Aìli che voleva correre

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Adriana Pillitu, mainstream. “Aìli che voleva correre” è la storia di un sogno e di un viaggio. Anzi, due: il viaggio di una ragazza di nazionalità etiope che recide il legame con il suo passato, la sua famiglia e la sua terra per la realizzazione di un sogno, e il viaggio interiore di un giornalista, Guido, il quale, attraverso il racconto della vita di Aìli e della sua morte, interroga la sua coscienza e vive la sua trasformazione. Parte da Genova, la sua città, per un’isola del Mediterraneo. Colpito dai corpi privi di vita che vede nell’obitorio del cimitero, si sofferma su quello di una giovane ragazza. La sua morte lo turba profondamente e decide di scriverne la storia, immaginandola. La ricostruzione della vita della ragazza, come persona ma soprattutto come donna, sarà per il giornalista l’occasione di intraprendere un suo viaggio interiore, che lo porterà alla consapevolezza di sé e dei valori sopiti nella sua anima. La sua vita, umana e professionale, acquisterà da quel moment

Transcript of Aìli che voleva correre

In uscita il 27/2/2015 (14,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2015

(3,99 euro)

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ADRIANA PILLITU

AÌLI CHE VOLEVA CORRERE

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AÌLI CHE VOLEVA CORRERE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-864-0 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

 

A Nenneta

Anche il suo viaggio si è interrotto troppo presto

 

“Guarda straniero!”

Guarda, straniero, quest’isola adesso

la luce saltellante per il tuo piacere mostra, sta’ fermo qui

e in silenzio, ascolta… l’oscillante suono del mare.

Fermati qui al limite del piccolo spazio dove il muro di gesso cade

sulla schiuma, e le sue alte balze si oppongono allo strappo

e al bussare della marea, e i sassolini si mescolano dopo il risucchio

e il gabbiano si ferma un istante nel suo volo verticale.

Lontane… le navi e questa vista piena

penetra la memoria come adesso queste nuvole fanno,

superando lo specchio del porto e tutta l’estate al passo lento dell’acqua.

W. H. Auden, 1935

 

RIBELLIONE E DILUVIO

Ci fu un tempo in cui la terra e tutto quel che c'è sopra si ri-bellò all'uomo.

Allora la terra e tutto quel che c'è sopra aveva la capacità di parlare, come gli uomini: soltanto le pietre non potevano

parlare. La terra si rifiutava di produrre erba e frutti, sebbene pio-

vesse molto. Le vacche si rifiutavano di dar latte, l'acqua non voleva la-

sciarsi bere, il legno non voleva lasciarsi tagliare, e neppure potevano gli uomini spander acqua ed emettere gli escre-

menti, perché la terra si rifiutava, e diceva: "Se lo fai, ti ammazzo".

Allora uno degli uomini andò a parlare con Dio e gli rac-contò della ribellione della terra:

“Perché, disse, ci hai tu creati, se ora ci lasci perire?" Per-ché ci hai dato occhi e orecchi come hai tu? Perché ci hai

fatti simili a te, se ora tutti ci sono contro e non ci obbedi-scono?".

Iddio allora ordinò alla terra di ubbidire all'uomo e di pro-durre erba e frutta, e a tutte le altre cose che sono sulla ter-ra impartì lo stesso comandamento, alle vacche, all'acqua e

al legno. Ma nessuno ubbidì.

La terra si mise a ridere, e disse: "Chi è Dio? Comandi pu-re. A noi non può comandare. Nessuno può camminare su di

me, io non farò crescere l'erba". Le vacche, l'acqua e il legno dissero altrettanto.

Allora Iddio si adirò, e mandò molta acqua e la terra scom-parve sotto l'acqua, e anche le grandi rupi furono sommerse.

Ma l'uomo che aveva parlato con Dio fabbricò una casa che stava sopra l'acqua e sotto il cielo e così fu salvo. Ma fu il

solo che si salvò.

Mito africano dei Konso, popolazione dell'Etiopia meridio-nale che vive sulle montagne a sud del lago Chamo.

da Raffaele Pettazzoni, Miti. e leggende vol. I, UTET, Tori-

no 1973.

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L’ISOLA NEL MARE ANTICO

Ricordo ancora il pomeriggio in cui ricevetti la telefonata del mio capo.

Dopo che avevo ascoltato le sue parole, realizzai che avevo il mio primo servizio!

Mi era stato affidato, dal giornale in cui lavoravo come free lance, l’incarico di raccontare la nuova migrazione dei popo-

li, di indagare il senso profondo di quella ricerca di nuovi scenari di vita per sfuggire a ferite inferte da povertà, guerre,

dittature. Era un lavoro nuovo e impegnativo che mi avrebbe portato

lontano da quella quasi soddisfacente nicchia che era il raccontare episodi reali individuati da in-

formazioni correnti. Seduto alla scrivania del mio studio, quel pomeriggio

d’inizio estate, incominciai a riflettere sulla mia imminente avventura aspettando un’intuizione che mi dicesse da dove

dovevo incominciare il nuovo incarico; finora avevo avuto a

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disposizione orizzonti brevi, noti, che poco mi aiutavano a costruire scenari ampi. Genova, quel giorno, era addolcita da una luce particolare,

che penetrava dalle tende accostate. Dalla finestra del mio studio potevo vedere uno scorcio del

porto. A quell’ora i pescherecci si preparavano a staccarsi dalla banchina per affrontare il mare aperto, con tutte le sue

incognite. Riuscivo a scorgere tre barconi da pesca, in fila, uno di fianco all’altro. Mi giungeva lo sferragliare degli ar-

gani che avvolgevano le reti da pesca, le grida dei pescatori che si parlavano a voce alta, imprecavano, cantavano a

squarciagola, mescolando canti e imprecazioni. Compivano gesti solenni e abituali, signori e sudditi di un regno senza

regnante. Il mare era il vero sovrano. La nave incide l’acqua che sembra cedere, arrendevole, per poi richiudersi subito

dopo, a riaffermare la sua sovranità. I tre pescherecci, ormai pronti, attivarono le sirene, la prima, la seconda, la terza e

via in mare aperto, con i suoni che laceravano l’aria. Ritornai ai miei pensieri, dai quali quella breve scena mi a-

veva distolto. Anche a me aspettava un viaggio in mare aper-to e ancora non sapevo come lo avrei affrontato.

Partii per l’Isola qualche giorno dopo. Quella mattina decisi di esplorarla, l’Isola. Perché avevo

scelto quel luogo? Perché quella era un’Isola che, immersa in un mare antico, si affacciava al mondo. Era lì, il mondo

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altro, così diverso per me, così lontano dalla mia vecchia rassicurante Europa. Non mi ero mai spinto così a sud, era la prima volta.

Mi pareva che proprio quello dovesse essere il mio punto d’inizio, uno spicchio di mondo nel quale confluivano cultu-

re diverse che da secoli si mescolavano, si contaminavano, si intrecciavano, uscendone più ricche. Crocevia di Popoli e

Culture. Abituato a paesaggi di mare, nella mia Genova, abbracciai

con un unico sguardo il panorama, da quel punto alto nel quale mi trovavo e rimasi folgorato dalla sua bellezza. Una

lingua di terra, scogli alti e bianchi, si avventurava nel mare, che la faceva da padrone, dominando tutto con la maestosità

della sua forza e si gettava sulla costa alta divorando, a ogni slancio, un pezzetto di roccia. L’onda, esperta ricamatrice,

con la velocità dei suoi gesti, generava merletti suggestivi. C’era stata burrasca nei giorni passati, avevano detto in pae-

se e il mare, ancora, non si era acquietato. Incominciai a scendere lungo il sentiero che portava giù alla

spiaggia, una piccola caletta nella quale, solitario, un vec-chio pescatore, seduto sulla sabbia, riparava la sua rete da pesca.

Mi rivolse uno sguardo benevolo, come di persona abituata . Parlando tra me, mormorai: «Sembra che voglia divorare tut-

to» mentre guardavo affascinato il mare.

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«Eh, sì, è lui che comanda! Il mare decide quando possiamo prendere le barche e andare al largo o quando dobbiamo re-stare qui, a casa» rispose il vecchio e guardò lontano, assor-

to, alla ricerca di immagini di vita spesa a obbedire al mare. Le sue parole furono sottolineate da un’onda altissima, che,

sul lato sinistro, si scagliò sugli scogli con grande rumore e ritornò indietro. Il mare faceva sentire la sua voce per affer-

mare ancora la sua potenza e il vento e la risacca compone-vano un crescendo invadente.

«Il confine naturale di un’isola è il mare» continuai, «è il mare che racchiude la vita, che dà e toglie, che nutre e im-

prigiona. Ma il mare è anche una via di fuga.» «Mmmh…» rispose il vecchio. «Molti ne vengono e molti

ne muoiono. Al camposanto non abbiamo quasi più posto. Sono poveri disgraziati che fuggono, attraverso il mare, dal

loro triste destino e non sanno che qui li mettono nei recinti. Alla nostra miseria si aggiunge la loro disperazione. Ma tu

perché sei qui?» mi chiese squadrandomi da capo a piedi e accorgendosi che non ero un turista.

Aveva gli occhi liquidi, indagatori e tutta la saggezza data dall’età e, forse, da una vita non facile. «Sono qui per raccontare l’immigrazione, è il mio mestiere:

ascoltare, capire, raccontare e farne partecipe il mondo» ri-sposi con sicurezza, anche se non era proprio sicurezza quel-

lo che provavo.

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Mi faceva piacere chiacchierare con quel vecchio, mi sentivo partecipe e, nello stesso tempo, oggetto di interesse, quell’interesse autentico e profondo per l’altro che incita a

dare il meglio di sé. Potevo guardarlo dritto negli occhi e nel profondo del suo

sguardo potevo scorgere tutto il suo calore. Ma anche se per-cepivo il suo sguardo accogliente, lui non disse nulla e non

replicò alle mie parole, concentrandosi nuovamente sul suo lavoro.

«Comunque io mi chiamo Guido» e mi avvicinai porgendo-gli la mano. «Guido Costa.»

Nonostante il suo silenzio, percepivo la benevolenza del suo animo, ma non avrei saputo spiegare il perché.

Mi avviai lungo il sentiero, su quel terreno brullo e arido, a-rato dal vento, fra cespugli antichi, sopravvissuti, nei tempi,

alla crudezza della salsedine; piccole piante, che sembravano nascere dal nulla, tanto arido era il terreno, ma con forza

sbocciavano alla vita, punteggiate da allegri fiori gialli che offrivano i loro calici ad avidi insetti. Sembrava una terra o-

stile, arida e sfuggente a prima vista, ma poi la scoprivi pie-na di vita, certamente non rigogliosa ma, a suo modo, vitale sotto la sferza del sole che non la fiaccava. Quella terra,

sfuggente a uno sguardo superficiale ma ricolma di vita, era la metafora del vecchio pescatore, in apparenza inaridito dal-

la vita e dal sole, dal vento, dalla salsedine che si depositava sulla sua pelle, ma con l’anima gentile e protesa verso

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l’altro, pronta a perdonare le debolezze e le contraddizioni dell’umanità. Risalii, dunque, lentamente, senza fretta, assaporando quella

atmosfera arcana dove tutto mi riportava al mito e alla storia. Tuttavia non l’isola, ma il mare attirava ancora la mia atten-

zione e aggrovigliava i miei pensieri. Il mare, il viaggio at-traverso l’elemento liquido, informe, primordiale, da cui tut-

to ha avuto origine, rappresenta la partenza verso il nulla, verso la morte che conduce alla rinascita, alla nuova vita.

Incominciavo a intravedere le prime case alla fine del sentie-ro che mi avrebbe portato al paese; in quel punto il sentiero

sembrava stranamente deserto, anche i vacanzieri e i loro bambini che a quell’ora si potevano vedere girovagare senza

meta alla scoperta di quella natura a loro estranea, erano as-senti.

Da lontano sentivo giungere uno strano vociare, tante voci confuse che si traducevano in rumore, una voce superava le

altre, metallica, artificiale. Allungai il passo e mi affrettai, curioso di scoprire che cosa stava succedendo. Giunsi nella

piazza principale della cittadina, la solita piazza che gene-ralmente ospita il Municipio e la Chiesa e che si offre come punto di ritrovo per le attività sociali di una piccola comuni-

tà. La piazza era gremita, le persone agitate, a tratti urlanti,

qualche giornalista riprendeva la scena, che, oramai era chia-ro, era una manifestazione.

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Mi rivolsi alla donna che mi ritrovai di fianco e che, con for-ti esclamazioni, sottolineava le parole dell’oratore, un politi-co pomposo e roboante che, da un palco, attraverso un mi-

crofono, arringava la folla. Le chiesi la ragione di quella ma-nifestazione. Con parole concitate e accorate mi spiegò che

la rabbia delle persone nasceva dal senso di abbandono che l’isola viveva. Da soli e con solo le loro forze, giorno dopo

giorno, si ritrovavano impegnati nell’accoglienza di immi-grati che, a bordo dei loro barconi, sceglievano

quell’approdo per la loro salvezza. Barconi carichi di volti e di corpi, di sguardi e di sorrisi, di dolori e di speranze. Tal-

volta corpi senza più vita nel fondo della barca, talvolta il ri-cordo di cadaveri abbandonati in mare aperto. Talvolta,

bambini e mamme. E nell’intreccio delle strade del paese si ritrovano mondi che non sempre riuscivano a convivere. La

generosità e la solidarietà della gente dell’isola non poteva bastare.

Ricordai le parole del vecchio “… alla nostra miseria si ag-giunge la loro disperazione.”

Dal piano più alto del palazzo del Municipio, sventolava la bandiera dell’Europa, dodici stelle gialle disposte in cerchio su fondo blu, ma nel centro del cerchio… un grandissimo

punto interrogativo dominava sulla corona delle dodici stelle color dell’oro. Il messaggio degli isolani era chiaro. La nave,

simbolo dello Stato che lotta con il proprio destino, andava ricondotta al porto sicuro, le stelle della bandiera europea

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non simboleggiavano più la perfezione, la completezza e l’unità. La grande contraddizione della nostra società era palese: da

un lato la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nata, dopo la seconda guerra mondiale, dalla suggestione delle

barbarie commesse contro l’umanità, nella quale si afferma che la vita e il rispetto di essa è un valore assoluto, custode

della dignità umana e ancora, la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani. Dall’altro, la condizione dei

migranti, la violazione dei loro diritti, lo spregio della loro dignità.

Convenzioni giuridiche, alle quali molte altre si sono ag-giunte nel corso degli anni, leggi morali che non possono es-

sere in contraddizione con le diverse realtà di questo mondo, che non possono sottrarre l’umanità alla condizione di appar-

tenenza alla famiglia umana, abitare la Terra, casa comune. Mi dissero che il giorno prima un barcone, carico di migran-

ti, alla deriva in mare aperto, era stato tratto in salvo. A bor-do undici corpi ormai abbandonati dalla vita.

Su invito del medico del paese, mi recai nella sala mortuaria del cimitero, grande spazio dove potevo osservare un mare di croci infisse fra i sassi della terra, alcune avevano inciso i

nomi, altre anonime, con numeri al posto dei nomi. Fu là che vidi per la prima volta Aìli, un corpo minuto, esa-

nime, su un freddo tavolo in acciaio. Rimasi colpito dall’espressione di quel volto, del colore dell’ambra, giova-

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ne, disteso, quasi sorridente, come di chi ha finalmente tro-vato la pace a lungo cercata. Sembrava dormisse, con il cor-po rannicchiato, in posizione fetale.

La visione di quel corpo acerbo si impadronì dei miei pen-sieri, non riuscivo a distaccarmene. Sentivo di dover fare

qualcosa per renderle omaggio, perché anche lei, come mol-te, non fosse una delle tante vittime, senza nome e senza sto-

ria, ignote, e proprio perché ignote, incapaci di scalfire le co-scienze del mondo.

Quella sera, affidai i fantasmi della mia mente al mio diario, sul quale ero solito scrivere quasi ogni sera prima di dormi-

re. Una sorta di rito che mi liberava dagli incubi del giorno. Randagio senza pace nell’anima.

E a poco a poco quella figura di persona era di nuovo viva, e la immaginai bambina e adolescente nella sua terra, con la

sua famiglia, i suoi amici, con i suoi sogni e le sue speranze. Ecco che cosa dovevo fare: avrei scritto la sua storia, seppur

immaginandola. La sua figura, non più anonima, avrebbe preso corpo, e forse qualcuno, leggendola, l’avrebbe per un

attimo riportata in vita anche se solo nella ribalta dei pensie-ri. Sarei stato dunque io la voce narrante di Aìli. La sua sto-ria, un sogno a occhi aperti, i miei. Incominciai a scrivere

freneticamente seguendo solamente la mia immaginazione.

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LA STORIA DI AILI

Il litorale era immerso nel buio della notte e Aìli si preparava a salire su “una carretta del mare” per attraversare quel breve

tratto che la separava dalla realizzazione del suo sogno. Le scaldava il cuore il perdono della madre, alla quale ripensava

con gratitudine e già nostalgia. L’accompagnavano gli occhi della nonna, ormai velati nel ricordo. La confortava il pen-

siero di sua sorella che in futuro, grazie a lei, sarebbe stata al sicuro in un paese europeo.

Nel gruppo dei suoi compagni di viaggio la tensione era pal-pabile, ma anche la speranza in un futuro di vita, affidato a

un Dio che forse era diverso per ciascuno di loro. Era neces-sario muoversi con cautela, per non farsi scoprire e persino i

bambini chiacchieravano sottovoce, controllando la loro vi-vacità. Centinaia di occhi sbarrati scrutavano la notte pro-

fonda, cercando di immaginare, di anticipare un tempo a lungo atteso. Ad Aìli non importava, era determinata a vive-

re quella grande emozione: partecipare a una vera maratona. Era stata, da sempre, la sua ragione di vita, la passione per la

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corsa e le avrebbe permesso di riscattare la sua dignità di persona che quella terra tanto amata, che le aveva dato la vi-ta, stava cancellando.

Ferma nella sua decisione, la ragazza si lasciò dominare dall’atmosfera di quel momento, incantata, ipnotizzata

dall’acqua, elemento liquido, senza forma ma vivo, vitale, con un ritmo dolce, quello delle onde, come una cantilena

che trascina. E lei, abituata a correre sulla terraferma, ora aveva paura.

Sul ponte di quella barca, derelitta e fatiscente, le donne e i bambini si erano riuniti in un unico angolo. Il resto dello

spazio era occupato da uomini, giovani per lo più. Anche Daren si era separato da Kai e dai loro due bambini. Erano,

questi, i suoi compagni di viaggio, incontrati durante il cammino. Compagni che avevano colmato la sua solitudine.

Tutti nascondevano la paura, il mare era l’ignoto, era il peri-colo celato dalle tenebre della notte che avvolgevano

quell’immensità di acqua mentre luci fioche si accendevano sul ponte, ora che la spiaggia era ormai lontana. Non era più

possibile tornare indietro: la morte o la rinascita a nuova vita si stavano avvicinando. Ciascuno stava per i fatti suoi, non si conoscevano fra di loro e ognuno sapeva di poter contare so-

lo su se stesso. In una condizione così fragile, la fiducia ver-so l’altro poteva rivelarsi una debolezza fatale.

Nella fioca luce del ponte, Aìli osservava i giochi silenziosi di due bambine: alcune bambole di pezza erano diventate

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protagoniste di vita vissuta e oggetto di cure e coccole. Non era passato molto tempo dai suoi giochi con le bambole, quando con foglie e stracci confezionava abiti di lacere

bambole, sue compagne di infanzia, che trasportava in vec-chie scatole trainate da una cordicella. Erano quelli soprat-

tutto i giochi che faceva con sua sorella Karàt, di pochissimo più giovane di lei. Erano momenti che adesso ricordava con

nostalgia, ma anche con tenerezza. Nonna Salìma aveva insegnato loro a costruire le bambole

con due legnetti incrociati e rivestiti con tessuti e stracci. E attraverso le bambole, interpretavano già il ruolo che la co-

munità del villaggio si aspettava da loro in quanto femmine. Il loro destino di donne era già segnato.

I pensieri di Aìli volavano lontano, ripercorrendo attimi or-mai passati, anche se non ancora esauriti nella forza emotiva

che si portavano dietro. Nella sua famiglia, nonna Salìma era un personaggio cari-

smatico, riempiva la loro vita di bambini con la sua dolcezza e la sua fantasia. Alta, dal portamento nobile, camminava

dondolandosi sulle gambe lunghe e ancora affusolate nono-stante l’età. Indossava abitualmente una gonna a righe che le fasciava i fianchi e che si annodava in vita, lasciandole sco-

perte le caviglie. La testa era sempre avvolta da un fazzolet-to, che lei attorcigliava girandolo su se stesso e fissandolo

con un nodo e che spesso riprendeva i colori della gonna. Era una nonna speciale, con il sorriso negli occhi e sulle lab-

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bra. Aìli le si affidava completamente e quando c’era lei, si sentiva al sicuro. Quando il padre, al quale bisognava rivol-gersi con grande rispetto, arrivava dai suoi viaggi o dal mer-

cato della città vicina, lei si sentiva sempre intimidita e timo-rosa. Ma con la nonna accanto, riusciva a superare il timore

e l’insicurezza che nascevano da quella figura autoritaria e poco amorevole. La nonna non era nata nel loro stesso vil-

laggio, arrivava da un luogo lontano e il suo essere “stranie-ra” le dava un alone di mistero, la rendeva ancora più affa-

scinante. E anche le fiabe che raccontava ai bambini, giun-gevano da lontano, appartenevano alla sua infanzia e regala-

vano loro momenti di magia, nei quali mistero e sogno aleg-giavano nell’aria, conquistandoli.

Erano quelli “momenti speciali”, dai quali neppure sua ma-dre poteva distoglierli. Una stuoia distesa per terra, davanti

all’ingresso della loro casa, i sandali poggiati di lato, sulla terra rossiccia, la voce della nonna e… tutto un mondo fan-

tastico prendeva vita e il soffio della fantasia si portava via i pensieri cattivi. Era la saggezza del suo popolo che, attraver-

so le parole vive delle storie, superava il limite del tempo ed entrava nell’eternità. “Le lacrime di Wuaka” era la storia che Aìli preferiva e ora,

accompagnando con il suo corpo il dondolio del mare, men-tre si trovava su quella barca lontano dalla sua terra, in viag-

gio verso l’ignoto, lasciò che la voce di nonna Salima rie-mergesse dalla memoria e si librasse nell’aria, chiara e lim-

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pida come se fosse ancora con lei, nell’aria gelida di quella notte oscura:

“Tanto tempo fa il creatore Wuaka non abitava in cielo, co-

me adesso, lontano dagli uomini e dalla loro vita, tanto lon-tano che nemmeno le nostre preghiere possono raggiunger-

lo. Allora, invece, egli stava sulla terra e camminava fra le sue creature. Poi, un giorno, un brutto giorno per noi, Wua-

ka pensò che era meglio che gli uomini morissero: se no che differenza ci sarebbe stata fra gli uomini e Dio?

Allora Wuaka chiamò l’uomo e gli disse: «Ascoltami bene perché ora ti dirò il giorno in cui tu dovrai morire!»

Ma l’uomo rispose: «Io non morirò mai. Perché dovrei mo-rire? Voglio restare vivo per sempre come te.»

Ma Wuaka aveva deciso: «Poche storie! Sono io che ti ho creato e sono io che decido! Ma voglio essere clemente: ti

lascerò in vita fino a che tu possa vedere i tuoi discendenti della quinta generazione. Mi sembra di essere molto genero-

so con te, hai ancora un mucchio di tempo da vivere. Ma giunto il tuo tempo morirai.»

L’uomo protesto, urlò, si dimenò nella polvere rossa della savana, ma non ci fu nulla da fare: Wuaka fu irremovibile. Allora l’uomo, preso da grande paura, disse delle cose mol-

to offensive per il suo creatore, mettendo in dubbio la sua giustizia.

Il cielo, allora, fu scosso da grandi boati e tremò per l’ira di Wuaka: «Per quello che hai detto, uomo, sarai punito. Mori-

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rai questa notte stessa. Addio, uomo, questa è la volontà del tuo Dio!» L’uomo saltò sul suo cavallo e cavalcò come un pazzo attra-

versando tutta la terra da oriente a occidente. Ma anche se il suo fosse stato il cavallo più veloce della terra, non sareb-

be riuscito a sfuggire all’ira del creatore. Stava facendo buio quando l’uomo giunse nel luogo dove

tramontava il sole. Qui trovò alcuni uomini che stavano sca-vando una buca nel terreno.

«Che cosa state facendo?» chiese l’uomo, tenendo per le briglie il cavallo tutto sudato.

«Stiamo eseguendo gli ordini di Wuaka. Egli ci ha detto che sarebbe arrivato qualcuno che si era ribellato al suo volere.

Se sei tu il ribelle, questa tomba è per te!» L’uomo morì con la bocca aperta per lo stupore e fu subito

seppellito. Cinque anni dopo, Wuaka arrivò davanti alla tomba dove

era sepolto l’uomo che non voleva morire e gli venne in mente che, in fondo, era comprensibile che si fosse ribellato

alla perdita della vita, il dono più prezioso fatto all’umanità. Così si commosse e delle lacrime gocciolarono tiepide sulla tomba: erano le lacrime del dolore di Dio. Subito dal terre-

no bagnato spuntarono delle pianticelle di un verde fosfore-scente che crebbero velocemente. Così è nata la pianta del

caffè, benedetto da Wuaka e nostra grande medicina, la più importante in tutte le nostre cerimonie. Il suo potere è gran-

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de perché, mentre le altre piante nascono dal pianto del cie-lo, il caffè è germogliato dalle lacrime di Wuaka e per que-sto scalda il cuore degli uomini.” All’improvviso una voce sgradevole, quella del capitano che gracchiava in un megafono, la riportò alla realtà. Nessuno

l’aveva ancora visto, il capitano di quella nave derelitta nella quale si trovava, derelitto anche lui. La ragazza si rese conto

di dove era e di quanto fosse stanca, una stanchezza che per-cepiva nell’anima, in quel viaggio che sembrava non finire

mai. Erano ancora immersi nel buio della notte, il mare on-deggiava, la luce fioca delle lampade del ponte rendeva tutto

un po’ più sinistro. S’era fatta luce dentro di lei, però, nel ricordo della nonna,

nel sentire ancora la sua presenza così viva. Le riapparve la sua figura inginocchiata sulla stuoia piena di erbe profumate

e intenta nella preparazione del caffè, quando c’erano ospiti particolarmente importanti, in genere la famiglia di origine

di sua madre, cui suo padre era particolarmente legato. Era una vera e propria cerimonia che si svolgeva con tutta la fa-

miglia presente. Iniziava dalla tostatura del caffè, piccoli chicchi che saltavano nella padella che le sue abili mani fa-cevano roteare sul fuoco, mentre l’aroma dell’incenso bru-

ciato si spandeva intorno, creando una atmosfera molto par-ticolare. Dopo aver polverizzato i chicchi, aggiungeva

nell’acqua che già bolliva e che avrebbe presto accolto la polvere del caffè, lo zenzero grattugiato, che avrebbe ag-

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giunto alla bevanda il suo calore. Al termine del rito, la non-na pronunciava l’antica frase “il caffè è il nostro pane!” e i bambini per primi capivano l’importanza di quel rituale per

via della storia che la nonna era solita raccontare loro: le piantine del caffè nate dalle lacrime buone del creatore

Wuaka. Il ricordo dei giochi di bambini, suoi, di sua sorella e dei

suoi fratelli, ritornarono prepotenti: avevano il tempo di gio-care quando la mamma li lasciava liberi dai lavori nell’orto e

allora kukulu – nascondino – era la festa nella quale si diver-tivano tutti insieme, con risate e gridolini soffocati per non

farsi scoprire, ciascuno nel proprio nascondiglio, prima di raggiungere la mariam – tana – senza essere catturati. Gio-

cavano nello spiazzo davanti alle capanne delle mogli del padre. Erano tre e sua mamma era la prima moglie e coman-

dava sulle altre. Ciascuna moglie aveva la propria capanna, per sé e per i suoi figli; tutte e tre le abitazioni davano su uno

spiazzo, che era comune ed era chiuso da un muretto che comprendeva, nel suo perimetro, tutte le capanne. In questo

spiazzo si ritrovavano per stare assieme, giocare, raccontarsi le storie e danzare. Ma c’era anche il momento delle gare, quando con i suoi fra-

telli si sfidavano nella corsa, guidando con una bacchetta un piccolo cerchio di ferro, superstite di una bici ormai inutiliz-

zabile. Erano momenti spensierati come quelli di tutti i bam-bini del mondo.

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La dolcezza di quei pensieri venne turbata da un altro ricor-do che, prepotente, la invase facendola star male. Aveva cir-ca otto anni, all’epoca, e frequentava già la scuola della mis-

sione che c’era nel centro del villaggio, vicino a un albero secolare che era riuscito a resistere, negli anni, alla siccità

della stagione arida e alle piogge torrenziali dei giorni pieni di pioggia. Già dalla mattina, sua madre aveva detto a lei e a

sua sorella che non avrebbero dovuto allontanarsi da casa perché quello sarebbe stato un giorno importante per lei e

per Karàt. «Perché, madre?» chiese incerta e incuriosita.

«Perché è arrivato il tempo di diventare grandi» e mentre pronunciava queste parole, scambiò un cenno d’intesa con la

nonna. Erano presenti solo loro quattro in casa e le due bam-bine, inconsapevoli e fiduciose, si misero a giocare tranquil-

lamente. Tre visi si affacciarono sull’ingresso del cortile, sorridenti.

Erano tre donne che indossavano un mantello rosso. Una di loro, quella che ad Aìli sembrò la più alta, portava un basto-

ne ricurvo a una estremità. La seconda teneva in mano un cestino, la terza aveva sul braccio dei panni. La mamma e la nonna si precipitarono ad accoglierle, con fare talmente ri-

spettoso che incuriosì la bambina. La nonna la prese per ma-no, dicendole che lei era la maggiore e avrebbe fatto prima.

Fatto? Che cosa, si chiedeva Aìli, ma ebbe poco tempo per capire. Le mani della nonna la afferrarono, brutali come mai

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prima di allora erano state e altre due mani le tennero ferme le gambe. Un dolore improvviso e atroce la prese, il fuoco aveva invaso la sua pancia e bruciava, consumandola dentro.

Tutto attorno erano state accese candele. Un lampo, un ri-flesso, la luce sferzante del bisturi le colpì gli occhi mentre

lei tentava di divincolarsi per sfuggire a quella tortura. Non capiva. Perché sua nonna le faceva questo? Sentì scorrere

lungo le gambe il suo sangue mentre lingue di fuoco la divo-ravano. Si sentiva violata e tradita. Violata nel corpo e tradi-

ta nell’amore che lei provava per la nonna che l’aveva fatta sempre sentire protetta. Come avrebbe potuto fidarsi di lei,

in futuro? Rimase, tramortita, sulla stuoia, con il corpo e la mente in subbuglio e ancora non capiva. Non riusciva a

muoversi e a chiudere le gambe mentre la mamma le appli-cava un impacco di erbe sulle ferite. Ferite, molteplici, per-

ché erano tante le volte che aveva sentito il bisturi affondare nella sua carne. Mentre le forze l’abbandonavano, sentiva

lontanissime le grida di sua sorella. Perse coscienza e si ri-svegliò molto tempo dopo. Tornò in sé con la chiara perce-

zione che qualcosa di grande, forse di terribile, era successo. Qualcosa che l’avrebbe segnata per sempre. Sentiva le mani della nonna che l’accarezzavano, mentre il suo canto, questa

volta, non la consolava. «Oggi sei diventata grande» le disse Salìma, sorridendo.

«Sei diventata grande! È la tradizione!» L’espressione del viso e il tono della voce esprimevano fierezza, ma quel tono

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fiero era una nota stonata, se accostata al dolore, fisico e mo-rale, che lei sentiva. Occorsero quasi due settimane ad Aìli per guarire e riprende-

re la sua vita normale, ma se le ferite del corpo erano guarite, quelle della sua anima bruciavano ancora. Aveva otto anni,

era ancora una bambina e da bambina aveva ancora bisogno di esercitare la sua fantasia, di crearsi un mondo fantastico

nel quale vivere e rielaborare la realtà. Ma questo non era più possibile. Aveva sperimentato la crudezza della vita e,

anche se la sua mente di bambina non riusciva ancora a leg-gere con chiarezza dentro di sé, la rabbia rivissuta nel ricor-

do era ogni volta dirompente. Sua nonna aveva detto “È la tradizione!”… ma lei sentiva che tutto ciò non era buono.

“Quello” non poteva essere buono. Fine anteprima.Continua...