Altezza Due

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Giulio Stocchi L’altezza del gioco 1

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Un libro, già pubblicato in forma cartacea dalla Cuec di Cagliari, che descrive un'esperienza di poesia in pubblico e la storia degli ani che ci stanno immediatamente alle spalle.

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Giulio Stocchi

L’altezza del gioco

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L’altezza del gioco

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Indice

L’altezza del gioco

p. 9 Agli estremi confini 15 Nel cerchio 31 La parola giusta 39 Il rovescio del discorso 61 Le variazioni tedesche 71 Con speranza di preda 77 Essere come rinati 87 Morgana 103 Afferrati ai gorghi 111 Palestina 123 Un frutto d’appartenenza 141 Il ragno e il poeta: caso, libertà, necessità 149 Lezione di anatomia 163 Il segreto del vento 169 Il corpo della poesia 175 La gloria di dio 187 Il sogno di Nino 195 L’allodola pazza

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L’altezza del gioco

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A Deborah Strozier

perché fu nel tuo deserto l’acqua

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A mo' di introduzione

Conversazione di Massimo A. Bonfantini con Giulio Stocchi

MAB: Ma come ti è venuto in mente di fare il poeta? Quando? E perché? E quali sono stati i tuoi primi maestri? E i primi temi e motivi?

Giulio: Più che venirmi in mente, la poesia mi è entrata in corpo. Ricordo benissimo:La sala di Via Sapeto, dalle parti di corso Genova, con i mobili che mio padre aveva comprato d'occasione da una famiglia di sfollati quando ancora Milano bruciava nella guerra, il tavolo enorme, la credenza col soldatino di Capodimonte con cui, malgrado tutti i divieti, ero solito giocare, e lo specchio che rifletteva l'immagine di un bimbo, chino sul suo diario rilegato in cuoio, molto anni '50, col ritratto della Fornarina in copertina. Su una pagina il bimbo aveva incollato la foto dei suoi genitori, più giovani allora di quanto non sia io adesso. E sotto quella foto scriveva, preso da una strana agitazione, una sensazione quasi fisica, di rapimento, di batticuore, di esaltazione. Qualcosa che avrei riconosciuto alcuni decenni dopo nella parole di Valéry: "Mi sono trovato un giorno ossessionato da un ritmo, che divenne improvvisamente assai sensibile alla mia mente...". Un ritmo che cercava delle parole. Fuori dalla finestra, Milano era ancora una distesa di macerie, su cui qua e là si levavano le impalcature della ricostruzione.E il bimbo riempiva quel ritmo con le parole che erano sue: "Un giorno nella spazzatura/trovai un mazzo di carte/sporche stracciate fra la segatura...". E la sua vertigine cresceva: per la prima volta l'universo si era messo in rotazione seguendo il gioco ingenuo di quelle prime rime: "Mi fecero pena le povere carte/le raccolsi con cura dalla sozza segatura/le pulii e le posi fra un portacenere e un fermacarte.." E obbedendo a quella voce che "mi dittava dentro", seguivo l'avventura del povero mazzo che cercava un'improbabile ascesa sociale che si concludeva con la condanna del suo ritorno alla spazzatura, sancita da questa sentenza: "Se sei di bassa condizione/non tentar di andare in alto/che il fermacarte oggi mi dié gran lezione". Una massima, questa, che tutta la mia vita futura si sarebbe incaricata di confutare. Ma allora era quello che mi avevano insegnato, e nello stesso tempo mi invitavano a trasgredire, gli abiti decorosi e gli occhi tristi di quell'uomo e quella donna che mi fissavano dalla foto in Piazza Duomo.E allora, com'é naturale nella primissima adolescenza, -e ormai conquistato dalla magia di quella voce che mi aveva toccato nell'infanzia e seguire la quale significava "fare il poeta"- cercavo altri modelli che mi aiutassero a sciogliere quel "doppio legame", l'imposizione di una regola e, nello stesso tempo, l'invito alla disobbedienza.A stare a quel curioso libro che è L'angoscia dell'influenza di Harold Bloom, in cui lo studioso considera la storia della poesia come una lotta che ogni poeta ingaggia (come fa ogni figlio col suo genitore naturale) con il padre poetico che si è scelto, il mio romanzo famigliare è davvero complicato. Verlaine, Rimbaud e soprattutto Baudelaire -il ritratto del quale campeggiava sul mio letto di quindicenne- sono stati i miei primi modelli. Padri severi, pur nella loro dissolutezza, e che anzi, proprio col disordine della loro vita mi indicavano la via della ribellione.

MAB: La poesia è fatta di suoni, concetti, immagini, che si rimandano in segrete correspondances, per ricordare Baudelaire.Ma a me sembra che, prima del gioco dei simboli, nella tua storia di poeta, di poeta recitante, sia importante il tuo gioco con il canto, con la tua e le altre voci.

Giulio: In verità le poesie che scrivevo al ginnasio, quelle dedicate ai primi, timidi, amori erano, ti assicuro, piene di "corrispondenze", come pure di tutto quell'armamentario di nebbie, violini, luna, funerali, mendicanti, prostitute, assenzio che i miei primi maestri mi avevano lasciato in eredità. Le figure del mio ideale mazzo di carte cominciavano a moltiplicarsi...E tuttavia la tua domanda coglie un tratto, e un tratto essenziale, della mia fisionomia: se debbo ripensare alla mia esperienza di poeta, di cui del resto L'altezza del gioco è il resoconto che

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copre l'arco della mia vita, debbo dire che uno dei cardini, delle fondamenta, se non il cardine e le fondamenta, del mio modo di fare e di intendere la poesia, sia la mia profonda convinzione circa la primazia, la priorità della voce sulla scrittura, che della voce è una pallida e, per certi versi, mutilante trascrizione. Perché solo nella viva voce del poeta -che può essere naturalmente anche semplicemente voce interiore, che risuona per così dire nel suo cervello- si articola quel gioco di suono e di senso, o, se vuoi, di immaginazione e di ragione, che è il gioco stesso della poesia. Sempre Valery dice una profonda verità quando afferma che la poesia è lo sviluppo di un'interiezione. Lo sviluppo, appunto: l'edificio della poesia poggia sulla materialità del suono. Il poeta gioca coi suoni, come facevamo tutti da bambini e come, fra gli adulti, fanno i "matti". E' questo l'aspetto propriamente regressivo, "patologico", materiale, della poesia, che fa del poeta quell'entusiasta, quell'en zeòs, quel pieno di dio, quel folle di cui parlava Platone nello Ione. La mia vita e la mia esperienza hanno, da questo punto di vista, una strana e per certi versi straordinaria coerenza: essere fedele a quel brivido, a quella vertigine, a quel brusio, a quel suono -in una parola alla "ispirazione"- che s'erano imposti al bambino che ero con tanta imperativa evidenza e fare di essi lo strumento per sciogliere quel nodo che ti dicevo.

MAB: Il gioco coi suoni ha in te, con piena spinta spontanea e con attento esercizio di pensiero, due relazioni molto importanti: una con la musica, l'altra con l'impegno etico-politico...

Giulio: Tutto il resto è venuto, per così dire, da sé: l'incontro con la musica che può dare frutti

solo là dove la voce sviluppi tutte le sue potenzialità per fondersi o dialogare con gli altri

strumenti; la costruzione dei miei libri come vere e proprie partiture in attesa di un'eventuale

esecuzione; la partecipazione entusiasta ai lavori e agli studi del Club Psomega -che tu hai

fondato e di cui si tratta ampiamente nel libro- proprio perché credo che la poesia sia una delle

forme più alte e originali di pensiero inventivo e basi le sue invenzioni su quel gioco di suono e

senso cui ho accennato.

Per quanto riguarda la musica, i percorsi dell'invenzione mi hanno riservato non poche sorprese.

L'orchestrazione percussiva di molte mie poesie consigliava, per così dire, un matrimonio fra le

mie parole e le note di molti dei protagonisti del jazz italiano contemporaneo, fra cui Gaetano

Liguori e Arrigo Cappelletti. Due pianisti dal temperamento molto diverso: esuberante il primo

quanto più introverso e  riflessivo il secondo, definito non a caso il "filosofo" del jazz. Ebbene

una mia poesia, particolarmente frivola e libertina, ha deciso di accompagnarsi prima all'uno e

poi all'altro, facendomi scoprire qualcosa che intuivo, ma che in quelle frequentazioni un po'

malandrine mi si imponeva con l'evidenza che solo la pratica ha. Come nella vita, quando ci si

innamora di uomini o di donne diverse, ognuno, entrando in risonanza con l'altro, mette in

evidenza aspetti diversi del suo carattere, così la mia poesia rivelava certi tratti di vivacità

spaccona col primo e una sobrietà più contenuta con l'altro. Questo per dire che la mia creatura

reagiva in modo vivo e non stereotipato: un corpo fatto di suoni e di sensi che si stringeva a un

altro corpo fatto di suoni e di sensi. O, fuor di metafora, due sistemi significanti ed espressivi

che interagivano, condizionandosi a vicenda.

Mi chiedi infine del mio impegno: a ben vedere, anche la mia vocazione "rivoluzionaria" ha

qualcosa a che fare con la poesia, così come io la intendo. Se è vero che la poesia affonda le sue

radici nel felice e gratuito gioco dei suoni della nostra infanzia, se è vero che l'infanzia è lo

scrigno di tutte quelle promesse che un'organizzazione livida e feroce della società si incaricherà

di smentire, allora la poesia e il poeta non potevano non essere al fianco di chi lotta perché i

colori dell'infanzia e la sua luce trionfino. Forse per questo un altro poeta a me caro, Juan

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Gelman, dice che la poesia è sempre anticapitalista.

MAB: Ma tornando alla tua storia, alla tua vita.  Dunque, come hai detto, scrivevi poesie già al

ginnasio e  al liceo... E poi che cos'hai fatto? Quale facoltà? E quale scelta di attività, di lavoro,

di professione?

Giulio: Innamorato del suono, della voce, l'unico diploma che mi sia guadagnato è stato quello

di attore, proprio per sviluppare, indagare e sfruttare le capacità della voce, per restituire

attraverso di essa quella materialità del suono di cui parlavo e che mi ha sempre abitato. Fallito

il tentativo di guadagnarmi un'altra laurea in filosofia per il rifiuto di Spinazzola, il mio

professore di italiano di allora,  di accettare il mio poema come tesi, e stanco di recitare parole

altrui, in un'esperienza di attore che del resto mi è stata utilissima, mi sono presentato, vincendo

tutte le mie possibili timidezze, introversioni e via dicendo, e armato della mia sola voce, di

fronte a uno dei "pubblici" più difficili e tradizionalmente esclusi dalla poesia: gli operai, gli

sfruttati, gli ultimi, gli indifesi. Un'esperienza unica e indimenticabile che mi rende francamente

incomprensibile l'eterna lagna dei poeti circa la scarsità o la sordità del pubblico. Il pubblico, gli

ascoltatori sono lì. Basta avere la volontà, la capacità e l'umiltà di presentarsi e avere anche

magari la forza di sollevare gli occhi dal proprio ombelico e guardare il mondo, le sue

contraddizioni, i suoi drammi, la sua ricchezza e la sua speranza. Con questo non voglio

assolutamente dire che la poesia debba essere "civile", "sociale", "rivoluzionaria" e via

tromboneggiando. Quello che voglio dire è che la poesia può trattare di qualsiasi argomento e

chi la vuole rinchiudere nella gabbia esclusiva del proprio "intimo", della propria "anima", della

propria "individualità", e via misticheggiando, compie né più né meno che una violenza, come

quando si mette un uomo in prigione.

MAB: Del tuo poema fai cenno anche nell'introduzione del tuo libro Compagno poeta,

pubblicato da Einaudi nel 1980.

In questo tuo libro di ora, L'altezza del gioco, che cosa c'è di quel tuo antico progetto?

Giulio: Il poema è per così dire l'opera della mia vita, nel senso che mi impegna ancora adesso.

Scritto fra il '69 e il '73, in quegli anni di assemblee, ragionamenti, manifestazioni, solidarietà,

amore che sono il dato indimenticabile della mia giovinezza, è stato continuamente

rimaneggiato, rivisto, sistemato: dei centoventi e più canti di allora, ne sono rimasti novanta,

alcuni dei quali ho utilizzato, senza il numero d'ordine, ne L'altezza del gioco.

La stesura di questo libro mi ha occupato per circa sei mesi, dall'estate del '99 al gennaio del

2OOO. Si tratta, come Compagno poeta, di un prosimero -un alternarsi cioè di versi e prose che

trova nella Vita nova di Dante il più illustre esempio nella nostra storia letteraria- e di quel mio

primo libro è l'ideale continuazione.

Se la stesura dell'opera mi ha impegnato sei mesi, i materiali, gli scritti di cui è composta

coprono più di trent'anni: dai canti del poema, alle poesie di agitazione, a quelle di riflessione o

di amore, ai racconti, alcuni dei quali, come ad esempio Essere come rinati, ho scritto

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appositamente.

MAB: Insomma nell'estate del '99, alla fine del millennio, hai ripreso il discorso e i materiali

maturati dopo Compagno poeta.

Il nuovo libro è come un Vent'anni dopo dumassiano. Con fedeltà e continuità, con

approfondimenti e innovazioni. O no?

Giulio: Mi trovavo, quell'estate, di fronte a una massa sterminata di materiale: si trattava di dare

ordine, unità, organicità al tutto. E qui è divenuto protagonista del mio lavoro quello strumento

del montaggio inteso proprio in senso cinematografico. Come dice Pudovkin ne La settima arte:

"Con una serie di tentativi e di prove, e con la cosciente composizione artistica, il regista crea le

'frasi di montaggio', dalle quali, passo passo, risulterà la definitiva opera d'arte".

Su quell'ideale moviola che era il tavolo di cucina della mia casa di Chiavari prima, e sulla

scrivania di Milano poi, si trattava insomma di cucire insieme epoche, frammenti, maturità,

generi e stili diversi. Il principio cui mi sono ispirato, e del successo del quale non sta a me

giudicare, è stato quello di costruire, attraverso le "frasi di montaggio" che sono gli

accostamenti di cui mi sono avvalso, un discorso che restituisse la mia immagine e la mia storia,

la storia degli anni del nostro immediato passato e presente, proiettata sullo sfondo di una

vicenda mitica, quella degli ulissiadi e del viaggio per mare che popolano il mio libro, -viaggio

per mare magistralmente illustrato nel volume dalle fotografie di Fulvio Magurno, un artista

ligure di cui la sensibilità di Grazia Neri mi ha proposto e fatto conoscere l'opera-  che desse in

un certo qual modo spessore e prospettiva al tutto. E per sottolineare questa faticata unità, le

citazioni in esergo ad ogni "capitolo" sono, per così dire, il filo ideale che cuce insieme il tutto:

la prima citazione in esergo a Agli estremi confini è tratta dall'ultima lassa del libro, L'allodola

pazza, e via via tutte le altre prese dai brani che immediatamente precedono. E che fosse infine

il libro anche, e forse soprattutto, il resoconto di un certo modo di fare e di intendere la poesia.

Quel gioco cioè, la cui altezza ho voluto ricordare nel titolo e che costituisce, ove riesca, quella

che io, non credente, chiamo "la gloria di dio", e cioè la voce dell'uomo che supera la sfida del

tempo e della morte.

MAB: Quanto contano nel tuo lavoro, come ispiratori e voci con te dialoganti, Neruda e

Majakovskij?

Giulio: Neruda ha posato sulle mie labbra le parole con cui per la prima volta mi avventuravo

alla scoperta di quel continente che è il corpo di una donna e mi ha lasciato per sempre in dono

lo sguardo lirico con cui mi volgo al mondo. Majakovskij mi apparve come un gigante, non solo

per la statura che ebbe in vita, ma per quel suo impegnare tutto se stesso, il suo corpo e

sopratutto la sua voce, per dare forza e vigore alle sue parole, quelle parole con cui si presentava

alle assemblee operaie, ai soldati, ai contadini, ai proletari del suo tempo. Una lezione

indimenticabile, che ho cercato di mettere a frutto nelle mie poesie di piazza, nel contatto che

per tanti anni ho avuto con le masse di questo paese e per cui Nico Orengo, non senza ironia,

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aveva intitolato, su "Stampa libri",  un articolo che mi riguardava, Majakovskij alla Bovisa.

Aver portato la poesia in quei grigi quartieri è il mio orgoglio e il mio onore.

MAB: La didascalicità di Brecht, e talora anche di Dario Fo, l'invettiva beat e il cantare delle

immagini di Breton e forse di Queneau mi sono spesso sembrati tuoi nutrimenti, seppure sempre

ripresi secondo una tua cifra inconfondibile, lirico-epico-popolare, con un sapore esistenziale ed

espressionista alla Tessa...

Giulio: Brecht mi ha fatto capire come fosse la poesia anche ragionamento di estrema ed

efficacissima acribia mentre, all'altro capo del filo, i surrealisti mi svelavano la ricchezza

dell'abbandono al gioco della lingua con la loro scrittura automatica foriera di imprevedibili

scoperte con i suoi bizzarri accostamenti.  Un altro dei territori, le sterminate lande della

metafora, i regni dell'analogia, che ho continuato instancabilmente a percorrere. Mentre l'urlo di

Ginsberg e dei suoi sodali, oltre a rivelarmi il volto di un'America diversa da quella degli

psicopatici che oggi risiedono alla Casa Bianca, mi ha indicato, nelle sue cadenze e nelle sue

dissonanze, la strada di un accostamento alla musica, al jazz in particolare, come ti dicevo.

Ma, a proposito di Dario Fo voglio raccontarti un aneddoto gustoso. In quel periodo tormentato

in cui praticamente vivevo sulla soglia di casa mia, senza ancora risolvermi a varcarla e iniziare

quell'esperienza di poesia di piazza che per tanti anni mi ha visto percorrere questo paese, un

giorno ho telefonato a Dario per chiedergli un consiglio, un parere. Dopo estenuanti trattative,

rinvii, ripensamenti, finalmente Dario acconsente a ricevermi all'una di notte, dopo lo

spettacolo, a casa sua, che allora era in Piazza Baracca vicino a dove abito io. L'attore mi riceve

in cucina, dove insieme a Franca Rame sta sgranocchiando un panino. Guarda un po' perplesso

la valigia il cui peso mi faceva sbilenco; un'ombra di panico gli corre negli occhi quando vede la

massa sterminata di fogli del mio poema che tiro fuori da quella specie di bauletto; obietta

infastidito che essendo lui un attore non c'è bisogno che il poema glielo legga io; si rassegna alla

mia determinazione e dopo circa un minuto, proprio quando la mia voce con le sue armoniche

più flautate e persuasive si avventurava "in un delirio di stelle e di alberi", mi interrompe, dice

che un proletario non avrebbe mai usato la parola "delirio" e mi congeda con una pacca sulle

spalle e qualche frase di cortesia. Salvo poi, alcuni mesi dopo quando, fatto il gran passo fuori

da casa mia, mi aveva ritrovato sul palco di un comizio, presentarmi con un: "Ascoltatelo bene:

questo è un ragazzo che vale molto", che ricompensava l'incomprensione di quella sera e

riconosceva la mia cifra inconfondibile, alla Tessa, come dici tu...

MAB: Ma parliamo un poco dei nostri classici. Io penso che come giustamente diceva Carrà per

la pittura, che bisognava ripartire da Giotto, così penso che ogni poeta italiano debba ripartire da

Dante. E radicare il suo moderno impegno nella linea  Parini-Leopardi. E poi?

Giulio: Dei nostri grandi, Dante è stato per così dire il "miglior fabbro", il mastro architetto che

mi ha fatto capire come ogni libro, ogni poema, ogni poesia, sia un edificio da costruire con

l'esattezza e la pazienza dei vecchi artigiani; debbo ricordare che, accanto a Dante, Petrarca, mi

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ha confermato come la poesia -ma del resto anche l'arte e la cultura- sia in ultima analisi la sola

sfida alla morte che uomo possa con successo lanciare; di Parini mi ha sempre affascinato lo

spirito corrosivo, la sapienza con cui, con pochi tratti, restituisce personaggi a tutto tondo, come

la dama, il cicisbeo, il debosciato della sua straordinaria descrizione della festa di una società

estenuata e corrotta, per tanti versi simile alla nostra;  e infine Leopardi, l'empirista e l'unico

vero materialista della nostra storia letteraria, come dice Brioschi, m'ha mostrato, al pari di

Brecht, come il pensiero possa distendersi nelle cadenze dei versi in una forma altrettanto

precisa della filosofia che ti è cara e di cui mi sei maestro.

Ma, si parva licet, c'è una grande affinità fra i Canti di Leopardi ed il libro che vi apprestate a

leggere. Una affinità formale che riguarda la coralità delle voci che nelle due opere si

affacciano: Giacomo, Bruto, Saffo, il pastore errante, Simonide... nei Canti. Io, Calcante,

Monsieur Aghion, Margherita, Ulisse... ne L'altezza del gioco. E un'affinità sostanziale perché

entrambi i libri hanno come protagonista il tempo, e il tempo inteso non come aivn, il tempo

trascendente dell'essere, ma proprio come cronos, il tempo che ci va dissipando e sfuggire al

quale, come dicevo poc'anzi, costituisce per un poeta, per un artista la posta più alta del gioco.

MAB: Io so bene che gli artisti e gli scrittori veri non riconoscono maestri nei loro

contemporanei. Mio zio Sergio Bonfantini, il pittore, aveva però considerazione per qualche

connazionale più anziano: per certi temi o 'trucchi', beninteso, più che per la poetica o la visione

del mondo in generale. Così, stimava Sironi rilevante, e persona da cui aveva imparato più che

dal suo maestro 'di bottega' Casorati.

E tu? Da chi hai imparato? Da Montale non direi. E fra gli stranieri? Hai un debito  forse un po'

strano con Ezra Pound? E, magari più riconoscibile con certo Enzesberger?

Giulio: E invece da Montale ho imparato molto, il senso della misura, della decenza in un'epoca

di tromboni e cartapesta come quella in cui scriveva durante il fascismo. E proprio in questo

mattino presto di giovedì 20 marzo 2003, mentre da poche ore è scoppiata una guerra dagli esiti

imprevedibili, e comunque catastrofici,  la sua lezione mi torna in mente ancora più forte di

fronte alla galleria di piazzisti, pagliacci, delinquenti che la televisione ci mostra ogni giorno e

che sarebbe la classe dirigente di questo sventurato paese. Senza contare il mio tema preferito, il

rapporto suono-senso: "Buffalo", dice da qualche parte "Eusebio", "e il nome agì..."

Fortini, che ho avuto la ventura di incontrare per la prima volta a 18 anni in certi garage

frequentati dai Quaderni rossi, dove la mia ribellione cominciava ad assumere sfumature

rivoluzionarie, è stato invece l'esempio dell'impegno, di quell'engagement che Sartre ci aveva

insegnato e di cui Franco è stato il campione più coerente fino all'ultimo in Italia.

Con "Zio Ez" il debito c'è, e come! Mi ha insegnato che la poesia è un edificio che può essere

costruito coi materiali più disparati, nessuno dei quali è, a priori, "antipoetico", come vorrebbero

i piccoli orfei nostrani. E poi, come non avere simpatia per un poeta il quale a Mussolini che gli

chiedeva "Pound, cosa posso fare per voi?", durante un incontro che l'americano aveva a lungo

mendicato, rispondeva: "Non fate la guerra Duce: lasciatemi il tempo per finire il mio poema"?

Enzesberger è stato per me il conservatore che ha consegnato la storia del novecento in quel

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vero e proprio museo delle cere che è il suo Mausoleum. E serbare la memoria non è forse uno

dei compiti della poesia che, non a caso, gli antichi consideravano figlia di Mnemosine?

E infine Nanni Balestrini: è stato un incontro tardivo, attorno agli anni 80, quando ormai pregi e

difetti mi si erano consolidati nel volto e nella fisionomia che mi sono costruito. Ma non meno

significativo quell'incontro perché, da una parte mi confermava l'importanza di quello strumento

del "montaggio" di cui ti parlavo e dall'altra mi rivelava la possibilità e la capacità della

cosiddetta "avanguardia" di uscire dal recinto degli spettrali ed esangui cruciverba cui spesso si

condannava, e sciogliersi in un canto civile ed appassionato, come avviene in Blackout.

Tutta quella folla che, nel poemetto di Nanni, si riversa per le strade, nella New York del black-

out del '78, e sfascia, e rompe, e ride e canta è una delle immagini più potenti di ciò che succede

quando quelli di "bassa condizione", come dicevo nei miei lontani versi infantili, acquistano

coscienza della loro forza.

Così come il canto della mia Allodola, che conclude il libro che state per aprire, rovescia le

certezze che mi erano state insegnate da bambino, paga la promessa che ho fatto alla

rassegnazione dei miei genitori e attesta che la rivoluzione è avvenuta. Almeno in poesia.Ma non dice Kunert che dietro la poesia avanza il futuro?

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Giulio Stocchi è nato nel 1944.Ha studiato filosofia all'università statale di Milano e recitazione all'Accademia dei Filodrammatici.

La sua attività poetica pubblica è iniziata nel 1975.Da allora, e per molti anni, i suoi palcoscenici sono stati le piazze, le fabbriche occupate, le manifestazioni popolari; oggi i teatri, le sale di conferenza, le università: ma sempre caratterizzando la sua poesia per un originalissimo contatto con il pubblico.

Particolarmente attento alle valenze sonore della poesia, Stocchi ha pubblicato diversi dischi: Il dovere di cantare (Premio nazionale della critica discografica), Punto e a capo, La cantata rossa per Tall el Zaatar (con la collaborazione del musicista Gaetano Liguori), recentemente ripubblicato in CD da Sensible Records di Radiopopolare, Da sogni e da città sempre con Liguori.

Ha pubblicato presso Einaudi il volume di versi e prosa Compagno poeta.NonSoloParole.com ha pubblicato in forma cartacea no-copyright In tempo di guerra che l’autore aveva precedentemente distribuito in rete nelle versioni italiana, inglese e spagnolaPer i tipi della CUEC di Cagliari è stato stampato nel 2003 L’altezza del gioco.Le Edizioni Lavoro Liberato hanno pubblicato nel 2007 Ciò di cui si parla con disegni di Paolo Dorigo.

Fa parte del Club Psòmega che unisce artisti, filosofi, scienziati nello studio del pensiero inventivo.Ha partecipato con suoi saggi e poesie ai volumi collettivi Il pensiero inventivo, Milano, Unicopli, 1992 , La vita inventiva, Napoli, ESI, 1998, L’inventiva:Psomega vent’anni dopo, Milano, Moretti, 2007 di cui è co-curatore.

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L’altezza del gioco

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Agli estremi confini

la polvere cadendoricorderà sospiri di deserti percorsi

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Ed arrivati agli estremi confinisi fece avanti Calcantecon occhi di lustro ventoghiacciati dal sonno notturnoimprecato nella formadei cavalli alati intravisti nei sogniper dire il volo di uccelli a sinistrae l’onda di viole appassitemischiate a giacinti dove le agaviinvadevano profumi di spezieintonando canti sulla cetra oscura un pianto e un gorgoglìo spezzava la vocevedendo nel dono concesso lutti e rovinedei compagni di viaggi marini ritto al cielo levando le bracciaall’amore invocava il nome gridatodi infrante bottiglie di vetroimpallidendo e piangendo nel covosenza sapere neppure allora fermarela gola dei venti e i sospiri del nostos

uomini mi sentite ascoltate compagni

dove oggi sappiamo avventure per sfuggireinfamie di roghi notturni e grida di donneil terrore seminerà con passi di ventoe sorrisi di stella profonde alghe di piantoahimè inascoltate e disprezzate parolevedo libri di sconfitta e maestri di lacrimepredicare rassegnazione dove prima saggezzagesti inutili e sospiri di mani calantinuove stelle dagli occhi d’oro accumulateil maltolto e il guadagnodi case innalzate con grida di corpie stive di pianto dai pesci guizzanticalpesteranno i calzari filari di mondiinutili i canti dalle gole di ferroo danze di scarpe chiodateil cielo pieno di annunci e di segniprecipiterà dentro scintille di fiammae mondi perduti senza potere potere poterescotendo i capelli e battendo i piedi in cadenzabusseranno alle sponde di porte inconsulte chiuse da spaventi di soli

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Agli estremi confini 21

e catene di passi delle fanciulle maleaccoppiateper stenti figlioli dal cibo di rospoaccartocciati nelle borse i messaggigenereranno vermi in morta terracon ferite di solchi e sguardi di vuotola pazzia bandita diverrà regoladi ruote rotolanti alla sconfitta

uomini mi sentite ascoltate compagni

l’ultima voce e la parola della nottenon ridirla sarebbe condanna per quellivotati al nulla del contratto della terrae della desolazione dei campi e delle cittànon costa più fatica l’addio sapendo il futuroe i chiodi le spine i ferrile carte e tutti i cocci del piantospezzare i soli delle maniin acute grida di unghiequando uccelli dalle ali di fiammacrolleranno con sospiri filanti e sorrisicase di rotolanti anni e accumulate menzognei nuovi miti e le clessidrerivoltate anzitempo insonni per vegliaremadri piangenti di figli mediocrie socchiuse cosce di sposeeserciti mossi dal vento intorbiditoda aliti maledicenti di bocche bruciatesuoni suoni suoni in mezzo a colori di urlae urla e urlanon si vedono che strisciare di rovi dalla testa di serpee parossismi di gesti richiamantile porte rinchiuse in faccia per fare paurascongiuri di cartelli e di insegnei mirti fioriranno nei canti di stridori lancinatimenzogne e menzogne

uomini mi sentite ascoltate compagni

non ci resta davanti altro io vedonon si conoscono altrimenti i semi predettio il fondo dei marii nostri viaggi e i ritornicome le cinture dei corpi o le braccia

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22 L’altezza del gioco

d’amorevento vento ventoodo disprezzare in colpi di accettae cadere di gestila vicenda di stagioni ostiliai rami del corpo e all’ormadei passi dell’avvenirefare stracci di bandiere e grida di boccheasservite per scongiurare le tovaglie e le tavoleniente più cibo di mondi o libripane pane miseria che avanzasulle spighe del granoscaveranno dalla terraper fare nuovi insulti di fuocoe materia di cantiné raccogliere le urla per poi ridirlesarà mestiere di voci spezzatediversamente agitate dalle mani dei cielicon scrosci di pioggia e temporali

uomini mi sentite ascoltate compagni

l’ultima voce e la parola della nottenella stella dei sogni filantiimploranti di sconfitte e poltronenon si vedranno le torce quando farà l’albané grida o canzonima solo rimbombi lontanie conti ributtati dal ventosulle carezze dei marie volti scavati dalle buone lacrimedi perle e viole sotto gli occhinuovi arriveranno con fiaccole e uccellivendetta gridandovendetta di unghienel sacco rinfusa dei sognie sentina di fognesi confonde con la parola il piantola cenere e la sabbiasulle ultime ondate per ricadere in spruzzidi spume

uomini mi sentite ascoltate compagni

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Agli estremi confini 23

quando si nasconderanno i padriper non udire i rimproverio le mani di sangue invanoinvano lavate invanoa richiamare azzurri di cielo e purezzasenza potere comperare il gomitolo per tessere di nuovoi giorni del troppo tardii giorni dell’altrimenti e del peccatoi girasoli che seguono gli steli di rugiadae fuggire di cani lungo le stradele strade della discesa verso la nottenon si sente altro e difficile è vederedagli occhi dei giganti di terra e di vetroidoli e feticci di straccifumi di arcobaleni impiccatie violenza di cieli si confondonoin nebbie di soli ed aspro sapore di saleanche se consumata nella luce del giornola nostra speranza di saggisulle terre rivoltate da zollee desolazioni di pianticoncimate dai passi cattividi stoppie bruciate e discordietra ostriche di perle e molluschi di gridacon urla intrecciatenella stella dei sogni filanti

uomini mi sentite ascoltate compagni

l’ultima voce e la parola della notte

solo nell’ora infinita dell’alba riprenderà il viaggio

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Nel cerchio

si confonde con la parola il piantola cenere e la sabbia

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Vanno talvolta gli uominicon calendari e con foglifino agli inchiostri ultimidella notteinseguendola stella solitariadi un sorrisoo forseil silenzio dei ricordi

E altro non vedonoche strade interminabilifuggireverso il deserto improvvisodi una piazzae pietre abbandonatee cartee le foglie scricchiolarefra i numeri del vento

Allorail freddoli assalecomesull’alba dei molichi ascoltale infinitedomandedel mare

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Nel cerchio 27

Il riflesso dell’acqua mi rimandaconfusa un’eco di stagionie l’albero non conosce la distanzao cifra racchiusa nella fogliache segue la corrente fino al marela voce e i volti nel ricordocompongono l’ordito della tramadi questa identità che fuggetra sponde rade e ciminiere e costeall’ultimo silenzio che s’appaga

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Amore fu di vento che mi spinseall’unica ricerca verso il largodi una terra che l’immagine confondee ancora trema nel naufragioquesta parola rotta che all’incantoflebile di una musica consegnoche sappia contro il tempo ritornarevoce pura nube orizzonte cielostella d’equinozio al navigantedove affascina il vuoto e alfabetodi rovina nuotano in cerchio i pesci

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Nel cerchio 29

Il mare che ti circondae tutte le parole che non so più direperché risuonino come conchiglie i giorniquando un sorriso è l’ultima lineaall’orizzontee si confondono il vento e i naufragila rotta delle naviverso le isole del sonnoperché un giorno partimmocon occhi e con speranzeinseguiti da presagi che altrileggevano nel fumoo nella parallela inconsistenzadi città strangolatedai fili e dagli autobussussurrando impossibilee trovando consolazioni di libriin stanze sghembedi libri chiusi con definitivotonfo al cuore

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Ma tu che ogni sera mi torniimmagine frantadalle stagioni e dagli annicosì che più non conoscané il seme né il gestoe in un gorgo lentoaffondifino ad incontrare la sabbiache si rivoltanella interminabile vicendadelle correntidove si disegnano e dissolvonoi volti

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Di lì si diramavano le stradeda quel teatrino di carta la damae il cavaliere perduti sullo sfondodi una sala di festa illuminatasorpresi in atto di muta domandao nell’attesa forse dei cavallifatati che bevvero alla fontedi cristallo dei fiumi del sognoe che ancora galoppano lontanoda un azzardo cardinale di ventiverso il centro dove la rosa avvampa

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E io gli chiedevo:“Padre perchétanta tristezza?”“E non voglio” -gridavo-“non voglio essereuguale a te”“E vattene” -dicevo-“non tornarenon verròall’appuntamento”Lui mi guardòquasi con un sorrisoprima di allontanarsisui campi grigidove cade un’interminabilepioggiae s’ode come un’ecodi cornotra la ceneree il vento

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Nel cerchio 33

La cattedrale gli addii e nell’ariatrema la parola d’ombra l’indicibilela trama dei passi e l’onda controi muri si frange una possibilitàd’amore l’età non conta dice il sorrisoadolescente m’incanta a una scommessacol suo silenzio mi chiama vorrei iostesso riprecipitare bambino correrenel tempo dove Lina s’allontana nonconoscere il nome le carte il tavologli anni essere statua conclusa nellanotte pietra di questa facciata che vedela figlia che non ebbi rabbrividirmi albraccio mentre il cielo su entrambiscolora

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Gioventù la bellaquando passano i trami messaggeri dell’albae al collo un filo di perlecome paesaggio di lunadice di non portare altroche una scintilla tra le manie il cuore canta e ridee dentro le acque profondedi un sospiro traluconofavole e leggendee tutta la meraviglia delle stradeinnalza una lode al dioche siede sulla sogliadei bar attraverso una fiumanadi sorrisi e la sciaradadelle lacrime che saranno

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Gli orologi delle cucinedove l’uomo solodistrattamente mangiafra un muro di piastrellee una notiziafissando gli occhilungo le infinite paralleledi un rancore senza ricordie poiscuotendo la testamormorandocome ubriacole stesse paroleper tenersicompagniao sentirsidisperatamentevivoe quindialzandosifra i piatti sporchitestimonianzao maceriadi una ripetutaquotidianasconfittas’avvicinaalla finestraaccendeuna sigarettadi cuistringendosi nelle spallenon tiene più il contoguardaun angolodi cortilefuori dai vetriscacciail fastidiodell’infanziache all’improvvisolo prende alla golanell’eco di un girotondodabbassoe nel silenzio

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si abbandonaa queltic tactic tactic tacsu cuigli fuggonoi pensierimentrefra le ditala braceconsumandosilentamentesi fa cenere

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Nel cerchio 37

Che parole e che favolesui nostri tavoli ardentie come brillavano gli occhiIl tempo non era mai abbastanzafra un discorso e l’altroe la bottiglia sul bicchiereaveva quel suono misteriosoche faceva passaredi fronte ai nostri sguardi perdutitutte le figure delle carteche ancoranon erano state distribuite

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Il mare… Mi piaceva il mare: contare le conchigliesulla sabbia. Raccogliere i capelli e abbandonarmia quella luce che ti abbaglia. Che ti chiama

Ci sono smagliature, percorsi oscuri, gallerie:ho la sensazione di avere perduto qualcosa di essenziale. Forse un bottone colorato, una volta

Non ricordo più bene. Sarà il lume fiocoe il baluginìo della lampada sul foglio. Comunquela vita è strana. Mi hanno presa per mano, o forselegata in qualche modo. Con un bacio. O unaddio. C’è il vento che cigola alla persiana

Limatura, ecco, ma di un ferro morto, usurato dal tempo. A questo si riduce?Che sia quello il resto, il guadagno, la risposta? Ma l’ondae la risacca nelle conchiglie dell’estate, una volta

Dovrò andare, lo so, partire. Come tutti.Affondare… Sì, mi piaceva il mare:nuotare, precipitare lentamente, volare in quellozodiaco d’ombra, senza peso, sospesa, innocente,alla stella che trema sul fondo, all’inizio, alla sorgente

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Nel cerchio 39

Ecco signorache si confondono i tempile stelle i voltidove corsi bambinoper incontrarci ancoratu piccolinaed io sorridentenella clessidra che giranel cerchio signorain cui da te io nacquiper inseguire il sognoche ci promise aurora

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La parola giusta

per inseguire il sognoche ci promise aurora

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Mi è stato fatto non so quando un male.Una ingiustizia strana e indecifrabile...

Franco Fortini

“[...] Poi uscivo e scoprivo un altro mondo.In via Madonnina, nel cuore del vecchio quartiere di Brera, c’era un bar. Oggi ha lasciato il posto a uno di quei palazzotti pretenziosi con videocitofono e tutto.Più che un bar, quello di via Madonnina era una crota, un’osteria. Ci si mangiavano uova sode, aringhe, salame cotto. Si beveva molto vino. E si parlava. Io ci andavo con Piero Scaramucci. L’avevo conosciuto tramite una mia compagna di Università. Già, perché nel frattempo avevo tagliato il nodo delle mie indecisioni e mi ero iscritto a filosofia. Per desiderio di capire, dico oggi. Ma allora, probabilmente, per sfuggire a un qualche destino di uffici e tenere aperta, per vie traverse, la strada della poesia.Piero aveva venticinque anni. Si sentiva il mio fratello maggiore. Voleva che imparassi. Mi raccontava, in quelle mezzanotti di bicchieri, del luglio ‘60, del governo Tambroni e dei moti di Genova. Mi spiegava che alla Fiat stavano per firmare certi accordi. Anzi, un ‘accordo quadro’, diceva. E questo non mi entrava assolutamente nella testa. Di operai non sapevo nulla. Sì, che esistevano da qualche parte, e poco più. Poi mi parlava del XX Congresso, dell’Ungheria, della svolta di Togliatti.Piero era dei Quaderni rossi. E mi portava spesso con sé in un garage dalle parti di Città Studi. A leggere e discutere Rosa Luxemburg. C’erano Vittorio Rieser, Edoarda Masi, Goffredo Fofi. E tanti altri. Avevo persino conosciuto un poeta a quelle riunioni. Il primo che vedessi in carne ed ossa. E mi sorprendeva che invece di starsene a scrutare gli abissi della sua anima si infervorasse a parlare di centro sinistra e ristrutturazione. E al freddo, per giunta. Era Franco Fortini. Io me ne stavo zitto e non capivo molto. Ma incominciavo a intuire, in modo ancora confuso, certi collegamenti fra la cucina di casa mia e tutto il resto. [...]”Mi piace iniziare con queste parole che rievocano il ragazzo che ero a dicott’anni, nel 1962, al tempo del mio primo incontro con Fortini, perché -oltre che a restituire il clima di quel periodo in cui tutta una generazione si metteva per così dire al lavoro nella prospettiva di una radicale trasformazione della nostra società, iniziando un viaggio di cui non conoscevamo ancora gli approdi e in cui molti si sarebbero perduti- riflettono una caratteristica costante della figura di Franco, allora e fino alla sua morte: l’essere stato cioè sempre, con le poesie, i saggi, gli interventi parlati e scritti, al centro di un dibattito corale della sinistra di cui ha costituito uno dei punti di riferimento più saldi. E anche più scomodi, in un certo senso, perché Fortini non era certo di quelli che si tiravano indietro quando si trattava di enunciare verità che sulle prime apparivano sconcertanti o controcorrente per poi rivelarsi inevitabilmente esatte.E me lo rivedo, con la testa già bianca, fra i capelli arruffati e le giacche variopinte del ‘67, in una di quelle assemblee fitte di giovani che si tenevano all’Università, quando il lavoro quasi cenobitico di cinque anni prima era sfociato in un movimento ribelle e festoso. “Sul Vietnam ci si divide”, mi pare quasi di udirlo con quella sua voce chiara, pacata e tuttavia tagliente, al termine di un memorabile intervento in versi: intendendo, con quelle parole, che occorresse passare dalla solidarietà generica dei sentimenti a una adesione guidata dal rigore di un’analisi razionale. Convinto com’era che la lucida consapevolezza è una conquista in grado di dare terra duratura alla pianta del sentimento. Perché, come gli aveva insegnato Brecht che Fortini in quegli anni traduceva, un morto ci commuove, a dieci ci si abitua e a mille non si fa più caso: diventano parte del paesaggio. Come dovevamo imparare anche noi in questi ultimi anni di

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universale macello, in cui i corpi straziati delle guerre del pianeta convivono senza alcuno scandalo sui nostri schermi televisivi con gli ancheggiamenti dell’ultima sciocchina di turno all’ora di cena.A quel tempo però la sua affermazione mi aveva molto colpito, lasciandomi più di un dubbio: io che pochi mesi prima mi ero guadagnato tante botte, qualche titolo sui giornali e una condanna dall’allora giovanissimo sostituto procuratore Vigna per avere tirato a Firenze un uovo contro il vicepresidente degli Stati Uniti Humphrey. Spinto più da uno sdegno emotivo che da un ragionamento ponderato.La ribellione continuava, ma la festa sarebbe di lì a poco finita. L’autunno caldo si dissipava nel gelo del suo lungo inverno. Una decisione feroce, fino incomprensibile nella sua determinazione, gettava una lunga teoria di morti sul cammino delle nostre speranze. E furono Piazza Fontana, e Pinelli, e Saltarelli, e Tavecchio, e Serantini, e Franceschi, e...[...] “Non ricordiquel ragazzo sfregiatola sera dell’undici marzo 1971che correva gridando‘Cercate di capirequesta sera ci ammazzanocercate dicapire!’La gente alle finestreapplaudiva la poliziae urlava ‘Ammazzateli tutti!’Non ti ricordi?”Sì, mi ricordoLa sensazione era proprio quella espressa dai versi di Fortini: che volessero semplicemente farci fuori tutti. Fu così che molti tornavano a riunirsi nei garage, ma questa volta per studiare il modo di rispondere colpo su colpo o imparavano nelle cantinecome il polso può resistereallo scattodello sparocome scrive sempre Fortini nella medesima poesia. La poesia... Io la poesia la coltivavo fin da bambino, come mio fiore e mia libertà, ma ora cominciava ad apparirmi come un dono avaro se non avessi saputo farne partecipi coloro ai quali avevo legato i miei passi e il mio destino.Ci vollero anni perché mi decidessi ancora una volta a varcare la soglia di casa, finché, nell’aprile del ‘75, l’aprile dei visi chiari di Zibecchi e Varalli che ti fissavano listati a lutto dai muri della città perché polizia e fascisti ne avevano fatto scempio, salivo per la prima volta su un palco a urlare le parole rabbiose che l’indignazione mi aveva dettato. Quell’indignazione che è forse uno dei miei limiti, perché rende roca la voce, anche quando è necessario sia fredda e incisiva come un diamante.Comunque sia, quei palchi erano in verità un osservatorio molto interessante per cogliere le trasformazioni che stavano mutando il volto del paese. Dalle grandiose manifestazioni del ‘75-‘76, quando la sinistra pareva a un passo dal successo elettorale, alle gonne a fiori, i nastri spavaldi e gli slogan dissacranti del ‘77, fino alle manifestazioni sempre più livide e incattivite degli anni successivi quando in piazza cominciavano ad apparire pistole e fucili e i comunicati delle BR erano un quotidiano bollettino di guerra insieme alle notizie dei primi morti per droga.E intanto salivo e scendevo i gradini dei comizi, entravo nelle fabbriche, partecipavo agli scioperi generali, correvo con tutti gli altri nel fumo dei lacrimogeni e degli spari. Le mie poesie

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erano affisse ai muri come manifesti, distribuite con i volantini nei cortei, stampate nei libretti della sottoscrizione operaia, messe in musica nei dischi e illustrate dagli artisti democratici.Ero diventato per così dire un personaggio: si parlava di me sui giornali, venivo intervistato alla radio, mi riprendeva la televisione. “Chissà cosa ne penserà Fortini...”, mi accadeva di tanto in tanto di domandarmi.A ricordarmi Fortini ci pensava un uomo buono, paziente e affettuoso: Corrado Stajano, che mi aveva chiesto per la collana che dirigeva all’Einaudi un libro che raccogliesse il resoconto di quelle esperienze. Durante i due anni e più di laborioso parto che Corrado ha assistito con straordinaria perizia, di fronte a certe mie titubanze o incertezze soleva minacciarmi scherzosamente: “Guarda che se non ti sbrighi, mando tutto a Fortini”, col sottinteso “e in Fortini”, da sempre uno dei cervelli dell’Einaudi, “troverai un critico ben più severo di me, per il tuo libro”.Il quale libro vedeva finalmente la luce in un paese che sembrava essere stato assalito da una nuova febbre: una smania di scrivere e recitare poesie che trasformava città, paesini, borghi in sede di festival, riunioni, cenacoli, letture o, meglio, di readings, come si cominciava a dire. L’enorme amarezza di una vita che appariva sempre più stretta in una morsa che la schiacciava senza riuscire a trovare via d’uscita pareva travasarsi in quella marea di versi che finivano col diventare uno smisurato regesto di fuga o di rassegnazione. E così il titolo orgoglioso che avevo voluto per il libro, Compagno poeta, cominciava ad apparire già allora irrimediabilmente fuori moda.A quei festival, sempre più stonato nel coro di universale lamento, partecipavo anch’io. Fortini non c’era verso di incontrarlo in quelle occasioni e anzi non mancava dal suo altero isolamento di mandare segnali di profondo dissenso nei confronti della vecchia broda misticheggiante spacciata come ultimo specifico nelle farmacie di quei piccoli orfei tutto languore e brividini.In verità di gente che non aveva perduto il ben dell’intelletto ce n’era ancora tanta. Saranno i suoi campi, sarà il Ticino che li attraversa, fatto sta che Nino Jomini, il Ninone delle nostre epiche bevute, ha sempre mantenuto una sua concretezza terrestre che è stata per me fonte di più di una consolazione durante i vent’anni che ci conosciamo. Nino è di Castano Primo ed è uno studioso finissimo dei dialetti pietrosi di quei posti e soprattutto è un infaticabile custode di memorie. Come dimostrava il manifesto che mi aveva fatto pervenire: “...ecco, dal lontano 1962, ogni anno il 27 ottobre, nell’anniversario della morte di Gianni Ardizzone, lo studente castanese caduto a Milano nel corso di una manifestazione internazionalista per l’indipendenza di Cuba, ecco prepotente questa voglia di non dimenticare...”. E in efffetti Nino è una sorta di archivio vivente di tutte le storie piccole e grandi che si sono svolte in quelle contrade e che contribuisce a non far dimenticare con articoli, spettacoli, canzoni. O iniziative, come quella che mi proponeva col suo manifesto, che concludeva: “...quest’anno, ecco, sabato 27 ottobre 1984, a Castano Primo, con noi a ricordare saranno due Poeti, Franco Fortini, testimone di quei tragici avvenimenti, Giulio Stocchi, di Gianni coetaneo, come lui allora studente”. E che, come lui, quel 27 ottobre 1962, era sceso in piazza. In quella che era la prima manifestazione cui avessi partecipato in vita mia.L’emozione di vedere il mio nome accanto a quello di Fortini, come poeta e con la P maiuscola per giunta, era grande. E non vedevo l’ora di incontrarlo. “Anzi”, mi aveva detto il Ninone per telefono, “passa tu con l’Ornella a prenderlo in macchina Fortini, così fate il viaggio insieme”.Era dai tempi del garage che non ci vedevamo di persona. Durante i convenevoli d’uso Fortini non diede segno di ricordarsi di me. Né io me l’aspettavo: un quarantenne cambia molto di più rispetto al ragazzo che era 22 anni prima di quanto non mi apparisse quell’uomo diritto, dallo sguardo severo ma temperato da una vena d’ironia, che ci attendeva sul marciapiedi in via Legnano e che mi sembrava identico al personaggio che avevo avuto la ventura di sfiorare durante la mia adolescenza.

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La macchina si lasciava alle spalle la città, inoltrandosi per vie secondarie nel fitto dei paesini che la circondano verso una promessa di campagna che i filari lunghi dei pioppi in lontananza lasciano intravedere. “COME?!!???!”. “Sì”, mi andava ripetendo Fortini, “non sai chi è quest’altro poeta, questo che interviene stasera, questo, questo...” concludeva con una vaga assonanza che storpiava il mio nome. Non riuscivo quasi a crederci: “mi avrà scambiato con qualche compagno dell’organizzazione”, fu la prima insensata speranza cui mi aggrappai. Ma no: dovevo arrendermi all’evidenza. Fortini non solo non sapeva che IO fossi Giulio Stocchi ma non aveva la più pallida idea di CHI diavolo fosse Giulio Stocchi. I pioppi ormai mi parevano i plotoni di un qualche esercito cupo che mi correva incontro agitando gli stendardi del mio stesso sconforto.E così, mentre l’Ornella, che allora mi amava molto e aveva intuito il mio dramma, continuava a guidare sfiorandomi di tanto in tanto il ginocchio, io mi abbandonavo a tutta una recriminazione silenziosa -...ma come, una vita all’Einaudi, proverbialmente al corrente di tutto, e proprio io dovevo sfuggirgli...- sprofondando sempre più nel sedile, schiacciato dal peso di quella fatale rivelazione.Mi parve di cogliere un certo lampo di imbarazzo negli occhi di Fortini quando raggiunsi al tavolo della conferenza il posto che attestava la mia identità. Alla Villa Comunale la cittadinanza tutta era stata invitata “per vivere un avvenimento eccezionale che vede cultura e sociale, come sempre dovrebbesi”, aveva scritto non senza una punta di civetteria il Ninone, “e invece raramente avviene, incontrare e coniugare”. “Ecco, già”, rimuginavo di pessimo umore fra me e me guardandomi intorno, “e questa non è davvero una di quelle rare occasioni”. La sala conteneva sì e no una quarantina di persone, poche in confronto alle centinaia di qualche anno prima. Anche questo era un segno dei tempi che si andavano preparando e apparivano già immerse in una nebbia di nostalgia le parole che avevo cominciato a leggere di Tradizioni, il racconto del mio libro in cui rievocavo quella mia prima manifestazione e da cui è tratto il passaggio con cui ho aperto queste note.Francamente non ricordo cosa dicesse Fortini nel suo intervento, cui non prestavo molta attenzione ancora prigioniero com’ero del mio rovello interiore, ma ricordo che a poco a poco da quell’intrico venne a liberarmi il ritmo stesso di quel suo ragionare cristallino che doveva concludersi -e ormai ero tutto orecchi-, con una di quelle accensioni liriche che sono tipiche e che costituiscono il fascino della sua poesia, nei quattro versi de La madre con cui terminava il suo dire:Glielo ammazzò il governo e ora parla ai comiziper riaverlo intatto. Somigliamia madre com’era nel Venti. Non sa che in un vecchiogrida un attimo il figlio.Al Pozzo, il ristorante della cooperativa dov’è buona tradizione che la sinistra si riunisca dopo simili manifestazioni, l’amarezza di qualche ora prima era solo ormai un leggerissimo tarlo che le risate dei compagni, i bicchieri di vino provvedevano via via ad ammutolire, mentre mi incantavo sempre più a sentirlo parlare con quella gente, Fortini, sempre con quel suo rigore che non concedeva nulla alla semplificazione, alla condiscendenza o al paternalismo con cui tanti intellettuali si rivolgono a quelli che considerano “gli umili”.Erano le ultime ore di una nottata limpidissima quando ci congedammo a Milano, davanti all’Arena. Tornando a casa attraverso il profumo d’ottobre di tutti quegli alberi del Parco che l’autunno non aveva ancora sfiorato, i versi di Franco che quel fogliame mi sussurrava:Diremo più tardi quello che deve essere detto.Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,i lampi della magnoliaerano il segno più chiaro che ormai mi ero riconciliato con me stesso, con la poesia, con Fortini, e con l’universo mondo.

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Io posseggo un arnese che è la dannazione dei miei amici, ma che di tanto in tanto mi dà qualche soddisfazione. La mattina dopo la serata di Castano me la sarei sposata la mia segreteria telefonica. “Sono Franco Fortini”, diceva quella voce esatta che il miracolo tecnologico dell’apparecchio mi ha consentito di riudire ancora oggi e che trascrivo. “Solo adesso mi sono reso conto che Giulio Stocchi è Giulio Stocchi. Cioè me ne sono reso conto ieri sera con estrema vergogna. Questa mattina ho ripreso il libro, che mi era nell’ ‘80 completamente sparito, dati momenti per me gravissimi d’allora, e ti ringrazio di averlo fatto, di averlo scritto, questo libro, e mi devi scusare di non averti riconosciuto”.Fatterelli, si potrebbe dire, insignificanti se non per me. E invece sono, a mio parere, l’indizio più sicuro di una delicatezza, di una gentilezza d’animo, di un’attenzione verso gli altri e, insomma, di uno stile, che hanno reso caro Fortini a chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo.Da allora abbiamo avuto modo di sentirci spesso e di vederci qualche volta. Come quella sera a cena, a casa mia, insieme a Stajano, a Giovanna Borgese, a Donatella Zazzi, all’Ornella, a Roberto Cerati, a Claudio e Paola Bazzi, e Franco, seduto vicino alla sua Ruth, col bicchiere in mano, e quella bella voce che declamava e declamava Pascoli, Carducci, Aleardi e giù giù fino ai minori dei minori dell’ ‘800 in una sfida giocosa con Claudio a chi ne ricordasse di più di quei versi.Il ‘falso vecchio’, come amava definirsi, era tornato quella sera ragazzo.Non so se Fortini approvasse fino in fondo il mio modo di fare poesia. Quello che so è che il suo comportamento nei miei confronti era animato da grande rispetto. E questo voleva dire molto per uno nelle orecchie del quale ronzavano frasi -ed è una delle più gentili nel catalogo di varia meschinità che mi sono annotato nel corso della mia ormai non più breve carriera- come quella colta al volo dalle labbra di Majorino: “in questo paese in cui si scambiano gli Stocchi per Zanzotto”. Figuriamoci: io avevo il problema che in questo paese il mio nome venisse almeno pronunciato al singolare. Ma, si sa, ognuno ha lo stile che può, e che merita.Il rispetto e lo stile del resto stavano diventando una merce rara. La città intorno a noi cambiava. Gli anni di Brera e del garage di via Aselli sfumavano nel ricordo, assumendo i colori di una leggenda che ci pareva quasi impossibile avere vissuto, paragonati alle miserie piccole e grandi, ai tradimenti, alla volgarità, alla caduta di speranze, alla cartapesta della Milano da bere.Fortini era sempre lì. Sempre diritto, fra i tanti che per viltà o per convenienza chinavano la schiena di fronte ai nuovi potenti, giocando a rinnegare, insieme alle idee della giovinezza, la loro stessa decenza. Sciacquandosi naturalmente la bocca con un progresso e una modernità che non riuscivano tuttavia a rendere meno fetido il loro alito.E fra i più onesti, molti ammutolirono di fronte al precipitare di eventi che trasformavano l’assetto geopolitico del mondo intero.Io stesso, sfiancato da tanto girare sotto i palchi sempre chiedendo di recitare, esasperato da tutti quei burocratici sorrisini che accompagnavano, e non m’importava più, l’assenso o il diniego, e valutando infine che quell’esperienza di poesia in pubblico, già di per sé rischiosa, potesse davvero trasformarsi in ciò che io assolutamente non volevo, pura declamazione e consolazione, segno di impotenza e non di signoria, e che occorresse affrontare i chiodi della solitudine per ritrovare un accento di verità, tornavo a rinchiudermi nella cucina di casa mia da cui ero uscito con tanta fatica una trentina d’anni prima.Fuori, gli edifici del sopruso si levavano intatti. E anzi, si moltiplicavano. Di quella livida geografia Fortini continuava tenace la ricognizione, la sua instancabile verifica dei poteri, con una voce certo più isolata, ma forse per questo ancora più netta, confrontandosi, ragionando, discutendo, mettendo in guardia. Insistendo: per usare una locuzione a lui cara.“E’ stato gravemente malato per molti mesi”, mi scriveva Ruth, “ma ha sempre cercato di lavorare non apppena sentiva un lieve miglioramento”. Questa costanza vigile è la lezione di Fortini. Il suo esempio. E il suo onore.

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E chissà perché, a questo punto che sto per congedarmi da questi ricordi e da queste riflessioni, mi viene in mente una mia poesia, nata da una delle ultime occasioni che ho avuto di entrare in una fabbrica sul finire degli anni ‘80. L’orologio ha compiuto il suo giro. Le grandi manifestazioni sono l’eco lontana di un mare che batte contro la costa ripetendo ostinato le sue domande.“Proteggete le nostre verità”, ci intima Fortini come estrema consegna in Composita solvantur, apparso a pochi mesi dalla morte.E quegli otto al tavolo mi ricordano i pochi che eravamo all’inizio del nostro viaggio e paiono riaffermare con la loro stessa presenza una verità che Fortini non si è stancato di ribadire, l’ingiustizia che nel corso della sua esistenza si è sforzato di decifrare in tutte le sue manifestazioni: la realtà di uno sfruttamento, che non solo non è scomparso ma, mascherandosi da falsa libertà -per citare il titolo di Lu Hsun a Franco tanto caro- si è insinuato in ogni piega del nostro tempo e della nostra vita.Una verità che tanta parte della sinistra, dimentica delle proprie radici e delle proprie ragioni, oggi tende a rimuovere e a negare in nome delle magnifiche sorti e progressive di un mercato dove in realtà tutto si riduce a numero, macinando e frantumando sogni, aspirazioni, speranze, identità: in una parola, la nostra stessa umanità, avvilita in un processo in cui servo e padrone si rispecchiano nella medesima miseria antropologica.E se è vero che la parola giusta, quella in grado cioè di raddrizzare la storpiatura che deforma la nostra società e la nostra vita, per essere efficace può essere pronunciata solo da un universo di voci solidali, è altrettanto vero che ci sono uomini che con la loro intelligenza e la loro generosità hanno saputo tracciarne e mostrarcene, vorrei dire quasi con testardaggine, le lettere.Uomini così meritano di essere grandemente lodati.Franco Fortini è stato uno di loro.

Inequodice con voce lentail provvedimento è inequo e noinon lo possiamo accettare in ottoattorno al tavolo in rappresentanza di piùdi tremilaseicento operai un cartellonepubblicitario che vedo dalla finesra affermache la vita è meravigliosa e inequotorna a ripetere e più della parolao della situazione la storpiatura della parola pone un problema denuncia checon la parola molti si storpiano la vitala quale per altri è meravigliosa perchéquesti appunto vivono così e che losfruttamento non è una parola la storpiaturadella parola dunque lo testimoniae rivela altresì che la parola giustadeve essere ancora dettaperché tutto ciòcom’è giustofinalmentescompaia

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Il rovescio del discorso

perché tutto ciòcom’è giustofinalmentescompaia

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Monsieur Aghion che pure ancora si faceva intenderein qualche modo sbavandocieco con sorrisi di pietratra mani di preghieree sospiri di suore

“quanto tempo ancora separa”-diceva- “dalla mortenon è dato sapere”

mute le preghiereincollato tutto il giorno alla radioper consolarsi di notiziee inghiottendo cioccolatinicon ansimi lunghiaccarezzandosi la faccialà proprio dove batteva il soleche non poteva vederema sentire come un fastidio oscuroimmobilecome statua di gesso meridianacon lo scacciamosche tra le manie silenzi gorgogliantiun tempo orgoglio e scandaloper le sue idee democratichedella colonia europea

“Perché gli uomini sono diversiquanto ad intelligenza”-diceva monsieur Sharakian(che si dilettava di radioestesia)facendo ruotare il pendolino-ma monsieur Philippidisnon era molto d’accordoe monsieur Aghion cavandosi monete dagli occhirimpiangeva il sole biascicando ad Alessandria

“e se sono perduti i privilegiche cosa resta ai poveri vecchi?”

trascinandosi da un bar all’altroin un precipitare di bicchieri

“vedi che solo gli anniportano saggezza tremante?”

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Il rovescio del discorso 51

e nelle strade si perde un tumulto di umanità

“noi non diremmo mai che si debbano eliminarema bisogna considerare il vantaggio della società”

mentre ai porti giungono le navie nelle acque si specchiauna nuova generazione di scalzi sapienti

e tornava dai suoi viaggisempre un poco più stanco- “ gli anni passano mio caro per te come per tutti” -e un giorno risvegliandosi si chiese il perchédi tutto il suo andareil suo faticare sotto il solescoprendo nelle mani incerteun fiato di clessidra- “e purtroppo è tardi e ho tanto da fareancora” -

- “senza stare al passo coi tempi?” -si chiedevano alcuni nascosti dentro coperteo non fosse per il sole che ogni tanto spuntanon si capirebbe la differenzatra il giorno e la notte

“e il comunismo è una malattiasi deve trovare un antidoto”- “ma con tutti questi arabiche sono peggio dei nerinon si sa dove si va a finire” -borbottava il console italiano al Cairo

io del resto quando vomitava mi tappavo le orecchiee tutta questa sporcizia non si sa piùdove nasconderla

“noi non diciamo che bisogna eliminarlima certo pensare al problemanon si può continuare a mantenerlinon siamo filantropie gli affari...”

mentre la luna oscillanteaccarezza il cieco Grigoricol suo sacco di moneteda un tavolino al’altro“kirie parakalò”

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52 L’altezza del gioco

ed è inutile scavare o intrecciare corone- “che cominci a invecchiare? ”- si domandavae monsieur Aghion che era ciecosbatteva come una mosca contro gli armadi“e gli uomini sono diversiè un fatto scientifico”-continuava monsieur Sharakianintento col suo pendolinocertamente col sottinteso“e io sono il migliore di tutti”-mentre c’erano bambinichini a pulirgli le scarpe

ma fuggendo dalle stradesi ritrovavano nelle loro stanzea celebrare riti per lo meno strani- “e questa è la privacynon siamo alla fine dei numeri” -sfogliando grandi librie consolandosi con barzellette cosmopolite

“no non si tratta di privilegio mio carosi tratta di civiltà”- “e poi sono pronto a vendere tuttoe ad andarmene” -

“ma arriverà qualcuno capace di dare una lezioneuna volta per tutte”- “la politica è una cosa sporcasiete tutti idealisti” -

si nascondeva il viso fra le manie pensava alla sua vita

e i treni fuggono dall’alba delle stazionie gli addii si inseguono- “bisogna vivere la vita è irripetibileè unica” -

del resto la giovinezza è un soffioun battito d’ali- “ma bisogna pensare al futuroaltrimenti quando sarai vecchioe ti chiederanno che cosa hai concluso...”-

e monsieur Philippidis ridevacon pochi dentie diceva “je m’en fous”

un poco più stanco forse

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Il rovescio del discorso 53

ma più consapevole

certo gli anni passano per tuttianche se si resta disperatamente bambini

E il cielo era così chiarouscendo dalla tavernache ci inchiodò tutti quanti sulla sogliané ci ricordammo di riderecome di consueto

“perché gli uomini sono diversi”-si ostinava monsieur Sharakian-“e allora il comunismo è contro naturauna malattia”

e i bambini ti vendevano per una sigarettai loro tesori nascostiinseguendoti a piedi e gridando mister

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54 L’altezza del gioco

E chissà perché proprio oggi Liviail ricordo m’assale della tua febbrementre montano il palco gli operaicon le bandiere a tanto vento stintee sui cartelli intorno leggo un raccontodi speranze e di sconfitte e caparbiala volontà di costruire un mondodove non sia bestemmia l’uomo all’uomola terra che sognasti dei tuoi avie la rabbia di vederla fatta sconciache in vita t’arrochì la voce controle radici profonde del tuo sanguetu stessa dunque in te divisa cometalvolta io a me stesso appaioche sul retro d’un volantino scrivoqueste parole d’elegia dolentee mi preparo intanto a urlare i versiche certo per un poco mi fan salvodalla disperazione e mentre salgoi gradini del comizio verso un maredi volti che m’accoglie e in cui mi specchioil tuo sguardo di nuovo mi sorprendequando negli occhi altrui cercavi scampoal fuoco di giustizia che bruciavalentamente la tua vita e pensoche a un delitto è propriamente ugualela lettera di sfratto che ti persesilenziosa dopo aver contemplatol’ultima patria l’ultimo esilionel turbine allontanandoti intatta

Livia Rokah era una scrittrice e giornalista, appartenente a una famiglia ebraica che viveva in Palestina da più di duecento anni.Alcuni anni dopo la fondazione dello Stato di Israele, Livia abbandonò la sua terra in segno di protesta per la politica israeliana e iniziò una lunga attività di sostegno alla lotta del popolo palestinese.Si uccise a Roma nel 1984, dopo aver ricevuto una lettera di sfratto dal padrone di casa.Le ultime parole che lasciò scritte furono: “sfratto uguale assassinio”.

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Il rovescio del discorso 55

E da sempre considerati

fiatoe sudore considerati

quelliche ci si ingrassa

al tempo dell’abbondanza

e che in tempi di crisi

si scaccianoi uomini

tuttaviae non numeri

da allinearein colonna

o bestie trascinate

dove la vita

l’appendonoper affittarla

ad ore della ricchezza

comune fondamento

pur essendonenoi esclusi

quigiunti dagli anni

e senza nulladimenticare

di quanto negli anni

ci pesa ben conoscendo

del lavoroil costo per averne

nel sanguee nella carne

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56 L’altezza del gioco

sempre pagato

il prezzo polvere

rocadella rassegnazione

trasformatain canto oggi

e con i sogninostri tutti

interifino a quando

chiediamo all’arroganza

dovremo chinare

la fronte?è giusto chiediamo

sian pochia decidere

e molti subire?

e al banchetto chiediamo

i postison stati davvero

in eterno fissati?

è forse il destino chiediamo

che sulla terraa passare

di sbieco ci danna?

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Il rovescio del discorso 57

Barcolla la cittàe per le strade camminauna nuova generazione di scalziinseguendo il sorrisointravisto sullo scogliodi favoleincessantemente battendo coi piedi l’asfaltoquando passano i tram come uno scongiuroin fondo alle galleriein cerca di un’ombra di benedizioniinchiodati ai fianchidi un benessere lontanocome un esercito sconfittoe tutto era scrittotutto era scrittolo sapevamo dai bicchieridai capelli per naturadivenuti lentamente bianchiuna notte senza neppure accorgersenee tutto era scrittosi ripete con ostinazionesenza comprendere piùl’ansia combattuta della pioggiale fiaccole di sentieri mutiuna notte come un’altrasolo gli anni sono passatima sei qui tu come altroveo in altri tempieguale? si chiedevanospiando a tutti occhila ragione del lento declinoperché si sappia che l’unica possibilità concessaera la pioggiain digradante teoria di cittàgià detto e ridettocome altre volte riprendendola maledizione dei bicchieriacqua dei giorni per ritrovarticrocefisso agli angolimentre i cani si rincorronoin giardini che non conoscie tutto era scrittoinutile illudersii quaranta dicevanomentre ti accarezzi la frontecon gesto come sempre stanco

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58 L’altezza del gioco

e abituato alla ferita ormaisi cercava dentro le tasche un poco di solesenza trovare altro che bricioledi avventure trascorsela vecchiaia ti imponedi essere saggiodi essere buonodi essere immobiledi essereperché così si decisetu che pensavi di potere altrimentiqui oggi ti vogliamo vederepiangereti vogliamo sentire urlareti vogliamo inseguire fino all’ultimo gomitoloall’ultima sigarettaall’ultima scommessaper ridereper ridereper rideretu che credevi di infrangere le regolee quindi ti diciamoche avendoti seguitostudiatoosservatocatalogatoper lacrimesospiritentativimasturbazionivelleitàpugnigestiferiteamorie ancor oggi come un insettoassistendo all’urlo lancinanteche ti contorcecon tutta tranquillitàe serenitàe giustiziae senso di perfetta realtànoi in disparte i sanii giudicii tranquillii vestiti che disprezzastii passi che non volestii seduti che rifiutastii giunti alla fine del mesementre il giovedì ti inghiotte

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Il rovescio del discorso 59

noi oggi ti diciamoche da qualche partein qualche ufficiosotto qualche neonin qualche schedariosi chiudechiudechiudela pratica che ti riguardacon esatta convinzioneavendo valutatol’attivo e il passivoil sogno e la realtài passi e la pioggiale lenzuola e l’amoreper ributtarti semplicemente in facciaquel che da sempre si sapevanel tuo lungo sbatteredi mosca impazzitasotto il bicchiere

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60 L’altezza del gioco

Diconoche avendo votatocome avetevotatoed essendovi per di piùabbandonati ad urlascomposted’entusiasmovi siete da voi stessiposti fuoridal Sindacato

“il nullismo non paga”dicono“chi rifiuta il Tettonon avrà una casa”

e sulle manifestazionidiconoanimalesche della gioiache vi ha pervasoal momento dell’esito del votoscandalizzati si vannointerrogandoe che è tutta colpa della Radiodiconoo della Televisioneper quella indubbia mancanzadi informazioneche vi ha consigliatodi non consegnarvimani e piedi legatiad un Padrone e che probabilmentediconosiete stati raggiratida mestatori di professionee poiché comunque sono in giocoi superiori interessidella Nazione -di cui peraltrodopo il vostro gestosconsideratonon è neppure certo facciateancora parte- stanno esaminandodiconol’eventualitàdi dimettervi in blocco

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Il rovescio del discorso 61

e almeno per tre annidalla Classe Operaiain modo che sia garantitanella Classeun’effettiva -dicono-rotazioneonde evitare in futuroil ripetersi di similiincresciosiepisodi e scongiurareal contempoil pericolo di qualsivogliadegenerazionediconoburocratica

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62 L’altezza del gioco

Al largo del cuoree come in un urloquesta città si stendestravolto alfabeto di inganninella pace pomeridiana dei fianchicatrami assortie tra le folle camminandoun chiodoper sanguinare a lungosulla via promessaverso casa stringendosi al pettouna domandae per le scale sospirando ciò che non cambiaterritorio immenso di crocidove un vecchio parlainvocando ombrae si scavano intantoi quotidiani motivi del sonnodove si raccolgono ogni giorno i canie non dice altro la notteche una discesa lenta di lenzuolaazzurre e viola per dimenticaree ricominciare l’indomanida piccolo mi cantavano tante canzoniche neppure più le ricordouna però sìparlava di un portoe sembra ieri che t'abbracciavoperché s’apra il mondo in un lampodalle stelle raccogliendoquesta manciata di saperee di parolee non vedere la sentenza piccoladelle paretidelle panchinedelle quotidiane passeggiateverso angoli di nulladove s’aspettano solo risposte senza importanzadove i telefoni non ti parlanoaltro che per dire addionato da uomo e da uomo mortouna sera lungo le stradesenza neppure conoscere ciò per cuiera destinatosi comprimeva il pettoe questa è la storia

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Il rovescio del discorso 63

quel sangue che scorreo in un retrobar abbracciandocon gli occhiimmobile lo specchioindifferente lo specchiopallido lo specchioverde lo specchioe quell’ultima smorfiamentre fuori continuano nel calcoloche non s’arresta e lo possiamotestimoniarenoi venuti d’altrovee per altro quaggiù gettatinon per assistere allo strazioma per cambiarenon per morire quattro voltema per conoscerenon per aggrapparsi alla prua della speranzama sicuri verso quel portonavigareforse menzogna di labbra o di affettinon si può diree nelle città sperdutidiscendere fino alle metropolitane ultimedella nottefino alle sigarette ultimedi un sonno malconcessoverso gli armadi barcollandoper non riconoscere il destinoe ancora cercando dai bottoni la salvezza

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64 L’altezza del gioco

Al letto dunqueverranno legatie perché non possanotroncarla coi dentidalle nariciuna cannula di gommaverrà introdotta fino allo stomacoe una soluzione altamente nutritivaimmessa nel corpoe attraverso le veneanche;notte e giornosorveglieremoche non soffochino;distoglieremo gli occhidai loro occhi; segriderannoprocureremo di chiudereporte e finestrein modo che nessuno siadisturbato;quando i nostri strumenticonfermerannoche è regolare il battito cardiacoe nei limiti della norma il pesosaranno caricatisu un cellularee sotto scorta armataricondotti in carcere;quida cittadini detenutiattenderanno il giudiziosia pure perdodiciannise necessario; e nonsi dolgano qualorariconosciuti innocentipoi: è il prezzoperché lo Stato sussista;non si mescolino a disordinie nulla di gravepotrà accadergli; accettinole regoledella loro condizione;esse sono: tacere;

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Il rovescio del discorso 65

dimentichino la mattinale urla della notte:i pavimenti del restoverranno lavati; se dovesseroricominciareavremo pazienza: torneremocon aghi accanto a loroe con siringheperché il nostro è un paesecivilenella cui Costituzionesi scriveche la vita è un dirittogarantitoper tutti

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66 L’altezza del gioco

Nell’inclinata favola del tempoe ai fianchi con domande battendoverso gli approdi delle navicarboni usuali ricercaticon ogni cura di sospiroe solo in un interrogativotrafiggendo la futilità piccola delle stradee tutta questa suprema menzognache ci circondaalcuni pensavano sarà la mortee non capivano che invecel’invocazionedai quattro angoli risuonavadel cuoree sorpresiincredulisenz’altra misericordiache un saluto distratto ogni tantolo abbandonavanoparlando talvolta di destino costituzionalmente iscrittonelle vene del sangueo nei cieli della nascitatranquilli discendendo verso le comperequotidianee dicendo impossibile soffrire in quel modocerto recita per sorprendereancoradel resto lo sappiamo da sempreun grande istrionein ogni gesto della sua vitanella profetica capacità di direnegli angoli a malapena connessiper quadrare quella sfidain un bicchierein un giornalein tutta la mitologia appassitadi quest’etàe noi non vogliamo saperequel che si nasconde dietro le palpebrenon vogliamo neppure sospettarela discesa lenta nelle paludi del piantoe non ha tutto? d’altrondeun nomeun destinoun uditorio soprattuttocosa a noi negata

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Il rovescio del discorso 67

e nelle drogherie dunquequalche volta si perdevanoindifferentima con una strana inquietudine a tratticome un rimorsomentre abbandonatoda un muro ad una stanzada un ricordo ad un progettolo vedevano invecchiareil profetail retoreil beccamorto come dicevano alcunisui giornalipasserà con la stagioneanche se tarda la primaveragiunti alla portasenza neppure consolazioni di ingannie solo con uno sguardo liquidandoquel che non si comprendevaspiando talvoltasenza confessarloil punto della fragilitàl’addio dei fazzolettile piroette di fumole pagliacciate sublimile favole che di tempo in tempoancora dalle labbra colavanouna statua?tornavano a domandarsie il sangue delle sillabe correvaforse ubriacoquando parla tanto stranamenteper imbrattare dei fogli soloper passare il tempoper non viveresussurravano i malignitra le strade trascinandosi il loro saccodi solitudinidi fallimentidi normalitàdi tranquilla delusionedove dietro allo sguardo l’invidiaintrecciava il suo piccolo nodol’entomologico spilloper trafiggerlo di giudizila poesia del restonon è quella discesa?e di che si va straziando alloraamici travestitidagli angoli

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68 L’altezza del gioco

dai sospiridai mezzogiornidall’assenza di braccia e di telefoniper consolarsi stringendosi in un pattoche solo la morte era il rovesciochiuso ad ascoltarea sognaree nonostante tutto in qualche mododonarsicambieranno i tempi dicevanolo vogliamo rivederead egual misura ridottobarcollantecome un tempo tra di noisconfitto nei quattro legni dello sconfortodire barzellette piccolesulla soglia notturna delle poltronecontare la miseria delle monetetrascinarsi da un negozio all’altropercorrere altrimenti le cittàlasciare un pezzo di sécome noi facciamoad ogni cantonatadimenticare l’infanziavestirsi di un abito perdutamente grigioabbandonare il fuoco delle stelleintrecciare come un canestro i giornidove precipitano foglie secchesperanze secchesogni secchiper poi giungere all’arco delle mezzanottie come noi orgogliosamentemostrarele spazzature quotidianamente raccoltecon dio in pace finalmentee con gli uomini

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Il rovescio del discorso 69

Gridano ordinee intendonosilenzio

La democrazia è salvadiconoe rosicchianointanto

Biascicando incensidifendonodal pulpitola vitae ancorava implorando pietàil cadavere

Quando dai microfoniassicuranoche il dissensolorocertolo rispetterannomeglio abbassare la voceallorae guardarsi intorno

Libertàhanno scrittosui giornali

E giàrisuona di lamentila notte

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Le variazioni tedesche

gridano ordinee intendono silenzio

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...E resta lontana del dubbio la buia domandaFriedrich Hölderlin

- I -

E’ il silenzio la cifranon il grido e neppure il lamento

No!

Io lo testimonioper la verità smisuratadi questa mortedi questa pietradi queste virgole senza pietàdi questa menzogna che mi duolecome una solitudine zoppasenza porte e senza finestrenon il grido e neppure il lamentoma solo silenziocon una scheggia durasull’angolo del cuoree lungo le stradeè il silenzio la cifra

Non il gridoe neppure il lamento

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Le variazioni tedesche 73

- II -

Paese di cristalli solitarisul mezzogiorno delle vetrinetrasparente di solo cuorein mezzo alle folle oscillantiquando il grecoil turcol’italianosi accarezzano a lungo sognandoun’onda di sospiriun gelsomino di terra ardenteuno straccio attorno ai fianchie d’altro non s’accorgonoche di orologi lunghinelle sere di bar barcollantidi pietose occhilucentidi denaro richiesto con cortesiepiccole e tranquillamente omicidequando affilano i coltellinei retrobottega giudicando dal pesodalla domandadall’offertadalle ragioni del mercatoe fra le maioliche sono morti per sempreanche semplicemente i buongiornoper dire la rete oscura dei gradinil’inferno delle birreriela contabilità delle camere d’affittoe si ritrovano con sicure certezzeaccanto a bandiere trafitteper dire eserciti ai confininemici dalle gambe d’argentodimenticando l’esatta traiettoria del tramontol'espressione del soleunica cifra possibilecome si dicevail silenziotra lenzuola ricercando un sollievodi solo prezzocon gli occhi colanti di truccoin digradante memoriadi stadi e bracieristordendosi coi cantidi feste d’ottobredi piccole valchirie coloratedi cronache di giornali“Bild Zeitung” unico vangelonella tasca arrotolato

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per dire: vedete?abbiamo ragionee sentirsi vivi a buon mercatoentrando tra vicolidentro case con televisioniimmobili nella penombramangiando distrattamenteamando senza trasportoaddormentandosi fra i vagonidi treni che rotolano altrimentima con il ricordo sempredi numeri brucianti sul bracciodi fumo verso il cielodentro le cantine ritrovando l’improntadi diffidenze antichedi occhi brunidi capelli brunidi canti ogni sabatodi fiamme notturnenegozi incendiativetrine in frantumiReichstag che continuano a bruciareed il marco al posto del cuoreripercorrendo sanguinanti le urladi chi mostrava le vestidi chi mordeva la terradi chi implorava pietàdi chi saliva lungo i caminicon un fiato di stellenei giardini con pistole sepolteper puntarle una notte alla nucain un dramma di suicidioin una risata grassain un boccale di birrae così deve esseree così sarànelle mattine che scavano nebbiema solo in fondo al cuorecon numericon borsecon il posto delle banchea indicare la circonferenza e il meridianoper sapere la posizionegeografia di disgraziaintima soddisfazione di morteanche al gabinettocon stampa a buon mercatoleggendo curiosamentedi come agonizzavano fra la sabbiafra gli sterpi

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Le variazioni tedesche 75

fra l’indifferenza di soli uominiclub esclusivi comperando e vendendoper il piacere di Europapadroni riconosciuti lungo i confinicancellando il rimorsoritrovando l’antico sognopotenza di analisi ovvie:noi fortiessi debolianche senza fucili questa voltae con metodi più umanisocialdemocratizzando l’animapur d’avere interessi ad orein fabbriche d’automobiligavette d’operaiinchiodate ai quattro angoli del benesserenoi siamo i padroninoi siamo i padronied erigendo in eterno monumentidove si definiscono affaridove si contrattadove si guadagna a norddove si guadagna a suddove si guadagnadove il nord attendeperché il sud tacciadove l’occhio del Mediterraneotremi di paurapaura di perdere lo straccio di sicurezzala camera in quattrosì Signora Mullersenza baccanoSignora Mullerrientrando alle ottoSignora Mullercercando di imparare la linguaSignora Mullere pane imburratotutte le mattinee Bitte tutte le mattinee Danke tutte le mattineed impegnando a creditotutte le mattineper ritrovarsi la serasenza nulla da diresenza nulla da faresenza nulla da desideraresenza nullae la mattina dopo ricominciareperché questo esige il progresso

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perché questo ti dicono ad ogni stradaperché questo devi fare ogni mattinae ogni seraaltrimenti sono sotterraneialtrimenti sono lampadinealtrimenti sono urlaaltrimenti sono sportellialtrimenti sono cellealtrimenti sono giornalialtrimenti sono lobotomiealtrimenti sono giornialtrimenti sono mesialtrimenti sono annialtrimenti sono pallottoleuna notte nella nucala Ragione di Stato che trionfae nessuno dice nienteSignora Mullernessuno lo scrive sui giornaliSignora Mullernessuno turberà il suo paneSignora Mullere la sua marmellataSignora Mullerné tantomeno frugherà dentro i suoi armadiSignora Mullercon la scopa pesante di un dubbiodi una domandadi un sospironeppure con la piuma della pietàSignora Mullerperché i tram continuino sulle loro rotaieperché le insegne dei supermercatifino all’ora stabilita Signora Mullercontinuino ad accendersi e spegnersicosì che ioquesta notte vi chiedoche mi lasciate dormiredormire fino all’ultima scheggia del vetrofino all’ultimo scorpione del sonnofino all’ultimo gemitodell’acqua segretaperché non debba mai svegliarmimai dicomai svegliarmi in un paesedove i vecchi coltivano in sognouna pallida rosa silenziosaper trafiggerla ogni mattinacon la punta esattadi uno spillo

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Le variazioni tedesche 77

- III -

1Si specchianonel fiumei grattacieli

Milionicementotonnellate

Dove a mani nudenella spazzaturascavammo

2Il quarantaseifu certol’inverno più duro

Tantaneve

Il bambinomi morì

3All’angoloancoradegli occhiappenaappassitoil ricordo

Stivalifiaccolebandiere

Il tempodella paroladall’alto

Con sicurezzepreviste

4I migliori d’Europa

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78 L’altezza del gioco

Guerrieridallo sguardolungamente azzurro

Scrutandol’orizzonte

Tutto tranquillorispettati

5Il fronteinterno

Certamentecospiratorida eliminare

Ha un prezzoil progresso

6Di nuovocontro il cielofumanoi camini

A pieno ritmole fabbricheproducono

I pavimentidi Stammheimsono giàstati lavati

7L’economiaè salva

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Con speranza di preda

ripercorrendo sanguinanti le urladi chi mostrava le vesti

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Perché un giorno partimmoabbagliati da sogni di vittoriamadri di pianto e rosse anguilleinchinano i fiorialla riva giungendo cortei di sonnofate la carità a un povero cieconon ascoltando la domanda e lo scongiuroi sogni i sogniripetendo in cigolii ripetenti e vanivedi che le navi sono lontanee i fazzoletti inutilmente sventolavanosulla tenerezza dei ciclaminifatta di gesso anche la speranzain statua di sole meridianolentamente si schiudeva la vestecerimonia inutile d’amoreera un cieco o un manichino?mentre i cavalli adorantibrucavano pascendo l’erba dei pratialba di albe incanutite dal ventonoi non sapevamo il destinoo le cartacce e tutte le cambialifatte firmaresottoscritte con abbassare di palpebrebandiere di salee fruscio di gonnetutto inutile il sole non cambiae neppure la legge di monetetintinnantinell’indifferenza delle ciminiere e dei petroliaprendo una scatola di carneed asciugando con indolenza i capellinessuno mai lo avrebbe dettofatto a immagine e somiglianzae grassi vitelli sacrificalisgozzati su altari di vitenel rito di malattiepossibile il creditoconcesso con schiaffi di gioiasulla fronte battendo e facendo i contile navi avanzavanoda terre e penisole ancheggiantii padroni della guerracade con colpi di vento torreggiantesullo sbattere delle maninoi avremmo giurato di essere nel giusto

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di poter ridere con fanciulle stillantieppure da tanti segni predettinon poterono che scoprire mareeall’inverso delle luneio avevo chiesto regolarmente il permessodi essere pazzodi giocare con l’erbadi fare sogni di violedi sbattere corna di lumaca errantedi accendere ogni tanto il gase non sapevamo la rotta i fiumi i ventio le bandiereobbligati con teste di rame e risateuna sigaretta qualche voltaprima della battaglia quotidianauffici e ufficiquesto non era stato avvertitoneppure con la veste schiusagirando per le stradee facendo sortilegi di ditaper incantare i semaforisensi di vite e derivavietati comunque con conati di vomitoio non lo sapevolo posso giurare e testimoniaresul banco degli accusatidei ridentidei pazzi danzantidegli uomini oscillantidelle fogliepartendo ci avevano promessoricchezze di conchiglieo almeno corpi d’amoresenza fare del male a nessunodel resto il problema demograficol’affitto i ghettiopera di pulizia morale e materialequattro selvaggidetonati dentro le scatole e i pacchimai avendo osato guardareopera di folli dente di canesarebbe finito lo sputodeciso il guadagnonessuno avrebbe pensatola terra incatenatagli dèi urlanti dall’olimpo delle borseallucinato avevano decretatocon gravi disturbi psicomotorifrutto dell’alcolo dell’amore piaceri d’amore

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84 L’altezza del gioco

affari suoi comunquenessuno caricando la pipaavrebbe dato un soldoe questo era razionalità di presagiose anche i giornali tacevanoe non sapevamo nullapensaci occhi di stellanulla e poi nullase graffiavano con le unghie la terraaffari loroprima di morirese mordevano coi denti gli sterpiaffari loroprima di morirese gridavano risparmiate i bambiniaffari loroprima di morirenoi non sapevamo nullaquando ci dissero di partiresi trattava pur sempre di civiltàsparsi a piene mani i chiodiinnocenti gridando e ritenendocitrattenuti i piantie i preservativi usati a tempo debitole navi avanzavano coi remi in cadenzavuote partendo con speranza di predainnocenti possiamo proclamarel’avventura dell’etàma la pazzia è bandita dalla razionalità del sempreunghie fatte a immagine e somiglianzadi macchinette di coca-colaci hanno promesso un mondoper darci gli straccinon lo sapevamo verso i regni del soleeldoradi di cittàpianti grida scalpiccìo di passigli asfalti incandescenti nel mezzogiornoquesta la promessa per redimere gli infedeliin alto sorridono considerando le macchiepronti detersivi a riempirsi la boccalibertà eguaglianza progressonon era affar nostro fare gli affari degli altripotenza dei sognialla duplice potenza di morti e di saggi del profittonon era affar nostrostrisciando per innalzare archie grattacielidesolazioni di cartelli e croci di urlastrumenti designati dal destino di miseriaorizzonte di stracci

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Con speranza di preda 85

si trascinavano sulla terra neracome vecchi scarafaggicosa potevamo saperedella storia della moraleparole difficili per bocche sazieuna sigaretta a noi ogni tantoe pacche sulle spallequando ci dissero di partiredi osare per l’onore della civiltàper la ragione dei vincitori dagli occhi di solecosa potevamo mai saperecome prevedere banchetti impossibili di rivoltaacque cascanti con suoni di vestinoi allevati in batterie di stallepromessi con poco scandaloa bocche di bordelli per tenerci buoniquando partimmo con fame intorno ai fianchicon cinture mordentidi bambini implorantie seni inariditi?

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Essere come rinati

è forse il destino chiediamo

che sulla terraa passare

di sbieco ci danna?

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L’inaridimento è il frutto di questa lunga storia che corre nei millenni inseguendo le giravolte dello sfruttamento e del profitto sotto le varie maschere che hanno indossato.Ma nel concetto di inaridimento riposa il suo contrario, perché ciò che inaridisce è ciò che un giorno è stato ricco, fertile, fluente, variopinto e che giace forse ancora nella nostra infanzia. Proviamo a chiudere gli occhi, a ricordare: e riecco la trottola rossa che ci incantava, le biglie di vetro in cui rotolava il sole, lo scalpello dell’uomo del ghiaccio con le sue cascate di diamanti, le cassette dell’ortolano che solcavano gli inverni del nostro Klondike, la fierezza improvvisa delle spade di legno, il coperchio della pentola che fu lo scudo delle nostre battaglie... e l’armadio troneggiante si trasformava nel castello stregato dove la bella principessa languiva in attesa del nostro soccorso, le cianfrusaglie della mamma diventavano i rubini e gli smeraldi del tesoro dei nostri forzieri, la vasca da bagno era il vascello pronto a salpare sulla rotta dei pirati... e il cavallino di pezza aggrappati al quale varcavamo i recinti del sonno... Tutto era fantasia, libertà, invenzione, gioco, magia.Un mondo che contrasta singolarmente con la banalità ripetitiva delle nostre giornate scandite dalla necessità di venderci per soddisfare desideri che appagano soltanto l’altrui portafoglio. Come il movimento nel circolo, diceva Raimondo Lullo, è la pena dell’inferno. Giriamo a vuoto, giorno dopo giorno, nell’immenso supermercato che ci circonda e di cui siamo contemporaneamente merce ed acquirenti. E alcuni, i più fragili o i più sensibili, quella pena non riescono a sopportarla. E soccombono. Perdono la testa. Letteralmente impazziscono.

Col disagio mentale Renato Boeri è stato quotidianamente a contatto data la professione di neurologo che ha svolto fino alla morte, nel 1994. L’avevo conosciuto una decina di anni prima, grazie a Massimo Bonfantini. Ogni volta che lo vedo, Massimo mi pare l’incarnazione stessa di una delle più belle definizioni di filosofia che mi sia occorso di leggere: “La filosofia è il pensiero che non si lascia frenare”, scrive Adorno nei Paralipomena della sua Teoria estetica. E irrefreanbile Bonfantini lo è sempre stato. Dagli anni dell’università in cui, poco più anziano di me, era il più giovane degli assistenti di Enzo Paci, che teneva allora la cattedra di filosofia teoretica, ai tumulti del ‘68 in cui già metteva in guardia sui temi dell’ecologia e dell’ambiente che sarebbero divenuti, per così dire, di moda una ventina di anni dopo, al lavoro paziente del decennio successivo per introdurre in Italia il pensiero di Peirce, alle sue opere di semiotico di fama quale è oggi: sempre Bonfantini è stato mosso da quella passione di capire e di conoscere che la formula di Adorno esprime e che trova in lui l’esempio vivente.Una filosofia, quella di Massimo, che non si lascia restringere negli scaffali polverosi di una qualche accademia, ma si nutre del gusto tutto socratico del confronto, del dialogo, della parola che si invera nella voce. Quella sua voce profonda, il lampo di intelligenza dietro lo spessore delle lenti mi hanno accompagnato incontro a una folla di personaggi fuori dal comune.Per me è diventata ormai una consuetudine che scandisce il volgersi delle stagioni raccogliere nella casella della posta le lettere colorate che la moglie di Massimo, Luciana, che è un’artista dell’organizzazione e una roccia di tenerezza che è bello avere accanto, mi spedisce per annunciare la convocazione delle riunioni del primo giovedì di ogni mese. E così, dall’ ‘85 ad oggi, attraversando Milano, i cui muri progressivamente si svuotavano degli ultimi manifesti politici per trasformarsi nell’osceno totem che celebra i trionfi della merce, entravi, -prima al Padiglione Besta dell’Istituto Neurologico di cui era direttore Boeri, poi alla Casa della Cultura,

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e oggi al Circolo De Amicis o alla Libreria Tikkun- in un’oasi di ragionamento e di dibattito che pare quasi impossibile questa città possa albergare.E lì, di volta in volta, potevi vedere Arrigo Cappelletti, alle prese con un registratore riottoso alle sfumature del suo pianoforte, e poi ascoltarlo spiegare i segreti dell’improvvisazione nel jazz; e Marco Macciò, con gli occhi buoni che contrastano con i dati spietati delle sue analisi socio-economiche; o l’altro Marco, Somalvico, l’ingegnere dei robot, costantemente perso in un’astruseria di diagrammi che le sue parole rendono progressivamente chiari; e la voce declamante, nella scansione perfetta dei suoi endecasillabi, di Oretta Dalle Ore; o sentire Guido Nardi, il ritratto dell’architetto con la sua eleganza camp, riflettere sulle vicissitudini delle trasformazioni urbanistiche; e Mauro Ferraresi, un giovane Gorgia dei nostri tempi, rivelarci gli artifici del discorrere in pubblico; e Cristina Zaltieri, dal nome bello come i suoi capelli, china sui fogli di una dottissima filosofia; o Carlo Oliva, che con la sua corporatura massiccia e l’impermeabile bianco, pare un detective uscito dalle pagine dei gialli la composizione dei quali ci va spiegando; e Giampaolo Ferrari, l’eclettico, che la domenica fa l’antiquario nei mercatini, durante la settimana lo psicanalista e nel suoi otia scrive i deliziosi apologhi che ci legge; e l’altro Giampaolo, Proni, col suo lento accento romagnolo strascicato, il primo attorno al ‘9O ad avere diffuso via computer la sua fantascienza, che si accalora ad illustrarci come i vegani abbiano vinto con la non violenza i terrestri; e Lorenzo Magnani, l’atleta, fisico da nuotatore e logico finissimo, che ci guida col filo della sua rigorosa chiarezza nel labirinto delle formule della sua disciplina; ed Emilio Renzi, che chissà perché mi ricorda il protagonista di un noir francese, a smascherare con acribia i trucchi del design; o Pietro Brunelli, che rintraccia nel lavoro degli attori di Grotowski la saggezza antica dei primordi; e Dalmazio Clemente, il prolifico, più di duecento romanzi, nome da Basso Impero, che ben si adatta a un autore come lui che rovista nei meandri della cronaca per restituircene gli orrori come paradigma della decadenza che viviamo; e Salvatore Zingale, trasandato e dolcissimo, a insistere nel dimostrare la possibilità di ritrarre l’invisibile; e Carlo Ippolito, il frenetico, che traduce i balletti di Stravinsky nelle silhouettes volteggianti delle sceneggiature disegnate dei suoi film; o gli ombrelli a spicchi che Stefano Costantinescu fa sbocciare alla lavagna trasformando in un gioco colorato persino le aride cifre del markerting; e Paolo Facchi, che sembra essersi appena alzato da una delle sedie del Circolo di Vienna, e che fa vivere i misteri della filosofia del linguaggio nel teatrino dei personaggi dei suoi racconti... E tanti altri, e insieme a loro, quando erano fra noi, Cesare Musatti e Bruno Munari, e ancora Silvio Ceccato, Fulvio Papi, Gianfranco Bettetini, Augusto Ponzio, Grazia Neri, Stefano Benni, Umberto Eco... Filosofi, artisti, scienziati che lo sfrenato talento dialogico del mio amico ha riunito nel Club Psòmega, che Bonfantini ha fondato insieme a Boeri, e che si propone lo studio del pensiero inventivo e la pratica del vivere inventivo. Mantenere cioè vivi la fantasia, la libertà, l’invenzione, il gioco, la magia di cui parlavo poc’anzi.Di quel gruppo di avventurosi, di cui mi onoro di far parte, Renato Boeri era quello che più mi incuriosiva. Compariva fra di noi col portamento naturalmente signorile del gentiluomo di antico stampo, la sigaretta perennemente accesa e quel sorriso indefinibile che spesso piega le labbra di chi ha visto e conosciuto molta sofferenza. Ne spiavo i tratti del volto e mi sorprendevo a pensare che in fondo lavoravamo con la stessa materia prima, le emozioni. E le parole che aveva scritto ne Il pensiero inventivo, uno dei tanti libri pubblicati dal Club Psòmega, -“...l’emozione obbliga l’essere vivente a ridiventare un vivente istantaneo... fonda l’avvenire col presente...”- si adattavano benissimo a descrivere quanto io stesso mi proponevo e mi propongo con la poesia. E, a proposito di poesia, mi ha sempre interessato capire come il suono e il senso stringessero le loro indissolubili alleanze nel segno poetico, partendo dalla fase aurorale del loro incontro nelle aree di Broca e di Wernicke del nostro emisfero cerebrale. E ora avevo l’occasione di conoscere l’autore di scritti che mi sarebbero stati di molto aiuto per chiarire quei problemi.

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Ma c’era di più in quella mia curiosità e nell’attrattiva che esercitava su di me quell’uomo. Sempre profondamente impegnato nella lotta per la trasformazione della società che lo aveva spinto giovanissimo a partecipare alla Resistenza e lo aveva visto ai tempi del disastro dell’Icmesa battersi per il riconoscimento dei diritti degli sfigurati dalla brama di guadagno del colosso chimico, Boeri aveva fondato nell’ ‘89 la Consulta di bioetica. Ebbene, i temi dell’etica del vivere non erano forse uno degli argomenti principe dei miei scritti? Ma mentre io nella poesia mi limitavo a denunciare l’inautenticità, la devastazione, la violenza che l’assetto economico e sociale diffonde come un morbo nella nostra vita e a sognare una possibile liberazione, avevo lì, davanti a me, una persona che tentava concretamente, quotidianamente, nella realtà, di gettare le fondamenta di un vivere libero e responsabile. Soprattutto nelle circostanze e nelle traversie di una malattia, contro le storture di una medicina che vede nel paziente solo un arnese da riparare per garantirne l’ulteriore utilizzo negli ingranaggi e nelle bielle dell’universale meccanismo che per far denaro ci stritola. Alleviare il dolore altrui: era questo, di cui Boeri aveva fatto il suo mestiere, ciò che in lui mi affascinava. Ma, mi chiedevo volgendo gli occhi sui bizzarri compagni delle mie avventure psomeghine, non è forse questo che tutti noi, imbarcati nella generosa impresa di Bonfantini e di Boeri, in fondo facciamo: cercare di rendere meno pesante, ognuno nel suo campo e con gli strumenti che ha a disposizione, la soma che ci tocca trascinare?Avrei avuto modo in seguito di conoscere e di apprezzare la profonda umanità di Boeri nell’esercitare la sua professione, quando, per certi suoi problemi depressivi, ho portato una persona cara per una visita da Renato. Aveva il dono di farti sentire a tuo agio, fugava con un sorriso e una parola la sensazione che tante volte i medici ispirano al paziente: quella di essere l’oggetto di un qualche esame entomologico, la cavia di esperimenti su cui non hai il controllo, il corpo inerte sul marmo di un tavolo anatomico. Il calore era invece la nota dominante di quel suo conversare in cui si dipanava l’itinerario diagnostico e grazie al quale non perdevi mai la consapevolezza di essere il soggetto, sia pure in difficoltà, sofferente, indifeso, di una vicenda che era la tua e che il medico ti aiutava a ricostruire e a risanare. Ecco, se dovessi riassumere in una parola le impressioni che ho cercato di descrivere, userei a proposito di Boeri il termine cordialità nel suo significato etimologico di movimento di affetto e di simpatia che viene dal cuore. Da quelle emozioni che sono, come scriveva, “la precondizione dell’inventiva”, e, aggiungo io, nel caso di quell’aura di cordialità che Renato emanava, la condizione necessaria di ogni umana convivenza.“Essere come rinati: è questa l’intenzione dei lineamenti fondamentali di un mondo migliore per quanto riguarda il corpo”, scriveva Ernst Bloch. Questa era l’idealità cui si ispirava l’agire cordiale di Boeri come medico e come uomo. “Ma”, metteva in guardia Bloch, e Boeri lo sapeva, ed era forse questa consapevolezza a piegargli in quello strano sorriso le labbra, “gli uomini non camminano eretti, se la vita sociale continua ad avere la schiena piegata”.La signoria delle insegne pubblicitarie contro il cielo della notte è lì a ricordarcelo.

Una sera incontri a caso una ragazza. E’ la fine di gennaio, forse, o febbraio. Fa freddo. Le parli, ne sfiori il corpo, ti chini sul suo volto, e ti specchi in un abisso di solitudine, di disperazione, un universo esploso in cui le parole galleggiano come i meteoriti di una qualche catastrofe planetaria. Ma non importa. Vuoi scaldarti. Ascolti distrattamente brandelli di storie, di illusioni, di sogni alla deriva. Fa freddo. E quella voce ti parla. Racconta qualcosa che in fondo conosci. Vuoi scaldarti. Capisci che dietro quelle parole c’è solo un disperato bisogno di amore. Che è anche il tuo. Fa freddo. Fa tanto freddo... E allora, immersi nel bagliore delle vetrine, storditi dal fragore dei tram, seguiti dagli occhi spenti dei manichini, ci si aggrappa l’un l’altra come in mare aperto i travolti dalle onde...

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E poile strade della notteMargherita che scendi le scalenel tuo delirio di sognie bicchieristringendoti morti bambinifra i dentie parlandoparlandoparlandoverso gli abissidi una geografiada cui fuggirono per semprele camere odorosedell’infanzia contadinaMargheritache ti chiami Daisyper gioco appresosulla lunga attesa dei fumettie riscattando in un sorriso talvoltale mani che ti brancicanole mani che ti prendonole mani che ricercanosolo ciò che per tante mezzanottihai per sempre perdutoportando in borsettapistole giocattoloper difenderti dall’ombraMargherita di suoree aghi che ti trafiggonoin fantasmagorie di ospedaliridente di barzellettee tutta la solitudineche ti fa nere le unghieoscenanella tua semplice dignitàferma agli angoliaspettando un tram che non arrivaMargherita detta Daisydai tuoi sogni di cartaindossatrice dicevie ancora parlando terre e vignedel Piemonte che ti porti sul labbrosperduta e pallidalungo le panchineuna sera

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con una cagna e una pistolagiocattolo della violenzache da ventisette anniti ferisce nel profondodella tua orfana staturae con pietreMargheritacon fiori di cartacon denti che ridonocon borsette e con gonnecon tutta la vita che ti stringe alla golaper giungere ad un angolodove uomini forse ti attendononello scongiuro di fotografiepromettendo di non bere piùe sempre trascinandotida un bar all’altroche nonostante sai amare Margheritascoppiando in risate improvvisedi barzellettenervosa tu dicie pazza perché nata sotto un cuscinonella tua incosciente e lunga nottedopo aver guardato dentro lo specchiodi un tempo che ti dice nocon rughe attorno agli occhieppure giovanegiovane di passi e sorrisistringendoti pellicce di pelo fintogiunta fin nel cuore degli inverniper rimpiangere calori mai vistiMargheritadetta Daisycon civetteria contadina ancoradi strade provincialida cui passarono corrierequel giorno che decidesti per sempredi lasciare le vigne e il paeseper ritrovarti lungo angoli di cementopanchinepanni stesicase a buon mercatomani brancicanti in sospiri che fingonol’amorein precipitante fugaverso bicchierie vuoi viverevivere Margheritadetta Daisycol tuo corpo lungo e magro

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aggrappandoti al primo che incontripuntando pistole occhi di nottecontro ombre inconsapevolidella tua discesa infernaledei tuoi gradiniche portano a stanze di solitudinicoi manifesti dei cantanti alla modae i dischi delle ultime canzonetteper dimenticare nel girodi tre minutil’ombra di chi ti promisedi chi ti parlòdi chi ti presedi chi ti abbandonòper sempre in questo imbutodi solo cementoMargherita detta Daisyfissando le stelle e piangendocon vestiti lunghie gonne civetteriadi carta stracciainseguendo sulle caselle di paroleincrociateanagrammi di felicità sconosciutedi sicurezze spesedi sentimenti malricambiatie la tua piaga Margheritadi bambiniche ti dici Daisy in un sognoche ti va largocome il vestito che portiche lavori dalle suoreche hai il terrore di ospedalie di lunghe puntureproprio dentro il cuoreMargheritasognante solitaria in fondo a stanzeche ricerchi solo l’amorequello che ti dicevano da bambinanelle favoleper poi svegliartiin quest’incubo di case e panchinein quest’ora lunga tutte le seresenza sapere che cosa faree senza il figlio che sognastiche ti portarono via morte e infermiereche dici di avere allattatoper poi contemplare solo fotografiesu comodini crudeliMargherita

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detta Daisyper telefonarmi talvoltaper direil mio maschio poetaaltro inganno che conoscida occhi che ti fissanonella girandola furiosadi parole che non vogliono stare al loro postonascosta e annegata dentro sogni di cartapestaper ricordarti semplicementedella tua maternità trafittae del nido segretoda cui i sogni prendono il volocome anatre impazziteMargheritae l’ora lunga di uno specchioin cui ogni seratornando da strade e da risasolitariascontrosamenteti contempli

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che ricerchi solo l’amorequello che ti dicevano da bambinanelle favole

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Sei vecchio gridava con bocca di polverevòlto al nadir di stelle declinantiverso le città dove la notteraccoglie i suoi semiincamminandosi con spicchi di lunaarance morsicatedall’età dei bimbiimpotente col suo remopesante nelle stagionie nel duro giro della terrabianco su orizzonti maledicenti

e dai banchi del mercato unonon vedi? -bisbigliava- non vedi?ma l’acqua inghiottivaombre dileguanti in bagliorid’incendiotravi anneritedove le lumache spargevano bava

sui mari ancora veleggiandotra scie di ricordile bestemmie e le risatein vigilie ardenti di battaglia

immobile oraaccanto alle casee non sapeva che dire che fare

immobilenel largo spiazzo delle acque cadentiperché non poté che andaree le gambe cedevano

sulle pozze chino a scrutarerifrangersi il cerchiodegli anni

fiero tuttaviaimmenso nel suo riso di uomocon la fame dei viaggi divorantee gli addii intrecciatiattorno ai fianchi

Ascolta figlio ascolta:perché i figli siano diversi

guarda gli incantatiin ombre e in ombre

alle vetrine come tuttele sere alle sei e mezza

scendono per le stradefuggenti epifanie di un attimo

e svoltano scomparendo agli angoli

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muti per tornarsene a casa con sicurezzedi fumo dentro i salotti

Osservail regno dei morti

senza parolesenza sguardi

senza amoreCome il mattino che approdammo

all’isola dei cani e tirandoin secca le barche

nella polvere scoprimmoil senso del viaggio

Era questo dunque il destinoquesta la somma dei dadi

e delle scommessequando riprendendo un rimorso di pane

il mare preferimmo nell’abbracciodi onde smosse e di navi?

e sei vecchiogrido impietritocon un sacco sulle spalle

vecchioripercuotendosicon eco sconfinata di cornonel ventre delle metropolitanein un sussulto di bigliettie il giornale arrotolato nelle tasche

Il mio dio non sail mio dio non vede

il mio dio perdutoin fondo ai corridoi

pulendo le scarpe ai suoi figliperché siano in ordine e a posto

E tutto questo valeva la pena?Valeva il sortilegio dei venti?

smarrito ritrovandosi ai portisui moli dove l’acquaristagnariflettendosi negli occhidi chi non videcon monumenti di marmocittà sconciate dal fangodigradanti cittàdi sotterranei e d’archivicittà di fabbricheprivilegiato luogo trafittolampeggianti città di silenzicon fognature solo gorgogliantie strani che si muovonocontando sulle dita

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E tutto questo valeva la pena?perché sei vecchio

gridava cigolando sui cancellicrocefisso alle lancecon girasoli assurdirivedendosi in fondo agli specchicon l’acqua oscurache si pente e si ribelladi non scorrere come i figlie come il tempo

e sei vecchio gallo combattente

vecchio

Sui pali del telegrafosono inchiodatequattro paroleMai Più Vedremo AmoreMai Più Vedremo Amorefino al giorno in cuiosando viagginon verso terrema verso uominialtri rivolterannocon la mano sapientela sabbia delle oree la lunga pazienzadei raccolti

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Che destino avrannoqueste parolequale immensità di spazidovranno attraversareper colmare l’impercettibiledistanza della tua fotografiasul tavoloperché riprenda vita sullo sfondoil marebattendo alla scogliera le domandeche sono specchio della notte al mondo?Le stelle cadono e sulla terragli uominison trascinati da un ventoche li afferrafino ai confini dei paesi mortidove corrono lungo i muri i canie un manifesto finisce di disfarsinella pioggiaNon conosco nulla ma ricordoun terreno vagodove i vecchi gridavano i loro puntialla pétanquee ricordo quelle voci nel silenzioammonire come negli stagni il tempoquando s’appresta l’anatra a migrareE’ questo esilio dunque di sorrisiil bandoche l’ombra furtiva dei cappottidecreta sciamando per le stradenell’ultimo inverno dei ricordie suona fino al cuore il passodi quella folla fradicia che si accalcanel transito scandito dal bagliorelivido all’altra riva di un semaforoDi te e di me si perderà notiziacome già una sera camminammosugli spalti delle mura di un castelloe la tua mano insensibilmente mi condusseincontro alle generazioni spenteche un polverìo travolse alla pianurae fummo per un attimo sospesinel varco aperto tra ritorno e piantoMa l’ora dei bagagli si avvicinabasteranno certamente poche coseun mozzicone di matita un fiore

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sarà una notte e ne rammento il giornoquesta musica sottile mi rapiscedi me e di te si perderà notiziache destino avranno queste parole qualeimmensità di spazi dovrannoattraversare per sussurrarti addiosu questa pagina da cui obliquamentet’amo

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Dal lato d’occidente dove cadela pietra scabra della notteuna scintilla almeno tenteremoper trarre alla sua luce il voltocosì che sia disciolto il nodol’enigma che trionfa della bestiamentre piano si fa assenza il mondoed urla ai suoi deserti il vento

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E come la passione cantadel suono che ritorna all’albadi questa rosa ti faremo donoperché sorprenda delle onde il flussola norma che intende la ragionedell’urlo immenso che stravolge il marequando s’avventa sugli scogli a un varcoche offre al suo tormento scampo

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Ma renderai grazie alla dolceche sostenne nel limite del tempoil passo che indugiavaperché fu nel tuo deserto l’acquail volo della rondine che migraquando l’autunno ha dissipato il boscola costanza dell’attesala sapienza del ritorno

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Interrogherò la pozza dell’acqua per saperese il filo che ti legaancora tiene per sapere

Consulterò l’ala del gabbiano per sapere seha notizia del mio uomo per sapere le isolee la rotta del mio bene per sapere

Nel talismano d’oro ti ho cercatoe un vento fra le canne si è levatolamenti di rugiada ha sussurratolunghe grida di battaglia mi ha portatoannunci di sventura ha decretato

Lampone e verbenaun otre di terra e di renacuore di stornoelleboro nero perché tu faccia ritorno

Dalla cima di quei monti l’orizzonte scruteròavida cagna in calore il tuo nome invocherònel freddo nel sole il vascello attenderò –navezattera legno trave- ma che ti ributti imploreròall’approdo del mio seno alla deriva del mio ventre

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E nella tua luce riposopietra levigata dall’ondasconfitta memoria d’abissiall’altezza definitivadella tua cintura del risoalgebrica fiammeggiante malìanominandoti dono dicendotimia

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Dolcissimadi venti e profumianticaantica mia piccola nomadedi Mesopotamia e d’Egittoper abbandonarmi infinecome già una serati vidial mercato delle olivein Alessandriavagamente sospesanel tumulto delle stradefra il tempoe le stelle

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E il vento gira le sue ruoteperché tu sempre ritornie questa dolcezza che m’è datasia l’acqua che lungamente scorrein fondo ai tuoi occhi

E io non sono unoe tu non sei solama insieme camminiamoper le strade del mondosenza dimenticarele scale della venditao le maniche sdrucitedel freddo

Perché così vive l’amorecompagna del nostro sorrisonon solo nel silenzioo nel fuoco che saledai piedi ai capellima nella sete ripetutache vuoleche per tutti canti il vinosulle tavole di festadi una terra buonasenza recintie senza padronidove i campanili dell'albaavranno per sempre sconfittotutte le ombre della notte

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Lo sapevamoquando partimmo

verso orizzontiastratti: la mela che mordemmoritorna col suo profumo dall’infanziaio te ne feci dono tu m’hai guardatoe assunse i suoi colori il mondotu vita mia mio approdoeterno mio viaggio condiviso

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per sapere le isolee la rotta del mio bene per sapere

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Con occhi di vento afferrati ai gorghivedemmo passare carcasse di cavallie corpi di bianchi annegatistringendo al petto lance di orgoglioudimmo il canto di occhi stelle marinefanciulle avvinghiate ai polipivedevamo danzare in fondo a relitti di cittàcon travi e con bottiisole serpeggiantibaciavano l’onda dei piedie i remi in cadenzacon occhi di fangoil mare apriva le cosceaccogliendoci in un’orma di disgraziee vedemmo affondarea giri larghi e lentitroni di re e carcasseinseguimmo sull’onda di soffibruciantiin cantine di spumai fuochi marinila madre chiamava con disperato alitoimmiserita nello spruzzare delle ondela seconda nascitail mescolarsi di vuoti e di solie giallo di fango con luce biancastral’udimmo cantare in relitti di paroleorsi marini invanoe chi piangeva legandosi ai banchichi rideva arrampicandosi lungo gli alberivedevamo affiorare ed affondarenell’alterna vicenda delle stagionicittà dai bianchi tetti di marmolastre spezzate di tombeuniversi di sciami di apimandatici incontroda pittori bruciatie bicchieri di cannellae mille pugnali di soletrafiggevano il corpo dell’eterno movimentoclavicembali spezzati e flautimessaggi di bottiglie disperateinchiostri con lameruote e stellate canaglieventi dai fianchi di seta

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danzanti in coppia ed abbracciatia sciarpe vittorie ed esercitiognuno moriva cantandonon avvertiva l’ombra del sonnoil miele delle parolepungeva con api di nascitepartorendo in immensi catini di sangueverso il tramontonon si possono ridire i chiodied alla sera un vulcano sfattoe boccheggiantesembrò gridare nulla nulla nullacon le unghie qualcunosi era aperto il pettocantando una ninna nannaa pruaavanzava volando con strisce di sangueavanzava coi remi in cadenzaavanzava cantando con denti spezzatiavanzava la nave disormeggiata per sempresenza speranza di portiincontro ai cani occhitonantiincontro ai cani di isole scosceseagli inferni di mosche putrefatteincontro ad isole impazziteche si tenevano per manoavanzava con alito di sognoabbracciata al duplice amore della lunacon lacrime di perlala nostra nave senza portoavanzava con squame di pesci e scie di uccelliavanzava con cento vele nere spiegatee si inchinavano le terre al nostro passaggiogettando coriandoli e addiivedemmo pagliacci danzarefacendo sciarade di ondee il fondo si ribellava alle catenedi banchi e di scoglivedemmo immense pozzanghere aprirsiin passi in cadenzain eserciti in spinevedemmo spianare le armicon alterni singhiozzied eserciti occhidinotte baciarsi la fronte spaccatadivisa in due la mela del mondosputava i suoi semispezzata dalla nave piangentenessuno poteva trattenere ondate di dubbidesideri di morte di rinascitadi seconde coppe bevute

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con occhi assentie chi piangeva contemplando le manichi gridava chi ridevain un concerto dalle costellazioni impazzitela madre ci abbracciavacon occhi marinila madre gridava ritornala madre apriva braccia di relittila madre urlavada cosce impazzitenel dolore del parto senza ritornoe avanzava sprofondando in oscurità sempre più fitteavanzava la nave nostra boccadiventoavanzava con insulse preghiere e pietàcon carichi di morti ridentie vedemmo le isole gettarsi verso cieli verdiurlare da maledizioni e da scossevedemmo animali terrestri e zolfivedemmo occhicerchiati dannati attorcigliarsial nostro collogridando pietàPIETA’ PIETA’non fu nostra la colpa di braccia di ferronon fu nostra la colpadi vite distrutte e pietà e pietàavanzava la navecon nero alito impazzitolasciandosi alle spallemani annaspanti alla superficiecon catene e pugnaliavanzava la nave nostracon immenso sussultoverso l’alba del giornoquando all’improvviso si fece bonacciaquando all’improvviso tacque il respiro del marequando all’improvviso...e fu giorno giorno di immensi silenzigiorno di morta calmae ognuno gettato sulle assifissava l’occhio vuoto del cieloin un sonno pesantein bianchi sussultisenza clamoriabbandonati immensi e abbandonatisentimmo una strana parola sussurrataappena sussurratasulla nostra nave immobileoscillavano in lamenti lunghisfacendosi in piantioscillavano mordendosi le mani

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oscillavano con le dita fra i capellie la bocca aperta vuotain un pianto fanciullooscillavano sentendo un ritornaritorna ritornaritorna alla paceritorna entro le cosceche ti hanno generatoritorna con furore di semeritorna in un ansimo di piacereritorna coi pugni strettiritornae si gettarono molti a capofittosi gettarono molti con un urlo che ruppe le acqueli vedemmo a giri larghi scomparireridentili vedemmo rotolare nel fondoridentili vedemmo abbracciarsi agli scogliridentili vedemmo ridiventare sabbiaridentili vedemmo affondarestringendosi le ginocchia e le braccia al pettosanguinando dalle orecchiegiacemmo a lungoe vennero uccelli stranivennero larghi di bianche alivennero con una fiamma nel beccovennero anch’essi parlandocon lingua di alberoposandosi sulle veleci guardavanooscillando il beccosquarciandosi il pettoci guardavanobattendo le alied uccidendosi a poco a pococi guardavanoe il sangue colavalungo le veleil sangue colavadalle ali in croceil sangue colavae ci guardavano e quando si fecero legno e paloe quando bruciarono in chiarori di lunaci guardavanocon le ali in croce inchiodatiai nostri pennonia braccia larghe piombammo in un sonno pesante

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avvinghiati con tenacia di algaalle tavole costruitecon un urlo immenso allora il maresi stravolse in iridescenti baglioriin un rotolare di stellein barili di vendettadalle braccia verdeartigliantigraffiando con mani di sabbiala nostra culla di legnoci legammo ai banchicon triplici nodie denticon le mani ficcate nel legnomordendo le nostre tavolestrisciando la faccia sul pontela luna medusariempiva il cielo di lampifissandoci con milioni di occhila luna medusasinghiozzava con passi di tempestala luna medusabruciava le vele spezzatelacerando con coltelli di ventole nostre cordela luna medusaurlava maledizioni di penisolegettando manciate di continentie di terrescagliando con denti di lucefrecce di cadaverie precipitava la nave nostraverso catene di coralliverso cani di conchiglieverso tane di silenzioprecipitava in un’ansia di fiammein cocci di bottigliecon nodi di nottelegati alla giostra impazzitadei coralli e dei pescivomitavamo vino di parolescongiuriinferni di palpebrestretti abbracciandoci e legandociin catena piangentedivenimmo nave nella navelegno nel legnoe nel legno divenimmo terrae nella terra rocciae montagnae continente

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Afferrati ai gorghi 119

e sul nostro continente di legno impazzitolegando le mani alle manile braccia alle bracciail corpo al corposcoprimmo la forza di essere uomo...........................................................E la mattina del terzo giorno

approdammo ad un’isola.....................................................................

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osando viagginon verso terrema verso uomini

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Onde l’uomo che è della terracessi di incutere spavento

E mentre le pronuncio, è come se quelle ultime parole richiamassero da un abisso di secoli le innumerevoli generazioni che in esse hanno sperato ancor prima che Davide le cantasse nei suoi Salmi più di tremila anni fa... Poiché il povero non sarà dimenticato per sempre... e nella penombra i compagni mi paiono allora la coralità degli uomini d’ogni tempo e latitudine che si mossero, combatterono e, come costoro che mi ascoltano, tuttora si battono perché la medesima certezza trionfi... Né la speranza dei miseri perirà in perpetuo... C’è un attimo di silenzio. Poi la Sala di via Corridoni è tutta un applauso.Tornando al mio posto in platea, mentre passo davanti al tavolo degli oratori, Wassim, il rappresentante dell’OLP, e Uri Avnery, il pacifista israeliano, mi stringono la mano. E quel gesto dei “fratelli nemici” –dal titolo del libro di Avnery che campeggia anche sulla convocazione dell’incontro organizzato da Democrazia Proletaria alla Sala della Provincia- mi pare sancire la giustezza di quanto mi proponevo con la poesia: esprimere con le parole più alte della tradizione dell’uno, la Bibbia, le ragioni della lotta dell’altro.

...esaudisci il desiderio degli umili...Un fragile ponte, in direzione di un dialogo difficile. Come quello che si svolge sotto i nostri occhi, sottolineato dall’attenzione tesa con cui l’assemblea segue i discorsi. Ognuno di noi è infatti consapevole dell’importanza di quel confronto, ma anche del dramma che in quello stesso momento si va consumando nei territori occupati: la corsa dei ragazzi coi sassi, il fumo dei copertoni bruciati, l’echeggiare secco degli spari, la conta quotidiana dei morti. “Perché, signor Avnery,” dice Wassim con la voce appena incrinata, “la condizione del nostro popolo oggi è questa: vedere i propri figli uccisi nel ventre delle loro madri dalle percosse e dai gas del vostro esercito” . Accanto a me due giovanissimi, fra i molti che affollano l’auditorium, si stringono, quasi a voler scongiurare in un abbraccio tutto quell’orrore.“Ma non è proprio questa, forse, la posta in gioco?”, mi sorprendo a pensare volgendo gli occhi dai due innamorati verso Wassim e cercando di indovinare sul suo volto i segni che v’ha lasciato la sua vicenda, di ripercorrere i gradini che l’hanno portato fin qui... E me lo immagino bambino ascoltare ingigantire sulle labbra dei vecchi il ricordo della terra strappata, e le notti di grida e di fiamme dell’Irgun e dell’Haganah, e i camion a deportare villaggi, e la fila lunga delle masserizie, e la miseria senza nome delle baracche e dei campi della sua adolescenza, e l’umiliazione ripetuta a ogni ufficio e sportello di quel “profugo!” buttato in faccia, e le prime riunioni febbrili con altri come lui, la scelta del fucile, la decisione di dare e ricevere la morte... E la meta ultima, il senso più profondo di tutto questo, forse è proprio qui, in ciò che mi sta accanto: la dolcezza di un abbraccio. La riconquista di una tenerezza che, al di là di terre e paesi, è quanto di più intimo e prezioso l’uomo sottrae a se stesso e ai propri simili, la perdita che accomuna la vittima e il carnefice.“Gli israeliani non sanno, non riescono neppure a immaginare che cosa sia la pace”, sembra far eco ai miei pensieri la voce di Avnery. “La guerra rientra nel normale ordine delle cose”. La curiosità di tutti è per questo personaggio, divenuto leggendario per aver fatto della lotta contro questa “normalità” e dell’impegno di insegnare la pace ai propri compatrioti la ragione della sua vita.La barba bianca e gli occhi chiari di Avnery contrastano singolarmente con la carnagione bruna di Wassim e rivelano in lui l’askenazita dell’Europa centrale. Quell’Europa da cui, bambino, è emigrato in Palestina, fuggendo, nel 1933, dalla Germania in cui i roghi dei libri del nazismo trionfante preparavano incendi ben più vasti. “C’è un uomo al quale va a fuoco la casa,” prende a raccontare Avnery in un apologo “per salvarsi entra in un’altra credendola disabitata. Quando

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scopre di essersi sbagliato, chiede insistentemente che lo lascino vivere in una stanza, con l’argomento che tanto, tanto tempo fa vi vivevano i suoi antenati. Naturalmente gli abitanti della casa protestano, e cercano di buttarlo fuori a forza. Di fronte a questo nuovo rischio, egli diventa violento, si batte per la stanza e nel corso della lotta conquista progressivamente altre stanze finché gli abitanti originari sono minacciati di essere completamente cacciati da casa loro”.Una storia, questa del sionismo, di cui Avnery è stato un protagonista, conoscendo da vicino la guerra, la violenza, la crudeltà. Da quando nel ‘38, a neppure quindici anni, entra nell’Irgun per combattere contro gli inglesi; e poi, nel ‘48, nell’Haganah, battendosi per la sua “stanza” in quella che gli israeliani chiamano “guerra di indipendenza” e i palestinesi semplicemente “nakhba”, “il disastro”.Irgun, Haganah... eccolo qui, “l’uomo nero” dell’infanzia di Wassim. E fa un certo effetto, dà quasi una sensazione di irrealtà vederlo questa sera seduto accanto a lui a raccontare questi episodi. Eppure quella voce pacata che sembra voler rintracciare un filo di razionalità attraverso le grida e i clamori della storia e la fronte corrugata di Wassim teso ad ascoltare le parole di chi solo ieri lo ha cacciato da casa sua, sono la testimonianza più eloquente della possibilità che hanno gli esseri umani di incontrarsi, di comprendersi. Ed è forse il fatto che questo dialogo urta contro i nostri schemi più consolidati –che vogliono che i nemici non possano intendersi, perché il nemico è per definizione il vaso di ogni iniquità- ciò che contribuisce a creare quel senso di spaesamento che dicevo.Rompere quegli schemi, riconoscere il nemico, e farsi da lui riconoscere, è del resto il grande merito di Avnery, e ciò affonda le sue radici proprio negli anni dell’Irgun. “Per gli inglesi ero un terrorista,” dice “mentre ero un combattente della libertà secondo la nostra definizione. In seguito non ho mai dimenticato questa lezione: un terrorista, secondo lui, si batte per la libertà, mentre secondo il nemico chi lotta per la libertà è un terrorista”.Ebbene, tutta l’avventura umana e intellettuale di Avnery, il suo coraggio e la dirittura morale si riassumono in questo percorso: riconoscere nel terrorista –che è il demonio, e quindi una non entità- il nemico e, nel nemico, l’uomo –mosso dalle sue ferite, dai suoi ideali, dal suo odio, anche- e nell’uomo, il fratello. Mio fratello, il nemico, appunto, come dice il titolo del suo libro. Che è il resoconto di anni e anni di incontri che Avnery ha avuto con i dirigenti palestinesi. Di molti di quei “terroristi assassini”, come Hammami e Sartawi –assassinati, loro sì, forse proprio a causa di quei contatti- Avnery è diventato amico personale, durante gli interminabili colloqui a Londra, a Vienna, a Parigi, dovunque fosse possibile, persino tra le macerie di Beirut, dove si recò nell’ ‘82 a incontrare Arafat mentre i mezzi corazzati di Sharon stringevano d’assedio la città. E dovunque ascoltando e facendosi ascoltare, vincendo diffidenze in se stesso e negli interlocutori, tessendo instancabile la tela della speranza che nutre il suo sogno: un Israele progressista, federato con uno Stato palestinese sovrano, in un Medio Oriente di pace. “Se lo hai voluto tu,” sorride Avnery, citando le parole di Herzl, il fondatore del movimento sionista, “non sarà una favola”.Bisogna però che anche gli altri israeliani lo vogliano: di qui l’incessante opera di controinformazione, i comitati per la pace, gli articoli, le manifestazioni organizzate da Avnery per guadagnarsi il favore dell’opinione pubblica perché faccia pressione sul governo e ne muti la politica. “E’ necessario convincere i miei compatrioti che i palestinesi non sono belve sanguinarie,” torna a ripetere caparbio “ma nemici, cioè uomini che combattono per i propri diritti e la propria libertà, e con i quali è possibile intendersi e trattare”.In questa prospettiva, Avnery vede nell’intifada, la rivolta delle pietre, una grande occasione. Perché il giovinetto con la fionda è il simbolo di Davide e in Davide, inteso come il giusto che combatte nemici potenti, Israele si è sempre identificato. Ebbene, ogni sera la televisione restituisce agli israeliani rovesciata l’immagine che hanno di se stessi, con Israele nella parte di Golia contro il Davide palestinese. E questo, secondo Avnery, può scuotere coscienze, seminare dubbi, incrinare certezze.

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E poi, forse perché la mia poesia dei versi di Davide è composta, “Che cosa abbiamo fatto” chiede con tono sommesso e quasi rivolgendo a se stesso la domanda “di quelle parole che impariamo da bambini, che tutti amiamo?”. E dopo una breve pausa: “Come le abbiamo stravolte?”.

...uno stuolo di malfattori m’ha attorniato...La cosa che più mi aveva colpito erano state le dichiarazioni di Rabin, e in particolare la direttiva impartita all’esercito di spezzare braccia e mani a chi avesse osato tirare sassi, una direttiva che mi appariva tanto più oscena in quanto ammantata da ragioni umanitarie. Storpiare ragazzi in fondo non significa ammazzarli, pareva argomentare il ministro della difesa. Solo una lezione, magari un po’ energica, così che imparassero, quegli straccioni, a comportarsi. Non che i vecchi metodi fossero stati abbandonati. Tutt’altro: e anzi la catena degli uccisi a bersaglio di proiettili o a cavia di gas era destinata ad allungarsi ogni giorno. Ma accanto a quella per così dire tradizionale, il mondo doveva imparare a conoscere questa nuova, inedita pratica.La “lezione” di Rabin sarebbe entrata nelle nostre case, coi telegiornali, all’ora di pranzo.Un terreno vago, forse una discarica per le immondizie. Entra in campo un gruppo di soldati. Le riprese, effettuate da un operatore nascosto, appaiono a tratti sfocate e sono completamente prive di sonoro. Ecco, in primo piano, gli stivali del drappello, fra cui si intravedono gambe nude che si impigliano fra gli sterpi, rimbalzano sulle pietre. Ora la cinepresa inquadra due poco più che bambini trascinati a corpo morto per le ascelle. Poi i prigionieri sono a terra. Alcuni militari gli sono sopra; li tengono fermi; gli aprono in croce le braccia; gliele tengono ben stese. Altri afferrano grossi macigni. Un colpo, due, tre... E prendono a fracassare gli arti. Un colpo, due, tre... Con metodo.E il tutto nelle nostre case, attraverso lo schermo come in un acquario, in un silenzio irreale e agghiacciante, in cui le urla degli straziati e gli insulti degli aguzzini, che indovinavi dalle smorfie di dolore e dalle bocche digrignate, pareva dovessero risuonare in eterno.Quella scena, cui quasi volevo rifiutarmi di credere, quella ferocia era la legge: i soldati non stavano facendo altro che ottemperare agli ordini di un ministro laburista di un governo legalmente eletto in un paese che si vuole democratico e civile.

...l’empio dice nel suo cuore...Ero letteralmente nauseato. La cosa mi sembrava talmente enorme che mi pareva impossibile non avesse suscitato un moto generale di ripulsa, di ribellione. Ma quanti, mi chiedevo, di fronte alle stesse immagini, si sarebbero limitati a correre con la mano al telecomando, esorcizzandone lo scandalo con la semplice pressione di un pulsante e specchiandosi nella banalità luccicante di un qualsiasi musical si sarebbero sentiti tranquillizzati, rassicurati, e le avrebbero semplicemente dimenticate?E allora il silenzio spettrale in cui il massacro si era svolto sotto i nostri occhi mi appariva la cifra di un silenzio più grave, la metafora di un mondo in cui ci vorrebbero spettatori muti di fronte alla neutralità fluorescente di uno schermo in cui tutto ciò che appare è di per ciò stesso giustificato, legittimato, vero, ma in cui al contempo il confine tra realtà e finzione viene a perdersi con lo stesso ritmo con cui azionando il telecomando un’immagine trascorre in un’altra. La disperazione di una madre e l’ultimo video di Madonna, i cadaveri smembrati delle guerre del pianeta e le vittime degli intrighi patinati di “Dallas”... tutto ci passa davanti agli occhi appiattito, senza spessore, si equivale, si confonde, per essere subito dimenticato, inghiottito da un’altra immagine, cancellato da un’emozione più forte. Tutto ci viene mostrato perché nulla sia compreso, e nulla quindi toccato, vediamo senza distinguere più che cosa è vero e che cosa è falso, poveri demiurghi inebetiti davanti a uno schermo, aggrappati allo strumento illusorio di un potere che ci consente sì di cambiare canale, ma per assistere a spettacoli di cui non siamo più in grado di cogliere il senso e che altri decidono, organizzano, dirigono...

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...volgiti a me...Contro quel silenzio la mia poesia voleva essere un grido, un piccolo granello in quel meccanismo che stritola sensibilità e memoria, il minimo intoppo che placasse almeno per un attimo il fragore degli ingranaggi per offrire un varco alla riflessione.Scrivere una poesia di argomento politico non è difficile, purché si abbiano ben presenti che cosa si vuol dire, a chi ci si rivolge, l’effetto e lo scopo che si vogliono ottenere. E io già la vedevo, la mia poesia, correre di mano in mano riprodotta su un volantino o offerta allo sguardo dei passanti come manifesto agli angoli della strada. Sapevo dunque che doveva essere breve per poter essere contenuta nello spazio di un foglio o di un affisso; doveva parlare a chiunque avesse la ventura di incontrarla; doveva muovere ragionamenti, rimescolare emozioni, restituire verità.Tutto questo sapevo. E tutto rimaneva da fare.Era una mattina di fine gennaio. Ero seduto alla scrivania e i miei pensieri vagavano...

...ed abbi pietà di me......si fatica si combatte si muore come un gorgo di silenzio questi anni e tanti ci si sono perduti compagni di un tempo che incontri per strada e ciao e come stai una piega al labbro dura dimentichi di tutto che non sia denaro successo a cosa può servire una poesia se questa è la legge si fatica si combatte si muore correndo a mani nude popolo di bambini con qualche sasso sempre loro i più giovani a pagare e qualcuno te l’ha anche detto in faccia “il loro torto Giulio è non aver vinto” incredulo guardandoli come li ha travolti lo stipendio la professione il tempo a cosa può servire una poesia ma scrivono speranza quelle mani nascosto da panni variopinti il volto potrebbero essere figli di Abu Askar questi dell’intifada che aveva sì e no quattordici anni allora ridente lo ricordi orgoglioso del suo mitra mio dio come sono scappati gli anni e ne avevi ventisei sbarcando a Beirut negli occhi ancora riversarsi nella notte bianchi nelle galabie a piedi da ogni portone era incredibile o aggrappati ai tram sul tetto degli autobus uomini e donne da ogni strada al Cairo e quel grido che pareva voler strappare a brandelli il cielo un profumo di gelsomini intorno ne facevano collane per i turisti che ti scambiavano per russo “balalaika!” ti aveva apostrofato uno sciuscià ridendo e quella folla nella notte mai vista tanta gente prima “Alla ai! Alla ai!” non lo dimentico più quel grido “Abdul Nasser tessa ai!” piangendo correndo gridando “Ahimè! Ahimè! Abdul Nasser è morto!” settembre ’70 del mattatoio giordano si fatica si combatte si muore fiammeggiando su Beirut le insegne delle banche chissà se un giorno la rivedrò bianca bellissima sul mare e che effetto mi farebbe oggi che vent’anni di guerra l’han sventrata crocevia di razze Sciarah el Hamra si specchiavano nelle vetrine alte ondeggiando nel tramonto stupende le ragazze libanesi parlando il francese fra di loro andavi allo scoglio degli amanti con Carole in faccia al mare e il libraio maronita in fondo alla strada “eh oui monsieur” studi alla Sorbona elegante compito “les palestiniens c’est notre maladie” al di là della Borsa Rue de Damas ti veniva incontro lacera Beirut Sabra Chatila Tall el Zaatar non c’è che dire l’hanno curata bene la malattia gli occhi spalancati nella domanda muta dei bambini giocando fra le fogne a cielo aperto polvere baracche patria palestinese dilaniata in un universo di miseria tirate su coi copertoni e le lamiere “anch’io qualche volta ho perduto tutto al gioco” nell’atrio di cristallo del Phoenicia il console italiano “ma non per questo ho preso il mitra” portavano sul viso le rughe dell’insonnia “tre giorni e tre notti dietro un muro” diceva Abu Sadu ripiegati a Beirut con le zanne nere di settembre sul costato si fatica si combatte si muore e s’era mangiato un gatto con i peli e tutto ombre sul muro tra casse di proiettili nella baracca dell’OLP di Chatila chini attorno al tavolo a parlare che andavi in Brera nebbia del ‘73 a cercare Abu Ali quando erano venuti i fedayn per lo spettacolo di Fo a Milano e ogni notte che dormiva a casa tua “che cosa c’è Abu Ali?” scuotendolo e lui a urlare le case diroccate di Amman i pugnali della legione araba di Glubb pascià di strada in strada a corpo a corpo “Abu Ali mat!” gridava sognandosi

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scannato a cosa può servire una poesia buffo però questo chiamarsi Abu che vuol dire padre come i frati tutti seduti in cerchio a mangiare il ginocchio sinistro piegato a terra stringendosi col braccio il mitra al corpo e con la destra raccogliendo il cibo si fatica si combatte si muore coi suoi trent’anni ti sembrava vecchio Abu Sadu sulla sua volkswagen giù verso il Litani che certo era possibile visitare le basi del sud del Libano professore di letteratura all’università aveva messo una bomba sul sedile passando il fiume “for Israel” ridendo e la pistola col colpo in canna si fatica si combatte si muore tu qui alla scrivania a inseguir ricordi Tiro Sidone il castello di Beaufort millenni racchiusi da quei nomi oggi ci voleranno sulle macerie i corvi che erano le roccaforti palestinesi in armi dall’alto di una collina “guarda!” e la distesa dei campicelli brulli diventa l’Alta Galilea degli israeliani sbattendo la portiera fra i muri smozzicati che dal confine dista due chilometri Aynata e spesso ride Sadu l’hanno salutato con lo “shalom” i contadini credendolo israeliano si fatica si combatte si muore come nel nostro sud terra riarsa fichi d’india sole sul muro del cortile dov’è il pozzo la rosa rampicante ti balza incontro come la vedessi oggi e ti restituisce Abu Feras lo zingaro e Abu Medienne senza un occhio e Abu Salim l’indaffarato e Abu Askar il piccolino e Skandar e Sultan e Akam solo in questi nomi oggi vivi tu qui alla scrivania e la notte era chiara alta la luna a cosa può servire una poesia in quattro gruppi verso i confini inginocchiato sul pavimento Abu Sadu indicando sulla mappa la posizione di Al Manara “e qui le mine” che arrivano alle cinque e mezza ogni mattina i camion dei soldati per il cambio “e qui le mitragliatrici” si fatica si combatte si muore lasciandosi alle spalle la sagoma consunta di Aynata ti avevano messo una kefia attorno al viso per ripararti dal freddo dell’ottobre seguendoli per scrivere un articolo e ti si appannavano gli occhiali alta la luna bagnando l’ombra di Sadu col diktirioff in spalla si fatica si combatte si muore e gli altri in fila indiana coi nastri dei proiettili e i lanciarazzi e quelle mine piatte “are you tired Giulio?” e “no” che non son stanco strisciando il passo del leopardo fra le macerie sul confine i lumi tremolanti di Al Manara in lontananza “tieni” fumando una sigaretta a coppa e mi fa scivolare una scatola di tonno in tasca Abu Medienne dietro un muretto a secco aspettando l’alba fascio improvviso di luce un elicottero frugando le tenebre col faro e “ana baekbak enta” “ti voglio bene” sussurra Abu Salim spingendomi che me ne stia nascosto in un cespuglio e urlano fino a impallidire il cielo i cani si fatica si combatte si muore col vento dai villaggi l’eco stridula dei galli si porta il giorno e l’odore buono di quei campi una fuga di collinette spoglie fazzoletti di terra digrignata di fatica separati da muretti e sassi stento qua e là un ulivo paesaggio fermo che imprigiona il sole si fatica si combatte si muore cantavano qualcosa che non so lieve lo scatto delle armi tra le nuvole di polvere sbucando da una curva i camion si morde le labbra Askar come giocattoli traballanti sulla strada mi fa segno di star giù si fatica si combatte si muore e la mina esplode “strano” ricordo d’aver pensato “come tutto sembra attutito soffocato” crepitìo di mitra sbuffo di granate quasi inghiottito dal paesaggio e “yalla!” urlano i compagni “via! via!” mi volto per un attimo che dai camion cominciano a sparare imbratta l’azzurro un fumo nero formicaio di uniformi laggiù fra i sassi si fatica si combatte si muore e corri allora su per la pietraia china la testa che fischiano gli spari scavalca un muretto e poi un altro fa’ come loro così a zig zag corri non fermarti che non vengano speriamo gli elicotteri deve essere il cannone questo tuono e corri bocca riarsa sete l’ansito come il tuo degli altri altissimi gli aerei poi in picchiata bùttati a terra adesso ma è impazzito Skandar? perché arma il mitra? “salta!” contro Askar e lui no smorfia infantile che ha paura “o sparo!” che arrivano di infilata i proiettili delle mitragliatrici giù al riparo tra un fico d’india e un muretto spiando il cielo e quel contadino... si fatica si combatte si muore... e quel contadino... ora capisco qui alla scrivania di averlo inseguito quel contadino e lo rivedo come allora apparso ai nostri occhi d’improvviso sul crinale della collina così irreale piegato sulla zappa indifferente nei gesti antichi del lavoro continuare testardo a dissodare il campo mentre tutt’attorno cambiano solo gli strumenti di una vicenda sempre eguale si fatica si combatte si muore aerei e bombe oggi e lance balenano nei secoli e fionde e baionette e scimitarre e spade balenano nei secoli e secoli di una vicenda sempre eguale

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si fatica si combatte si muore la legge questa certo ma non della storia bensì di quella lunghissima preistoria aveva ragione Marx prima del regno sperato che sconfigga la necessità del lavoro e della guerra e con la natura riconcili e quindi con la morte quella lunghissima preistoria si fatica si combatte si muore che si consuma qui fra un muretto e un fico d’india sempre eguale come ai tempi della Bibbia...

...poiché il povero...E così m’ero alzato a prendere una copia della Bibbia dallo scaffale. Forse spinto dall’urgenza di quelle sensazioni che mi avevano rimescolato presente e passato in un’attualità in cui le vicende della storia finivano per confondersi; o, più probabilmente, perché avvertivo che quell’immagine che il corso dei pensieri mi aveva restituito con tanta evidenza, quel contadino chino sulla sua fatica in un paesaggio senza tempo, era la chiave di tutto, l’elemento che dava, per così dire, prospettiva, profondità e, in definitiva, senso a quanto nei ricordi avevo rivissuto.Avevo aperto le Scritture al primo libro dei Salmi, quelli conosciuti come Salmi di Davide, e lo avevo fatto così, senza una ragione. Era stato il mio “coup de dès”, la mossa imprevedibile e imprevista senza la quale non sarei qui a ragionare su questa poesia, perché se il caso mi avesse spinto sotto gli occhi, poniamo, i Numeri o il Levitico, mi sarei probabilmente accontentato di una scorsa e avrei seguito altre strade. E’ quel tanto di casuale che fa scattare di solito il meccanismo creativo: “l’ispirazione”, per intendersi, quel brusìo con cui all’orecchio esercitato la poesia pare sussurrare “sono qui”. Ed è allora che un pensiero, un odore, un rumore, un volto possono catturare tutta la luce dell’universo per restituirla poi in quel punto splendente da cui si irradierà il futuro poema. Io però avevo davanti un libro, anzi il Libro.Mi confrontavo con un linguaggio essenziale, duro e scabro come quelle pietre di Palestina, e che mi pareva straordinariamente efficace nella versione di Giovanni Luzzi, il teologo valdese che aveva curato l’edizione della Bibbia in mio possesso.E intanto cercavo di immaginarmi come suonasse l’originale nell’antica lingua con cui per la prima volta l’uomo misurò se stesso dinnanzi all’eterno, come potessero sciogliersi in canto quelle parole, come dovessero dilatarne l’eco le cetre e i flauti destinati ad accompagnarle. Seguivo il dialogo di Davide col suo Dio –Porgi l’orecchio alle mie parole, o Eterno...- e lo fantasticavo buttato lì, sui sassi, fra un fico d’india e un muretto, come noi in quella terra tremila anni dopo, con gli occhi fissi al cielo e udivo nell’immensità del mattino perdersi la sua implorazione –Odi la voce del mio grido, o mio Re o mio Dio...- e nel grido la solitudine risuonare, e il dolore e l’ira e la speranza. Come si levasse oggi, quella voce.Il primo verso, dicevano i poeti antichi, lo dona il dio. Nel mio caso, la benevolenza divina m’era venuta incontro con gli ultimi: “poiché il povero non sarà dimenticato per sempre...”.Parole che mi avevano colpito per la loro forza e per quella semplicità che, a dar retta a Brecht, come il comunismo, è difficile da fare. Le avevo quindi scelte a esergo di una poesia che in quel momento intendevo ancora scrivere con parole mie. Il dio dei poeti, quindi, a ben pensare, il suo mestiere lo aveva fatto a puntino: lui i primi versi me li aveva inviati, secondo tutte le regole; sono io che le avrei sovvertite in un lavoro di taglia-e-cuci che mi avrebbe fatto ritrovare per ultimo ciò che era apparso per primo. Infatti, man mano che leggevo i Salmi, cui ormai mi ero appassionato, altre parole mi si imponevano e avevo cominciato a trascriverle su un foglio; e intanto, a poco a poco, maturava in me un’idea: non era possibile scrivere tutto con i versetti della Bibbia?

...rendi loro secondo le loro opere...Forse sì. Guardo il mio foglio, fitto di citazioni, tratte da Salmi diversi ed estrapolate dal loro contesto. Provo a dividerle in quartine. Ne scelgo sette, disponendole secondo l’ordine del discorso che intendevo svolgere. Volgo al femminile là dove Davide parlando di se stesso usa il maschile. Intitolo il tutto Palestina... e mi trovo di fronte a un testo in cui la Palestina parla con

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parole sorprendentemente attuali, ma cariche al tempo stesso di tutte le suggestioni, di tutti gli echi che i secoli da cui salgono hanno loro donato. Una poesia, insomma, che rispecchia esattamente quella sensazione che tanto m’aveva colpito quando nei miei ricordi alla scrivania avevo rievocato la scena della battaglia e del contadino.Mi rendevo naturalmente conto dei rischi che un’operazione del genere comportava: non era forse la Bibbia la fonte da cui traevano giustificazione i dirigenti del Likud o, peggio, gli estremisti alla Kahane, per la loro politica di annessione e di violenza? Ma più riflettevo, più mi convincevo della liceità, anzi addirittura dell’astuzia di quel procedimento: avevo ribaltato le ragioni degli avversari usando il testo cui si richiamavano per dare legittimità alle loro scelleratezze. Un uso per così dire “alternativo” della Bibbia. E laico, per di più. Il tu con cui Davide si rivolgeva a Dio infatti chiamava ora in causa il passante o il lettore che mi ero proposto di scuotere.Avevo insomma usato di un libro sacro o, se si preferisce, di un testo sapienziale dell’umanità, come di un codice da cui avevo tratto elementi discreti per comporli in qualcosa di nuovo. Per dirla nei termini di Saussure, la Bibbia era la Langue, là dove la mia poesia era la Parole.

...il mio cuore non avrebbe paura...La mia poesia? Ecco il dubbio, l’interrogativo maiuscolo che mi assillava. Potevo firmarla col mio nome, questa poesia? Potevo considerarla legittimamente mia? Non mi ero forse limitato a copiare? Si trattava sì o no di un’operazione creativa? Le riflessioni precedenti avevano già cominciato a rispondere affermativamente alle mie domande. Ma altre considerazioni dovevano intervenire a rafforzare la mia presunzione di paternità.Leggendo e rileggendo, mi rendevo infatti conto che quanto avevo davanti funzionava allo stesso modo di uno dei meccanismi cardine della creazione poetica: la metafora, che da più di duemila anni, da Aristotele ai neo-retori del Gruppo , gli studiosi si affannano ad indagare....e il poeta dirà della sera... che è la vecchiaia del giorno . Prendiamo questa metafora illustre, usata da Empedocle, e analizzata da Aristotele nel passo citato della sua Poetica. E’ chiaro che i due termini, il termine proprio (sera) e quello figurato (vecchiaia del giorno), si riferiscono alla stessa realtà: quel momento particolare del giorno in cui il sole tramonta.Per dire sera però il poeta ha scritto “vecchiaia del giorno”. In quella espressione convivono quindi due sensi: quello di vecchiaia che è la parola che leggo, che appare, e quello di sera, sottinteso, che è il significato che la metafora intende esprimere. Questa duplicità di senso crea quindi una tensione, uno iato, uno scarto fra i due modi del linguaggio, quello figurato, esibito dal nostro enunciato e quello della lingua naturale che il primo, per essere compreso, richiama.Non appena io capisco la metafora –mi dico “ma guarda, vuol dire sera!”- riduco quello scarto, torno per così dire da “vecchiaia” a “sera”, ma arricchito di tutte le connotazioni, i sedimenti, le concrezioni che il termine vecchiaia mi ha lasciato. E guarderò all’imbrunire con occhi diversi, cogliendo quel senso di malinconia, di decadimento, di fugacità che il termine sera, proprio perché convenzionale, automatico, indifferente, non mi avrebbe consentito di cogliere. Ho così arricchito il mio modo di percepire uno degli stati del mondo. E questo è avvenuto attraverso la metafora, che è appunto una delle modalità con cui il linguaggio scopre, conosce, crea, inventa.Immaginiamo ora il mio lettore. Gli ho proposto un testo che è intitolato Palestina. Se non sa che è costruito con versetti tratti dalla Bibbia, lo legge, può giudicarlo più o meno bello, e rimarrebbe probabilmente colpito dalla solennità del linguaggio che può pensare modellato su un calco arcaico per ragioni meramente stilistiche.Ma non appena la memoria culturale del lettore gli fa scoprire, o io glielo indico, che si tratta della Bibbia, ecco che la poesia esce dal suo stato di innocenza e partecipa di quella doppiezza che abbiamo già visto in azione nella metafora: abbiamo la Palestina che parla oggi al lettore e al tempo stesso Davide che si rivolge a Dio mille anni prima della nostra era.

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Anche qui, come nella metafora, si viene dunque a creare una tensione, uno iato, uno scarto che chiamano il lettore a una posizione critica: può essere o non essere d’accordo con l’accostamento fra la Palestina di oggi e la realtà tanto remota del popolo ebraico; può essere indotto a meditare su come muti la realtà storica, dato che la voce dei perseguitati di ieri è divenuta quella dei torturati di oggi; può viceversa cogliere l’eternità e l’immutabilità della parola di Dio nel tempo; può scandalizzarsi e giudicare inopportuno o blasfemo che abbia usato del Libro sacro per eccellenza per commentare e descrivere vicende mondane; o viceversa quella sacralità può diventare la pietra di paragone per stigmatizzare l’abiezione della politica israeliana odierna, e così via... Comunque vada, il nostro lettore non può rimanere neutrale, è costretto a prendere partito.E anche in questo caso, come nella metafora, il linguaggio ...o per dirla più francamente, io, che del linguaggio ho usato in questo modo... io, dunque, attraverso quella cosa così banale che appare a prima vista la citazione, sono riuscito a creare, a inventare tutto uno spazio di senso che altrimenti non sarebbe esistito. Aprendo così quel varco alla riflessione, che era appunto quanto mi proponevo quando mi accingevo a scrivere la poesia.Rassicurato da queste considerazioni, mi ero quindi affrettato a regolarizzare la mia posizione riconoscendo con una firma la mia creatura.

...anche allora sarei fiduciosa...Oltre che fumare, uno dei miei vizi lavorando è quello di ascoltare la radio. Non so, mi distrae, o meglio mi concede in alcuni momenti quel distacco che permette allo sguardo di mettere a fuoco meglio certi particolari. Come il pittore, che si allontana dalla sua tela per coglierne l’architettura.Stavo dunque dando le ultime pennellate alla mia opera, quando sento Radio Popolare annunciare per l’indomani la convocazione dell’assemblea in via Corridoni.“I classici due piccioni con una fava!”, mi dico. Giorni di prova mi avevano infatti convinto che la voce restituiva alla poesia tutta la sua carica di suggestione, e m’era venuta una gran voglia di recitarla in pubblico. Quale occasione migliore di quell’assemblea per presentare il mio lavoro, leggere la poesia e proporla, secondo la mia idea originaria, come testo di un volantino o di un manifesto. Tra parentesi, il manifesto lo avrei realizzato mesi dopo, cavandomi la soddisfazione di vedere la poesia rivestita di un bel disegno di Gioxe De Micheli e accompagnata dalla firma di un centinaio fra i più prestigiosi intellettuali italiani.Ma chiudendo la parentesi e tornando a noi, mi infilo un cappotto, corro da Ricci, la casa editrice con cui collaboro, “Ciao Carole, come stai?”, mi inchiodo alla fotocopiatrice e –approfittando della complicità di Carole che, oltre a volermi molto bene, controlla come redattrice la Rank Xerox- procedo alla mia profana moltiplicazione dei pani e dei pesci. “Grazie, ci sentiamo...” e via a casa col mio bel pacco di fotocopie da distribuire in assemblea ai compagni perché ne facessero a loro volta copia. Una catena di Sant’Antonio che spesso in questi casi funziona.Già, ma bisognava leggerla, la poesia... Se scrivere una poesia “politica” non è, come dicevo, molto difficile, leggerla prevede tutto un cerimoniale preventivo, a volte molto fastidioso: lettere, telefonate, sorrisini, dinieghi, tentennamenti, spiegazioni, per arrivare a strappare un risicato sì. Ancor oggi, e sono ormai tanti anni che faccio questo mestiere, non sono riuscito ad abituarmi...“Per evitare la solita, e francamente un po’ umiliante trafila all’ultimo momento sotto il palco, chiedo in anticipo a te e ai compagni di poter leggere in assemblea domani sera la poesia acclusa” m’ero risolto a scrivere a Sandro Barzaghi, il segretario milanese di DP. E dopo aver plaudito alla moralità dell’incontro organizzato fra Avnery e Wassim e aver ribadito la mia convinzione circa l’utilità della poesia come manifesto e volantino, concludevo dicendo: “La lettura costituirebbe quindi un momento di presentazione e soprattutto di verifica dell’efficacia

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della poesia. E questo mi sembra vada in direzione della moralità di un lavoro come il mio che cerca sempre, per quanto gli è possibile e gli è concesso, di non sottrarsi a un confronto diretto con coloro cui aspira rivolgersi”.L’indomani squilla il telefono. La voce di Barzaghi: “Ti aspettiamo stasera, Giulio”.

...né la speranza dei miseri...La Sala della Provincia è quella delle grandi occasioni. Bandiere rosse e palestinesi dappertutto, brulicare di gente fin dalle scale. Come quella volta, nel ‘77, che avevo recitato la mia Cantata per Tall el Zaatar, accompagnato dal jazz del trio di Gaetano Liguori.“Allora, te la fanno dire la poesia?”. “Sì, certo...”, e guardo la testa canuta di Braga che fa capolino dietro il banchetto straripante di libri e di opuscoli sulla situazione palestinese. “Una bella lezione di fiducia” mi dico, pensando a quante volte in questi vent’anni l’ho visto, sempre a darsi da fare, sempre calmo, sempre sorridente. Lui che la sua parte l’ha fatta, e come!, durante la Resistenza.Vent’anni... e sul viso di molti che conosco da allora si vede che sono passati: una ruga, quella piega del labbro, la nuvola negli occhi di tanti. Ma quando entro nell’anfiteatro, la spavalderia variopinta delle kefie gettate sulle spalle, avvolte a mo’ di sciarpa, legate con noncuranza alle borsette, mi dice che i ragazzi sono numerosissimi. Potrebbero essere i miei figli, se ne avessi avuti...“Scusa...” e quello che ho urtato si volta. E’ Baj. E me lo ricordo, seduto di fianco a me, proprio qui in via Corridoni, singhiozzare come un bambino, lui che è grande e grosso, mentre Nemer Hammad raccontava l’assedio di Beirut nell’ ‘82. Quello con la barba bianca, dietro il tavolo, accanto a Capanna, deve essere Avnery e l’altro, più giovane, e con la carnagione scura, vicino a Barzaghi, Wassim. “Speriamo che capiscano, loro e tutti gli altri, quello che ho voluto fare con la poesia”, sussurro sedendomi, a Jole, la mia compagna. Lei mi fa cenno di sì. Mi stringe la mano.Poi mi chiamano. Salgo i gradini del palcoscenico, dando le spalle al pubblico. Quando arrivo al podio e mi volto, le luci della sala si sono spente. Odo solo quel brusìo indistinto che precede ogni rappresentazione. E mentre sto per iniziare, per un attimo, altre parole della Bibbia mi tornano alla memoria. Sono quelle del profeta Isaia: Sentinella, a che punto è la notte?E la risposta: L’alba sta per venire, ma la notte non è ancora terminata.E poi quell’invito, quella esortazione così sorprendente: Non stancatevi, tornate, domandate. E mi pare che il senso di tutta la vicenda dell’uomo sulla terra sia in quel riproporre incessante la stessa domanda.Sentinella, a che punto è la notte?Ma è un attimo. Tocca a me, adesso:

Volgiti a me ed abbi pietà di meperch’io son sola e afflitta

Vedi i miei nemici perché son moltie m’odiano d’un odio violento

Salmo 25, 16, 19

Cani m’han circondatouno stuolo di malfattori m’ha attorniato

M’hanno spezzato le maniforato i piedi

Salmo 22, 16

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E parlano di pace col prossimoma hanno la malizia nel cuore

Rendi loro secondo le loro operesecondo la malvagità dei loro atti

Salmo 28, 3, 4

Esaudisci il desiderio degli umiliper far giustizia all’orfano e all’oppresso

Onde l’uomo che è della terracessi di incutere spavento

Salmo 10, 18

L’empio dice nel suo cuore: Non sarò mai smossod’età in età non m’accadrà male alcuno

Egli sta negli agguati dei villaggiuccide l’innocente in luoghi nascosti

Salmo 10, 6, 8

Ma quand’anche un esercito si accampasse contro a meil mio cuore non avrebbe paura

Quand’anche la guerra si levasse contro a meanche allora sarei fiduciosa

Salmo 27, 3

Poiché il poveronon sarà dimenticato per sempre

Né la speranza dei miseriperirà in perpetuo

Salmo 9, 18

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Un frutto d’appartenenza

l’alba sta per venirema la notte non è ancora terminata

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Perché così grande è il silenziodi quelli che parlano

ridendo nel buiodi sogni

con cappellie parafulmini

e oggettial minuto prezzi al minuto

e tu non mi sentisgranocchiando un biscotto

e tu non mi sentiquando baciasti la terra

chinoin onde di smisurate fiaccole

oh predicatoree cristi

e cristie cristi

perché così grande è il silenzioe corre la ragazzina inseguendo il cerchio

noi andiamoverso orizzonti

predettiverso orizzonti

maledettifra i mercati

onde e luceluce

pagatal’amore?

dite le preghieretra quelli che si nascondono

la chiamano civiltàsi nascondono con occhi

e orecchiee occhi

domani forse vedrannodomani non oggi

e sei tornatodal regno dei morti

con una bisaccia di paniquando?

e ripassi domanisgualciva il cappello

vedremosgualciva il cappello

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Un frutto d’appartenenza 135

e forsetuo padre ride fra le lenzuola

la nave avanzasenza timore di venti

portava dei corni attaccati al braccialettonon si può

lo hanno dettolo hanno gridato

alla radiovedi tu

dico a te TUTU

TUe lo sappiamo

dovrà finiree lo sappiamo

ma non oggie sono le bucce accartocciate

li chiamano ribellibanditi

con le armi in pugnoai confini?

prediche di domenicaIL SIGNORE DIO PADRE

non sarà oggima costa trascinare la ruota del mondo

facendo forza sui remie arriveremo dicevano

piegandosiarriveremo

ma non oggima non oggi

gridavano date a chi haperché abbia di più

date a chi haspezzate i pani

il vento è favorevolema non oggi

perché così grande è il silenziomorivano con lamenti lunghi

ridendori

ridenridendo

e non era nessunoper questo era forte

sapeva rideresapeva

dire la parola giustaal momento giusto

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136 L’altezza del gioco

ma non era che un uomoe aveva paura

della morte?giaceva abbandonato

dagli sguardi e dai fiorima vedeva

ma vedevavedeva

nel mare versicoloreocchibui

e ripetono in coro nelle cittàil nostro guadagno

agli angoli di soli trafittiil nostro guadagno

sulla soglia delle bottegheil nostro guadagno

costruttori della ricchezzadi altri

costruttori della felicitàdi altri

ma crollerà il vostro mondole foglie cadono

cadonocadono

e la terra coltivata in autunnodà frutti

e la terra coltivataè nostra

per la fatica della zappanostra

per il sudorenostra

nell’ombra delle stradeerigevano forche

nostragridavano sono le leggi

nostracolpevoli di lesa proprietà

nostrae si stringevano insieme

ed erano duevolevano dimenticare

ed erano duee riscoprivano le madri

vedevano lontanole stelle camminano

per le strade del cieloe le stagioni

seguono alle stagionisi risvegliarono

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Un frutto d’appartenenza 137

e si ritrovarono in moltisorridendo

dovevano inventare nuove paroleper riconoscersi

perché così grande fu il silenzioma grande la speranza

e la lottasei così bello

baciamie sei forte

perché confuso nei simili a teè l’amore

e tutti insiemeuna forza

l’onda travolgel’amore

le barriere scricchiolanoè una forza

neri gridanocorrendo con sacchi di monete

la mannaia del soledel sole

del solesta cadendo

per noi

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138 L’altezza del gioco

Il difficile eserciziodella speranza una portachiusa un portacenereuna stanza ci fosse almenouna formula uno scongiuroun’assonanzae tuttavia questo filodi voce che ritornache cuce che danzaè già un fiore di fumouna ripresa d’armoniaun arabesco di speranza

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Un frutto d’appartenenza 139

E verranno le creature di dioi calabroni portando la parolauna memoria di fioridanzando nel tempo gli alfabetila bellezza possibile l’infanzial’uscio di una porta sulle stradela neve le arance il natale

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Chiude il paesaggio una coronad’alberi di pioppo che sfumanocontro il cielo basso d’invernosi dissolve il volo in un battitod’ali che lascia nella nevedi bagliore immutata traccia

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Un frutto d’appartenenza 141

Luce del giorno o stella cometail morso della mela la fragranzaun alone di nostalgia l’attesadell’annuncio sempre la ricercadi un segno di una traccia il ramoscellospezzato forse un varco un passaggioe la pozza d’acqua che ci restituiràun’immagine compiuta un volto finalmenteplacato un’ombra un sorriso una radura

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142 L’altezza del gioco

Ma l’ombra con te camminapotersela strappare di dossorestituirla al ventoe puri nella lucelevarsisenza peso o memoriasenza muriliberi dal simboloche ad ogni istanteammonisceche quella è la partenzae la finel’intera misuradel nostro viaggio

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Un frutto d’appartenenza 143

Ascoltammo poi la canzone del marequella che dice sempre quella che diceriposa l’alta misura del tempodel mondo fino a giungere alle rivedella notte dove il pesce immensosi abbandona sotto gli occhi mutidelle stelle del cielo a una vicendadi flutti

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Luna nel cielostella che tremae il gallo già canta

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Un frutto d’appartenenza 145

Siamo gli uomini del limitei vissuti tra mare e nottecon una promessa di vento in fondoagli occhi e la sigarettatra le labbra attraversammoun’angoscia di cittàinnumerevoli come l’ondache viene a morire su questascogliera di luna dove l’umanapaura si confronta con lastella e una cateratta d’acque ci diceancora ancora ancora

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146 L’altezza del gioco

Quella stella vediche s’accende nel cieloe poi scoloraseguendo il suo cicloe torna la mattinatutta tremantedi quella assenza

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Un frutto d’appartenenza 147

Foglia lieve fogliacifra del ventonostalgia di primaveraincanto di giochinel tuo breve volorendi vera la terraesaudisci il misterodel mondo

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148 L’altezza del gioco

Resterà ciò che restae il resto vafilo di parolebava di ventosogno di marenel cielo una stellaquesto alfabetoche è già

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Un frutto d’appartenenza 149

Essere dunque nella cui pace segnaun frutto d’appartenenza un lumemusica che svaria alla catenao voce che ripercuote il pozzonell’infima saggezza che rifrangenella sua parola il voltoalle costellazioni roteanti in cielonel punto stesso in cui riscavala sua scommessa il fiore

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Il ragno e il poeta: caso, libertà, necessità

una portachiusa un portacenereuna stanza

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Come abbiamo già visto a proposito di Palestina, la nascita del fiore della poesia è sottoposta, come ogni scommessa, al capriccio del caso. Ma è anche determinata dalla libera scelta di chi, spinto da una sua necessità interiore, quella scommessa ingaggia.Caso, libertà e necessità sono i succhi che fanno fertile la terra della poesia e permettono al suo fiore di dare il frutto che illumina l’istante che noi tutti siamo, riconciliandoci con la ruota del tempo e col ciclo delle stagioni, la cadenza di luce e tenebra della natura cui apparteniamo.

Immaginate un poeta nel suo studio. Il poeta pensa: pensa al mondo in cui vive, alla sua volgarità, alla sua ingiustizia, alla sua violenza... e avverte in modo lancinante la necessità, il bisogno di poesia. Gli oggetti che si trovano a caso sul suo tavolo, la luce in cui sono immersi sono come le lettere di un alfabeto che è già lì e che attende per così dire che una mano ne raccolga le tessere per comporle nella pienezza dispiegata di un significato, di un senso.

Il poeta ha un foglio davanti a sé. Lo fissa: quella pagina bianca è la sua vertigine e la sua libertà, perché, come in musica il rumore bianco è composto da tutti i possibili suoni, così quella nivea assenza in cui si perdono gli occhi del poeta contiene tutti i colori, tutte le frasi, tutti i libri.

Ma la pagina bianca, che per il poeta si identifica, come abbiamo visto, con la sua libertà, gli detta, gli impone un imperativo, la prescrizione della sua legge, della legge del suo essere poeta, e cioè la sua necessità interiore.

Supponete ora che, immerso in queste riflessioni, il poeta sollevi la testa dal suo foglio e si guardi attorno: i mobili che ben conosce, la lampada che così spesso ha vegliato la sua insonnia, lo scaffale con i volumi che tante volte ha consultato... Ma ecco su quel ripiano familiare, fra i libri, una presenza insolita che gli insondabili percorsi del caso hanno condotto fin lì: un piccolo ragno, intento a filare pazientemente la sua tela. Il poeta lo guarda, l’osserva, lo considera e all’improvviso l’incontro casuale fra lo sguardo e quell’insetto scaturito dal nulla è la scintilla che rivela al poeta nell’opera del suo minuscolo compagno l’allegoria della sua stessa condizione, del suo lavoro, della sua vita, del suo essere un artista, un poeta.

E al tempo stesso è come se il filo d’argento che il piccolo tessitore secerne cucisse insieme le quattro poesie che potrete leggere di seguito, e che vi ho raccontato in questa sequenza logica e temporale, ma che in realtà sono nate a caso, in periodi, in anni, in situazioni diverse della mia vita e che, nell’apparizione, nell’epifania di quel ragnetto alle sei di un mattino della settimana scorsa, trovano la loro ragione e la loro necessità.Non sono cioè più, queste poesie, frammenti irrelati, ma si dispongono appunto nella consequenzialità di un discorso, acquistano la pregnanza e la precisione di figure che spiccano nell’ordito e nella trama di un tessuto. Che è precisamente quello che la poesia, la musica, la pittura e in generale l’arte fanno: raccogliere qua e là parole, suoni, colori, cose che apparentemente non hanno rapporto fra loro –come possono essere appunto un ragno e un poeta- e metterle insieme: accostare, imbastire, cucire, annodare, connettere, intrecciare, legare, stringere, tessere. Ecco il lavoro dell’arte. Istituire cioè una necessità dove prima regnava il caso o, se volete, con un facile ma significativo anagramma, il caos. Ed è ciò per cui l’arte, la pittura, la musica, la poesia sono tanto necessarie, ciò per cui ne avvertiamo il bisogno:

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Il ragno e il poeta: caso, libertà, necessità 153

C’è bisogno di poesiadiceva sul tavolole forbici sono apertel’orologio scandisceil tempo l’ultimoraggio d’invernogioca sul foglio

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Dietro la portail bianco

T’abbagliaParadigma di intensità

Luogo d’assenza

Metafora ultimaattesa

Là doveinoltrarsi

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Il ragno e il poeta: caso, libertà, necessità 155

Tu leggeraifino all’ultima paroladel libro che è in te

sfoglieraipagina dopo pagina

lettera su letterati affaticherai

e il silenzio ti circonda

ma per comprenderloappunto

perché essoparli

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156 L’altezza del gioco

Il ragnetto fra i libriche tesse paziente la telaqualche volta cade ma il filolo tiene lo lega quel piccolosarto sapiente tra le paroleche giacciono morte allineatenei loro loculi di cartaè il segno della vita ostinatatestarda che si arrampicaannoda ricuce cerca la stradaimprobabile di una resurrezioneil fragile avvento di una domandache non attende rispostama quell’esagonale scala di luceche da se stesso secernela sua grandezza e la sua prigione

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Lezione di anatomia

la sua grandezza e la sua prigione

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Al polso cui l’orologio ascendecon piccole note che solol’orecchio intende quando sanguinanointorno i cardi di speranze vuotee si raccolgono alla marea di lune rovesciateocchicomete sognanti chimere versol’inevitabile meta di polveree si incontrano unicamente in sordinedi mari verso conchiglie sul fondo

e sono io puramente iotanto che la parola m’abbagliatra muri gocciolanti sporcizia e ricordiin modo che tutta ne risuona la casao tomba dove si consuma la sabbiaassegnata in sogni improvvisidal lutto balzando verso fiori

e assorda anche semplicemente un sussurroripetendo chissà ripetendo dovunqueripetendo immagini da specchiche non si conoscono altro che per ombreintraviste di sbieco

e tutta la ruggine degli annisembra congiurare alle giuntureper dire tradimenti d’etàe lunghe catene che imitano libertàdi parole battute con ostinazioni dubbiee maleassortite speranze di bracciaperché un’altra volta s’allarghi la notanel buio come in infanzie di abbandoni

così che a questa soglia di anniimmobile ti ritrovi e tuttavianon si sa dove camminandocon ombre lunghe con polvere con allentata fedeché credere è divenuto speranza e speranza si stravolgein ghigno osservato sulle pareticosì che l’amore anch'esso si consegna a strisciantirossodentati sospiri che stritolanoanni minuti giorni nomi oggetti

e questo torna a comporre sabbiae un vento la solleva e con occhiaccecati nella leggenda di abbracciancora una volta risorginella legge di un’età senza frastuonoper non imparare che digradante camminoin ombra spiando dagli angolila muta di cani che avanza

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Lezione di anatomia 161

con lento fragore di tuonoed è la via che si lascia alle spalle

anche l’ultima assonanza per ricordaresolo miti ottusi e scorie e maceriesempre e ancora qui nonostante l’umilesaggezza accumulata scrollandosi di dossopolveri inenarrabili di viaggi

e di là dalle pareti qualcosa si muovetestimonianza forse di vitatestimonianza forse di desideritestimonianza forse che smentiscesolitudini di ossa senza voler ascoltare

e tutto precipita inconsistentecon inchiostri pallidi e calamaicon frantumi di specchicon gusci secchicon materia rotta

e non sa nemmeno la bocca pronunciareuna parola di perdono

e battono e battono i chiodi di questamultilanceolata disperazioneche ti scava e ti scava

senza trovare acquasenza trovare lucesenza trovare fuoco

ma solo sbriciolando i giornial polso cui l’orologio ascende

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E’ questa sofferenzal’unica dignitàl’unico emblemaquesta pioggia sottileche cadequesta insistenzail giocattolo in pezzidi fronte al bambinoche l’ha rotto per saggiareil proprio dominioe cerca di rimetterloassiemela bocca serratasenza lacrimechinouna piccola pazienzache prefigurail gioco e la postaper cui rotolerannoi giorni venturi

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Cos’altro se non questoesercizio testardo gettareuna manciata di pietreripetere a incanto la filastroccacercare sulla sabbia le lineedi un volto attendere che abbiacompiuto la sua opera il ventopur conoscendo in anticipola risposta?

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Si cerca così di ingannare il tempocon vecchie camicie appese e il ditosulla mappa perduto nei viaggioh volto antico lacrime che scorseromusica che ancora ti rapisceseguendo la linea sottiledegli equinozi il punto della stellala rosa dei venti felici l’incantoche ti travolge

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L’evidenza d’ogni parola l’alberodove le radici affondano oscurequesto gioco di specchi che ti guidada cerchio a luce verso la domandache ti farà senza risposta libero

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D’acqua di vento e di stagione oscural’incanto di una stella a settentrionee seguitando il fiume la sua corsauna regione d’ombra un nastrodimenticato tra vecchie carteuna foto un amuleto una scheggiad’osso composero l’emblema e la ragionela misura sottile di una pioggiache batte ai vetri evocando il voltoe chiede il dove e cancella il quando

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Come nei circhi di una provincia piovosaquando hanno piantato il tendonee forse di scorcio si intravede il maree la sua promessa lontanae suona roco il richiamo dei garzoni di scenache saranno pagliacci la serao di fronte a pochi annoiatisi allacceranno nelle giravolte a mezz’ariae dopo essersi dipinti il visolanceranno in silenzio i coltellio reciteranno l’interminabile farsadel fiore che nasconde tranellie nella gabbie intanto i cani sapientiannusano il vento e solo ricordanoche di nuovo è tornato l’inverno

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168 L’altezza del gioco

Fuori cade un’acqua mista a nevela città prenatalizia sussurrasortilegi di infanzie perdutelo spazio bianco del foglioè l’unico percorso concessoche tu sia un poeta ormaibene o male l’hanno accettatosorseggiando vino bianco scadentehai già riposto con cura le carteche attestano questa fragile identitàuna solitudine testarda volutache a colpi di chiodi ti innalzinel rotolare banale dei giornie se il vivere spesso t’apparela dignità di un abito smessotuttavia qui e per semprechino a scrutare la sabbianell’attimo sarai consegnatoperché almeno il ricordo rimanga

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Studierannole varianti

poie strofinando

il nasosui miei versi

“Perbacco!”diranno

“che gran personaggio!”

e misurandoa metri

il percorsoe in lacrime

gli amori

“ Certamente”esclameranno

“dovevaavere

un cuore”

Maqualcuno

più fineed esperto

cavandoun fazzoletto

dal taschino

“ Peccato”sospirerà

“un taledestino!”

“In fondoera dotato”

grugniràun altro

e pulendosigli occhiali

“Come ha potutomescolare

le stellea tanta

prosa

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a tantofango?”

E dalla sediascricchiolando

“Ha copiatoha copiato”

decreteràtossendo

fra tuttiil decano

“O forseil fumo

l’alcoll’insana

passionedi spazi aperti

di piazzemicrofoni

masse”azzarderà

fresco di studiaggiustando

la cravattail Pa

ri gi no

E rivoltandomiancor

caldo“E’ inevitabile

rilevareuna certa

debolezzadi stile”

aggiungeràlo

struttural-parolaio

“Anchese è

indubbioche

qualcosaha rappresentato”

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Lezione di anatomia 171

chioseràgettandomi

un’occhiatadistratta

il rivoluzionario

E continuandoallegramente

a seppellirmis’accorgeranno

i criticiche è tardi

e ad argomentipiù seri

passando“E’ ora

colleghid’andare

a man

gia re”bisbiglieranno

tuttieccitati

Si alzerannoquindi

con reciprociinchini

elegantiperfetti

trasparentie

in granpolvere

di virgolee d’accenti

svanirannofinalmente

lasciandoche io possa

tranquillodiscorrere

con i compagni mieid’allora

il ventol’acqua

la terra

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Il segreto del vento

e chiede il dove e cancella il quando

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E non ricordarelungo il passo che fuggee le spiaggetutti i rifiuti lasciati dal mareperché altrove segnata la rottaricordavasolo isolesogni o leggende?asciugandosi il sudoredi troppi remi piegaticon umano sforzosenza conoscere il giro dei dadio la sabbia delle clessidreconcessacon occhi di profuminell’imbuto di secolia venirepozzo oscurocome nell’infanziaquanto decisoper non partire piùprometteva ai marinaidalle sponde del mare ignotopiegando remi e tela ricurvacome lo scudo in altri tempicondottierodall’arco invincibileora nella fonte specchiandosivecchionel verdetto degli anniascoltando di lamenti nodi lunghio semplicemente dei sognila smania che ti assale sull’albaquando fuggonodalla fronte le ultimedonne della nottelasciando rughee rughee rughepozzo dei secolidegli annidell’adolescenza perdutasul petto della primaverao infinito infinitogiocoper ritrovarsi alla fine

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Il segreto del vento 175

come sempresolitariosenza soldatisenza guerrierisenza armie contemplando sulla rivagli ultimi fuochidell'accampamento nemicoche si vanno spegnendodistribuendo con mani di tempo improvvisel’angoscia del domanidove ti attendonoper chiedertiper giudicartiper abbandonartiuna volta per tutteal ventoal vento che vaal vento che va e piùnon tornache vae più non tornanon tornanon tornanon tornaoscuro solitario eroedopo aver distribuitosorriso e piantocome nell’ansia della notteper ricordarecon fogliee con morta sabbial’onda degli amicifuggentiche scendono le scaledi eterne nottibambiniincessantismarriti nei giochinei numerinel sorriso che si spegnenei capelli che imbiancanonelle città che cresconolungo i quartieri del sonnolungo i tram di miserialungo le malripartite stradedella solitudineper abbandonartiuna volta per tutteal vento che va

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176 L’altezza del gioco

al ventoal vento che vae più non tornanon tornanon tornanon tornaabbarbicato ad una traveper percorrere tutti i marie al ventoal vento che vache va e piùnon tornanon tornanon tornacanzone dell’infanziadegli eroidelle fiabedi poveri genitoriinghiottiti dall’ombralasciandotie per sempreabbandonatoal ventoal vento che vache vaal vento che vae più non tornaal ventoal vento chevae più nontornasenza saperenella pazza sinfoniadi queste notti perdutené cartané ondama solo ascoltandoil ventoil vento che vache vail vento chevae più non tornanon tornanon tornae in tutte le conchigliedei suoi mari conosciutiaccorgendosidi avere solo inseguito

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il segretoil segretodel ventodel vento che vache vache vadel vento che vae più non tornanon tornanon tornanon torna

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Il corpo della poesia

o infinito infinitogioco

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Se il nostro ulissiade, sbattuto dai marosi della vita e afferrato dai gorghi della storia, insegue il segreto del vento che non torna, e cioè il mistero, l’enigma dell’umana avventura che di addio in addio è destinata a perdersi nell’oceano del nulla, la poesia invece insegue o, per meglio dire, è il segreto svelato del vento che ritorna.Perché nel vento della poesia, nella cadenza che si ripete dei suoi suoni, le voci di un tempo continuano a riecheggiare, i volti scomparsi sono sempre presenti, l’amore della gioventù tuttora ci rallegra o ci strazia, i portici delle città sepolte brulicano di folla, il grido dei profeti rievoca il deserto, il sangue delle antiche battaglie imbratta il petto dei valorosi... Il profumo che un giorno ci ha inebriati, il sorriso che ci incantò, la mano che ci ha dato sollievo sono tornati e sono ancora lì, perché, cogliendo tutti questi istanti nella precisione di un verso, la poesia ce li restituisce, sottraendoli a quella corrente che tutto travolge e salvandoli nell’unica forma storicamente accertata di eternità. Di immortalità.

L’ora è ferma, c’è una leggera bruma sulla campagna ed ecco che dalla foschia la sagoma massiccia del bue riemerge sulla sinistra trascinando l’aratro e, tracciato il solco, l’animale svolta a destra spezzando con un ansito lungo le zolle e quindi lo vediamo più lontano riapparire a sinistra secondo il ritmo della sua fatica, quel continuo svoltare tornando sui suoi passi che gli antichi chiamavano versus e che ha ispirato quella prima forma di scrittura detta bustrofedica, che si dispone cioè alternativamente da sinistra a destra e da destra a sinistra, secondo il modo di volgersi dei buoi.

Quel ritmo è il ritmo stesso della poesia che proprio nel nome della sua cellula fondamentale, “verso”, continua a ricordarci che tutta la sua magia consiste in questo qualcosa che ritorna, che ricompare, che si ripresenta, che gira, che ruota... Questo universo in rotazione è l’universo della poesia: la lenta gravitazione delle galassie dei fonemi, l’orbita regolare delle sillabe, la ciclica scansione delle arsi e delle tesi, la rivoluzione dei versi e delle strofe, il bagliore zenitale di un accento, l’eclisse di una cesura, l’albeggiare di una rima che si spegne e poi risorge trascrivono la musica delle sfere di cui fantasticarono astronomi e filosofi. Mentre la prosa è una marcia, diceva Valéry, la poesia è una danza. Il corpo che volteggia davanti a noi è un corpo fatto di vento. Fatto di suoni. La poesia non è forse lo sviluppo di un’interiezione?, si chiedeva ancora Valéry.

Il poeta francese era molto caro a Renato Boeri, il quale rifiutava quella che lui chiamava la iperspecializzazione, il rinchiudersi cioè nel recinto esclusivo dei propri interessi e dei propri studi scientifici, e teorizzava una sorta di eclettismo curioso che lo spingeva alla frequentazione e alla lettura di pensatori, filosofi e artisti nei quali cercava spunti che non solo arricchissero il suo bagaglio culturale, ma gli offrissero dei suggerimenti, delle intuizioni da applicare nello specifico campo del suo lavoro di scienziato.Paul Valéry è il poeta che più gli ha offerto sollecitazioni in questo senso e sulle opere del maestro Boeri ritorna spesso nei suoi scritti, come nel passo che cito, tratto dal suo libro L’invenzione nella vita, pubblicato nel ‘96 a Milano da Mazzotta:“Valéry chiama le emozioni il motore della mente, così interpreta questo mondo intimo, quindi riconosce alle emozioni la capacità veramente di essere il sostegno della ragione, il sostegno di tutto quello che l’uomo crea col proprio pensiero. E per questo diventa un appassionato del cervello.

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C’è una frase che ripete due o tre volte e dice: ‘Il maestro cervello, accoccolato nel suo uomo, teneva nelle sue pieghe il suo mistero’. E parte subito con una posizione molto precisa sull’interpretazione del cervello e che è tutta sua e che poi trova conferma in quello che sostengono i ricercatori e i neurologi quando dice: ‘non si ragiona, non si pensa senza il cervello’. Perché il cervello è l’organo che fa funzionare il pensiero. Quindi è un tutt’uno, cervello vuol dire pensiero. Non si rifà al concetto cartesiano del dualismo anima e corpo, vede nel cervello l’organo del pensiero. Il cervello è il pensiero!”.Ebbene, in base alle considerazioni scientifiche che Boeri ha tratto dalla lettura di Valéry, tenterò, prendendo spunto da alcuni versi del poeta, una riflessione sulla poesia sotto la particolare angolazione dei rapporti corpo-pensiero, materia-spirito, emozione-ragione che Boeri, come scienziato, ha indagato e di cui mi è stato maestro.Boeri amava in particolar modo La Giovane Parca, che, insieme a Il Cimitero Marino, è una delle opere più note di Valéry. E forse non a caso l’amava, perché La Giovane Parca mette in scena il risvegliarsi del corpo al pensiero. E’, si può dire, la storia di una individuazione: dell’emergere cioè della soggettività e della coscienza dalle pulsioni caotiche e dalle fantasie fusionali che accompagnano una corporeità non ancora del tutto consapevole di sé.Nella mitologia greca le Parche sono le figlie della notte. -Ed è suggestivo, tra parentesi, che la vicenda di quelle tre sorelle si svolga intorno ad una trama tessuta, quindi a un testo, il testo che ognuno di noi è (“Vivere è scriversi la storia”, è questo, secondo Bonfantini, l’insegnamento profondo di Boeri): Cloto, che regge la conocchia, Lachesi che fila la tela e Atropo che recide il filo della vita-. Ebbene, la giovane parca è una fanciulla che dalla notte dell’indistinzione confusiva esce alla luce –al sole, come avviene letteralmente nell’ultima scena del poemetto- della coscienza pienamente dispiegata.Prenderò spunto, per questo mio discorso sul corpo della poesia, dall’analisi di sette versi che presenterò prima in francese e poi nella versione italiana di Mario Tutino.

Je ne sacrifiais que mon épaule nue Io non sacrificavo che la mia spalla nudaA la lumière; et sur cette gorge de miel, Alla luce; e su questo puro seno di miele,Dont la tendre naissance accomplissait le ciel, La cui tenera nascita completavano i cieli,Se venait assoupir la figure du monde. Veniva ad assopirsi la figura del mondo.Puis dans le dieu brillant, captive vagabonde, Poi, nel dio scintillante, prigioniera errabonda,Je m’ébranlais brulante et folulais le sol plein, Mi riscotevo ardente, calpestando il sol pieno,Liant et déliant mes ombres sous le lin. Le mie ombre legando, slegando sotto il velo.

Paul Valéry, La Jeune Parque La Giovane Parca versi 117-124 traduzione di Mario Tutino

La traduzione tenta sempre un ritratto, più o meno fedele, più o meno riuscito, più o meno espressivo. Ma l’individuo vivo, col suo corpo unico e irripetibile, è là, nella scansione di quegli alessandrini dell’originale francese, nell’inanellarsi delle rime, nel flusso delle assonanze e delle allitterazioni, nel ripercuotersi dei suoni e delle sillabe che un giorno un uomo ha pronunciato ed ha affidato alla carta. E che lì restano, come sua cifra o, meglio, come la formula magica che attende che qualcuno un giorno la ripeta per riportare a vita e splendore quella individualità di suoni che è il corpo vivente della poesia, la sua carne, la sua pelle, la sua materia, i suoi tessuti e le sue fibre. Il suo corpo appunto che per essere fatto di suoni non è, come vedremo, meno materiale del nostro.Ma quei suoni veicolano dei sensi, dei significati, dei concetti, dei pensieri. Come avviene al nostro corpo, il quale “ha” dei pensieri, “produce” dei pensieri. E allora possiamo dire, con una analogia di cui vedremo la natura e la portata, che come il pensiero nasce, trae fondamento dalla costituzione biologica del nostro cervello e del nostro sistema nervoso, dal gioco dei neuroni,

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dagli ioni di calcio che entrano nelle cellule cerebrali scacciando quelli di potassio e generando quella differenza di potenziale elettrico che presiede alla nostra attività nervosa e consente il nostro pensiero, così il pensiero della poesia, ciò che la poesia dice, il suo senso, il suo significato nasce dal gioco del corpo dei suoi suoni.Possiamo insomma dire, con qualche approssimazione, che come i nostri pensieri sono secreti dalla nostra materia grigia, così la materia sonora della poesia secerne i propri sensi, i propri significati, i propri pensieri.E non si tratta, badate bene, quando dico che la materia sonora della poesia secerne i propri pensieri, non si tratta di una metafora, se poniamo mente a due ordini di considerazioni:1) quando dico materia sonora della poesia, uso un’espressione appropriata, se teniamo presente che il suono è appunto lo strato più sottile della materia. Se io pronunciassi davanti a voi le parole che state leggendo su questa pagina, i suoni che udreste non sarebbero altro che colonne d’aria fatte vibrare dal mio apparato fonatorio e che si propagherebbero come onde fino a far risuonare il martelletto del vostro timpano, trasformandosi nei concetti, nei pensieri, nelle riflessioni che stareste ascoltando dalla mia voce e che echeggerebbero nella vostra mente;2) ma anche quando dico che la materia sonora della poesia secerne i propri pensieri, anche qui non si tratta di un’espressione figurata, se consideriamo che nel percorso della ideazione poetica il suono detta quei legami associativi che stanno alla base delle articolazioni concettuali.E ne abbiamo un esempio, una riprova, nel brano che abbiamo appena letto: -et sur cette gorge de miel, / Dont la tendre naissance accomplissait le ciel...- nella griglia espressiva che il poeta si è scelto per organizzare il suo dire, e cioè quel sistema di rime baciate a due a due, aa, bb, cc, che strutturano tutti i 512 versi del poemetto, quel miel, complemento di specificazione di gorge, di seno, in posizione di rima, richiama, detta alla mente del poeta ciel, la parola compagna di rima nel verso successivo, quel cielo che, a livello semantico, di “significato” della poesia, viene a completare, come dicono i versi che abbiamo letto, cioè a corrispondere e sottolineare con la sua convessità, a coronare con la sua volta la curva del seno che sboccia della fanciulla, in una sorta di risonanza cosmica, o di mistica unione fra micro e macrocosmo. –E su questo puro seno di miele, / La cui tenera nascita completavano i cieli, / Veniva ad assopirsi la figura del mondo. ...-Questa dialettica di suono e senso, -e cioè di materia e pensiero, e quindi corpo e mente, emozione e ragione che Boeri ha indagato con tanta perizia nella sua opera di scienziato- questa dialettica per cui in poesia due parole della lingua che non hanno rapporto fra loro entrano, grazie alla parziale coincidenza sonora, in una relazione che risveglia echi semantici, produce pensiero, questa dialettica la vediamo in scena in questo brano anche a livello per così dire drammatico, di rappresentazione, di intreccio. –Liant et déliant mes ombres sous le lin- Perché mi piace ravvisare nelle ombre che si legano e si slegano sotto il lino, sotto il velo, non solo il corpo della fanciulla in corsa o danzante che traspare dal tessuto, come vogliono alcuni interpreti, ma anche, ed è un’interpretazione altrettanto valida, i pensieri che si agitano, che nascono e che muoiono, che si fanno e si disfano, sotto il manto che la civiltà e la cultura hanno gettato su quella spalla nuda, su quel seno di miele. E cioè, e questa volta sì con una metafora, il manto del concetto, del senso, sulla carne del suono.E allora vedete che questa diade suono-senso attraversa e marchia tutti gli strati, tutti i livelli, tutte le faglie della poesia e costituisce, nel rapporto fra i suoi termini, la tensione polare costitutiva, fondativa della poesia, la sua condicio sine qua non, l’arco voltaico che sprigiona la scintilla poetica.Orator fit, poeta nascitur, dicevano gli antichi: oratore si diventa, poeta si nasce. E forse nella capacità di mantenere viva quella tensione consiste il dono nativo del poeta. Un fragile dono, sottoposto a mille insidie, a mille minacce che il poeta rischia costantemente di perdere o da cui rischia di essere perduto. E’ ciò che è avvenuto a Valéry, il quale per 17 anni, come poeta ha

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taciuto, prima di scrivere nel 1917 quel capolavoro che è La Giovane Parca. Il silenzio dei poeti accade perché uno dei due poli di quell’arco si spegne e la scintilla non scocca più.Succede cioè che il poeta si disamora della sua lingua. Smette di fantasticare, di sognare insieme a lei. Il corpo che adorava, cessa ora di parlargli. Non desidera più accarezzarne la pelle, sentirne il profumo, seguirne le forme. Cessa di ammirare il suo profilo. Non si commuove più alle sue magie, ai suoi incanti, ai suoi charmes, per usare il titolo di una famosa raccolta di Valéry. Il poeta diventa indifferente alla sua lingua. Non l’ama più. La frequenta solo nella sua quotidianità, sciatta e senza trucco. La tratta come una domestica, fedele sì, e servizievole, ma a cui non si fa più caso... E insomma, usa della lingua, come tutti noi facciamo nella comunicazione di ogni giorno, come di un codice automatico. Con il quale, beninteso, si possono fare cose degnissime. E il poeta le fa, ma si trasforma in qualcos’altro. Diventa appunto oratore, saggista, conferenziere, mercante d’armi come è capitato a Rimbaud. Qualche volta si uccide, in preda al rimpianto di ciò che ha tanto amato e che ora ha perduto. Ma comunque cessa di essere un poeta perché la poesia vive nella passione, o, per meglio dire, è la passione per il corpo sonoro della lingua che essa stessa è, cieco di fronte al quale corpo il poeta smarrisce il suo dono, perde, come si dice, l’ispirazione e, in quanto poeta, tace.Perduta cioè la sensibilità verso l’aspetto materico della lingua viene a decadere uno dei poli di quella tensione suono-senso che abbiamo riconosciuto come costitutiva della poesia, decretando così l’impossibilità della poesia stessa, il disfacimento, per così dire, del suo corpo.Costitutiva al punto tale, quella diade suono-senso, che mi pare di poter dire con qualche azzardo, ma certo senza essere troppo lontano dal vero, che qualunque cosa una poesia dica, se è vera poesia, si tratta sempre, in qualsiasi epoca e sotto ogni latitudine, di variazioni su quell’unico tema che è il tema di fondo della poesia, il suo argomento principe, l’unica e vera fabula dei suoi svariati ed infiniti intrecci: la dialettica fra materia sonora ed articolazione concettuale, cioè, in ultima analisi, la dialettica corpo-pensiero.Una dialettica che la poesia, come abbiamo visto, non si limita ad indicare, chiosare, descrivere, ma che mette propriamente in scena, davanti ai nostri occhi o rivolta al nostro orecchio, come un dialogo fra personaggi vivi, in modo che possiamo assistere, nella scansione delle sue sillabe –Je m’ébrarnlais brulante et foulais le sol plein, / Liant et déliant mes ombres sous le lin.- nella scansione delle sue sillabe e dei significati che esse veicolano, possiamo assistere in poesia al concreto dispiegarsi della sottile trama e degli innumerevoli fili che legano suono e senso, e cioè corpo e pensiero, materia e spirito, emozione e ragione, in quell’ordito intricato che Renato Boeri ci ha insegnato, in tutta la sua opera di studioso e con l’esempio della sua vita, a riconoscere e dipanare.

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La gloria di dio

la formula magicache attende che qualcuno un giornola ripeta

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cristallo in trasparenza di parolastella d’assenza astro che ruotala gloria di dio la casella vuotail tempo che s’avvolge alla sua spola

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ecco il teatro di carta e la sua notail giro esatto della molala musica ferma la giostra immotafiamma che avvampa in una rosa sola

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qui risplende la moneta ignotavoce inattesa che consolavento perfetto eco che volaluce sottratta alla sua mota

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luna di divinante gotagrido travolto nella golaobolo che tenebra immolanotte che a fuoco le sue lame arrota

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a questa altezza si conduce il giococontro la notte abbiamo aperto il fuocoperché lo sguardo venga messo a fuocodi queste sfere calibrando il gioco

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a questa guerra non si va per giocola vita che è marchiata a fuocosu questo foglio dove tutto è in giocoè la brace in cui discorre il fuoco

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prima che strida la civetta è l’orascaverai di ora in oraper fermare per sempre l’orail lampo breve che fissasti ora

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armonia ti sarà signoranei versi dove avrai dimoranel canto tuo che non dimoracontro il passo della nera signora

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teorema di beltà che ti innamoral’avvento che sogna la violadietro il paesaggio che la neve involaa questa altezza che la morte ignora

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Il sogno di Nino

a questa altezza si conduce il giococontro la notte abbiamo aperto il fuoco

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ad Angela, Rossana e Andrea Jomini

La notte che ho saputo della morte di Nino, e dopo aver visto quel volto, tanto mutevole in vita, irrigidito nella sua ultima espressione, ho fatto un sogno. C’era una bottiglia fra di noi. Il lampo dei bicchieri ravvivava l’allegria della tavola, il riflesso policromo delle stoviglie. Alle pareti, le pirografie su cui l’avevo visto così spesso chino mentre dal legno traeva quelle figure di cui poi mi faceva dono a Natale e che conservo ancora a casa mia. E di fronte a me, come tante volte nei ventun’anni e più della nostra amicizia, Nino, col capo lievemente chino, il sorriso sulle labbra, l’aria vagamente ironica, con quella sua erre arrotata parlava e parlava e parlava. E nel sogno, io pensavo: “ma adesso chi glielo dice, al Ninone, che è morto?”.Non si trattava solo del rifiuto istintivo di accettare la scomparsa di una persona cara, il modo con cui ci difendiamo e in cui reagiamo a quella maschera di fissità che è il sigillo che la morte pone sulle vicende umane. No, quel sogno mi diceva di più: diceva che ci sono uomini destinati a durare nella memoria di chi li ha conosciuti e di sopravvivere nel ricordo di chi avrà modo di averne notizia attraverso le loro opere. Uomini rari, come Nino Jomini, che hanno saputo vivere non ristretti nel proprio interesse individuale, seguendo il proprio tornaconto, pensando alla propria carriera, preoccupandosi solo della propria famiglia; ma hanno gettato uno sguardo più vasto sul mondo, hanno sognato cose più grandi di quelle che entrano in un portafoglio, hanno sperato un’alba che sorgesse per tutti, hanno agito insieme agli altri per abbattere gli steccati che impediscono al frumento dell’uomo di crescere in comune; e dunque hanno lasciato un segno del loro passaggio su questa terra perché hanno contribuito a mutare la geografia che hanno trovato, a rendere più abitabile lo spazio del nostro breve soggiorno. E quindi, lasciano un segno nell’animo di chi ha avuto la ventura di conoscerli e di coloro che verranno.Chi passerà sul luogo stesso dove la cerchia affranta dei tuoi compagni si stringeva in un abbraccio attorno a te e leggerà quella targa: Piazza Ardizzone, non potrà non ricordare la pienezza terrestre della tua figura, il passo di tutti i gradini che hai sceso e salito, delle porte cui hai bussato, delle infinite pratiche che hai avviato, delle manifestazioni che da quel lontano 27 ottobre 1962 hai organizzato perché Castano riconoscesse in quello studente, in quel sovversivo, in quel comunista partito una mattina per Milano perché voleva ribadire con la propria presenza e la propria voce il diritto inalienabile di Cuba ad esistere e finito schiacciato con tutte le sue speranze a vent’anni sotto le ruote dei camion della nostra democratica polizia, perché dunque Castano riconoscesse in Gianni Ardizzone uno dei suoi figli migliori e lo onorasse, com’è giusto, con una targa che ne perpetuasse il ricordo.“Anche il silenzio uccide”, era scritto sul manifesto di convocazione di una di quelle serate per Ardizzone cui anch’io ho partecipato -era forse il ‘78- organizzate da Nino per tenere desta la memoria. E che la memoria non andasse perduta è stata una delle cure costanti di Nino Jomini, la memoria delle vicende piccole e grandi degli uomini vissuti attorno a Castano, il paese che è stato uno dei più fedeli amori di Nino.In questa terra di Lombardia che l’inqualificabile paccottiglia ideologica leghista vorrebbe oggi isolare in un osceno quanto inverosimile culto di sangue e suolo, vivificato dalle sacre acque del padre Po, Nino, che sapeva che i fiumi scorrono per unire e non per dividere, si è sempre adoperato per gettare ponti fra questo angolo di Ticino e il resto del mondo. E a Castano sono risuonate le voci di palestinesi, cileni, nicaraguensi, cubani, irlandesi che, nel corso delle innumerevoli manifestazioni di solidarietà organizzate in paese, nella diversità dei loro idiomi, raccontavano le medesime storie di fatica, di dignità e di riscatto che Nino udiva da bambino

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dipanarsi dalle labbra dei vecchi nel dialetto scabro di queste campagne durante le lunghe sere in cui l’inverno concedeva tregua al lavoro e permetteva di riannodare i fili della memoria.Storie piccole e grandi, come dicevamo, l’epopea quotidiana di queste contrade che tanti anni dopo sarebbe rivissuta nelle canzoni di quel gruppo avventuroso di cantastorie, il Ticino Riva Sinistra, fondato da Nino, con Angela, Flavio, Canziano, Vittorio, Guglielmo, Carlòss, nomi d’allegria, che mi ricordano una buona giovinezza quando anch’io, chiamato dal mio amico, percorrevo borghi e paesini e le mie poesie si intrecciavano con le canzoni che Nino e Angela cantavano perché tutti sapessero della Giovanna Bodini, finita mutilata in un nastro trasportatore dall’avidità di uno sfruttamento feroce o del Santino della Malpaga, l’agitatore contadino, morto a pugnalate per la maggiore tranquillità di qualche latifondista.Gettare ponti fra gli uomini: questa è l’arte più grande. E Nino ne è stato maestro. Io stesso ne sono una prova vivente: se molti da più di vent’anni a Castano mi conoscono e sono diventato per così dire uno di famiglia, è stato grazie a Nino, alla costanza, all’affetto, a quel suo modo veramente maieutico di insegnare, di starti vicino senza farlo pesare -“diventerai grande, Giulio, ma non crescerai mai”, diceva qualche volta ridendo a una delle mie pagliacciate- che hanno vinto una certa naturale ritrosia del mio carattere che mi spinge spesso ad isolarmi.E invece, quando varcavi quella soglia e lo trovavi, il Ninone, affaccendato in uno dei suoi innumerevoli progetti, come quel dizionario del dialetto -“ una vera e propria lingua, Giulio”- che non ha avuto il tempo di redigere completamente, o lo vedevi attorno ai fornelli cimentarsi in quel suo modo estroso ed improbabile di cucinare, come il suo leggendario capretto al cioccolato -“una vera leccornia, vedrai”-, avevi la sensazione di trovarti veramente a casa, anche se magari passavano lunghi periodi senza vedersi -“torna presto, mi raccomando, che qui tutti ti aspettano e ti vogliono bene”-.E proprio adesso che sto scrivendo, misuro il vuoto della tua assenza, Nino, l’abisso di una perdita che nessuna parola potrà colmare.E tuttavia è ancora il ricordo che dà sostegno, o, meglio, il tuo esempio, la pazienza e la perizia di quel tuo instancabile stringere nodi, per cui ti ho ammirato e in un certo senso invidiato, tu che eri capace di unire quello che forse è più difficile collegare: e intendo le diverse generazioni, che spesso invece si fronteggiano in una reciproca incomprensione.Ebbene, grazie a te, Castano ha visto, sulle prime forse un po’ disorientata, i capelli variopinti, gli orecchini e le borchie dei giovani dei centri sociali che chiamavi in paese ad esporre le loro ragioni, ma poi ha imparato a riconoscere ed apprezzare la tenerezza e la generosità che si nascondono dietro la spavalderia dell’ultima adolescenza.E quei ragazzi, perdutamente stretti alle loro bandiere, durante i tuoi funerali, Nino, quei visi chiari rigati di lacrime, sono stati l’ultima testimonianza di un affetto che la tua grande umanità si è saputa guadagnare.L’umanità, e cioè quella ricchezza di vedute, quella curiosità che è il segno della cultura profonda, e che hanno indotto Jomini a confrontarsi con personaggi rappresentativi dell’arte e del pensiero e che hanno ancora una volta fatto del piccolo borgo, che nulla a ciò destinava, un centro vivo di discussioni e di scambi di esperienze. E sul palcoscenico di quell’ideale teatro che Castano è stata durante la vita di Nino si sono affacciati poeti come Franco Fortini e Franco Loi, filosofi come Ludovico Geymonat, musicisti come Moni Ovadia e Maurizio Dehò, cantanti come Ivan della Mea, pittori come Jean Moreau e tanti altri che sarebbe troppo lungo citare. Senza contare la miriade di iniziative che la fantasia vulcanica di quell’uomo infaticabile era in grado di mettere in piedi: le serate in biblioteca, il cabaret de “Il teatrino”, i 25 aprile senza retorica, la festa dei lavoratori con gli operai che negli anni diventavano sempre più radi perché le fabbriche chiudevano seguendo il ritmo dell’altrui arricchimento. E ancora i partigiani, i deportati dei campi di concentramento come Cesare Vismara, i medici delle associazioni del volontariato, i boy-scouts, gli studiosi della salute e dell’ambiente come Luigi Mara ... tutti con la loro voce, le loro esperienze, il contributo della ricchezza delle loro storie.

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E Lettere castanesi, il periodico voluto e fondato da Nino, esprime già nel titolo una delle indimenticabili caratteristiche di Jomini: la volontà costante di lanciare messaggi, di far giungere notizia, di far circolare progetti e proposte, di offrire strumenti perché la voce di coloro cui una organizzazione ferrea e feroce del potere la nega possa farsi sentire nell’universale chiacchiera televisiva che ci stordisce.E tutto questo animato dalla passione di comunista, di quel comunista che Nino Jomini era.E il senso del comunismo di Nino vorrei chiarirlo con le parole con cui Ernst Bloch conclude il suo capolavoro, Il principio speranza. Nino nel corso della sua esistenza si è sempre adoperato per tenere aperti i sentieri “verso quello”, e cito il filosofo tedesco, “che a tutti riluce nell’infanzia e dove nessuno ancora è mai stato: la patria”.“A tutti riluce nell’infanzia...”: eh sì, perché il piccolo dell’uomo, quando viene alla luce, circondato solitamente dall’affetto e dalle cure dei suoi genitori, pensa che il mondo sia quella cosa calda, delicata, piena di colori e di tenerezza, amorevole, materna, protettiva, che sperimenta ogni giorno in famiglia. Pensa che questo sia il paradiso, il giardino cui è destinato. E il bambino, e basta riandare ai nostri primi ricordi per accorgersene, ha chiarissima la consapevolezza, fisica prima ancora che mentale, che questo è il suo diritto.Solo più tardi, crescendo, il ragazzo e poi l’adulto impareranno che invece il mondo è una cosa dura, piena di spigoli che feriscono, solcato da divisioni feroci, livido nella freddezza dei suoi bagliori, non un giardino ma una foresta in cui ci si deve difendere, in cui occorre farsi largo a spese di chiunque ci ostacoli.E allora, preso nelle ruote di quella macina, impegnato a “guadagnarsi la vita”, come si dice con un’espressione su cui meriterebbe riflettere per rendersi conto dell’abisso di insensatezza in cui la nostra esistenza precipita, l’adulto vede a poco a poco trasformarsi ciò che nei suoi primi anni aveva avvertito con tanta imperativa chiarezza in un sogno, in una fola, in una chimera.Salvo forse una sera, tornato a casa, sfinito dal quotidiano mercato, sentire come un nodo alla gola, una nostalgia senza perché, e guardando fuori dalla finestra, vedendo in un angolo di cortile dei bambini giocare, udendo un voce argentina sciogliersi in una cantilena senza senso -...ambarabà ciccì coccò, tre civette sul comò...- capire in un lampo che forse il senso che abbiamo perduto era proprio lì, in quei giochi, in quelle voci. Ma è appunto un lampo e la cosiddetta realtà vince, come diceva il poeta, il sogno.Ebbene, il comunista, il rivoluzionario -anche se magari non ne è consapevole nei termini in cui lo esprimo io- a questo sogno è vicino, perché cerca di tradurlo in realtà. Cerca di raggiungere “la patria”: e cioè quello cui ognuno di noi ha diritto e che nell’infanzia ha intravisto. Un mondo dove non le cose che luccicano, che si possono riporre in una tasca o in una cassaforte, non il denaro, non il ruolo che l’assetto sociale riconosce a ciascuno, ignorando tutto il resto -sogni, fantasie, speranze, aspirazioni- e retribuendolo con un salario che ci rende tutti ingranaggi di un meccanismo che ci stritola perché ci accetta solo in quanto portatori intercambiabili di quella funzione, e basta; ma un mondo che sappia accogliere con un sorriso ciascuno perché di ciascuno riconosce l’unicità, la ricchezza, l’irripetibilità. Di ciascuno riconosce il volto nella propria irriducibile individualità. Nella propria umanità. Un mondo dove non si sia dei concorrenti, ma dei commensali, seduti attorno all’allegria di una tavola, dove è bello guardarsi negli occhi, bere, parlare e ricordare, come nel sogno di Nino con cui ho aperto queste note.“Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente”, scriveva a 25 anni, nel 1843, Marx al suo amico Ruge, con parole che, ad onta di tutti gli interessati becchini, non solo sono attualissime, ma esprimono una consegna imprescindibile: coltivare quel sogno e diffondere la coscienza e gli strumenti per la sua realizzazione diventano quanto mai necessari oggi, agli albori di un’era telematica come questa che minaccia di negare la nostra stessa consistenza fisica, ridotti, come spesso già accade, a terminali anonimi di qualche congegno fluorescente.

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Ebbene, Nino Jomini per tutta la vita si è adoperato perché la coscienza di una possibile liberazione divenisse una ricchezza comune nella cerchia di coloro in mezzo ai quali ha vissuto. E questo era il sogno di Nino. Questo era il suo comunismo.E allora no, Ninone, nessuno potrà dirti che sei morto, anche se il dolore della tua assenza fa vacillare il pensiero. Perché ogni volta che ognuno di noi sarà in grado di riconoscere se stesso negli altri, e a questa fraternità darà corpo indignandosi per qualsiasi situazione in cui l’uomo sia degradato, umiliato, ridotto a strumento, trattato da bestia da soma, e lotterà per rimuovere le cause di questa indignazione, allora qualcosa di te sopravviverà perché il tuo sogno sarà tenuto desto nell’opera paziente di chi cercherà di realizzarlo.Un sogno di cose semplici che -al pari del comunismo, come ben sapeva Brecht- sono le più difficili da fare. Semplici, come semplici sono le parole che la bimba sussurra nella poesia con cui il tuo amico Giulio ti saluta.Una poesia che hai sentito tante volte in vita e che mi piace pensare tu possa da qualche parte ascoltare ancora con quel sorriso che amavo sulle labbra e l’aria vagamente ironica che avevi.E se è vero che il sasso della tua morte è destinato a pesare per sempre sul cuore di chi ti ha voluto bene, è altrettanto vero che l’acqua buona della speranza seguiterà a scorrere verso la terra che a ognuno di noi è stata promessa e per raggiungere la quale è degno vivere e aver vissuto, come tu hai vissuto.Grazie, Nino.

L’acqua scorree il sasso resta

Con la sua bambolalungo il fiume

la bimba camminasussurra una canzone

...bella da nienteche sarai regina

sarai lunasarai stella

e il vento ti porteràvia

cucendoti un vestitodi rugiada e di viole

t’affiderò la mia feritaperché sbocci come un fiore

con te sarò sovranadei regni dell’aurora

aquila danzantealla periferia del sole

erba sottileaccarezzata dall’amore

farfalla taciturnache s’incendia di colori

bella da nienteche sarai regina

perché il mondo m’accolgain un riso di stupore...

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202 L’altezza del gioco

Con la sua bambolalungo il fiume

la bimba camminasussurra una canzone

E il sasso restama l’acqua scorre

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L’allodola pazza

con te sarò sovranadei regni dell’aurora

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Canterà l’allodola pazzanell’intrico dell’albai passi del mattinoe rotolando dalle dita del cielol’erba colerànell’inchiostro viventesi fermeranno i caniguaiolando di sconfortocomprendendo l’orache giunge scotendo i capellidai pollai dei campanilisull’acqua dei fiumi mulinante di fogliela polvere cadendoricorderà sospiri di deserti percorsidove si seppellirono i giardiniper non vedere la frutta nel vassoio dei soligià si intrecciano i filie le gocce di lacrimedalla barba dei vecchigiocatori di dadi e lingua di ramele lenzuola si arrotolano i sognie i corpi perduti dalle spiaggenella confusione dei campanelli e dei clacsonla voce comincia a sentirsii calzolai deporranno i ferrie le scarpe battutesonando d’amore e di violeperché la spesa non rende i suoi dentidalla sporta nelle bracciafanciulle attorcigliateai pali della lucedanzeranno coi piedi illuminando le stradecorrono incontro i fari e le automobilie i temporali sussurreranno alle guance del ventoi punti cardinali vestiti di rossoinchinando tra gli uccellile cartacce disperseuna sinfoniasui cartelli delle segnalazionidei bar e delle insegnemostrando le ossa la civiltà di stracci“buttiamo all’aria” grideranno arlecchinidesiderosi di colombine sognanti“i manicomi e le cabine”sulle panche dei cinema i garzonifaranno barricate di bottiglie

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L’allodola pazza 207

e cuori di gelofiorendo in bucaneve e giacintimolti sono i segni di avvenimenti fatali

perché canterà l’allodola pazzachiamando a raccoltala miseria delle stradevestiti a festanelle domeniche dei ristorantisi chiederanno con ansiaa che punto è cotta la carnee i bambini vorranno trottoleper farne satellitiecco si dice il secondo millennioatteso invano per sospiri di vite bruciateappese ai rami delle manidi scheletri malvagi nel sacco della nottesull’incurvarsi del bordo dei vasisi vanno spiando le ceneriè tutto un fiorire di fondi di caffèdi predizioni di sussultianche la pioggia acquista nuove canzonii bottegai non sanno più che fareabbassare le insegnee le legioni agli estremi confinisi sgretoleranno in sospiri di sonnodiserzione e valore si confondonoin un gemito

e canterà l’allodola pazzacon ali di giornali e vele di ventomescolando temporali e primaverel’inverno delle nottie i pomeriggi di solele spighe che davano panetintinneranno chiodisi capovolge l’ordine costituitochi stava in altoconoscerà i sotterranei freddi delle stazionisui barometri già il tempo spaventale grasse famiglienuovi uomini giungono dalle periferiesu biciclette di raggicantando canzoni proibitee ripetendo le gridail cielo di rame rovescia sacchi di spicciolilacerato da telefoni affannatidai grattacieli si segue la marciae occorre farsi riconoscere dalle collinedi città strette nella morsa di assedidigrignati

perché canterà l’allodola pazza

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208 L’altezza del gioco

dai campanili del temponomi paurosi si sentono nell’aria ripeteredai monelli lungo i muririfioriscono le scritte di minacciamolti non vanno in ufficioaltri temono di uscire per stradanei quartieri si ha paura delle notiziegiunte da altri quartieribarricate divideranno i padri dai figlima partoriranno nuovi e continui figlii tram sventratie le ruote non rotoleranno destiniai numeri del lottoma battaglie cifre nuovi poemiraffiche di vento salutarefaranno cadere fiori ottusisradicati dal privilegiodovunque si ripeterà prendi non chiederel’acqua santa s’è fatta nerai portinai aspettano che il galloabbia ripercosso il suo gridonell’albaper fare rifiuti di sanguee crolleranno i murile croci i questori i palazzile prigioni i presidentila festa insolitaattira le cavallette le moschee altri tipi di insetti

perché ecco che canta l’allodola pazzadai fiori e dalle cicaledalle stelle e dai seni delle fanciullesbocciando in piacere e desiderie le cartacce non contano piùi prati faranno valere i loro dirittiper essere sponda ai letti degli amantichiamando da tutti i paesici si riconosce più in frettasi invecchia di menoe ci si prende per mano

quando canterà l’allodola pazzae i saltimbanchi scoprirannoil loro volto buonorifiutando la maschera delle circostanzee del bisognonoi che ci abbracciamo già lo sogniamodurante tutti i nostri verdi e violaincubi di case e panchinedi numeri e sorrisibiascicanti le formule del consenso

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L’allodola pazza 209

canterà l’allodola pazzae i continenti disancorati dai banchi sottomariniandranno a spasso per il corso della storiamettendo l’abito buono dell’eguaglianzae della libertà