Alma Mater Studiorum- Università di Bologna Dottorato di...

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Alma Mater Studiorum- Università di Bologna Dottorato di ricerca in Economia e Statistica Agroalimentare ciclo XXVII Settore Concorsuale di afferenza: 13/A2 Politica economica Settore Scientifico Disciplinare SECS/P02 Politica economica RESPONSABILITA' SOCIALE D'IMPRESA E ABITUDINI ALIMENTARI : contributo di Coop nella creazione di valore per i cittadini, per il territorio e i prodotti tipici di qualità Candidato: Relatore: Lucia Barducci Prof.ssa Cristina Brasili Coordinatore del Corso: Prof.ssa Alessandra Luati Esame finale anno 2015 1

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  • Alma Mater Studiorum- Università di Bologna

    Dottorato di ricerca in Economia e Statistica Agroalimentare

    ciclo XXVII

    Settore Concorsuale di afferenza: 13/A2 Politica economica

    Settore Scientifico Disciplinare SECS/P02 Politica economica

    RESPONSABILITA' SOCIALE D'IMPRESA E ABITUDINI ALIMENTARI :

    contributo di Coop nella creazione di valore per i cittadini, per il territorio e i

    prodotti tipici di qualità

    Candidato: Relatore:

    Lucia Barducci Prof.ssa Cristina Brasili

    Coordinatore del Corso:

    Prof.ssa Alessandra Luati

    Esame finale anno 2015

    1

  • INTRODUZIONE

    CAPITOLO 1 Comportamento del consumatore tra Brand managment e Rsi

    1.1 Origine ed evoluzione storica della RSI

    1.2 L'impresa cooperativa e RSI

    1.3 Coop e l'approccio alla RSI

    1.4 Brand managment e abitudini alimentari: un nuovo profilo di consumatore

    “Il comportamento del consumatore , le politiche di brand managment e la

    Resposabilità Sociale d'Impresa” Pubblicazione in Rivista ed Economia e Diritto

    Agroalimentare

    CAPITOLO 2 Agricoltura biologica in in Europa , in Italia e in Emilia Romagna

    2.1 L'agricoltura biologica in Europa: un inquadramento generale

    2.2 Il comparto biologico in Italia

    2.3 Il biologico in Emilia Romagna

    CAPITOLO 3 “Il progetto di Ricerca Coop”

    3.1 “La Linea Viviverde Coop. Andamenti, diffusione e prospettive future nella Provincia di

    Bologna” Pubblicazione in Quaderni di Dipartimento-Serie Ricerche

    3.2 Indagine demoscopica

    CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

    APPENDICE I QUESTIONARIO COOP

    RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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  • INTRODUZIONE

    Può l 'impresa curarsi esclusivamente della creazione del profitto? O deve inserire altri

    obiettivi, connessi con l'impatto che l'impresa ha sul contesto sociale e ambientale? Se in

    passato l'etica appariva inconciliabile con l'attività imprenditoriale di successo, da qualche tempo

    inizia ad essere considerata come parte ineliminabile della stessa.

    È da queste considerazioni che il presente lavoro trae spunto, per esaminare una tematica

    multidisciplinare al centro del dibattito internazionale: la Responsabilità Sociale d'Impresa, o

    Corporate Social Responsibility.

    L'analisi si divide in tre capitoli. Il primo capitolo è caratterizzato da un'analisi teorica

    dell'argomento, basata sulla letteratura esistente. In particolare, il primo capitolo è dedicato

    alla definizione della RSI e del suo ambito di applicazione. Dopo un excursus storico

    sull'evoluzione del concetto e sui principali contributi teorici, verrà esaminata la definizione fornita

    dalla Commissione Europea, che ha dato impulso allo sviluppo della CSR in Europa, e verranno

    indagati i principali fattori che hanno influenzato la sua diffusione. Dopodiché si adotterà il

    punto di vista delle imprese, definendo come la RSI può manifestarsi, i costi e i benefici per

    l'azienda, le iniziative volte a incentivare l'adozione della CSR e, infine, l'atteggiamento delle

    cooperative italiane, in particolar modo di Coop Adriatica nei confronti della RSI.

    Il secondo capitolo presenta il quadro normativo di riferimento ed affronta il tema della definizione

    di agricoltura biologica: viene descritto lo scenario mondiale, con particolare attenzione al quadro

    europeo e in particolare quello italiano dell' Emilia Romagna.

    Infine il terzo capitolo è l o studio s p e r i m e n t a l e sulla linea ViviVerde Coop: l’andamento

    della politica di brand management di Coop, ovvero la linea ViviVerde Coop attraverso l’analisi

    dei dati di fatturato della serie di prodotti della linea ViviVerde del comparto food, (uova, latte,

    formaggi, pasta, nettari di frutta) per una serie storica che parte da Gennaio 2010 e arriva

    a Ottobre 2013. Si è cercato di individuare delle informazioni utili a comprenderne l’andamento

    alla luce di una perdurante crisi economica che sta portando il consumatore ad assumere

    comportamenti sempre più austeri. L’importanza di simili ricerche è da individuare nel segmento

    degli studi, che analizzano il nuovo profilo di responsabilità sociale da parte del

    consumatore/cliente, inteso come colui che si preoccupa solo di scegliere l’opzione migliore in

    relazione al rapporto qualità/prezzo, che oggi viene sostituito progressivamente, nonostante

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  • la forte crisi economica, dal consumatore/cittadino, maggiormente interessato a conoscere le

    dinamiche e la filosofia che giace dietro al prodotto (Inea, 2009). Alla Fiera Marca (gennaio 2014

    a Bologna Fiere) dedicata alle private label, è emerso che i prodotti venduti al dettaglio con

    marca privata si avvicinano a rappresentare circa un quinto dell’offerta commerciale di prodotti

    alimentari; grazie al bilanciamento tra prezzo e qualità, le private label sono scelte da un

    numero sempre maggiore di consumatori e va ampliandosi anche l'offerta dei prodotti nei

    diversi segmenti, soprattutto dal biologico al premium passando per il primo prezzo. La marca

    commerciale continua a conquistare spazi nel carrello della spesa dei consumatori italiani: nel

    2013, le vendite dei prodotti a marchio sono cresciute del 4,4% raggiungendo una quota di

    mercato del 18,4% (indagine Nielsen riportata da RetailWatch 2014). In particolare si può

    ipotizzare, basandosi su letteratura esistente, che il consumatore/cittadino che compra

    prodotti ViviVerde Coop, sia un individuo dotato di un livello di istruzione medio alto con

    pretese nella composizione del bene da acquistare, che contempla particolari bisogni che

    vanno dalla sicurezza alimentare, in termini di caratteristiche igieniche e nutrizionali,

    alla sostenibilità ambientale, in termini di uso prevalente di risorse locali e rinnovabili, di

    utilizzo di prodotti e procedimenti naturali, di rispetto per le condizioni di vita degli animali

    allevati, fino a tutta una serie di componenti etiche, dalla sicurezza sui luoghi di lavoro alla tutela

    dei lavoratori, dalla coesione sociale della comunità locale alla valorizzazione delle aree rurali di

    produzione e delle tradizioni enogastronomiche locali (Inea, 2009).Coop Adriatica fornisce a

    questo individuo una serie di prodotti che gli permettono di circondarsi di prodotti

    ViviVerde facendo si che più che una semplice iniziativa di brand marketing diventi una sorta

    di lifestyle. “La natura stessa sceglierebbe ViviVerde Coop. Il rispetto dell’ambiente oggi può

    caratterizzare ogni scelta della tua spesa quotidiana, in qualunque reparto ti trovi, puoi scegliere

    di acquistare un prodotto ViviVerde Coop: proprio per la vastità della sua proposta, la nuova

    linea è distribuita in tutto il punto vendita”

    Il rapporto tra responsabilità sociale d'impresa e strategia, definisce le varie tipologie di relazione

    possibili, le modalità per inserire la RSI nella prassi aziendale e i vantaggi competitivi offerti

    dall'integrazione della RSI nella strategia. Ogni impresa è diversa, ha i suoi valori e i suoi

    riferimenti, e perciò fornisce risposte differenti. Tuttavia riteniamo che la traccia che Coop

    Adriatica ha segnato, sia nel campo della rendicontazione sociale che della gestione

    sostenibile, possa servire da modello non solo per le imprese cooperative, ma per ogni

    organizzazione che crede che intraprendere un percorso di RSI sia una scelta legittima, intelligente

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  • e necessaria. Concludiamo questo lavoro ricordando come il tema della Responsabilità sociale

    dell’impresa sia oggi molto dibattuto e controverso, per i motivi più disparati.

    In primo luogo perché esso è legato ad una serie di questioni particolarmente reali e

    problematiche, come il dibattito sulla Governance, sulla crisi del capitalismo, sui

    cambiamenti nella società civile e nel modo di concepire l’impresa, sul ruolo della

    comunicazione.

    In secondo luogo perché, per quanto sia presentato da molti come una “moda” o come una nuova

    frontiera del marketing, il tema della Responsabilità sociale dell’impresa può e deve

    costituire qualcosa di molto diverso. È infatti una parte della risposta che una società in

    ridefinizione sta tentando di dare a vecchie e nuove conflittualità.

    In una società profondamente mutata, occorrerà, forse, non discutere più soltanto di pratiche

    che tengano conto della salvaguardia dell’ambiente o di miglioramento delle condizioni dei

    lavoratori, ma di un’azione sostenibile, di una strategia unitaria che consideri sullo stesso

    piano tre aspetti contemporaneamente: quelli ambientali, sociali ed economici della gestione

    dell’impresa.

    Coop Adriatica si è interrogata proprio su questo problema della sostenibilità e sta cercando di

    fornire una sua risposta concreta. Siamo convinti che il fatto che essa sia un’impresa cooperativa la

    aiuta ad avere un approccio diverso dalle altre imprese sul mercato, che supera la mera logica di

    marketing. L’intento di questo lavoro è stato quello di individuare delle evidenze empiriche che

    dimostrassero il successo, o insuccesso, di politiche di brand management nell’ambito del

    fenomeno della CSR. La domanda che ci siamo posti si può riassumere così: gli sforzi, in questo

    caso, di Coop Adriatica nel perseguire comportamenti di responsabilità sociale d’impresa, trovano

    un riscontro economico presso i consumatori? Nello specifico abbiamo analizzato le performance

    economiche della linea bio ViviVerde Coop, grazie ai dati scanner fornitici da Coop Adriatica per la

    Provincia di Bologna. Lo studio si basa su dati di vendita di un panel di prodotti della linea del

    comparto food (uova, latte, formaggi, pasta, nettari di frutta) per una serie storica che parte da

    Gennaio 2010 e arriva a Ottobre 2013.

    L’importanza di simili ricerche è da individuare nel segmento degli studi, che analizzano il nuovo

    profilo di responsabilità sociale da parte del consumatore/cliente, inteso come colui che si

    preoccupa solo di scegliere l’opzione migliore in relazione al rapporto qualità/prezzo, che oggi

    viene progressivamente sostituito dal consumatore/cittadino, maggiormente interessato a conoscere

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  • le dinamiche e la filosofia che giace dietro al prodotto . In particolare, in questo lavoro, si cerca di

    andare oltre la mera descrizione del fenomeno, per altro già esaurientemente descritta, misurando

    gli effetti microeconomici che tali fenomeni hanno, attraverso l’analisi dell’elasticità della domanda

    sul prezzo dei beni food della linea ViviVerde Coop.

    Diversi studi hanno dimostrato le politiche di CSR hanno positivi effetti non solo sulla percezione

    di affidabilità dell’insegna di GDO ma anche e, soprattutto, sui fatturati.

    Gli andamenti di tali particolari prodotti, in uno scenario di crisi come quello contemporaneo, ci

    permettono di comprendere se e come il nuovo consumatore sia sensibile allo sforzo dell’impresa

    nel fornirgli un prodotto che rispecchi le sue “nuove” esigenze. Le imprese che agiscono in modo

    responsabile e sostenibile attraggono e motivano i consumatori, riuscendo a definire e proteggere

    una forte brand image e consumer loyalty. Questi aspetti sono fondamentali per sopravvivere nello

    scenario economico moderno caratterizzato da una forte intensità competitiva e in cui assumono

    sempre più importanza la creazione di un brand forte e politiche di brand management.

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  • CAPITOLO 1

    Comportamento del consumatore tra Brand managment e Rsi

    1.1 Origine e d evoluzione storica della RSI

    La responsabilità sociale d 'impresa è un concetto di non facile definizione, in quanto

    oggetto di rivisitazioni e ridefinizioni ad opera di diversi autori. È possibile individuarne

    gli esordi in Europa, a metà dell'Ottocento, con una connotazione prettamente

    filantropica. Le imprese iniziano ad entrare nella vita sociale della comunità, attraverso

    la costruzione di scuole, luoghi di culto, ospedali e l'istituzione di sussidi per la maternità,

    contribuendo a diffondere il benessere tra la popolazione (Cavallo, 2008).

    Al di là di queste prime manifestazioni, si è soliti far risalire il concetto di RSI a Bowen che, nel

    1953 pubblica “Social Responsibilities Of The Businessman” e si concentra sulle responsabilità

    che il management d'azienda dovrebbe assumere nei confronti della società. Secondo

    l'autore, la responsabilità sociale «refers to the obligations of businessman to pursue those

    policies, to make those decisions, or to follow those line s of action which are desirable in

    terms of the objectives and values of our society ». Bowen riconosce che le azioni dei

    businessman e, quindi, dell'impresa, Bowen riconosce che le azioni dei businessman e, quindi,

    dell'impresa, hanno un impatto sul contesto sociale e ambientale, pertanto si augura che la condotta

    dei manager vada oltre i meri obblighi economici e legali, rispondendo ai bisogni della società

    (Bowen, 1953).

    Dovremo aspettare gli anni '60 con il diffondersi delle corporation, le società per azioni,

    perché si inizi a parlare di Corporate Social Responsibility ; in questo periodo, il dibattito si

    concentra sulla delineazione dei contorni della RSI e sul binomio volontarietà/obbligatorietà

    rispetto ai valori e alle iniziative della RSI. Emergono, comunque, anche voci contrarie alla

    responsabilità sociale dell'impresa : è il caso del Nobel per l‟economia Milton Friedman, il

    quale afferma dalle pagine del «New York Times Magazine» che l'unica responsabilità

    legittima dell'impresa è l'impiego delle proprie risorse in attività capaci di aumentare il

    profitto nel rispetto delle regole (Friedman, 1970).

    Le parole di Friedman esprimono il pensiero ancora prevalente in quel periodo secondo cui

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  • l'unico obiettivo dell'impresa è l'utile economico e gli unici portatori di interesse riconosciuti a sono

    gli azionisti, gli shareholder. La forte presa di posizione di Friedman non ha comunque

    fermato l'interesse crescente per i temi della RSI. Alla fine degli anni ‟70 A. B. Carroll ha dato un

    nuovo impulso alla materia, proponendo un modello fondato su quattro categorie di

    responsabilità sociale (Carroll, 1979):

    • economica, relativa alla produzione e vendita di beni e servizi richiesti dalla

    società,in cambio di un profitto;

    • legale, relativa al rispetto delle regole e delle leggi imposte dalle istituzioni;

    • etica, relativa al soddisfacimento delle istanze di tipo valoriale, presentate dalla società e al

    di là dei requisiti di legge;

    • discrezionale, relativa agli adempimenti ulteriori che vanno oltre le aspettative della

    società (Hinna, 2005).

    Tale approccio è stato denominato Corporate Social Performance ed è interessante notare

    che l'impostazione di Carroll rimanda in modo evidente ai tratti distintivi che definiscono

    ancora oggi la RSI. Gli anni '80 sono stati segnati da due importanti filoni di studio che

    hanno contribuito notevolmente alla definizione di CSR. Innanzitutto la teoria degli

    stakeholder di E. Freeman, che fa da spartiacque tra la vecchia concezione della società civile e

    del ruolo che l‟impresa riveste in essa. Nell'opera “Strategic Management: “A Stakeholder

    Approach” del 1984 Freeman inserisce la RSI nella gestione strategica dell'impresa e si schiera

    contro il tradizionale approccio della shareholder theory, secondo cui il fine dell'impresa è

    massimizzare il profitto e l'unico interlocutore legittimo è l'azionista. Freeman, invece, afferma

    che l'azienda deve farsi carico di tutte le istanze avanzate dai soggetti coinvolti direttamente e

    indirettamente nelle attività dell'impresa. Il management deve rendere conto della propria

    condotta non più solo agli azionisti, ma a tutti coloro che posso influenzare o essere influenzati

    dall'impresa, che Freeman definisce stakeholder.

    Numerosi sono gli autori che si sono interessati alla stakeholder theory e dal loro apporto è

    possibile individuare tre temi fondamentali (Minoja, 2008):

    • definizione della stakeholder theory : la differenza sostanziale tra la concezione tradizionale

    e il nuovo approccio è che l'impresa deve prendere in considerazione gli interessi di tutti

    i portatori di interesse, anche se questo potrebbe comportare una diminuzione della

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  • redditività d'impresa;

    • individuazione degli stakeholder : nonostante esistano macrogruppi di portatori di

    interesse rilevanti per tutte le aziende (azionisti, clienti, fornitori, etc.), è necessario

    definirli azienda per azienda, adottando un approccio contingente;

    • stakeholder management: occorre individuare le modalità più proficue per rapportarsi

    agli interlocutori dell'azienda, bilanciando i vari interessi.

    Nel secondo filone di studi, il focus di ricerca si sposta dalla dimensione sociale esterna

    dell'impresa e dalla gestione manageriale interna, alla sfera etica, considerando non tanto l'impresa

    come soggetto collettivo, ma i comportamenti dei singoli individui che la compongono. La più forte

    spinta in questa direzione è della scuola della Business Ethics, sviluppatasi soprattutto negli Stati

    Uniti. Gli interrogativi a cui essa cerca di rispondere sono sostanzialmente tre (Minoja, 2008):

    • ingerenza dell'etica nel business : ci si chiede quali siano i confini per ritenere etico il

    comportamento dell'impresa. È sufficiente aderire alle normative vigenti o è necessario

    andare oltre e rispondere alla richieste della società?

    • modalità di risoluzione dei dilemmi etici in azienda: coloro che operano in essa potrebbero

    trovarsi di fronte a problemi di tipo etico, derivanti da conflitti di interesse tra i

    diversi portatori di interesse. Un'ottica di lungo periodo e un radicamento dei valori

    etici dell'impresa nelle persone operanti in azienda permettono di risolvere tale

    questione;

    • modalità di diffusione all'interno dell'impresa della cultura e dei valori etici

    dell'impresa.

    Di Responsabilità sociale dell’impresa si parla molto oggi, per i motivi più disparati. Questo

    tema, infatti, è legato ad una serie di questioni straordinariamente attuali e controverse, come

    il dibattito sulla Governance, sulla crisi del capitalismo, sui cambiamenti nella società civile e

    nel modo di concepire l’impresa, sul ruolo della comunicazione.

    In questo lavoro si è cercato di focalizzare l’attenzione su alcuni di questi aspetti e su un caso

    specifico, gli andamenti della linea di prodotti biologici ViviVerde Coop, essendo consapevoli

    della complessità della questione e dei confini labili esistenti tra queste problematiche. Lo stesso

    concetto di responsabilità non è privo di problematicità. In una società moderna, aperta e

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  • democratica, non esistono infatti prescrizioni positive riguardo ai comportamenti dei soggetti,

    sia individui che istituzioni. Ciò significa che non vengono definiti o imposti gli esiti attesi delle

    azioni, ma esistono al massimo delle prescrizioni negative: i limiti e le regole a cui le azioni

    devono attenersi. Per cui risulta facile identificare la responsabilità negativa: chi non si adegua

    alle prescrizioni delle leggi è responsabile delle proprie azioni. Al contrario, è difficile

    valutare la responsabilità positiva, cioè del merito. Esso infatti non è previsto, descritto e misurato

    dalla legge. È invece ascrivibile sia alle istituzioni che agli individui, ma secondo criteri

    assai più incerti e raramente formalizzati.

    La responsabilità, quindi, è una categoria assai meno precisa di quanto a prima vista percepiamo.

    Essa deve essere delimitata e riempita di senso da una scelta morale privata, che però possa essere

    socialmente accettata, definita, convenuta.

    Noi, le persone, i cittadini, possediamo una morale necessaria a regolare i rapporti

    interpersonali. Abbiamo un criterio morale generale, abbiamo l’idea di un patto sociale e collettivo

    che ci fa confrontare il nostro individuale tornaconto con quello di una collettività tendenzialmente

    impersonale. Concepiamo il campo della morale o molto restrittivamente, relativamente

    all’individuo e alle sue relazioni interpersonali, oppure al contrario come afferente ad ambiti

    sociali vasti, e anche tradizionali: lo Stato, la famiglia, l’associazione, la parrocchia, ecc. Nei

    loro confronti sappiamo di avere degli obblighi morali. Per l’impresa, invece, le cose

    funzionano diversamente: è la regola economica a guidare le azioni. “L’impresa non è

    ancora considerata una organizzazione morale, mentre – nei fatti – essa è forse l’aggregato sociale

    che più di ogni altro può fare comprendere cosa si debba intendere con ‘etica contemporanea’: la

    necessità di rimettere in gioco in continuazione il nostro prendere e dare, il nostro produrre

    e usare, il nostro diritto e il nostro dovere, senza che alcuno – fuori di noi – determini il valore delle

    azioni”(Viviani 1998, p. 31). Per quanto sia presentata da alcuni come una “moda” o come

    una nuova frontiera del marketing, la Responsabilità sociale dell’impresa costituisce qualcosa

    di molto diverso. È infatti una parte della risposta che una società in ridefinizione sta

    tentando di dare a vecchie e nuove conflittualità. In una società profondamente mutata, occorrerà,

    forse, non discutere più soltanto di pratiche che tengano conto della salvaguardia

    dell’ambiente o di miglioramento delle condizioni dei lavoratori, ma di un’azione

    sostenibile, di una strategia unitaria che consideri tre aspetti contemporaneamente:

    quelli ambientali, sociali ed economici della gestione dell’impresa.

    In primo luogo, quindi, è necessario avvicinarsi alla questione della sostenibilità, intesa

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  • appunto come un modello di gestione economica che tiene conto dell’impatto ambientale e

    sociale attuale e futuro di un’impresa, in un’ottica di intergenerazionalità (la preoccupazione

    che i bisogni delle generazioni future possano venire soddisfatti al pari di quelli delle generazioni

    presenti).

    Tuttavia non è possibile isolare questi argomenti senza doverne sollevare altri, non meno spinosi e

    dibattuti. Innanzitutto il dibattito sulla Governance, che deve essere trattato al fianco di quello

    manageriale, insieme anche al ruolo dell’ente pubblico e delle organizzazioni non profit , che

    stanno cercando di rivedere i propri ambiti d’azione e le proprie responsabilità in un contesto di

    crisi del modello del Welfare State.

    Le due grandi crisi, quella dello Stato e del mercato, non possono essere considerate come

    l’unica causa dello stato di decadenza dello stato assistenziale. Alla base di questi due fenomeni,

    infatti, sta una messa in discussione del framework interpretativo della società. I pilastri

    della fiducia e del presupposto di giustizia del sistema instaurato cominciano a manifestare

    alcune crepe. Questo cambiamento è attribuibile a diversi fattori, fra cui la crescita della diversità

    sociale e culturale, dovuta alla globalizzazione socioeconomica, alla crescita delle città

    multietniche, al declino e alla ridefinizione dei grandi sistemi ideologici del secolo scorso.

    Inoltre è divenuto centrale il tema del dialogo fra stakeholders, inteso come processo reale,

    che modifica le strutture manageriali e che diventa il centro della cosiddetta democrazia

    partecipativa, ma che è anche una chiave decisiva per il successo dell’impresa. Il lavoratore, il

    consumatore è stato riconosciuto come cittadino e ciò ha modificato i rapporti tra società civile,

    impresa e istituzione pubblica.

    Infine, occorre considerare il ruolo della comunicazione, la quale sta diventando un elemento

    centrale della risposta che le organizzazioni stanno cercando di fornire alle esigenze di eticità da

    parte della società civile. La comunicazione è protagonista a diversi livelli. Innanzitutto e

    indiscutibilmente nella creazione di fiducia all’interno di un sistema di relazioni. Simmel

    affermava che chi manca completamente di informazioni non può fidarsi. Chi ne ha troppe,

    non ha bisogno di farlo. Questo non significa che un flusso informativo crei di per sé un

    processo di tipo fiduciario. La comunicazione presuppone infatti un processo bidirezionale, un

    feedback .

    Nel tentativo di analizzare questioni così complesse, il rischio è, chiaramente, quello di mettere in

    gioco un eccesso di concetti e di punti di vista, amalgamando tutto e perdendosi fra contraddizioni e

    differenze. Parlare di un “ombrello concettuale” così vasto, come quello della Responsabilità

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  • sociale dell’impresa, intrecciandolo al tema della Governance, sullo sfondo del dialogo

    fra stakeholders può sembrare un’operazione impossibile, una coperta che sfugge da tutti i lati.

    La strada che ci è sembrata più produttiva per affrontare questo lavoro è così quella di partire

    dall’analisi di un caso specifico. Il case study della linea di prodotti bilogici ViviVerde Coop in

    questione è stato selezionato in base a diverse ragioni.

    Siamo convinti che, per la maggioranza delle organizzazioni, la Responsabilità sociale dell’impresa

    equivalga ad una variante di marketing, sia uno strumento per vendere di più. Ecco perché

    abbiamo scelto di analizzare il caso di Coop Adriatica che si allontana dall’impresa di capitali,

    che si differenzia per la sua mission e i suoi valori e che è nata per rispondere ad alcuni disagi della

    società: la cooperazione. Ciò che vogliamo capire e se, per questa azienda, la Responsabilità

    sociale assume connotati e significati diversi da una logica opportunistica di profitto e di

    “make up”. Abbiamo scelto Coop Adriatica non solo per ragioni pratiche, legate alla possibilità di

    accedere a dati e materiale informativo, ma anche perché chi scrive ha avuto modo di

    collaborare più volte con questa impresa e di essere dunque particolarmente motivato a

    comprendere più da vicino le pratiche di gestione e le scelte maturate al suo interno. Abbiamo

    cercato di comprendere in cosa consiste il suo approccio alla Responsabilità sociale e

    analizzato il suo strumento chiave nella comunicazione del cambiamento, la linea biologica

    Viviverde.

    In economia, l’unica logica che per decenni ha predominato è stata quella dell’interesse

    personale, del conseguimento del proprio utile e dell’ottenimento del massimo profitto.

    Secondo Hirschman (1987) i primi a separare moralità ed economia furono dapprima Machiavelli,

    poi Montesquieu e infine Smith.

    Tuttavia c’è stato un momento in cui l’atteggiamento antietico in economia ha subito una battuta

    d’arresto, e questo momento, contrariamente a quanto si potrebbe di primo acchito immaginare, è

    stato precedente alla globalizzazione liberale, ai grandi movimenti legati alle vicende di Seattle,

    di Genova e di Porto Alegre, alle proteste che in tutto il mondo si sono sollevate in nome di

    una distribuzione della ricchezza più giusta ed equa tra Nord e Sud del mondo, contro le

    disuguaglianze sociali, a favore del rispetto dei diritti umani, contro lo sfruttamento dei lavoratori e

    l’uso scriteriato delle risorse ambientali. Secondo Sen (1988), infatti, già con la pubblicazione

    dei teoremi dell’economia del benessere di Pareto, nel 1906, e poi con la loro messa in discussione,

    divenne evidente che non potevano essere solo l’interesse personale e l’utilità a muovere

    l’economia, e che i principi etici e morali dovevano trovare un posto di rilievo nelle politiche

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  • economiche. Il problema è che nessuno sa indicare esattamente in che modo valori tanto

    diversi possono convivere. Secondo Sen (1988), infatti, non si tratta di una cosa facile, e il connubio

    tra etica ed economia comporta ambiguità profonde e problemi complessi. Tuttavia egli è convinto

    che da questa unione ci si possano aspettare vantaggi cospicui. Per Hirschman (1987), d’altro

    canto, è sconsigliabile, se non addirittura controproducente, fornire agli scienziati sociali delle

    chiare linee di condotta su come includere la moralità in economia, poiché essa non è

    paragonabile a problematiche concrete quali, ad esempio, la riduzione del tasso di inquinamento, e

    perciò non la si può ottenere modificando leggermente una proposta di politica economica. Il

    problema si presenta quindi molto complicato.

    Il modo nuovo di “pensare l’impresa”, di “fare impresa”, è stimolato dall’instaurarsi di un

    nuovo scenario di fondo in cui gli operatori economici debbono interagire. Il mercato è influenzato

    sempre di più dalla crisi delle ideologie del secolo passato, cattolicesimo e marxismo; dal fallimento

    delle sola logica di mercato, quindi la crisi della supremazia economica; dal difficile legame tra

    etica e globalizzazione. Ma quando si è iniziato a parlare specificatamente di Responsabilità

    sociale? È accaduto per la prima volta dopo la pubblicazione, nel 1960, di Capitalism and

    Freedom, del premio nobel per l’economia Milton Friedman. Egli mette a tacere quanti sostenevano

    che i dirigenti delle aziende e dei sindacati avessero qualche forma di responsabilità sociale nei

    confronti dei propri lavoratori o membri. Nella sua opinione, invece, l’unica responsabilità

    dell’impresa (all’interno di un mercato di concorrenza perfetta) è quella di fare profitti e di

    tutelare gli interessi degli azionisti.

    La risposta alle argomentazioni di Friedman arriva negli anni Ottanta, quando Freeman introduce

    per la prima volta un concetto fondamentale allo sviluppo delle pratiche di responsabilità

    sociale: il concetto di stakeholder. L’idea alla base dell’approccio stakeholder è che

    ogni portatore di interesse di un’impresa, analogamente agli azionisti, investe in essa

    delle risorse, delle competenze, delle conoscenze, ed ha quindi diritto ad una equa remunerazione

    del proprio impegno. La Responsabilità sociale dell’impresa si traduce quindi

    dapprima nell’identificazione dei diversi stakeholders di un’azienda, e poi nella ricerca di un

    bilanciamento di tutti gli interessi legittimi dei vari gruppi che si trovano in una situazione

    di conflittualità.

    La tensione costante verso la soluzione dei conflitti e, insieme, la necessità del confronto

    con gli stakeholder, sono stati decisivi nello stimolare la sensibilità per il problema della

    responsabilità sociale dell’impresa.

    13

  • Altri fattori determinanti sono stati, tuttavia, la crisi del modello taylorista e del sistema ad

    incentivi, la crisi del modello del Welfare State, e la nascita dei movimenti dei consumatori e

    della nuova consapevolezza del consumatore-cittadino. Negli anni Sessanta nascono negli USA i

    primi movimenti dei consumatori; un incoraggiamento decisivo arriva da un famosissimo

    discorso tenuto dal presidente americano John Fitzgerald Kennedy, in cui egli affermava che il

    consumatore è prima di tutto un cittadino.

    Oggi questa dichiarazione potrebbe apparirci banale, ma per capirne davvero il significato

    dobbiamo immaginare che a quel tempo il consumatore era considerato un soggetto economico che

    sceglieva di acquistare sulla base di principi che il marketing “tradizionale” definiva razionali,

    cioè esclusivamente la qualità e il prezzo. Affermare invece che il consumatore è un cittadino

    significa che egli smette di svolgere un ruolo passivo per assume un ruolo attivo di cittadinanza. Il

    consumo non è più un fatto privato e non può essere affrontato badando solo al prezzo e alla qualità.

    Il consumo è un fatto che riguarda tutta l’umanità, dietro al quale si nascondono problemi di portata

    planetaria di natura politica, sociale ed ambientale. Accanto alla diffusione del tema della

    responsabilità dell’impresa, c’è anche quello della responsabilità del consumatore, poiché egli

    diventa complice dell’impresa dal momento che, attraverso i consumi, la sostiene e la fa prosperare.

    Oggi i consumatori sono diventati consapevoli del potere che hanno fra le mani, dell’importanza di

    dedicare attenzione a caratteristiche del prodotto che trascendono la mera prestazione oggettiva,

    cioè a tutte le condizioni in cui esso è stato realizzato, alla filiera produttiva, a tutta la catena del

    valore nel suo complesso. Esistono dei valori ai quali il cittadino dà un certo peso e che non sono

    quantificabili col prezzo: il consumo è divenuto un atto eticamente rilevante, ed egli è diventato

    eticamente responsabile dei propri acquisti. Ecco cosa afferma Gesualdi parlando di consumo

    critico: “[esso] consiste proprio nel fare la spesa scegliendo i prodotti non solo in base alla qualità e

    al prezzo, ma anche in base alla loro storia e alle scelte effettuate dalla imprese produttrici.

    Così facendo è come se andassimo a votare ogni volta che facciamo la spesa. Votiamo sul

    comportamento delle imprese, premiando quelle che si comportano bene e punendo le altre. Alla

    lunga le imprese capiscono quali sono i comportamenti graditi e vi si adeguano, instaurando tra

    loro una nuova forma di concorrenza, non più basata sulle caratteristiche estetiche ed economiche

    dei prodotti, ma sulle scelte sociali ed ambientali. Per questo il consumo critico equivale a una

    rivoluzione silenziosa” (Gesualdi 2002, pp. 67-68). Una seconda ragione ha a che vedere, secondo

    Zamagni (2004), con una serie di innovazioni nell’organizzazione interna dell’impresa. Secondo il

    principio del taylorismo, il processo produttivo andava segmentato in molti sotto processi, così che

    14

  • ogni lavoratore aveva la propria mansione specifica, nella catena di montaggio, da eseguire

    pensando il meno possibile, mentre spettava poi al management dell’impresa assemblare tutto il

    lavoro. Se il lavoratore non svolgeva bene la propria mansione e bloccava così la catena di

    montaggio, era esposto al rischio del licenziamento.

    Negli ultimi trent’anni, tuttavia, con la terza rivoluzione industriale, cioè quella info-telematica,

    questo modello taylorista è entrato in crisi: l’elemento fondamentale della produzione non è

    più infatti la forza lavoro, ma la conoscenza, centro della produzione che appartiene a ogni

    lavoratore, non solo al management. Tutti sono in grado di contribuire alla conoscenza, la

    quale, ha una caratteristica particolare: essa è tacita (“tacit knowlwdge”), non codificata,

    incorporata, risiede in ogni persona e occorre la collaborazione di ogni lavoratore per la

    sua diffusione. Il successo dell’impresa è perciò determinato dalla partecipazione e

    dalla motivazione dei lavoratori.

    La terza e ultima ragione del successo della responsabilità sociale d’impresa è dovuta alla crisi di

    quel complesso di istituzioni pubbliche finalizzate al miglioramento del benessere collettivo, ovvero

    il modello del welfare state. Mentre il ruolo di produrre beni e servizi era affidato alle imprese

    tradizionali, al mercato, lo Stato aveva il compito di produrre beni e servizi di interesse

    collettivo e solo in alcuni casi delegava queste funzioni a dei soggetti privati. Secondo Borzaga,

    “questa situazione è cambiata, in Italia e in Europa, a partire dall’inizio degli anni ’70, con la crisi

    dello stato sociale” (1996, p. 115). Egli sostiene che le cause siano principalmente tre. In primo

    luogo una crisi di ordine organizzativo. Con lo sviluppo economico i bisogni sono diventati

    sempre più complessi ed articolati e dunque è cresciuta la domanda di servizi. In secondo

    luogo lo stesso fenomeno ha causato problemi di ordine finanziario, proprio perché i costi dei tali

    servizi sono diventati maggiori delle entrate fiscali. In terzo luogo, c’è il problema che Borzaga

    definisce di legittimazione: la complicazione di questo sistema, egli spiega, “ha favorito chi era

    meglio in grado di gestire le informazioni e la complessità, quindi i ceti medi, a svantaggio delle

    categorie più bisognose; l’aumento delle disuguaglianze che ne è conseguito ha delegittimano lo

    Stato sociale” (1996, p.116). Come si concretizza una gestione socialmente responsabile

    dell’impresa?

    Cerchiamo di rispondere a questa domanda seguendo le indicazioni e i suggerimenti del Libro

    Verde della Commissione delle Comunità europee (2001), che dipinge la RSI come

    “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle

    loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”.

    15

  • La responsabilità sociale dell’impresa è dunque una scelta volontaria; perché allora l’impresa

    sceglie di adottare queste pratiche? Che cosa la spinge?

    Una prima ragione è quella del perseguimento del mero interesse personale. La Responsabilità

    sociale è per l’impresa un investimento strategico, un fattore competitivo che può

    permetterle di fidelizzare il cliente, di favorire il senso si appartenenza del personale, di

    aumentare la fiducia dei consumatori, attrarre nuovi investitori, migliorare la reputazione.

    In effetti, tuttavia, non si tratta solo di questo, ma di qualcosa di più ampio. La Responsabilità

    sociale è un modo di ripensare l’impresa. Essa sta facendo autocritica, chiedendosi se è possibile

    leggere la realtà imprenditoriale in modo diverso dal solito, più completo e complesso.

    L’impresa si sta sforzando di essere assai meno autoreferenziale, per poter fungere da

    arena, un complesso di azioni e vicende attraverso le quali si realizzano utilità di una vasta

    platea di soggetti. Non è solo un fatto economico. C’è di più.

    Fino alla metà degli anni Sessanta, la comunicazione delle imprese italiane si è concentrata sul

    cosiddetto “personal selling”, cioè su attività di informazione commerciale sviluppate dalle

    organizzazioni di vendita interne all’azienda. Solo successivamente, infatti, nacquero le

    agenzie di pubblicità esterne, sotto la spinta di alcuni cambiamenti nella società, come il rapido

    consolidamento dei mercati di massa e l’accresciuta importanza dei mass media.

    Dalla metà degli anni Settanta e fino ai primi anni Ottanta, la comunicazione d’impresa

    subisce una nuova e importante fase di evoluzione. Secondo Brondoni (1988), cade la

    separazione tra comunicazioni a fini commerciali e informazioni a fini istituzionali e, per contro,

    si affermano linee di condotta aziendale incentrate sul concetto di comunicazione integrata

    (‘global communication’), intesa come insieme coordinato di possibilità/opportunità di entrare

    in contatto con differenti tipologie di pubblici’, interni ed esterni alle imprese. A questo punto

    ci poniamo una importante domanda: che cosa rappresenta il bilancio sociale per la

    comunicazione d’impresa? È solo un nuovo strumento che essa ha a disposizione per implementare

    la validità del modello di comunicazione integrata?

    Oppure si tratta di un mezzo che modifica ulteriormente i contenuti e i significati del sistema di

    comunicazione dell’impresa? Il bilancio sociale è uno strumento rivoluzionario della

    comunicazione d'impresa, che, se opportunamente sfruttato, e soprattutto se non usato erroneamente

    o abusato, può recare all’impresa moltissimi benefici.

    In primo luogo quello di creare una relazione tra l’azienda e i portatori di interesse e

    attivare così il vero significato della comunicazione, quale messa in comune, condivisione di

    16

  • informazioni. È attraverso questo documento, infatti, che un’organizzazione comunica di

    essere socialmente responsabile, fornendo informazioni sulle prestazioni che riguardano la pluralità

    dei soggetti che hanno un interesse diretto con la sua attività. Il bilancio sociale è nato per

    migliorare la comunicazione, è stato ideato come mero strumento di “relazioni esterne”

    dell’impresa, ma è presto diventato uno strumento più complesso, impiegato in

    differenti contesti aziendali: dall’organizzazione all’elaborazione della strategia, dall’analisi di

    coerenza tra obiettivi istituzionali e gestione corrente, fino a diventare “ambiente” nel quale (e del

    quale) si nutre la nuova sensibilità sociale dell’impresa. Quindi, se in una prima fase il bilancio

    sociale era inteso strategicamente come mezzo per “farsi una buona immagine”, oggi le

    organizzazioni hanno fatto esperienza del fatto che il bilancio sociale è l’occasione per una

    riflessione interna sulla cultura e sui valori dell’impresa che le porta a definirne o a chiarirne la

    missione, in una prospettiva secondo la quale missione è l’insieme molteplice di benefici che

    l’attività dell’impresa può apportare ai diversi stakeholders. In secondo luogo, il bilancio sociale

    serve anche a ridurre comportamenti opportunistici, a ridurre il differenziale informativo, a

    ristabilire la fiducia tra le parti, in quanto veicolo di trasparenza e di controllo. Le transazioni

    economiche hanno bisogno di una base di fiducia. Se essa viene alimentata, gli scambi possono

    avvenire con una maggiore efficienza. Ecco perché Viviani ( 1999) sostiene che il bilancio

    sociale può essere considerato come un necessità per il corretto funzionamento del mercato.

    Ed ecco perché siamo convinti che la comunicazione d’impresa, con l’avvento del bilancio sociale,

    si sia trasformata ed abbia acquisito significati diversi, nella direzione di un più alto

    coinvolgimento, di una maggiore informazione e di una migliore partecipazione dei pubblici alla

    vita dell’impresa.

    Uno dei fini ultimi del bilancio sociale è dunque quello di creare una relazione tra l’impresa e gli

    stakeholders. Esso è infatti uno strumento di conoscenza, di trasparenza, di controllo, di

    fiducia; anzi, si potrebbe definire il bilancio sociale come fa Viviani, come uno strumento per la

    gestione della fiducia. Ma soprattutto dovrebbe essere strumento della partecipazione alla

    gestione manageriale e alla scelta degli obiettivi da perseguire.

    17

  • 1.2 L’impresa cooperativa e la RSI

    La scelta della RSI è una scelta volontaria. Ogni impresa, dunque, ha il suo approccio.

    Purtroppo però questa volontarietà può tradursi in azioni opportunistiche. Se Responsabilità sociale

    dell’impresa rischia di significare, in definitiva, solo vendere di più, e se il bilancio sociale

    rischia di essere una comunicazione manipolatrice e ingannevole, ci siamo chiesti se le cose

    cambiano quando si tratta di un’impresa diversa da quella capitalistica.

    Ecco perché abbiamo scelto il caso dell’impresa cooperativa.

    L’essenza della cooperazione è la finalità mutualistica. Il profitto non è più considerato il

    centro intorno al quale far ruotare tutta l’attività imprenditoriale e l’obiettivo da perseguire

    diventa la coniugazione di due momenti contemporaneamente, quello economico e quello sociale.

    Inoltre, nella cooperativa la partecipazione è sempre stato un valore fondamentale. Ci siamo

    chiesti quali implicazioni abbia comportato questa tradizione nel processo dello stakeholders

    reporting. Da più parti si afferma l’esigenza di ricondurre l’agire economico all’interno di una

    cornice etica e valoriale adeguata, in grado di attribuire senso e significato al lavoro e alle relazioni

    umane, oltre che alla salvaguardia dell’ambiente e all’interesse collettivo. Le cooperative

    detengono una predisposizione innata a rendere compatibile l’interesse dei propri soci con il

    perseguimento di un bene comune. La ricchezza del “capitale sociale” che le cooperative

    detengono, l’attenzione a comunicare il proprio essere impresa attraverso i codici etici e i

    bilanci sociali sono solo alcuni degli indicatori di questa vocazione della società

    mutualistica ad intendere l’agire imprenditoriale quale strumento e mai come fine della propria

    azione. Ci domandiamo dunque se queste caratteristiche possono servirci ad affermare che

    un’impresa cooperativa è già di per sé un’impresa socialmente responsabile. Per rispondere,

    ci rifacciamo in primo luogo all’articolo 45 della nostra Costituzione, secondo il quale la

    Repubblica italiana riconosce la funzione sociale della cooperazione.

    Ma per rispondere più analiticamente alla nostra domanda, abbiamo esaminato i principi

    fondanti e i valori della cooperazione e scegliamo di riportarne qui uno. Esso recita: “Le

    Cooperative lavorano per uno sviluppo sostenibile delle proprie comunità attraverso politiche

    approvate dai soci”. La sostenibilità è uno dei cardini sui quali ruota il concetto di impresa

    socialmente responsabile. Ma oltre a questo valore della sostenibilità, ce ne sono altri,

    come la democrazia, la partecipazione, l’informazione l’educazione, l’interesse per i soci, il

    18

  • sostegno ad attività sociali che ci fanno ammettere che nella cooperativa esiste una

    fortissima finalità sociale intrinseca. Inoltre il principio mutualistico, già di per sé molto affine alle

    pratiche di RSI, ha subito una modificazione ed è diventato ancora più corrispondente al

    modo di fare impresa socialmente responsabile che il Libro Verde della Commissione

    Europea del 2001 auspica e suggerisce. La finalità mutualistica, infatti, il cui elemento

    caratteristico si concretizza nella valorizzazione dell’apporto del socio, viene superato nel comune

    scopo di perseguire interesse generale della comunità alla promozione umana ed all’integrazione

    sociale. Negli anni Settanta, davanti ad un aumento dei redditi e da una maggiore

    democratizzazione della società, l’impresa cooperativa si rende conto che è necessario

    ridefinire il proprio ruolo. È necessario soprattutto superare l’orientamento all’interno,

    l’autoreferenzialità e il rapporto esclusivo col socio, e abbracciare un orientamento

    all’esterno. Travaglini (1997) sostiene quindi che oggi la cooperativa si orienta verso

    l’esterno, secondo principi solidaristici più che mutualistici.

    Scrive Travaglini: “Questo percorso evolutivo del principio di mutualità interna verso la ‘mutualità

    allargata’ e quindi la solidarietà rappresenterebbe la naturale concretizzazione nella società

    moderna dell’orientamento solidaristico proprio del movimento cooperativo di fronte al

    mutamento dei bisogni e delle caratteristiche dei loro portatori indotto dallo sviluppo

    economico e dal conseguente mutamento del quadro sociale” (1997, p. 52). La peculiarità

    propria della cooperativa è dunque quella della consapevolezza sociale, o responsabilità

    sociale, mai mistificatoria, bensì istituzionale.

    Scrive Mari: “È certo che l’essere dotati di una struttura improntata principalmente su

    concetti morali ed altruistici (tradizionalmente ispirati al mutuo- aiuto) se, da una parte,

    enfatizza la funzione sociale degli enti mutualistici, dall’altra rende ancora più carico di

    responsabilità e di impegni il loro operato” (1994, p. 202).

    Dobbiamo senza dubbio sottolineare che parlare di responsabilità sociale di un’impresa

    cooperativa richiede un approccio più complesso rispetto a quello utilizzato per le imprese private

    in generale, proprio perché il concetto di responsabilità sociale è comunque uno dei presupposti

    della cooperazione. La scelta della responsabilità sociale per un’impresa cooperativa non può

    essere riconducibile, quindi, soltanto ad una rivendicazione dell’identità originaria. Valori,

    principi e strategie dell’impresa cooperativa devono infatti fare i conti con un mercato ed

    una società in profondo mutamento, e perciò essa deve aggiornare le categorie con le quali

    ha fin qui interpretato e praticato la sua missione. Ad esempio, il concetto stesso di

    19

  • mutualità verso i soci deve essere riaffermato con forza ma anche rimotivato.

    Comunque sia, esso non può più essere considerato lo scopo esclusivo della cooperativa.Vale

    a dire che l’interesse verso i soci è ancora il primo compito, ma non può essere realizzato a scapito

    degli altri portatori di interesse. Anzi, ciò che si deve affermare è che il modo migliore di

    realizzare il vantaggio mutualistico dei soci è quello che consente di coinvolgere e far

    partecipare attivamente l’insieme dei portatori di interesse – dipendenti, clienti, fornitori,

    istituzioni – alla definizione delle scelte dell’impresa cooperativa. Occorre competere ma

    senza perdere gli elementi di originalità e di differenziazione della cooperativa, che vanno al

    contrario valorizzati sul mercato, per non rischiare una chiusura nella mutualità interna,

    autoreferenziale. È necessario potenziare la propria identità e cultura.

    In tale contesto, quindi, non sembra improprio impegnare le cooperative in uno sforzo di

    adeguamento delle proprie strategie di responsabilità sociale e, di conseguenza, degli

    strumenti da adottare per la rendicontazione sociale. A volte, in questo passaggio, l’impresa

    cooperativa non ha avuto timore di “importare” al suo interno modelli ed esperienze di

    derivazione capitalistica. Essa deve costantemente reinventarsi e migliorarsi, anche imitando le

    pratiche e le scelte dell’impresa di capitali. Tra i due modelli di impresa, infatti, ci sono scambi e

    imitazioni reciproche.

    Mentre la RSI nella cooperazione è ragion d’essere costitutiva, nell’impresa capitalistica è

    scoperta recente. L’una apprende dall’altra. L’impresa cooperativa si è affermata nella pratica

    come impresa tout court, capace di soddisfare la domanda di prodotti e servizi non solo dei

    propri soci, ma anche di clienti e di consumatori del mercato più vasto. Ha dovuto quindi

    apprendere competenze e strumenti propri dell’impresa privata, come il marketing e la

    comunicazione e in generale ha dovuto adottare un gestione imprenditoriale.

    Ciò che più di ogni altra cosa distanzia però questi due tipi d’impresa, sul campo della

    Responsabilità sociale, è il diverso approccio che esse ammettono. Tra esse, per ciò che

    riguarda la scelta degli strumenti da utilizzare, esiste un vero e proprio gap.

    Mentre la cooperativa redige il bilancio sociale cooperativo, che ha diverse finalità, diversi

    contenuti e diverso valore rispetto al bilancio sociale dell’impresa capitalistica, e l’adozione

    delle pratiche di RSI non è una decisione di comodo ma una conseguenza, non è un vincolo ma

    una risorsa, per l’impresa capitalistica, invece, la strada dell’etica sembra concretizzarsi nella

    maggioranza dei casi con l’attuazione di pratiche di cause related marketing. L’agire

    socialmente responsabile è praticato attraverso un’economia del dono, oppure attraverso la

    20

  • costruzione di partnership con associazioni del Terzo settore. Il rischio di queste pratiche è, ancora

    una volta, quello di avviare processi perversi, che minano la fiducia nelle impresa da

    parte degli stakeholders invece di accrescerla. Quando si strumentalizzano queste operazioni,

    quando non c’è un ancoraggio forte a delle scelte reali di gestione, si possono avere gravi

    ripercussioni sulla credibilità e sulla reputazione di un’organizzazione, spezzando un legame di

    fiducia con i consumatori. Scandali e casi emblematici hanno dimostrato che una comunicazione

    esteticamente e funzionalmente ben costruita non è garanzia di correttezza e di trasparenza da parte

    di chi la produce e diffonde e che spesso imprese e organizzazioni che dichiarano un

    comportamento socialmente responsabile per poi agire in modo riprovevole; si tratta di un

    meccanismo parallelo che attribuisce visibilità alle iniziative lodevoli e affossa invece i

    comportamenti negativi.

    Questi casi, purtroppo, tendono ad essere accomunati e confusi, creando una rappresentazione

    di sfiducia nei confronti della comunicazione di responsabilità sociale in genere.

    1.3 Coop e l’approccio alla RSI

    L’impresa cooperativa Coop è nata 150 anni fa per contrastare le difficili condizioni

    economiche del tempo, tutelare il potere d’acquisto e la sicurezza dei soci, e oggi costituisce la

    più grande catena distributiva e la più grande organizzazione di consumatori del nostro paese.

    Quattro momenti in particolare hanno cambiato la sua storia ed hanno modificato il

    significato della mutualità, della solidarietà e della socialità che si sono delineati in forme e

    significati nuovi, soprattutto attraverso la trasformazione del principio di mutualità verso i soci

    in mutualità “allargata”, che prende in considerazione anche altri portatori di interesse e tutta la

    comunità.

    Le principali fasi di cambiamento sono le seguenti:

    • 1. il periodo 1960-63, quando le cooperative più grandi aprono i primi supermercati,

    avvengono le prime concentrazioni, si stabiliscono nuovi rapporti e diventa ufficiale il

    logo “Coop”;

    • il quinquennio 1968-1972, con la nascita delle prime cooperative a carattere provinciale o

    regionale; la costituzione di Coop Italia, la nuova centrale per gli acquisti; un nuovo

    impulso alle forme di maggior garanzia per i consumatori attraverso l’offerta di Prodotti

    21

  • Coop;

    • dal 1978 fino alla metà degli anni ’80, quando molte Cooperative vengono ristrutturate,

    Coop Italia viene riorganizzata, nascono gli Ipermercati e si approfondisce l’offerta

    dei Prodotti con Amore Coop, carni e ortofrutta garantiti dal controllo di tutta la filiera

    produttiva;

    • gli anni novanta e duemila con il successo degli Ipercoop e dei loro centri

    commerciali, il rafforzamento delle strutture aziendali ed un ulteriore salto di qualità nelle

    iniziative sociali e di solidarietà. Vengono infatti offerti i prodotti del Commercio Equo

    e Solidale, viene avviata la certificazione SA 8000 e vengono esclusi dai Prodotti Coop e

    con Amore Coop gli Organismi Geneticamente Modificati e i loro derivati.

    Le linee guida sulla RSI che suggerisce il Libro Verde della Comunità Europea (2001) e le

    pratiche gestionali di Coop sembrano coincidere. Facciamo solo due esempi. Questo è uno

    dei principi che possiamo leggere nella Mission di Coop2 : “tutelare e rappresentare i diritti

    dei consumatori, difenderne gli interessi economici, la salute e la sicurezza, salvaguardare

    l’ambiente che li circonda”; questo è invece uno dei passaggi che possiamo trovare nella sua

    Carta dei Valori : “La Cooperativa opera a vantaggio dei consumatori e della comunità. La

    Cooperativa agisce nel perseguimento degli interessi morali e materiali dei consumatori, nel rispetto

    dell’ambiente, dell’uso appropriato delle risorse, della salute, dei rapporti corretti e solidali fra le

    persone”. Questi due documenti, Mission e Carta dei Valori, sono stati utilizzati come

    premessa all’adozione del bilancio sociale. Per questa impresa, che sulla RSI fonda la propria

    ragione d’esistere, attualizzare la propria missione significa assumere come riferimento un

    modello di sviluppo sostenibile in grado di integrare, nei fatti imprenditoriali, gli

    aspetti etico-solidaristici con quelli ambientali, sociali ed economici.

    Mentre le altre imprese della Grande Distribuzione Alimentare, nel gioco della competizione di

    mercato, sembrano puntare sul miglior prezzo e sul cause related marketing, Coop si dà

    vincoli ulteriori, nell’interesse dei propri stakeholders, che sono soprattutto: soci, consumatori,

    fornitori, lavoratori, ambiente, comunità, PA e movimento cooperativo. Per ognuna di queste

    classi di portatori di interesse, la Coop predispone azioni e scelte di qualità di servizio, di

    socialità, non con risorse destinate ad iniziative umanitarie e benefiche, ma con un approccio

    globale, fatto di obiettivi, di progetti e di piani specifici.

    La Responsabilità verso soci e consumatori ha come fine ultimo quello di garantire la

    22

  • qualità dei prodotti ed un prezzo conveniente. Inoltre Coop svolge un’adeguata e corretta

    informazione sui consumi, attraverso le etichette, i punti di vendita e altri mezzi di

    informazione. La Responsabilità sociale verso i lavoratori si concretizza assicurando pari

    opportunità, condizioni di lavoro eque, rispetto della dignità personale, valorizzazione delle

    capacità professionali e crescita professionale interna. Chi lavora nella Coop, qualsiasi

    funziona svolga, contribuisce a realizzare la missione cooperativa. Per questo è coltivato il senso

    di responsabilità di ognuno per il migliore servizio ai soci e ai clienti.

    La Responsabilità sociale verso i fornitori viene praticata attraverso la scelta di fornitori che

    godono di buona reputazione, che hanno codici etici di comportamento, che sviluppano programmi

    sociali, che si dimostrano sensibili ai problemi ambientali, che adottano politiche del lavoro

    corrette, che si impegnano nell’innovazione e che riconoscono il valore dell’economia

    cooperativa. I rapporti con i fornitori non potranno che essere improntati sulla trasparenza,

    sull’onestà e sulla correttezza reciproche. Inoltre viene promosso il commercio equo e solidale

    con i Paesi in via di sviluppo.

    Poi c’è la Responsabilità sociale verso l’ambiente. Coop considera l’ambiente un bene di tutti,

    che va salvaguardato dagli attacchi della speculazione, dall’uso scriteriato dei beni di

    consumo, dall’incuria, dal malgoverno. Coop valuta le sue iniziative affinché siano in

    armonia con l’ambiente, per quanto lo permettano le tecnologie disponibili e le possibilità

    economiche. La Responsabilità sociale verso la comunità: Coop fa parte della comunità e dà il suo

    contributo per migliorane le condizioni materiali, morali e culturali. Per questo collabora con la

    scuola, con istituzioni culturali e scientifiche, con i mezzi di informazione. Il rapporto

    con la comunità comprende anche la Responsabilità sociale verso la Pubblica Amministrazione.

    L’Unione Europea, il Governo centrale, le Regioni, le Amministrazioni locali trovano nelle

    cooperative disponibilità alla collaborazione, nell’interesse dei consumatori e nel rispetto dei

    diritti costituzionali garantiti alla cooperazione.

    Infine la Responsabilità sociale verso la Cooperazione: Coop ritiene vitale per la comunità lo

    sviluppo di una cooperazione democratica, unita ed efficiente, con scopi di mutualità, di solidarietà

    verso i più deboli e svantaggiati, di equità e di benessere. Nei limiti imposti dalla salvaguardia

    del proprio patrimonio e della propria integrità, si impegna nello sviluppo di tutta la

    cooperazione, nell’ambito delle decisioni democraticamente prese negli organismi associativi e

    consortili; ricerca il più alto livello di unità e di iniziativa comune del sistema Coop;

    favorisce lo sviluppo e la diffusione di società cooperative e di solidarietà sociale che si

    23

  • formino a seguito di esperienze di associazionismo e volontariato.

    1.4 Brand managment e abitudini alimentari: un nuovo profilo di consumatore

    Il secolo scorso ha portato a significativi cambiamenti nella società, complici la globalizzazione e

    l’imponente sviluppo economico. Tali mutamenti investono la quasi totalità della vita dell’individuo

    e della società in cui lo stesso si muove, in particolare, abbiamo assistito a fenomeni quali un

    consistente aumento del livello medio di istruzione, l’inurbamento con conseguente spopolamento

    delle campagne, il pendolarismo e la diffusione dell’occupazione femminile. L’aumento delle

    disponibilità finanziarie delle famiglie, la differenziazione della domanda e la comparsa ed

    influenza dei media, hanno causato significative innovazioni sia del prodotto sia

    dell’organizzazione produttiva, passata da modelli di tipo artigianale e concentrati nel locale a

    modelli di stampo industriale e sempre più delocalizzati (Inea, 2009, Belliggiano, 2009; Belletti,

    Marescotti, 1995). “L’inurbamento, in particolare, ha allontanato i consumatori dai luoghi della

    produzione, facendo perdere i riferimenti fiduciari e inducendo, a fronte della maggiore

    disponibilità di alimenti (security food), un aumento della sensibilità in termini di sicurezza (safety

    food)” (Inea, 2009, P.15).

    Nel comparto agroalimentare ai fenomeni sopra descritti si è aggiunta, di recente, una

    impressionante serie di scandali alimentari legati ad emergenze sanitarie: BSE, influenza aviaria,

    febbre suina, il caso delle “mozzarelle blu” ed altre, che hanno segnato negativamente gli andamenti

    del mercato del comparto sia a livello nazionale che internazionale. Queste presunte pandemie si

    sono rivelate in realtà, almeno nel nostro Paese, praticamente inoffensive, ma hanno provocato dei

    danni enormi se si pensa che il tutto è costato al settore oltre 15 miliardi di euro (Conferenza

    Italiana Agricoltori, 2010). La contemporaneità ha imposto, inoltre, che si affrontassero tematiche

    sconosciute fino a pochi decenni fa: il rispetto e la salvaguardia dell’ambiente, lo sviluppo e

    sfruttamento delle risorse in ottica sostenibile, la preferenza verso produzioni eticamente accettabili,

    il biologico, la manipolazione genetica e la riscoperta della tradizione e del localismo di qualità.

    Grazie all’avvento di internet il flusso di informazioni oggi è divenuto rapido e globalizzato,

    consentendo, come abbiamo appena sottolineato, un’ampia conoscenza e sensibilità verso

    problematiche inerenti l’umanità nel suo complesso. “I consumatori non sono più esclusivamente

    destinatari di flussi informativi unidirezionali veicolati dalla comunicazione commerciale, ma

    diventano a loro volta in grado di inviare segnali al mondo della produzione, segnali che facciano

    conoscere la loro attenzione ai temi della salvaguardia ambientale, della giustizia, dei diritti umani e

    24

  • a tutto ciò che riguarda il contenuto etico delle attività commerciali” (Inea, 2009, P.56).

    In questo scenario, dunque, si muove il moderno consumatore, sempre più consapevole, attento ed

    informato, le cui scelte sono ormai non più riconducibili essenzialmente al rapporto qualità/prezzo,

    nonostante la recente significativa erosione del potere d’acquisto, ma legate proprio a tali nuove

    dinamiche. La componente in stricto sensu soggettiva della domanda che fa riferimento alle

    preferenze del consumatore, diviene oggi subordinata a nuovi fattori culturali e socio-demografici

    andando a determinare i nuovi andamenti del mercato (Inea, 2009). Pertanto le tradizionali variabili

    esplicative (prezzo, prezzi relativi e reddito) non sono più in grado di interpretare la stessa, se non

    attraverso l’approfondimento della componente più soggettiva considerata in passato residuale e

    riconducibile al gusto personale (Belliggiano, 2009). Le imprese, ed in particolare la grande

    distribuzione organizzata (GDO), hanno naturalmente colto queste nuove sensibilità iniziando la

    commercializzazione di prodotti che fossero compatibili con le nuove esigenze.

    La responsabilità sociale d’impresa:

    “Quello che, invece, oggi si va delineando (con la CSR)

    è piuttosto un complesso di valori che si fa sistema,

    arrivando talvolta a mettere in gioco gli equilibri aziendali

    ma allo stesso tempo rivelandosi anche preziosa leva concorrenziale

    per chi sa sfruttarla” (Pepe, 2003).

    Le tendenze descritte nel paragrafo precedente, vedono nella responsabilità sociale d’impresa un

    punto chiave delle nuove politiche di marketing delle imprese, dove ai consumatori intesi come

    stakeholder è comunicata in maniera ampia e dettagliata la politica perseguita al fine di

    implementare sia la reputazione dell’azienda che le performance economiche (Pepe, 2003, Bisio,

    2003, Tassinari, 2003, Ricotti, 2003, Cramer, Jonker, van der Heijden, 2004, Unioncamere, 2004,

    Casati, Sali, 2005, Musso, Risso, 2006 , Parmiggiani, 2007, Briamonte, Hinna, 2008, Giuca, 2008,

    Peri, 2008, Fabris, 2010). Il primo a parlare di Corporate Sociale Responsibility (di seguito CSR) fu

    nel 1953 Bowen, che nel volume “Social Responsibilities of the Businessman” affermò che

    l’industria aveva l’obbligo di “to pursue those policies, to make those decisions, or to follow those

    lines of actions which are desirable in terms of the objectives and values of society” (Bowen, 1953,

    p. 6). Il concetto di responsabilità d’impresa, dunque, è caratterizzato non solo da fattori economici,

    ma soprattutto sociali, ambientali e etici. In tale ottica l’impresa va oltre il semplice rendere conto

    25

  • delle proprie performance economiche ai vari tipi di stakeholders, ma coinvolge tutti i consumatori

    rendendoli partecipi ad una stessa cultura della produzione, del mercato e del territorio (Pepe,

    2003). Il dibattito intorno alla definizione di CSR rimane ancora vivo, diverse sono le teorie che si

    presentano sia sulla reale portata di tali politiche che sulle sue stesse fondamenta ideali e di scopo.

    La CSR è vista come una politica tesa alla mera massimizzazione del profitto (Friedman,1970),

    come un obbligo contrattuale che le imprese hanno con la società (Donaldson,1983), come grado di

    corrispondenza tra le aspettative della società e il comportamento dell’impresa (Carroll, 1979),

    come una teoria che risponde ai bisogni “interni ed esterni” che si trovano nella parte superiore

    della Piramide dei bisogni di Maslow (Tuzzolino e Armandi, 1981), etc. Abbiamo, dunque,

    documentate la vivacità del dibattito intorno alla corretta definizione di CSR, ma su un fattore c’è

    assoluta convergenza, infatti, le teorie economiche classiche e neoclassiche prefiguravano per il

    consumatore il ruolo di “contraente debole, vittima delle asimmetrie informative” (Inea, 2009,

    P.45). Tale ruolo appare molto lontano se contestualizzato alla contemporaneità; il consumatore di

    oggi, infatti, dato anche il suo livello di benessere e d’istruzione, si dimostra capace di compiere

    scelte di acquisto consapevoli e critiche, richiedendo con sempre maggiore insistenza determinate

    caratteristiche e qualità per il prodotto. Tale fenomeno sta acquisendo sempre maggiore rilevanza,

    tanto da rendere necessario riprendere il termine “prosumer” (producer+consumer) coniato nel

    1980 da Alvin Toffler. Il prosumer è un individuo che, svincolandosi dal classico ruolo passivo,

    diviene protagonista nel processo che coinvolge le fasi di creazione, produzione, distribuzione e

    consumo del bene, diventando per il produttore/venditore fonte di esperienza e al tempo stesso di

    innovazione (Fabris, 2010). In tale ottica si inserisce il tema della CSR: il nuovo contesto

    economico locale e le diverse dinamiche competitive, la salvaguardia dell’ambiente, le tecniche di

    produzione, l’etica e l’equilibrio del territorio hanno indotto le imprese a correggere e modificare le

    proprie strategie e politiche apportando innovazioni più o meno radicali per rispondere alle esigenze

    dei consumatori. Le imprese commerciali, soprattutto quelle della grande distribuzione al dettaglio,

    stanno sempre più investendo nel rapporto con la clientela rendendolo più diretto e partecipe di tutta

    la sequenza di fasi e passaggi che caratterizzano la realizzazione e commercializzazione di un

    prodotto o servizio. La pratica della CSR comporta una forte attenzione a quanto avviene lungo

    tutta la filiera e la rintracciabilità di filiera diviene lo strumento di verifica e garanzia dei sistemi di

    gestione della qualità tramite cui l’impresa identifica le responsabilità di ogni attore coinvolto nella

    filiera di prodotto modificando e migliorando, soprattutto, le problematiche legate alla tutela e

    salute del cittadino – consumatore.

    26

  • “La natura stessa sceglierebbe ViviVerde Coop. Il rispetto dell’ambiente oggi può caratterizzare

    ogni scelta della tua spesa quotidiana, in qualunque reparto ti trovi, puoi scegliere di acquistare un

    prodotto ViviVerde Coop: proprio per la vastità della sua proposta, la nuova linea è distribuita in

    tutto il punto vendita” (tratto da e-coop.it).

    Negli anni le scelte di acquisto dei consumatori si sono sempre più indirizzate verso prodotti

    biologici che, sin dalla loro comparsa sul mercato, hanno incarnato valori quali la salvaguardia e la

    valorizzazione delle risorse naturali, il rispetto dell’ambiente, della salute umana e del benessere

    animale. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, la crisi economica e la contrazione dei

    consumi degli ultimi anni, hanno indirizzato i consumatori verso una maggiore attenzione alla

    variabile prezzo e alla qualità. Proprio il tema della qualità e salubrità ha fatto si che i consumatori

    siano più consapevoli che l’agricoltura svolge un ruolo attivo in questo senso perchè è in grado di

    garantire loro cibi tradizionali saporiti e genuini (INEA 2009). Nei prodotti biologici, il

    consumatore cerca il legame con il territorio, apprezzandone la storia nel duplice aspetto di cultura,

    tradizioni, valori ecologici, etici e sociali e di percorso del prodotto dal luogo di produzione alla

    tavola. “Il consumatore sceglie bio perchè sa cos’è” (Fabris 2010). Le certificazioni e l’utilizzo di

    una marca (branding) rafforzano i requisiti propri dei prodotti biologici come la sostenibilità e la

    trasparenza, rappresentando strumenti di garanzia della natura, dell’origine e della qualità di tali

    prodotti (East, 2003). L'applicazione delle tecniche di marketing a uno specifico prodotto, linea di

    prodotto o marca (brand managment) ha lo scopo di aumentare il valore percepito da un

    consumatore rispetto al prodotto stesso, aumentando di riflesso il valore del marchio (brand equity).

    Aaker definisce marca un nome o un simbolo distintivi, orientati a identificare i beni o i servizi di

    un venditore e a differenziarli da quelli dei concorrenti: all’atto dell’acquisto di una determinato

    brand, i consumatori segnalano che probabilmente la compreranno di nuovo e la fedeltà alla marca

    è il fattore determinante nel brand management. Gli operatori del marketing vedono nella marca la

    "promessa" implicita di qualità che il cliente si aspetta dal prodotto, determinandone così l'acquisto

    nel futuro (D. Aaker, V, Kumar, G. S Day, R.P. Leone, 2011).

    27

  • Il concetto di brand equity è riassunto nella Figura qui di seguito la quale mostra le cinque categorie

    di assets (fedeltà alla marca, la consapevolezza di marca, la qualità percepita, le associazioni di

    marca e altri patrimoni della marca) che sono alla base della brand equity e come quest’ultima

    possa creare valore sia per il consumatore che per le aziende. Le private label costituiscono sempre

    di più un asset strategico per le imprese distributive, tale fenomeno è dimostrato dalla presenza

    sempre più massiccia dei marchi d’insegna nelle aree dei prodotti freschi (ortofrutta, latticini, carni),

    quelli su cui si gioca la scelta del cliente per un punto vendita piuttosto che un altro, così come nelle

    aree dei prodotti biologici e dei prodotti a denominazione di origine. La quota di mercato delle

    private label ha superato nel 2011 il 16% in valore, un dato molto significativo, anche se lontano

    dai valori che si registrano negli altri paesi UE, dove la quota di mercato supera ormai ovunque il

    30% (come in Francia, Spagna, Germania) e raggiunge il massimo nel Regno Unito, dove la private

    label arrivano ad interessare il 43% delle vendite. Ma che si tratti di un segmento in pieno sviluppo

    lo dimostra il fatto che le private label registrino ogni anno tassi di crescita significativi.

    Osservando il peso che le private label hanno nelle diverse aree del Paese si nota come esse siano

    maggiormente diffuse al Nord-Est e al Centro (con buoni dati anche al Nord-Ovest), mentre al Sud

    la quota risulta decisamente inferiore rispetto alla media nazionale (il 13% è un dato

    sottoperformante anche rispetto al valore medio riferito al totale del mercato in questa area),

    complice anche una distribuzione caratterizzata da un’elevata frammentazione. In questo scenario

    Coop Italia, già da diversi anni, con quota superiore al 20%, si attesta al primo posto sul mercato

    nazionale della grande distribuzione organizzata, grazie anche ad una indiscussa posizione di leader

    nell’ambito delle private label. Infatti i prodotti a marchio privato del distributore Coop coprono

    una quota pari al 13,9% del mercato italiano. La linea bio Coop, denominata Vivi Verde Coop,

    rappresenta oggi la più importante realtà sia per quote di mercato che per numero di referenze,

    conquistando nel tempo una quota di mercato pari al 21,8% (contro il 13% della media dei

    concorrenti) che l’ha lanciata al primo posto nel settore delle private label.

    La linea di prodotti ViviVerde Coop comprende oltre 300 referenze di prodotti biologici a marchio,

    per i quali Coop ha deciso di escludere dalla ricetta, sia i grassi tropicali sia gli aromi, anche se

    naturali. Questa operazione di branding è ben identificabile grazie al simbolo scelto raffigurante

    una foglia verde con la dicitura ViviVerde Coop al centro. Tutte le campagne pubblicitarie adottate

    per la promozione della linea mirano a far associare il prodotto all’ambiente e alla sua tutela,

    coerentemente con azioni di responsabilità sociale d’impresa descritte nei paragrafi precedenti.

    28

  • CAPITOLO 2 Agricoltura biologica in in Europa , in Italia e in Emilia Romagnagico

    2.1 L'agricoltura biologica in Europa: un inquadramento generale

    Nell'UE il settore biologico sta crescendo rapidamente. Negli ultimi 10 anni la superficie dei terreni

    destinati all'agricoltura biologica è aumentata ogni anno di mezzo milione di ettari. Attualmente

    l'Europa conta oltre 186.000 aziende agricole biologiche. L'agricoltura biologica è in continua

    crescita in Europa. Dal 2001 al 2011 le superfici agricole coltivate secondo il metodo biologico si

    sono incrementate del 13%. Lo afferma uno studio condotto dalla Commissione Europea, che si è

    occupata di analizzare la produzione bio in UE. "The rapid growth of EU organic farming"

    sottolinea che nel 2011 l'Unione europea ha raggiunto i 9,6 milioni di ettari di terreni coltivati

    secondo l'agricoltura biologica. Nel 2010 le aziende agricole certificate hanno toccato il totale di

    186 mila in 27 Paesi UE. L'agricoltura biologica viene descritta come un metodo produttivo ad

    impatto minimo sull'ambiente, poiché viene condotta con sistemi il più possibile naturali. L'UE

    prevede standard ben precisi per quanto riguarda l'uso di sostanze chimiche, pesticidi, fertilizzanti

    per la coltivazione e farmaci da somministrare agli animali da allevamento. In agricoltura biologica

    gli Ogm sono vietati. Secondo i dati raccolti dalla Commissione Europea,gli agricoltori bio sono più

    giovani rispetto alla media. Nel 2010 il 61,3% degli agricoltori bio aveva meno di 55 anni, rispetto

    al 44,2% degli agricoltori convenzionali. La maggior parte delle aziende agricole bio si trova in

    Francia, Italia, Germania, Belgio e Regno Unito.

    Ma anche i 12 Paesi che sono entrati nell'UE solo dal 2004 hanno visto una crescita in tal senso,

    compresa la Croazia, new entry dello scorso anno. Tra il 2003 e il 2010 il numero delle aziende

    agricole biologiche europee è cresciuto di 10 volte. Il 45% riguarda pascoli permanenti, il 15% l

    coltivazioni di cereali e il 13% altre varietà.Per rafforzare e aromonizzare il settore, la Commisisone

    Europea ha proposto una Riforma del Biologico che permetta di rimuovere gli ostacoli relativi allo

    sviluppo dell'agricoltura e che consenta di conquistare una fiducia maggiore da parte dei

    consumatori. Particolare attenzione verrà riservata alle etichettature, per evitare che vengano

    segnalati come bio prodotti che in realtà contengono Ogm, antibiotici e pesticidi. Secondo la

    Commissione Europea, infine, la crescita del biologico corrisponde all'incremento della domanda da

    parte dei consumatori, mentre allo stesso tempo contribuisce al bene comune favorendo la

    protezione ambientale e lo sviluppo rurale sostenibile.

    29

  • Man mano che aumenta la domanda e produzione di prodotti biologici, l'UE intensifica i suoi sforzi

    a livello di attuazione delle politiche, norme e monitoraggio. La legislazione dell'UE garantisce che

    il termine "biologico" abbia lo stesso significato in tutta l’Unione. Le norme sui prodotti biologici

    vengono elaborate con la partecipazione degli Stati membri e con l’aiuto di comitati consultivi e

    tecnici e organismi di esperti. La normativa europea riguarda l'intera filiera dell’agricoltura

    biologica: dalla produzione ai controlli, fino all'etichettatura. Il piano d’azione europeo per

    l’agricoltura e gli alimenti biologici stabilisce 21 iniziative per far crescere il mercato dei prodotti

    alimentari biologici, aumentando l’efficacia, la trasparenza e la fiducia dei consumatori. Il valore

    del mercato europeo dei prodotti biologici ammontava nel 2011 a 19,7 miliardi di euro, con una

    superficie totale di 9,6 milioni di ettari di coltivazioni biologiche, rispetto a 5,6 milioni di ettari nel

    2002. Tra le varie definizioni di agricoltura o alimento Biologico, la più attendibile è quella che

    inserita nel Regolamento Comunitario n. 2092 del 1991 definisce: ''Agricoltura Biologica (presente

    nella fase iniziale della filiera produttiva alimentare) è l’insieme delle pratiche attuate in agricoltura

    per fornire prodotti agricoli ottenuti escludendo completamente l’impiego di sostanze chimiche di

    sintesi''. Il termine Biologico, quindi, possiede un significato preciso da non confondere con altre

    denominazioni come “naturale”, “dietetico”, “organico - minerale” o “integrale”. Dalla definizione

    appare la sostanziale differenza rispetto all’agricoltura convenzionale, non chiarendo però il settore

    oggetto di studio che in realtà si presenta molto più complesso rispetto a ciò che può sembrare,

    perché mira ad una modalità del tutto diversa di rapportarsi nei confronti dell’ambiente.

    Fatte le dovute premesse, sembra chiaro che il mercato alimentare del Bio presenta delle nuove

    esigenze di professionalità altamente qualificate, legate ai recenti orientamenti comunitari come

    l’evoluzione dei mercati e dei consumi che stanno profondamente e rapidamente cambiando

    l’organizzazione settoriale verso un ottica innovativa, nella tutela dell’ambiente, nella riduzione

    dell’uso di pesticidi e della certificazione della qualità. Infatti, il mercato alimentare italiano

    continua a registrare e a chiedere con insistenza incrementi più a livello qualitativo che non

    quantitativo, per cui la permanenza dell’azienda sul mercato è conseguenza legata ad una quanto

    mai vitale componente organizzativa, supportata dalla professionalità degli uomini preposti alla

    produzione e alla commercializzazione dei prodotti alimentari stessi, nonchè ad una conoscenza del

    mercato utile per un approccio strategico più alto. Analizzando il comparto più in dettaglio e visto