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IIIInnnnttttrrrroooodddduuuuzzzz iiiioooonnnneeee

L’Almanacco Pontremolese 2011sente il dovere di trattare un argomentoche va molto al di là dei temi locali cheè solito approfondire: il 150° anniversa-rio dell’Unità d’Italia.

Lo fa, come potrete leggere, richia-mando argomenti e momenti che sononella Storia del nostro Paese, ma anchecercando di raccontarli attraverso iricordi, gli occhi, i pensieri ed i segnitangibili che si possono raccoglierelungo le nostre strade, nelle nostre piaz-ze e dalle parole di tanti.

Permettetemi di dire che ancora unavolta l’Almanacco si offre con un toccodi originalità e con grande volontà discavare in profondità l’argomento ed ilsuo legame con il nostro territorio.

Il primo grazie per tutto questo va,come ormai da qualche anno, a GiulioCesare Cipolletta coordinatore di sestesso e dei tanti amici che ci hannonuovamente dato una mano, con entu-siasmo, competenza e passione, pertenere viva e rendere sempre stimolante

ed interessante la tradizione dell’Alma-nacco Pontremolese.

Oltre che a lui, insieme a lui, dobbia-mo dire grazie di cuore a Nicola Miche-lotti, Giuliano Adorni, Furio Tabagi,Arrigo Petacco, Salvatore Marchese,Marzia Ratti, Graziella Matteoni, i qualihanno dedicato tempo, attenzione, stu-dio a questa edizione trattando temi spe-cifici sui quali hanno redatto i preziosicontributi che si propongono al lettore.

Un particolare ricordo non può nonandare a Nicola Michelotti, uomo digrande cultura e grande conoscitoredella storia pontremolese, che ci harecentemente lasciati, ma che segnal’Almanacco Pontremolese 2011 conun’altra traccia della sua notevole edinconfondibile capacità di scrivere dellanostra terra. Da sempre “amico” del-l’Almanacco, già nel passato, avevagarantito più volte il suo apprezzatissi-mo apporto che ci mancherà molto per ilfuturo.

Un altro saluto affettuoso lo dobbia-

mo all’Avv. Spartaco Ghilardini, sociodel Centro Lunigianese di Studi Giuridi-ci, che se ne andato nell’anno appenatrascorso ed il cui dolce ricordo, la cuisignorile presenza, continueremo a por-tare con noi.

Infine, un grazie sentito va a quantialtri - Laura Bertolini, Beppe Michelot-ti, Lucia Boggi, Manuel Buttini, MarinoTrivelloni, Cosimo e Jacopo Ferri –,ognuno sentendolo proprio e dando cia-scuno il proprio contributo, anche que-st’anno hanno “spinto” l’Almanacco inavanti verso il nuovo anno.

Un abbraccio a Voi tutti ed un caloro-so augurio di un buon Natale e di unsereno anno nuovo.

Francesco SorrentinoVicepresidente

del Centro Lunigianese di Studi Giuridici

Almanacco Pontremolese 2011 - Anno XXXIII

Edito da: Teleapuana s.r.l. e C.N.F.G.P.S.

Curato da: Centro Lunigianese di Studi Giuridici e Il Lunigianese

Stampa: Tipografia Artigianelli Pontremoli

In copertina e ultima di copertina: Oleografia di Gualassini e Bertarelli, Milano, (fine 800).

Si ringraziano: tutti gli autori dei testi sopra citati, Enrico Ferri, Laura Bertolini, Giuseppe Michelotti, Manuel Buttini, Lucia Boggi,Cosimo e Jacopo Ferri, Luciana Bertocchi e Settimia per la loro gentilezza.

Hanno collaborato a questo numero dell’Almanacco Pontremolese:

Giulio Cesare Cipolletta, Nicola Michelotti, Giuliano Adorni, Furio Tabagi, Arrigo Petacco, Salvatore Marchese, Marzia Ratti, Graziella Matteoni,

Cristiana Maucci,

Enzo Giorgi e Maura Tonelli,

Roberto Bucella, Roberto Colombani, famiglia Ghelfi e Di Battistini per le opere prestate.

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di Giulio Cesare Cipolletta

Nazione, Patria, Unità, Famiglia. Misembra che l’argomento oggetto del-l’Almanacco 2011 si presti ad un utiliz-zo di termini tutti con le iniziali maiu-scole, come anni fa ci insegnavano allescuole elementari.

Inevitabilmente, parlare dell’Unitànazionale richiama alla memoria paroled’ordine, slogan, frasi ad effetto che, inqualche modo, hanno fatto storia e laStoria. E che ci impone di affrontareargomenti in qualche modo desueti, nonpiù attuali, ma pur sempre legati allenostre origini, ai ruoli avuti nella forma-zione del nostro Paese.

Il 2011 è il 150° anniversario dell’U-nità d’Italia e l’Almanacco Pontremole-se intende inserirsi nel novero dellecelebrazioni di questo evento storico.

Un evento che qualche parte, socialee politica, contesta o snobba.

Lungi da me il desiderio di affronta-re argomenti con spirito polemico, non èquesta la mia intenzione, né intendocoinvolgere l’Almanacco in discussionidi natura politica; tuttavia, è un dato difatto che il dibattito che da qualche annosta interessando la classe politica – piùche l’insieme e i singoli cittadini –appare quello delle spinte autonomisti-che e del federalismo.

Un dibattito che, in larga misura,appare di segno contrario rispetto allacelebrazione, all’esaltazione, dell’Unitàd’Italia, della coesione nazionale.

In questo Almanacco non si vuole inalcun modo parteggiare per l’una o l’al-tra delle posizioni politiche sottostantiuna visione italiana come unitaria odivisa, ma solo cercare di collocare,come è naturale per una pubblicazionedi rilievo locale, la Storia generale e iltema dell’Unità d’Italia entro i confinidi Pontremoli e della Lunigiana, perquanto è possibile.

Come per tutti i grandi eventi della

storia, può essere utile parlare degliavvenimenti, per contestualizzare gliepisodi, per intavolare momenti diriflessione, di rivisitazione, di rivaluta-zione.

Siamo nel pieno svolgimento delgrande argomento storico delle celebra-zioni del 1861, l’anno in cui si ha la pro-clamazione di Vittorio Emanuele IIquale primo re d’Italia, e che ha portato,anno dopo anno, scelta dopo scelta,evento dopo evento, a quello che siamooggi.

150 anni, sembrano tanti ma forse inostri bisnonni erano nati a cavallo diquella data; qualcuno dei nostri genitoriha magari sentito racconti di quei perio-di da qualcuno della sua famiglia.

Una storia che in qualche modo èvicina a noi nel tempo.

Ma che è vicina a noi anche nellospazio, poiché tutti i luoghi sono statiinteressati dal Risorgimento, dai motipopolari, interessati a una guerra di uni-ficazione, attraversati dalle truppe gari-baldine.

Garibaldi, appunto.Non vi è città d’Italia che non abbia

una via o una statua a lui dedicata, ovve-

ro una targa che ricordi il suo passaggioo una sua sosta in quei luoghi. Pratica-mente, Garibaldi è stato ovunque equindi può dirsi che appartenga a tutti,qualunque sia il valore storico che sivoglia attribuire, nel bene e nel male,alla sua figura.

In senso analogo e contrapposto, lafigura storica del re, di Cavour, Giolitti,Cattaneo, Mazzini e via elencando.

Uno stravolgimento epocale, favori-to e giustificato da tutta una serie dimotivazioni e rivendicazioni che, a par-tire dalla rivoluzione francese del 1789,ancor prima dal periodo dell’Illumini-smo, hanno attraversato tutti gli statieuropei, in diversa misura e intensità,ma con analoga forza dirompente.

In quel contesto storico, anche Pon-tremoli e la Lunigiana hanno fatto laloro parte.

Pontremoli, che qualche decennioprima era stata dichiarata Città nobiledal Granduca Pietro Leopoldo di Lore-na; che, dopo la venuta delle truppenapoleoniche e la Restaurazione, passadal Granducato di Toscana all’annessio-ne al Ducato di Parma, fino all’Unitàd’Italia.

Un almanacco di approfondimentostorico, un anno di riflessione sui gran-di temi che hanno fatto l’Italia, su unpopolo divenuto nazione.

Rivolgere lo sguardo al passato, aimomenti fondanti il nostro Stato, signi-fica anche interrogarsi sul futuro, sullascelta della direzione che vogliamoimprimere al nostro domani.

Un futuro di unità, nel solco di colo-ro che con le loro idee, azioni, sacrifici,hanno combattuto per un’Italia unita;oppure un futuro disgregato, di sensibi-lità e destini differenti. Spetta a noi, aciascuno di noi, agire e operare in unsenso o nell’altro, nella consapevolezzadel nostro passato e della direzione cheall’Italia hanno dato i nostri progenitori.

Buon anno e buona lettura.

PPRREEFFAAZZIIOONNEE

AALLMMAANNAACCCCOO 22001111

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PPPPOOOONNNNTTTTRRRREEEEMMMMOOOOLLLLIIIIPPPPRRRRIIIIMMMMAAAA DDDDEEEELLLLLLLL’’’’UUUUNNNNIIIITTTTÀÀÀÀ

di Nicola Michelotti

Per effetto del Trattato di Vienna del9 giugno 1815 Pontremoli era tornata afar parte del Granducato di Toscana ma,avvenuta la Restaurazione, nella popo-lazione “prese invero a manifestarsi uncrescente senso di disagio e di insoddi-sfazione; non erano pochi coloro cheavevano militato sotto le bandiere napo-leoniche vivendo l’atmosfera eroica diquegli anni”.

Quel disagio era ancora ben lungi dalmutarsi in fermento e quindi in som-mossa perché il governo comunque rea-lizzava opere pubbliche a vantaggio delpopolo e della situazione economica delterritorio: la trasformazione in pubblicoOspedale del vecchio Convento del Car-mine (1818); la ricostruzione del Pontedi Cima e l’allargamento e l’alberaturadella strada – oggi via dei Mille – daquel ponte alla salita dei Cappuccini(1825); l’impianto dell’illuminazionepubblica a petrolio (1829).

Nel 1832, anno della visita di Leo-poldo II alla città, era stata disposta lacostruzione della strada Pontremoli-

Aulla-Ceserano, alla quale si dava parti-colare importanza per il previsto svilup-po economico dell’Alta Lunigiana.

Nel frattempo, si stava realizzando lastrada per Parma e sino a Sarzana, rite-nuta una via di comunicazione strategi-ca tra la Lombardia e il Tirreno.

Proprio in quell’anno 1832 prendevaa diffondersi la Giovine Italia che Maz-zini aveva fondato l’anno prima a Mar-siglia; la propaganda di questo movi-mento giunse anche a Pontremoli e nel-l’Alta Lunigiana che, proprio per la loroposizione geografica di confine con ilRegno Sardo e i Ducati di Parma e diModena, erano particolarmente soggettiagli influssi delle Società segrete.

La stessa Carboneria aveva in que-sto ambiente non pochi affiliati, alcunidei quali appartenevano a famiglie del-l’alta borghesia, già noti per aver parte-cipato ai moti parmensi del 1831.

Intanto, i fermenti in Toscana si face-vano sempre più aspri e in Lunigiana lospirito di agitazione veniva diffuso,negli anni vicini al 1840, da un gruppodi intellettuali pisani, tra i quali l’ing.Rodolfo Castinelli e i fratelli Ruschi(uno dei quali, Leopoldo, sposerà Cate-

rina, la figlia del marchese Luigi Pave-si).

Nel settembre 1847 veniva istituita aPontremoli la Guardia civica e si issavala bandiera dotata del motto ReligionePrincipe Patria, inneggianti a Pio IX e aGioberti; nell’autunno dello stesso 1847venne pubblicato il testo del baratto, gliaccordi segreti stipulati a Firenze il 28novembre 1844, che riguardavano, tral’altro, il passaggio al Ducato di Parmadei possedimenti granducali ed estensisituati nell’Alta Val di Magra, corri-spondenti agli attuali Comuni di Pontre-moli, Zeri, Mulazzo, Filattiera, Villa-franca e Bagnone.

La reazione si scatenava immediata-mente a Pontremoli che si mostravaincredula, tenuto anche conto delle piùrecenti opere disposte a suo favore dalgoverno di Firenze, come la sistemazio-ne delle strade del centro cittadino deglianni 1841 e 1843 e l’istituzione del Tri-bunale di Prima Istanza, già esistito nelperiodo napoleonico e ripristinato nel1840 con motu proprio granducale.

Anche a Fivizzano si era contrariall’idea di essere trasferiti nel Ducato diModena e in più parti venivano segnala-ti episodi di ribellione e intolleranza.

La mattina dell’11 ottobre 1847 ungruppo di carbonari e liberali, alla cuitesta vi era Leopoldo Ruschi, si recavadal Gonfaloniere Luigi Bocconi insegno di protesta ufficiale; venne istitui-ta una Commissione per rappresentareal Granduca di Toscana la volontà dellacittadinanza.

Di tale Commissione facevano parteil Vescovo Mons. Orlandi, lo stessoGonfaloniere e notabili pontremolesi: ilcons. Giovanni Bologna, il gen. France-sco Caimi, il conte Michele ReghiniCosta, l’avv. Bernardo Reghini.

Il popolo era spaventato al pensierodi cadere sotto il governo di CarloLodovico di Borbone il quale, dagli agi-tatori politici di quel tempo, era dipintoda tiranno e ritenuto contrario alle rifor-me.

Il Granduca, ricevendo la Deputazio-

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Maria madre di Dio

S. Basilio

S. Genoveffa

S. Ermete

S. Amelia

Epifania del Signore

S. Luciano

S. Massimo

S. Giuliano

S. Aldo

S. Igino

S. Modesto

S. Ilario

S. Felice

S. Mauro

S. Marcello

S. Antonio

S. Liberata

S. Mario

S. Sebastiano

S. Agnese

S. Vincenzo

S. Emerenziana

S. Francesco di Sales

Conv. di S. Paolo

SS. Tito e Timoteo

S. Angela

S. Tommaso

S. Costanzo

S. Martina

S. Geminiano Patrono di Pontremoli

Gennaione pontremolese, si rivolgeva al Gonfalo-niere dicendo “Caro Bocconi, se potessicomprare, comprerei; ma non siamo noiche facciamo i confini!”.

Alla notizia dell’insuccesso della spedi-zione a Firenze si organizzarono a Pontre-moli manifestazioni e comizi, sotto la regiadel rettore della parrocchia cittadina di SanColombano, don G. Matteo Farfarana e delsagrista della Cattedrale, don Luca Pellic-cia; venne deciso di mandare una secondaambasceria la quale, unitamente ai rappre-sentanti di Bagnone e Fivizzano, si recò aLucca dove il giorno 14 il Granduca sisarebbe recato per essere festeggiato daisuoi nuovi sudditi; ma anche questa secon-da petizione rimase senza risultato.

La conclusione di questi avvenimenti ènota: le proteste e le dimostrazioni di piaz-

za non erano valse a modificare quanto erastato deciso, né aveva dato un contributoeffettivo il reclutamento della GuardiaCivica “per conservare il buon ordine e lapubblica tranquillità”.

La confusione aumentava con la minac-cia “di suonare le campane a martello perchiamare il contado a bruciare Pontremo-li”, di disporre affinché un consistentenumero di armati si portasse alla Cisa,pronto a fronteggiare le truppe parmensiche si fossero affacciate. Con questo statod’animo della popolazione, con le posizio-ni tenute dalle autorità e dal clero locale,Pontremoli non era più – all’alba del 1848– l’addormentata città di alcuni anni primama era ormai matura e pronta a eventimaggiori e pienamente consapevole chegli interessi austriaci non potevano concor-

dare con la nuovalinea che si stava trac-ciando negli stati ita-liani.

Non appena giun-geranno a Pontremolinella primavera del-l’anno 1848 le primenotizie dell’insurre-zione di Milano edegli eventi parmensi,il popolo darà luogo anuovi e più fortitumulti, questa voltadecisivi: sotto la spin-ta dei sempre presentiRuschi e Castinelli,provvederà a varareun governo provviso-rio (formato dall’avv.Vincenzo Bianchi, dalnobile Antonio Bolo-gna, dall’avv. Raffael-lo Reghini, da donFarfarana e dal dott.Leopoldo Ruschi), ilcui primo atto saràquello di proclamarela destituzione diCarlo Lodovico e dichiedere alla guarni-gione parmense l’ab-bandono della città.

Parma perdeva cosìla città di Pontremolima la riavrà nell’apri-le dell’anno dopo e laconserverà per diecianni, fino al 1859.

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LLAA LLUUNNIIGGIIAANNAA AALLLLEE OORRIIGGIINNIIDDEELL RRIISSOORRGGIIMMEENNTTOO

di Giuliano Adorni

L’età napoleonica era stata unaparentesi fugace, contrassegnata daentusiasmi diffusi e poi da sentimenti ditradimento; in Lunigiana è vissuto unpersonaggio che sembra riassumerenella sua storia pubblica questo deterio-ramento di rapporti: Giovanni Fantoni,l’arcade-giacobino di Fivizzano, in gio-ventù focoso sostenitore dei liberatorid’oltralpe, poi, con lo scorrere deglianni, fiero rivendicatore dei diritti cal-pestati dei suoi compatrioti italiani.

I plenipotenziari che si erano riuniti aVienna, dopo aver relegato Napoleonenell’isola di S. Elena usque ad mortem,avevano interpretato la disillusione deipatrioti come un inconfessato rimpiantodel buon tempo antico, riconsegnando iterritori della penisola ai loro padronistorici, Asburgo, Estensi, Borbone,Savoia. Solo i Malaspina, perduti i lorostorici feudi all’arrivo dell’esercitonapoleonico, conclusero la plurisecolarestoria di potere e vennero riassorbitiquasi insensibilmente nei ranghi dellacomune umanità.

Con la Restaurazione, la Lunigianacosiddetta feudale, in seguito alla rinun-cia di Maria Beatrice d’Este, duchessadi Massa e principessa di Carrara, ebbecome sovrano il figlio, Francesco IV,duca di Modena, il cui regno fu allarga-to alle comunità un tempo dei Malaspi-na: Aulla, Fosdinovo, Licciana, Poden-zana, Ponte Bosio, Mulazzo, Tresana,Treschietto, Rocchetta e Villafranca.

Francesco IV visitò più volte questiterritori ed ebbe così modo di valutaredi persona le tristissime condizioni incui si trovavano i suoi sudditi in questotriennio (15/18) funestato, secondo icronisti del tempo, da eventi meteorolo-gici disastrosi e da raccolti miseri e dipessima qualità; falcidiati da una graveepidemia di tifo petecchiale, dottamenteillustrata da un medico lunigianese, ori-ginario di Giovagallo di Tresana, Vin-cenzo Porrini, in quegli anni attivo nel

nosocomio di Pontremoli.La Lunigiana ritrovò nell’arciduca

austriaco e granduca di Toscana, Ferdi-nando III, un amministratore saggio emoderato, sostanzialmente benvolutocome i suoi predecessori; un cronistadel tempo ci ha lasciato testimonianzadel calore con cui venne accolta lanomina dalla comunità di Fivizzano,soprattutto dalle classi popolari le qualivollero ringraziare solennemente e pub-blicamente la Madonna di Reggio, perl’auspicato ritorno.

Questa sistemazione del territoriodella Lunigiana durò fino al ‘47, quan-do, morta Maria Luigia, duchessa diParma, si applicarono gli accordi tra leparti stabiliti tre anni prima in un conve-gno segreto a Firenze. In base ad essi ilgranduca di Toscana incamerò Lucca erinunciò ai suoi domini lunigianesi;Lodovico di Borbone, lasciata la cittàtoscana, divenne duca di Parma esten-dendo la sua giurisdizione sull’altaLunigiana (Pontremoli, Zeri, Filattiera,Bagnone, Mulazzo, Villafranca); quelloche rimaneva della Lunigiana fiorenti-na, cioè i territori di Fivizzano, Albiano,Calice e Terrarossa passarono agliEstensi di Modena, dove, alla morte di

Francesco IV, il 22 gennaio 1846, erasucceduto l’erede Francesco V. Se con-sideriamo che alla morte di Maria Bea-trice nel ‘29, anche Massa e Carraraerano confluite sotto la dominazioneestense, ci rendiamo conto della consi-stenza territoriale acquisita da questadinastia che concluderà la sua storiasoltanto alla fine della seconda guerra diindipendenza.

Al di sotto di questa coltre di elegan-ti rapporti diplomatici e di questa pacifi-cazione perseguita dalle dinastieregnanti nella penisola, sopravvivevanominoranze irrequiete, isolati gruppi checlandestinamente, d’intesa o in concor-renza con la settecentesca massoneria,tenevano vivi gli antichi ideali (libertà,uguaglianza, fraternità), traditi daNapoleone ma ancora suggestivi. Neglianni venti si ebbero i primi segnali dirinascita rivoluzionaria: da Madrid, aNapoli, a Torino, a Milano, a Modena,questi gruppi, uscendo dalla clandestini-tà e cercando intese con i principiregnanti, riuscirono ad ottenere unacostituzione, una carta significativa sulpiano formale in quanto trasformava incostituzionale il potere assoluto vigente.Ma da queste sommosse la Lunigiananon fu coinvolta.

Negli anni 1830-31 si ebbe la con-giura di Modena, che vide la partecipa-zione di Ciro Menotti e l’iniziale soste-gno del duca Francesco IV; ma, comenel ‘22, l’esercito austriaco scese ariportare i sovrani sui loro troni ed aconsegnare i capi dei ribelli alla giusti-zia punitrice dei tribunali. A questa con-giura parteciparono due lunigianesi, natiad Apella (terra estense dal 1413), iquali da tempo si erano trasferiti edaffermati a Modena; l’uno, BiagioNardi era un notaio che rivestì la caricadi dittatore per l’emergenza di queigiorni; l’altro, Anacarsi Nardi, giovanenipote, anch’egli laureato in legge, glifu accanto come segretario. Entrambidovettero fuggire in esilio, a Corfù, peraver salva la vita.

Anacarsi, dopo qualche anno, nel

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‘44, seguirà i fratelli Bandiera nella lorotemeraria avventura nel Meridione; sbarca-to in Calabria, scoperto ed arrestato unita-mente ai suoi compagni, venne fucilatocon altri otto nel vallone di Rovito, pressoCosenza.

Nella propaggine lunigianese del Duca-to non successe nulla di clamoroso allaluce del sole, ma Aulla, come comunità,pagò un prezzo per quanto era stato trama-to mentre il Granduca era in fuga; per ordi-ne sovrano essa non fu più sede del gover-no estense in Lunigiana; venne scelto ilborgo di Fosdinovo i cui abitanti si eranocomportati con grande lealtà.

Più pesante era stato l’intervento diModena nei confronti dei cittadini di Fiviz-zano che nel ’47 passarono dal governotoscano a quello Estense. Ai primi di feb-braio del 1847 le truppe di Francesco V, daun anno circa al potere, erano giunte aFivizzano per imporre il nuovo dominio;con scarsa diplomazia il loro comandanteGiovan Battista Guerra si scontrò verbal-mente con i carabinieri toscani, non ancorapartiti, e fece arrestare il loro sergente,certo Pietro Zannoni. Diffusasi la notizia, ilpopolo insorse reclamando il suo rilascioma il capitano Guerra fece sparare suidimostranti; due giovani furono uccisi, trerestarono feriti. Il suo cinico commentogiustificativo fu: “Questa lezione eranecessaria a darsi”.

I fatti di Fivizzano destarono moltomalumore in Lunigiana e in particolareeccitarono gli animi dei Pontremolesi, con-dannati anch’essi a lasciare Firenze per unadinastia, i Borbone di Parma, che non ama-vano. I borghi dellaLunigiana, dai più pic-coli come Albiano, Calice e Terrarossa, aipiù popolosi come Bagnone, Pontremoli,Fivizzano non si rassegnarono alle novitàloro imposte e pur di non perdere l’ammi-nistrazione fiorentina intrapresero tutte leiniziative possibili, formando anche unadelegazione che si recò prima a Firenze,poi a Lucca per chiedere il ritorno delGranduca nei territori lunigianesi, ma tuttofu inutile.

Era ormai nell’aria il clima politico cheavrebbe portato i sovrani degli staterelliitaliani a concedere una carta costituziona-le, a tentare un accordo doganale che favo-risse gli scambi commerciali e, almenonella prima fase, ad approvare un concorsomilitare alla impresa di Carlo Alberto fina-lizzata alla cacciata dell’Austria dal Lom-bardo Veneto. Ma fu una stagione di gene-rose illusioni e, conseguentemente, diamare sconfitte; tuttavia fu anche unmomento fondamentale di riflessione e diimpegno per i pochi italiani che, nonostan-te tutto, pensavano che il destino della loronazione, come quello di altri popoli euro-pei, in forma confederale oppure accentra-ta, fosse quello dell’Unità.

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DDDDIIIIAAAARRRRIIIIOOOO GGGGAAAARRRRIIIIBBBBAAAALLLLDDDDIIIINNNNOOOOPPAARRTTEE PPRRIIMMAA

di Furio Tabagi e Giulio Cesare Cipolletta

È l’alba, siamo in mare da giorni etra poco avvisteremo la terra di Sicilia.Un’alba diversa da quella del 5 maggionella quale siamo partiti, quella eraun’alba di Liguria, un’alba fredda, livi-da, nella quale la stessa aspettativa delsole era assente. Era un mare grigioargento, immobile sotto un cielo dipiombo, quello che ci ha visto salire abordo dei piroscafi Piemonte e Lombar-do, della compagnia Rubattino di Geno-va, nuvole nere gonfie di acqua, prontea scaricarsi su di noi. Un’alba che sus-surrava di non partire, di restare, di nonandare a combattere. Un’alba che tiaccarezzava in modo suadente, un’albaaustriaca e borbonica, perché le albe

scure non sono fatte per i sogni.Quella di oggi è un’alba luminosa,

un’alba che preannuncia un caldo torri-do, che ci consentirà di dare battagliacon il sole in faccia, di vedere il biancodi paura dei loro occhi, il volto dei nostrinemici, il nostro stesso volto in quello dichi punta i fucili contro di noi.

Sono nato tra i monti, in campagneverdi in cui lo sguardo è interrotto sem-pre da alte pareti splendenti di bianco.Davanti a me ho sempre avuto il mare, ilsuo respiro lento e a volte affannato, manon l’avevo mai percorso, così liquido emutevole. Una vita passata a lavorare laterra, sempre con la schiena china, a par-lare con gli animali, io stesso a viverecome un animale. Sono forse l’unicocontadino tra tanti borghesi, gente cheha studiato, che ha girato il mondo, lemie motivazioni sono diverse ma uguale

è la determinazione, il desiderio di parti-re, di fare. Crediamo, questa è la nostraspinta. E credendo, andiamo.

E ora qui, per la prima volta a cam-minare sull’acqua, a testa alta, con unobiettivo davanti che non si risolve solonel domani immediato, fortificati nellanostra fede in lui, nel nostro salvatore. Ècome un’energia immane, lo guardi enon ti rendi conto di come sia possibile,quale sia la forza che lo porta avanti,quale sia la forza che riesce a dare.

L’altro giorno, il 5 maggio sul Pie-monte, lo guardavo, di spalle, mentreattendevamo impazienti, insofferentiormai, il segnale del nostro comandantee mi sono chiesto, forse per la milione-sima volta, dove ci porterà, in qualeimpossibile impresa ci sta conducendo.È piccolo di statura, i pochi capelli incima alla testa nascosti da un berretto,

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lasciati crescere lunghi sulle orecchie, unabarba poco curata. Un uomo insignifican-te, se vogliamo, di quelli che incontriovunque in qualsiasi paese.

Ma quando si gira e ti guarda, occhinegli occhi, il mondo visuale non ha piùconfini e non riesci più a distogliere losguardo dal suo volto. Ti cattura, ti riempiela mente con i suoi ragionamenti, con larotondità delle sue parole, con la forza deisuoi discorsi.

E allora credi, e allora vedi il suo sogno,lo fai tuo, lo vivi.

Unire l’Italia, farne una sola, l’Italiadegli italiani, l’Italia agli italiani. Non piùnord contro sud ma un unico confine, den-tro noi e fuori tutti gli altri, francesi, spa-gnoli, austriaci, inglesi; mai più divisioni,mai più tutti contro tutti, mai più fratellicontro fratelli. Pochi chilometri di distanzatra i luoghi di nascita non bastano a giusti-ficare lotte e divisioni, odio e guerre, pernoi che siamo tutti discendenti dellaMagna Grecia, di un unico popolo italico,figli di una stessa lupa che ci ha offerto ilsuo seno, contaminati dal sangue barbaro,invasi più e più volte dagli stessi popoli delnord e dell’est.

Tutti sono passati di qui e tutti sarebbe-ro voluto rimanervi.

È il nostro turno, ora, di combattere elottare, di morire per gli ideali di tutti, per

avere un unico suolo, un’unica terra, ununico popolo. È questo quello che pensiquando lo guardi, attratti dalla sua forza,un unico sentimento con mille cuori chebattono insieme, mille cuori che battonoper uno.

Non so nuotare ma non ho paura delmare, non ho mai sparato ma non temo ilmomento in cui dovrò premere il grilletto,il fucile sarà la mia penna per scrivere lastoria, sarà il mio aratro per tracciare ilsolco, sarà la mia voce per gridare libertàcontro la tirannia e l’oppressore, il miosangue sarà nutrimento e concime per lanuova Italia.

Un’Italia sola, unica e indivisibile.Ma oggi il mio cuore è oppresso, stretto

da una morsa d’angoscia, mentre dovreiessere esaltato; siamo partiti per scrivere lastoria, per cambiare il mondo, ma dentro dime sento ora soltanto il peso dell’incertez-za. Non è la paura di perdere la vita, non èil timore dell’ignoto, di questo viaggio nel-l’immenso mare, ma l’incertezza. Cosasuccederà quando arriveremo, se arrivere-mo?

I miei fratelli siciliani, e calabresi elucani, campani e ancora più su, figli comeme della terra, che parlano con la terra conaltri accenti ma con la stessa urgente fame,che la bagnano con lo stesso sudore e fati-ca, capiranno che le mie parole di libertà

sono pronunciate anche per loro?Capiranno che le nostre camicie,

rosse del sangue versato nei secoli,rosse come la fatica nei campi, comela rabbia di chi non ha nulla, rossecome una fame alimentata da gene-razioni intere, sapranno vestire anchei loro corpi nudi? Ci accoglierannotra poco con forconi e fucilate, oppu-re con grida di gioia? Vedremo sven-tolare bandiere di libertà o cappi aiquali appendere i nostri corpi? Mar-ceremo fino a Palermo oppure reste-remo a concimare questa terra?

Ecco, le isole di Favignana,Levanzo e Marettimo, ecco laggiùTrapani, ecco il poco mare che cisepara da Marsala, il porto del nomedi Dio.

Fra poche ore sapremo. È l’11maggio 1860, lo scrivo nel mio dia-rio, la data in cui faremo l’Italia, omoriremo.

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S. Turibio

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S. Teodoro

S. Augusto

S. Sisto III

S. Secondo

S. Amedeo

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IIIILLLL RRRREEEEGGGGNNNNOOOO DDDDEEEELLLL NNNNOOOORRRRDDDD

di Arrigo Petacco

L’interrogativo di un’Italia federale onazionale era al centro del dibattito poli-tico e culturale già agli albori del Risor-gimento e, proprio alla vigilia dell’unitànazionale, era stata sul punto di realiz-zarsi una confederazione ita-liana.

In un incontro segreto del21 luglio 1858, svoltosi aPlombières, tra NapoleoneIII e Cavour, la Francia e ilRegno di Sardegna avevanodeciso un’alleanza finalizza-ta alla creazione di tre distin-te Italie: la creazione di unRegno del Nord, sotto lasovranità di Casa Savoia, chesi sarebbe esteso fino all’I-sonzo, comprendendo tutta lavalle del Po, i Ducati e partedelle legazioni pontificie.

La costituzione di unRegno dell’Italia centralecon capitale Firenze, compo-sto dalla Toscana, dall’Emi-lia e dai rimanenti Stati delpapa, da affidare al cugino diNapoleone, principe Girola-mo, il quale si sarebbe unitoin matrimonio con MariaClotilde di Savoia, primoge-nita di Vittorio Emanuele II.

La conservazione delRegno dell’Italia inferiorenegli antichi confini del Regno delleDue Sicilie sotto la corona dei Borboneo, eventualmente, affidata ad un altrocugino di Napoleone, Luciano Murat,figlio di Gioacchino, l’ex re di Napolifucilato dai borbonici nel 1815.

Allo Stato della Chiesa sarebberorimasti soltanto Roma e il territorio cir-costante ma al papa sarebbe stata offer-ta la presidenza onoraria della confede-razione italiana comprendente i tre

Stati. Si può dire che erano state le cla-morose vittorie di Napoleone I a risve-gliare gli italiani dal lungo sonno in cuierano immersi da secoli. Ma si eracomunque trattato di un risveglio locale,non nazionale, poiché, anche se l’usodella stessa lingua accomunava almenole classi colte della penisola, null’altro

esisteva che spingesse gli italiani a con-siderarsi componenti di una medesimanazione.

Dopo il 1815, con la Restaurazione,il Congresso di Vienna aveva ricolloca-to sui troni italiani i vecchi sovrani asso-lutistici che le baionette francesi aveva-no cacciato via.

I trattati di Vienna, dettati dal mini-stro degli Esteri austriaco KlemensWenzel Metternich con la precisione di

un notaio impegnato a suddividere unasse ereditario, avevano ridiviso la peni-sola in nove Stati attribuendoli, salvo iSavoia, ad amici o parenti dell’impera-tore austriaco.

Il mosaico che ne era sortito risulta-va così composto. Il Regno di Sardegna,che riottenne il Piemonte e la Savoia,

oltre ai territori della exRepubblica di Genova, era ilsolo Stato autonomo sotto lasovranità dei Savoia. Vennecostituito il Regno Lombar-do-Veneto come provinciadell’Impero asburgico che daquella posizione di forzapoteva esercitare la suainfluenza sull’intera penisola.Il Ducato di Modena era statorestituito a Francesco IV,figlio di Ferdinando d’Austriache erediterà nel 1829 ancheil Ducato di Massa e Carraraaffidato come vitalizio a suamadre Maria Beatrice d’Este.Il Ducato di Parma Piacenza eGuastalla era stato assegnato,sempre come vitalizio, aMaria Luigia d’Asburgo-Lorena, figlia dell’imperatored’Austria e vedova di Napo-leone. Il Granducato di Tosca-na era tornato alla Casa diLorena con Leopoldo II, nipo-te dell’imperatore d’Austria.Nel Principato di Lucca erastata parcheggiata Maria Lui-

gia di Borbone in attesa che la mortedella granduchessa Maria Luisa consen-tisse a suo figlio Carlo Ludovico di tra-sferirsi a Parma lasciando Lucca alGranducato di Toscana.

Il papa riebbe gli Stati della Chiesache comprendevano il resto dell’Emilia,la Romagna, le Marche, l’Umbria e ilLazio. Infine, il Regno di Napoli, ribat-tezzato “delle due Sicilie” per sopire lerivendicazioni autonomiste dei siciliani,

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era stato restituito ai Borbone, anch’essilegati saldamente all’Austria.

In questo quadro politico, fortementeinfluenzato dall’egemonia austriaca, si sal-dano gli interessi francesi e piemontesi.

Cavour era ben lungi dall’essere il tes-sitore dell’unità nazionale, come vienetalora presentato; egli non ambiva affatto aunire l’intera penisola in un corpo unico,poiché non solo la considerava irrealizza-bile ma la considerava una tragica corbel-leria.

Ciò che gli stava a cuore era soltanto ilfuturo del Regno di Sardegna che, strettocom’era fra le Alpi e gli Appennini, potevaespandersi in una sola direzione, lungo lalinea del Po e fino all’Adriatico, a spesedell’Austria.

Per giungere a questo obiettivo, condi-viso dallo stesso re Vittorio Emanuele II, alquale interessava dilatare i confini del pro-prio regno, era necessario allearsi con laFrancia e scatenare una guerra control’Austria e rivoluzionare la carta geopoliti-ca dell’Europa.

Un programma ambizioso ma fallitoper l’opposizione di Francesco II, re diNapoli, il quale, nel pieno della secondaguerra d’indipendenza, presa visione del

progetto che allargava i confini del suoRegno oltre il fiume Tronto, con l’annes-sione dell’Umbria e delle Marche a scapi-to dello Stato della Chiesa, rifiutò gridan-do al sacrilegio.

La situazione di stallo fu risolta daFrancesco Crispi, un siciliano trasferitosiin Piemonte, che si rivolse a Garibaldi e loconvinse a organizzare una spedizione inSicilia, da lui ritenuta matura per la rivolu-zione.

Una spedizione verso la quale il conteCavour tenne un ambiguo atteggiamentoma che incontrò il favore di Vittorio Ema-nuele, al quale solleticava l’eventualità diriunire sotto la corona dei Savoia l’interapenisola.

Dopo il rifiuto di Francesco II, fu pro-prio l’inattesa conquista del Regno diNapoli da parte di Garibaldi a vanificaredefinitivamente il progetto di Cavour, puravendo egli fatto tutto quanto gli era statopossibile per impedire al Generale di rea-lizzare la sua folle impresa, giungendosino alla richiesta di arrestarlo.

Anche dopo la conquista della Sicilia,Cavour aveva continuato a sperare chequella avventura abortisse, tenendosi pron-to a sconfessare i rivoluzionari garibaldini,

pur di veder realizzato ilsuo progetto politicolimitato alla creazione diun Regno del Nord cheassorbisse la parte piùricca della penisola efosse inserito in un siste-ma federale che dovevacomprendere gli altristati italiani.

Da un progetto fede-rale, dalla Lega delle treItalie, si è quindi giuntiquasi per caso, per il suc-cedersi degli avvenimen-ti storici, politici e mili-tari, a piemontesizzarel’Italia intera, a farnascere dal precedentemosaico un’Italia unita,libera dall’egemoniaaustriaca e riconosciutanel mondo come unoStato con piena libertà ecapacità di autodetermi-nazione.

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S. Ermogene

S. Adalgisa

S. Anselmo

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S. Giorgio

Pasqua

Lunedì dell’Angelo

S. Cleto

S. Zita

S. Valeria

S. Caterina

S. Pio V

Apri le

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DDDDIIIIAAAARRRRIIIIOOOO GGGGAAAARRRRIIIIBBBBAAAALLLLDDDDIIIINNNNOOOOPPAARRTTEE SSEECCOONNDDAA

di Furio Tabagi e Giulio Cesare Cipolletta

È il 27 luglio, la Sicilia è stata con-quistata, ora risaliamo la penisola, versoNapoli, verso Roma, per affrontareancora le truppe borboniche, quellepontificie.

Sono vivo, siamo vivi, quasi tutti.Ma ora siamo molti di più, nonostante itroppi morti, la causa di Garibaldi haconquistato i siciliani e ora parecchi pic-ciotti sono insieme a noi, nelle nostrestesse fila, contro il nemico comune.

Quando siamo sbarcati a Marsala,alle 13.15 dell’11 maggio, ormai unsecolo fa, solo le navi inglesi hannoassistito al nostro sbarco, i borbonicinon si sono visti. I mieicompagni dicono che gliinglesi hanno interesse adistruggere il Regno diFerdinando perchévogliono trasformare laSicilia in una Malta piùgrande. Io non lo so, nonho studiato, sono uncontadino, ho zappato, eaffondando la zappa nelterreno non si può pen-sare troppo a quello chec’è dietro le cose, sideve guardare solo lasuperficie e sperare cheil tempo ci aiuti.

I giorni sono passativeloci, troppo veloci perpoterli fermare sullacarta. Non avevo il tempo di scrivere,ero troppo impegnato a rimanere vivo.Ma ricordo bene il 13 maggio a Salemi,prima capitale d’Italia per un solo gior-no, quando abbiamo alzato il tricoloresul castello; Salemi, dove il 14 maggio,nel nome di Vittorio Emanuele re d’Ita-lia, Garibaldi ha assunto la dittatura inSicilia.

Ricordo Castelvetrano. Ricordo cheera il 15 maggio quando abbiamo com-battuto a Calatafimi. Ho pianto di gioia

per la nostra vittoria, ho pianto di dolo-re quando è morto accanto a me LuigiAdolfo Biffi, avrebbe compiuto 14 anniil 19 maggio 1860, se non fosse statocolpito a morte dal piombo dei soldatiborbonici. Veniva da Caprino Bergama-sco e stavamo portando ordini verso iCacciatori delle Alpi, è scivolato lungole rocce, lasciando una lunga strisciarossa. Un colore che non ci abbandona,anche nel dolore e nel rimpianto.

Quella sera, Francesco Crispi e suamoglie Rosalia Montmasson mi hannoringraziato per essere andato avanti lostesso, per non essermi fermato, peraver sfidato i colpi di fucile, gli ordiniche portavo venivano direttamente dalui, da Garibaldi. Ho corso tra le pallot-tole che fischiavano, tra le grida di dolo-

re, nel fumo degli spari, saltando tra lerocce e i corpi già dimenticati di coloroche erano caduti. Gli ordini, me li devo-no ripetere almeno due volte, non sem-pre li capisco quando parlano, troppidialetti, qui è pieno di veneti, liguri,lombardi, toscani. E tanti altri che ven-gono dal sud e che da qui si stannounendo a noi. Riusciremo poi a com-prenderci? Quando l’Italia sarà unita,avremo anche una sola lingua? Sonocerto, però, che saremo davvero fratelli,

tutti, nord e sud, perché abbiamo com-battuto insieme, abbiamo diviso il dolo-re e la gioia, e questo non potremodimenticarlo mai, nulla ci potrà mai piùseparare.

Una cosa che non potrò mai dimenti-care, lo ricordo ancora a memoria, è ilproclama di Garibaldi. Me lo lessero nelluglio 1859, ma ne ricordo ancora oggiogni parola, ogni suono, mi accompa-gna in ogni momento di questa avventu-ra: Soldati, ciò che offro a quantivogliono seguirmi eccolo: fame, freddo,sole. Non pane, non caserme, non muni-zioni ma avvisaglie continue, stenti, bat-taglie, marce forzate e azioni alla baio-netta. Chi ama la patria mi seguiti.

Fame, freddo, sole, stenti. Questisono concetti facili per me, perché è

tutto ciò che ho sempreavuto, in abbondanza.Come resistere a unsimile invito?

Calatafimi, la batta-glia più importante, laprima. Per salire sulmonte Romano, dove sierano asserragliati i bor-bonici, abbiamo dovutoavanzare di piana inpiana, sotto i colpi deinemici, che sparavanocon proiettili d’artiglie-ria e di moschetti. Ognivolta che avanzavamoallo scoperto, le nostrefila diventavano piùvuote. Una carneficina,alla quale noi non pote-

vamo neppure rispondere, senza armi.Ma siamo andati avanti, con tenacia,con follia, con determinazione. Di pianain piana, ci siamo avventati come leoniverso la vetta, con la sola coscienzadella vittoria e della causa santissimaper cui stavamo combattendo. Abbiamoconquistato ogni palmo di terra, ognimetro del monte è intriso di sangue, didolore, cacciando i Borbonici, con leloro divise, le spalline e i galloni. Lamattina successiva 16 maggio 1860

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siamo entrati a Calatafimi, libera dallatirannide borbonica. Sul nostro esempio,incoraggiati da questo risultato, da un eser-cito malvestito e senza armi che avevasconfitto migliaia di soldati delle miglioritruppe del re Borbone, le popolazioni diPartinico, Borgetto, Montelepre, hannodato l’assalto all’esercito regolare, metten-doli in fuga sino a Palermo.

Palermo, mai avevo visto una città cosìricca, così splendente, luminosa nel suobarocco, opulenta come un fico maturo.Un frutto che abbiamo colto e siamo passa-ti oltre, verso Caltanisetta, Cefalù, Catania,verso Messina, verso il continente.

Davanti a noi, la polvere lasciata dall’e-sercito borbonico in fuga non cessava maidi arrestarsi, sembrava voler velare dimisericordia i fatti del16 giugno. La paginanera del saccheggio diPalermo, dei delitti,degli stupri, nel momen-to in cui le truppe borbo-niche si erano imbarcateper Napoli dopo l’armi-stizio. Ero lì, ho visto emi vergogno di essererimasto a guardare senza

fare nulla, senza che Garibaldi dicessenulla. Forse faceva parte di un accordo cheio, contadino, non potevo capire, la genteprendeva quello che voleva, chi voleva,senza più leggi e freni.

Il 17 luglio abbiamo combattuto aMilazzo, la battaglia degli oltre millemorti, tra i nostri e i loro. Un unico lago disangue ci ha unito nella battaglia, ho anco-ra nella testa i rumori, le grida, i pianti, l’a-cre odore della polvere da sparo, il puzzodella morte, la volontà di uccidere perpaura di morire. Una carneficina, una tra-gedia. Quella sera, mentre riposava, hoportato da Garibaldi uno scrittore francese,si chiama Alessandro Dumas e seguiva laguerra da bordo di un panfilo; chissà sescriverà mai di noi, chissà come lo farà.

Dieci giorni dopo, il27 luglio, siamo entrati aMessina e, dopo, nel con-tinente, la Calabria, laCampania. Verso Roma,verso Venezia. L’Italiaunita si estende ai nostripiedi, dobbiamo solomarciare e resistere, fidu-ciosi nella nostra bandie-ra di libertà.

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SS. Silvano e Nereo

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S. Desiderato

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S. Ubaldo

S. Pasquale

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S. Pietro di Morrone

S. Bernardino

S. Vittorio

S. Rita da Cascia

S. Desiderio

B. Vergine Maria aus.

S. Beda

S. Filippo

S. Agostino

S. Emilio

S. Massimino

S. Felice

S.Angela

Maggio

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FFFFOOOORRRRNNNNEEEELLLLLLLLIIII DDDD’’’’ IIIITTTTAAAALLLLIIIIAAAAdi Salvatore Marchese

L’Italia ha iniziato a celebrare la ricor-renza della sua unità di nazione. È tra-scorso un secolo e mezzo. Potremmoanche dire: cinquant’anni moltiplicati pertre, tanto per farvi un’idea numericaaltrettanto significativa del tempo trascor-so.

Tutto è cambiato, da allora, ma non incucina. Quella delle consuetudini, inten-do. Quella degli affetti e della tradizione:delle singole regioni e, nel loro ambito,addirittura delle valli sperdute delle con-trade. Se possibile, piuttosto, le specifichedifferenze si sono accentuate, negli ultimitempi.

Prima, le maniere di stare a tavola alnord, al centro, al sud o nelle isole eranodeterminate dal clima e dalla questionesociale. Le vie di comunicazione eranodifficili e tutto rimaneva rinchiuso nelleabitudini locali. Abitudini tramandate,magari acriticamente, di madre in figlia.Era alle donne, del resto, che competevail ruolo di manipolare il cibo a disposizio-ne nelle case. La lentezza del vivere quo-tidiano ha contribuito a radicalizzaredeterminati comportamenti domestici cheprobabilmente hanno privilegiato l’esi-stenza della necessità della nutrizionerispetto alla ricerca della soddisfazionedel gusto. L’alternanza delle stagioni, coni relativi riti alimentari legati alla disponi-bilità degli ingredienti, era un evento deltutto naturale, quasi scontato. Pensiamoalla caccia e alla pesca, alla semina e alraccolto, alla cernita delle olive, dei casta-gni e dei funghi o, in montagna, ai pasco-li estivi.

Nel mezzo dello scorrere di un annoecco il susseguirsi dei giorni della vigiliae della festa, del carnevale e della quare-sima.

Nel 1881, uscì la primissima edizionedel libro “La scienza in cucina e l’arte dimangiare bene”, poi pubblicato ancoranel 1891. Il bancario Pellegrino Artusi,trasferitosi per motivi di famiglia dallaRomagna a Firenze raccolse intelligente-

mente nella sua opera le ricette dell’Italiaborghese e benestante. In parecchi, anchedi recente, hanno scritto che egli abbiafatto per l’unità d’Italia molto più di Giu-seppe Garibaldi. Questioni di punti divista, non sono molto d’accordo. Nell’o-pera artusiana, per quanto importante efondamentale, si possono riscontraremolte dimenticanze ed alcune imprecisio-ni. La Liguria e la Lunigiana, tanto persottilizzare, non sono molto ben rappre-sentate. E personalmente, per la verità,non gli posso perdonare di avere definitol’acciuga “pesce turchiniccio”, roba dapoco.

Tuttavia, non ho difficoltà ad ammet-tere come l’edizione Einaudi del 1970(poi riproposta nel 2001) commentata daPiero Camporesi sia uno dei libri di mag-giore valenza che mai mi sia capitato dileggere: nonostante tutto, e per fortuna,

l’unità d’Italia, in cucina, è una situazio-ne che non esiste e non ha senso di esse-re, a meno che non ci stia a cuore la bana-lità.

Vediamo: tartare di tonno; tagliata conla rucola; semifreddo al torroncino; pannacotta. Sono solo alcune delle elaborazioniassai scontate che troviamo nei menu diun certo tipo di ristorazione dal Brenneroa Calatafimi. Possiamo considerarli i sim-boli di una presunta unità?

In realtà, si tratta esclusivamente del-l’apparenza suggerita dai messaggi dellapubblicità. Nel contesto non sono sicura-mente da trascurare i dadi da brodo, i“formaggi” di plastica , i semilavoratidell’industria alimentare. L’uomo è onni-voro, si sa, e così consuma qualunquecosa.

Mi è capitato, tempo addietro, di esse-re ospite di un’amministrazione pubblica,in qualità di giornalista, al Passo dei Sala-ti nel massiccio del Monte Rosa. Fateconto: 2700 metri d’altezza. L’antipastodella sosta per il pranzo nel rustico e pit-toresco chalet: salmone affumicato appe-na scaturito dall’involucro di nylon. Misono ritirato deluso e silenzioso in un miopersonalissimo sciopero della fame. Misarei aspettato lardo, mocetta, camoscio epolenta, pane nero, una zuppa con la Fon-tina.

L’Italia che ho imparato a conoscereed amare, è quella degli odori dei profu-mi e degli aromi particolari, unici. Rap-presentano, al pari delle sfumature deisapori, un modo di esprimersi del patri-monio culturale di un territorio. È un lin-guaggio composito e complesso, polifo-nico, eppure netto ed inequivocabile. Èformato dalla geografia, dalla storia, dallepiccole vicende della gente comune, dalmicroclima, dalla consistenza del suolo.Mille e più, lo si intuisce facilmente,risultano le combinazioni statistiche cheinfluiscono sul risultato finale. In pratica,è cresciuta notevolmente la conoscenzadegli ingredienti sia grazie alle indubbierisorse della tecnica sia per le doti di ana-lisi sensoriale dei degustatori più allenati.

È sufficiente portare alle labbra uncalice di vino Barolo per identificare l’e-satta provenienza, l’annata e la mano delproduttore. Si può assaggiare un olioextravergine d’oliva e capire dove sianato, da dove provenga: sì da una regio-ne, ma anche da quale parte. Prendiamola Toscana: l’indagine dell’olfatto e delpalato sono in grado di precisare: diBagnone, della Maremma, del Chiantifiorentino, del Chianti senese, di SanGimignano e della Val d’Elsa, di Montal-cino. Contano le cultivar, ma pure l’espo-sizione – per le note aromatiche o fruttate– e l’altitudine degli uliveti.

Nei formaggi d’alpeggio, ovviamentea latte crudo, non è impresa ardua risalirealle varietà delle erbe e dei fiori brucatinei pascoli, soprattutto nel caso del lattevaccino munto in giugno, luglio o agosto.

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Nessun stupore, per carità. Altrimenti,non avrebbero motivo di essere né l’agnellodi Zeri, né la cipolla di Treschietto o i fagio-li di Bigliolo.

Mi vengono in mente i fatidici “testarolidi Pontremoli” buonissimi, insuperabili: ilmondo ce li invidia. Però, con il concorso delsapere attuale siamo nelle condizioni di pro-gettarne una versione quanto mai raffinata.Partiamo dall’acqua dell’impasto, scegliamola fonte. Dopo, si proseguirà sullo stesso per-corso con la farina e gli ingredienti del con-dimento. Dettagli di non poco conto.

Quello che nel resto della Penisola vienechiamato baccalà – il merluzzo salato – inVeneto è lo stoccafisso. Il rinomato baccalàalla vicentina altro non è che stoccafisso inumido. Il secolo e mezzo alla fine dei conti ètrascorso invano. I mitili sono tali in linguaitaliana. Per noi lunigianesi, si tratta dimuscoli. Nella prassi comune, sta prevalendoil termine “cozza”, popolare soprattutto nelcentro e nel meridione.

Acciughe, alici o sardoni? Brasato, stufa-to, stracotto o civet?

Tirare in ballo il rischio della confusionesarebbe forse sbagliato. Le parole, anche incucina, traggono origine da convinzioniancestrali suggerite da una specifica cultura.

Il pane e il vino sono gli emblemi rappre-sentativi dell’eucarestia, punto culminantedella ritualità sacrale. In ogni angolo di unaqualsivoglia regione del Belpaese trovaun’interpretazione di evidente ispirazionelocale.

Il medesimo vitigno conferisce connotativistosamente mutevoli ai vini che forniscenei singoli territori. Il Sangiovese di Roma-gna e il Sangioveto di Montalcino sonoparenti sul piano genetico, ma non affini perle caratteristiche organolettiche. E il pane? Èdi segale in Valle d’Aosta e, in genere, nellearee alpine. Di semola di grano duro al sud.Ancora: le “manine” a Ferrara. Oppure, igrissini in Piemonte, perché la “grissa” è unpane vero e proprio.

Le grosse spole in Umbria e in Toscana,“sciocco”, senza sale, particolarmente incampagna, poiché doveva durare per piùgiorni. E il sale, purtroppo, essicca e fa indu-rire l’impasto.

Riflettiamo sui nostri “averi” e sentiamo-ci dei privilegiati, potendo scegliere tra panedi Vinca, Marocca di Casola, pane di patatedi Regnano, Pan Marocco di Montignoso.

Già, il pane se mi trovo in Umbria mipreoccupo di cercare quello di Strettura, inBasilicata sono preda della fragranza che

scaturisce dai forni dei Sassi di Matera. Èuna bella disputa, con la produzione artigia-nale della vicina Altamura. A Palermo sonoinarrivabili le pagnotte conciate con le olive,Catania replica con le piccole pezzature aro-matizzate al sesamo.

Nei ristoranti si va addirittura oltre. Alvecchio ristoro di Alfio e Katia, ad Aosta, miperdo dietro i panini alle melanzane chehanno nel mezzo un pomodorino ciliegia. DaCaino, a Montemerano, scelgo subito il paneal pecorino, favoloso. Dai ristoranti agli chefil passo è breve.

Da loro, anche i più creativi e geniali,giunge l’inequivocabile conferma della gran-de ed inestinguibile validità del timbro d’au-tore, penso ai tortelli di zucca di Nadia San-tini, del Pescatore di Canneto sull’Oglio; allazuppa di Valpelline di Paolo Vai della BonneEtape di Saint-Marcel; al dolce di lenticchiedi Gianfranco Vissani di Baschi. Mi reco inFriuli, il giro prevede, rigorosamente, di fartappa agli Amici di Godia della famiglia Sca-rello; al Giardinetto di Cormons dagli Zop-polati e, ancora sul Collio, tra le vigne delTocai, da Josko Sirk, alla Subida. La regionenon è estesa, però la cultura della tavolamanifesta un’infinità di sfumature.

Massimo Bottura, dell’Osteria La France-scana di Modena, viene unanimemente rite-nuto un “inventore” della gastronomia. Madentro le sue immaginazioni il patrimoniostorico del suo territorio viene dilatato versocontorni sempre più ampi. È quanto sempreaccaduto, nel delta del Po, nel ferrarese, aIgles Corelli.

Il medesimo discorso vale per Massimi-liano Alajmo delle Calandre, innanzi tutto, aifornelli, padovano.

Le radici sono radici: affondano nel suolo,ma servono come bussola per orientarsi con-venientemente. Così, Alessandro Gilmozzide El Molin di Cavalese, va fiero del suodelizioso affresco che prevede la felice com-binazione della polpa di un melone di mon-tagna con una trentina di erbe raccolte neiboschi circostanti.

L’esaltazione delle diversità, facendo iconti, si traduce in un tesoro di ingente por-tata. L’affermazione non suona blasfema per-ché altrimenti significherebbe non renderciconto dell’immensa unicità della cucina diLunigiana che mi ha educato nel lavoro, miha insegnato a leggere e capire le cucinedegli altri.

È per questo, magari, che ad ogni ritornoa casa la scopro sempre più grande ed ine-stinguibile nella magia della sua identità.

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S. Carlo

S. Quirino

Ascensione del Signore

S. Norberto

S. Roberto

S. Medardo

S. Primo

S. Diana

S. Barnaba

S. Guido

S. Antonio da Padova

S. Eliseo

S. Germana

S. Aureliano

S. Gregorio

S. Marina

S. Gervasio

S. Silverio

S. Luigi

S. Paolino

S. Lanfranco

Natività S. Giovanni Bat.

S. Guglielmo

Corpus Domini

S. Cirillo

S. Attilio

SS. Pietro e Paolo

SS. Primi Martiri

Giugno

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II GGAARRIIBBAALLDDIINNII PPOONNTTRREEMMOOLLEESSII

di Nicola Michelotti

La partecipazione dei volontari pon-tremolesi alla causa dell’Indipendenzaitaliana e l’ardore e il sacrificio chehanno saputo offrire sui diversi campi dibattaglia sono argomenti da rimarcare,per una storia non solo locale ma diinteresse nazionale.

Nell’arco di venti anni, dal 1848-49al 1870 Pontremoli ha contribuito allacausa italiana, complessivamente, conpoco meno di duecento uomini, i quali,con apporti personali differenti ma conidentica dedizione e pari lealtà, hannolasciato un segno; per sottolineare ilnotevole apporto numerico, basti ricor-dare che l’intera provincia della Luni-giana parmense contava in quegli annipoco meno di 32.000 cittadini.

I garibaldini pontremolesi sono inazione già nel 1849 per la difesa dellaRepubblica Romana e il loro numero,per questa nuova e spontanea adunata,era già notevole.

Diventerà ancora più consistente nel1859 quando essi daranno il loro contri-buto tra i Cacciatori delle Alpi; ma saràbene ricordare anche gli altri pontremo-lesi volontari dell’Esercito regolare,primi fra tutti Lazzerini Paolo, caduto inbattaglia a San Martino; Nicoli France-sco, deceduto nel 1871 in conseguenzadelle ferite riportate a San Martino; ilmaggiore Cocchi Elia, già sottotenentedella Divisione toscana nel 1859, nellaquale erano incorporati anche GiuliDomenico, Guidi Eligio e MontaniFrancesco. Il nobile Nicola ZucchiCastellini partecipava alla campagnadel 1848 tra le truppe regolari toscanecome tenente del 2° Reggimento Fante-ria di linea.

Con i Mille, dallo scoglio di Quarto,la sera del 5 maggio 1860 non sono par-titi dei pontremolesi né altri volontaridell’Alta Lunigiana: nella Pontremolidel tempo non si registravano con tem-pestività le situazioni nuove degli Staticonfinanti, soprattutto di ciò che acca-

deva a Genova e in tutto il territorioligure-piemontese.

Appare probabile che l’assenza deipontremolesi tra i Mille si debba attri-buire a tale motivo più che alla mancan-za di un personaggio trascinatore.

A questa prima impresa avevanoinvece partecipato alcuni volontari dellaMedia e Bassa Lunigiana: Canini Cesa-re di Sarzana, Stefanini Giuseppe diArcola, Faccini Onesto di Lerici, Mon-teverde Gio Batta di Santerenzo, lospezzino Castellini Francesco Maria, ilcarrarese Orlandi Bernardo e i massesiFrediani Francesco di Carlo e Nelli Ste-fano.

La seconda spedizione per la Sicilia

seguiva a poco più di un mese la primaed era stata affidata a Giacomo Medicidel Vascello: salpò da Cornigliano il 9 e10 giugno e arrivò il giorno 17 a Castel-lammare del Golfo con 2.500 volontari.Già in questa seconda spedizione eranoentrati otto pontremolesi: BertucciCarlo, Giuli Romano, Guidi Eligio,Montani Pellegrino, Palmieri Antonio,Ravani Francesco, Trivelloni Domenicoe Savani Silvestro, i quali furono rag-giunti da un numeroso nucleo di concit-tadini partiti con la spedizione Cosenz il6 luglio.

Complessivamente, una quarantinadi volontari, di ogni ceto, dal muratoreal bottegaio, dall’artigiano allo studen-te, dal contadino al nobile: tutti i livellisociali della Pontremoli di quel tempoerano rappresentati a dimostrazione diquanto fosse sentito il richiamo di Gari-baldi e l’ideale dell’Unità italiana.

Accanto ai volontari garibaldinivanno citati gli altri pontremolesi cheparteciparono alla Campagna 1860-61(Italia centrale e Gaeta) nei quadri del-l’Esercito regolare: Armanetti Giovan-ni, Borzacca G. Battista, BucchioniLuigi, Cocchi Elia, Morotti Oreste,conte Corradi Ferdinando, Dani Pelle-grino, Perini Luigi, Pizzanelli Andrea.

La squilla richiamava ancora nel1866 e quindi nel 1870 per la presa diRoma e i volontari garibaldini pontre-molesi saranno ancora sul campo. Nominuovi, quelli dei più giovani, si uniran-no ai garibaldini più anziani rimasti acombattere per l’indipendenza dellapatria di tutti.

Tra le figure più rappresentative digaribaldini pontremolesi possiamo cita-re Pompeo Spagnoli, nato nel 1829 inpiazzetta San Geminiano, barbiere. Hacombattuto tra i volontari toscani a Cur-tatone, guadagnando una medaglia al

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valore; dopo una prigionia in Austria, siarruolava tra i difensori della RepubblicaRomana, seguendo Garibaldi fino a SanMarino e, poi, tra i Cacciatori delle Alpi enella spedizione Cosenz; ancora con Gari-baldi nel Trentino e nel 1867 a Mentana.

Enrico Buttini, nato nel 1830 in Pontre-moli da antica famiglia di farmacisti, morìa soli 29 anni, vittima della malattia con-tratta per la prigionia sofferta, dopo unavita di attivismo politico e di battaglie sulcampo, da Novara ad Ancona, da Romaalle sommosse di Parma; ha fatto parte delgoverno provvisorio pontremolese.

Di Vincenzo Ferretti si deve ricordare lapartecipazione alla spedizione Cosenz inSicilia, quale uno dei volontari più giovanitra tutti i garibaldini; ha combattuto eroica-mente nella battaglia del Volturno contro letruppe borboniche, morendo tra le bracciadi Garibaldi nell’Ospedale SS. Apostoli diNapoli, ove era stato ricoverato per legravi ferite riportate.

Il pontremolese Giuseppe Fugacci hapartecipato alla guerra del 1848 con i

volontari della colon-na Baldini, unitamen-te a Frassinelli Nicolae allo Spagnoli; l’an-no dopo si segnalanella difesa di Roma,ancora assieme alloSpagnoli, a BertinelliLuigi (detto Becci), aFrassinelli Giacomo(detto Pulenta), adArrighi Paolo, a DaniPietro (detto figlio diMalacarne), al Buttinie a Pinotti Antonio.Dopo la ritirata a SanMarino, gravementeferito, venne tratto inarresto ad Arezzo etrasferito a Pontremo-li.

Teodoro Reghiniera destinato alla car-riera ecclesiastica enel 1860 si trovavanel Seminario Vesco-vile di Pontremoliquando giungeva lanotizia dello sbarco diGaribaldi a Messina;fuggì a Genova,calandosi nottetempoda una finestra del

collegio; venne incorporato nella spedizio-ne Cosenz insieme agli altri volontari diPontremoli, combattendo sino al Volturno.Sciolte le truppe garibaldine dopo l’annes-sione del Regno delle Due Sicilie al Regnod’Italia, passava nell’Esercito Italiano nelquale raggiungeva il grado di capitano.

Non possono non citarsi i tre fratelliParolini, Vittorio, Carlo e Giacomo, chehanno lungamente combattuto per l’Indi-pendenza Italiana su più fronti, partecipan-do anche alla spedizione in Sicilia.

Infine, Guglielmo Giumelli, che avevaappena diciotto anni quando ha combattu-to nel 1866 a Bezzecca, nell’eroico 5°Reggimento; rientrato a Pontremoli, è vis-suto sino al 1932, lasciando un’ereditàmorale di prim’ordine; aveva voluto chesulla sua bara fiammeggiasse la sua cami-cia rossa e che al Camposanto squillasseroper lui le note dell’Inno di Garibaldi.

Era l’ultimo dei garibaldini rimasti edera diventato l’emblema di come e diquanto l’intera città avesse contribuitoall’Unità d’Italia.

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S. Teobaldo

Madonna del Popolo

S. Tommaso

S. Elisabetta

S. Antonio

S. Maria

S. Edda

S. Adriano

S. Armando

S. Felicita

S. Benedetto

S. Fortunato

S. Enrico

S. Camillo

S. Bonaventura

N. S. del Monte Carmelo

S. Alessio

S. Calogero

S. Giusta

S. Elia

S. Lorenzo

S. Maria Maddalena

S. Brigida

S. Cristina

S. Giacomo

SS. Anna e Gioacchino

S. Liliana

S. Nazario

S. Marta

S. Pietro

S. Ignazio

Luglio

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GGAARRIIBBAALLDDII:: UUNNAA EE MMIILLLLEE IIMMMMAAGGIINNIITTRRAA DDUUEE CCOONNTTIINNEENNTTII

di Marzia Ratti*

Di immagini di Garibaldi è pieno ilmondo. Ovunque esistano comunità diItaliani esiste il culto e la popolarità diGaribaldi. Nel Paese, quasi ogni cittàconserva busti o monumenti, per non diredei ritratti, delle stampe o di tutta quellaserie di oggetti più comuni – vasi, franco-bolli, monete, fotografie – che sono spar-si nelle collezioni pubbliche e private ditanti cultori delle memorie garibaldine.Malgrado due secoli ci separino da lui, ilsuo volto ci è estremamente familiare esiamo in grado di identificarlo anchenelle mille varianti della sua iconografiastorica: rivoluzionario combattente, gene-rale del regno sardo, pensoso o condottie-ro, a piedi o a cavallo, da solo o con lavalorosa Anita. Noi lo consideriamo abuon diritto “eroe nazionale”, campione

dell’Italia unita, ma Garibaldi è stato ed èancora un mito vivente a livello mondia-le, grazie alle sue imprese internazionali afavore delle lotte di indipendenza deipopoli oppressi e il rapporto storico-cul-turale fra l’Italia e le Americhe del Sudpassa anche attraverso questa figura for-midabile.

La sua immagine è diventata prestopopolarissima, lui vivente, fino adassurgere al ruolo di icona, ruolo cheancora non tramonta e che, pertanto,viene largamente utilizzata anche a finipubblicitari: credo che l’ultimo caso, enon certo il più nobile, sia la campagnavendite di una marca di caffè italiano chesfrutta il nome e i caratteri del volto diGaribaldi trasposti su un riconoscibileviso femminile, barba bionda compresa.

Busti e monumenti se ne trovano unpo’ ovunque ed è un fatto comune allaloro nascita che siano stati commissiona-

ti dal basso: da semplici cittadini, dalogge massoniche, da associazioni popo-lari, riunite in comitati promotori chehanno coinvolto autorità istituzionali peraddivenire alla realizzazione di statuecelebrative e, spesso, altisonanti.

Due esempi tipici si contano anchealla Spezia dove si conservano due effigidedicate al generale: la prima, è il bustoin marmo prano di Giuseppe Rota, inau-gurato il 20 settembre 1896 nella sededell’ex orfanotrofio Garibaldi. Una noti-zia breve di cronaca del Giornale “IlLavoro” ci informa che la Società fraoperai, la Fratellanza Artigiana, la LoggiaCastellazzo e l’Amministrazione dell’Or-fanotrofio pubblicarono un manifesto cheinvitava tutte le Associazioni Liberali deltempo alla cerimonia inaugurale, il cuidiscorso fu tenuto dall’allora SindacoGiobatta Paita. La seconda, è la sculturaequestre in bronzo realizzata da AntonioGarella fra il 1911 e il 1913. data in cui fucollocata in mezzo ai giardini pubblici einaugurata da una grandissima folla esul-tante. Anche in questo caso, l’opera fuvoluta da un comitato provvisorio forma-to dalle associazioni popolari cittadineche sin dalla morte dell’eroe avevanoprogettato di innalzare un monumentodegno di ricordare i suoi tre passagginella città ligure e la sua “venerata effi-gie”. Dall’autonomia dell’iniziativapopolare discende anche la scelta delloscultore che non fu individuato appuntonell’area ligure-piemontese ma in Tosca-na, snobbando il celebre Augusto Rivaltache pure aveva già realizzato le imponen-ti statue di Garibaldi di piazza De Ferrarie di Sampierdarena a Genova e quellaintensa di Chiavari. Garella, che a queltempo aveva uno studio affermatissimo aFirenze, poteva vantare come il Rivaltanon solo altrettanti autorevoli monumentiin Toscana – a Peretola (1895), a Pistoia(1904) – ma anche oltreoceano, doveaveva inviato numerose statue celebrativedei più noti personaggi del Risorgimento.

In America Latina l’immagine delGenerale risuona con tantissimi monu-menti sparsi in Argentina, Brasile, Cile,

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Paraguay, Ecuador, Guatemala, Messico,Perù, Uruguay e Venezuela. Garibaldi neiPaesi sudamericani non è vissuto come stra-niero, ma come figura cara all’epopea deidiritti fondamentali di dignità e di libertà diquei popoli, ricordato per le sue impreseguerrigliere per l’indipendenza. Il suo suc-cesso si deve innanzi tutto alle operosecomunità italiane insediate nelle principalicittà latinoamericane sin dall’Ottocento, maoggi ha travalicato ogni nazionalismo tantoche la statua di Rosario del carrarese Biggi èstata dichiarata monumento storico naziona-le dalla Camera dei Deputati dell’Argentina.

Nelle ricognizioni che sono state fatte diquesto vasto fenomeno storico e iconografi-co è curioso osservare come il successo arti-stico si sia formato attraverso più fattori con-vergenti: la ritrattistica a fini memorialisticiprivati diffusa fra i tanti esuli e emigrati ita-liani nelle Americhe, la rappresentazione sulibri, riviste e giornali, sulle medaglie cele-brative, quindi l’erezione di opere destinatea spazi aperti e, per finire, le versioni adimensione eroica. Dal piccolo al grande,dal privato al pubblico sussiste tutta unagamma di costanti e di varianti dell’immagi-ne del personaggio che, nell’insieme, formail serbatoio dell’immaginario popolare d’ol-treoceano, in parte simile e in parte diversoda quello italiano. Si assiste infatti ad unprocesso di assimilazione iconografica almodello del gaucho che meglio corrispondealla percezione popolare delle gesta rivolu-

zionarie da parte della cultura latinoamerica-na.

Potremmo divertirci a citare degli esem-pi argentini abbastanza famosi, partendo dalmonumento equestre di Eugenio Maccagna-ni eretto nel 1904 in plaza Italia a BuenosAires, nel quale lo scultore pugliese dina-mizzò la figura dell’eroe distinguendola daquella realizzata alcuni decenni prima per lacittà di Brescia, accentuando il gesto dell’in-citamento alla battaglia; oppure citando larealistica immagine creata da AlessandroBiggi per il parco Indipendenza a Rosario(1895), in cui un giovane e riccioluto Gari-baldi avanza con la spada sguainata come sestesse conducendo i combattenti nella lottaper la libertà; finendo quindi con la statua inbronzo realizzata da José Vasco Vian fra il1927 e il 1928 per Bahia Bianca nella regio-ne meridionale: umana figura di condottierovincitore che saluta la folla in piedi col brac-cio destro alzato a sventolare il cappello.Come si comprende, ciò che evidentementecolpisce l’immaginario argentino è la visrivoluzionaria dell’azione, che trascina laforza del popolo e si fa simbolo di un carat-tere passionale di popolo.

L’iconografia sudamericana privilegia,nemmeno a dirlo, il poncho, i larghi calzonied il cappello a grande falde, fondendosisignificativamente col modello del mandria-no delle pampas e col cowboy nordamerica-no, ragioni per cui la riconoscibilità dell’E-roe si sposa e si rafforza con la popolaritàcinematografica dell’universo western, rige-nerandosi e attualizzandosi fino ai nostrigiorni. Ma le contaminazioni fra Italia eAmeriche nell’iconografia di Garibaldi nonsi fermano qui perché anche la famosa cami-cia rossa appartiene al periodo rivoluziona-rio sudamericano e fu diffusa visivamentedai legionari garibaldini che avevano parte-cipato alle lotte di Montevideo, fra cui il pit-tore genovese Gaetano Gallino e il litografospezzino Erminio Bettinotti.

Ad un altro artista combattente, Giovan-ni Turini – questa volta nel quarto reggimen-to di Garibaldi contro gli austriaci nel 1866– si deve la più famosa immagine newyor-kese eretta, nel 1888, in Washington SquarePark per iniziativa dell’allora residentecomunità italiana, che oggi è oggetto di unasimpatica ritualità fra gli studenti americani.

* Direttore Istituzioneper i Servizi Culturali

La Spezia

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S. Eusebio

S. Lidia

S. Nicodemo

S. Giovanni

S. Osvaldo

Trasfiguraz. N. S.

S. Gaetano

S. Domenico

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Ass.e Maria Vergine

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S. Rosa

S. Bartolomeo

S. Ludovico

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S. Monica

S. Agostino

S. Faustina

S. Aristide

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Agosto

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TTOOPPOONNOOMMAASSTTIICCAA RRIISSOORRGGIIMMEENNTTAALLEEPPOONNTTRREEMMOOLLEESSEE

di Graziella Matteoni *

Avete mai pensato a come e quantol’Unità d’Italia abbia inciso sulla topono-mastica delle città? Siamo abituati a scor-rere i nomi delle strade che percorriamo,senza riflettere più di tanto sui nomi deiluoghi, le circostanze della loro formazio-ne e nascita, della loro modifica o sostitu-zione.

Cosa si intende per nome? Per gli anti-chi, nomina sunt consequentia rerum;difatti, nella tradizione biblica è la stessaparola di Dio, il verbum, a farsi creatricee a ciò che è stato creato viene subito datoun nome.

Il nome è un elemento della comuni-cazione e quindi comunica quale è lavolontà di Dio, il suo progetto e le realiz-zazioni; sulla base del medesimo princi-pio di fondo, più di recente gli uominihanno dato nome ai luoghi sulla basedelle caratteristiche delterritorio o di particolarieventi storici: ad esempio,nel 1939 lo spazio adia-cente al ponte di PortaParma era stato chiamato“Piazzale della Lega Lom-barda”, per ricordare l’epi-ca resistenza opposta daipontremolesi a FedericoBarbarossa nel 1167 fuoridalla Porta detta di SanGiorgio.

Nell’epoca contempo-ranea, la creazione dinuovi toponimi ha inveceseguito percorsi notevol-mente diversi: in età napo-leonica, per esempio, i nuovi assettiamministrativi hanno volutamente intesoscardinare le antiche delimitazioni territo-riali, a volte corrispondenti a identità etni-che e linguistiche, assegnando anchenuovi nomi a questi soggetti.

Cambiano i protagonisti degli eventistorici e culturali e cambiano i nomi deiterritori, come è avvenuto anche dopo ilRisorgimento, con particolare riferimento

alla città di Pontremoli, che ha contribui-to in modo importante alla Causa Italiana.

Tenendo conto dei vari avvenimenti eimprese avvenuti nel ventennio che va daiMoti del ‘48 al 1870, sono quasi 200 ipontremolesi che, provenienti da ogniceto sociale, hanno concorso eroicamentealla costruzione dell’Unità d’Italia (Nico-la Michelotti – Deputazione di StoriaPatria delle Province Parmensi 1983).

Questi intensi e diffusi sentimentipatriottici furono testimoniati anche dalloschiacciante risultato con cui il Plebiscitodell’agosto 1859 ha sancito definitiva-mente la volontà popolare di aderire alRegno Costituzionale di Sua Maestà il ReVittorio Emanuele II.

Per quanto riguarda, infatti, la Provin-cia della Lunigiana Parmense, il risultatodei comuni di Pontremoli, Bagnone,Mulazzo, Filattiera, Villafranca e Zeri èstato di 5044 voti favorevoli all’accetta-zione del Plebiscito e di 19 voti contrari

(Prefettura della Lunigiana Parmense -Governo - b. 58).

Come in tutta la penisola, anche per lacomunità di Pontremoli fu naturale intito-lare alcune vie a personaggi, eroi e fattirisorgimentali; la toponomastica cittadinacambiò in diversi momenti storici, a volteper la necessità dovuta all’apertura dinuove strade, ma anche semplicementerinominando le arterie principali e stori-

che del centro cittadino.Dal “Registro per la denominazione

delle vie e delle piazze e per la numera-zione delle case della città di Pontremoli,relativo al 6° Censimento Generale dellaPopolazione del 1° dicembre 1921” risul-tano le zone in cui si divide il centro dellacittà, e da questo constatiamo la quasicompleta evoluzione della toponomasticarisorgimentale (Arch. Stor. del Comune -cat XII - b. 41).

Iniziando da nord, troviamo via Gari-baldi, ex via Parmigiana, che scende daPorta Parma fino alla piazza del Duomo o“piazza di sopra” con le parrocchie di SanNicolò e San Geminiano: è evidente ilriferimento alla fortezza di Cacciaguerrache, dal XIV secolo, divide il borgo in“supra et infra”.

La piazza principale, detta “piazza disotto”, è intitolata al Re Vittorio Emanue-le II; l’intitolazione probabilmente è del25 giugno 1880 quando, in seguito alla

morte avvenuta nel 1878, èposta una lapide comme-morativa in suo onorecome uno dei padri fonda-tori della Patria.

Durante queste cerimo-nie e per la Festa dello Sta-tuto che ogni anno si cele-brava a giugno, i cittadinierano invitati ad adornarele loro case “con tricoloribandiere”, si distribuivanopremi agli alunni dellescuole comunali e si gode-va dell’intervento dellaBanda Municipale che finoa sera “usciva a suonaresulla piazza maggiore”

(Arch. Stor. del Comune - cat I - b. 2 –1868).

Questa denominazione sarà cambiatail 16 dicembre del 1943 quando, con unaDelibera Prefettizia, il commissario Fran-cesco Chiartelli motiverà che “... in segui-to agli ultimi avvenimenti politico-milita-ri e conseguente instaurazione dellanuova forma di Governo RepubblicanoSociale Italiano, la suddetta denomina-

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zione non ha più ragione d’esistere ...” e saràcosì sostituita con “Piazza della Repubbli-ca”.

Continuando a scendere, ecco viaCavour, corrispondente a tutto il borgo dellavicinia di San Colombano, cioè dalla casaRuschi Pavesi fino al ponte di NostraDonna. Ci limitiamo a fare un’ipotesi sullasua intitolazione perché, purtroppo, i primiregistri delle delibere comunali post unita-rie, sia del Consiglio sia della Giunta, nonesistono fra le carte dell’Archivio Storicodel Comune depositate presso la Sezioned’Archivio di Stato.

La denominazione quale “via Cavour” latroviamo però presente già nel Censimentodella Popolazione del 1871 e, quindi, si puòprobabilmente collocare la sua intitolazionefra quest’anno e il 1861, anno della mortedel conte Camillo Benso di Cavour.

Passato quindi il ponte di Nostra Donna,detto anche Ponte di ferro per un certoperiodo, poi ponte Cesare Battisti e oggiPonte della Pace, eccoci a proseguire versosud.

Partendo dalla torre di Busticca, nell’im-mediata vicinanza del Teatro della Rosa, ini-ziava via Mazzini ex via Fiorentina e arriva-va fino in fondo al borgo cittadino, alla chie-sa di San Pietro presso la Porta Fiorentina.

Dopo una solenne cerimonia tenutasi il 5maggio 1890 in commemorazione di Aure-lio Saffi morto il 10 aprile di quell’anno, il12 maggio il Consiglio Comunale riunitosiin seduta straordinaria decide una nuovatoponomastica cittadina.

Con questo atto, oltre alle già menziona-te via Parmigiana e via Fiorentina, si decidedi sostituire la denominazione anche delleseguenti vie e piazze:

- il ponte Nuovo che ha tagliato parte dicasa Schiavi in faccia alla chiesa di SanColombano, diventa “Ponte di Cairoli” inricordo di Benedetto Cairoli; oggi questoponte è chiamato dei quattro Santi;

- lo slargo Dodi, adiacente all’omonimovicolo sotto il palazzo dei conti Galli Bona-venturi, diventa “Piazza Aurelio Saffi”; danotare come ancora oggi si ricordi più spes-so come piazza Dodi;

- la parte superiore della Strada Nuova,l’attuale Strada Statale della Cisa o comune-mente detta la Nazionale, diventa “VialeXX Settembre” mentre la parte inferiorecambia in “Viale dei Mille”.

Abbiamo un ridimensionamento di duedelle vie principali nel 1939, quando il pic-colo tratto di Via Cavour che va da casaRuschi Pavesi all’incrocio con il nuovoponte Zambeccari sarà rinominato ed inte-

stato al Generale ArmanoRicci Armani e un trattodi via Mazzini diventeràvia Pietro Cocchi, dapiazza Aurelio Saffi finoall’attaccatura con laStrada Statale davantiall’Albergo Vittoria.

Arriviamo così al 3dicembre 1949 quando ilponte vicino allo slargodi Porta Parma è intitola-to a Pompeo Spagnoli; ilconsiglio Comunale inquesto modo ha volutoricordare il valoroso gari-baldino, nato e morto aPontremoli, che parteci-pò a svariate imprese del-l’amatissimo Generale,insieme ai meno notiEnrico Buttini, VincenzoFerretti e Teodoro Reghi-ni.

* Archivista di Stato Direttore CoordinatoreSezione di Pontremoli

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S. Egidio

S. Elpidio

S. Gregorio

S. Rosalia

S. Vittorino

S. Petronio

S. Regina

Madonna della Villa

S. Sergio

S. Nicola

S. Diomede

SS Nome di Maria

S. Maurilio

Esaltazione S. Croce

B. V.. Maria Addolorata

S. Cornelio

S. Roberto

S. Sofia

S. Gennaro

S. Eustachio

S. Matteo

S. Maurizio

S. Lino

S. Pacifico

S. Aurelia

SS. Cosimo e Damiano

S. Vincenzo de' Paoli

S. Venceslao

S. Michele

S. Girolamo

Settembre

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DDDDIIIIAAAARRRRIIIIOOOO GGGGAAAARRRRIIIIBBBBAAAALLLLDDDDIIIINNNNOOOOPPAARRTTEE TTEERRZZAA

di Furio Tabagi e Giulio Cesare Cipolletta

È tutto finito. Abbiamo fatto l’Italia el’abbiamo consegnata al Piemonte, aVittorio Emanuele, ma le promesse nonsono state mantenute.

Siamo stati ancora una volta traditi.Siamo figli di una terra che non riuscia-mo ad avere, di una terra che come unamadre distratta abbandona i figli appenanati, non ancora capaci di provvedere ase stessi.

Abbiamo percorso migliaia di chilo-metri, per mare, a piedi, abbiamo com-battuto in nome di ideali grandi, cisiamo riuniti sotto una nuova bandieracon tre colori, abbiamo sparato e ucciso,sofferto e sanguinato, abbiamo patito lafame e il freddo ma quelli non contanoperché da sempre sono stati i nostricompagni di viaggio. Abbiamo cammi-nato nel fango e nel vento, traversatomari e atteso al sole e sotto la pioggia,abbiamo vinto, ma tutto questo non èstato sufficiente a farci considerarecome uomini ai quali le promesse fattedevono essere mantenute.

Garibaldi, l’eroe splendente dei duemondi, il nostro condottiero, ci avevapromesso la divisione delle terre con-quistate, gli enormi latifondi siciliani ecalabresi spezzettati secondo il merito eassegnati ai combattenti. Il 2 giugnoaveva stabilito che i combattenti per lalibertà avrebbero ricevuto in compensoquote di terra del demanio pubblico. Il31 agosto a Rogliano aveva stabilito che“gli abitanti poveri di Cosenza e Casaliesercitino gratuitamente gli usi dipascoli e di semina nelle terre demania-li della Sila”. Ma quelle sono rimasteparole dettate al vento.

Garibaldi, l’eroe luminoso, rifulgen-te nella sua camicia rossa, ci aveva fattosognare un futuro in cui una promessa èuna promessa e come tale deve essererispettata.

Garibaldi, i capelli color del granomaturo, lo sguardo oltre e sicuro, aveva

parlato di libertà, di dignità, di riscatto edi popoli uniti ma, quando si è trattato dimettere in pratica quegli ideali, quellepromesse, ha rinnegato tutto.

L’ideale dell’Italia unita prima degliitaliani.

Abbiamo soltanto cambiato padrone.Ora siamo sudditi di Vittorio Emanuele,dei piemontesi.

Un re mai visto, un re di altre terrelontane, che preferisce parlare francesee, solo se necessario, parla in dialettopiemontese, neanche lo conosce l’italia-no. Ma dov’erano i suoi piemontesi

mentre noi combattevamo e morivamo?Sono arrivati quando tutto era già finito,combattendo a Castelfidardo contro ipapalini, andati in guerra nel nome delPapa re e armati solo di buona volontà.

In Sicilia, Garibaldi, l’osannato eroe,si è accordato con i latifondisti e con lamaffia, con i capibastone, maffiosianche loro, noi abbiamo avuto l’appog-gio dei picciotti e loro hanno conserva-to le terre e il potere. E poi in Calabriac’era la ‘ndrangheta e in Campania lacamorra. E i piemontesi hanno poipreso tutto e tutti a bordo.

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Noi siamo passati nei campi lasciandoscie di sangue e loro hanno raccolto i fruttidella terra. Un buon accordo. Per loro. Pergli altri. Sempre per gli altri.

Nella tavola delle spartizioni, ci hannosempre fatto sedere dalla parte di chi nonha nulla perché tutti gli altri posti erano giàoccupati.

Ora non ci resta che tornare verso casa,ancora a piedi, ancora sconfitti dalla vitaanche se vittoriosi, attraversando un’Italiaappena fatta.

Un’Italia stancamente fatta, voluta stan-camente dagli stessi piemontesi.

C’ero anche io con Garibaldi a Teano,insieme agli altri, confuso tra i tanti gari-baldini dell’ultimo momento che indossa-vano camicie rosse appena uscite dalle sar-torie, con trini e gale e odorose di mughet-to, di coloro che sono saliti sul carro del

vincitore quando si poteva essere sicuridella vittoria. Quando abbiamo consegnatol’Italia al re, Vittorio Emanuele non ha pas-sato neppure in rassegna l’esercito vittorio-so; siamo partiti come un esercito di lazza-roni, sporchi, mal equipaggiati, laceri, masiamo arrivati qui come un esercito cheaveva vinto, che aveva sconfitto il Regnodelle Due Sicilie, il più antico ed estesod’Italia.

I borbonici avevano un esercito di100.000 uomini, un’enormità, addestrati earmati, 5.400 cavalli, una marina militarecon 22 legni a vapore, 10 navi a vela, perun totale di 200 cannoni. A maggio, a dife-sa della Sicilia, abbiamo incontrato quattrodivisioni borboniche con 25.000 uomini e64 cannoni.

E tutti che sparavano contro di noi, conpalle di cannone che facevano paura già a

sentirle fischiare quando ti passavano vici-no, aprivano crateri nella terra dove cade-vano. Ma noi siamo passati, a dispetto ditutto, a dispetto di tutti, incontro alla morteche si faceva da parte, lasciando cadere lasua falce acuminata su quelli che indossa-vano le divise con lustrini e alamari.

Eravamo troppo laceri anche per lagrande falciatrice, una messe da poco lanostra vita, anche da morti.

Calpestiamo la terra ma non la possedia-mo, l’attraversiamo e la guardiamo ma nonè la nostra, della terra noi possiamo soloereditare la fatica che serve per coltivare, ilsudore è il nostro ma il frutto è di altri.

Sono nato contadino, mangiando terra,sognando terra, e ho combattuto per toglie-re la terra ai latifondisti e l’ho consegnata aun re ingrato.

Pensavo di scrivere la storia, senzasapere che nellatavolata finale nonera stato riservatoalcun posto per me,potevo solo stare aguardare da lontanoe senza disturbare.

Sono nato conta-dino e, se per unmomento ho pensa-to di alzare la testa,di fare la rivoluzio-ne sperando in unfuturo diverso emigliore, la storia,quella vera, quellaconsueta, mi hacostretto a rivedere

le mie posizioni.Ho saputo che Garibaldi è andato a

Caprera, dove ogni volta si va a ritirarequando le cose si mettono male. Cosa staràpensando, cosa starà facendo.

Chissà se sta pensando che lui avrebbepotuto far andare diversamente le cose, seavesse avuto più coraggio, un coraggiodiverso da quello che serve per andareincontro ai cannoni dei nemici.

Ma forse anche lui, come me, è prigio-niero della sua storia personale, anche ungenerale ha qualcuno sopra di lui che gli dàordini, un condottiero e un contadino nonpossono che assecondare qualcun altro,non possono che essere figli del loro passa-to di abitudine ad obbedire.

Ho sognato, senza vergognarmene, dicominciare a chiamare questa terra, oratanto infelice, patria.

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S. Teresa

SS. Angeli Custodi

S. Gerardo abate

S. Francesco d'Assisi

S. Placido martire

S. Bruno abate

B. V. del Rosario

S. Pelagia

S. Dionigi

S. Daniele

S. Firmino

S. Serafino

S. Edoardo

S. Callisto I

S. Teresa

S. Edvige

S. Ignazio

S. Luca

S. Isacco

S. Irene

S. Orsola

S. Donato

S. Giovanni

S. Antonio M. Claret

S. Crispino

S. Evaristo

S. Fiorenzo

S. Simone

S. Ermelinda

S. Germano

S. Lucilla

Ottobre

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LLLL’’’’ IIIINNNNNNNNOOOO DDDDIIII MMMMAAAAMMMMEEEELLLLIIIIdi Giulio Cesare Cipolletta

Prima dell’Inno di Mameli, composto nel 1847, la musicache rappresentava il nostro Paese era la Marcia reale d’ordi-nanza, di Giuseppe Gabetti, un inno che è rimasto fino allacaduta della monarchia, nel 1946.

Tra il 1946 e il 1947 la Marcia è stata sostituita da La leg-genda del Piave e poi da Fratelli d’Italia.

Ma chi era Goffredo Mameli? Nato a Genova il 5 settem-bre del 1827, figlio di un comandante di nave da guerra, stu-diò giurisprudenza, seguì le idee di Mazzini e partecipò atti-vamente alle Cinque giornate di Milano ove, nel marzo del1848, a capo di 300 volontari, ha combattuto gli Austriaci sulMincio con il grado di capitano dei bersaglieri.

Tornato a Genova, collaborò con Garibaldi e, in novembre,raggiunse Roma dove, il 9 febbraio 1849, venne proclamata laRepubblica; nel corso di un combattimento, nella difesa dellacittà assediata dai Francesi, in data 3 giugno 1849 venne feri-to alla gamba sinistra e, trasportato in Ospedale, fu vittimadella inadeguatezza delle cure mediche ricevute, morendo indata 6 luglio, a meno di ventidue anni. Le sue spoglie riposa-no nel Mausoleo Ossario del Gianicolo.

Nell’autunno del 1847 aveva scritto Il Canto degli Italiani,musicato poco dopo a Torino da Michele Novaro, anche luinato a Genova il 23 ottobre 1818, dove studiò canto e compo-sizione. Nel 1847 Novaro si trasferì a Torino, con un contrat-to di secondo tenore e maestro dei cori dei Teatri Regio e Cari-gnano.

Anche Novaro era un convinto liberale e, pur musicandodecine di canti patriottici e organizzando spettacoli per la rac-colta di fondi destinati alle imprese garibaldine, il suo nome èrimasto quasi del tutto sconosciuto, tanto che egli non trassealcun vantaggio dal suo inno più famoso. Tornato a Genova,fra il 1864 e il 1865 fondò una Scuola Corale Popolare, allaquale avrebbe dedicato tutto il suo impegno. Morì povero, il21 ottobre 1885, e lo scorcio della sua vita fu segnato da dif-ficoltà finanziarie e da problemi di salute. Per iniziativa deisuoi ex allievi, gli venne eretto un monumento funebre nelcimitero di Staglieno, dove oggi riposa vicino alla tomba diMazzini.

Una curiosità si può subito evidenziare: l’inno di Mamelinon riportava nel suo manoscritto originario l’espressioneFratelli d’Italia ma quella di Evviva l’Italia; tale modifica sicollega con un altro aspetto, che l’inno non fu mai eseguitonel periodo sabaudo e fascista, trattandosi di un inno repubbli-cano e massone: fratelli è, appunto, il nome che si danno traloro i massoni.

Non a caso, in data 12 ottobre 1946, in vista dell’imminen-te giuramento delle nuove Forze Armate, in programma per il4 novembre, il ministro della guerra Cipriano Facchinetti,

massone e repubblicano, propose di adottare come inno mili-tare Fratelli d’Italia quale inno provvisorio.

Quella provvisorietà è divenuta, di fatto, un’adozione defi-nitiva, mancando sinora un provvedimento di legge, puressendosi succedute varie proposte; ultima delle quali, il dise-gno di legge costituzionale n. 821 del luglio 2006, che avevaproposto di inserire nell’art. 12 della Costituzione il seguentecomma “L’inno della Repubblica è Fratelli d’Italia”.

Il testo L’interpretazione

Fratelli d’Italia,l’Italia s’è desta,dell’elmo di Scipios’è cinta la testa.

Dov’è la Vittoria?Le porga la chioma,che schiava di RomaIddio la creò.

Stringiamoci a coorte,siam pronti alla morte.Siam pronti alla morte,

L’elmo di Scipio: l’Italia ha dinuovo sulla testa l’elmo di Scipionel’Africano, il generale romano chenel 202 a.C. sconfisse a Zama (l’at-tuale Algeria) il cartaginese Anniba-le. L’Italia è tornata a combattere. Le porga la chioma: la Vittoria saràdi Roma, cioè dell’Italia. Nell’anticaRoma alle schiave venivano tagliatii capelli. Così la Vittoria, poichéschiava di Roma vincitrice, dovràporgere la sua chioma perché siatagliata.Coorte: nell’esercito romano lecoorti erano la decima parte dellelegioni. La strofa vuol essere uninvito a restare uniti, ai combattenti

Il poeta

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l’Italia chiamò.Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popoli,perché siam divisi. Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:di fonderci insiemegià l’ora suonò.

Stringiamoci a coorte…Uniamoci, uniamoci,l’unione e l’amorerivelano ai popolile vie del Signore.Giuriamo far liberoil suolo natio:uniti, per Dio,chi vincer ci può?

Stringiamoci a coorte…Dall’Alpe a Sicilia,dovunque è Legnano;ogn’uom di Ferruccioha il core e la mano;i bimbi d’Italia si chiaman Balilla; il suon d’ogni squillai Vespri suonò.

Stringiamoci a coorte…Son giunchi che pieganole spade vendute;già l’Aquila d’Austriale penne ha perdute.Il sangue d’Italia e il sangue Polacco bevé col Cosacco,ma il cor le bruciò. Stringiamoci a coorte,siam pronti alla morte.Siam pronti alla morte,l’Italia chiamò, sì!

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che sono pronti a morire per il loro ideale.Fonderci insieme: negli anni di Goffredo Mameli l’Italiaera ancora divisa in molti stati. Il testo dice che è l’ora difondersi, di raggiungere l’unità nazionale.

In questa strofa, Mameli ripercorre sette secoli di lotta con-tro il dominio straniero. Dovunque è Legnano: ogni città italiana è Legnano, illuogo dove nel 1176 la Lega Lombarda sconfisse l’Impera-tore tedesco Federico Barbarossa.Ferruccio: ogni uomo è come Francesco Ferrucci, il capi-tano che nel 1530 difese la Repubblica di Firenze dall’eser-cito imperiale di Carlo V; il 2 agosto, pochi giorni primadella capitolazione della città, egli sconfisse le truppenemiche a Gavinana; ferito e catturato, fu finito da FabrizioMaramaldo, un italiano al soldo straniero, al quale rivolgele parole divenute celebri “Tu uccidi un uomo morto”.Balilla: è il soprannome del bambino che con il lancio diuna pietra nel 1746 diede inizio alla rivolta di Genova con-tro gli Austro-piemontesi.I Vespri: la sera del 30 marzo 1282, all’ora del vespro, isiciliani si ribellano ai francesi di Carlo d’Angiò. La rivol-ta si è poi chiamata la rivolta dei Vespri siciliani.Le spade vendute: i soldati mercenari si piegano comegiunchi e l’aquila, simbolo dell’Austria, perde le penne.Il sangue polacco: l’Austria, alleata con la Russia (ilcosacco), ha bevuto il sangue Polacco, ha diviso e smem-brato la Polonia. Ma quel sangue bevuto avvelena il cuoredegli oppressori.

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Tutti i santi

Tobia beato

S. Martino

S. Carlo Borromeo

S. Zaccaria

S. Leonardo

S. Ernesto

S. Goffredo

S. Oreste

S. Leone Magno

S. Martino di Tours

S. Renato

S. Diego

S. Giocondo

S. Alberto

S. Margherita

S. Elisabetta

S. Oddone

S. Fausto

S. Benigno

Pres. B. V. Maria

S. Cecilia

S. Clemente

Cristo re

S. Caterina

S. Corrado

S. Massimo

S. Giacomo della Marca

S. Saturnino

S. Andrea

Novembre

Il musicista

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IIIILLLL TTTTRRRRIIIICCCCOOOOLLLLOOOORRRREEEE IIIITTTTAAAALLLLIIIIAAAANNNNOOOOdi Giulio Cesare Cipolletta

Esistono varie date di nascita per labandiera italiana, a seconda che si guar-di alla sua iniziale ideazione, agli attiufficiali di riconoscimento, al suo utiliz-zo concreto.

Per individuare il significato dei trecolori della bandiera nazionale occorre,prima di tutto, dimenticare le interpreta-zioni poetiche che di esse sono statedate da GiosuèCarducci, Gio-vanni Pascoli,Ada Negri e altri;in terpretazioniche figuravanonei cd. sussidiaridella scuola ele-mentare di untempo e che attri-buivano al verdeil ricordo deiprati, al biancoquello delle neviperenni delleAlpi, al rosso l’o-maggio ai soldatimorti nelle batta-glie. Un’interpre-tazione romanti-ca, suggestiva, mapoco plausibile earbitraria che nontiene nel debitoconto, ad esempioil blu del mareche pur circondal’intera Penisola.

In principio, iltricolore italianofu ideato in data14 novembre1794 ben primadella data dinascita dello Statoitaliano, comecoccarda appunta-ta sugli abiti deipatrioti durante la

sommossa di Bologna, organizzata inmodo spontaneo per ridare al Comunequell’antica indipendenza che era stataperduta da duecento anni circa con lasudditanza agli Stati della Chiesa.

Gli ideatori del tricolore, due studen-ti universitari, si chiamano Luigi Zam-boni, di Bologna, e Giovanni BattistaDe Rolandis, originario di Castell’Alfe-ro (AT), i quali avevano preso a model-lo il tricolore francese – sostituendo alblu il verde, colore della speranza – in

quanto simboleggiava quegli ideali dilibertà, uguaglianza e fratellanza cheerano stati fatti propri dalla rivoluzionefrancese del 1789 e ai quali essi stessi siispiravano; le coccarde vennero mate-rialmente cucite dalla madre e dalla ziadello Zamboni.

La sommossa, nella notte del 13dicembre 1794, fallì per alcune probabi-li delazioni e i due studenti universitarifurono catturati dalla polizia pontificia,insieme ad altri cittadini.

Dei due ideato-ri si conosconoanche le sorti: indata 19 agosto1795, Luigi Zam-boni fu trovatomorto strangolatonella cella deno-minata “Inferno”,ove era stato rin-chiuso insieme adue criminali, aiquali le fonti ten-derebbero ad attri-buire il delitto,eseguito per ordi-ne espresso dellapolizia, in cambiodella loro libera-zione anticipata.

L’altro studen-te, Giovanni Batti-sta De Rolandis,fu condannato amorte a seguitodel processo eimpiccato in data23 aprile 1796.

Ironia dellasorte, soltantoalcuni giornidopo, in data 18maggio 1796, icolori della coc-carda vengonoufficialmente rico-nosciuti da Napo-leone I che, aMilano, consegna

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S. Bibiana

S. Francesco

S. Barbara

S. Giulio

S. Nicola

S. Ambrogio

Immacolata Concezione

S. Cesare

B. V. Maria di Loreto

S. Damaso

S. Giovanna

S. Lucia

S. Giovanni della Croce

S. Valeriano

S. Albina

S. Lazzaro

S. Graziano

S. Fausta

S. Liberato

S. Pietro

S. Francesca Cabrini

S. Giovanni da Kety

S. Delfino

Natale del Signore

S. Stefano

S. Giovanni

SS. Innocenti Martiri

S. Tommaso Becket

S. Eugenio

S. Silvestro

alla Guardia civica, alla Legione lombarda ealla Guardia nazionale una bandiera constrisce verticali verde bianca e rossa.

Nel corso della stessa cerimonia, Napo-leone afferma testualmente che “visto cheloro (i due studenti bolognesi) hanno sceltoquesti tre colori, così siano”, così sancendola paternità della bandiera quale provenientedalla coccarda della sollevazione di Bolo-gna.

Da quel momento, è un rincorrersi didate ufficiali di utilizzo della bandiera trico-lore: in data 9 ottobre 1796 (in data 18 ven-demmiaio dell’anno V, secondo il calenda-rio francese rivoluzionario) Bonaparte con-segna alla Legione italiana, emanazionedella Legione lombarda, un tricolore con lastessa composizione della coccarda bolo-gnese; in data 18 ottobre 1796 (il 27 ven-demmiaio) il Senato provvisorio di Bolognaemana un documento esecutivo nel quale, alpunto 3, si può leggere “richiesto quali sianoi colori nazionali per formare una bandierasi è risposto il Verde, il Bianco ed il Rosso”.

Nasce, dunque, la nuova RepubblicaCispadana con la bandiera tricolore, madisposta su strisce orizzontali: il rosso inalto, il verde in basso, il bianco al centro, nelquale viene inserito un turcasso (una faretra)con quattro frecce – rappresentanti le città diBologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia– circondato da un serto di alloro e ornato daun trofeo di armi.

Qualche mese dopo, il 7 gennaio 1797, aReggio Emilia, i convenuti delle assise, suproposta del deputato Giuseppe Compagno-ni, fanno proprio il nuovo stendardo tricolo-re e si impegnano a che esso diventi univer-sale. Il congresso della Repubblica Cispada-na, convocato a Modena il 21 gennaio 1797,decreto vessillo di Stato il tricolore “pervirtù d’uomini e di tempi fatto simbolo del-l’unità indissolubile della nazione”.

Nel corso della prima campagna d’Italia,che Napoleone conduce tra il 1796 e il 1799,si sgretola l’antico sistema di Stati in cui eradivisa la Penisola e, al loro posto, sorgononumerose repubbliche giacobine, di impron-ta democratica: la Repubblica Ligure, laRepubblica Romana, la Repubblica Parte-nopea, la Repubblica Anconitana.

La maggior parte di esse non sopravvissealla controffensiva austro-russa del 1799;altre confluirono, dopo la seconda campa-gna d’Italia, nel Regno Italico, durato fino al1814.

Tuttavia, esse rappresentano la primaespressione di quegli ideali di indipendenza

che alimentarono il nostro Risorgimento. Efu proprio in quegli anni che la bandiera fuavvertita non più come segno dinastico omilitare, ma come simbolo del popolo, dellelibertà conquistate e, dunque, della nazionestessa.

Il Gran Consiglio della RepubblicaCisalpina, nella seduta dell’11 maggio 1798,decreta che “la Bandiera della NazioneCisalpina è formata di tre bande paralleleall’asta, la prossima all’asta verde, la suc-cessiva bianca, la terza rossa. L’asta è simil-mente tricolorata a spirale, colla punta bian-ca”.

Tale risoluzione è stata però molto spes-so disattesa: per almeno quattro decenni,infatti, le bandiere con il tricolore sono statecomposte con modalità variabili nell’acco-stamento e nella disposizione, sino alla defi-nitiva codifica del 1848.

Il tricolore, al cui interno campeggia loscudo dei Savoia, è ufficialmente adottatodal Regno di Sardegna il 27 Marzo 1848;alcuni giorni prima, con l’inizio della primaguerra di indipendenza dall’Austria, CarloAlberto di Savoia ordina che “le truppe cheentreranno sul suolo lombardo inalberino edassumano la bandiera italiana bianca, rossa everde, con in mezzo lo scudo di Savoia(croce bianca in campo rosso)”.

Il 18 febbraio 1861 si riunisce a Torino ilprimo Parlamento italiano e il 17 marzo èproclamata la costituzione del Regno d’Ita-lia. Il nuovo Stato adotta tacitamente comebandiera nazionale quella del Regno di Sar-degna: il tricolore con lo stemma dei Savoia,orlato d’azzurro e sormontato dalla coronareale.

Ma la mancanza di un’apposita legge alriguardo – emanata soltanto per gli stendar-di militari – portò alla realizzazione di ves-silli di foggia diversa dall’originaria, spessoaddirittura arbitrarie. Soltanto nel 1923 sonostati definiti, per legge, i modelli della ban-diera nazionale e della bandiera di Stato.Quest’ultima (da usarsi nelle residenze deisovrani, nelle sedi parlamentari, negli ufficie nelle rappresentanze diplomatiche) avreb-be aggiunto allo stemma la corona reale.

Dopo la nascita della Repubblica, undecreto legislativo presidenziale del 19 giu-gno 1946 stabilì la foggia provvisoria dellanuova bandiera, confermata dall’AssembleaCostituente in data 24 marzo 1947 e inseritaall’articolo 12 della Costituzione: “la ban-diera della Repubblica è il tricolore italiano:verde, bianco e rosso, a tre bande verticali dieguali dimensioni”.

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