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  • ALEXANDRE DUMAS

    DANTE ALIGHIERI

  • Copyright © 2007 - Angelo Gemmi

  • Alexandre Dumas

    DANTEALIGHIERI

    GUELFI E GHIBELLINI

    DANTE ALIGHIERI - LA DIVINA COMMEDIA

    nella traduzione italiana

    di

    Angelo Gemmi

  • GUELFI E GHIBELLINI

    u nel 1076, verso la stess'epoca in cui il Cid, quest'e-roe delle Spagne, sottometteva ad Alfonso VI Toledo

    e tutta la Castiglia Nuova, che scoppiarono i dissensi tra l'im-peratore Enrico IV e il sovrano pontificio Gregorio VII: ecco in quale occasione.

    F

    Lo spirito di libertà aveva soffiato sull'Italia; i marinai avventurosi che costeggiano le rive ne avevano respirato le prime brezze; Venezia, Genova, Pisa, Gaeta, Napoli Amalfi, s'erano costituite in repubbliche, mentre l'interno delle terre continuava ad obbedire ad Enrico IV di Germania. Il retaggio di San Pietro stesso, senza essere direttamente sottomesso al-l'impero, riconosceva ancora il suo assoggettamento, permet-tendo che la nomina dei Papi fosse confermata dagli impera-tori; ma già il milanese Alessandro II aveva rifiutato di de-porre la sua tiara per ricevere il battesimo della feudalità quando il monaco Ildebrando fu chiamato nel 1073 al pontifi-cato sotto il nome di Gregorio VII.

    Non solo il nuovo Papa, in cui doveva personificarsi la democrazia del medioevo, seguì l'esempio di Alessandro, ma trascorsi che erano appena tre anni dalla sua elezione, gettan-do lo sguardo sull'Europa e vedendo il popolo insorgere dap-pertutto come il grano in aprile, aveva compreso che spettava a lui, successore di San Pietro, raccogliere questi germi di li-bertà che aveva seminato la parola di Cristo.

    Dal 1076, pubblicò un decretale che diffidava i suoi suc-cessori dal sottomettere la loro nomina al potere temporale; da allora il soglio pontificio si trovò posto sullo stesso piano del trono dell'imperatore ed il popolo ebbe il suo Cesare.

    Ciò nonostante, Enrico IV non era più disposto a rinun-ciare ai suoi diritti che Gregorio VII in spirito di sottometter-visi. Rispose al decretale con un rescritto; il suo ambasciatore venne a suo nome a Roma per ordinare al sovrano pontificio di deporre la tiara ed ai cardinali di recarsi alla sua corte, al fine di designare un altro Papa; la lancia aveva colpito lo scu-do, il ferro aveva respinto il ferro. Gregorio VII rispose sco-municando l'imperatore. Alla notizia di questa misura, i

  • principi tedeschi si radunarono a Treviri, e siccome l'impera-tore, trascinato dalla collera, aveva oltrepassato i suoi diritti, che si estendevano all'investitura e non alla nomina, lo mi-nacciarono di deporlo, in virtù dello stesso potere che l'aveva eletto, se, nel giro di un anno, non si fosse riconciliato con il santo soglio.

    Enrico fu costretto a cedere, apparve supplicando alla sommità di quelle Alpi ch'egli aveva minacciato di valicare da vincitore e, nel bel mezzo d'un inverno rigido, attraversò l'Italia per andare a genuflettersi e a piedi nudi domandare al Papa l'assoluzione dal suo peccato.

    Asti, Milano, Pavia, Cremona e Lodi lo videro così passa-re e forti della sua debolezza, colsero il pretesto della sua sco-munica per sciogliersi dal loro giuramento. Dal canto suo, Enrico IV, temendo d'irritare il Papa, non tentò minimamen-te di farli tornare sotto la sua obbedienza e ratificò la loro li-bertà; ratifica di cui esse, a rigor di termini, avrebbero potuto fare a meno, come il Papa dell'investitura; fu da questa divi-sione tra il santo soglio e l'imperatore, tra il popolo e la feu-dalità, che si formarono le fazioni guelfe e ghibelline.

    Durante questo tempo, e come per preparare la libertà di Firenze, Goffredo di Lorena, marchese di Toscana, e Beatrice sua sposa, morirono, uno nel 1070 e l'altra nel 1076, lascian-do la contessa Matilde erede e sovrana del più grande feudo che sia mai esistito in Italia; sposata due volte, la prima con Goffredo il Giovane, la seconda con Guelfo di Baviera, ella si separò in seguito dai due suoi sposi e morì destinando le sue sostanze al soglio di San Pietro.

    Questa morte lasciò Firenze libera d'imitare a un di pres-so le altre città d'Italia; si costituì dunque in repubblica; dan-do a sua volta l'esempio che aveva ricevuto a Siena, Pistoia e Arezzo che si affrettarono a seguirla.

    Ciò nonostante, la nobiltà fiorentina, senza restare indif-ferente alla grande questione che divideva l'Italia, non vi era entrata con lo stesso ardore; si era divisa, è vero, ma in due fazioni e non campi: ciascuna di queste parti si osservava con

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  • più sfiducia che odio e se non era più la pace, perlomeno non era ancor la guerra. Tra le famiglie guelfe, una delle più nobi-li, potenti e ricche, era quella dei Buondelmonti; il primogeni-to di questa aveva scelto per sposa una ragazza della famiglia degli Amadei, la cui casa era alleata con gli Uberti e cono-sciuta per le sue opinioni ghibelline. Buondelmonte de' Buon-delmonti era signore di Montebuono nella val d'Arno supe-riore ed abitava in un superbo palazzo posto in piazza della Trinità.

    Un giorno, come sua abitudine, attraversava a cavallo, e magnificamente vestito, le strade di Firenze, una finestra si aprì al suo passaggio e si sentì chiamar per nome. Buondel-monte si voltò, ma, vedendo che colei che lo chiamava aveva il velo, proseguì per la sua strada.

    La dama lo chiamò una seconda volta e scostò il velo. Al-lora Buondelmonte la riconobbe per una del casato dei Dona-ti ed arrestando il suo cavallo, le domandò con cortesia cos'a-vesse da dirgli:

    – «Io non posso che felicitarmi per il tuo prossimo ma-trimonio Buondelmonte, rispose la dama con una punta d'ironia, non voglio che ammirare la tua devozione che ti fa alleare ad una famiglia così al di sotto della tua. Certamente un avo degli Amadei avrà reso qualche gran servigio ad uno dei tuoi e tu saldi oggi un debito di fami-glia».– «Voi v'ingannate, nobile dama, replicò Buondelmon-te. Se qualche disparità esiste tra i nostri due casati, non è la riconoscenza che lo cancella, ma bensì l'amore. Io amo Lucrezia Amadei, mia promessa sposa, e la sposo perché l'amo».– «Perdonate, signor conte, continuò la Gualdrada, ma mi pare che il più nobile debba sposare la più ricca, la più ricca e nobile, ed il più bello la più bella».– «Ma fino ad oggi, continuò ancora Buondelmonte, non c'è che lo specchio ch'io le ho portato da Venezia,

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  • che m'abbia mostrato una figura comparabile a quella di Lucrezia»– «Voi avete cercato male, mio signore,oppure vi siete stancato troppo presto. Firenze perderebbe alla svelta il suo nome di città dei fiori, se essa non contasse nel suo giardino più bella rosa di quella che adesso andate a co-gliere».– «Firenze ha pochi giardini ch'io non abbia visitato, pochi fiori di cui non abbia ammirato il colore o respira-to il profumo e non vi rimangono che le margherite e le violette che abbiano potuto sfuggire ai miei occhi, na-scondendosi tra l'erba».– «C'è ancora il giglio che cresce ai bordi delle fontane e prospera sotto i salici, che bagna i suoi piedi nel ru-scello per conservare la sua freschezza e che nasconde la sua testa nell'ombra per mantenere il suo caratter puro».– «la signora Gualdrada avrebbe forse nel giardino di questo palazzo qualcosa di simile da farmi vedere?».– «forse, se il signor Buondelmonte si degnasse di far-mi l'onore di visitarlo».

    Buondelmonte lasciò le briglie nelle mani del suo paggio ed entrò nel palazzo dei Donati. La Gualdrada l'attendeva in cima alla scala; lo guidò attraverso corridoi oscuri fino ad una camera isolata; aprì la porta, sollevò le tende e Buondelmonte vide una giovane dama addormentata.

    Buondelmonte indugiò a lungo, rapito dall'ammirazione, niente di così bello, così fresco e puro, si era ancora offerto alla sua vista. Era una di quelle teste bionde così rare in Ita-lia, che Raffaello ha preso a modello delle sue vergini; era un incarnato così bianco che si sarebbe detto esposto al pallido sole del nord, era una forma così leggera che Buondelmonte aveva paura di respirare, nel timore che quest'angelo si sve-gliasse e risalisse in cielo.

    La Gualdrada lasciò ricadere la tenda, Buondelmonte fece un movimento per trattenerla, ma ella gli arrestò la mano.

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  • – «Ecco la promessa sposa che io ti avevo serbato soli-taria e pura, gli disse, Buondelmonte; tu hai offerto la tua mano ad un'altra. Sta bene; va' e sii felice».Buondelmonte, interdetto, rimase in silenzio.– «Allora! Continuò la Gualdrada, dimentichi che la tua bella Lucrezia ti attende?».– «Ascolta. Disse Buondelmonte prendendole la mano, se io rinunciassi a questa alleanza, se rompessi la pro-messa fatta, se mi offrissi di sposar tua figlia, me la da-resti tu?».– «E quale madre sarebbe così pazza o insensata da rifiutare l'alleanza del signore di Montebuono?».

    Allora Buondelmonte sollevò la cortina, s'inginocchiò presso il letto della bella giovine di cui prese la mano e come la dormiente dischiudeva gli occhi: risvegliatevi, mia bella amata, le disse, e voi, madre mia, mandare a cercare un prete, mentre io porrò in fronte a vostra figlia la corona d'a-rancio.

    Il giorno stesso, Buondelmonte sposò Luisa Gualdrada, della casa dei Donati. L'indomani, la notizia di questo matri-monio si diffuse. Gli Amadei dubitarono per qualche tempo dell'oltraggio che era stato loro fatto; ma venne un momento in cui essi non poterono più aver dubbi.

    Allora convocarono i loro parenti, gli Uberti, i Fifanti, i Lamberti e i Guadalandi e gli esposero il motivo di questa riunione. Mosca1, al racconto dell'insulto fatto a tutti, gridò con l'energia e la concisione della vendetta cosa fatta capo ha2. Tutti quelli ch'erano presenti ripeterono questo grido e la morte di Buondelmonte fu unanimemente decisa.

    La mattina di Pasqua, Buondelmonte aveva appena attra-versato il ponte vecchio e discendeva lungo l'Arno; più uomi-ni a cavallo come lui sbucarono dalla strada della trinità e gli marciarono contro. Arrivati ad una certa distanza, si separa-

    1 Mosca Lamberti2 Ogni cosa che inizi ha il suo epilogo

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  • rono in due gruppi, al fine di attaccarlo da entrambi i lati. Buondelmonte li riconobbe ma, o confidando nella loro lealtà o nel suo coraggio, continuò per la sua strada senza dare al-cun segno d'inquietudine. Da lontano, arrivando presso di loro, li salutò con cortesia. Allora Schiatta degli Uberti trasse da sotto il suo mantello il suo braccio armato e con un sol colpo disarcionò Buondelmonte da cavallo; nello stesso istan-te, Addo3 Arrighi, mettendo il piede a terra, gli tagliò le vene col suo coltello. Buondelmonte si trascinò fino ai piedi della statua di Marte, protettore pagano di Firenze, la cui effigie si ergeva ancora e spirò.

    Il clamore di questa morte non tardò molto a diffondersi nella città. Tutti i parenti di Buondelmonte si radunarono nel-la camera ardente, fecero predisporre un carro e vi posero, in una bara scoperta, il corpo della vittima. La sua giovane spo-sa si sedette sul bordo del feretro, appoggiò la testa fracassata del suo sposo sul suo petto, i parenti più prossimi la circon-darono ed il corteo si mise in marcia, preceduto dal vecchio padre di Buondelmonte, che di tempo in tempo gridava, con voce rauca: Vendetta! Vendetta! Vendetta!

    Alla vista del cadavere insanguinato, di questa bella ve-dova in lacrime e dei capelli sciolti, alle grida di questo padre che precedeva la cassa del figlio che avrebbe dovuto seguire la sua, gli spiriti si infiammarono ed ogni casato nobile prese partito a seconda della propria opinione.

    Quarantadue famiglie di primo piano si fecero guelfe e si unirono alla fazione dei Buondelmonti; ventiquattro si dichia-rarono ghibelline e riconobbero gli Uberti per loro capi. Cia-scuna radunò servitori, fortificò i suoi palazzi, innalzò torri e per trentatré anni la guerra civile, rimanendo dentro le mura di Firenze, corse a briglia sciolta per le sue strade e pubbliche piazze.

    Ciò nonostante i Ghibellini, disperando di vincere se si fossero affidati alle sole proprie forze, si rivolsero all'impera-tore, che gli inviò seicento cavalieri tedeschi. Queste truppe

    3 Altri Oddo

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  • s'introdussero furtivamente in città da una delle porte con-trollate dai Ghibellini e la notte di Candelora del 1248, il par-tito guelfo, vinto, fu obbligato ad abbandonar Firenze. Allora i vincitori, padroni della città, si abbandonarono agli eccessi che caratterizzano le guerre civili.

    Trentasei palazzi furono demoliti e le loro torri abbattute, quella dei Toringhi che dominava la piazza del mercato vec-chio, e si elevava tutta coperta di marmi all'altezza di cento-venti braccia, minata alla base, crollò come un gigante fulmi-nato. Il partito dell'imperatore trionfò quindi in Toscana ed i Guelfi restarono esiliati fino al 1251, epoca della morte di Fe-derico II.

    Questa produsse una reazione. I Guelfi furono richiamati e il popolo riprese una parte dell'influenza che aveva perduto, una delle sue prime azioni, fu l'ordine di distruggere le fortez-ze dietro le quali i gentiluomini violavano le leggi. Un rescrit-to ingiunse ai nobili di abbassare tutti i loro palazzi all'altez-za di cinquanta braccia ed i materiali risultanti da questa de-molizione servirono ad elevare dei bastioni per la città che non era per nulla fortificata dalla parte dell'Arno.

    Infine, nel 1252, il popolo, per festeggiare il ritorno della libertà a Firenze, coniò, con oro puro, questa moneta che si chiama fiorino, dal nome della città e che da settecento anni è rimasto con la stessa immagine, lo stesso peso e l'identico valore, senza che alcuna delle rivoluzioni che seguirono quella alla quale doveva la sua origine, abbia osato mutare la sua im-pronta popolare o alterare il suo oro repubblicano.

    Ciò nonostante i Guelfi, più generosi o pieni di fiducia dei loro nemici, avevano permesso ai Ghibellini di restare in cit-tà. Questi ultimi approfittarono di questa libertà per ordire una congiura che fu scoperta. I magistrati gli fecero recapita-re l'ordine di venire a render conto della loro condotta; ma re-spinsero gli arcieri del podestà a colpi di pietre e frecce. Tutto il popolo si sollevò allora. Si andò ad attaccare i nemici nelle loro case, si pose l'assedio a palazzi e fortezze; in due giorni fu tutto finito. Schiatta degli Uberti morì con le armi in

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  • mano. Un altro Uberti e un Infangati ebbero la testa troncata di netto sulla piazza del mercato vecchio; e quelli che scampa-rono al massacro o alla giustizia, guidati da Farinata degli Uberti, uscirono dalla città e andarono a domandare a Siena un asilo ch'essa gli accordò.

    Farinata degli Uberti era uno di quegli uomini del genere del barone des Adrets, del connestabile di Bourbon e dei Le-sdiguières, che nascono con un braccio di ferro e un cuore di bronzo, i cui occhi si aprono su una città assediata e si chiu-dono su di un campo di battaglia; piante arrossate dal sangue e che portano fiori e frutti insanguinati.

    La morte dell'imperatore gli toglieva la risorsa ordinaria dei Ghibellini, che era quella di rivolgersi a quest'ultimo. In-viò allora dei messaggeri presso Manfredi, re di Sicilia. Que-sti ambasciatori domandavano un'armata. Manfredi offrì cen-to uomini. I legati erano sul punto di rifiutare questa offerta ch'essi consideravano come irrisoria; ma Farinata scrisse loro: Accettate comunque; l'importante è avere il drappo di Man-fredi tra i nostri e quando l'avremo, io andrò a piantarlo in un luogo tale che bisognerà bene ch'egli invii rinforzi per an-dare a riprenderselo.

    L'armata guelfa, però, inseguiva i Ghibellini e venne ad accamparsi avanti alle porte di Camoglia, la cui polvere era così dolce all'Alfieri4. Dopo alcune scaramucce senza conse-guenze, Farinata ordinò una sortita, fece distribuire ai soldati tedeschi che gli aveva inviato Manfredi5 i migliori vini di To-scana e quando vide ingaggiato il combattimento tra i Guelfi e i Ghibellini, sotto il pretesto di nascondere una parte dei suoi, si mise alla testa di questi ausiliari e fece fare loro una carica così irruenta, che lui e i suoi cento uomini si trovarono circondati dall'armata nemica. I tedeschi si batterono alla di-sperata, ma la partita era troppo ineguale perché il coraggio potesse avervi qualche parte. Tutti caddero; Farinata solo e per miracolo, si aprì un corridoio e riguadagnò i suoi, coper-

    4 A Camoglia mi godo il polverone, sonetto CXII5 Manfredi era della casa di Svevia

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  • to dal sangue dei nemici, stanco di uccidere, ma senza ferite. Il suo fine era raggiunto, i cadaveri dei soldati di Manfredi gridavano vendetta da tutte le loro ferite; lo stendardo reale inviato a Firenze era stato trascinato nel fango e ridotto a brandelli dalla plebaglia. Era un affronto alla casa di Svevia e una macchia allo stemma imperiale. Una vittoria soltanto po-teva vendicare l'uno e cancellare l'altra. Farinata degli Uber-ti, scrisse al re di Sicilia il racconto della battaglia, Manfredi gli rispose inviandogli duemila uomini.

    Allora il leone si fece volpe. Per attirare i fiorentini in una cattiva posizione, Farinata finse di aver qualcosa da re-criminare al riguardo dei Ghibellini. Scrisse agli Anziani per indicar loro un luogo d'incontro a un quarto di lega dalla cit-tà. Dodici uomini lo attendevano, lui vi si recò da solo. Si of-frì loro, se avessero voluto far marciare una potente armata contro Siena, di consegnar la porta di San Vito, di cui aveva la custodia. I capi guelfi non potevano decidere nulla senza il parere del popolo. Ritornarono da questi e riunirono il consi-glio. Farinata rientrò nella città.

    L'assemblea fu tumultuosa, la massa era del parere di ac-cettare, ma alcuni, più lungimiranti, temevano un tradimen-to. Gli Anziani, che avevano aperto i negoziati, e che doveva-no attribuirsene l'onore, li appoggiavano con tutto il loro po-tere e il popolo appoggiava gli Anziani.

    Il conte Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandini, tentaro-no invano di opporsi alla maggioranza; il popolo non volle ascoltarli. Allora Cece dei Guerardini, conosciuto per la sua saggezza e devozione alla patria, si levò tentando di farsi sen-tire; ma gli Anziani gli ordinarono di tacere. Egli continuò nondimeno il suo discorso ed i magistrati lo condannarono a cento fiorini d'ammenda. Acconsentì a pagare se a questo prezzo avesse ottenuto la parola.

    L'ammenda fu raddoppiata. Guerardini accettò questa nuova punizione dicendo che non si poteva pagare mai trop-po cara la fortuna di dare un buon consiglio alla repubblica. Si portò, infine, la sanzione fino alla somma di quattrocento

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  • fiorini, senza che gli si potesse imporre il silenzio. Questo at-taccamento, che si scambiò per ostinazione, accese gli animi. La pena di morte fu proposta ed adottata contro chi osava opporsi così alla volontà del popolo. La sentenza fu notificata a Guerardini. L'ascoltò con serenità; poi, levandosi un'ultima volta: fate innalzare il catafalco, diss'egli, e lasciatemi parla-re mentre lo si monterà.

    Ma i fiorentini erano decisi a non ascoltare nulla. Invece di cadere ai piedi di quest'uomo, lo arrestarono e siccome era il solo oppositore, una volta fuori dall'assemblea, la proposta passò.

    Firenze mandò a chiedere soccorsi ai suoi alleati. Lucca, Bologna, Pistoia, Prato, San Miniato e Volterra risposero al suo appello. In capo a due mesi, i Guelfi avevano radunato tremila cavalieri e trentamila fanti.

    Lunedì 3 settembre 1260, questa armata uscì di notte dal-le mura di Firenze e si mise in marcia verso Siena. In mezzo ad una guardia scelta tra i più coraggiosi, rullava pesante-mente il carroccio: era un carro dorato, aggiogato ad otto buoi coperti di gualdrappe rosse e in mezzo al quale si innal-zava un'asta sormontata da un globo dorato; al di sotto di questo e tra due veli bianchi, sventolava lo stendardo di Fi-renze che, al momento della battaglia, era affidata alle mani di colui che si stimava più coraggioso. Più in basso ancora, un Cristo in croce sembrava benedire l'armata dalle sue brac-cia distese. Una campana, sospesa presso di esso, richiamava verso un centro comune tutti coloro che la mischia disperde-va ed il pesante bardamento, che impediva al carroccio ogni via di fuga, costringeva l'armata o ad abbandonarlo con onta, o a difenderlo con accanimento.

    Era un'invenzione di Eriberto, arcivescovo di Milano che volendo rilevare l'importanza della fanteria dei comuni, al fine di opporla alla fanteria dei gentiluomini, ne aveva fatto uso per la prima volta nella guerra contro Corrado il Salico, così, era in mezzo alla fanteria, il cui passo si regolava su quello dei buoi che avanzava questa pesante macchina. Chi la

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  • conduceva, stavolta, era un vecchio di settant'anni chiamato Giovanni Tornaquinci; e sulla piattaforma del carroccio, ri-servata ai più valorosi, c'erano i suoi sette figli, ai quali aveva fatto giurare di morire tutti, prima che un sol nemico toccas-se quest'arca d'onore medievale. Quanto alla campana, essa era stata benedetta, si dice, dal Papa Martino e si chiamava Martinella.

    Il 4 settembre, allo spuntar del giorno, l'armata si ritrovò sul Monte Aperto, piccolo rilievo situato a cinque miglia da Siena, verso la parte orientale della città; scoprì allora in tut-ta la sua estensione la città che sperava di sorprendere. Quin-di un vescovo quasi cieco salì sulla piattaforma del carroccio e disse messa, che tutta l'armata ascoltò solennemente in gi-nocchio e col capo scoperto, poi, compiuto il santo sacrificio, staccò lo stendardo di Firenze, lo mise nelle mani di Jacopo del Vacca, della famiglia dei Pazzi e, vestendosi egli stesso di un'armatura, andò a porsi tra le fila dei cavalieri.

    Vi si era appena sistemato che la porta di San Vito si aprì, secondo la promessa fatta. La cavalleria tedesca ne uscì per prima, dietro di questa veniva quella dei transfughi fio-rentini, comandati da Farinata; apparvero in seguito i citta-dini di Siena con i loro vassalli che formavano la fanteria, in tutto 13.000 uomini.

    I fiorentini videro d'essere stati traditi ma allo stesso tem-po comparavano la loro armata a quella che andava dispie-gandosi sotto i loro occhi e lanciarono delle alte grida di pro-vocazione e d'insulto, pensando ch'erano in ragione di tre contro uno e si disposero di fronte al nemico.

    In quel momento, il vescovo che aveva detto messa e che, come tutti gli uomini privi di senno, aveva addestrato gli altri a perderlo, udì un rumore intorno a lui, si girò ed i suoi oc-chi, per quanto indeboliti fossero, credettero di vedere tra lui e l'orizzonte una linea che un istante prima non esisteva. Bat-té sulla spalla del suo vicino e gli domandò se vedesse una muraglia o una nebbia. Né l'una, né l'altra, rispose il soldato, sono gli scudi dei nemici. Infatti un corpo di cavalleria tede-

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  • sca aveva girato intorno a Monte Aperto, passato l'Arbia a guado, e attaccava le retrovie dell'armata fiorentina, mentre il resto dei senesi gli presentava il combattimento di fronte.

    Allora Jacopo del Vacca, pensando che fosse venuta l'ora d'ingaggiare la battaglia, sollevò al di sopra di tutte le teste lo stendardo di Firenze che rappresentava un leone e gridò: avanti! Ma nello stesso istante, Bocca degli Abbati, che era Ghibellino nell'animo, trasse la sua spada dal fodero e tranciò con un sol colpo la mano e lo stendardo. Poi gridando: a me, Ghibellini!, si separò con trecento nobili dello stesso partito, dall'armata guelfa, per andare a raggiungere la cavalleria te-desca.

    La confusione era grande tra i fiorentini: Jacopo del Vac-ca levò il suo moncherino mutilato e sanguinante gridando: tradimento! Nessuno pensava a raccogliere lo stendardo ca-duto rotolato ai piedi dei cavalli ed ognuno, vedendosi carica-to da quello che un istante prima credeva suo fratello, invece di contare sul suo vicino, si allontanava da lui, temendo più la spada che lo doveva difendere che quella che doveva attaccar-lo. Allora il grido di tradimento, profferito da Jacopo del Vacca, passò di bocca in bocca e ciascun cavaliere, dimenti-cando la salvezza della patria per non pensare che alla sua, si allontanò dal lato che gli sembrava meno pericoloso, affidan-do la vita alla velocità della sua cavalcatura e lasciando spira-re il proprio onore al posto suo sul campo di battaglia; così di questi tremila uomini ch'erano tutti della nobiltà, trentacin-que valenti soltanto rimasero che non vollero fuggire e che morirono. La fanteria ch'era formata dal popolo di Firenze e da gente venuta dalle città alleate, oppose una miglior resi-stenza e si serrò attorno al carroccio. Fu quindi su questo punto che si concentrò

    ...Lo strazio e il grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso6

    ma, privati della loro cavalleria, i Guelfi non potevano resistere, poiché tutti quelli ch'erano rimasti sul campo di

    6 Inferno, X

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  • battaglia erano, come abbiamo detto, persone del popolo che, armati a caso di forconi ed alabarde, non potevano opporre alle lunghe lance ed alle spade a due mani dei cavalieri, che scudi di legno, corazze di corno di bufalo o giustacuori fode-rati.

    Gli uomini ed i cavalli bardati di ferro facevan quindi fa-cilmente breccia in queste masse e vi scavavano dei corridoi profondi e, ciò nonostante, animati dal suono di Martinella che non cessava di far sentire la sua voce, tre volte queste masse si richiusero, respingendo dal loro seno la cavalleria te-desca che ne uscì tre volte sanguinante e intaccata, come una spada da una ferita.

    Infine, con l'aiuto del diversivo di Farinata alla testa dei transfughi fiorentini e del popolo di Siena, i cavalieri arriva-rono fino al carroccio. Allora alla vista delle armi accade un fatto incredibile: fu quello di questo vegliardo a cui abbiamo detto essere stata affidata la protezione del carroccio e che aveva fatto giurare ai suoi sette figli di morire ai posti che avevano occupato.

    Per tutto il combattimento i sette giovani erano rimasti sulla piattaforma del carroccio, da cui dominavano l'armata; tre volte avevano visto il nemico vicino ad arrivare fino a loro e tre volte avevano girato gli occhi con impazienza sul loro padre. Ma con un cenno, il vecchio li aveva trattenuti; l'ora infine era arrivata in cui bisognava morire: il vecchio gridò ai suoi figli: andiamo!

    I giovani saltarono giù dal carroccio, ad eccezione di uno solo che suo padre trattenne per il braccio: era il più giovane, e per conseguenza il più amato; aveva diciassette anni appena e si chiamava Arnolfo. I sei fratelli erano armati al pari dei cavalieri e sostennero vigorosamente l'urto dei Ghibellini du-rante questo tempo. Il padre, dalla mano con cui non tratte-neva suo figlio, suonava la campana per l'adunata; i Guelfi ri-presero coraggio ed i cavalieri tedeschi furono una quarta volta respinti. Il vecchio vide tornare a sé quattro dei sei suoi figli; due si erano già addormentati per non svegliarsi più.

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  • Nello stesso istante, dal lato opposto, si udì un gran grido e si vide la folla aprirsi. Era Farinata degli Uberti alla testa dei transfughi fiorentini. Aveva inseguito la cavalleria guelfa fin-ché non si fu assicurato ch'essa non sarebbe più tornata all'at-tacco, come un lupo che scarta i cani prima di gettarsi sui montoni.

    Il vecchio, che dominava la mischia, lo riconobbe dal suo pennacchio, dalle armi e, ancor prima, dai suoi colpi: l'uomo e il cavallo sembravan essere un tutt'uno e apparivano come un mostro coperto dalle stesse scaglie. Chi cadeva sotto i fen-denti dell'uno, era travolto all'istante dai piedi dell'altro; ogni cosa si apriva avanti ad essi. Il vecchio fece un segno ai suoi quattro figli e farinata venne a scontrarsi contro una mura-glia di ferro. Così, le masse si serrarono attorno ad essi ed il combattimento riprese.

    Farinata era da solo tra quest'uomini appiedati ch'egli dominava dall'alto del suo cavallo, poiché aveva lasciato gli altri cavalieri ghibellini ben dietro di lui. Il vecchio poteva se-guire la sua spada fiammeggiante che si levava ed abbassava con la regolarità del martello d'un fabbro; poteva seguire il grido di morte che seguiva ciascun colpo portato a segno; due volte credette di riconoscere la voce dei suoi figli, nonostante tutto questo, non cessò di suonare la campana, soltanto, con l'altra mano, serrava con più forza il braccio di Arnolfo.

    Farinata indietreggiò infine, ma come si ritira un leone, graffiando e ruggendo, diresse la sua ritirata verso i cavalieri fiorentini che caricavano per soccorrerlo, nell'attimo che tra-scorse prima che li raggiungesse, il vecchio vide tornare due dei suoi figli; non una lacrima usciva dai suoi occhi, non un lamento sfuggì dal suo cuore, tutto ciò che fece, fu stringersi Arnolfo al petto.

    Ma Farinata, i transfughi fiorentini ed i cavalieri tede-schi si erano riuniti e mentre tutte le truppe senesi caricavano dal loro lato, fanteria contro fanteria, essi si prepararono a caricare dalla loro. L'ultimo attacco fu tremendo; tremila uo-mini a cavallo e coperti d'acciaio s'incunearono in mezzo a

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  • dieci o dodicimila fantaccini che restavano ancora vicino al carroccio. Entrarono in questa massa perforandola come un immenso serpente di cui la spada di farinata era il morso. Il vecchio vide il mostro avanzare ruotando i suoi anelli gigan-teschi; fece segno ai suoi due figli, essi si slanciarono davanti al nemico con tutte le retrovie: Arnolfo piangeva per la ver-gogna di non seguire i suoi fratelli.

    Il vecchio li vide cadere uno dopo l'altro; allora affidò la corda della campana nelle mani di Arnolfo e saltò giù dalla piattaforma; il povero padre non aveva avuto il coraggio di veder morire il suo settimo figlio. Farinata passò sul corpo del padre com'era passato su quello dei suoi figli, il carroccio fu preso e siccome Arnolfo continuava a suonare la campana malgrado le ingiunzioni contrarie che riceveva, Della Presa salì sulla piattaforma e gli tagliò la testa con un colpo di spa-da.

    Dal momento in cui i fiorentini non udirono più la voce di Martinella, non tentarono nemmeno più di ricompattarsi. Ciascuno fuggì dalla sua parte, alcuni si rifugiarono nel ca-stello di Monte Aperto, dove furono catturati l'indomani, gli altri morirono, diecimila uomini, si dice, rimasero sul terre-no.

    La sconfitta della battaglia di Monte Aperto è rimasta per Firenze uno di quei grandi disastri il cui ricordo si perpe-tua attraverso le età. Dopo cinque secoli e mezzo, il fiorentino mostra ancora agli stranieri il luogo del combattimento con tristezza e cerca nelle acque dell'Arbia questa tinta rossastra che gli ha dato, si dice, il sangue dei suoi avi; dal canto loro, i senesi s'inorgogliscono ancora della vittoria, le aste del car-roccio che vide tanti uomini cadere attorno a lui in questa fa-tale giornata, sono gelosamente conservate nella basilica, come Genova conserva, alla porta della darsena, le catene del porto di Pisa, come Perugia alla finestra del palazzo del co-mune il leone di Firenze, povere città a cui non rimane della propria antica libertà che i trofei ch'esse si sono trafugate a vicenda, povere schiave a cui i loro padroni hanno, per deri-

    19

  • sione, certamente, inchiodata in fronte la loro corona di regi-na. Il 27 settembre l'armata ghibellina si presentò dinanzi a Firenze, tutte le cui donne trovò in pena, poiché, come dice Villani, non ce n'era una sola che non avesse perduto un fi-glio, un fratello o un marito.

    Le porte erano aperte e nessuna opposizione vi fu. Il gior-no dopo tutte le leggi guelfe furono abolite ed il popolo, ces-sando di avere voce in capitolo nei consigli, ricadde sotto la dominazione della nobiltà.

    Allora una dieta7 di città ghibelline della Toscana fu in-detta ad Empoli; gli ambasciatori di Pisa e Siena dichiararo-no che non vedevano altro mezzo di soffocare la guerra civile che distruggendo del tutto Firenze, autentica capitale di Guel-fi che non avrebbe cessato di favorire questo partito; i conti Guidi e Alberti, i Santafiore e gli Ubaldini appoggiarono que-sta proposta, o per ambizione o per odio. La mozione stava per passare quando Farinata si levò.

    Fu un discorso sublime quello che pronunciò questo fio-rentino per Firenze, questo figlio che patrocinava in favore della madre, questo vincitore che domandava grazia per i vin-ti, offrendosi di morire perché la patria vivesse, cominciando come Coriolano e finendo come Camillo8. Le parole di Farina-ta conquistarono il consiglio, come la sua spada in battaglia. Firenze fu salva e i Ghibellini vi stabilirono la sede del loro governo che durò sei anni.

    Fu il quinto anno di questa reazione imperiale che nac-que a Firenze un bambino che ricevette dai suoi genitori il nome di Alighieri e dal cielo quello di Dante.

    7 Qui nel senso di assemblea (n.d.t.)8 Ma fu' io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto». Inf. X

    20

  • DANTE ALIGHIERI

    ra il rampollo di una nobile famiglia della quale egli stesso avrà cura di tracciarci la genealogia9. La radi-

    ce di quest'albero, di cui fu il ramo d'oro, era Cacciaguida Elisei che, avendo preso per moglie una giovane di Ferrara della famiglia degli Alighieri, aggiunse al suo nome e alle sue armi il nome e l'armi della sua sposa e morì in terrasanta, ca-valiere nella milizia dell'imperatore Corrado.

    E

    Giovane ancora, perse suo padre. Allevato da sua madre, che si chiamava Bella, la sua educazione fu quella d'un cri-stiano e gentiluomo. Brunetto Latini gli insegnò le lettere lati-ne e greche10, quanto al nome del suo maestro di cavalleria, si è perduto, sebbene alla battaglia di Campaldino avesse dato prova d'aver ricevuto degne lezioni.

    Adolescente, studiò la filosofia a Firenze, Bologna e Pa-dova, fatto uomo, venne a Parigi11 e vi apprese la teologia, poi tornò nella sua bella Firenze e la trovò in preda alle guerre ci-vili. La sua alleanza con una donna della famiglia dei Dona-ti12 lo gettò nel partito guelfo. Dante era uno di quegl'uomini che si danno anima e corpo quando s'impegnano in qualcosa. Così lo vediamo alla battaglia di Campaldino caricare a ca-vallo i Ghibellini d'Arezzo e nella guerra contro i pisani get-tarsi per primo all'assalto del castello di Caprona.

    Dopo questa vittoria, ottenne le prime cariche della re-pubblica. Nominato quattordici volte ambasciatore, quattor-dici volte condusse in porto la missione che gli era stata affi-data. Fu al momento di partire per una di queste ambascerie13 che, considerando gli avvenimenti e gli uomini e trovando gli

    9 Paradiso, canto XV10 Altri dubita che Dante avesse imparato il greco, se non poche parole

    di esso, insieme con le arabe ed ebraiche (n.d.t.)11 Il viaggio è dubbio (n.d.t)12 Gemma Donati, ch'era stata fattagli sposare nel tentativo di fargli di-

    menticar la morte di Beatrice 13 Presso il Papa Bonifazio VIII

    21

  • uni giganteschi e gli altri minuscoli, lasciò uscire queste paro-le sdegnose: s'io vo chi rimane? E s'io rimango chi va? Una terra tormentata dalle discordie civili è pronta a far germo-gliare una simile semenza; la sua pianta è l'invidia e il suo frutto l'esilio.

    Accusato di concussione, Dante fu condannato, il 27 gen-naio 1302, con una sentenza del conte Gabriele Gubbio, pode-stà di Firenze, ad ottomila fiorini d'ammenda e due anni di proscrizione e in caso di mancato pagamento, alla confisca e alla devastazione dei suoi beni, nonché ad un perpetuo esilio.

    Dante non volle riconoscere il crimine riconoscendo l'or-dine di arresto. Abbandonò i suoi impieghi, le sue terre, le sue case ed uscì da Firenze, portando con sé per tutta ric-chezza, la spada con cui aveva combattuto a Campaldino e la penna che aveva già scritto i primi sette canti dell'Inferno.

    Allora tutti i suoi beni furono confiscati e venduti a be-neficio dello stato, si passò l'aratro nel posto in cui era stata la sua casa e vi si sparse del sale. Infine, condannato a morte in contumacia, fu bruciato in effigie sulla stessa piazza in cui, due secoli più tardi, Savonarola doveva esserlo in carne ed ossa. L'amore per la patria, il coraggio in battaglia, l'ardo-re della gloria, avevano fatto di Dante un bravo guerriero; l'a-bilità negli intrighi, la perseveranza nella politica, la giustez-za nella verità, un gran politico, le sventure, lo sdegno e la vendetta, un sublime poeta.

    Privo di questa attività pratica, di cui aveva bisogno, il suo animo si gettò a capofitto nella contemplazione delle cose divine e mentre il suo corpo rimaneva incatenato sulla terra, l'anima visitava il triplice regno dei morti e popolava l'Infer-no dei suoi odi, il Paradiso dei suoi amori. La Divina Com-media è l'opera della vendetta; Dante fa la punta alla sua penna con la spada.

    Il primo asilo che s'offrì al fuggitivo, fu il castello del si-gnore della Scala e dai primi canti dell'Inferno14, il poeta si

    14 Questi non ciberà terra né peltro, ma sapïenza, amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

    22

  • premura di pagare il debito di riconoscenza ch'esprimerà an-cora nel XVII canto del Paradiso

    Lo primo tuo refugio, il primo ostello sarà la cortesia del gran Lombardo

    che 'n su la scala porta il santo uccello;

    Si trovò alla corte di questo Augusto del medioevo, popo-lata da proscritti. Uno di essi, Sagacius Mucius Gazata, stori-co di Reggio, ci ha lasciato dei dettagli preziosi sul modo in cui il signore della Scala esercitava la sua regale ospitalità verso quelli che venivano a chiedere un riparo al suo castello feudale:

    Avevano differenti appartamenti a seconda delle loro diverse condizioni, ed a ciascuno il magnifico signore aveva dato valletti ed una tavola splendida. Le diverse camere venivano indicate da segni e simboli diversi. La vittoria per i guerrieri, la speranza per i proscritti,le muse per i poeti, Mercurio per i pittori, il paradiso per gli uomini di chiesa e durante i pasti, musici, buffoni e suonatori di bicchieri percorrevano questi appartamenti. Le sale erano affrescate da Giotto ed i soggetti che aveva trattato erano in rapporto alle vicissitudini della fortuna umana.

    Di quando in quando, il castellano chiamava alla sua tavola personale alcuni dei propri ospiti, soprattutto Guido di Castello di Reggio, che per via della sua franchezza, veniva chiamato il semplice lombardo e Dante Alighieri, uomo allora assai illustre e ch'egli venerava per il suo genio.

    Ma, per onorato che fosse, il proscritto non poteva piegare il suo orgoglio a questa vita e pianti profondi uscivano a più riprese dal suo petto, talvolta è Farinata che con la sua voce altera gli dice nell'Inferno:

    Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia della donna che qui regge,

    che tu saprai quanto quell'arte pesa15.

    Talaltra è il suo avo Cacciaguida che, compatendo le pene a venire del suo discendente, esclama:

    Qual si partío Ippolito d'Atene

    15 Canto IX

    23

  • per la spietata e perfida noverca, tal di Fiorenza partir ti convene.

    Questo si vuole e questo già si cerca, e tosto verrà fatto a chi ciò pensa là dove Cristo tutto dí si merca.

    La colpa seguirà la parte offensa in grido, come suol; ma la vendetta

    fia testimonio al ver che la dispensa. Tu lascerai ogni cosa diletta

    piú caramente; e questo è quello strale che l'arco dello essilio pria saetta.

    Tu proverai sí come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle

    lo scendere e 'l salir per l'altrui scale. E quel che piú ti graverà le spalle,

    sarà la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle16;

    questi versi, lo si vede, sono scritti con le lacrime degli oc-chi e il sangue del cuore.

    Ciò nonostante, per quanti amari dolori soffrisse, il poeta rifiutò di rientrare nella sua patria, poiché non vi faceva rien-tro attraverso un onorato cammino. Nel 1315 una legge ri-chiamò i proscritti a condizione che pagassero una certa am-menda. Dante, i cui beni erano stati venduti e la casa demoli-ta, non poté mettere insieme la somma necessaria. Gli venne allora offerta l'esenzione da questo tributo ma a condizione che si costituisse prigioniero e che andasse a ricevere il suo perdono alla porta della cattedrale, a piedi nudi, vestito dell'a-bito dei penitenti e con le reni cinte da una corda. Questa proposta gli fu portata da un religioso suo amico. Ecco la re-plica di Dante:

    «dalla vostra lettera, che io ho ricevuto con i sentimenti di rispetto e affetto che vi son dovuti, ho compreso, con riconoscenza, quanto valore attribuiate al mio ritorno nella mia patria. La vostra buona azione mi lega tanto più strettamente, che è raro, agli esiliati trovare degli amici. Ora io riprenderò il contenuto della vostra lettera; e se la mia risposta non è quella che aspetterebbe forse la pusillanimità di alcuni uomini, io la rimetto

    16 Paradiso, canto XVII

    24

  • affettuosamente all'esame della vostra prudenza, prima della decisione finale.

    Dopo che mi è stato annunciato, nella vostra lettera, in quelle di mio nipote e di diversi altri amici, che è stato pubblicato un editto sugli esiliati, stando ai cui termini, se io voglio pagare una certa somma di denaro e sottomettermi all'ontuosa formalità dell'oblazione, potrò essere assolto e tornare a Firenze.

    Ci sono, in questa proposta, due cose ridicole e mal consigliate; io dico mal consigliate per quelli che si sono così espressi, poiché la vostra lettera, scritta con più discrezione e di saggezza, non contiene nulla di simile.

    Ecco dunque il glorioso mezzo offerto a Dante Alighieri di rientrare nella sua patria dopo quindici anni d'assenza! È questo che ha meritato la mia innocenza manifesta per tutti? È questo tutto ciò che si deve alle mie lunghe fatiche, a tante veglie consacrate al lavoro e allo studio?

    Lungi da me, lungi da un servitore della filosofia, questa bassezza di cuore, tutta carnale che mi farebbe venire, così come un Ciolo e alcuni altri infami, fare tutto legato l'oblazione della mia persona.

    Lungi da un uomo che predica la giustizia, una tale debolezza, che avendo subito l'ingiustizia, dia soldi a coloro che l'hanno compiuta, come a dei benefattori!

    Non è per un tale cammino, o padre mio! Che si rientra nella propria patria. Si voi, od ogni altro, conoscete una via mediante la quale Dante non debba lasciare nulla del suo onore e del suo nome, eccomi pronto ad accorrere a grandi passi, ma, se per rientrare a Firenze, non c'è altra strada che quella che volete offrirmi, io non rientrerò a Firenze17...».

    Dante, proscritto dai Guelfi, si era fatto Ghibellino e di-venne tanto ardente nella sua nuova ideologia, quanto era sta-to fedele nell'antica; certamente, credeva che l'unità imperiale fosse il solo mezzo di grandezza per l'Italia e ciò nonostante Pisa aveva abbattuto il suo camposanto, il suo duomo e la sua torre pendente. Arnolfo di Lapo aveva gettato sulla grande

    17 Questa lettera, conservata nella biblioteca di Firenze, non è di man di Dante. Dante, come Molière, non ha lasciato alcun manoscritto auto-grafo

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  • piazza di Firenze le fondamenta di Santa Maria del Fiore; Siena aveva innalzato la sua cattedrale dal campanile rosso e nero e vi aveva racchiuso come un gioiello nel suo scrigno la sedia scolpita da Nicola Pisano. Forse anche il carattere av-venturoso dei cavalieri e dei signori tedeschi gli sembrava più poetico dell'abilità mercantizia della nobiltà genovese o vene-ziana e la fine dell'imperatore Alberto gli piaceva più della morte di Bonifazio VIII18.

    Disgustato dalla vita che conduceva presso Cangrande della Scala, dove l'amicizia del padrone non lo proteggeva sempre dall'insolenza dei suoi cortigiani e dalle facezie del suo buffone di corte, il poeta riprese la sua vita errabonda. Aveva terminato il suo poema dell'Inferno a Verona; scrisse il Purgatorio a Gargagnano e terminò la sua opera al castello di Tolmino, in Friuli, con il Paradiso.

    Da lì venne a Padova dove trascorse qualche tempo pres-so Giotto, suo amico al quale, per riconoscenza, donò la coro-na di Cimabue. Infine, andò a Ravenna, è in questa città che pubblicò il suo poema per intero. Duemila copie ne furono fatte a mano e inviate in tutta Italia; ciascuno levò i suoi oc-chi strabiliati verso questo nuovo astro che si era appena ac-ceso in cielo. Si dubitò che un uomo ancor vivente avesse po-tuto scrivere tali cose e più di una volta successe., quando Dante passeggiava lentamente e con passo severo nelle strade di Verona, con la sua lunga veste rossa e la sua corona di al-loro sulla testa, che una madre santamente spaventata lo ad-ditasse a suo figlio dicendo: vedi tu quest'uomo? È disceso all'inferno.

    Dante morì a Ravenna il 14 settembre 1321, all'età di 56 anni. Guido da Polenta, che gli aveva offerto asilo, lo fece sep-

    18 L'imperatore Alberto fu ucciso a Koenigfelden da suo nipote Gio-vanni di Svevia, nel momento in cui marciava contro gli svizzeri. Boni-fazio VIII, furioso d'essere stato oltraggiato dal Colonna, fu preso da una febbre nervosa e si ruppe la testa contro il muro della sua camera, dopo essersi mangiato una mano. Il popolo gli indirizzò questo epitaffio:

    QUI GIACE COLUI CHE SALÌ AL PONTIFICATO COME UNA VOLPE, VI REGNÒ COME UN LEONE E MORÌ COME UN CANE

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  • pellire nella chiesa dei frati minori in pompa magna e in abi-to da poeta. Le sue ossa vi restarono fino al 1481, epoca in cui Bernardo Bembo, podestà di Ravenna per la repubblica di Venezia, gli fece innalzare un mausoleo seguendo i disegni di Pietro Lombardo. Sulla volta della cupola vi sono quattro me-daglioni rappresentanti Virgilio, sua guida, Brunetto Latini, suo maestro, Cangrande suo protettore e Guido Cavalcanti suo amico.

    Firenze, ingiusta con il vivo, fu pietosa verso il morto e tentò di riavere i resti di colui il quale aveva proscritto. Dal 1396 gli decretò un monumento pubblico, nel 1429 rinnovò le sue richieste presso i magistrati di Ravenna, infine, nel 1519, indirizzò una supplica a Leone X e tra le firme si legge questa postilla: io, Michelangelo, scultore, supplico vostra santità per la stessa causa, offrendomi di far dono al divin poeta di una sepoltura conveniente e in un luogo onorevole di questa città. Leone X rifiutò. Sarebbe stata, ciò nonostante, una grande e bella cosa la tomba di Dante di Michelangelo.

    Dante era di media statura e ben proporzionato; aveva il viso allungato, gli occhi grandi e penetranti, il naso aquilino, le mascelle grosse, il labbro inferiore sporgente e più grande dell'altro, la pelle bruna e la barba e i capelli crespi.

    Camminava ordinariamente con passo grave e calmo, ve-stito d'abiti semplici, parlando di rado e attendendo quasi sempre che lo si interrogasse per rispondere; allora la sua ri-sposta era giusta e concisa, poiché si prendeva il tempo di soppesarla con la sua saggezza.

    Senza avere un'elocuzione facile, diveniva eloquente nelle grandi circostanze. Via via che invecchiava, si rallegrava di essere solitario e distaccato dal mondo; l'abitudine alla con-templazione gli fece assumere un contegno austero, sebbene fosse sempre uomo d'impulso e di eccellente cuore.

    Ne diede prova quando, per salvare un bambino ch'era caduto in uno di quei piccoli pozzetti in cui s'immergevano i neonati, spaccò il battistero di San Giovanni, poco curandosi che lo si accusasse di empietà:

    27

  • Non mi parean men ampi né maggiori che que' che son nel mio bel San Giovanni,

    fatti per luogo di battezzatori; l'un delli quali, ancor non è molt'anni, rupp'io per un che dentro v'annegava19

    Dante aveva avuto, all'età di nove anni, uno di quei gio-vani amori che spandono il loro fascino su tutta la vita. Bea-trice di Folco Portinari in cui, ogni volta che la rivedeva, tro-vava una bellezza nuova20, passò davanti questo fanciullo dal cuore di poeta che la immortalò quando divenne uomo.

    All'età di 26 anni, questo angelo prestato alla terra, andò in cielo a riprendersi le sue ali e la sua aureola e Dante la ri-trovò alle porte del paradiso dove non poteva accompagnarlo Virgilio.

    19 Inferno, canto XIX20 Io non la vidi tante volte ancorache non trovassi in lei bellezza nova

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  • LA DIVINA COMMEDIA

    e si vuol gettare un colpo d'occhio sull'Europa del XIII secolo, e vedere da cento anni quali avvenimenti

    vi avevano luogo, si sarà certi che tocca a quest'epoca in cui la feudalità, preparata da una genesi di otto secoli, comincia la laboriosa infanzia della civiltà.

    S

    Il mondo pagano e imperiale di augusto era crollato con Carlo Magno in occidente e Alessio l'angelo in Oriente: il mondo cristiano e feudale di Ugo Capeto gli era subentrato. Il medioevo religioso e politico, personificato già in Gregorio VII e Luigi IX, non attendeva più per completarsi, che il suo rappresentante letterario.

    Vi sono dei momenti in cui idee vaghe, cercando un cor-po in cui farsi uomo, aleggiano al di sopra delle società come una nebbia al di sopra del terreno, finché il vento la spinge sugli specchi d'acqua o sulle pianure, non è che un vapore in-forme, senza consistenza e colore, ma quando incontra un grande monte, si abbarbica alla sua cima, il vapore diviene nube, la nube tempesta e mentre il fronte della montagna cin-ge la sua aureola di luce, l'acqua che filtra misteriosamente si ammassa nelle sue cavità profonde ed esce ai suoi piedi, fonte di qualche fiume immenso che attraversa, allargandosi costan-temente, a terra o la società e che si chiama Nilo o Iliade, Po o Divina Commedia.

    Dante, come Omero, ebbe la fortuna di nascere in una di quest'epoche in cui una società vergine cerca un genio che formuli i suoi primi pensieri: apparve alle soglie del mondo nel momento in cui San Luigi irrompeva alle porte del cielo. Dietro di lui tutto era rovine, davanti tutto avvenire, ma il presente altro non aveva ancora che speranze.

    L'Inghilterra, da due secoli invasa dai normanni, operava la sua trasformazione politica. Da molto tempo non c'erano più veri scontri tra i vincitori e i vinti; ma c'era sempre lotta silenziosa tra gli interessi del popolo conquistato e quelli del popolo conquistatore. In questo periodo di due secoli, sebbe-

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  • ne l'Inghilterra avesse avuto grandi uomini, era nata con una spada in mano e se qualche vecchio bardo portava ancora una cetra appesa alle sue spalle, non era se non al riparo dei castelli sassoni, in un linguaggio sconosciuto ai vincitori e quasi dimenticato dai vinti che osava celebrare gli atti di ge-nerosità del buon re Alfredo21 o le gesta di Aroldo, figlio di Sigurd.

    Il fatto è che, dalle relazioni forzate tra gli indigeni e gli stranieri, cominciava a nascere una lingua nuova che non era né il normanno né il sassone ma un misto informe e bastardo di tutti e due che centottant'anni più tardi soltanto, Tommaso Moro, Steel e Spenser dovevano regolarizzare per Shakespea-re.

    La Spagna, figlia della fenicia, sorella di Cartagine schia-va di Roma, conquistata dai goti, consegnata agli Arabi dal conte Giuliano, annessa al trono di damasco da Tarik, poi se-parata dal califfato d'oriente da Abdalrahaman, della tribù degli Ommiadi, la Spagna, maomettana dal distretto di Gibil-terra ai Pirenei, aveva ereditato dalla civiltà portata da Co-stantino da Roma a Bisanzio. Il faro spento da un lato si era riacceso dall'altro e mentre il Colosseo e il Partenone crolla-vano dalla riva sinistra del Mediterraneo, si vedeva levarsi, sulla riva destra, Cordova aveva le sue mille moschee, i suoi novecento bagni pubblici, le sue duemila case e il suo palazzo di Zehra, i cui muri e le scale, incrostati d'acciaio e d'oro, erano sostenuti da mille colonne dei più bei marmi di Grecia, Africa e Italia.

    Ciò nonostante, mentre tanto sangue straniero e infedele si iniettava nelle sue vene, la Spagna non aveva cessato di sen-tir battere nelle Asturie il suo cuore nazionale e cristiano. Pe-lagio, che inizialmente non ebbe per impero che una monta-gna, per palazzo una caverna e per scettro la sua spada, ave-va gettato, nel mezzo del califfato di Abdalrahaman, le fon-damenta del regno di Carlo V. la lotta cominciata nel 717 si era protratta per cinquecento anni e quando all'inizio del

    21 King Alfred (n.d.t.)

    30

  • XIII secolo, Ferdinando riunì sulla sua testa le due corone di Léon e di Castiglia, erano i musulmani a loro volta a non pos-sedere più in Spagna che il regno di Granada, una parte del-l'Andalusia e le provincie di Valencia e Murcia.

    Fu nel 1236 che Ferdinando fece il suo ingresso a Cordo-va e dopo aver purificato la principal moschea, il re di Casti-glia e di Léon andò a riposarsi dalle sue vittorie nel magnifi-co palazzo che Abdalrahaman III aveva fatto costruire per la sua favorita. Tra le altre meraviglie, trovò nella capitale del califfato, una biblioteca che conteneva seicentomila volumi; cosa ne fu di questo tesoro dello spirito umano, nessun lo sa.

    Origine, religione, costumi, tutto era differente tra i vin-citori e i vinti; non parlavano la stessa lingua. I musulmani portarono con loro la chiave che apriva le porte dei palazzi incantati e dell'albero della poesia araba, strappato alla terra di Spagna, non fiorì più che nei giardini dell'Alhambra.

    Quanto alla poesia nazionale, il cui primo vagito doveva essere la lode del Cid, non era ancora nata. La Francia, tutta germanica sotto le due primi stirpi, si era nazionalizzata sot-to la terza. Il sistema feudale di Ugo Capeto era succeduto al-l'impero unitario di Carlo Magno. La lingua che Corneille do-veva scrivere, parlare Bossuet, mescolanza di celtico, latino, teutone ed arabo, si era definitivamente separata in due idio-mi e fissata alle due rive della Loira; ma, come i frutti della terra, essa aveva provato l'influenza benefica e attiva del sole meridionale e la lingua dei trovatori era già giunta alla sua perfezione, quando quella dei trovieri, come i frutti della ter-ra del Nord, aveva ancor bisogno di cinque secoli per perveni-re alla sua maturità.

    Così la poesia aveva una gran parte nel Sud della Loira; non un odio, non un amore, non una pace, non una guerra, una sottomissione, una rivolta che non fosse cantata in versi; borghese o soldato, villano o barone, nobile o re, tutti parlava-no e comprendevano questa dolce lingua ed un di quelli che le dava i suoi più teneri e dolci accenti, era questo Bertrand de

    31

  • Born che Dante incontrò nelle bolge che portava la sua testa a portata della sua mano e che gli parlò in questi termini:

    E perché tu di me novella porti,

    sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i ma' conforti. Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli22

    la poesia provenzale era quindi al suo apogeo quando Carlo d'Angiò, al suo ritorno dall'Egitto in cui aveva accom-pagnato suo fratello Luigi IX, s'impadronì, con l'aiuto di Al-fonso, conte di Tolosa e di Poitiers, di Avignone, Arles e Mar-siglia. Questa conquista riunì al regno di Francia tutte le pro-vince dell'antica Gallia, situate alla destra e alla sinistra del rodano; la vecchia civiltà romana, ravvivata nel IX secolo dalla conquista araba, fu colpita al cuore, poiché essa si tro-vava ricongiunta alla barbarie settentrionale che doveva gher-mirla tra le sue braccia di ferro.

    Quest'uomo che i provenzali, nel loro orgoglio, avevano l'abitudine di chiamare il re di Parigi, a sua volta li chiamò, nel suo disprezzo, i suoi sudditi della lingua d'Oc, per distin-guerli dagli antichi francesi d'oltre Loira che parlavano la lin-gua d'Oil. Da allora l'idioma poetico del mezzogiorno si estinse in Linguadoca, Poitou, Limousin, Alvergna e Proven-za e l'ultimo tentativo che fu compiuto per ridargli vita, è l'i-stituzione dei giochi floreali a Tolosa nel 1323.

    Con essa perirono tutte le opere prodotte dopo il X e fino al XIII secolo e il campo che avevano smosso Arnaut Daniel e Bertrand de Born, restò intatto fino al momento in cui Clé-ment Marot e Clotilde de Surville vi sparsero a pieno mani la semenza della poesia moderna.

    La Germania, la cui influenza politica si estendeva sul-l'Europa in misura quasi eguale all'influenza religiosa di Roma, tutta preoccupata dei suoi grandi dibattiti tra il papa-to e l'impero, la sciava, senza troppo curarsene, modellarsi la sua letteratura su quella dei popoli circostanti. In essa, ogni

    22 Canto XXVIII

    32

  • vitalità artistica si era rifugiata in queste cattedrali meravi-gliose che risalgono ai secoli XI e XII.

    Il monastero di Bonn, la chiesa di Andernach e la catte-drale di Colonia, si elevavano nella stessa epoca del duomo di Siena, del camposanto, e di Santa Riparata di Firenze. L'ini-zio del XIII secolo aveva ben visto nascere i Nibelunghi e mo-rire Alberto il Grande, ma i poemi cavallereschi più alla moda erano imitati dal provenzale o dal francese e i minne-saenger erano gli allievi piuttosto che i rivali di trovieri e tro-vatori. Federico II stesso, questo poeta imperiale, rinuncian-do, sebbene figlio della Germania, a formulare i suoi pensieri nella lingua materna, aveva adottato l'italiana, come più dol-ce e più pura e s'inseriva a pieno titolo, con Pier delle Vigne, suo segretario, nel novero dei poeti più raffinati del XIII seco-lo.

    Quanto all'Italia, essa aveva visto, dal V al X secolo, compiersi la sua genesi politica. I goti, i lombardi e i franchi si erano di volta in volta mescolati ai nativi e avevano inietta-to il giovane sangue della barbarie nel corpo stanco della ci-viltà; ciascuna città aveva ricevuto, in questa grande rimesco-lanza di popoli, un principio vitale che restò sopito nel suo seno per trecento anni prima di veder la luce sotto il nome di libertà. Infine, nel secolo XI, Genova, Pisa, Firenze, Milano, Pavia, Asti, Cremona, Lodi, Siena, Gaeta, Napoli e Amalfi avevano seguito l'esempio dato da Venezia e si erano costitui-te in repubbliche.

    Fu nel mezzo di questo movimento popolare che Dante nacque, in una famiglia che aveva abbracciato il partito de-mocratico. Abbiamo già detto come, Guelfo di nascita, diven-ne Ghibellino per proscrizione e poeta per vendetta. Una vol-ta ch'ebbe placato nel suo spirito l'opera della vendetta, cercò in quale lingua l'avrebbe formulata per eternarla. Comprese che il latino era una lingua morta che non sarebbe sopravvis-suta alla nazionalità del mezzogiorno, mentre l'italiano, ba-stardo, vivace e popolare, nato dalla civiltà e allattato dalla barbarie, non aveva bisogno che d'essere riconosciuto da un

    33

  • re per portare un giorno la corona. Da allora la sua scelta fu decisa e allontanandosi dalle orme del suo maestro Brunetto Latini, si mise, architetto sublime, a intagliare egli stesso le pietre con cui voleva innalzare il monumento gigantesco a cui costrinse e cielo e terra a porre mano23.

    La Divina Commedia abbraccia infatti tutto. È la sum-ma delle scienze scoperte e delle fantasticherie sulle cose ignote. Quando manca il terreno sotto i piedi dell'uomo, le ali del poeta lo innalzano verso il cielo e non si sa, leggendo que-sto meraviglioso poema, che ammirare più di quanto si riesca a comprendere con lo spirito o indovinare con l'immagina-zione.

    Dante è il medioevo fatto uomo con le sue credenze su-perstiziose, la sua poesia teologica e il suo repubblicanesimo feudale. Non si può comprendere l'Italia del XIV secolo senza Dante, come la Francia del XIX senza Napoleone. La Divina Commedia è come la colonna, l'opera necessaria della sua epoca.

    Ora, la nostra ammirazione per Dante ci sosterrà nel compito prefissato? Avremo il coraggio di seguirlo nel suo triplice viaggio come egli stesso segue Virgilio? Di discendere con lui agli inferi e di salire al cielo? Non lo so; una simile opera è una vita, e supponendo che Dio ce ne abbia dato la forza, ci basterà il tempo? Né il desiderio, né la volontà ci mancano di certo, ma, ciò nonostante, noi non promettiamo niente, perché non bisogna promettere quel che non si può mantenere, ed è davanti ad una simile impresa che bisogna ri-conoscere la propria debolezza e contentarsi di dire io farò il meglio che potrò.

    23 Non vogliamo con ciò dire che Dante sia il primo autore che abbia scritto in italiano. Dieci volumi di rime antiche, sarebbero lì pronti a smentirci, se commettessimo un tale errore, ma siccome quasi tutte que-ste canzoni sono erotiche, molti termini d'arte, di politica, di scienza e militari, mancavano ancora alla poesia italiana. Sono queste parole che Dante trovò, assoggettò al ritmo e modellò alla rima.

    34

  • CANTO PRIMO

    l poeta si smarrisce in una foresta. Spaventato dal suo aspetto selvaggio, cerca di uscirne. Infine, arrivato ai

    suoi margini, si trova ai piedi di una montagna che tenta di scalare; ma ne è impedito da tre bestie feroci che gli sbarrano la strada. A questo punto Virgilio gli appare e gli annuncia che non c'è altra strada per uscire da questa foresta se non quella dell'inferno. Dante acconsente al periglioso viaggio e si mette in cammino:

    I

    J'atteignais la moitié du chemin de la vie24

    Lorsque je m'aperçus que la route suivieMe menait au travers d'une sombre forêt25,

    Où plus loin des sentiers chaque pas m'égarait:Et maintenant pour moi c'est chose encor si dure

    De me la rappeler, sauvage, triste, obscure,Qu'à ce seul souvenir je reprends ma terreur,Et qu'à peine la mort me fait pareille horreur.

    Mais, avant de parler de la céleste joie,Disons quels incidens surgirent sur ma voie.

    Comment je me trouvai dans cette âpre forêt,C'est ce que ma mémoire avec peine dirait

    Tant mon Sil était clos par des ombres funèbres26

    Quand je perdis ma route au milieu des ténèbres.Hors du bois qui m'avait si fort épouvanté27,Au pied d'une montagne enfin je m'arrêtai,

    24 Dante aveva effettivamente 35 anni, età che si può calcolare come la metà pressappoco della vita umana, quando cominciò il suo poema di cui i primi sei o sette canti furono scritti a Firenze durante l'ultimo anno del XIII secolo e nei due primi del XIV

    25 Con questa foresta, i commentatori di Dante affermano che abbia vo-luto indicare l'errore umano e si basano sul fatto che Dante, nel suo Convivio, chiama l'errore, la foresta ingannevole della vita

    26 Con queste ombre funebri il poeta vuole ritrarre la violenza delle passioni e l'ebbrezza dei piaceri ai quali i suoi nemici l'hanno accusato di cedere con la facilità di un uomo d'immaginazione. È da notare, tut-tavia, che sono i primi due poeti di quest'Italia tutta sensuali, che ci hanno lasciato i due tipi più puri dell'amor dell'animo, Beatrice e Laura.

    27 Uscito infine dal sonno e dal delirio delle passioni, Dante scorge la montagna in cima alla quale è posto il palazzo della saggezza e che gli appare illuminato dai raggi del sole che rappresenta Dio sulla terra.

    35

  • Et, regardant, je vis que le phare sublimeQui nous guide ici-bas s'allumait à sa cime,

    Et, tandis qu'à ses flancs la nuit luttait encor,Aux épaules du mont jetait son manteau d'or.

    Alors s'évanouit cette crainte profondeQui du lac de mon coeur avait tourmenté l'onde,

    La nuit que je passai dans un effroi si grand;Et pareil au nageur, à peine respirant,

    Qui sort des flots, s'arrête, et regarde en démenceLa mer que l'ouragan bat de son aile immense;Ainsi se retournant dans sa fuite, mon coeurRegardait en arrière; et, timide vainqueur,Mesurait d'un regard stupide d'épouvanteCe pas dont ne sortit jamais ame vivante28.

    Ayant donc pris haleine, et me sentant moins las,M'affermissant toujours sur le pied le plus bas,

    Je me mis à gravir la côte inhabitée;Mais, à peine j'étais au tiers de la montée,

    Qu'une panthère, au poil de noir tout moucheté29,Brillante de souplesse et de légèreté

    Parut; et, sans vouloir s'éloigner davantage Commença de fermer tellement mon passageQue je me retournai près de fuir... Le soleilCommençait de paraître à l'horizon vermeil

    Et montait escorté de ces mêmes étoilesQui déjà le suivaient, quand déchirant les voiles

    Où les choses dormaient en attendant le jour,L'univers fut créé par le divin amour.

    Cette douce saison, cette heure matinale,Ces parfums secoués par l'aube orientale,

    Et jusqu'à cette peau, dont le dessin joyeuxDe son éclat fantasque éblouissait mes yeux,

    Tout rendait quelque espoir à mon ame plus ferme :Mais comme si ma peur devait être sans terme,

    28 Vale a dire questa età delle passioni che lascia così di rado l'animo venuta dal cielo, ritornarvi pura

    29 È probabile che i tre animali ch'il poeta incontra, simboleggino le passioni che precludono all'uomo la via del cielo. Se si deve credere ai commentatori, la lince, con la su pelle brillante e i movimenti lascivi, rappresenterebbe la lussuria, il leone, questo re degli animali, rappresen-terebbe l'ambizione, regina delle passioni e la lupa l'appetito divorante, che niente sazia, l'invidia che non si stanca mai della persecuzione e in cui la vendetta compiuta chiama incessantemente altre vendette. Attra-verso la lince ed il leone, il poeta allude ai suoi propri vizi e con la lupa, a quelli dei suoi nemici che l'esiliarono per invidia e lo perseguitarono per odio politico.

    36

  • Alors il me parut, nouvelle vision,Qu'à l'encontre de moi descendait un lion

    Avec la tête haute et la gueule affamée,Si prompt que l'air tremblait à sa course animée.

    Puis voilà qu'une louve accourut à son tour,Ardente de maigreur, de désirs et d'amour!...Sa faim avait de deuil vêtu plus d'une veuve;Je ne pus supporter cette nouvelle épreuve,

    Et, troublé par la peur qui sortait de ses yeux,Je perdis tout espoir d'atteindre les hauts lieux.

    Et comme celui-là qui volontiers amasse,Et qui voit, en un jour, son bien se perdre en masse,

    Triste, sent ses pensers tout gonflés de sanglots;Ainsi faisait pour moi la bête sans repos,Qui, petit à petit, venant à ma rencontre,

    Me chassait de l'espace où le soleil se montre30.Comme vers les bas lieux je fuyais au hasard,Un homme tout à coup s'offrit à mon regard,Qui paraissait avoir, dans ce désert immense,

    Désappris de parler à force de silence.Lorsque je l'aperçus, j'étais en tel émoi,

    Que je criai vers lui : Prenez pitié de moi !Quiconque vous soyez, chair d'homme ou bien fantôme;

    Mais lui me répondit : Je ne suis point un homme.Je le fus, et naquis fils d'un couple lombard

    Mantouan31,vers la fin de Julius César.J'étais à Rome au temps des faux dieux et d'Auguste,

    Je me sentis poète, et je chantai ce juste,Fils d'Anchise, qui vint de Troie au Latium,

    Après que fut brûlé le superbe Ilium32.Mais toi, pourquoi reprendre une si triste voie,

    Quand tu n'as, pour atteindre aux sources de la joieQue tout homme poursuit d'un coeur ambitieux,Qu'à gravir jusqu'en haut ce mont délicieux?...

    N'as-tu pas nom Virgile et n'es-tu pas ce fleuveD'antique poésie, où le monde s'abreuve?

    Répondis-je, le front de honte rougissant33.

    30 Il poeta, in preda alle nuove passioni della sua età, dice che sarebbe presto ricaduto, forse, nei suoi primi errori, quando la poesia personifi-cata da Virgilio viene in suo soccorso e strappa l'anima alle tentazioni del corpo, occupandola con il pensiero e isolandola con lo studio.

    31 Virgilio non era precisamente di Mantova, ma di Pietole, l'antica Andes situata sul territorio mantovano

    32 Ceciditque suberbum Ilium33 Dante non era ancora conosciuto che per la Vita Nuova, i sonetti e le

    canzoni

    37

  • O des poètes ! toi, - monarque tout-puissant;Toi que mon grand amour pour ton divin poème,S'est toujours imposé comme un guide suprême;

    Toi chez lequel j'ai pris, mon maître ! mon seigneur !Ce beau style dont j'ai retiré tant d'honneur.

    Puisque tu fus mon dieu, réponds à ma prière.Vois ce monstre, qui fait que je tourne en arrière;

    C'est lui, c'est son aspect subit et menaçant,Qui dans ma veine ainsi fait frissonner mon sang.

    Aide-moi contre lui. - C'est un autre voyage34

    Qu'il te convient de faire, et de ce lieu sauvageIl te faut éloigner, car ce monstre qu'en vain,

    Tes cris voudraient chasser, jamais dans son cheminNe laisse passer l'homme, et sa défense est telle,

    Qu'à celui qui la brave, elle devient mortelle.Il est d'un naturel dans le mal si puissant,

    Que ses mauvais désirs vont toujours s'accroissant;Que rien ne le repaît, et que sa faim étrange,

    Au lieu de s'assouvir, s'accroît de ce qu'il mange;A beaucoup d'animaux il s'accouple35, et beaucoup

    S'accoupleront encor à lui; mais tout à coup,Pour sa perte, accourra le lévrier austère36

    Dont le coeur dédaigneux et d'argent et de terre,Se nourrit de vertu, de sagesse et d'amour,

    Entre Feltre et Feltro ses yeux verront le jour37;C'est de là qu'il viendra sauver l'humble Italie38

    Pour laquelle frappés, dans leur sainte folie,Moururent autrefois, Euriale et Nisus,

    Et la vierge Camale, et le guerrier Turnus.Par lui dans nos cités, la bête poursuivie,

    Regagnera l'enfer dont la tira l'envie:

    34 Non potendo l'uomo giungere alla verità che attraverso la conoscen-za dell'errore, ed essendo l'errore una cosa astratta, che non può mate-rialmente distinguersi ad occhio, Virgilio propone a Dante di mostrar-gliene gli effetti, non potendo mostrargliene la causa

    35 Gli animali con cui si accoppia questa lupa, simbolo dell'invidia, sono gli altri vizi con cui si combina per sostenersi, vale a dire il tradi-mento, l'ingiustizia, la frode, il furto, ecc...

    36 Cangrande della Scala, signore di Verona, che, avendo adottato il partito dei Ghibellini, aveva dato asilo a Dante, e guerreggiava con i guelfi neri di Firenze..

    37 Verona sorge tra Feltro, città della marca trevigiana e Montefeltro che si leva in Romagna

    38 Virgilio si era servito, prima di Dante, dello stesso epiteto per indica-re lo stesso paese humilemque vidimus italiam

    38

  • Mais jusque-là, pour toi je pense, et te diraiQu'il te vaut mieux me suivre où je te guiderai;

    Je te ferai passer par l'éternel abîmeOù les anciens esprits, tristes, pleurent leur crime,

    Et tu les trouveras atteints d'un tel remord,Que chacun d'eux appelle une seconde mort.

    Après eux, tu verras ceux dont le saint courageSe soutient dans le feu, qu'ils savent un passagePar lequel l'ame monte au séjour des heureux.

    Tu pourras voir aussi ces derniers si tu veux39 !Mais je te quitterai, puis pour guide à ma place,

    Une ame s'offrira digne de cette grace;Car l'empereur jaloux, qui là-haut fait la loi,

    Repousse loin de lui tout rebelle à sa foi.II faut, pour le fléchir, qu'on l'adore et le craigne;

    Il commande partout, mais c'est au ciel qu'il règne,C'est au ciel qu'est sa ville et son trône élevé,Et quatre fois heureux celui qu'il a sauvé!...

    Et moi je répondis : Poète, je te prie,Par ce Dieu méconnu de ton idolâtrie,

    Conduis-moi sans tarder au lieu que tu m'as dit Car j'ai hâte de fuir de cet endroit maudit.

    Fais-moi voir de mes yeux la porte de saint Pierre,Et ceux dont tant de pleurs ont brûlé la paupière.

    Partout, où tu voudras me guider je te suis...Lors il marcha devant, et moi je le suivis.

    l'idea diffusa che Dante sia inintelleggibile, ci costringe a moltiplicare le note. Ci si perdoni quindi l'aridità di questo secondo lavoro in cui lo stile e l'interesse non possono che ri-saltare con grande pena, ma grazie al quale, d'altro canto, il lettore può seguire il poeta nelle tenebre dello spirito teologi-co, tanto in voga nel XIII e XIV secolo, nel labirinto storico di cui una conoscenza perfetta di questo paese soltanto può far trovare il bandolo e attraverso quest'Italia feudale che il proscritto ha percorso, col cuore infranto, gli occhi in lacri-me e il bastone dell'esilio in mano.

    39 È il cammino preso da Dante per il suo poema, poiché visita dappri-ma l'inferno, poi il purgatorio e infine il paradiso

    39

  • INDICEGuelfi e Ghibellini........................................................5

    Dante Alighieri..........................................................21

    La Divina Commedia...............................................29

    Canto Primo.................................................................35

  • INDICE ANALITICO

    ABDALRAHAMAN..............................30, 31

    ADDO ARRIGHI........................................10

    ALBERTI....................................................20

    ALESSANDRO II..........................................5

    ALFONSO VI...............................................5

    ALHAMBRA...............................................31

    ALIGHIERI.............3, 20, 21, 23, 25, 41

    ALPI.............................................................6

    ALVERGNA................................................32

    AMADEI..................................................7, 9

    AMALFI................................................5, 33

    ANDERNACH.............................................33

    ANZIANI....................................................13

    ARBIA................................................16, 19

    AREZZO................................................6, 21

    ARLES........................................................32

    ARNAUT DANIEL.....................................32

    ARNO..............................................7, 9, 11

    ARNOLFO............................17, 18, 19, 25

    AROLDO....................................................30

    ASTI......................................................6, 33

    ASTURIE....................................................30

    AVIGNONE.................................................32

    BEATRICE.............................................6, 28

    BELLA........................................................21

    BERNARDO BEMBO..................................27

    BERTRAND DE BORN...............................31

    BOCCA DEGLI ABBATI..............................16

    BOLOGNA...........................................14, 21

    BONIFAZIO VIII.....................................26

    BONN.........................................................33

    BOSSUET....................................................31

    BRUNETTO LATINI....................21, 27, 34

    BUONDELMONTE DE' BUONDELMONTI....7,

    8, 9, 10

    BUONDELMONTI..................................7, 10

    CACCIAGUIDA ELISEI (AVO DI DANTE).21

    CAMILLO...................................................20

    CAMOGLIA................................................12

    CAMPALDINO (BATTAGLIA DI).........21, 22

    CANDELORA..............................................11

    CANGRANDE DELLA SCALA,....................26

    CAPRONA..................................................21

    CARLO MAGNO................................29, 31

    CARLO V..................................................30

    CARROCCIO..................14, 15, 16, 17, 19

    CASTIGLIA............................................5, 31

    CECE DEI GUERARDINI...........................13

    CID.......................................................5, 31

    CIMABUE...................................................26

    CLÉMENT MAROT...................................32

    COLONIA...................................................33

    COLOSSEO.................................................30

    CORIOLANO..............................................20

    CORNEILLE...............................................31

    CORRADO..........................................14, 21

    CREMONA............................................6, 33

    CRISTO..........................................5, 14, 24

    DANTE......1, 3, 20, 21, 22, 23, 24, 25,

    26, 27, 28, 29, 32, 33, 34, 35, 39,

    41

    DELLA PRESA..........................................19

    DIVINA COMMEDIA.............3, 22, 29, 41

    DONATI......................................7, 8, 9, 21

    EMPOLI.....................................................20

    ENRICO IV............................................5, 6

    ERIBERTO.................................................14

    EUROPA........................................5, 29, 32

  • FARINATA DEGLI UBERTI (MANENTE,

    DETTO). .12, 13, 15, 17, 18, 19, 20, 23

    FEDERICO II.....................................11, 33

    FIFANTI.......................................................9

    FIORINO.....................................................11

    FIRENZE.....6, 7, 8, 10, 11, 13, 14, 15,

    16, 19, 20, 21, 22, 25, 26, 27, 33

    FRANCIA....................................31, 32, 34

    GABRIELE GUBBIO...................................22

    GAETA..................................................5, 33

    GALLIA......................................................32

    GARGAGNANO...........................................26

    GENOVA........................................5, 19, 33

    GERMANIA...................................5, 32, 33

    GHIBELLINI.....3, 5, 10, 11, 12, 13, 16,

    17, 20, 21, 41

    GIOTTO..............................................23, 26

    GIOVANNI TORNAQUINCI........................15

    GOFFREDO DI LORENA..............................6

    GOFFREDO IL GIOVANE.............................6

    GREGORIO VII...................................5, 29

    GUADALANDI...............................................9

    GUALDRADA......................................7, 8, 9

    GUELFI.....3, 5, 11, 12, 14, 16, 17, 20,

    25, 41

    GUELFO DI BAVIERA..................................6

    GUIDI........................................................20

    GUIDO CAVALCANTI................................27

    GUIDO DA POLENTA................................26

    GUIDO GUERRA.......................................13

    ILDEBRANDO...............................................5

    INFERNO.....................................22, 23, 26

    INGHILTERRA....................................29, 30

    ITALIA...5, 6, 8, 25, 26, 30, 33, 34, 39

    JACOPO DEL VACCA.........................15, 16

    LAMBERTI...................................................9

    LEONE X..................................................27

    LIMOUSIN..................................................32

    LINGUA D'OC............................................32

    LINGUA D'OIL...........................................32

    LINGUADOCA............................................32

    LODI.....................................................6, 33

    LOIRA................................................31, 32

    LUCCA.......................................................14

    LUCREZIA AMADEI (PROMESSA SPOSA DI

    BUONDELMONTE, ABBANDONATA PER

    LUISA GUALDRADA)...................................7

    LUIGI IX...........................................29, 32

    MANFREDI........................................12, 13

    MARSIGLIA...............................................32

    MARTINELLA.............................15, 17, 19

    MATILDE (CONTESSA)................................6

    MICHELANGELO.......................................27

    MILANO........................................6, 14, 33

    MINNESAENGER.........................................33

    MONTE APERTO.......................15, 16, 19

    MONTEBUONO.......................................7, 9

    MOSCA (LAMBERTI)..................................9

    NAPOLEONE..............................................34

    NAPOLI................................................5, 33

    NIBELUNGHI.............................................33

    NICOLA PISANO.......................................26

    OMERO......................................................29

    PADOVA.............................................21, 26

    PAPA MARTINO.......................................15

    PARADISO..................................22, 23, 26

    PARIGI...............................................21, 32

    PARTENONE..............................................30

    PAVIA...................................................6, 33

    PAZZI........................................................15

    PELAGIO....................................................30

    PERUGIA...................................................19

    PIER DELLE VIGNE..................................33

    PIETRO LOMBARDO.................................27

  • PISA...............................5, 19, 20, 25, 33

    PISTOIA................................................6, 14

    POITIERS...................................................32

    POITOU.....................................................32

    PRATO.......................................................14

    PROVENZA................................................32

    RAFFAELLO.................................................8

    RAVENNA..........................................26, 27

    ROMA...........................................5, 30, 32

    SAGACIUS MUCIUS GAZATA...................23

    SAN GIOVANNI.................................27, 28

    SAN LUIGI................................................29

    SAN MINIATO..........................................14

    SAN PIETRO...........................................5, 6

    SAN VITO (PORTA DI)......................13, 15

    SANTA MARIA DEL FIORE......................26

    SANTAFIORE..............................................20

    SAVONAROLA............................................22

    SCHIATTA DEGLI UBERTI.................10, 11

    SICILIA...............................................12, 13

    SIENA.....6, 12, 13, 14, 15, 17, 20, 26,

    33

    SIGURD......................................................30

    SPAGNA..............................................30, 31

    SPENSER....................................................30

    STEEL........................................................30

    SVEVIA......................................................13

    TARIK........................................................30

    TEGGHIAIO ALDOBRANDINI....................13

    TOLEDO.......................................................5

    TOLMINO..................................................26

    TOLOSA.....................................................32

    TOMMASO MORO....................................30

    TORINGHI.................................................11

    TOSCANA...............................6, 11, 12, 20

    TREVIRI (DIETA DI)...................................6

    TRINITÀ (PIAZZA DELLA, LUOGO

    DELL'ASSASSINIO DI BUONDELMONTE).....7

    TROVATORI........................................31, 33

    TROVIERI...........................................31, 33

    UBALDINI..................................................20

    UBERTI..............7, 9, 10, 11, 12, 13, 18

    UGO CAPETO....................................29, 31

    VALENCIA.................................................31

    VENEZIA.........................................5, 7, 27

    VERONA....................................................26

    VILLANI....................................................20

    VIRGILIO............................27, 28, 34, 35

    VOLTERRA................................................14

    ZEHRA.......................................................30

  • 0I� PSXXI� XVE� M� +YIPJM� I� M� +LMFIPPMRM�� (ERXI�%PMKLMIVM�� PE� (MZMRE� 'SQQIHME�� MP� GERXS� TVMQS�HIPP�STIVE�� VEGGSRXEXM�HEPPE�QEKMWXVEPI�TIRRE�HM� %PI\ERHVI� (YQEW�� UYM� MR� XVEHY^MSRI�MXEPMERE�� GSR� MRHMGM� EREPMXMGM� E� GSVVIHS� HIP�XIWXS��

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