Ameno lido che s’incurva e gira

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I segni della Storia sul secondo seno del Mar Piccolo di Taranto History traces around the Mar Piccolo (Small Sea) of Taranto

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Ameno lido che s’incurva e gira

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Taranto

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Ameno lido che s’incurva e giraI segni della Storia sul secondo seno del Mar Piccolo di Taranto

Scorpione Editrice

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Le immagini che riproducono in facsimile i documenti dell’Archivio di Stato di Taranto nel lavoro di Chirico sono pubblicate in concessione del Ministero per i Beni e le Attività Cultu-

rali (aut. n. 1032 del 28 maggio 2009). Divieto di riproduzione con qualsiasi strumento, tecnica o procedimento.

Le immagini riprodotte alle pagg. 8, 9, 11, 17, 18, 19, 23 sono tratte da La Provincia di Taranto (a cura di G. Carlone e O. Blasi), Atlante storico della Puglia, 3, Cavallino (Le) 1987.

Le foto di Villa Pantaleo sono state gentilmente fornite dal dott. Gerardo De Benedetto.

Le foto di copertina, della Palude la Vela, del Convento dei Battendieri e del complesso di S. Pietro sono di Giordana Tuzzi.

Il titolo “Ameno lido che s’incurva e gira…” è una citazione da T.N. D’Aquino tratta da Delle Delizie Tarantine, Napoli 1771, libro secondo, pag. 155.

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uando, alla fine dell’Ottocento, fu costruito il canale navigabile che divide l’attuale Borgo di Taranto dall’antica isola,

forse il Mar Piccolo non apparve subito con la sua antica grazia di lago salato, segnato nella parte interna da due sporgenze

che delimitano un ancor più piccolo bacino, certo allora paludoso.

Non fu subito utilizzato né valorizzato, cioè, il sopore discreto del secondo seno del Mar Piccolo, dove la storia ha la-

sciato tracce sensibili e dove la dimenticanza degli uomini ha trascurato l’attenzione all’interesse culturale e alla frequenta-

zione sociale.

Ma ciò ha anche consentito che se ne conservasse intatta, fino a oggi, l’interezza tra natura e storia, e per questo è

sembrato opportuno tornare sull’intervento degli uomini in quei luoghi nei secoli, per ritrovare il sentimento della continuità

e del passato nella nostra città.

È nato da questa esigenza di conoscenza lo studio a tre voci di «Ameno lido che s’incurva e gira...». I segni della storia

sul secondo seno del Mar Piccolo di Taranto, promosso dagli Amici dei Musei, in cui gli Autori ricostruiscono il passato ar-

cheologico, archivistico e architettonico di un luogo importante e segreto, ricco di fascino naturale e di espressioni ancora

tangibili dell’azione dell’uomo.

Già nella ricostruzione documentaria emerge la vita di una città in grado di stabilire un rapporto consapevole con il

proprio luogo naturale, quasi un aperto colloquio, se si leggono le disposizioni testamentarie, le vocazioni alla convivenza

solidale, la logica geografica e sociale della sistemazione dello spazio rurale intorno al Mar Piccolo.

E ciò che viene costruito – proprietà private e luoghi religiosi – è caratterizzato sì dal bisogno dei pochi nobili locali di

ampliare il proprio patrimonio con un gioco serrato di contratti matrimoniali e di amicizie notabili, ma risponde anche al-

l’esigenza illuminata di rendere il secondo seno del Mar Piccolo un sito sempre più appetibile per la coltivazione e per la

stabilizzazione di dimore rurali e di chiese che diventano riferimento di potere religioso e civile.

Il diritto d’uso del fiume Cervaro, concesso da Francesco Marrese nel 1585 all’Ordine dei Padri Cappuccini affinché

possano edificarvi un battendiere “a fine di curare li panni della Religione”, e la costruzione “di una gualchiera e di unpiccolo ospizio di appena otto celle per ospitare i cinque fratelli e due terziari addetti alla follatura dei panni” e la nascita,

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accanto ad essi, di una cappella e di un giardino circondato da muri a secco, parlano un linguaggio di capacità imprendi-

toriale oltre che di volontà di diffusione dei principi religiosi ispiratori dell’Ordine.

E la concessione, nel 1536, con enfiteusi perpetua alla stessa famiglia Marrese nella persona del nobile Guala, sindaco

di Taranto, della Masseria di San Pietro e Andrea, chiarisce ulteriormente l’interesse che il sito suscita e gli sviluppi agricoli

e sociali intravisti.

Ma è certo nell’Ottocento che il luogo si anima di vita civile e la superficie “ondulata e occupata da aree depresse al-

ternate a costoni più elevati orientati in senso nord-sud” acquista respiro più intenso.

Sono le case patrizie extra moenia a dare un nuovo assetto alla zona con vista sul Mar Piccolo e con possibilità di col-

tivazione intensiva, caratterizzate da nuova eleganza architettonica e concezione di riposo e di svago.

È una Taranto diversa, quella che spia da questi luoghi che si adagiano ancora oggi su una costa in cui la natura domina

il paesaggio raccolto e immoto nella ricchezza del passato.

Gli interventi degli autori colgono, nella puntuale definizione storica e con la dovizia delle immagini, questa dimensione

poetica e dimenticata e la propongono con una qualità di partecipazione che diventa analisi quasi sorridente di una zona

di Taranto particolare per amenità e storia.

Ed io li ringrazio, anche a nome dei soci, per aver assecondato con slancio il nostro progetto di conoscenza e di divul-

gazione e, insieme con loro, ringrazio l’editore che si è assunto l’onere economico della pubblicazione per la quale, ahimé,

non c’erano sponsor disponibili.

Anche attraverso quest’opera Taranto continua così a vivere soltanto di luce propria, della sua storia e del suo passato,

in un presente che tarda a chiarire le prospettive, i progetti e i programmi per il suo domani.

Settembre 2010

Annapaola Petrone Albanesepresidente dell’Associazione Amici dei Musei di Taranto

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Fonti storiche per la conoscenza del territorio

La vendemmia, gouache napoletana del ‘700 (da L. Mangione, Vigneti di Puglia, Congedo 2008).

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La sistemazione dello spazio rurale del territorio intorno alMar Piccolo è scarsamente testimoniata dalle fonti nei secoliprecedenti al XVIII, numerosi sono i riferimenti per il Sette-

cento, mentre un quadro più completo è possibile solo dall’iniziodell’Ottocento sulla scorta dei dati desunti dal catasto murattianoe dalla numerosa documentazione notarile coeva. 1

Proprietari di vasti patrimoni fondiari nella zona, erano soloalcuni signori locali e vari enti religiosi che, sul finire del ‘700, av-viarono una importante politica di ampliamento del proprio patri-monio comprando i beni demaniali posti in vendita per effetto dellaeversione feudale e introducendo nuove colture e nuove forme digestione della terra. Il rinnovato interesse per la coltivazione dellaterra e la necessità di curare da vicino le proprie aziende agricole,portò i proprietari a risiedere per lunghi periodi e soprattutto nellastagione estiva, nelle loro residenze di campagna che un po’ allavolta vennero ampliate e riadattate alle nuove esigenze, diventandoa volte dei veri e propri casini di villeggiatura. Accanto alla casa pa-dronale sorgevano i fabbricati per i coloni, i “bracciali” e i “gualani”,le posture per la conservazione delle derrate, il palmento, diversipozzi di acqua piovana e sorgiva, il giardino con alberi da frutto :soprattutto mandorli, fichi, peri, melograni, gelsi. La terra posta acoltura era destinata principalmente a seminativo, ma notevole erala presenza dell’uliveto e del vigneto. 2

In cima alla gerarchia sociale di Taranto, città di pescatori eartigiani, stava un ceto nobiliare molto ristretto, composto da unaventina di famiglie nobili3 che detenevano le maggiori ricchezzee i cui membri si contendevano il potere locale occupando ancheuffici regi.

Legate e imparentate fra loro, tali casate creavano una fittarete di relazioni politiche, economiche e sociali determinate es-senzialmente dalle alleanze matrimoniali, basate sulla conser-vazione del patrimonio immobiliare urbano e dei possedimentiterrieri che passavano intatti solo in linea maschile e per viasuccessoria, creando famiglie allargate, proprietà indivise erapporti di alleanza e di solidarietà fra parentele, in cui il ri-corso alla trasmissione ineguale dei beni era funzionale a man-

tenere integro il patrimonio, impedendone lo smembramento.Attraverso l’adozione di istituti giuridici quali le primogeni-ture e i fidecommessi, veniva favorita poi la creazione di dina-stie lineari ed era assicurata l’unità tra un nome e unpatrimonio che passava di generazione in generazione indi-viso. Per questo, la maggior parte delle giovani fanciulle dellegrandi famiglie era incoraggiata ad entrare in convento e soloalcune erano destinate a contrarre un matrimonio vantaggioso;le prime rinunciavano con atto notarile a qualsiasi pretesasull’asse ereditario, ricevendo in cambio la dote di monaca-zione, sensibilmente inferiore a quella matrimoniale. “…spirate

dalla gratia dello spirito santo deliberorono monacarsi…con la vo-

lontà di fare la professione, lasciare le cose mondane, servire Iddio e

finire la loro vita da religiose e, conoscendo quanto siano li beni ter-

reni d’impedimento a persona religiosa hanno deliberato prima di fare

la loro sollenne professione, renunciare e donare loro portioni di beni10

Pianta del territorio comunale di Taranto con l’indicazionedelle aree paludose e dei principali corsi d’acqua.

Rilievo dell’ingegnere idraulico Carlo Pollio, fine XVIII secolo

1 Ampiamente descritta tutta la zona intornoal Mar Piccolo nei diari di viaggio degli in-tellettuali europei che, seguendo gli itine-rari del Gran Tour, giungevano a Taranto;fra tutti, così si esprime nel 1879 Lenor-mant: “sulle colline degradanti verso Mar Pic-

colo sì da godere della bella vista sulla

tranquilla insenatura, fra poggi di olivi infra-

mezzati a giardini di aranci, limoni, fichi, man-

dorli e melograni, fanno qua e là capolino le

ville dei ricchi abitanti della moderna Taranto”,Viaggiatori francesi in Puglia nell’Otto-cento, a cura di G. Dotoli-F. Fiorino, IV, Fa-sano 1985, p. 444.

2 Per una conoscenza del territorio cfr. A. V.Greco, Masserie del tarantino. Il territorio ur-

banizzato, Martina Franca 2002; C. Chirico,Sulla via che mena al Pizzone. L’antica strada

di S. Lucia a Taranto, Taranto 2001.3 P. Boso, La popolazione di Taranto secondo il

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così mobili come stabili che ad esse spettano e competono per qualsi-

voglia causa portioni, legittime e successioni”. Le poche che si spo-savano divenivano invece strumento di alleanza con altrefamiglie e comunque le loro quote erano generalmente inferioria quelle dei fratelli. Ai figli cadetti, oltre alla vita ecclesiastica,si apriva la carriera militare.

La ricostruzione storica delle proprietà rurali delle famiglie pa-trizie tarantine prende, come detto, le mosse dal XVIII secolo conqualche riferimento ai due secoli precedenti. Ad una tale esiguitàdelle fonti presettecentesche, corrisponde una ricchezza di infor-mazioni per i secoli successivi desunte non solo dai documenti adisposizione negli archivi pubblici e privati ma anche, indiretta-mente, dalla lettura degli atti stipulati dagli eredi al momento dellasuccessione dei grandi patrimoni. Consueti infatti erano gli inven-tari dei beni di famiglia stipulati dai notai i quali davano informa-zioni sull’archivio di famiglia, annotando anche la grande messe dititoli di proprietà conservati a testimonianza di acquisti e vendite 4.

Testamenti, inventari, capitoli matrimoniali, sono strumentipreziosi per indagare la vita della famiglia tarantina del XVIII se-colo; le informazioni casuali che tali documenti forniscono sullatopografia, sulla proprietà, sui tipi di lavoro, sui rapporti inter-personali, sui sentimenti, consentono di ricostruire la vita dellaelite mercantile e terriera del secolo.

In questo contesto si inserisce la storia del territorio ad estdel promontorio del Pizzone e delle famiglie che intorno al se-condo seno del Mar Piccolo avevano le loro proprietà.

Superato il ponte di Porta Lecce, percorrendo l’antica stradaS. Lucia, la campagna orientale era caratterizzata da casini,grandi strutture conventuali e piccole cappelle rurali sparsi quae là tra giardini e vigneti. Lasciata a destra la caletta della Santadegli occhi, incontrastato dominio dell’Arcivescovo Capecelatroe subito dopo il promontorio del Pizzone, per alcune miglia fuoridell’abitato si estendevano appezzamenti a coltivazione inten-siva, giardini e vigneti, mentre via via che ci si allontanava da Ta-ranto iniziavano a prevalere i campi seminati a frumento insiemea vaste estensioni di ulivi. 11

catasto del 1746, in Produttività Jonica, annoIV, nn. 1-2, Taranto 1975, pp. 40-81

4 Nell’inventario dei beni lasciati in ereditàdal cavaliere Giantomaso Marrese, ven-gono ritrovati e minuziosamente descrittinei contenuti quasi 200 ponderosi incarta-menti dal 1376 al 1823 contenenti capitolimatrimoniali, libri contabili, atti di affitto,corrispondenza e atti in pergamena, relativiad acquisti di beni immobili, donazioni,cessioni, inventari, la cui lettura illuminanon solo sulla storia della famiglia Marrese,una delle più potenti e ricche della Tarantofra Sette e Ottocento, ma anche sulla storiain generale delle casate cittadine con lequali i Marrese avevano rapporti di paren-tela o di affari, offrendo uno spaccato di

grande interesse della struttura economico-produttiva della società tarantina. ASTa,notaio de Vincentiis Domenico Antonio,1829, scheda 333, cc. 874r-949v. Del vasto earticolato archivio Marrese oggi, probabil-mente, rimangono solo le 69 pergameneconservate a Lecce presso la Biblioteca Pro-vinciale. Cfr. M. Pastore, Archivi privati in

Terra d’Otranto, in Studi Salentini, VIII (di-cembre 1959), pp. 408-448.

Pianta della città di Taranto e dei comuni del circondario,disegno di Giovanni de Berger, sec. XVIII

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12Pianta del territorio comunale di Taranto e veduta prospettica della città, disegno di Giovanni Ottone de Berger, (da T.N. D’Aquino, Delle Delizie tarantine, Napoli 1771).

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13Pianta del Mar Piccolo di Taranto

disegnata dal Pacelli nel 1807.

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Pianta del territorio di Taranto (da G. B. Gagliardo, Descrizionetopografica di Taranto, Napoli 1811).

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5 G.B. Gagliardo, Descrizione topografica di Ta-

ranto, Napoli 1811, p. 556 ASTa, notaio de Letizia Orazio, 1651, scheda 74,

cc. 230v-234r.7 ASTa, notaio Manograsso Domenico Cataldo,

1677, scheda 86, cc. 16r-26r. I capitoli matri-moniali sono stipulati dalla stessa Vittoriache dichiara di non saper scrivere e com-prendono anche un dettagliato elenco dibeni corredali , comprese numerose e ricchegioie.

8 I capitoli matrimoniali furono rogati dal no-taio tarantino Francesco Antonio de Pierronel 1685.

9 ASTa, notaio Carosio Giovanni Maria, 1690,scheda 102, cc. 143v-149v.

10 ASTa, notaio Troncone Donato Antonio, 1720,cc.70v-71r. e 776v-780r.

11 Fracesco Antonio seniore aveva acquistatol’Ufficio di regio doganiere e baglivo di Ta-ranto, incarico che aveva poi trasmesso ineredità a suo figlio Pietro Antonio e a suo ni-pote. ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola,1757, scheda 183, cc. 931v-933r.

12 Pietro Antonio Calò è tristemente famoso peruna vicenda che coinvolse la sua famiglia,una delle più note della Taranto settecente-sca, per una mancata promessa di matrimo-nio che gli costò l’arresto personale nellesegrete della Curia arcivescovile dove rimaseper circa quattro anni. Cfr.C. Chirico, Dalla

promessa di matrimonio alla dissoluzione. Fonti

per la storia della famiglia, in Popolazione e fa-miglia nel Mezzogiorno moderno. Fonti enuove prospettive d’indagine, a cura di Gio-vanna Da Molin, Bari 2006, pp. 181-192

13 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola, 1757,scheda 183, cc. 708v-710r.

14 Ivi, cc. 944r-946v.15 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola, 1758,

scheda 183, cc. 50v-54v. “l’abitazione nobile, li

giardini ed alberi di frutti communi restano a be-

neficio del detto signor Calò”.

Masseria Manganecchia o Cimino

Una delle prime contrade che si incontravano era Manganec-chia, “amena” la definisce Gagliardo nella sua descrizione del ter-ritorio, ”posta tutta a vigne e ricca di verzieri e di ville dalla quale ha

preso il nome la spiaggia che la bagna. Qua accorrono i tarantini nelle

notti di settembre e ottobre in occasione della pesca della sciabica per

mangiare sdraiati sul lido.”5

La zona è chiamata indifferentemente nelle fonti anche Ci-mino perché appartenuta alla antica e nobile famiglia Ciminoestinta alla fine del Seicento. I fratelli Alessandro, Alfonso e Fran-cesco Antonio Cimino, a metà Seicento, possedevano in comune“quamdam maxariam consistentem in tumolos centum quinquaginta

terrarum seminatoriarum, arboribus sexaginta in circa olivarum, qua-

tragenalibus sex in circa vinearum, turri, domo terranea, magazeno,

nonnullis arboribus communibus, iardeno et aliis membris”.6 La pro-prietà, al confine con le terre di Ludovico Carducci e Diego Pa-narelli era passata, per motivi legati al recupero dei beni maritali,a Vittoria Gennarini moglie di Alfonso Cimino. Vittoria, rimastapresto vedova, si risposò con Gaspare Mazziotta7, portando indote gran parte della masseria del primo marito. Il documento èanche una delle prime descrizioni della masseria Cimino in que-sto momento formata da due territori: la Pezza Grande ( 51 to-moli di terre seminatorie, con 70 alberi di olive, alberi “d’amendole,

due albori di celse rosse et uno di celse bianche et tre alberi di fichi”, ungiardino di “citrangoli” e mortella, due pozzi, tre palmenti), e laPezza della Vela ( poco più di sei stoppelli di terre scapole, settequarantali di vigne e un “giardinetto ammurato a crudo”). Per laprima volta vengono descritti anche i fabbricati “una torre con due

camere, dui cortigli, suppenne, due case di paglia, stalla, cellaro, dui

magazeni, cioè uno grande e uno piccolo, casa terranea per li gualani et

aera paritata”, il tutto per un valore di circa 1900 ducati.Intorno all’ultimo decennio del secolo Vittoria, rimasta nuo-

vamente vedova, sposò Diego Calò8, esponente di un’altragrande e importante famiglia tarantina che nella zona possedevagià dieci tomoli di terre seminate9. Da questo momento Diego ini-

ziò un’opera di acquisizione di numerosissimi piccoli poderinell’intento di ingrandire la proprietà.

Vittoria nel suo testamento10 dispose che Diego rimanesseusufruttuario “del fabrico della massaria d’essa signora Vittoria detta

della Manganecchia, suppenne et ordegni rurali in essa sistenti”, di trepaia di bovi, carrette e capitania di detta masseria oltre alla vigna.Non avendo Diego con Vittoria avuto figli, ne ereditò le proprietàsuo fratello Francesco Antonio11 e, in seguito, il figlio di questiPietro Antonio12 al quale si deve la costruzione della chiesa dellamasseria Cimino; nel 1757 “volendo propagare il culto divino e la

gran divozione che come fedele cristiano ha portato e porta verso l’Im-

maculata Santissima sempre Vergine Maria Madre di Dio ed il glorioso

nostro Protettore S. Cataldo ave eretto dalle fondamenta una nuova

chiesa in questa sua masseria di Cimino o sia della Manganecchia col-

l’espressa deliberazione ed invocazione della detta Immaculata e sempre

Vergine Maria e S. Cataldo e sotto questo titolo e patrocinio”; alloscopo Pietro Antonio dotò la nuova chiesa di un capitale di due-cento ducati per l’acquisto delle suppellettili sacre, per far cele-brare ogni anno sette messe nei sette giorni delle festivitàprincipali della Vergine Maria, per pagare il sacerdote chiamatoa celebrare e infine per una messa cantata da celebrare in perpe-tuo nei giorni dell’Immacolata Concezione e di S. Cataldo.13

A Pietro Antonio subentrò nell’eredità suo figlio FrancescoAntonio, a richiesta del quale, il 25 ottobre 1757, il notaio si recònella masseria Manganecchia o Cimino dove il procuratore diFrancesco prese possesso della sua eredità “con entrare ed uscire

nell’abitato rurale, nell’abitato nobile, capanne di semoventi, nella

chiesa, terreni, giardinetto ed alberi, camminando ed ordinando alli co-

loni varie cose riguardo il coltivo della detta masseria con rompere rami

di arbori e fare ogn’altro atto che denota lo vero possesso.”14 FrancescoAntonio diede poi in fitto i terreni della sua masseria riservandoa sé e alla sua famiglia il casino e il giardino per villeggiatura15.

Qualche anno più tardi un certo capitano Ippolito Cagnazzidi Altamura, per alcuni crediti vantati, chiamò in giudizio pressola Gran Corte della Vicaria i Calò la cui masseria venne sottopostaad apprezzo da parte di un commissario inviato dal Sacro Regio

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tribunali. Prima di partire si occupò di al-cuni problemi riguardanti “l’onore e decoro

suo” sistemando la giovane moglie Raffa-ella de Angelis nel monastero di S. Anna diLecce, sentito il parere del suocero. Raffa-ella “per compiacere al detto suo marito, cono-

scendo essere giustissimo” accondiscese aritirarsi in convento. F. A. le assegnò un vi-talizio e un corredo di biancheria, mobiliper arredare la sua camera, vestiti e gioie,oggetti concessi alla donna per suo aggio edecoro per il tempo dell’assenza del maritoal quale dovevano poi essere restituiti.ASTa, notaio Pignatelli Diego Gennaro, 1761,scheda 190, cc. 301r-305r.

17 Ivi, cc. 275v- 284v.18 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola,

1766, scheda 183, cc. 953r-956r.19 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola,

1770, scheda 183, cc. 1425v-1431r 20 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola,

1771, scheda 183, cc. 455v . La costruzionesi deve a Francesco Saverio Miraglia, im-portante imprenditore edile del secolo, alquale si deve anche la costruzione del pa-lazzo Pantaleo al porto.

21 “Voglio che il mio cadavere sia sepellito nella

chiesa del venerabile convento di S. Pietro Im-

periale dell’ordine de’ padri predicatori di que-

sta città, con quella pompa funerale

convenevole al mio stato”. Questa, fra le altre,la disposizione testamentaria lasciata daFrancesco Maria Pantaleo nel suo testa-mento datato 28 luglio 1783.

22 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola,1770, scheda 183, cc. 1077v-1091v. France-sco Maria ebbe sempre un’attenzione spe-ciale per il palazzo tarantino del qualeaveva curato ogni particolare, assicuran-dosi la vista anche del Mar Piccolo e dellaretrostante Piazza Grande, Ibidem, 1772, c.144, c. 399, c. 648

23 Tenero il riferimento alla moglie Maria perla quale dispose che, insieme ad un ade-guato vitalizio, dovesse abitare nel quartodel palazzo tarantino con l’uso “dei mobili,

suppellettili di casa, argenti, gioie, della carozza

dei quali non sia tenuta a dar conto e questo le-

gato che le faccio in argomento della mia vene-

razione, stima ed amore”.

16 A proposito delle condizioni debitorie dellafamiglia, peraltro comuni a molte famiglienobili cittadine, Francesco Antonio proprionel 1761 fu costretto, per evitare “che gl’af-

fari più rilevanti della sua casa andassero a ro-

vina” a lasciare Taranto per alcuni anni e arecarsi a Venezia (è figlio della nobile damaveneziana Altadonna Semitecolo) e a Na-poli dove pendevano alcune cause presso i

Consiglio, organo napoletano con competenze economiche16. Fu così che il 19 novembre 1761 una parte delle terre della

masseria venne venduta a Cagnazzi per 2850 ducati insieme adalcuni vani sottoposti al casino; a Calò rimase il casino superiore,la rimessa e il giardino detto la Fossata con “alberi di agrumi, ce-

trangoli, frutti comuni”, in comune i due pozzi e la chiesa, mentreCalò si impegnò a costruire un muro divisorio dentro il cortiledella masseria per separare la proprietà venduta da quella rima-sta alla sua famiglia.17 Ma la convivenza si rivelò ben prestotroppo scomoda e quindi, nel 1766, Francesco Antonio decise divendere anche ciò che gli rimaneva della masseria; beneficiario,Francesco Maria Pantaleo di Palagiano che per 500 ducati si assi-curò un casino consistente in cinque vani e cucina18, una rimessa,un giardinetto di agrumi in una fossata e il corridoio di 18 metridi lunghezza e 5 metri di larghezza costruito per consentire aiCalò di raggiungere il casino dalla strada.

È questo il momento in cui si affacciano i Pantaleo come pro-prietari della zona; a completamento dell’acquisto appena fattodel casino, Pantaleo aveva comprato dai Calò anche alcuni tomolidi terre seminate con alberi di mandorle, “vestiggi di case dirute”e un pozzo, confinanti col casino.

Nel 1770 Francesco Maria riuscì a completare, pagando 4950ducati, l’acquisizione dell’intera masseria Cimino, con l’acquistodella proprietà di Cagnazzi nel frattempo venduta ad un certoGiuseppe Putignani19 e con la costruzione di due palmenti permacinare le uve, di una nuova rimessa e di una stalla.20

Il barone Francesco Maria Pantaleo merita un’attenzione par-ticolare nel panorama tarantino dell’epoca: si sposa due volte, laprima con Palma della Giorgia di Alessano procreando due figli,Domenico e Giulia, monaca professa del monastero di S. Gio-vanni Battista poi, rimasto vedovo, con Maria Molignani dei ba-roni di Berardinetto da cui nacquero Giovanni, Antonio, Edvigee Catalda.

Il 1770 è anche l’anno in cui Pantaleo affermò la sua posi-zione in città facendo edificare il palazzo di famiglia a pochi passidalla chiesa di S. Pietro Imperiale21, affacciato sul Mar Grande16

Testamento di FrancescoMaria Pantaleo. ASTa, notaioCandia Giuseppe Andrea,1786, scheda 211, cc3r-9v.

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nello splendido scenario del porto.Il palazzo è oggi uno dei più begli esempi di architettura set-

tecentesca, tra i pochissimi nel borgo antico a non essere il risul-tato di più unità edilizie accorpate, ma costruito dallefondamenta dopo il diroccamento di una preesistente casa palaz-zata22.

Francesco Maria ne affidò la realizzazione ad uno dei piùaccorsati costruttori dell’epoca, Francesco Saverio Miraglia, alquale affiancò il pittore francavillese Domenico Antonio Carellaper le decorazioni dei soffitti e delle stanze, secondo un costumeche si andava affermando nelle province meridionali su modellonapoletano.

Il 6 giugno 1786 Francesco Maria morì nominando erede uni-versale Giovanni, l’unico figlio maschio avuto da Maria Moli-gnani23, sua seconda moglie ed erede particolare Domenico,primogenito nato dal primo matrimonio. Il testamento24, sotto-scritto tre anni prima e consegnato al notaio di famiglia, è illumi-nante non solo per la descrizione dei beni Pantaleo, ma per lestrategie messe in atto, sul finire del secolo XVIII, dalla nobiltàlocale per regolare i propri affari patrimoniali. Come già dettoprecedentemente, la necessità di tutelare il patrimonio familiarerendeva gli eredi solamente usufruttuari dei beni che dovevanoinvece passare intatti da primogenito in primogenito e, in caso diestinzione della linea maschile, la trasmissione riguardava i pri-mogeniti maschi delle figlie femmine con l’obbligo però che “…il marito di detta mia figlia ed ogni primogenito che succederà nella di

lei discendenza debba unire alla propria famiglia il cognome di Panta-

leo”25.Puntuali e severe le disposizioni di Francesco Maria, il quale

“in sedia sedendo, sano per la Dio grazia di corpo, vista, intelletto e nella

sua retta loquela e memoria, considerando di dover tra breve tempo mo-

rire”, dispose, secondo il diritto successorio vigente, affinchè tuttoil patrimonio si conservasse per il primogenito: “espressamente

proibisco ogni atto di vendita, alienazione, pignorazione, permutazione,

censuazione, obligazione ed ogn’altra distrazione, sotto pena di ca-

duità…e della nullità ed invalidità di quel contratto che si fosse sopra

di ciò fatto, senza che sopra la proprietà di detti beni tutti si possa tra-

sferire o acquistare dominio, possesso…neppure al regio Fisco per qual-

sivoglia delitto, anche gravissimo che fusse di Lesa maestà, divina ed

umana… delle quali, Iddio non voglia, incorresse o fosse incorso il pos-

sessore usufruttuario…” La disposizione paterna, però, non convinse Domenico, figlio

avuto dalla prima moglie Palma della Giorgia, il quale ricorse alSacro Regio Consiglio per la tutela dei suoi interessi.

“Essendo insorte delle discordie” l’11 aprile 178726,con la media-zione di Tommaso Ciura, comune amico, si addivenne tra i fra-telli ad una articolata convenzione27: per i beni paterni situati nelterritorio di cui parliamo si dispose che a Giovanni andasse mas-seria Raho28 con quattro pezze di terre seminatoriali: La Salinella,Calzo, Cocevolina e la Piantata, dell’estensione totale di circa 195tomoli, 530 alberi di olive, una pezza di terre paludose destinataa pascolo con alcuni fabbricati, buoi, carri, aratri e altre capitaniee infine la masseria Cimino di 75 tomoli di terre seminatoriali confabbricati e dotata di “para tre di bovi aratorii, una giumenta, tre

zappe, tre zapponi, una carretta o sia carro colla sua vacana, tre giochi,

dodeci piloni, mettà de’ quali cioè sei esistenti dentro la capanna e sei

sopra l’aja per uso di detti bovi, una casa piena di paglia, tomola cento

cinquanta di avena, tomola trenta di grano, tomola due di fave, tomola

due di ceci, due giardinetti, sessanta sette quarantali di vigne, due pal-

menti in ordine, trenta botti esistenti dentro la cantina di sotto al ca-

sino”. A Domenico spettò masseria Paluderbara29 con fabbriche in-

feriori e superiori “terre seminatoriali cento novanta e stoppelli sei,

con dentro numero seicento trenta alberi d’olivi fruttiferi, altre terre pa-

ludi di pascolo tomola settanta e due stoppelli e tomola quattro terre pa-

ludi comprate da signori Carducci e dotata di sette para di bovi, due

carri in ordine con due racane, sette aratri, sette giochi, una giumenta,

venti otto piloni, mettà de’ quali esistono entro le capanne e l’altra mettà

sopra l’aja per uso d’ bovi, sette zappe, sette zapponi, un lamione pieno

di paglia, tomola cento di grano, tomola due cento cinquanta di avena,

tomola dieci di orzo, tomola sette di fave, tomola cinque di ceci, numero

tre cento cinquanta pecore”.

24 Il testamento è datato 28 luglio 1783 scrittoe sigillato dal notaio tarantino LorenzoPaolo Trani la cui scheda notarile venneconservata dal notaio Giuseppe AndreaCandia che, all’atto della morte di Panta-leo, ne pubblicò il testamento. ASTa, notaio

Candia Giuseppe Andrea, 1786, scheda 211,cc.3r-9v.

25 Nel testamento Francesco Maria assegnòalle due figlie nubili Edvige e Catalda 4000ducati di dote a testa oltre al corredo delvalore di 500 ducati.

26 ASTa, notaio Castriota Domenico Antonio,1787, scheda 229, cc.87r-109r

27 ASTa, notaio Castriota Domenico Antonio,1786, scheda 229, cc. 145v-161r (al docu-mento è allegata una copia autentica del te-stamento di Francesco Maria).

28 La masseria, di 232 tomoli di terra “con 570

alberi di olivo, giardinetto, case rurali, capanne,

magazzini, abitazioni, chiesa” a confine conMasseria Paluderbara, era una volta di pro-prietà De Raho, poi pervenuta in eredità aiGennarini. Nel 1765 “poiché si trovano op-

pressi di altri debbiti forzosi” i fratelli Filippo,Michele e Tommaso Gennarini si videro co-stretti a vendere la loro proprietà a France-sco Maria Pantaleo. ASTa, notaio Mannarini

Francesco Nicola, 1765, scheda 183, cc.1233v-1251r.

29 La Masseria Paluderbara era di proprietà deifratelli Achille e Cataldantonio Carducciche l’avevano ereditata dal padre Bartolo-meo, nel 1765 “trovandosi in positivi bisogni”e per soffisfare i numerosi creditori i duefratelli la vendettero per 14500 ducati aFrancesco Maria Pantaleo. Ibidem, cc.899v-926v.

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Giovanni, nello stesso anno 178728, concesse in fitto le suemasserie Raho e Cimino a Pasquale e Fedele Mariella (padre e fi-glio) di Carosino per 793 ducati d’argento da corrispondere an-nualmente, riservando a sé l’uso del casino “con la stalla, rimessa,

camera per il torriere delle vigne, cantina, palmenti, chiesa, li due giar-

dinetti di agrumi ed avucchi di ape”. I Mariella, nei patti intercorsi,si obbligarono a dare gratis ogni anno al barone venti carri di pa-glia per la stalla del palazzo in Taranto, 480 uova, due capponi,“una gallotta, un pavoncello nel S. Natale e tre fuscelli di ricotta tutte

le domeniche”. Durante la vendemmia i conduttori delle masseriesi impegnarono a consegnare a Pantaleo le due giumente per “co-

fanare”, e a trasportare a loro spese i materiali occorrenti alle even-tuali riparazioni ai fabbricati delle masserie. Gli oneri dimanutenzione dovevano essere a totale carico del proprietario.

I fratelli Pantaleo, Giovanni e Domenico, alla fine del secoloXVIII risultavano proprietari di un vasto latifondo che compren-deva la masseria Paluderbara (attuale Patrovaro) acquistata dalfallimento Carducci, Raho acquistata dai Gennarini, Cicora in con-cessione enfiteutica dai Padri del convento di S. Maria delle Graziedell’Ordine dei Minimi di S. Francesco di Paola29 e Cimino.

Nella descrizione delle proprietà Pantaleo agli inizi del XIXsecolo, ci soccorre il catasto murattiano in cui, all’impianto, risultache il barone Giovanni è proprietario di diverse masserie: La Ci-cora con un seminativo di circa 135 tomoli, una casa rustica e unad’abitazione, la masseria Raho con 127 tomoli di terre seminate,casa rustica, casa d’abitazione, due giardini e oliveto, Il Cavalierecon giardino, casa d’abitazione e oliveto, Cimino con 57 tomolidi seminato, oliveto, giardino, casa rustica, casa d’abitazione epalmento e alcuni appezzamenti di seminativo e vigneto a Pa-lude Erbaro e Manganecchia, oltre al palazzo di famiglia nellaStrada del Porto.

Giuseppe, figlio di Giovanni, con suo testamento olografodel 10 ottobre 1854, aveva lasciato il suo intero patrimonio, valu-tato 106.340 ducati, ai tre figli maschi Francesco, Giovanni e Gia-como tutti non sposati e abitanti nello stesso palazzo; la solalegittima, invece, alle tre femmine Caterina moglie di Francesco

de Notaristefani, Maria eGiulia, monaca professa delmonastero di S. Chiara. Ilprimogenito, cui era statadestinata fra le altre pro-prietà la masseria Cimino,morì nel 1869 e suo padreridistribuì le proprietà aidue figli maschi superstitiGiovanni che ereditò il ti-tolo di barone e Giacomo.Giuseppe morì il 4 luglio187030 e i figli vennero chia-mati ad aprire la succes-sione della eredità paterna31

nella quale era confluitaanche quella della madre,baronessa Maria GiuseppaMartucci.

Al barone Giovannivenne destinata la masseriaRaho posta lungo la via perFaggiano, di 195 tomoli diterreno seminato e olivatocon casa rurale e cappella,la masseria Cicora di circa130 tomoli confinante conle terre delle masserie Palu-derbara, Monacelle e Mon-tefusco32, il secondo pianodel palazzo sito in Tarantonella Strada del Porto com-posto di 11 vani e due terrazzi, il “quartino matto” di quattro vani,la cantina ed un magazzino, oltre a metà della scuderia, della ri-messa, della selleria e un magazzino per foraggi con altre tre pic-cole case contigue.18

Testamento olografo del barone Giuseppe Pantaleo.ASTa, notaio de Vincenttis Girolamo, 1870, scheda 411, cc.385r-394v

28 ASTa, notaio Castriota Domenico Antonio,1787, scheda 229, cc. 14r-20r

29 ASTa, notaio Castriota Domenico Antonio,1795, scheda 229, cc.45-70r

30 ASTa, notaio de Vincentiis Girolamo, 1870,

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A Giacomo venne destinato, oltre alla masseria Paluderbara,di circa 296 tomoli di oliveto e vigneto al confine con le terre dellemasserie S. Paolo, Cicora, il piano nobile cioè primo piano del pa-lazzo di famiglia di 11 vani, l’altra metà della scuderia, rimessa,selleria e magazzino. Giacomo ereditò anche la masseria Cimino“dell’estensione di cento sessanta tomoli tra la via antica che porta a

Faggiano e il Mar Piccolo, terreni seminatori, olivati, vineati, palude

per uso di pascolo, fabbricati rurali, trappeto, cantina con 36 botti, giar-

dino in parte villa, due palmenti, cappella ed intero casino di fabbricati

superiori ed inferiori con tutti i mobili ivi esistenti, compresi cinque

paia di buoi, due asine, due carri, tutti gli attrezzi” e 123 tra pecore ecapre per un valore complessivo di 16.440 ducati.33

I due fratelli divisero anche i mobili, gli argenti, le gioie, gliutensili da cucina, le carrozze e i cavalli.

Giacomo si spense alle ore 20,15 del 7 dicembre 1887 nellasua masseria Cimino, all’età di 69 anni, confortato dalla presenzadel fratello Giovanni, della moglie Rosaria Hueber e dei tre figliGiuseppe, Giovanni e Giuseppina Maria.34

Il primogenito, barone Giuseppe, il 15 ottobre 1913 firmò unaconvenzione con il Demanio per la Regia Marina con la quale ce-deva l’oliveto nella contrada Cimino, determinando il primo pe-sante stravolgimento della zona.

Nello stesso anno, l’azienda del barone Pantaleo era costi-tuita dalle masserie Cimino, Raho, Paluderbara e Cicora, tutte at-tigue e poste sulla strada provinciale Taranto-San Giorgio,circondate soprattutto da oliveti, mandorleti, vigneti e terreni col-tivati a leguminose e cereali. Nei primi anni del secolo XX, le sud-dette masserie si specializzarono nell’allevamento con oltre centocapi di bestiame bovino e ovino e dando vita alla preparazione eimbottigliamento del latte, distribuito in città da cinque depositie alla fabbricazione di prodotti caseari, oltre a far nascere impor-tanti stabilimenti vinicoli e oleifici.

���

Superato il territorio di riferimento della masseria Patrovaro,come già detto una volta Paluderbara, e lasciata la strada cheporta a S. Giorgio, si costeggia il secondo seno del Mar Piccoloper lungo tratto paludoso in corrispondenza con l’oasi del WWF“La Vela” alimentata dalle acque del canale d’Ayedda.

La zona è ampiamente rappresentata in tutta la cartografiastorica dove sono segnalati i toponimi “Battendieri sul Rasca”,“Battendieri sul Cervaro” e masseria S. Pietro; tutti riferimenti astrutture collocate sulle sponde del secondo seno del Mar Piccoloa riprova imprescindibile della importanza topografica, storicaed economica rivestita da tali insediamenti nel corso dei secoli.

19

La ricevitoria di Taranto nella carta geograficadisegnata dal Pacelli nel 1807

scheda 411, cc. 372r-397v.31 Ibidem, 1871, cc.139r-161v.32 Interessante anche la storia di questa masse-

ria appartenuta nel Seicento alla nobile fa-miglia dei Montefuscoli.

33 ASTa, notaio De Vincentiis Girolamo, 1870,scheda 411, cc. 372.

34 Ibidem, 1888, cc. 41r-45v.

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20

Il Golfo di Taranto nella

carta geograficadisegnata

da GiovanniAntonio Magini

e tratta dall’Atlante

edito a Bolognanel 1620

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21

Il golfo di Tarantonella carta geografica disegnata daGiovanni Antonio RizziZannoni e trattadall’Atlante edito a Venezianel 1783

Page 22: Ameno lido che s’incurva e gira

35 ASTa, notaio Mannarino Francesco Paolo, Ta-ranto, 1711, scheda 133, cc. 151r-152r.

36 ASTa, notaio Troncone Donato Antonio, 1716,scheda 144, cc. 197v-200r.

37 P. Coco, I PP. Cappuccini in Taranto e Provin-

cia, in l’Italia francescana, XVI (1941), pp.49-53

38 “in loco veteri cappuccinorum”. C. D’Angela-P. Massafra, La Santa Visita di Lelio Brancac-

cio, Arcivescovo di Taranto, estratto dal vol.II Atti del Congresso internazionale di

Battendieri sul Rasca

Era consuetudine, per gli ordini mendicanti, dedicarsi allafollatura delle lane per la confezione dei saii dei frati; nel territo-rio di Taranto, oltre alla gualchiera dei cappuccini sul Cervarodella quale parlerò in seguito, ne esisteva un’altra dei padri Ri-formati sul fiume Rasca, detta Battendiere nuovo, poiché co-struita nel 1669 per generosità della famiglia Albertini signori diS. Giorgio. I frati francescani, non avendo un luogo in cui stare,

erano ospitati nella masseria di S. Giovanni “ospitium vulgariterdictum li battendieri di S. Giovanni”. Una rara immagine delluogo è riportata in una pianta allegata agli atti del notaio taran-tino Francesco Paolo Mannarino del 1711.35

In quell’anno il Monte della Pietà dei Poveri di Taranto con-cesse in enfiteusi al principe Giulio Cesare Albertini, signore diFaggiano, Carosino, S. Giorgio e dei feudi di Belvedere e Pasono,sessanta tomoli di terre di sua proprietà per il canone di venti du-cati l’anno.22

La Gualchiera sul RascaASTa, notaio Mannarino Francesco Paolo, 1711, scheda 133, cc.151r-152r

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studi sull’età del Viceregno (Bari, 7-10 otto-bre 1972), Bari 1977, pp. 97-98.

39 Per la storia del convento e chiesa della Con-solazione cfr. R. Caprara, Chiese e conventi

cappuccini di Taranto, Taranto 1980, pp. 27-60.

40 La torre S. Lorenzo è chiaramente visibilenella pianta a pag. 25.

41 ASTa, notaio Rizzi Michele Cataldo, 1767,scheda 227, cc. 223r-225r; Notaio de Vincen-

tiis Domenico Antonio, 1828, scheda 333, c.260r

42 Si veda capitolo seguente.23

La pianta, tratteggiata in modo elementare dal regio tavola-rio Angelo Pigonati di Faggiano, rappresenta il territorio chia-mato la Torretta confinante a nord e a sud con proprietàdell’Albertini, a levante con l’ospizio di S. Giovanni, a ponentecon il “canale de’ Battendieri”, il Rasca, nei pressi del quale gliAntoniani avevano costruito la loro gualchiera.

Pigonati tornò qualche anno dopo per incarico dell’Alber-tini, a descrivere il territorio in occasione di una vertenza tra iconfinanti Capitolo e Clero di Taranto e il casale di S. Giorgio36.

Battendieri sul Cervaro

Nel 1528 Papa Clemente VII approvava la fondazione del-l’Ordine cappuccino37, ispirato alle origini più pure del France-scanesimo e ad un ritorno alla più rigida e intransigente povertà.

Ben presto i principi ispiratori della riforma cappuccina por-tarono ad una notevole crescita dei proseliti dell’Ordine e ad unamassiccia diffusione di nuovi conventi. Tra i primi ad essere co-struiti in Puglia, il convento di Taranto sorse probabilmente nel1534 nei pressi del fiume Galeso, accanto ad una piccola cappellarurale dedicata a S. Maria de Consolatione Veteri. 38 I frati rima-sero nella loro prima dimora per circa venti anni, poi, ingranditasila famiglia e anche per sfuggire all’aria malsana provenientedall’impaludamento del Galeso, costruirono nel 1556 sul MarGrande un convento più grande e in un luogo più vicino allacittà.39

La vita condotta in estrema povertà e i grandi atti di pietàprofusi nell’assistenza ai bisognosi e agli ammalati, attirò ben pre-sto sulla piccola comunità francescana la devozione di alcune fa-miglie benestanti della città e in particolare dei Marrese.

La nobile e antica famiglia, già potente nel XIV secolo, eraproprietaria di vasti possedimenti nel territorio a sud est del se-condo seno del Mar Piccolo dove il 29 aprile del 1556 Ursina Mar-rese in qualità di tutrice dei figli di suo fratello GiantomasoMaria, acquistò da Carlo Cavezza di Napoli, con atto del notaiotarantino Carlo Boffoluto, 75 tomoli di terreno “con una torre chia-

mata S. Lorenzo40 e fiume Gervano che attaccano colli terreni della sua

massaria chiamata S. Pietro ed Andrea ed indi incorporata alli mede-

simi”41 al confine della masseria S. Pietro de Mutata, già di pro-prietà della famiglia dal 153642.

La grande devozione portata dalla famiglia all’Ordine di S.Francesco, determinò Francesco Marrese nel 1585 a concedere, atitolo gratuito ed in perpetuo, ai Padri Cappuccini insediati incittà da pochi anni, mezzo tomolo di terra per impiantarvi ungiardino e l’uso del fiume Cervaro affinchè i frati potessero co-struirvi un battendiere “a fine di curare li panni della Religione su-

Il Convento di San Giovanni

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24 Pianta della città di Taranto fra i suoi due mari, sec. XVIII.

Page 25: Ameno lido che s’incurva e gira

25I comuni della Provincia di Terra d’Otranto nella carta geograficatratta dall’Atlante delle Province cappuccine, edito a Torino nel 1649

Page 26: Ameno lido che s’incurva e gira

43 ASTa, notaio De Vincentiis Domenico Antonio,1818, scheda 333, cc. 747r-749v

44 La gualchiera era l’edificio che contenevail macchinario usato per la follatura dellalana, azionato da energia idraulica e sito inprossimità del fiume. A sud del convento,nelle vicinanze dell’attuale circummarpic-colo sorge una struttura curvilinea all’in-terno della quale sgorga in superficie uncitro la cui energia veniva utilizzata, pro-babilmente, come vasca per il lavaggiodelle stoffe.

45 La piccola chiesa, ad una sola navata, ri-spetta l’architettura semplice delle chiesedell’Ordine cappuccino.

46 Il documento, datato 13 marzo 1670, è ripor-tato in R. Caprara, Chiese e conventi, cit., pp.61-64. L’autore, ringraziando le personeche gli hanno fornito la notizia, non riportaaltre informazioni sulla provenienza deldocumento.

47 ASTa, notaio de Vincentiis Domenico Antonio,1818, scheda 333, cc. 748r-748v

48 “I cappuccini hanno due macchine per scardas-

sare la lana e se ne servono per fare i proprii

abiti”. Così riferisce C. U. De Salis Mar-schlins, Nel Regno di Napoli, Galatina 1979,p. 122.

49 Così infatti Raffaele Assi, sacerdote secolaredella Chiesa collegiata di Monteiasi, ot-tenne da Ignazio Maria il permesso di pe-scare nel fiume Cervaro con il tasso per unavolta sola e per 30 carlini in moneta d’ar-gento, con il patto di consegnare la stessasera “10 rotola del miglior pesce che in detto

fiume si pescherà”. ASTa, notaio Rizzi Michele

Cataldo, 1767, scheda 227, cc. 223r-225r. Ilfiume continuò ad essere affittato per lostesso scopo anche negli anni seguenti. Ibi-dem, 1770, c. 375.

50 Interessanti notizie utili per la ricostruzionedella storia della masseria Palombara dettaanche “sopra li Battendieri” negli atti del no-

taio de Vincentiis Vito, 1703, scheda 125.

detta”.La concessione stipulata dal notaio Francesco Giosio di Ta-

ranto venne poi perfezionata dal figlio di Francesco, Scipione se-niore, il quale l’8 dicembre 1597 per gli atti del notaio GianGiacomo Giosio, concesse ai padri Cappuccini anche l’uso di unmezzo tomolo di terra “per poterci fare una cappella ed un abitazione

per li padri avenno d’assistere al detto Battendiere ed anco di poter mu-

rare detto mezzo tomolo di terre per giardino” tanto il terreno quantoil fiume “avesse servito per li padri quo ad usum et non quo ad pro-

prietatem”.43

Quasi subito i frati si posero all’opera e grazie alla generositàdei fedeli costruirono la gualchiera44, un piccolo ospizio di ap-pena otto celle per ospitare i cinque fratelli e i due terziari addettialla follatura dei panni, una cappella45 e un giardino che circon-darono di muri a secco “In detto luogo ci sono otto celle per habita-

tione de’ frati, con le loro officine, con una chiesa piccola e due altre celle

fuora dell’habitato de’ frati per uso de’ tertiarii con una casa dove si

ualca il panno de’ nostri frati, il tutto ammurato con un giardino per

servizio de’ frati et anco il fiume, quale passa da dentro l’istesso luogo”46. Il 12 febbraio 1604 lo stesso Scipione pensò bene di preser-

vare i diritti acquisiti dai cappuccini anche dalle molestie dei suoistessi eredi e con atto del notaio Filippo Giacomo Taccaro stipulòuna nuova convenzione con i frati con la quale donava “donationis

titulo irrevocabiliter inter vivos” terra e fiume col patto che qualorai frati avessero diversamente deciso, tali proprietà sarebbero tor-nate in possesso della famiglia Marrese.47

Gli accordi tra la nobile famiglia e i frati prevedevano anchela possibilità da parte dei Marrese “dopo che l’acqua ha servita al

Battendiere48 di servirsi delle acque del fiume sia per abbeverare i propri

bestiami che per affittarla ad uso d’altri bestiami forestieri e per pescare

in detto canale”. 49

Il diritto vantato dai Marrese sul fiume aveva già nel passatoprocurato divergenze con i proprietari confinanti e in particolarecon gli Ayello i quali, nel 1626, avevano comprato dai Ciura unamasseria di 140 tomoli di terre seminate e macchiose nel luogodetto la Palombara50 confinante con le proprietà di Carlo Ungaro,

di Scipione Marrese, con il fiume Cervaro e il lido del Mar Pic-colo51. L’abate Domenico Antonio Ayello pretendeva di servirsidelle acque del fiume per abbeverare i suoi animali, così comeavevano fatto i Ciura e tutti i precedenti proprietari della masse-ria Palombara ma Scipione, che possedeva le sue masserie dal-l’altra parte del fiume, si oppose in virtù dello ius proibitivo dallasua famiglia vantato sul fiume; ne nacque una lunga controversiacui pose fine il Sacro Regio Consiglio che si pronunciò in favoredella famiglia Ayello. 52

Il pacifico possesso della zona da parte dei Padri Cappuccini,venne turbato agli inizi del XIX secolo da Giantomaso Marresefiglio del defunto Ignazio, cavaliere dell’ordine di S. GiovanniGerosolimitano, il quale attribuì ai frati, in virtù di alcune man-cate riparazioni, la volontà di abbandonare il sito. Ne nacque unalunga lite, costellata di atti giudiziari e perizie53, tra i cappucciniche sostenevano i loro diritti e il Marrese che dimostrava il legit-timo possesso dell’intera zona. Nel 1818, “per far morire sul nascere26

Ricostruzione di una gualchiera