'oleodotto attraversava Borjomi. Nuvoloni neri coprivano la sommità della collina e io accesi i fari. Non

eravamo gli unici sulla strada e tutti partecipavamo allo slalom gigante fra le buche. Avevo la quasi certezza che presto nella foschia ci sarebbe stato un incidente. Buche grandi quanto crateri di bombe avevano avuto la me-glio su un paio di Lada scassate. Hanno ancora le candele a vista, mi aveva spiegato Charlie, il professore, e in presenza di umido ti piantano in asso alla velocità del fulmine.

Guardai ancora Charlie. Pareva che stesse bene, non tremava e se ne sta-va seduto a guardare fuori dal finestrino. Di lì a quattro o cinque ore l'avrei messo sull'aereo che ci riportava a casa.

7

L'aria condizionata riusciva in qualche modo a tenere pulito l'interno del

parabrezza. Avevamo abbandonato da un pezzo la periferia e ci trovavamo sulla collina avvolta dalla foschia quando l'asfalto cessò di colpo e la stra-da diventò sterrata.

Dal sedile dietro, Charlie parlò all'improvviso. «Come stanno Hari e Kunzru?»

Bastardo scrollò le spalle. «E come cazzo faccio a saperlo? Mi hanno te-lefonato, almeno uno di loro aveva il fiato per farlo. Stavo tornando indie-tro quando vi ho visto. Comunque, sono cazzi loro. Non sono responsabile del loro benessere.»

La foschia si diradò lungo i tornanti in discesa dall'altro lato della mon-tagna. In basso, un ampio fiume ricco d'acqua veloce risplendeva ai raggi del sole. Se non fosse stato per la netta cicatrice marrone scuro che taglia-va il verde rigoglioso della valle, sembrava di essere tornati nel Paese di Tutti insieme appassionatamente.

Bastardo girò il pollice verso il punto in cui la linea scura di terra smossa curvava verso di noi per proseguire parallela alla strada. «L'oleodotto.»

«Dove sono i ponteggi in metallo?» Avevo immaginato di vedere qual-cosa sopra il terreno, come in Medio Oriente.

«Hanno scelto di farlo correre sottoterra perché è più difficile farlo salta-re.»

Charlie si sporse fra i sedili. «Chi? I nostri amici terroristi?» «Terroristi, separatisti kurdi, estremisti islamici, russi figli di puttana,

tutti quanti. Vogliono tutti avere un ruolo nell'azione, o comunque usare l'oleodotto per trattare.

«I kurdi vogliono staccarsi dai turchi: rendeteci il nostro territorio e noi lasceremo in pace l'oleodotto.

«I russi vogliono soltanto sabotare l'oleodotto, punto. Perestroika dei miei coglioni, per loro la guerra fredda non è ancora finita.

«E, più vicino, ci sono i politici della Georgia che fanno accordi sotto-banco con chiunque bussi alla loro porta, e che comunque si fanno pagare dei bei soldi dalle compagnie petrolifere per consentire che l'oleodotto at-traversi il loro territorio.»

Charlie annuì. «E le carte che abbiamo spiegano il ruolo del nostro ami-co signor Bazgadze recentemente scomparso.»

Bastardo lo guardò minaccioso. «Non ci contare troppo, stronzo.» Aveva ricominciato a piovere. Azionai i tergicristalli al massimo, ma per

riuscire a vedere dove andavamo fui di nuovo costretto a stampare il viso contro il parabrezza.

Bastardo strizzò gli occhi per guardare oltre la cortina di pioggia. «Ma poi, chi se ne frega? A me toccava solo fare in modo che tutto filasse li-scio.»

«Non ti è venuto bene, sbaglio?» Charlie si toccò la tasca della giacca dov'era il fascicolo. Aveva messo il nastro della camcorder e i fogli della cassaforte di Baz dentro una busta di plastica che aveva trovato nella vali-gia di Bastardo. «Non ne so molto, ma a quanto pare il quadro che ne dan-no i media è molto diverso da quello che ci hai fatto credere tu...»

Bastardo non riuscì a trattenersi. «Ehi, io ho riportato soltanto quello che avevano detto a me.» Emise un sospiro lungo e frustrato. «Non sono io che prendo le decisioni. Sono come voi, sono un'ape operaia... un'ape operaia che vuole soltanto portare via i coglioni da qui.»

Mi ero ripromesso di restarne fuori, ma mi ribolliva il sangue. «Ape ope-raia dei miei coglioni. Tu sei un maledetto verme di merda. Tu ti nutri di

situazioni del genere e lasci che siano le vere api operaie a pagarne il prez-zo.» Scalai per affrontare un tornante. «Ricordi Anthony, l'inglese che hai riempito di botte giù a Waco?»

Rimase silenzioso per qualche momento. Adesso la pioggia picchiava così forte sul tetto del Pajero che sembrava di essere dentro un tamburo militare, ma sentivo lo stesso il ronzio del suo cervello. «Anthony? An-thony chi? Non ricordo di aver picchiato nessun inglese a Waco.»

«Invece sì.» Tenevo gli occhi fissi sulla ghiaia coperta di fango. Il Pajero slittava e sbandava ed ero costretto a lottare col volante per mantenerlo dritto. «Era l'inventore del gas che hai usato, anche se non ne avevi l'auto-rizzazione. Ricordi? Si è suicidato circa un anno dopo. Non riusciva a vi-vere con il senso di colpa.»

«Oh, quell'Anthony...» Bastardo si passò l'indice sui baffi. «Certo, mi ri-cordo di lui... finocchio del cazzo. Non doveva essere là. Non si mandano i ragazzi a fare lavori da uomini...»

Portai il Pajero su un sentiero che era apparso sulla sinistra. Sobbal-zammo sopra l'oleodotto e raggiungemmo un boschetto.

«Controlliamo se i coglioni di questo stronzo sono grandi quanto la sua bocca», urlai a Charlie.

Frenai prima degli alberi, spensi il motore e buttai Bastardo contro la portiera dalla sua parte. «Fuori, porca puttana! Subito!»

Girai sul sedile e con la schiena contro la portiera lo spinsi con tutti e due gli stivali mentre lui cercava a tastoni la maniglia. «Io c'ero. Ero con Anthony. Ho assistito alla strage...» Gli assestai altri calci mentre la portie-ra si apriva e lui cadeva in mezzo al fango.

Si tirò su, il viso era una maschera di paura e indignazione. «Non avevo io il comando, ma chi guadagna molto più di me.»

Lo raggiunsi mentre Charlie armeggiava nel bagagliaio. «Pensavo che avessi capito il messaggio sulle api operaie», gli urlai at-

traverso la pioggia. «Non hai lasciato scampo a quei bambini e te la sei goduta per tutto il tempo, stronzo!»

«Bingo!» Charlie mi mostrò i pollici alzati, sbatté il portellone e si dires-se verso il cofano del Pajero.

«Aspetta che gli sia addosso.» Sollevai la pistola. «Voglio proprio far-melo, questo stronzo.»

Bastardo arretrò sino alla fiancata anteriore. «Ehi, sapevo che non era giusto. Sapevo che era sbagliato uccidere tutte quelle persone.» Sollevò le mani in un gesto che era un misto fra l'implorazione e la voglia di mante-

nere le distanze. «Erano cittadini americani... la mia gente...» Mi puntò un dito contro. «La nostra gente.»

«A terra! Nel fango! Subito!» Scivolò lungo la fiancata del veicolo fino a trovarsi appoggiato contro la

ruota. La pioggia rimbalzava sulle pozzanghere che lo circondavano. Era-vamo entrambi bagnati fradici fino al midollo. Con il braccio appesantito dalla manica zuppa, alzai la pistola alla sua tempia.

«Per chi lavori?» Il mio primo calcio centrò in pieno le costole. «Chi ha dato l'ordine di uccidere Charlie?» Il secondo scomparve fra la montagna di lardo che aveva attorno alla cintura. «Cosa c'è in quei fogli? Cosa cazzo è successo nella casa?»

Charlie aveva lasciato il cofano e adesso era in piedi dall'altro lato. Bastardo respirò a fondo e girò la faccia verso di me con gli occhi a fes-

sura contro la pioggia. «Cosa vuoi fare, figliolo? Premere il grilletto? Caz-zo, allora fallo e facciamola finita.»

Charlie scosse la testa, poi si chinò e applicò un morsetto dei cavi della batteria del Pajero al rotolo di grasso che fuoriusciva dal colletto di Ba-stardo e tenne l'altro contro il suo orecchio.

Bastardo urlò e tutto il corpo tremò. Crollò come una bambola di pezza, con le gambe larghe in mezzo al fango.

Il morsetto era sempre attaccato al collo. Charlie mi passò l'altro e scivo-lò dietro il volante.

Assestai un altro calcio a Bastardo soltanto perché mi andava di farlo. Charlie accese il motore, e lo mandò su di giri. Bastardo non disse niente, rimase a terra a piagnucolare, a sentire il ru-

more regolare del motore, a fissare il fango. Cominciava a capire.

8 «Guardami.» Tenne gli occhi bassi. Gli infilai il morsetto sopra l'orecchio. Guaì, inarcò la schiena e crollò. Mi piegai su di lui. «Guardami...» Rimase immobile ma sollevò gli occhi fino a incontrare i miei. La piog-

gia che mi gocciolava dal mento gli ricadeva in faccia. «È molto semplice.» Agitai il morsetto davanti al suo viso. «Tu parla e

io lo terrò lontano da te.»

Scosse la testa per liberare il collo dalla pinza a forma di coccodrillo, ma l'oggetto non si mosse.

Sollevò una mano per toglierlo ma la allontanai con un calcio. Attaccò a parlare, lo sentivo appena a causa della pioggia. «Era un lavo-

ro semplice che si è incasinato strada facendo. Volevamo quei documenti, senza problemi, tutto in ordine.» Strisciò nel fango e riuscì ad appoggiarsi allo pneumatico. «Ne ho perso il controllo. È per questo che volevo portare via i coglioni da questo buco di merda.» Fissò gli alberi.

Spostai il morsetto in modo che potesse vederlo e lo avvicinai a un cen-timetro dal naso. «Non stai rispondendo alle domande. Per chi lavori? Chi sono gli amici potenti che danno gli ordini?»

«Sono politici. È la solita vecchia storia. Quelli a cui Bazgadze dava la caccia. E per questo loro volevano il contenuto della sua cassaforte. È tutto quello che so.» Mi guardò. «Non voglio sapere altro.»

«Lavori sempre per la Ditta? Siamo finiti in mezzo a una merdosa ope-razione FBI sotto copertura?»

Scosse piano la testa e di nuovo abbassò lo sguardo sul fango. «Mi han-no sbattuto fuori quattro anni fa. Mi hanno spremuto e sputato, con una rendita annua che mi basta a comprare un sigaro per festeggiare il Quattro luglio. Perché credi che sia finito in questo stramaledetto cesso di posto?»

Non ero disposto ad abboccare alla carta della compassione, avvicinai ancora di più il morsetto.

«Sono stato con loro per trent'anni, e per cosa? Un cazzo di niente, ami-co. Così quando quei tizi mi hanno offerto la possibilità di provvedere alla mia pensione...»

«Cosa è successo nella casa?» «Quelli per cui lavoro, sono in sei, mi segui? Ecco, diciamo che la Par-

tecipazione al programma di pace non è al primo posto nella loro lista di priorità; comunque la partecipazione ha il loro voto ma la pace può andare a cagare. Vogliono far restare tutto esattamente com'è ora. Il carico di dol-lari che arriva con gli aerei spesso finisce nelle loro tasche. Finanziano i terroristi perché minaccino di sabotare l'oleodotto, soltanto per tenere tutti in ebollizione. Niente di male, niente di violento, soltanto un po' di fuochi d'artificio di tanto in tanto. Nessuno viene ferito. Si tratta di commercio vecchio stile. Io ci sono dentro soltanto...»

«Già, lo sappiamo», disse Charlie. «Ci sei in mezzo per far filare tutto li-scio...»

Bastardo lo guardò e arrischiò un sorriso.

Gli assestai un calcio. «Continua.» Rannicchiò le gambe contro il torace per quanto gli consentiva la pancia.

«Questo Bazgadze stava diventando un problema serio. Tutta la questione della santità non era cosa buona per gli affari. E neppure il fatto che qual-cosa venisse rivelato prima dell'arrivo di Bush, in visita per incitare l'eser-cito nella guerra al terrorismo. Il piano era rubare le carte per scoprire che cosa sapeva. Esercitare pressione su di lui. Intimargli di non immischiar-si...»

Sollevò una mano al morsetto che gli mordeva il collo. «Posso toglierlo? Vi sto aiutando.»

Scossi la testa. «Stai solo aiutando te stesso. Tutto questo non spiega an-cora cosa è successo alla casa, né al cimitero. Chi cazzo erano quegli uo-mini?»

«Come i miei politici, anche i terroristi non vedevano di buon occhio Bazgadze. Akaki, lo stronzo, è lui che li comanda. Ne aveva le palle piene di aspettare: Bazgadze sapeva che anche lui era parte del giro, quindi do-veva morire. Akaki è pazzo, impossibile tenerlo a freno. Non è quello il modo di trattare con personaggi come Bazgadze che è come un dio da que-ste parti. Bisogna essere più astuti.»

«Come sei tu?» La pioggia era così forte che avevo l'impressione che un folle armato di

una sparachiodi si accanisse contro il mio collo. Charlie non era soddisfatto, ma non soltanto per le risposte di Bastardo.

«Ci conviene levare le tende.» Indicò un punto oltre gli alberi, dove il fan-go e il pietrisco si staccavano dal fianco della collina, e la forza di gravità faceva il resto. «La vedo brutta per la strada.»

A calci feci alzare Bastardo. «E adesso cosa succede?» «Succede che devi chiudere quella cazzo di bocca, altrimenti ti attac-

chiamo questi affari ai coglioni. Tu vieni con noi e più tardi, quando sare-mo in Turchia e fuori dal casino, ti metti al telefono per sentire i tuoi amici potenti. Siamo pronti a trattare e questa volta sarai tu il mediatore.»

9

La cortina di pioggia che avevamo davanti era così fitta adesso che non

ci restava che procedere a passo d'uomo. Tra il rumore assordante, eravamo stati costretti ad aprire tutti i finestrini

per alleggerire la condensa causata dai nostri vestiti bagnati, benché il ri-scaldamento fosse al massimo.

Bastardo tentava, peraltro senza successo, di ripulirsi il fango dai vestiti e dalla pelle. Sembrava appena uscito dalla laguna nera. A metà del lavoro di pulizia azzardò un nuovo tentativo di passare dalla parte dei buoni. «Nick, devi credermi, mi dispiace per Anthony. Mi dispiace per quello che è successo. È stato un momento piuttosto difficile.»

«Poteva non esserlo, o sbaglio?» Bastardo si agitò. «Non è così semplice. Pensa solo a cosa poteva succe-

dere se Koresh e i suoi l'avessero fatta franca dopo aver mandato affanculo gli ATF. La legge e l'ordine avrebbero perso ogni credibilità. Una cosa del genere andava punita. Anarchia e illegalità vanno stroncate sul nascere o si finisce come in questo Paese di merda.»

Le raffiche di pioggia che investivano l'auto sembravano ondate di mare in tempesta. I tergicristalli erano a velocità massima, ma non riuscivo a vedere un cazzo.

Charlie si era sistemato bene sul sedile posteriore, con la pistola sotto il sedere e le gambe allungate sul trolley. Era uno di quegli affari antiurto, antincendio, antitutto in alluminio garantiti a vita e che arrivano a costare mille dollari.

Ripensai a quello che Bastardo aveva detto sotto le scariche elettriche e che non stava in piedi. E in fatto di fregature ero il massimo esperto mon-diale. I soldi facili non erano la risposta a tutto come Bastardo voleva farci credere. C'era dell'altro sotto, roba più seria che un po' di pulizie di prima-vera per l'arrivo del presidente americano.

Non perdevo d'occhio l'oleodotto alla nostra sinistra. Sempre più spesso, adesso, era l'unico modo per capire se eravamo ancora sulla strada. Un pa-io d'ore prima il fiume aveva rotto gli argini e infuriava alla base del decli-vio sulla destra.

Bastardo guardò dietro e poi mi si avvicinò come se volesse confidare un segreto al suo migliore amico. «Nick, ascolta, che ne dici di fare un ac-cordo tra noi? Quando arriviamo a Borjomi tu mi lasci andare con le carte e le registrazioni, io chiamo i miei contatti e ti faccio cancellare dalla lista dei ricercati, e quando arrivate in Turchia sarà tutto predisposto. Non sia-mo stufi di questo schifo?»

Fece un cenno verso Charlie la cui testa sobbalzava da una parte all'altra mentre il furgone avanzava sulla strada sterrata.

«Gli dirai che sono sceso per un bisogno e che sono scappato. Tanto,

come può fare a scoprire...» Fuori non si metteva bene. A sinistra una cascata di fango e melma pre-

cipitava dall'alto trasportando rocce e rami sul nostro percorso. Bastardo non mollava. «Nick, nella merda ci siamo tu e io, e balliamo

sulla stessa musica.» «Perché non cominciamo con il Lago dei cigni?» disse Charlie all'im-

provviso. «Noi la canticchiamo e tu ci salti dentro.» Guardai nello specchietto. Si era messo su un fianco con le ginocchia

raccolte, e ridacchiava piano fra sé. «Il tuo piano ha due punti deboli, Cic-cione. Primo...» - toccò la tasca alta della giacca - «è tutto qui dentro. Se-condo, correre non è certo la tua specialità. Non riesci neppure a chinarti per aprire l'acqua della vasca, ma fammi il piacere.»

Non ci fu il tempo per ridere. Un fiume di fango largo dieci metri sgorgò dalla collina, colpì con vio-

lenza il Pajero e ci scaraventò dove la strada incontrava il fiume. Sterzai per contenere lo sbandamento ma senza alcun successo. «Charlie, fuori!» La frana aumentò in dimensioni e velocità e irruppe nell'abitacolo attra-

verso i finestrini aperti. Afferrai il bordo del tetto e m'issai fuori. Bastardo strisciava l'immenso culo verso la portiera. Poteva cavarsela da

solo. Il Pajero iniziò a scivolare. Scardinai la portiera, afferrai Charlie per le

spalle e lo misi in salvo. Mi cadde addosso. L'auto slittò per altri due metri, poi si arrese alla furia

del flusso di fango e rotolò verso il fiume. Una dozzina di metri più in là, Bastardo lottava per restare in piedi. Charlie strizzò gli occhi mentre la pioggia gli sferzava il viso coperto di

fango. «Fascicolo e cassetta?» Charlie si toccò la tasca della giacca e annuì. Sentimmo un rombo come di un treno in avvicinamento. Guardai in alto, ma prima che potessi avvertire Bastardo con un urlo, la

cascata di fango e detriti alta un metro lo aveva investito e trascinato oltre l'argine.

PARTE DECIMA

1 Il Pajero era atterrato capovolto sull'argine del fiume, cinque o sei metri

più in basso, le portiere aperte e il parabrezza a pezzi. Si impennava e ondeggiava mentre l'acqua color cioccolato si accaniva

contro la carcassa. Da un momento all'altro sarebbe stata ghermita e trasci-nata a valle.

Bastardo non era stato più fortunato. Lo osservai dibattersi, affondare, riemergere quasi al centro del fiume che in quel punto era largo circa trenta metri. Era difficile distinguerlo fra gli altri detriti trasportati vorticosamen-te dalla corrente.

Cominciai a togliermi la giacca. Charlie si stupì. «Non puoi farci niente. Che si fotta. Tanto ci resta Dave

il Matto.» Scossi la testa. Per quanto me ne fregava, Bastardo poteva anche morire

di una morte lenta e dolorosa, ma dopo? In quel preciso istante lui c'era e Dave il Matto era lontano migliaia di chilometri. «È la nostra possibilità di uscire da questa merda, ha i contatti giusti, può farci passare il confine.»

Charlie non era in grado di aiutarmi. La caviglia era andata e tutto il re-sto cadeva a pezzi. Toccava a me. Tirai la camicia fuori dai pantaloni e in-cespicando e rotolando affrontai la discesa verso il gorgo.

Il livello dell'acqua si sollevava a un ritmo spaventoso e travolgeva tutto quello che incontrava. Rami giganteschi si schiantavano contro le rocce che avevo davanti.

Sentii un cigolio di lamiera, il Pajero non era riuscito a resistere e roto-lava rombando a valle. Lo osservai per cento metri, fin dove il fiume pie-gava secco a sinistra, poi lo persi di vista.

E in quel momento individuai Bastardo. La forza della corrente aveva eroso una striscia di circa dieci metri di terreno lungo l'argine più lontano, portando alla luce le intricate radici degli alberi che brillavano bianche in mezzo al fango. Sembravano la gabbia toracica di un animale in putrefa-zione. Bastardo ne aveva agganciata una con il braccio.

Non aveva la minima possibilità di riuscire a rialzarsi in mezzo al fango, di risalire l'argine meno che mai. Non ci sarei riuscito neppure io, anche se non ho passato la vita a seguire una dieta a base di Big Mac.

Vedevo che mi chiamava ma il rombo dell'acqua m'impediva di sentire la sua voce.

Studiai il tratto di fiume che ci separava. Doveva essere finito lì catapul-

tato dal gorgo in mezzo alla corrente. Se volevo avere la possibilità di rag-giungere l'altra sponda, senza essere travolto e finire nella scia del Pajero dietro la curva, dovevo entrare in acqua in un punto più in alto.

Arrancai nel fango per trenta o quaranta metri contro corrente, oltre quello che restava di un ponte pedonale in legno che non era riuscito a re-sistere alla furia dell'alluvione.

Sprofondavo fino ai polpacci ma avanzavo, contrastando il flusso gelido finché non mi arrivò ai fianchi e la forza dell'acqua non mi segò le gambe. Scalciai e mi dibattei ma avrei anche potuto stare fermo. Niente che potessi fare poteva impedire di essere risucchiato sotto la superficie.

Mi lasciai trasportare dalla corrente finché i polmoni non furono sul punto di scoppiare, mi entrava acqua dalla bocca e dal naso, poi, non so come, riuscii a riemergere.

Mi girava la testa e mi bruciavano gli occhi, ma mentre lottavo per respi-rare lo vidi. Come me, si dibatteva per mantenere la testa fuori dall'acqua, aggrappato con tutta la forza che aveva alla radice dell'albero.

L'acqua mi trascinò di nuovo sotto e la mia prima preoccupazione fu di riuscire a respirare e non di raggiungere l'altra riva.

Lottai per tornare in superficie e vidi che ero riuscito ad allontanarmi. Adesso potevo sfruttare la corrente.

Pochi secondi dopo strinsi fra le dita la radice a cui era appeso Bastardo. Era gelato, disorientato e spaventato. Si aggrappò a me, nel disperato tentativo di restare a galla, ma l'unico ef-

fetto che ottenne fu di spingermi sotto. Scalciai e mi divincolai per tornare su, senza mollare la radice, mentre

l'acqua mi falciava le gambe. «No!» Lo respinsi a calci. «Riprendi controllo, per la miseria! Basta!» A

quel livello il rombo dell'acqua era assordante. Mi piegai in due per rima-nergli a distanza di sicurezza. Sapevo che era totalmente in preda al pani-co, ma volevo evitare di finire inghiottito nel vortice abbracciato a lui.

L'argine era più ripido di quello che credevo. Forse io sarei riuscito a sa-lire ma per issare lui ci sarebbe voluta una gru.

«Dobbiamo tornare indietro a nuoto. Io ti aiuto, ma tu non ti aggrappare, se lo fai non la spuntiamo, capito?»

Mi fissò con gli occhi annebbiati. Batteva i denti per il freddo. «Non so nuotare.»

Cazzo. Scrutai la superficie d'acqua in movimento attorno a noi. Il tronco di un

pino si era incastrato contro una roccia poco prima dell'ansa del fiume. Le radici a forma di V, rivolte contro corrente, creavano una piccola barriera. All'interno, dove l'acqua era appena più calma, fra gli altri detriti galleg-giava un rettangolo d'alluminio: il trolley di Bastardo.

Il ciccione mi fissava a occhi sbarrati. Tentò di parlare ma non gli usciva la voce.

Mollai la radice e andai a sbattere con violenza contro il pino caduto. Agguantai il trolley e con il braccio libero afferrai il tronco. Con una gam-ba agganciai un ramo ma il resto del mio corpo era ancora a mollo. Mi la-sciai colpire dalla forza della corrente fino a che non ripresi fiato e riuscii a sollevarmi del tutto. Rimasi fermo per un momento. Avevo le nocche bianche per lo sforzo di non mollare la maniglia del trolley. Poi cominciai a strisciare verso la riva.

Mi issai in piedi e tornai indietro. Bastardo mi vide. «Fammi uscire da qui, adesso!» Era come essere abbordato da un tricheco di centotrenta chili in gabbia. «Sono qui... Qui! Cosa cazzo aspetti?» Per un nanosecondo giocai con l'idea di sfasciargli la testa con il trolley

e di restare a guardarlo andare alla deriva. Poi tornai alla cruda realtà. Per-dere Bastardo voleva dire perdere il nostro mediatore. Scesi e m'immersi di nuovo nell'acqua.

«Questa sarà la nostra zattera, afferrala più forte che puoi e non mollarla. Io ti tengo. Batti i piedi... Avanti, sbattili!»

Annuì obbediente ma non si mosse. Il trolley sobbalzava fra noi. Bastar-do stava sperimentando in prima persona la Paura. Non riusciva a trovare il coraggio di mollare il suo appiglio. Lo colpii con forza sulla mano e fi-nalmente si staccò.

Afferrai Bastardo per il collo della giacca e pestai i piedi per raggiungere la corrente e aggirare l'albero caduto.

Bastardo metteva tutta l'energia che aveva per tenere la testa fuori dall'acqua.

«Batti i piedi, cazzo, aiutami!» Finalmente la richiesta si trasferì dall'orecchio al cervello e cominciò a

scalciare. La corrente ci afferrò e superammo veloci il pino. Più avanza-vamo, e più ci avvicinavamo alla possibilità di essere dirottati verso la riva lontana. Dopo un po' toccai il fondo con gli stivali.

Mi alzai a fatica e tirai e trascinai Bastardo sul greto. Qualche momento dopo era sdraiato accanto a me sul terreno compatto.

Mi tolsi camicia e maglietta e le strizzai per fare uscire più acqua possi-bile. Per trarre vantaggio da quel poco di calore corporeo che mi era rima-sto dovevo far entrare dell'aria nelle fibre. O per lo meno, così credevo. In-vece la pioggia era più veloce e le inzuppava ancora prima che riuscissi a strizzarle del tutto, ma in ogni caso, anche se non sapevo il perché, l'intera operazione mi faceva sentire meglio.

Infilai la maglietta e la camicia e mi chinai per togliere gli stivali. Avevo le dita intorpidite e congelate ma riuscii a sciogliere i lacci. E finalmente mi liberai dei jeans.

Quando fui interamente rivestito infilai tutto dentro per ridurre al mini-mo i varchi che il vento poteva crearsi per colpirmi.

Da quello che restava della strada, una voce conosciuta tuonò dall'alto. «Sei stato grande, ragazzo, ma non dovevi preoccuparti.»

Guardai Charlie e alzai le spalle. Mi strizzò l'occhio. «Io ci sarei riuscito anche con un sacchetto della

spesa.» Bastardo era sempre sdraiato accanto a me come una balena spiaggiata. Gli assestai un calcio. «È ora di muoversi. Controlla se hai ancora i do-

cumenti.» Bastardo frugò ed estrasse il portafogli. Lo strizzò e pescò la tessera di

plastica. «Avete bisogno di me, lo so», disse, sul viso l'accenno di un sorri-sino compiaciuto. «Ottimo, andate a farvi fottere.»

2

La frana aveva demolito la strada e si era lasciata dietro solo massi e al-

beri sradicati. Anche se fossimo riusciti a recuperare il Pajero, non sarebbe stato possibile proseguire.

Mi accasciai accanto a Charlie e faticai per infilare la giacca. Dopo l'e-sperienza Baywatch, dover spingere Bastardo su per la salita mi aveva de-finitivamente distrutto. Se ne stava seduto poco distante. Speravo che si sentisse ferito appena un po' nell'orgoglio, come minimo, ma se così era non lo dimostrava minimamente.

In un gesto di sfida del tutto inutile verso la pioggia torrenziale si era al-lacciato i tre bottoni della giacca e aveva sollevato il colletto. C'era di che stupirsi che avesse ancora tutte e due le scarpe che, a parte qualche am-maccatura, parevano solo leggermente più vissute.

«Non ho più la pistola», borbottò Charlie. «E tu?»

Scossi la testa. «Mi sono trovato di fronte a una scelta molto semplice: la 7,62 oppure te. Dio sa il perché, ma hai vinto tu.»

Charlie rise, ma solo per poco. «Meglio non perdere tempo. Dobbiamo sbrigarci. Non credo che riusciremo a raggiungere il confine prima di do-mani, data la situazione. La strada dall'altra parte della città non sarà in condizioni migliori. Quindi ci fermiamo a Borjomi, ci diamo una sistema-ta, andiamo alla prima Hertz e scappiamo a tutta birra, che ne dici?»

«Secondo me abbiamo fatto circa centotrenta chilometri, quindi ce ne re-stano venti da coprire. Quattro o cinque ore al massimo, tenuto conto del fatto che sei Cassidy lo zoppo.» Mi alzai e afferrai Bastardo per la collotto-la. «Io mi occupo di lui, tu pensa soltanto a far funzionare la caviglia.»

Charlie partì e io tirai in piedi Bastardo. Ero tornato al vecchio lavoro. Lui si lamentava di tutto. A dire il vero non avevo alcuna invidia per le sue prossime ore, Charlie e io eravamo fradici, ma avevamo dalla nostra le montagne di ore passate all'aria aperta e, cosa ancora più importante, ave-vamo gli stivali. Bastardo invece avrebbe dovuto marciare con i mocassini bagnati, che non erano adatti allo scopo più di quanto non lo fosse lui. I piedi sarebbero stati un cimitero di piaghe dopo soli cento metri.

«È ora di andare, abbiamo un lavoro di mediazione da portare avanti, ri-cordi?»

Bastardo non rispose, così gli diedi uno spintone. Era come cercare di far avanzare un ippopotamo: non si spostò di un centimetro.

«Dobbiamo andare, Ciccione.» «Andate a farvi fottere!» La frase doveva piacergli molto. «Ti sto facendo un favore, amico. Non resisteresti cinque minuti qua

fuori da solo vestito così, lo sai, vero?» Seguivamo la strada, o quello che era rimasto. La superficie era coperta

di grosse spaccature in cui l'acqua dell'alluvione fluiva come in canali na-turali di scolo. Dovevamo muoverci in fretta, non soltanto per raggiungere Borjomi il prima possibile, ma anche per riscaldare i corpi bagnati.

Guardai avanti. L'invalido era Charlie ma si muoveva meglio di Bastar-do. Ondeggiava il corpo da una parte all'altra per cercare di compensare la caviglia gonfia, ma si era trovato in situazioni del genere tante volte da non riuscire neppure a ricordarle. Durante una tappa si deve andare da A a B, e l'unica è darci sotto. Lamentarsi per le condizioni atmosferiche, o per quel-le fisiche o di quanto tu sia incazzato è del tutto inutile, e non aiuta ad ac-corciare la distanza.

Bastardo non ci arrivava. Sapevo cosa provava ma non era né il momen-

to né il luogo. Poggiai le mani sulle sue scapole e cominciai a spingere. Si lamentava a manetta, ma far ballare la lingua non serve ad arrivare

prima. L'unica cosa è mettere un piede dopo l'altro più in fretta che si rie-sce, e se non sei abbastanza veloce qualcuno si mette alle tue spalle e ti spinge come si fa con il bestiame.

Mi pareva di essere tornato in fanteria; era da quando avevo sedici anni che spingevo o tiravo gli incapaci nel tentativo di tenere i meno veloci al passo con lo squadrone. Faceva parte del lavoro. Si avanza al ritmo del più lento e si cerca di farlo andare il più in fretta possibile. Gli porti il fucile, l'attrezzatura, lo inciti, gli fai passare l'incazzatura, e alla disperata te lo metti su una spalla e lo porti; non che morissi dalla voglia di provare quell'ebbrezza con Bastardo.

Stavamo andando da circa un'ora e avevamo percorso quattro o cinque chilometri quando Charlie uscì di strada e si aggrappò a un abete basso, la-sciandosi scivolare a terra per distendere la gamba.

Bastardo e io lo raggiungemmo. «Ehi, culoni, mi sono fermato per aspettarvi.» Respirava a fatica e con

dolore. Bastardo non riuscì neppure a trovare la forza di spostarsi dalla strada,

crollò in ginocchio e poi strisciò nel fango verso Charlie. Era molto proba-bile che non avesse mai camminato tanto in tutta la sua vita e soprattutto non in una regione monsonica in mocassini e giacchetta. Quando lasciò cadere a terra la testa vidi che aveva sul collo un bel livido a forma di fauci di coccodrillo.

Lo lasciai dov'era e raggiunsi l'albero. Charlie aveva appoggiato la suola dello stivale contro il tronco per dare

sollievo alla caviglia slogata. Crollai accanto a lui. Non gli avrei chiesto se stava bene. Quando fosse

giunto il momento in cui non ce la faceva più mi avrebbe avvertito. Charlie sbuffo. «Sarebbe meglio accelerare se non vogliamo passare qui

la notte. Se marciasse veloce quanto blatera, saremmo già arrivati.» Per un attimo il viso s'illuminò in una delle sue espressioni sceme. «Un po' come te, ragazzo, sa parlare parole ma non cammina il cammino.» La frase gli piacque tanto che urlò il bis a favore di Bastardo.

Bastardo sollevò lo sguardo come se non potesse, o forse non volesse, sentire.

Non morivo dalla voglia di passare la notte a spingere il ciccione. Se non riusciva a muovere il culo di giorno, al buio sarebbe stato dieci volte peg-

gio. I tipi come lui diventano goffi, inciampano e si fanno male. Bastardo faceva la sua figura in un Pod con la macchina del caffè a por-

tata di mano e la borsa del tabacco in tasca, ma niente di più. Si sarebbe vantato di una notte all'addiaccio, ma io non avevo nessuna voglia di fargli da balia fino all'alba.

Secondo me, l'intervallo massimo che aveva raggiunto fra una ciambella e l'altra erano due ore.

Controllai il Baby-G che continuava a funzionare nonostante il bagno nel fiume. Erano le 15.27, quindi mancavano circa quattro ore al tramonto. A quel ritmo, non sarebbero state sufficienti.

Charlie spostò il piede dal tronco e lo posò sulla mia spalla. Bastardo ci guardò e forse si sentì il Signor Nessuno Senza-amici. E di certo si compa-tiva molto. «Quanto dobbiamo restare ancora in questo fottuto posto di merda? Quanto manca?»

«Che succede, Cicciobomba?» Charlie lo osservò torturare i mocassini zuppi. «È la prima volta che ti capita di essere gelato, bagnato e affama-to?»

Mi venne da ridere. «Gelato e bagnato forse, ma in quanto alla fame ho i miei dubbi.»

Charlie quasi soffocò dal ridere. «Cosa mi dite, stronzi, riusciremo a esserne fuori prima del buio?» tuonò

Bastardo mentre si asciugava la pioggia dal viso. «Una cosa è certa, non ho nessuna intenzione di passarci la notte. E che non vi venga in mente di abbandonarmi. Niente è cambiato. Senza di me voi due non riuscirete a farcela. Non scordatevelo.»

Charlie si alzò in piedi con una smorfia di dolore. «Non ti agitare, Cic-ciobomba. Spingeremo il tuo culone fino in Turchia, se sarà necessario.»

Raggiunse zoppicando la strada. Non riuscivo a vederlo in viso ma im-maginavo che si sarebbe contorto in una smorfia di dolore a ogni passo.

Mi sarei offerto di fargli da stampella ma mi avrebbe mandato a cagare. Sapevamo entrambi che in quel momento non era lui la priorità.

Hazel non sarebbe stata d'accordo.

3 Spinsi Bastardo per un'altra ora. Rallentava, su questo non c'erano dubbi,

non era una cosa semplice far avanzare quella massa di carne, a ogni passo sentivo il rumore delle cosce flaccide che strusciavano l'una contro l'altra.

Avevamo sempre il solco dell'oleodotto a sinistra della strada. La cortina di pioggia era solida e grigia.

Mentre seguivamo un ampio tornante in salita, vidi una chiazza di bian-co, circa centocinquanta metri più avanti. Mi asciugai la pioggia dagli oc-chi e guardai meglio. Era il culo di un furgone fermo lungo la strada.

Bastardo e io raggiungemmo Charlie. Charlie mi posò un braccio sulla spalla per scaricare il peso dalla cavi-

glia. «Sembra che la fortuna sia dalla nostra.» Bastardo cominciò a incitarci come se avesse visto un taxi libero all'ora

di punta e noi stessimo per farcelo scappare. «Ehi, allora, cosa cazzo aspet-tate?» Si mise ad avanzare in modo goffo, mettendocela tutta per fare an-dare i piedi veloci quanto consigliava l'istinto di autoconservazione.

Quando fummo più vicini, la macchia indistinta prese la forma di un furgone Mercedes, sprofondato nel fango fino agli assi. Le ruote posteriori giravano veloci, ma così l'autista non sortiva altro effetto che farle affonda-re ancora di più.

Schivai la doccia di fango e mi avvicinai dal lato del passeggero. All'in-terno vidi due sagome ma erano troppo impegnate con il volante e il cam-bio per accorgersi di me.

Picchiettai sul vetro. La persona seduta a lato dell'autista girò su se stessa, chiaramente spa-

ventata. Attraverso il finestrino rigato di pioggia vidi gli occhi scuri della donna dilatati come piattini. Mi fissò per alcuni secondi e poi spostò lo sguardo su Charlie e Bastardo che mi avevano raggiunto. Capivo bene la sua paura. Eravamo in mezzo al nulla, in balia di un diluvio, e dovevamo avere l'aspetto di chi emerge dalla palude primordiale.

Aprii la lampo del giubbotto, lo sollevai e mi girai da una parte all'altra. «Niente armi», articolai. «Noi... siamo... disarmati.»

Quando anche gli altri ripeterono i miei gesti, mollai la giacca ma man-tenni le mani in alto.

La donna abbassò il finestrino di dieci centimetri ma l'espressione sul suo viso diceva a chiare lettere che non era affatto contenta della nostra presenza.

«Va tutto bene, tutto bene...» Sorrisi. «Parli inglese?» Si voltò verso l'autista e gli disse rapida qualcosa in lingua-graffette. Lui

staccò il piede dall'acceleratore e si piegò per guardarci. Aveva i capelli cortissimi e la barba lunga di un giorno o due.

Continuai a sorridere, i muscoli del viso mi facevano male. «Inglese?

Parlate... inglese?» La ragazza mi guardò con espressione preoccupata. «Chi siete?» L'ac-

cento era da Europa orientale ma con un pizzico di inflessione da TV ame-ricana.

Scandii le parole. «La nostra macchina... È stata colpita...» Mimai uno scontro. «Il fango...»

L'autista si sporse ancora. «Capiamo.» Bastardo mi venne vicino e mi spinse da una parte. Prese dal portafogli

fradicio il documento ufficiale che lo accreditava e lo infilò nel varco del finestrino. «Borjomi», ringhiò. «Portateci a Borjomi.»

Se quello era il suo modo di usare l'arma della simpatia, la nostra marcia non era finita.

La donna prese il documento. Bastardo non perse tempo. «Dobbiamo arrivare a Borjomi. Visto il do-

cumento? Dice che dovete accompagnarci.» I due del Mercedes si consultarono in lingua-graffette e ci guardarono

uno per uno. Non mi è mai piaciuto non sapere quello che viene detto in si-tuazioni del genere, soprattutto quando so di essere l'oggetto della conver-sazione. Non sembrava mettersi bene.

Ma alla fine lei scrollò le spalle. «Certo... non è lontano. Non più di mezz'ora. Stiamo andandoci anche noi, se riusciamo a far muovere questo affare.»

Restituì il documento a Bastardo che lo infilò nel portafogli. Nello stato in cui si trovava dubitavo che fosse riuscita ad abbinarlo alla fotografia. Mi augurai che non avesse riconosciuto me.

Bastardo afferrò la maniglia della portiera scorrevole laterale come se fosse già il padrone del veicolo, ma lei lo scacciò. «Prima dovete tirarci fuori.»

Scivolò al posto di guida e l'autista scese. Era alto e magro, tra i venti e i trenta, e indossava un giubbotto nero di Gore-Tex. Aggirò il furgone dal davanti e stese una mano. «Io sono Paata. E lei è Nana», aggiunse con un cenno verso la compagna.

Charlie e io ci presentammo. Mi augurai che dalle nostre espressioni ri-sultasse chiaro che non avevamo nulla da spartire con la massa di lardo che lottava con la maniglia della portiera scorrevole.

Bastardo guardò verso di noi. «Ehi, questa portiera del cazzo è blocca-ta.»

Paata scosse la testa. «È chiusa dall'interno. Motivi di sicurezza. L'apri-

remo fra un attimo.» Bastardo sollevò il colletto e si appoggiò a uno dei pochi alberi rimasti

in piedi al lato della strada. Si piegò in avanti e posò le mani sulle ginoc-chia. Cercai di non ridere, sembrava un orso che si grattava il culo contro il tronco.

Charlie e io afferrammo il parafango e cominciammo a spingere e solle-vare nel tentativo di liberare le ruote dal solco che si era creato. Paata urlò a Nana di farle girare e poi ci raggiunse. Si slacciò la giacca per non suda-re. Io, invece, non ne vedevo l'ora.

Quando Nana accelerò, il fango schizzò come da uno spandiletame. Paata urlò altre istruzioni e Nana premette ancora il pedale. Le ruote gi-

rarono con meno violenza. Charlie e io, appoggiati contro il portellone posteriore, cercavamo di sol-

levare e mollare in modo che il veicolo uscisse dai solchi. Non so a quanto servisse, e le mani di Charlie tremavano come quelle di un percussionista pazzo.

«Paata», chiamò Charlie. «Vi è già capitata una cosa del genere?» «Sicuro. Sono un esperto!» Ci guardò con un sorriso divertito. «Ho

sempre chiamato il carroattrezzi.» «Ottima idea.» Risi. «E questa volta no?» «Quassù i cellulari non funzionano. Non fino a Borjomi.» Charlie gli toccò un braccio. «Senti, amico, a me è capitato nella neve.

Non è difficile quanto nel fango ma il principio è lo stesso.» Charlie si abbassò a controllare il semiasse. «Il fango si attacca al telaio

e impedisce ogni possibile trazione; far girare le ruote non ottiene altro che sprofondare di più. Noi tre che siamo i più forti restiamo qui dietro, mentre Nana ci deve aiutare a far ondeggiare il furgone avanti e indietro. Deve cercare di tenere le ruote più dritte possibile e scalare veloce dalla prima alla retromarcia e poi al contrario, fino a ottenere un ritmo regolare. Quan-do quest'affare sarà libero deve portarlo su un terreno solido. Dovrebbe an-che riuscire a non far girare a vuoto gli pneumatici, se possibile.»

Paata le comunicò le istruzioni di Charlie. «Ehi, autista», urlò Bastardo da sotto il suo albero. «Che ne dici di por-

tarmi qualcosa di caldo?» Era tornato quello di sempre. Una merda. Paata si dimostrò molto intelligente. Lo ignorò. Il motore andò su di giri e noi cominciammo a spingere. Non sapevo

quanto potesse resistere Charlie. Nana inserì la retromarcia e Paata si tolse una badilata di fango dalla

faccia. «Fatemi entrare nel furgone», urlò Bastardo. «Il caffè me lo faccio da

solo.» Paata borbottò qualcosa tra sé. Pensai di aver appena imparato come si

dice «vai a fare in culo» in lingua-graffette. Charlie arretrò d'un passo. La caviglia sembrava sul punto di cedere.

«Ascolta, Paata, non funziona. Hai una pala?» «Magari», rispose Paata. Dalla sua espressione compresi che se l'avesse

avuta l'avrebbe sbattuta sulla testa di Bastardo. Charlie aprì la portiera del passeggero e frugò all'interno. Ne uscì con il

tappetino di gomma che era sul fondo e me lo passò. «Con questo puoi provare a rimuovere il fango dalle ruote in modo che riescano a fare pre-sa.» Si rivolse a Paata: «Avete le catene da neve?»

Paata disse un paio di frasi veloci a Nana in lingua-graffette e sentii che la portiera scorrevole veniva aperta e chiusa. Quando tornò ne aveva un paio fra le mani. Charlie le sistemò nei solchi che avevo cercato di compat-tare dietro ogni ruota e ci aggiunse anche il tappetino per buona misura.

Al segnale di Charlie, Nana mandò il motore su di giri e staccò la frizio-ne. Le ruote girarono per un secondo e poi il Mercedes uscì dai solchi e raggiunse il terreno solido.

Bastardo staccò il culo dall'albero alla velocità di un lampo. Nana scese. Indossava scarponcini, pantaloni in tessuto impermeabile e

un costoso giubbotto in Gore-Tex nero come quello di Paata. Non supera-va il metro e sessantotto, aveva lineamenti da fatina ma non c'era niente di vaporoso nel suo modo di fare. Raggiunse la fiancata del furgone con la stessa decisione di un missile che punta il bersaglio.

Bussò due volte. Sentii un clic e la portiera si aprì e rivelò una fila di monitor TV incastratati in una struttura di metallo che fungeva da paratia con i sedili anteriori, una montagna di scatole di alluminio e un uomo an-cora più determinato che aveva una lunga barba e bicipiti grandi quanto le gambe di Bastardo.

«Lui è Koba», disse Nana. «Mi dispiace ma viviamo in tempi molto pe-ricolosi. Koba è la nostra garanzia che nessuno ci faccia del male.»

Nana non scherzava. Koba non avrebbe sfigurato nel cimitero di Tbilisi con un'ascia fra le mani. Ci guardò in silenzio con gli occhi scuri semi-chiusi come se dovesse decidere chi prendere a testate per primo.

«Qui dietro c'è posto soltanto per tre.» Nana si rivolse a Charlie. «Perché non vai davanti con Paata così puoi allungare la gamba? Mi sembra che ti

faccia molto male.» Bastardo non aveva bisogno di farselo dire due volte. Si issò dentro e io

lo seguii. Senza dubbio era una postazione per le riprese esterne del noti-ziario. Feci due più due e di colpo desiderai avere ancora quello stupido berretto.

L'impressione era di aver già visto Nana. Era lei di fronte alle telecamere quando avevano trasmesso in diretta l'assedio di Kazbegi.

4

Spostai un paio di cavi per fare posto ai piedi. Attraverso lo sportellino

vedevo bene Paata e Charlie, incorniciati dai monitor. Di lato qualcuno a-veva attaccato una composizione di fotografie del passato recente di Nana.

Una la ritraeva in posa, stile Fiona Bruce, a un tavolo da telegiornale, truccata e con un sorriso sincero. La didascalia in graffette, russo e inglese la promuoveva per qualche premio. Di certo si era tenuta occupata parec-chio. Aveva messo a nudo la corruzione in ogni settore del governo, «in-dagando sul coinvolgimento dei media e sul clientelismo a tutti i livelli».

In un'altra foto era con l'esercito georgiano, mentre documentava l'asse-dio dei terroristi a Kazbegi, lungo il confine con la Russia non più di due settimane prima. L'articolo diceva che era stata la prima giornalista a inter-venire sul posto e ad aver mandato in onda la diretta per la CNN.

Nessuno parlava. Nana era tesa e nervosa e noi ci adeguavamo. L'inso-norizzazione faceva un ottimo lavoro per attutire il rumore della pioggia e accentuava l'innaturale silenzio.

Bastardo, come era prevedibile, non se ne accorse. «Dove cazzo è quel caffè?»

Nana infilò la mano in una grande sacca chiusa con la cerniera che era a terra e gli allungò un termos di acciaio inossidabile.

Bastardo svitò il tappo e Koba seguì ogni suo movimento. «Lavorate per l'oleodotto?» chiese Nana. «Siete tecnici, progettisti?» Bastardo riempì una tazza fino all'orlo e l'aroma del caffè si diffuse nel

furgone. «Sicurezza.» Si rivolse a me. «Anche tu? Hai un documento? A Koba piace sapere chi

ha davanti.» «Era tutto nella sacca nel Pajero.» Feci del mio meglio per assumere

un'espressione contrita. «Abbiamo perso tutto.» Nana spostò la sua attenzione su Bastardo. «Abbiamo intenzione di fare

un documentario sull'oleodotto. Forse un giorno lavoreremo insieme.» Bastardo si gustava il caffè. Non aveva neppure pensato di offrirlo agli

altri. «Anti, immagino.» «Prego? Ah, ho capito.» Nana strinse i pugni. «Non credete che sia una

follia che un oleodotto attraversi un parco naturale?» Bastardo fece un respiro profondo. Stavamo per subire il suo discorso al-

la nazione. «Senta, signora, lei non vede il grande quadro. Era necessario che passasse di qui per evitare la Russia a sud. Non a caso la loro posta-zione viene chiamata Città Militare Numero Uno. È il vostro popolo che li chiama i vicini aggressori, non noi.»

Era evidente che Koba non gradiva il tono di Bastardo e Bastardo lo sa-peva. «Cosa cazzo hai da guardare, Lurch?»

Gli occhi affossati di Koba rimasero immobili. Bastardo finì il caffè e io mi intromisi per cercare di fermarli. «E tu, Nana? Perché vai a Borjomi?» Socchiuse gli occhi. Sapevo di non piacerle, speravo soltanto di sba-

gliarmi sul perché. «Probabilmente non ne avete sentito parlare perché si tratta di una questione strettamente locale e non fa parte del grande qua-dro...» Guardò Bastardo, ma era ironia sprecata con lui. «Poco più di una settimana fa, i terroristi rivoluzionari hanno massacrato oltre sessanta fra donne e bambini, in un villaggio che si chiama Kazbegi...»

Avevo già visto l'espressione del suo viso. Hazel e Julie l'avevano spes-so. Tentò di riprendere il controllo.

«Una famiglia di contadini ha perso l'unico figlio nei massacro. Una bambina. Aveva sette anni...»

Si fermò di nuovo. «Sabato scorso eravamo con loro. Stiamo tornando lì perché vogliono

raccontare in diretta cos'è la vita sotto la tirannia di Akaki, il capoterrori-sta. Non lotta per la libertà, è un egoista, un criminale dittatore. Quella po-vera gente vive nel terrore. Ma questa coppia, be', loro ne hanno abbastan-za.»

Bastardo cominciò a ridere. «Cosa possono fare mammina e papino? Credono di poter cambiare il mondo? Credono che Akaki si calerà i panta-loni e se la darà a gambe? Non faranno altro che farsi uccidere. Stupidi i-dioti del cazzo.» Guardò Koba. «Non è così, Lurch?»

Koba si agitò sul sedile. Aveva sentito il nome Akaki e non gli piaceva neppure un po'.

Bastardo non riusciva a smettere, ormai era partito. «Quell'Akaki... ha

causato un bel po' di seccature in giro, nel corso degli anni.» «Seccature? Seccature?» Nana scosse la testa incredula. «Sì, suppongo

che si possano chiamare così... avete sentito parlare dell'assassinio di Zu-rab Bazgadze?»

Si rivolgeva a lui ma avevo la sgradevole sensazione che parlasse a me. «Il Santo? Quello che ha cercato di ostacolare l'oleodotto?» «Per ottime ragioni.» Nana guardò Koba. La sua espressione sembrava

comunicare approvazione nel caso avesse deciso di staccare la testa a Ba-stardo. Del resto era sul punto di farlo con le sue mani. «Come forse avete notato, la struttura di questo territorio è piuttosto instabile. Geologicamen-te è una zona complessa, soggetta a frane e terremoti. La rottura dell'oleo-dotto sarebbe un disastro ambientale.

«Zurab sapeva che sarebbe stata la rovina per la sorgente naturale. L'ac-qua minerale è il primo prodotto di esportazione della Georgia. Per le per-sone che abitano qui è l'unica fonte di sussistenza. Nessun altro ha sostenu-to la loro causa con pari vigore.»

«Zurab? Era un suo amico, signora?» «Lo era diventato. L'avevo intervistato parecchie volte nel corso degli

anni; l'ultima poco prima che morisse. Era con noi sabato, in visita alla famiglia in lutto. Era fatto così. Un uomo del popolo. Avevamo in pro-gramma una lunga ripresa con lui domenica mattina ma è dovuto tornare a Tbilisi all'improvviso, così abbiamo registrato soltanto pochi minuti...»

L'espressione era di sfida ma vidi che aveva gli occhi pieni di lacrime. «Adesso, naturalmente, mi pento di non aver insistito perché si fermasse

di più.» Mi piegai in avanti e poggiai i gomiti sulle ginocchia. «Voi siete della

trasmissione 60 minuti, vero?» Nana annuì. Tornava tutto. Il Georgian Times riportava che 60 minuti avrebbe ospita-

to la consegna del memoriale di Baz. «Nei tubi ci sono sensori di rottura», disse Bastardo. Come se non aves-

se ascoltato una parola. «L'impianto verrà sigillato a giorni.» Nana in qualche modo riuscì a mantenersi calma. «E in quel momento

tutta la zona sarà contaminata. È per questo che Zurab è riuscito a ottenere un'ingiunzione per impedire che l'oleodotto passasse da qui. Ma i vostri... amici... l'hanno revocata. Zurab ci ha detto che la decisione veniva diret-tamente da Washington, che era intervenuto il vostro presidente che tanto ama la libertà.»

In realtà Bastardo neppure l'ascoltava. Dall'espressione sul suo viso sembrava che l'avesse colta nell'atto di dar fuoco alla bandiera a stelle e strisce. «Al tempo, signora, il vostro Zurab sapeva che traevate vantaggio da tutto questo e se non fosse stato per noi sareste ancora nel Medioevo. Noi vi finanziamo. Vi diamo l'indipendenza, la libertà e la stabilità, in cambio di cosa? Pochi chilometri di tubo di metallo. Il mio presidente tro-va anche il tempo di venire qui per dimostrarvi che ha intenzioni serie. Co-sa cazzo si aspettava ancora da noi il vostro santo Zurab?»

Koba sembrava sempre più incazzato. Nana lo placò con poche parole sussurrate piano, e scosse tristemente la testa. «Zurab non riusciva a capire perché, se per voi la democrazia e la stabilità sono la priorità, offriate sup-porto a un governo il cui livello di corruzione è senza limiti. Il popolo non trae alcun beneficio dal vostro sedicente altruismo e quindi è portato a pensare che siate qui soltanto per il petrolio.»

Bastardo era diventato viola. «La vuole sapere una cosa, signora? Non me ne fotte un cazzo. Bazgadze e quelli come lui mi fanno vomitare l'ani-ma, non fanno che lamentarsi di questo e di quello. Cazzo, prima del no-stro arrivo passavate le giornate in coda per un pezzo di pane eppure lui non faceva che lamentarsi, del suo governo, del mio governo, dei russi, del corridoio dell'energia. Ma c'è di più.» Si portò un dito alla tempia con una forza tale che le vene si gonfiarono. «Io me ne sbatto se quelli del governo della Georgia vanno in giro con la Cadillac. Era un suo problema, non cer-to mio.»

«Sono d'accordo, era un problema suo. Ma è anche un mio problema, un problema per la Georgia e, vediamo di capirci, anche un vostro problema. Zurab aveva ragione. Sapeva che la vostra nazione era più interessata al petrolio che alla democrazia. La democrazia è un pretesto, la bandiera a-datta da sventolare. Vi comportate qui esattamente come avete fatto in Sud America, in Africa, in Medio Oriente. Inviate l'esercito, fate contenti i go-vernanti corrotti e costruite le basi perché le vostre truppe proteggano i vo-stri interessi sul petrolio. Nel frattempo, la nostra gente, la vostra gente, non ottiene nulla.»

Mi appoggiai contro le casse di alluminio. La teoria di Charlie che «i piccoli vengono sempre fottuti» era stata espressa in modo compiuto.

«Zurab sapeva bene che voi, l'America, usate la guerra al terrorismo e la paura per la sicurezza nazionale come supporto allo spiegamento di forze all'estero, e i vostri eserciti si trasformano in forze di protezione per ogni giacimento di petrolio, ogni oleodotto, raffineria e percorso di petroliere

dell'intero pianeta. E il prezzo che noi paghiamo è molto più alto di quanto possiate immaginare. Voi pensate che sia quantificabile in dollari, ma non è così. Viene pagato col sangue.»

Neppure Bastardo avrebbe saputo cosa replicare, ma non fu costretto a farlo. Paata si voltò e si sporse verso di noi. «Siamo arrivati.»

5

Pochi secondi dopo Charlie infilò la testa nel varco fra i sedili. «Non ha

per niente l'aria di essere il centro numero uno dell'esportazione nazionale, ma è così.»

Guardai fuori dal finestrino. Vidi case sparse lungo i fianchi della valle che aumentavano a mano a mano che la strada raggiungeva un gruppo di tetti a circa cinquecento metri di distanza.

L'intera zona aveva un aspetto florido, verde, e molto umido. I sentieri infangati, le staccionate in legno grezzo e le casupole in legno avevano un sapore quasi medievale. Non fosse stato per un gruppo di galline che zam-pettavano in giro e qualche mucca che ruminava nei campi, il posto sem-brava deserto. La pioggia torrenziale teneva gli abitanti al coperto, e non potevo biasimarli.

La strada sterrata era rinforzata da mattoni rotti e ciocchi di legno. Pur-troppo in vista non c'era nessun 4x4. Mi chiesi quanto avremmo impiegato per raggiungere la Turchia su un carretto trainato da cavalli.

Charlie si rivolse a Paata. «Adesso che si fa?» «Torniamo dove Nana ha trasmesso l'intervista da Kazbegi. Dobbiamo

nascondere il Mercedes, Nana non è molto benvoluta da queste parti. Do-vrebbe esserlo, ma non è così. A lei piace ficcare il naso anche dove la gente non gradisce.» Serrò la mascella. «L'agricoltore ci lascia dormire qui, con furgone e tutto. È un brav'uomo. Lui e sua moglie sono la coppia che siamo tornati a trovare.»

Superammo una fattoria che cadeva a pezzi e girammo a destra. Ci fer-mammo davanti a un gigantesco granaio di legno grezzo con fessure fra le travi e il tetto di lamiera ondulata rugginosa e rappezzata. Paata saltò giù per aprire le porte.

Bastardo lo interpretò come il segnale che poteva ricominciare a blatera-re. «Il foglio dice che dovete aiutarmi. Voglio un mezzo.»

«Lo chiederò a Eduard», disse Nana con calma. «Ci aspetta dentro.» Paata tornò a bordo e avanzammo per circa quindici metri all'interno del

granaio. L'altezza del soffitto era tre volte il Mercedes e avrebbe potuto da-re ricovero ad altri sei furgoni per parte.

Puzzava di marcio e di letame vecchio, ma almeno era asciutto. In vista non c'erano attrezzi o macchinari e neppure una balla di fieno. Nell'angolo più lontano scorsi una panchina in legno tagliato con l'ascia vicino ai resti di quel che restava di un piccolo falò. Pareva il punto in cui la squadra a-veva dormito.

Nana disse qualcosa a Koba in lingua-graffette. Koba annuì e prese po-sto di lato a pochi passi da noi. Aprì la cerniera del giubbotto mentre Ba-stardo si calava a terra.

«Dov'è questo Eduard? Ho molti affari da sbrigare.» Nana faceva del suo meglio per mostrarsi allegra ma vidi che era preoc-

cupata. «Arriverà. È uno che mantiene le promesse.» Era a disagio. Guardò Paata, poi me e infine Charlie.

Il contatto visivo era troppo intenso. Qualcosa non andava. «Anche noi dobbiamo andare», dissi cordiale. «Grazie del passaggio.» «Eduard saprà dirci se c'è qualche mezzo di trasporto. Adesso lo chia-

mo.» Seguii il suo sguardo su Paata e Koba e percepii la loro tensione. Pare-

vano sui blocchi di partenza in attesa di qualcosa. Guardai Nana che premeva i tasti sul cellulare. Per un attimo ebbi la vi-

sione di un contadino che percorreva la strada irregolare lottando con il vo-lante di una vecchia Lada e che si frugava nelle tasche per trovare il suo Nokia.

Un agricoltore della Georgia con il cellulare, e chi cazzo doveva chiama-re?

Riportai rapido lo sguardo su Nana che fissava Koba, e l'intesa che vi lessi mi fece capire tutto.

Lei sapeva. Aveva sempre saputo. Tutte quelle parole appassionate e rabbiose erano servite soltanto a tenerci occupati.

Mi avvicinai a Charlie, gli occhi incollati sui piedi di Koba, fra noi e la portiera. Non volevo incontrare altri sguardi e peggiorare le cose. «Avanti, amico», mormorai. «Andiamo.»

6

Charlie mi seguì mentre mi avviavo all'uscita, pronto ad affrontare Koba

se avesse deciso di bloccarci. La prospettiva non mi piaceva ma, come al

solito, non avevamo alternativa. Koba avanzò di un passo. La cosa si faceva rumorosa. Lo caricai a testa bassa. Nana urlò, ma la mano dell'uomo si mosse velo-

ce. Un secondo dopo fissavo una lucida canna cromata che distava tre o quattro metri dalla mia faccia. Ci teneva tutti e tre sotto tiro, lo scatto della 50 Magnum Desert Eagle ci intimava che l'unica cosa saggia da fare era abbassarci a terra.

Guardai Nana. Aveva ancora il cellulare contro l'orecchio. «Nana, che succede? Cosa c'è che non va?» Koba mi assestò un rapido calcio a un fianco. Chiusi il becco e assorbii

il dolore, decisamente più piacevole di un colpo della Desert Eagle. Non era un caso che la pesante semiautomatica costruita in Israele fosse l'arma preferita di un gangster americano con un po' di amor proprio.

Nana mi lanciava occhiate piene di odio mentre parlava in lingua-graffette, e la cosa non mi faceva sentire meglio.

Paata prese un paio di contenitori di alluminio dal furgone e li trascinò verso di noi. Prima che terminasse la telefonata la sentii ripetere più di una volta il nome di Baz.

«Sai benissimo cosa non va. La polizia sta arrivando.» 'Fanculo a Koba e ai suoi stivali, era arrivato il momento di parlare e di

fare il tonto. «Ma, io non capisco... perché ce l'avete con noi? Non abbiamo fatto

niente.» M'irrigidii pronto a ricevere un altro calcio. Invece lei si avvicinò e si accucciò vicino alla mia testa. «Pensi forse che non ti abbia riconosciuto? Tu hai ucciso Zurab. I noti-

ziari non solo li faccio, ma li guardo anche.» Il fare da tonto non aveva funzionato. «Aspetta, Nana... Sì, ero là. Charlie e io eravamo là. Ma non l'abbiamo

ucciso noi. È stato Akaki, i suoi uomini.» Mi fissò gelida, sollevò una mano per fermarmi. «E allora? L'unica dif-

ferenza fra voi è che Akaki è arrivato prima. Com'è andata? Zurab ha fatto troppo rumore per i vostri gusti? Ma cosa importa? Tutti voi lo volevate morto. Perché se no eravate lì? E questo, poi...» - puntò un piede in dire-zione della testa di Bastardo - «ha un lasciapassare del governo. Cosa ne devo dedurre?»

Pochi metri da noi Paata si dava da fare per sistemare il supporto della cinepresa e le luci.

La cosa strana era che Bastardo era rimasto a lungo in silenzio, ma esse-

re faccia a terra non gli impedì di riprendere il solito atteggiamento. «Non vorrete accomunarmi a questi due stronzi, vero? Io sono della sicurezza dell'oleodotto, punto. Niente a che spartire con quello che hanno fatto loro. Quel foglio dice che dovete aiutarmi, quindi datevi da fare.»

«Ti disprezzo.» Nana lo fissò. «Sei colpevole come se avessi premuto tu stesso il grilletto.»

Paata aveva messo a punto le luci, davanti e di fianco a noi, e comincia-va a passare i cavi sino al furgone.

Ecco fatto. Era arrivato il nostro momento di notorietà. Catturati dalla te-lecamera di Nana Onani. Mi chiesi come l'avrebbero presa Hazel e Silky.

Evidentemente Charlie aveva gli stessi pensieri. «Non guardare», bor-bottò. «Stiamo per avere un ruolo da protagonisti nella versione di Nana del programma Sono una celebrità, tiratemi fuori da qui...»

«Potrebbe valere un Emmy, non credete?» disse lei, poi urlò qualcosa a Koba in lingua-graffette. Lui annuì obbediente. La canna della Desert Ea-gle non si spostò di un millimetro quando Nana si alzò e compose un nu-mero sul cellulare.

«Non lo abbiamo ucciso, Nana. Hai visto i filmati. Mi hai visto mentre lo uccidevo?»

«Conserva il discorsetto per la ripresa. Avrete tutti la vostra occasione.» Parlò al cellulare, rimase in attesa per qualche secondo, e poi riprese a

parlare. Paata azionò il generatore che era sul Mercedes e le luci si accesero. Ne

sentivo il caldo sul viso e sulla schiena. Presto una nuvola di vapore avvol-se i miei vestiti.

Adesso Nana parlava velocissima in graffette; guardò l'orologio e agitò il braccio libero in direzione di Paata e dell'attrezzatura, come se chi fosse dall'altro capo avesse potuto vedere. Adesso riuscivo a capire ogni volta che citava Baz. Logico, l'avevo sentito nominare fin troppe volte negli ul-timi due giorni.

Paata s'inginocchiò vicino al furgone per estrarre un disco satellitare da una custodia nera che ricordava la sacca delle mazze da golf. L'esclusiva di Nana sarebbe stata trasmessa in diretta, e noi ci saremmo dichiarati inno-centi davanti alle telecamere un attimo prima dell'arrivo della polizia.

Era il momento di decidere. Dovevamo consegnare adesso il memoriale? Forse in qualche modo sa-

remmo riusciti a cavarcela se l'avessimo fatto. Bastardo non le avrebbe detto un beato niente. Perché incriminarsi da

solo? Ma Charlie, forse... Decisi di aspettare finché tutto fosse pronto per le riprese. Forse ci a-

vrebbero consentito di stare seduti; ogni possibilità di muoversi offre l'op-portunità di entrare in azione.

Nana terminò la conversazione e posò lo sguardo su qualcosa alle nostre spalle. «Quella panchina?» C'era tristezza nella sua voce. «Zurab era sedu-to lì sabato, quando ha ricevuto la telefonata che l'ha fatto tornare a Tbilisi. Se soltanto... Se non fosse andato... Se gli avessi fatto ancora due o tre domande, chissà come sarebbe andata a finire.» Girò la testa verso di me e mi guardò ancora con disprezzo.

Charlie ruppe il silenzio. «Nana, non siamo stati noi. Posso provartelo. Abbiamo il fascicolo. Il

memoriale che tutti vogliono? Ce l'ho qui, e ho qui anche un nastro del grasso coglione che ha organizzato tutto.» Si voltò verso Bastardo. Fra lo-ro soltanto un metro di distanza. «Sicurezza dell'oleodotto i miei coglioni.»

7

Il nastro cominciò a girare sulla console. Koba ci aveva fatto spostare a terra, vicino alla portiera aperta del Mer-

cedes, ci teneva sotto tiro ma potevamo vedere tutto quello che c'era da vedere. Uno dei monitor ci consentiva un'ottima visuale, così come Koba e la Desert Eagle avevano una perfetta padronanza su di noi.

All'inizio Paata e Nana sembravano preoccupati per quello che poteva essere successo a Eduard. Stavo cominciando ad abituarmi alla lingua-graffette. Dov'era? Ma poi smisero di parlare mentre lui guardava il filma-to e Nana scorreva le carte di Baz.

La chiarezza delle immagini era accettabile considerato quello che il na-stro aveva passato. Erano un po' confuse e rovinate dal fango, ma Jim Ba-stendorf risultava perfettamente riconoscibile, senza possibilità di errore, nella stanza di Charlie al Marriott.

Il piccolo schermo 10x8 non rendeva piena giustizia al travestimento di Charlie, ma mi fece comunque sorridere. Si era ricordato di restare sempre di spalle, giusta mossa, visto come si era conciato. Si era coperto la testa e la schiena con un asciugamano, come un pugile, ma nessuno l'avrebbe pre-so per Muhammad Alì. Aveva completato l'insieme con la cuffia della doccia.

Qualcuno disse qualcosa, ma la qualità del suono era scadente. Paata riavvolse il nastro e aumentò il volume.

Sentimmo tutti la voce di Bastardo che spiegava a Charlie perché doveva andare nella casa di Baz sabato notte. «Lo stronzo starà via fino a domeni-ca.» Poi aveva puntato il dito verso l'asciugamano che aveva di fronte. «Quindi deve avvenire sabato notte, capito bene?»

Spostai lo sguardo dal monitor alle porte aperte del granaio. La strada sterrata stava assumendo l'aspetto di un laghetto per le oche. Quanto ci a-vrebbe messo la polizia? E da dove sarebbe arrivata? Se c'era una stazione delle forze dell'ordine a Borjomi, le biancazzurre potevano arrivare da un minuto all'altro.

Koba era sempre in piedi, saldo come una roccia, a tre metri di distanza. Molto professionale. Che possibilità avevo di prendere lui e la Desert Ea-gle prima di sentire le sirene? Dovevamo provare. Eravamo in tre, contan-do anche Bastardo, ed ero convinto che si sarebbe aggregato. Era rimasto troppo a lungo in silenzio per i miei gusti, ma sapevo che anche lui non aveva nessuna voglia di farsi catturare.

Nana mi guardò. «Sai cosa c'è scritto?» Feci cenno di no con la testa. Tentai di nuovo di spiegarle perché eravamo in casa di Baz, ma lei con-

tinuò a leggere. Adesso rimpiangevo di non essere entrato in azione quando Koba ci a-

veva fatto alzare a calci per spostarci fino al furgone. Non le importava, avrebbe atteso la polizia.

Ma che cazzo, le avevo detto tutto quello che sapevo: il ruolo di Bastar-do, perché ci trovavamo nella casa e come il nastro fosse la prova non sol-tanto che Bastardo era coinvolto, ma pure che ignoravamo che Baz sarebbe arrivato...

«Ehi, signora», attaccò Bastardo. «Io eseguo gli ordini. Non sapevo niente dell'omicidio. Non immaginavo che sarebbe tornato a casa...»

Fiato sprecato. Per tutti e due. Nana teneva la testa bassa e a meno di metà della seconda pagina sollevò una mano per farci tacere.

Teneva il documento in grembo. Osservai una lacrima scenderle su una guancia e cadere sul foglio.

«Oh, mio Dio.» Trattenne a stento un singhiozzo. «Oh, mio Dio...» Al-lungò una mano e toccò la schiena di Paata. «Dobbiamo andare in diretta con questo, e subito.»

8 Nana lesse d'un fiato le ultime pagine, si asciugava di continuo il viso

con il dorso della mano per non far cadere sul foglio le lacrime che avreb-bero fatto spandere l'inchiostro.

Quando Paata posizionò il disco appena fuori dalle porte del granaio, su tutti i monitor ondeggiarono strisce colorate. Alle nostre spalle Koba si mosse di scatto. Forse, come tutti noi, anche lui voleva sapere. Cosa non andava? Cosa c'era scritto?

Sugli schermi, una donna con la giacca azzurra si materializzò davanti ai nostri occhi. Era seduta alla scrivania di uno studio vuoto. Indossò le cuf-fie, e gli altoparlanti gracchiarono. Sicuro come l'oro, eravamo in diretta. «Nana? Nana?»

Nana tolse l'audio e indossò a sua volta le cuffie e il microfono ad astina. Si prese un momento per recuperare il controllo e poi iniziò a parlare con voce concitata ma chiara. Il nome di Baz venne pronunciato molte volte e molte altre ancora mentre lei a occhi bassi citava lunghi pezzi del docu-mento. La donna in studio sembrava disgustata. Dietro di noi, Koba era sempre più infuriato. Non era un bene: il documento di Baz, in teoria, do-veva aiutarci.

Quando raggiunse l'ultima riga della prima pagina, chiuse di scatto la cartellina e l'infilò nella tasca laterale del Gore-Tex.

Scambiò due frasette di chiusura con la collega in studio, che si alzò dal-la scrivania e scomparve.

Gli occhi di Nana erano ancora gonfi. «Avevamo in programma di ri-volgerci al parlamento domani, con Zurab.» Ce la stava mettendo tutta per non crollare. «Dovevamo riprenderlo mentre ci presentava il contenuto di questo documento davanti ai suoi colleghi del governo, di fronte agli stessi uomini che stava per denunciare.» Scosse lentamente la testa. «Ma nessu-no di noi aveva idea, nessuna idea che le sue rivelazioni fossero così... co-sì...» Faticò a trovare la parola giusta. «Abominevoli», riuscì a dire, ma compresi che non era ancora abbastanza.

Il vocabolo rimase sospeso nell'aria, poi Nana si portò di nuovo la mano alla bocca. Non sapevo che cosa dire, e come avrei potuto? Ignoravo il contenuto del fascicolo. L'unica certezza: Nana era una tipa tosta, ma le di-chiarazioni di Baz l'avevano sconvolta. E pure che il documento non ci a-vrebbe aiutato a sollevarci da terra e a fuggire.

«Nana, ci credi adesso? Devi lasciarci andare prima dell'arrivo dei poli-

ziotti. Nana?» Non ascoltava. «Non mi ha detto niente... deve aver avuto paura di met-

termi in pericolo...» Si voltò a guardarci, aveva gli occhi rossi pieni di o-dio. «Credervi? Perché? Perché dovrei credervi? Spiegatelo ai poliziotti. Forse loro riuscirete a convincerli.»

«Senta, signora. Io non c'ero. Ho avuto ordine di consegnare la borsa. Non mischiatemi con questi stronzi assassini.» Bastardo non mollava. Quasi quasi cominciavo ad ammirarlo.

«Tu! Chiudi quella cazzo di bocca.» Evidentemente Charlie non la pen-sava come me.

Dovevamo riuscire a convincerla prima dell'arrivo delle uniformi. Era improbabile che parlassero la nostra lingua. «Nana. Perché ti avremmo da-to quella roba? Ti abbiamo detto che cosa è successo. Mi hai visto mentre lo uccidevo? No. Noi eravamo là soltanto per le carte. Se fossimo coinvol-ti, perché avremmo filmato il ciccione?»

Non funzionava. Si voltò verso i monitor. Stavano replicando il bolletti-no. La ragazza nello studio parlava ma non c'era suono. Per lo meno non proveniva dagli schermi. Ma tutti sentimmo il rumore di fuori.

«La polizia.» Nana sembrava sollevata. Paata tornò di corsa nel granaio. Urlava in lingua-graffette. Riuscii a co-

gliere soltanto una parola e non prometteva niente di buono. Voltai la testa. Koba era sempre dietro di noi. Neppure a lui aveva fatto

piacere sentire il nome di Akaki. Il rumore di motori si fece più forte. Koba era sempre più agitato. Tre o

quattro veicoli carichi di terroristi e lui era solo. Capivo bene il suo di-lemma.

Nana cercò di calmarlo, ma senza successo. La Desert Eagle era sempre puntata su di noi, sicura abbassata, e la canna ondeggiava da una parte all'altra. Preoccupante. Lacrime di rabbia riempivano i suoi occhi.

Bastardo se ne stava sdraiato tranquillo, anzi sembrava quasi divertito. Cosa cazzo gli succedeva?

Charlie si girò. «Calmati, Koba. Oppure punta quel cazzo d'affare da qualche altra par-

te...» Guardai sotto il furgone lungo il muro sul fondo. Nessun segno di una

porta sul retro. I veicoli ci erano ormai addosso. Charlie fu il primo a scorgerli. «Furgo-

ni dei talebani!»

Guardai verso le porte. Uomini mascherati di nero e con giacche verdi da combattimento, alcuni

con il poncho, sciamarono dai pick-up Toyota, armati di AK, mitragliatrici leggere e cinturoni di 7,62 corti.

Koba si slanciò di corsa verso di loro, urlava, singhiozzava, sembrava impazzito.

Saltai in piedi e afferrai Charlie. «Andiamo, via, via!» La pesante Desert Eagle sobbalzò in mano a Koba. Sentii urla da en-

trambe le parti. Charlie e io ci spostammo veloci dietro il Mercedes. Dio solo sapeva

dove fossero finiti gli altri tre. Me ne sbattevo. Bastardo si materializzò alle nostre spalle quando due raffiche di AK zit-

tirono la Desert Eagle. Urla infuriate rimbombarono nel granaio. Guardai sotto il Mercedes. Koba agonizzava nel fango vicino a uno dei

furgoni. Dai buchi dei proiettili nel torace zampillava il sangue. Un uomo grosso con i capelli scomposti e una barba stile Osama si avvi-

cinava a lui a grandi passi, il calcio di un AK spuntava dal poncho che por-tava sulla spalla. Si piegò e tirò il grilletto. L'arma rinculò e la testa di Ko-ba esplose come un melone.

PARTE UNDICESIMA

1

Una cosa era certa, Nana aveva le palle. Si slanciò verso Akaki e gli uomini che si accalcavano alle porte del

granaio. Sembrava quasi che volesse congratularsi con lui per la magistrale vittoria su Koba, codardo leccapiedi del capitalismo. Poi li intrattenne con un gran gesticolare di mani e lingua-graffette mentre indicava il disco sa-tellitare, il furgone, le luci e la cinepresa.

Purtroppo non riuscii a vedere la fine della sua esibizione. Un altro cari-co di uomini aveva aggirato il Mercedes e, a furia di calci e spinte, con il fucile ci avevano spostato nell'angolo più lontano del granaio, accanto alla famosa panchina di Baz. Comunque avevo visto abbastanza per poter af-fermare che, qualsiasi cosa lei facesse, gli uomini di Akaki non erano buo-ni ascoltatori.

Cercai di vederne l'aspetto positivo. Se non altro avevamo guadagnato una postazione seduta. Provai anche a mostrarmi calmo e a evitare il con-

tatto visivo diretto con gli uomini che ci radunavano. Uno di loro si era in-filato nella cintura la Desert Eagle di Koba sporca di fango.

Bastardo scrutava la folla, i suoi occhi erano ovunque. I ragazzi di Akaki si tolsero le maschere e vidi facce ruvide coperte di

barba e denti anneriti. C'erano un paio di adolescenti che non avevano an-cora superato lo stadio della prima peluria, ma la maggior parte era vicina ai trenta, forse qualche anno in più. Tutti comunque si comportavano con la stessa arroganza, consapevoli di essere i cazzuti del posto. Sembravano mujaidin afghani che la guerriglia aveva indurito in tutto, fino alla scelta della macchina. Erano anni che nessuno di mia conoscenza chiamava Ta-liwagon il pick-up Toyota.

Qualcuno si era sparato verso il Mercedes e adesso ci guardava dentro. Altri, cosa più preoccupante, ci fissavano con occhi vuoti come i drogati del cimitero.

Nana stava ancora cercando di intrattenere il gruppo vicino alle porte, il quale peraltro sembrava aver perso ogni interesse. La maggior parte le lan-ciava occhiate lascive scambiando con i compagni commenti maschili che non lasciavano spazio al dubbio.

Paata non aveva mai smesso di guardarla. Mi augurai che non stesse meditando di fare il supereroe. Uno di noi steso nel fango bastava e avan-zava.

Charlie continuava a cercare con gli occhi l'inesistente uscita posteriore e la fila di alberi a metà collina che c'era dietro.

Gli uomini di Akaki arretrarono in reverenziale rispetto quando lui spo-stò con un colpo Nana e avanzò a passo deciso nel granaio. Si fermò e stu-diò la situazione con occhi folli e crudeli. Dai capelli neri e ricci scendeva-no goccioline di pioggia. Si prese una manata di barba e la strizzò. Ne uscì un buon mezzo litro, probabilmente qualcosa di più.

Nana stava raccogliendo le forze per tornare ad affrontarlo quando al centro del granaio furono trascinati due cadaveri coperti di sangue. En-trambi i corpi erano crivellati di colpi ma i segni precisi di spari nelle mani e nei piedi raccontavano la realtà della storia.

Eduard e sua moglie avevano già avuto la loro intervista. Nana si slanciò di corsa ma Bastardo fu più veloce. Balzò in piedi e

spinse da parte due terroristi che non erano stati abbastanza pronti a to-gliersi di mezzo. «Akaki, miserabile stronzo!»

Akaki si tolse il poncho bagnato. Indossava un paio di Levi's 501, una giacca da combattimento americana e un golf di lana che aveva comprato

nello stesso negozio dove Charlie e io avevamo preso i nostri. Non esiste altro posto. Portava una semiautomatica di qualche tipo infilata nella fon-dina a spalla e quattro caricatori AK di scorta nell'imbracatura.

Non mosse un muscolo mentre Bastardo si avvicinava; si limitò a solle-vare una mano per placare chi si preparava a sforacchiarlo. L'espressione sul volto pareva quella di qualcuno che incontra un parente che non gli è mai piaciuto ma è comunque costretto a sopportare. I due si conoscevano. Nessun dubbio.

«Tu!» Bastardo puntò il dito in direzione di Nana. «Barbara Walters del cazzo, buttagli quei documenti e digli che io voglio andarmene.» Accom-pagnato dal gemito delle sospensioni, Bastardo sparì all'interno del Merce-des, dalla portiera laterale.

Akaki strappò i fogli dalla mano stesa di Nana. Lei continuava a parlare, sa il cazzo di che cosa, ma il terrorista aveva la stessa voglia di ascoltare che lei aveva dimostrato con noi dieci minuti prima. La colpì con un pugno che le centrò in pieno la guancia, sbattendola a terra.

Paata scattò in piedi ma ottenne in cambio il calcio di un AK in mezzo al torace. Nana gli urlò di stare fermo. Akaki le ringhiò contro e la schiaffeg-giò ancora.

Bastardo andava a tutto gas. «Contento adesso, demente del cazzo? Hai avuto quello che volevi?» Per dare maggiore enfasi alle parole puntava contro Akaki il suo dito-salsiccia. «Ho rischiato di essere ucciso, per colpa tua. Adesso mi tiri fuori da qui!» Assestò un calcio nelle costole a Nana. «Traduci, porca puttana! Digli che la polizia sta per arrivare.»

Nana fece quanto le era stato ordinato, o per lo meno credo. La parola «polizia» è quasi universale.

Akaki rise e i suoi uomini, l'uno dopo l'altro, lo imitarono. A quanto sembrava se la facevano addosso all'idea che un paio di biancazzurre stes-sero per arrivare.

Bastardo non aveva perso la testa. Vidi la sagoma della cassetta del Mar-riott nella tasca bagnata della giacca.

Si voltò verso me e Charlie come se fossimo noi l'oggetto delle risate. «Stronzi, pensavate davvero che sarei venuto fino in fondo insieme a voi?»

Si avvicinò e si fermò a pochi centimetri dal mio viso. «La vuoi sapere una cosa? Avrei fatto meglio a venire di persona al cimitero e fare il lavoro con le mie mani invece di ingaggiare un deficiente con un machete che ha piantato un casino colossale.»

Vide la pistola di Koba e la strappò dalla cintura del nuovo proprietario

che tanto ne andava fiero. Andasse a fare in culo. Questa volta quando avesse premuto il grilletto

non avrei fatto neppure un sussulto. Lo guardai dritto negli occhi mentre stringeva le dita sull'impugnatura

aggiungendoci l'altra mano per sicurezza. Nana urlò il nome di Paata ma non fu necessario. Akaki ruggì un ordine

e Bastardo venne colpito in testa con il calcio di un AK senza neppure ave-re il tempo di accorgersene.

Charlie allontanò con un calcio la Desert Eagle caduta ai nostri piedi. Il capo dei terroristi si avvicinò come un fulmine e inveì contro Bastardo

sottolineando ogni frase con un calcio alla massa americana a terra. Il cic-cione riuscì ad allontanarsi strisciando solo quando l'aggressore cominciò a dare segni di stanchezza.

Nana tradusse. «Lui dice che puoi prendere la macchina di Eduard e Na-to. Se non vai via subito, ti ucciderà. Dice di non essere l'unico a volerti morto.» Fece una pausa. «E in quanto a questo, è la verità.»

Bastardo raggiunse carponi il cadavere di Eduard e frugò nelle tasche impregnate di sangue come un affamato in cerca di cibo. Alla luce dei fari di Paata un mazzo di chiavi gli brillò fra le mani. Si rialzò barcollante. Mi fissò. Le narici si allargavano e fischiavano mentre tentava di respirare. Avrebbe avuto altro da aggiungere, ma aveva atteso troppo.

Akaki gli afferrò il rotolo di ciccia sul collo e lo trascinò fino alla porta. Bastardo sparì, ma era deciso ad avere l'ultima parola. Quando gli uomi-

ni di Akaki smisero di esultare per l'ultima prodezza del capo, la sua voce rimbombò dal sentiero di fango.

«Li voglio morti! Uccidi questi stronzi del cazzo!»

2 Cominciavo ad abituarmi ad Akaki; non era tipo da giochi tirati troppo

per le lunghe. Sovrastò Nana e la colpì ripetutamente mentre le spiegava cosa aveva in

mente. Paata non staccò gli occhi dagli AK a pochi centimetri da loro, mentre

traduceva per noi. «Akaki vuole un'intervista, adesso, qui, subito. Ha un importante messaggio per i georgiani e vuole che le sue parole restino per i posteri.» Non so come, ma riuscì a mantenersi calmo come se discutesse le tariffe dello straordinario.

Noi tre guardavamo le mani di Nana che sottolineavano ogni parola del-le sue risposte: non desisteva.

Si stava trasformando in uno spettacolo. Anche i nostri guardiani si era-no appassionati.

«Delira», disse Paata mentre Akaki alzava il volume della voce. «Dice che vuole raccontare al mondo la sua lotta per la libertà contro la corruzio-ne. Dice che vuole continuare a combattere fino alla vittoria oppure finché incontrerà Dio.» Nella sua voce passò un'ombra di preoccupazione.

Charlie annuì. «Sa che adesso può sparare tutte le cazzate che vuole. Ha il documento e Baz non può più smentirlo.»

Ero preoccupato per Nana. «Perché non gli date quello che vuole? Che senso ha non farlo?»

«Nana gli sta dicendo che è un'idea grandiosa, ma che sarebbe meglio fare le riprese al villaggio. Deve apparire in esterno, fra la sua gente, non nascosto in una stalla... Dice che il filmato deve risultare epico; qualcosa in meno non renderebbe giustizia al suo messaggio. A Tbilisi, poi, lei ef-fettuerà il montaggio.»

«Sì, già, scommetto che ci casca.» «Nana deve provarci.» Sospirò. «Akaki tollera quelli come noi solo se

serviamo al suo scopo. E quando non serviamo più o facciamo qualcosa che lo offende...»

«Diventate storia?» Paata annuì. «Ha trucidato una troupe francese non molto tempo fa...»

Girò di scatto la testa. Aveva sentito qualcosa che non gli andava. «Oh, merda... Akaki parla del disco. Sa che possiamo andare in diretta.»

Muoveva gli occhi in fretta da noi a Nana. «Lei insiste che è meglio re-gistrare e al villaggio, non qui... Sta cercando di metterci nelle condizioni di fuggire, ne sono sicuro.»

Guardai Akaki. Aveva il braccio sollevato pronto a colpirla di nuovo. Paata era pallidissimo. «La settimana scorsa Nana l'ha definito un rifiuto umano, un barbaro assassino...» Non terminò la frase.

«Non ci è andata leggera?» Lui annuì mesto. Nana si allontanò. Sapeva quando era il momento di cedere. Akaki l'ac-

compagnò con un calcio d'incitazione in fondo alla schiena. Dolorosissi-mo, ma lei era determinata a non darlo a vedere.

Zoppicò per i cinque o sei passi che la separavano dalla panchina. «Ecco le sue richieste...» Aveva il lato sinistro del viso rosso livido e gonfio.

«Non vuole registrare. O andiamo in onda o ci uccide tutti. Vuole sedersi qui, su questa panchina e vuole rivolgersi non soltanto ai georgiani ma an-che agli americani, e vuole farlo in diretta.» Posò gli occhi su Paata. «Co-mincia con i collegamenti.»

Paata esitò, mancava qualcosa alle sue istruzioni. Lo afferrai mentre si alzava. «Muoviti con calma, amico.»

«No.» Nana fu categorica. «Sistema tutto e collegati. Informali su chi abbiamo.» Lo guardò negli occhi. «Noi-abbiamo-bisogno-della-cavalleria... Capito?»

A quel punto l'avevamo capito tutti. Akaki aveva avuto un'altra idea. Partì all'attacco come un toro ferito con

due leccaculi al seguito. Da vicino non era più carino di quello che sem-brava da lontano. Era probabile che non avesse ancora compiuto i trenta ma sembrava molto più vecchio. Forse anche perché la pelle del viso non coperta dalla barba era profondamente segnata da cicatrici.

Sollevò un pugno da lavoratore dei campi per allontanare gli altri due e raggiungermi. Mi guardò con occhi di fuoco.

I due leccaculi esibirono la loro forza afferrando Nana e obbligandola a tradurre mentre lui attaccava a urlare alla grande.

«Il reprobo assassino vuole che tu sappia che ucciderà i servi dei crociati infedeli esattamente come uccideremo i loro re... dice che lo fa per vendi-care i bambini di Dio che loro hanno trucidato.»

Akaki mi spinse così forte che dondolai all'indietro. «Dice che l'America lo accusa di molte cose, hanno detto che ha immen-

se fortune nascoste... sono menzogne degli infedeli... È questo che vuole comunicare al popolo dell'America.»

Quando recuperai l'equilibrio, i monitor sul Mercedes si accendevano. Anche i due di scorta ad Akaki li videro e lo riferirono subito al capo. «Ottimo», si rallegrò Nana da perfetta attrice. «Charlie, Nick, venite ad

aiutarmi con la cinepresa e le luci.» Risposi al sorriso. Non tutto era perduto. Ci aveva chiamato per nome.

3 Akaki sedette. Fumava e meditava mentre noi aiutavamo Nana a traspor-

tare la telecamera e le luci vicino alla panchina. Il tetto del granaio non era più torturato dalla pioggia e la grande chiazza

rossa attorno alla testa di Koba era quasi ferma. Il silenzio che si era creato

nel fienile impediva a Nana di ignorare i cadaveri di Eduard e Nato. Non riusciva a smettere di fissarli. Sapevo che si sentiva responsabile.

Io stesso li guardai una o due volte. Sembrava che fossero stati crocifis-si. Se il Georgian Times aveva definito orripilante il cadavere nell'auto di Baz, non vedevo l'ora di leggere come avrebbe definito questi.

Ero piuttosto rassegnato al fatto che, se continuava così, li avremmo raggiunti nelle pagine centrali, appesi per i coglioni alla porta di un grana-io. Ma una speranza c'era ancora. C'è sempre. All'arrivo della cavalleria invocata da Nana avrebbe avuto inizio un casino infernale.

In breve fu tutto pronto, anche se due degli aiutanti, cioè io e Charlie, non sapevano che cazzo fare. Era inevitabile. C'è un limite anche al caz-zeggio oltre il quale si capisce che non stai facendo un accidenti di niente, e su quel fronte ero un esperto. Ero stato in fanteria per dieci anni mica per niente.

Akaki si pettinò la barba con un pettine di plastica cui mancava qualche dente, per prepararsi a diventare una star della TV. Aveva una luce per par-te e la telecamera esattamente di fronte. Quello che vedeva gli piaceva.

Nana armeggiò con la messa a fuoco e modificò l'altezza del treppiede, ma anche lei sapeva di non poterla tirare troppo per le lunghe. Indossò l'au-ricolare e lo collegò alla telecamera.

Akaki passò il pettine, che aveva tutta l'aria di essere stato a bagno nell'unto, a uno dei suoi scagnozzi. L'espressione sul suo viso diceva che era pronto, pronto a cominciare senza indugi.

Ma Nana ancora no. Si avvicinò e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio. La guardò e si tirò pensieroso una manata di barba.

Dopo un altro paio di tirate, urlò minaccioso ma non in direzione di Na-na, questa volta. I poncho si abbassarono e gli AK furono messi a tracolla.

Charlie e io eravamo molto impegnati a sembrare impegnati nel dare gli ultimi inutili ritocchi all'attrezzatura. Nana tornò da noi e ci fornì una lun-ga serie di istruzioni molto tecniche mentre con il braccio teso indicava le luci.

«Gli ho detto che se dobbiamo andare in diretta negli Stati Uniti dovrò effettuare dei collegamenti in inglese che verranno usati come promo per raggiungere il maggior numero di ascoltatori possibile... gli ho suggerito di mandare i suoi uomini a reclutare un po' di gente del posto per imbastire una scena di folla. Lui comprende quanto sia importante fare le cose per bene. Li incontreremo dopo nella sala del comune finito il collegamento.»

Tre Taliwagon erano già in moto mentre i militanti salivano a bordo.

Akaki aveva fatto restare soltanto i due leccaculi. Erano a pochi metri di distanza, con gli AK puntati su Charlie e me.

Osservai i Taliwagon che risalivano il sentiero in direzione delle case annidate fra gli alberi.

«Ottimo lavoro, ragazza.» Charlie le posò bonario una mano sulle spalle. Le sfuggì un sorriso ma tornò subito padrona di sé. Ci allontanò con un

gesto dall'attrezzatura in modo che Akaki potesse vedere cosa stava acca-dendo. «Nick, Charlie, nel furgone. Non voglio che Akaki vi abbia di fron-te quando andiamo in diretta. Andate, prego.»

Nana snocciolò ancora qualcosa ad Akaki che si beveva tutto. Dall'e-spressione che aveva in volto era chiaro che era quasi sul punto di sugge-rirle di mettersi insieme e creare la versione georgiana di Richard e Judy.

Mentre ci dirigevamo verso il furgone le luci si accesero e l'angolo del granaio si trasformò nella piccola Hollywood di Akaki.

4

Paata era seduto davanti a noi, ricurvo, un solo orecchio coperto dalla

cuffia, gli occhi puntati al viso di Nana sullo schermo, come se non esi-stesse nient'altro. Ci limitammo a osservare e ascoltare.

«Sì, tutto a posto Paata. Il sonoro è okay? Ti sei collegato? Arrivano? Uno, due, tre, quattro, cinque...»

Prese un gran sospiro: era pronta. «Cinque secondi!» disse Paata calmo. «Sì, sono in volo. Procedi.» Incrociai lo sguardo di Charlie. Anche lui stava pensando che forse sa-

remmo riusciti a tenere i coglioni dal lato giusto della porta. Nana fissava la telecamera e annuiva, mentre il conto alla rovescia le

gracchiava nell'auricolare. «Due... uno... In onda...» «Proprio qui accanto a me...» - si voltò verso Akaki e gli elargì un pro-

fondo inchino ricco di rispetto - «abbiamo l'essere che disonora il genere umano, il più spregevole delinquente che abbia mai calpestato il suolo sa-cro della nostra Georgia.»

Akaki fece un cenno di saluto e tornò a fissare la telecamera. «Cinque minuti fa ho avuto modo di vedere la prova documentale del

suo più orrendo atto di malvagità a oggi...» Le tremò la voce e Akaki aggrottò la fronte. «Un'azione abominevole... perpetrata dall'assassino che siede di fronte a

voi....» Akaki, che non capiva una parola, annuì compiaciuto. Mi augurai che

anche i due leccaculi non avessero passato un anno a Princeton. Nana sorrise e rispose al cenno. «Una prova così fondamentale che devo

trasmettere adesso alla nostra amata nazione, in caso io non viva abbastan-za a lungo da presentarla alle autorità competenti...»

Nana allargò un braccio per indicare l'intera vallata, come se si riferisse al dominio di Akaki.

«Oggi, un membro del parlamento, di cui non posso rivelare il nome perché il mostro alle mie spalle lo capirebbe, era pronto a consegnare un affidavit...»

Aveva le nocche delle dita bianche per quanto stringeva il microfono. «Ma, tragicamente, egli non può essere qui con noi. È morto, ucciso da-

gli uomini di Akaki e da altri che non volevano che il fascicolo fosse reso pubblico. Adesso si trova nelle mani di Akaki ma io l'ho letto dalla prima all'ultima pagina... e anche se lo volessi non potrei cancellare dalla mente l'orrore di ciò che ho appreso...»

Paata borbottò parole affermative al microfono e premette un pulsante. «Cinque minuti, Nana, continua.»

Lei posò un dito sull'auricolare e annuì. «Il rappresentante del parlamen-to in questione, amico di molti, conosciuto in tutta la nazione come l'uomo che combatte da sempre la corruzione che macchia il nostro Paese, è stato assassinato perché era in grado di provare che sei membri del nostro go-verno sono implicati nelle attività dei terroristi insieme all'uomo che state vedendo...»

Paata premette ancora il pulsante. «Mi correggo, Nana. Sono dieci, ripe-to, dieci minuti. Continua, stai andando bene. Se si insospettisce, smetti con l'inglese e attacca subito con l'intervista. D'accordo?»

Lei si toccò ancora l'auricolare. «Sì... saranno questi sei pilastri del governo che tra qualche giorno in-

contreranno il presidente Bush... e le mani che porgeranno in segno di a-micizia grondano sangue, lo stesso sangue che ha sulle mani questo autore di stragi, rapitore, strozzino e trafficante di droga con cui essi sono in combutta...»

Charlie toccò la spalla di Paata. «Non trasmettete in America, vero?» Scosse la testa senza neppure voltarsi. Messaggio forte e chiaro: chiude-

te il becco. «È difficile anche soltanto pensarci, ma lo scopo di questa barbarie è

mantenere attiva la minaccia del terrorismo, in modo che gli Stati Uniti continuino a farci pervenire aiuti finanziari; aiuti che tuttavia non saziano la nostra fame né ricostruiscono i nostri ospedali ma foderano le tasche di vestiti di lusso occidentali...»

La voce di Nana s'incrinò nuovamente. Akaki era decisamente preoccu-pato.

«Buone notizie, Nana. Quattro, ripeto, quattro minuti, forse anche me-no.»

«Difficile da credere.» Annuì. «Ma dovete sapere che...» Si voltò verso Akaki e riuscì a sorridere. «A questo... mostro... è stato pagato un milione di dollari americani da questi politici per organizzare ed eseguire il massa-cro di sessanta fra donne e bambini il mese scorso nel villaggio di Kazbe-gi...»

Comprese immediatamente di aver fatto un casino. Akaki girò di scatto la testa.

«60 minuti...» - Nana fece del suo meglio per sorridere - «è in grado di fornirvi i nomi di tutti e sei i politici e dell'ex agente FBI coinvolto...»

Akaki aveva mangiato la foglia. Bofonchiò qualcosa ai due leccaculi. «Tre minuti, Nana. Cerca di resistere.» «Adesso denuncerò i politici assassini e corrotti al popolo della Geor-

gia...» Nana alzò gli occhi al cielo. Dall'interno del furgone non avevo sentito, ma i leccaculi sì, e si precipi-

tarono fuori a fissare le nuvole. Nana attaccò. «Gogi Šengelia... Mamuka Asly...» Akaki si alzò in piedi con espressione minacciosa. Scaraventò a terra la

telecamera e raggiunse veloce la porta del granaio. Nana continuò. «Giorgi Šenoy... Roman Tsereteli...» Quando uscii dal furgone sentii il battito dei rotori. Gli elicotteri dove-

vano essere rimasti nascosti fino all'ultimo. Akaki agitò le braccia e ringhiò una serie di ordini. I leccaculi rotolarono

nel Taliwagon. Akaki sollevò l'AK. Nana era in automatico. «Kote Žvania... Irakli Zemularia...» Gli Huey ci erano praticamente addosso. Akaki cercò di portarsi l'AK al-

la spalla ma venne sbattuto a terra dalla deflessione. Il quarto Taliwagon inchiodò di fianco a lui e i leccaculi lo issarono a

bordo. L'elicottero abbassò il muso e puntò verso il campo accanto al gra-naio.

Nana tremava. «L'intero documento di Zurab Bazgadze nell'edizione speciale di 60 minuti. A fra poco. Adesso linea allo studio.»

Posò il microfono. Tutto il suo corpo era scosso dai singhiozzi quando Paata l'accolse fra le braccia.

«Nana? Noi dobbiamo andare.» Mi guardò al di sopra della spalla di Paata. «Vi aiuterò, Nick. Vi aiuterò

con la polizia.» Scossi la testa. «Non c'è tempo per quello. Porto Charlie a casa; ha una

cosa da fare.» Lei scosse la testa, non capiva. «Cosa può essere più importante che

proclamare la propria innocenza?» «Riuscire a morire con i tuoi cari accanto...» Charlie mi venne vicino. «Li vedi quegli alberi, ragazzo?» Puntò il dito

sul fianco della collina. «L'ultimo che arriva paga il kebab.»

5 Guardai fra le assi. Quattro Huey erano atterrati nel campo a un centina-

io di metri di distanza. Uomini in BDU saltarono fuori e si misero in posi-zione di tiro.

Paata uscì dal furgone, strappò a forza la telecamera dal supporto e stac-cò i cavi, poi estrasse la piccola antenna per mantenere il collegamento sa-tellitare e l'alimentazione.

Dalla collina sulla destra ci fu una raffica di mitragliatrice. Gli uomini di Akaki sparavano sul villaggio.

I motori rombarono e gli elicotteri si alzarono bruscamente. Gli uomini a terra girarono su loro stessi come polli senza testa. Era la replica di Kazbe-gi.

Uno o due colpi partirono dal campo quando i BDU entrarono in azione. Mi augurai che non sparassero verso di noi ma verso il villaggio. Paata si precipitò fuori con la telecamera sulla spalla e Nana al suo fianco.

Afferrai Charlie. «Allora?» Mi guardò ma non rispose. Mi precipitai alle porte. «Nana! Nana!» Lei indicava a Paata cosa voleva che riprendesse. «Nana!»

Si voltò e io mimai il gesto di uno che taglia la corda. Gli elicotteri tuonavano sopra le nostre teste, ansiosi di portare via i co-

glioni dalla scena. «Andate!» ci urlò. «Via!» Si voltò e riprese il suo lavoro. Aggirai il granaio, Charlie mi seguiva claudicando. Ci arrampicammo

verso gli alberi, usando l'edificio come copertura, e poi girammo verso il villaggio in parallelo con la strada.

Dall'alto vedevamo bene il caos sottostante. I BDU vagavano per il campo, in cerca di copertura, ma senza sapere bene cosa fare. Forse non erano ancora arrivati alla pagina due del manuale.

Invano delle voci americane cercavano di dare ordini mentre le mitra-gliette dei terroristi esplodevano traccianti uno-quattro che si conficcavano con un suono sordo nel prato in mezzo ai loro studenti.

Una lunga raffica sparata dai tetti fece schizzare fango ed erba sui BDU. Non avevano scelta, non potevano far altro che continuare a muoversi e portare via i coglioni dalla zona aperta.

Nana era accucciata dietro la legna accatastata fuori dal granaio, parlava alla telecamera mentre il contatto infuriava alle sue spalle. Paata inquadra-va il cielo e i rotori che turbinavano dalla collina dietro il granaio.

Lo Huey era molto vicino, volava basso, ci oltrepassò, puntò sul fianco ripido sopra il campo e poi svoltò verso il villaggio. L'equipaggio cercava di individuare gli aggressori.

Un'altra scarica di traccianti costrinse l'elicottero a virare secco a sinistra e a scomparire dalla vista.

Charlie rallentò. Lo afferrai per un braccio che mi passai sulle spalle per trascinarlo. Scivolai nel fango e ci ritrovammo a terra, lui addosso a me.

«Hai per caso un po' di ossigeno, ragazzo?» Restammo dove eravamo caduti per riprendere il fiato. Sopra di noi un'altra scarica sostenuta echeggiò nella valle. Fuoco di ri-

torno, questa volta: i ragazzi nel campo erano finalmente riusciti a coordi-narsi.

Charlie scosse la testa. «Ma perché i coglioni lassù non se la danno a gambe? Vogliono davvero mettersi contro l'esercito? Sono usciti tutti dallo stesso asilo che frequentava Koba?»

Lo issai in piedi. Dopo pochi passi cominciammo a vedere le casette di legno lungo la strada sotto di noi.

«Ascolta, Nick... niente elicotteri, forse sono andati a cercare rinforzi. O

adesso o mai più.»

6 Lungo la strada sterrata c'erano un trattore e una vecchia Lada dall'aria

abbandonata, ma nient'altro che potesse portare i nostri culi fradici fuori da lì con un minimo di rapidità, sempre che fossimo riusciti a schivare i terro-risti alla nostra destra e metà dell'esercito della Georgia in basso a sinistra.

Era sceso un silenzio inquietante. «Che ne dici di un Taliwagon?» Prima che potessi rispondere la scarica di un'automatica echeggiò nel

villaggio. «'Fanculo, andiamo.» Charlie scivolò a valle e irruppe fuori dagli alberi.

Lo seguii. Puntava a un gruppo di casette in legno attaccate l'una all'altra lungo la strada principale.

Avanzammo piano fino a un cortile non cintato e ci appiattimmo contro il muro posteriore. Tutte le imposte erano chiuse. Sentii i lamenti di un bambino spaventato.

In fondo alla strada le reclute iniziarono ad aprire il fuoco con gli AK. Dall'alto, sulla destra, gli uomini di Akaki rispondevano a tono. La can-

na delle loro mitragliette doveva essere incandescente. Un proiettile colpì il muro sotto di noi e sibilò in alto nell'aria. Tirai la manica di Charlie. «Aspetta qui, vecchietto.» Avanzai a testa bassa e raggiunsi l'angolo della casa. Dall'interno un ca-

ne abbaiò. Avevo i capelli appiccicati alla testa e i pantaloni incrostati di fango.

Tutti i vestiti mi aderivano come una pellicola. E cominciavo a capire quanta fame e quanta sete avessi.

Controllai il Baby-G. Ci restava ancora poco più di un'ora di luce, forse meno vista la presenza delle nuvole.

Pancia a terra avanzai un centimetro dopo l'altro. Raggiunsi il muro da dove potevo vedere la strada nelle due direzioni. Era deserta. Gli abitanti si tenevano alla larga dalla situazione. Non potevo biasimarli.

La strada saliva per un centinaio di metri prima di scomparire. La posta-zione di tiro dei militanti doveva essere subito dietro la curva. Ottima scel-ta. Avevano tutta la valle davanti fin dove erano atterrati gli elicotteri.

Duecento metri alla mia sinistra una voce americana urlò degli ordini e i BDU schizzarono per eseguirli. Probabilmente Nana e Paata stavano risa-

lendo la collina insieme a loro. Ma non ci saremmo trattenuti abbastanza a lungo da scoprirlo.

Tornai da Charlie. Teneva la gamba sollevata contro il muro e la pioggia gli batteva sul viso. «I ragazzini si avvicinano.» Tesi la mano. L'afferrò e lo alzai in piedi. «Non ho visto quelli di Akaki, ma devono essere dietro la curva, cento metri più su. Dobbiamo salire oltre la loro linea. Restiamo al riparo delle case.»

«Ben detto, ragazzo. Allora cosa aspettiamo?» Mi passai il suo braccio sopra le spalle e affrontammo la salita attraver-

sando una serie di cortili non recintati. Andammo dritti per ottanta, novanta metri e poi la strada girava a sini-

stra e le case con lei. Altri venti o trenta e saremmo stati fuori dalla linea di tiro.

Incontrammo un recinto pieno di maiali. Non valeva la pena fare lo sfor-zo di sollevare Charlie, salimmo ancora e lo aggirammo. Ci mettemmo un po' di tempo e non sapevo quanto ce ne restava. Forse la strada non era l'u-nico asse di attacco delle reclute. L'ultima cosa che ci serviva era trovarci in mezzo a un fuoco incrociato.

Mentre attaccavamo la discesa, i militanti aprirono il fuoco con le mitra-gliatrici.

«Poveri stronzetti», borbottò Charlie. «Dev'essere il loro battesimo del fuoco.»

«Taci e cammina.» Mi fermai e sollevai la testa. «Senti.» Gli spari erano alle nostre spalle. Avevamo superato il luogo dello scon-

tro. Adesso non dovevamo fare altro che scendere nel paese e trovare un pa-

io di fili da collegare per conquistare la libertà.

7 Sbucammo all'altezza del municipio del villaggio. Dovevano esserci sta-

te le elezioni l'anno prima o giù di lì; le pareti erano coperte di manifesti sbiaditi della campagna elettorale. Tanti Zurab Bazgadze ci guardavano sorridenti.

«Il carro aspetta, amico.» Trenta metri più avanti, in mezzo alla strada, c'era un Taliwagon. Arrug-

ginito e ammaccato ma con tutte e quattro le ruote e, con un po' di fortuna, un motore. Ma la cosa più fantastica era che fosse incustodito.

«Pronto, vecchio?» Annuì. Cominciai a correre senza controllare se mi stava dietro. In giro non c'era nessuno, ma il villaggio non era deserto. Urla e raffiche

di mitragliatrice risuonavano dal retro di qualche edificio sulla sinistra, in basso verso la strada.

Raggiunsi il lato di guida e spalancai la portiera. Niente chiavi. Frugai nel cassettino del cruscotto, sotto i pedali, nelle tasche laterali.

Erano sotto il sedile. Saltai su e accesi il motore. Il diesel andò in moto alla prima. Sentii un urlo provenire da destra. E non era Charlie. A non più di tre metri di distanza un tipo tale e quale ad Akaki, con il

poncho lucido di pioggia, si riparava in un androne. Aveva gli occhi sbar-rati per la paura. Tornò in sé, lasciò cadere i presidi medici che teneva in mano e imbracciò l'RPK. L'arma si sollevò in posizione come al rallentato-re.

Guardava un punto oltre me. Urlò di nuovo, ma io urlai più forte. «Char-lie!»

Mi piegai in avanti augurandomi che saltasse dietro prima che quello mi segasse in due.

Ci fu una confusione di corpi e un lampo dalla bocca della mitraglietta che rinculò ed esplose una breve raffica in aria, poi sia l'arma sia il pro-prietario crollarono a terra sotto il corpo di Charlie.

Saltai giù e assestai un calcio al terrorista. Lo stivale gli beccò la testa in pieno e l'uomo di Akaki urlò. Charlie rotolò su un fianco e afferrò l'arma mentre io continuavo con i

calci. Charlie si rialzò a fatica puntandosi sull'RPK che gli teneva confic-cato nel torace. «Prendigli i caricatori, Nick! Prendili!»

Sollevai il poncho. Praticamente l'RPK è un AK47 con la canna più lun-ga e più pesante dotato di un bipiede estensibile fissato sotto la bocca, ed è alimentato da speciali caricatori a scatola o a tamburo ma anche da quelli più comuni e ricurvi da trenta colpi che si usano per gli AK. Il ragazzo ne aveva due nell'imbracatura a torace, li presi e tornammo alla svelta nel fur-gone.

Girai il volante per salire su per la collina e allontanarmi dalla piazza. La

lancetta ci disse che il serbatoio era pieno a metà. Charlie alzò il cane per controllare se nella camera di scoppio c'era un

colpo. Poi esercitò pressione sul primo proiettile per controllare quanti ne restavano nel caricatore.

«Cosa fai, ragazzo?» «Vado dritto in Turchia.» «No.» Posò una mano sul volante. «Prima Akaki.» «Non c'è tempo.» La sua mano non si spostò. «Akaki.» Cazzo. «Gli passiamo davanti una volta sola, non di più.» Inserii le quattro ruote motrici, abbassai la frizione e invertii il senso di

marcia. E poi giù a tavoletta. Quello con il poncho si era rialzato ma si tuffò al riparo appena ci vide. Raggiunsi veloce l'altro lato della piazza e poi sterzai a destra per affron-

tare la discesa. La stradina era molto angusta e aggiunsi qualche ammacca-tura all'imponente collezione che il mio Taliwagon aveva già.

Irrompemmo sulla principale come un tappo sparato da una bottiglia. Gli altri Taliwagon erano fermi prima della curva, circa duecento metri più a-vanti. I terroristi sparavano all'impazzata contro i sottostanti BDU. Dove erano atterrati gli Huey vidi tre cadaveri a terra. I BDU erano sempre im-pegnati a sparare e a risalire usando le case come copertura. Si erano fatti ormai vicini, diventando bersagli più facili per Akaki. Un altro corpo gia-ceva in mezzo alla strada fra loro e vidi un BDU che trascinava al sicuro un compagno ferito.

Mi fermai. Adesso che c'eravamo sapevo che Charlie aveva ragione. Ma non avevo intenzione di dirglielo.

Innestai la prima. «Un passaggio unico, sfruttalo al meglio.» Mi girò la schiena e spinse l'arma fuori dal finestrino. La parte in legno

posata sul bordo e il calcio contro la spalla. Mentre avanzavamo qualcuno si voltò a guardarci ma poi tornò a occu-

parsi della sua guerra. Accelerai. Pochi secondi dopo avevamo raggiunto il gruppo di Akaki e Charlie spa-

rò brevi, rapide scariche su tutto quello che si muoveva. Il rumore nell'abitacolo era assordante, anche con tutti e due i finestrini

aperti, e l'odore di cordite ci soffocava. Cercavo di mantenere il furgone il più stabile possibile. I colpi dovevano andare a segno o saremmo stati i-nondati da una montagna di fuoco di ritorno.

Un paio di proiettili centrarono la carrozzeria. I terroristi si stavano or-ganizzando.

Charlie riarmò e lasciò partire due brevi raffiche. «Fermo! Fermo! Fer-mo!»

Mi bloccai e Charlie prese di mira un gruppetto di tre persone, una delle quali, senza possibilità d'errore, era Akaki, che scappò via mentre gli altri due tentavano di coprirlo.

L'arma di Charlie tacque. «Inceppo!» Cambiò caricatore con gli occhi sempre fissi sul bersaglio che si arram-

picò dentro un Taliwagon. «Aspetta! Aspetta!» Riarmò e riprese a sparare scariche precise. Con un sobbalzo in avanti il

furgone di Akaki imboccò veloce la strada da cui eravamo arrivati. Inchiodai e invertii la marcia in tre manovre. Mentre li raggiungevamo, il loro vetro posteriore si disintegrò e il nostro

parabrezza venne colpito due volte. Il cristallo di sicurezza s'incrinò ma rimase al suo posto.

«Vai, Nick! Veloce!» Con un colpo Charlie si liberò dei vetri dalla sua parte, le cui schegge mi

arrivarono in viso spinte dal vento. Altri proiettili ci colpirono. Maledizio-ne, non potevo fare altro che guidare.

Charlie si sistemò meglio sul sedile e infilò la canna dell'RPK nel buco del parabrezza. La canna sfrigolò a contatto con la pioggia. Charlie ce la mise tutta per mantenerlo stabile sul bipiede e per prendere la mira, spa-rando due singoli alla volta per risparmiare le munizioni.

Il furgone di Akaki sparì cinquanta metri davanti a noi. «A destra, vai a destra e tagliagli la strada.» Sterzai come aveva detto Charlie e mi trovai parallelo ad Akaki su una

strada stretta e fangosa tra due fienili. Charlie teneva l'arma bassa per con-trollarla meglio. «Schiaccia quel pedale! Devi arrivare prima di lui!»

Giravo il volante mentre il retro del furgone scalciava come un cavallo da rodeo.

Rombando raggiungemmo da sinistra la piazza del villaggio. Sterzai il Toyota mentre Akaki spuntava dall'altro lato della piazza. Charlie comin-ciò a sparare prima ancora che premessi il freno.

«Fermo. Dammi una base stabile. Piattaforma!» Tenni immobile il veicolo mentre Charlie continuava a sparare, veloce,

preciso. Il fango schizzava sul furgone di Akaki che, benché colpito, con-tinuava ad avanzare.

Un'altra raffica. «Inceppo!» Akaki centrò in pieno l'angolo del municipio e la fiancata venne squar-

ciata via. Qualcuno saltò giù da dietro, un altro cadde. L'autista restò fermo accasciato sul volante.

«Resta su!» Inserii con violenza la prima e puntai quello che correva al margine della

piazza. Charlie cercava disperatamente di sostituire il caricatore mentre fra sob-

balzi e scossoni raggiungevamo il fuggitivo. Sapevamo chi era, nessun dubbio.

L'uomo si voltò, alzò il fucile e sparò. Non sapevo se ci avesse colpito o no, ma me ne sbattevo. Guidai dritto

verso di lui. «Carica quel cazzo di affare!» Il vento entrò di prepotenza dal parabrezza mentre Akaki si voltò e ri-

prese a correre. Troppo tardi. Il furgone lo colpì in fondo alla schiena e lo catapultò in

mezzo alla strada. Lo superai. Frenai. Charlie fece per scendere. «Fermo!» Inserii la retromarcia. La ruota posteriore si sollevò quando gli passò so-

pra e poi riprese contatto con la strada. L'anteriore anche. Continuai ad andare avanti e indietro fino a che Charlie fu pronto a spa-

rare. Due brevi raffiche precise sul corpo a terra. Non staccai mai il piede fino a che non raggiungemmo la cima della col-

lina, lontano dal villaggio.

8 «Uno fatto e uno da fare.» Charlie era costretto a urlare per farsi sentire

al di sopra del vento. «Sei fuori?» Non staccavo gli occhi dalla strada. Eravamo a dieci minuti

dal villaggio, e per quanto ne avessi un disperato bisogno non mi arri-schiavo ad accendere i fari. Quello che restava del parabrezza dalla mia parte era a pezzi. Il vetro rotto e lo strato di plastica di sicurezza mi ripara-vano dal vento, però rendevano estremamente difficile individuare le bu-

che e i profondi crateri che potevano inghiottirci. Il nostro mondo era reso ancora più buio dagli abeti che coprivano il

fianco della collina sulla destra. Ma c'era di buono che avevamo ritrovato l'oleodotto ed eravamo diretti verso la Turchia e verso Dave il Matto. La cicatrice larga cinque metri scorreva come una guida alla nostra sinistra.

Controllai nello specchietto retrovisore. Nessuno ci inseguiva. 'Fanculo, accesi i fari e accelerai.

Avevo appena scalato a due ruote per risparmiare il carburante quando i fari illuminarono un veicolo fermo a lato della strada. Era una Lada color verde acido. Aveva il cofano aperto.

«Dio, ti ringrazio.» Charlie si chinò e prese l'RPK che era a terra. Io strinsi il volante. «Che fai, amico, devo portarti a casa.» «Eh no, cazzo. Il primo bastardo lo abbiamo fatto fuori, adesso dobbia-

mo finire il lavoro.» «Che senso ha? È partito almeno un'ora prima di noi. Potrebbe aver

cambiato auto ed essere già a metà strada verso la Turchia.» «E allora? Adesso controlliamo qui e poi lo raggiungiamo. Io vado, tu?» Come se potessi andarmene e lasciarlo lì. Fermai il Toyota e inserii la prima, pronto a dargli il mio appoggio. Sce-

se e spinse la leva a sinistra dell'RPK in giù fino al primo scatto, colpo sin-golo. Girò dietro il Taliwagon tenendo il pesante RPK sulla spalla, con il bipiede ripiegato lungo la canna.

Quando mi raggiunse, eravamo pronti. «Andiamo, azione.» Rilasciai la frizione e avanzai pianissimo, mentre lui mi zoppicava a

fianco usando il furgone come copertura. Perché cazzo fosse sceso, proprio non lo capivo. Poi, l'illuminazione. Si divertiva. Non lo faceva soltanto per prendere Bastardo; lo faceva per se stesso. Era la sua ultima possibilità di fare cose da soldato, quello per cui era nato.

Si fermò vicino alla Lada e io anche. Mi tenevo abbassato nel sedile. Bastardo aveva ancora la Desert Eagle.

Charlie teneva gli occhi fissi sugli alberi. «Resta qui, cerco una traccia.» Zoppicò in avanti, l'RPK era pronto. Non andò diretto alla macchina, ma ci girò intorno, scrutando il fango in

caccia di orme. Provò la portiera del posto di guida. Non era chiusa. Charlie guardò dentro, poi cominciò a risalire lentamente la strada senza

mai abbandonare l'atteggiamento circospetto.

Quattro o cinque metri dalla Lada, si voltò con i pollici sollevati. Avanzai piano fino a lui e mi fermai. Infilò la testa nel finestrino del passeggero. «Scarpe basse. Portano agli

alberi.» Parlava sussurrando come se Bastardo potesse sentirlo. «Non può essere andato lontano. Hai visto che razza di incapace è. L'abbiamo becca-to.»

Partì zoppicando senza voltarsi per guardare se lo seguivo. Spensi il motore, afferrai le chiavi e scesi.

9 Ci spostammo subito dentro gli alberi e affrontammo la salita. I problemi di Charlie cominciarono subito. Respirava a fatica. Trascina-

va la caviglia ferita con una strana angolazione. Lo raggiunsi e gli parlai nell'orecchio. «Continuiamo finché c'è luce,

d'accordo? Potrebbe essere ovunque.» Non è che ci fosse una traccia chiara che potessimo seguire. Il terreno

era coperto di aghi di pino. Si fermò in ascolto, con la bocca aperta e la te-sta piegata a sinistra in modo da avere l'orecchio destro puntato in avanti.

Tornare indietro non sarebbe stato difficile, anche al buio. Si trattava di scendere fino a incontrare la strada.

La pioggia colpiva il tetto di abeti e il vento ululava. Charlie partì. Io restai fermo. Sarei stato le sue orecchie mentre avanza-

va per cinque passi. Lo raggiunsi e lui ripartì. Non lo superavo mai. Non ero armato. Sarebbe

stato l'avanguardia. Era così che voleva. Avanzava piano, fucile sulla spalla, angolato di quarantacinque gradi

verso il basso ma pronto a essere sollevato, sicura abbassata fino al secon-do scatto.

Si fermò dopo un passo. Sembrava che la caviglia avesse avuto la me-glio su di lui. Si appoggiò a un albero e guardò in su.

Gli parlai all'orecchio. «Anch'io sono stanco. È impossibile che Bastardo sia salito più in alto.»

Charlie indicò un punto a sinistra parallelo alla strada. Gli tremava la mano. Mi fece segno che andava tutto bene e sistemò l'RPK, pronto ad a-vanzare.

Lo trattenni per un braccio. «Vuoi che vada avanti io?» Stese una mano. Tremava.

«No», disse con semplicità. «È in debito con me. E non soltanto di un tramezzino alla pancetta del cazzo.»

Compì zoppicando altri quattro passi a sinistra, con l'arma in spalla, in orizzontale.

Lo raggiunsi ma mi tenni discosto perché la massa dei nostri corpi non fosse un bersaglio troppo facile.

Rimase in silenzio per alcuni secondi poi si lasciò cadere in un avvalla-mento profondo un metro, scavato dall'acqua che scendeva dalla vetta del-la collina.

S'immobilizzò all'istante per un fruscio di cui non vedeva l'origine. «'Fanculo!» urlò qualcuno. Poi ci fu un colpo di arma pesante e il rumore di un corpo che cade. Charlie era a terra.

10 Mi precipitai nel solco. Charlie non si muoveva, ma Bastardo sì. Non lo vedevo ma sentivo che

si addentrava fra gli alberi. Afferrai l'RPK e strinsi insieme le gambe del bipiede per sganciarle, poi

le tirai per aprirle mentre risalivo. Mi buttai a terra, la canna in appoggio, abbassai la sicura sino in fondo e lasciai partire una serie di colpi brevi e precisi in direzione del rumore. Quando smisi mi fischiavano le orecchie, e riccioli di fumo uscivano dall'arma.

Nessun urlo, nessuna implorazione. Andasse a farsi fottere. Strisciai fino da Charlie. Era a terra tra il fango e gli aghi di pino, immobile, come ad-dormentato. Mi inginocchiai e gli sollevai la testa. E il suo sangue caldo mi coprì le mani. Un rantolo inquietante con risucchio accompagnava ogni suo respiro.

Aprii la lampo del suo Gore-Tex e allargai il buco nella camicia. Ancora sangue. Il proiettile calibro 50 gli aveva perforato il corpo appena sotto il capezzolo destro.

A ogni respiro l'ossigeno era fluito a riempire il vuoto nella cavità tora-cica determinando uno pneumotorace, e la pressione aveva schiacciato i polmoni. E mentre espirava, l'aria e il sangue venivano spinti fuori come l'aria e il mare dallo sfiatatoio delle balene.

«Sono quasi inciampato in quello stronzo...» Charlie sputò sangue. «Non sono riuscito a premere il grilletto, Nick...» Abbozzò una risata. «Mani

ballerine del cazzo...» Il suo corpo si contrasse. Era in agonia, ma lo strano era che sorrideva. Ma se parlava, allora respirava: non m'importava altro. Gli presi una mano e la posai sul foro di entrata. «Tampona, amico.» Annuì. Capiva quello che doveva fare, non era del tutto andato. Con il

torace chiuso, i polmoni si riempivano e la respirazione poteva tornare normale.

«Devo controllare il foro d'uscita. Ti farà male.» Lo rotolai su un fianco ma sulla schiena aveva poco più di un graffio. Il

proiettile era intrappolato all'interno. Un colpo di quel calibro poteva esse-re fermato soltanto da un osso, magari la scapola, ma una frattura era l'ul-timo dei suoi problemi. Sapevamo entrambi che era grave.

Charlie cominciò a lamentarsi. «Che aspetto ha? Che aspetto ha?» conti-nuava a ripetere.

Presto sarebbe collassato. Dovevo agire in fretta, ma cosa potevo fare? Aveva bisogno di fisiologica, di un drenaggio per il torace, di chiudere la ferita; cazzo, aveva bisogno della squadra al completo di ER.

Si lamentò ancora. Quindi riusciva a respirare. La mano era scivolata dal torace. Posai la mia a coprire il buco per tener-

lo chiuso. Tossì ancora, e lo sforzo gli procurò spasmi di dolore. «Che aspetto ha? Che aspetto ha?» Il viso si contorse. Un altro buon segno. Sentiva il dolore, non aveva

perso i sensi. Dovevo riuscire a portarlo al furgone, e dovevo continuare a tenere sigil-

lata la ferita mentre lo facevo. E poi sarei dovuto tornare al villaggio. Il ti-zio a cui avevamo fregato l'RPK era sulla soglia di una sorta di infermeria, e i BDU avevano di certo portato il kit di pronto intervento.

Ci avrebbero arrestati, e allora? Avevo detto che avrei riportato a casa il vecchio babbeo e lo avrei fatto.

«Che aspetto ha?» «Taci, e pensa a vivere.» Lassù non c'era niente per chiudere la ferita, soltanto la mia mano. Come

cazzo avrei potuto fare mentre lo portavo a valle? Anche Bastardo stava scendendo. Sapeva che non eravamo arrivati con

l'autobus. Ma lui non riusciva ad andare veloce. Lo avrei sistemato dopo aver messo in salvo Charlie.

Guardai il suo viso. Si stava gonfiando come un pallone.

«Cazzo, cazzo, cazzo!» Sollevai la mano. Ci fu un sibilo, come l'aria che esce dallo pneumatico di un'auto, e un

geyser di sangue. Di sicuro il proiettile aveva attraversato un polmone, forse tutti e due.

L'ossigeno si perdeva nella cavità pleurica attraverso le ferite. Poi non sa-peva dove andare perché io tenevo bloccata la ferita. La pressione nel tora-ce era aumentata tanto che, quando cercava di respirare, i polmoni e il cuo-re non avevano lo spazio per espandersi.

Lo sollevai e lo girai su un fianco; il sangue che si era raccolto nel pol-mone uscì come il latte da una bottiglia capovolta.

Lo riportai sdraiato e sigillai il buco. Stava perdendo i sensi.

11 Dovevo continuare a provarci. «Tutto fatto, amico, adesso puoi parlare

ancora.» Nessuna risposta. «Allora, mi parli o no, vecchio coglione?» Gli tirai le

basette. Ancora nessuna risposta. Gli sollevai una palpebra. Dilatazione minima, quasi invisibile. I respiri erano veloci e vuoti. Il cuore lavorava al massimo per far circo-

lare il poco sangue che gli restava in corpo. Il sangue che si era di nuovo raccolto nella cavità toracica lo stava uccidendo.

Ascoltai il suo respiro. «Fammi capire che mi senti... dammi un se-gno...»

Nessuna reazione. «Adesso ti porto via... fra poco saremo fuori da qui. Poi sull'aereo che ci

porta a Brisbane... capito? Capito? Dammi un segno, amico, fammi capire che sei vivo.»

Niente. Sollevai una palpebra e gli tastai il polso. Immobili entrambi. Gli toccai il viso; il sorriso non era svanito. Era il segno che mi serviva. «Non starò via molto, vecchio babbeo. Torno subito.» Presi l'RPK e mi slanciai verso valle. Mentre andavo estrassi il caricato-

re e premetti il primo colpo. Ne avevo ancora dieci. Portai la leva della si-

cura al primo scatto. Ogni colpo contava. Alla fine del bosco guardai a sinistra, verso le auto. Circa cento metri più in là, Bastardo ondeggiava da una parte all'altra

mentre scendeva incespicando, tenendo le braccia larghe per cercare di non perdere l'equilibrio.

Lo seguii restando nascosto fra gli alberi. Cadde, e per un momento annaspò nell'aria come una tartaruga rovescia-

ta. Rallentai fino a camminare pianissimo mentre cercavo la postazione di

tiro più adatta. Lui aveva finalmente raggiunto il Taliwagon. Lo osservai dirigersi verso

il posto di guida e guardare dentro. Posai l'arma a terra, bipiede aperto, e mi sistemai dietro. I mirini in ferro erano posizionati su battaglia: trecento metri. Strano, ma mi sentivo calmissimo mentre portavo il calcio sulla spalla,

chiudevo l'occhio sinistro e prendevo la mira. Come avevo previsto era assolutamente incapace di collegare due fili.

Riemerse dall'abitacolo e per la rabbia prese a calci la portiera. Poi si di-resse verso la Lada. Un secondo o due dopo il motorino ronzò, ma niente di più.

Puntine bagnate. Forse era per quello che si era fermato prima, e adesso niente era cambiato.

Provò ancora, ma la batteria si scaricava e il motorino girava sempre più piano.

Il vento rapiva il suono e lo trasportava fra gli alberi ma lo osservai urla-re e prendere a pugni con rabbia il volante.

Scese e si arrampicò verso l'oleodotto. Non m'importava che piani avesse. Tanto non li avrebbe portati a termi-

ne. Concentrai lo sguardo sulla sua massa. Occhio sinistro chiuso, puntai in

basso, nel ventre. Tirai il grilletto fino alla prima pressione; inspirai e trattenni il fiato. Il mirino era nitido, Bastardo appena offuscato. Perfetto. Tirai il grilletto sino in fondo. L'arma rinculò contro la mia spalla e Bastardo crollò. Inizialmente non ci fu nessun movimento, poi le gambe cominciarono a

strisciare nel fango.

Mi alzai. E andai verso di lui con l'arma in spalla e il bipiede aperto. L'istinto lo guidava lontano dal pericolo, aveva cominciato ad arrampi-

carsi verso l'oleodotto. Secondo me non sapeva neppure cosa stava facen-do.

Mi vide arrivare. Si fermò e si raggomitolò su un fianco in mezzo al solco. Sangue scuro, privo di ossigeno, gli usciva dal ventre e colava sulla lu-

cida cromatura della Desert Eagle che aveva alla cintura. Arma in spalla e occhi sulla sua. Quando fui a due metri da lui sollevò una mano. Aveva conservato il fia-

to per buttarlo fuori al momento giusto. «Nick. Dividerò il mio mezzo milione con te... Chuck ha avuto il suo

mezzo...» Lo lasciai continuare da solo. «Mi dispiace per quello che è successo al cimitero, ma avevo preso la

metà dei suoi soldi... e dovevo mettere tutto a posto, non potevo lasciare niente in sospeso.»

La mano era sempre alta, ma più per supplica che per difesa. «Tu ne hai già presi due e cinquanta, vero? Hai detto che avete fatto a metà. Te ne do altri due e cinquanta... Quindi prendi più di tutti...»

Sentii rumore di rotori in lontananza. Anche Bastardo lo sentì. «Senti, Nick, ho deciso. Ti darò tutto... Portami a Istanbul, mi occuperò

io dei trasferimenti. Pensaci.» Con la mano sempre in alto indicò la tasca. «E ti renderò anche la cassetta. Non sei scemo, Nick. Sai anche tu che è un accordo vantaggioso. Pensaci. Chuck è morto. Devi pensare a te, adesso.»

Il ragazzo non mollava mai. Sollevai l'RPK. «Non chiamarlo Chuck.» Si rilassò. «Fottiti.» La mano scese a cercare la pistola di Koba. Tirai il grilletto. Nessun bisogno di controllargli il polso. Lasciai cadere l'RPK, mi voltai

e tornai di corsa nel bosco. Dovevo trovare Charlie prima che facesse buio. Dovevo. Lo avevo promesso a Hazel. Lo avrei riportato a casa.

EPILOGO

La fattoria

Tre settimane dopo

Era stato un funerale semplice. Hazel e Julie si erano buttate a capofitto nell'organizzazione fino al pun-

to di noleggiare un piccolo JCB con cui Alan aveva scavato la fossa. Era un modo per annullare il dolore, per farle restare nel loro mondo dorato ancora per un po'. Lo capivo.

Non c'erano stati nessun prete e nessuna preghiera ufficiale. Ci eravamo messi tutti attorno alla buca e ognuno aveva detto qualcosa, poi lo aveva-mo calato giù. Julie e Hazel reggevano una corda e Alan e io l'altra.

Tutto era stato fatto in economia, come un culo stretto dello Yorkshire avrebbe voluto. Silky si era incaricata della musica. Dal camper posteggia-to vicino ci giunsero un paio delle sue canzoni preferite degli Abba, e io mi chiesi se le sue mani ballerine si comportavano bene quando Brown Girl in The Ring dei Boney M seguì subito dopo. Fu a quel punto che Ha-zel crollò. I nipoti non riuscivano a capire. Avevano sempre pensato che fosse la canzone preferita della nonna.

Alan aveva cucinato. Il cibo era buono, ma i suoi figli avevano detto che non c'era paragone con il barbecue del nonno.

Più tardi, quella sera, Alan aveva messo un DVD per i bambini ma l'a-vevamo guardato tutti, troppo sconvolti per fare altro, e novanta minuti di Shrek era un modo surreale come un altro per non pensare agli amici as-senti.

Quando alla fine Hazel e Alan misero i bambini a letto ero completa-mente esausto. Seduto accanto a Silky, osservavo le immagini che passa-vano senza senso attraverso lo schermo, e coglievo una frase ogni tanto. Era l'ora del notiziario; il presidente Bush si era fermato in Georgia di ri-torno dalle celebrazioni VE di Mosca. L'avvenimento era stato coperto per la CNN da una giornalista del posto, Nana Onani, nominata per l'Emmy.

Prima di andarcene la cercai con Google sul vecchio PC di Charlie. Lo speciale di 60 minuti era andato in onda; e i nomi erano stati fatti. Si pre-vedeva un cambiamento epocale ma naturalmente non era ancora successo niente. Due erano stati messi da parte e gli altri quattro si erano ritirati nel-le loro dacie per passare più tempo con la famiglia.

Internet mi fornì qualche risultato su Akaki. Su Zurab Bazgadze una va-langa in più. Non c'era gara. Il suo funerale di Stato si era svolto molto più sontuosamente di quello di Charlie. Cercai dappertutto, ma Jim D. «chia-matemi Buster» Bastendorf non compariva neppure per sbaglio.

Adesso stavo facendo l'ultimo saluto insieme a Hazel. Il lotto recintato

di bianco era in mezzo a un gruppo di eucalipti. Aveva pensato a tutto, si era persino preoccupata che ci fosse posto anche per lei, al momento op-portuno.

Era l'ora del tramonto e il sole già molto basso. La polvere sollevata da-gli zoccoli dei cavalli volava contro l'orizzonte di un rosso intenso.

Cominciai a dirle che quando l'avevo raggiunto Charlie pensava vera-mente di tornare a casa. «Ma qualcosa l'ha fermato. Penso di capirlo. In un certo senso manca anche a me. Sai com'è. Quando si è fatto qualcosa per tanto tempo, ti ci senti bene dentro. Ho provato la sensazione di essere a casa, là fuori con lui, non mi sentivo così da secoli. Mi dispiace. Non ho insistito abbastanza per convincerlo a mollare. Sono stato egoista. Volevo accompagnarlo.»

Mi sorrise e scosse la testa. «Sapevo che il vecchio babbeo desiderava morire con gli stivali addosso. Ci siamo messi insieme giovanissimi. Lo conoscevo meglio di quanto lui conoscesse se stesso. Pensava di essere riuscito a tenermelo nascosto...»

Si fermò e guardò le sagome scure dei cavalli nel recinto. «Nick, ho sempre saputo cosa girava nella sua testa dura, ed ero pronta a

conviverci... Se non potevo fermarlo, allora volevo che si concentrasse su qualunque cosa avesse deciso di fare invece di preoccuparsi per me. Così avrebbe avuto la possibilità di tornare a casa sano e salvo.» Sorrise ancora e si diresse verso la casa. «Ha funzionato piuttosto bene per trent'anni.»

Mi prese sottobraccio. «Voleva fare la cosa giusta, essere tranquillo per me e la famiglia. Ma la sai una cosa, Nick? Restituirei tutto per passare an-cora qualche minuto con lui.»

Mi fermai e guardai i suoi nipoti che uscivano di casa ridendo e urlando, pronti a correre per i duecento metri che ci separavano. «E tu la sai una co-sa, Hazel? Penso che tutti noi avremmo voluto avere più tempo con Char-lie... tranne Charlie.»

I ragazzini ci raggiunsero saltellando e abbracciarono la nonna, ancora incapaci di capire cosa era successo. Julie gli aveva detto che il nonno era andato a insegnare agli angeli a lanciarsi, e loro avevano pensato che fosse un'ottima idea. Ma poi avevano cominciato a chiedere quando sarebbe tor-nato.

Tornammo indietro. Il VW era davanti a casa, tutto ben caricato e pron-to. Be', in un certo senso. La tavola da surf era legata soltanto con due ela-stici.

Silky uscì nella veranda sottobraccio a Julie. Scese i gradini, abbracciò

Hazel per l'ultima volta e salì sul VW. Con un po' di fortuna saremmo stati nelle Whitsundays per colazione.

Senza staccare la mano dal mio braccio Hazel fece un passo indietro per guardarmi un'ultima volta. Aveva gli occhi lucidi.

«Nick, se vedi Dave il Matto non dimenticare di ringraziarlo per quello che ha fatto per noi. I soldi, farvi tornare qui tutti e due. È stato veramente fantastico.»

La baciai su una guancia. «Eh, sì, davvero fantastico.» Salii nel furgone. Mamma e figlia ci salutarono dalla veranda mentre

svoltavamo nella strada sterrata. Mi allungai sul volante, pronto alle lunghe ore di guida, e intanto pensa-

vo al mio migliore amico Dave il Matto. Avevo portato Charlie nel Taliwagon e avevo seguito l'oleodotto come

avevamo programmato. Avevo guidato tutta la notte a fari spenti per non farmi beccare dagli elicotteri. Da quel momento in poi Dave il Matto si era occupato di tutto. Una macchina ci aveva raggiunto in Georgia al confine e ci aveva portato in Turchia. Si era occupato dei passaporti e di tutto il re-sto.

Ci aveva fatto tornare in Australia, io in prima classe, Charlie come cari-co, poi aveva provveduto a che Hazel fosse sistemata per tutta la vita. Ma, in fondo, non è che avesse altre possibilità...

La notte in cui seguivo l'oleodotto avevo ripensato alle parole del cic-cione di merda. Gli amici politici avevano dato un milione di dollari a Ba-stardo e lui invece di distribuirli se ne era tenuti cinquecento per la vec-chiaia.

Dave il Matto non era stato da meno. Charlie aveva bisogno di duecentomila ed era possibile che lo sciocco

babbeo gli avesse detto che per quella cifra era pronto a fare qualsiasi cosa. Così, a Istanbul, mentre aspettavo nella saletta riservata, avevo stretto un

accordo con il Signor Bravo Ragazzo di Bobblestock. Lui avrebbe dato a Hazel tutti i cinquecentomila, sostenendo che era il compenso pattuito per il lavoro. In cambio io non avrei informato i ragazzi che andavano a bussa-re alla sua porta su che razza di percentuale si metteva in tasca, né spiffera-to alle ditte che si avvalevano di lui che aveva qualche problema sulla va-lutazione della qualità, dato che mandava in giro baionette senza controlla-re neppure se erano fisicamente idonee.

Quello che mi aveva divertito di più era stato quando gli avevo detto che, se non si fosse dato una mossa e se i soldi non fossero stati accreditati

sul conto di Hazel prima del nostro arrivo a Brisbane, sarei salito sul primo aereo per Bobblestock e avrei staccato per sempre il suo culo secco dalla sedia a rotelle.

Silky mi toccò un braccio. «Perché sorridi, Nick Stein?» Mi voltai e sorrisi a lei. «Pensavo...» L'avevo pensata molto - per migliaia di chilometri e un casino di fusi o-

rari -, e in tempi normali il risultato sarebbe stato un licenziamento senza preavviso. L'avrei abbandonata a Brisbane, le avrei lasciato il furgone. A-vrei troncato.

Ma questa volta, undicimila metri sopra il Pacifico, mi ero ricordato quello che qualcuno mi aveva detto in una macchina che puzzava di cane bagnato.

«Il trucco è riuscire a mantenere l'equilibrio... Ti sembra che abbia sen-so?»

Mi ero risposto di sì sull'aereo, mi rispondevo di sì anche adesso. «A cosa?» «Pensavo al fatto che avevi ragione. Siamo un'ottima accoppiata.» Lei rise e mi poggiò la testa sulla spalla, e se questo voleva dire far parte

del genere umano, allora ero pronto. Avevo imparato qualcos'altro dall'esperto. Passammo davanti al recinto dove pascolava il vecchio stallone. Non

c'era più. Mi ero dato da fare con il JCB, avevo scavato una grossa buca in un angolo, poi gli avevo puntato il vecchio fucile di Charlie alla testa e a-vevo scaricato i due caricatori. E secondo me il vecchio baio adesso sorri-deva almeno quanto Charlie.

FINE