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adateoria femminista fatica #7 novembre - 2013

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fatica

#7novembre - 2013

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ada teoria femminista

Rivista fondatada Lucia Mastrodomenico e Angela Putino

collettivo di redazione:Maria Rosaria Corcione (Direttora)Maria Vittoria Montemurro, Nadia Nappo, Tristana Dini, Stefania Tarantino,Stefano Perna

in relazione con noi:

Lina Cascella, Stefania Nardone, Anna Correale

contatti:[email protected]

dispositivo grafico:Stefano Perna

registrazione:adateoriafemminista n°1 - Autorizzazione del tribunale di Napoli - registro stampan° 85 del 29/09/2006

www.adateoriafemminista.it

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Fatica - Ada (Novembre 2013)

Lettrice - Loretta Borrelli (Aprile 2014)

Lasciarsi amare stanca - Anna Correale (Maggio 2014)

Rivalutazione di tutti i valoriLa prassi futura della teoria femminista - Michael Hirsch (Maggio 2014)

Fatica e lavoro in Simone Weil - Giovanna Borrello (Maggio 2014)

Metafisica del lavoro - Alessandra Macci (Maggio 2014)

Fatica del corpo - Maria Rosaria Mariniello

indice

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FaticaAda

Le nostre esistenze sono scandite dalla fatica. Fatica fisica, mentale, affettiva, spirituale. Fatica di crescere e di amare. Fatica del fare, delle relazioni, della ricerca di senso, della libertà. Ognuna di queste cose, e la libertà femminile prima di tutto, è costata molta fatica e costa ogni giorno. Non è mai arrivata per grazia ricevuta e, soprattutto, la libertà che le donne hanno coraggiosamente rivendicato per sé differisce da quella maschile, seppur si è lottato, molto spesso, su uno stesso fronte comune. Ci sono volute e ci vogliono ancora, a Occidente come a Oriente, molte battaglie e radicali prese di posizione. Neutralità e uguaglianza – come obiettivi da raggiungere per contrastare quella svalutazione del sesso femminile così radicata nella visione patriarcale del mondo – quando tracciano un percorso speculare e di riconoscimento del medesimo, cancellano la potenzialità della differenza. Noi di Ada insistiamo sulla differenza femminile perché, presa fuori da quella visione così monolitica e androcentrica di stampo prettamente maschile, apre spazi inediti di libertà e invita ciascuna/o di noi a giocarla apertamente in tutte le dimensioni dell’esistenza. Riconosciamo al pensiero della differenza sessuale la nostra strada maestra, dal momento che ci ha insegnato a uscire dal contabile, da quella somma di uno più uno che forma “insiemi” identitari e fissi. È un sapere che non si adagia su nessuno stereotipo del femminile (e anche di quello maschile): esso riguarda piuttosto una potenzialità di sperimentare a partire da sé, perché attivato da quel nucleo irriducibile e inassimilabile della soggettività che Angela Putino ha definito “inaddomesticato”.

Le donne hanno da sempre conosciuto la fatica. Costrette in un regime di sottomissione che le ha relegate nella sfera domestica, considerate parte di quell’umanità “senza valore” da disprezzare e dominare, hanno fatto esperienza di che cosa significa la monotonia della vita quotidiana, l’usura

Lo ripeto. E bisogna ripeterlo molte volte. Il lavoro di una donna, da quando si alza a quando va a letto, è pesante quanto una giornata di guerra, peggio della giornata lavora-tiva di un uomo, perché lei deve inventarsi un orario conforme a quello degli altri, quelli della famiglia e quelli delle istituzioni esterne. (…) Per gli uomini, una buona madre di famiglia è quella che fa di questa discontinuità di tempo una continuità silenziosa e dis-creta. Questa continuità veniva del resto accettata come fosse la vita stessa e non come uno dei suoi attributi, ad esempio il lavoro. È proprio questo, il fondo della questione.

Marguerite Duras, La vita materiale

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fisica e spirituale di un lavoro che non conosce fine ma che si ripete uguale ogni giorno. In stretto contatto con le materie prime della vita, quelle relative alla sopravvivenza e alla cura, le donne non hanno mai smesso di sporcarsi le mani, di fare i conti con la sfera della necessità. Quella continuità silenziosa e discreta del lavoro femminile di cui parla la Duras è sempre sembrata andar da sé, come le nuvole che portano la pioggia, come qualcosa di naturalmente “dovuto” che non aveva bisogno di essere riconosciuto come un “lavoro” vero e proprio. Come, del resto, avrebbe potuto esserlo in una società che considera e riconosce solo le grandi costruzioni perenni che hanno il sapore dell’eternità? Tra le filosofe che hanno tentato di rendere conto di questa continuità silenziosa c’è Hannah Arendt. In Vita activa, ella mette in luce come il lavoro sia strettamente legato allo sviluppo biologico del corpo umano, alla nostra appartenenza alla terra. La fatica è sempre stata legata alla necessità, a quella parte del reale cui non possiamo sfuggire ma che si è cercato sempre (e si cerca tuttora) di delegare ad altre e ad altri. Servi della natura e della terra, donne e schiavi hanno assolto ai compiti più ingrati e denigrati. Dal disprezzo della vita biologica e materiale, dallo svilimento di tutto ciò che è legato alla dimensione corporea, la nostra tradizione filosofico - politica ha puntualmente contrapposto l’ambito della necessità a quello della libertà e del pensiero. Eccellere ed essere soggetti alla fatica – scrive Arendt – si sono sempre esclusi a vicenda. Dalla distinzione lockiana tra le mani che operano e il corpo che lavora, la filosofa ebreo - tedesca mette in luce come la differenza tra “fatica” e “lavoro” sia stata trascurata e inesplorata nella tradizione del pensiero politico, nonostante “la testimonianza molto eloquente, costituita dal semplice fatto che ogni lingua europea, antica e moderna, possiede due termini etimologicamente distinti per ciò che noi siamo portati a considerare una stessa attività”. Lavoro e opera non sono la stessa cosa. Lavoro deriva da labor (latino e inglese labor, greco ponos, francese travail, tedesco Arbeit) e fa riferimento al carico di fatica e di pena richiamandosi etimologicamente anche alle doglie del parto (il travaglio). L’opera, invece, deriva dal latino facere o fabricari (greco ergazesthai, inglese work, francese ouvrer, tedesco werken) e fa riferimento a quel tipo di lavoro che non comporta alcuna pena e fatica, ma, anzi, riguarda il fare nel senso di “creare”. La fatica logora e costringe alla ripetizione, l’opera permane ed è unica. La stessa Arendt segnala come interessante il fatto che le parole work, oeuvre, werk, mostrino una tendenza crescente a essere impiegate per le opere d’arte in tutte e tre le lingue. Ma la cosa più importante che ella altresì sottolinea è che il lavoro inteso come fatica è intimamente legato alla produttività e alla fecondità. La natura del lavoro, quello che la nostra cultura ha così denigrato, è improntato femminilmente; ciò perché i suoi risultati sono subito consumati, privi di consistenza metafisica e immediatamente annullati o distrutti. “Pulire, cucinare, spolverare, sono senza oggetto ma mantengono la vita umana dentro uno scambio diretto con la natura”, scrive Arendt.

Marguerite Duras parla della madre come colei che le ha insegnato l’ordine della casa. Un ordine sapientemente folle, volutamente autarchico, generato dall’estensione del suo corpo. Il governo generale della casa è frutto di un lavoro materiale e affettivo insieme. Sul corpo della madre si mangia, si vivacchia: esso rappresenta la prima casa, il luogo in cui si sperimenta l’impossibilità dell’abbandono, in cui ci si sente al sicuro, in cui niente è lasciato perdere. Il governo, parola che trae la sua radice etimologica dall’arte della navigazione, significa letteralmente “reggere il timone”, dirigere e governare una nave (kybernan). Il governo è il pensiero che sta dietro qualunque agire. È gestione creativa ad un livello simbolico ed è parte integrante di un sentimento che ha origine nel corpo. Per molto tempo la fatica di una donna non è stata legata al lavoro produttivo,

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salariato e contrattuale. Poi, ad un certo punto, la svolta, dovuta, come sappiamo, alla rivoluzione industriale. Le donne e i bambini entrano in massa nel mondo del lavoro. Si ratificò quel sistema di subordinazione fondato sullo sfruttamento e l’assenza completa di qualsiasi potere contrattuale. A partire da qui si è poi giocata la battaglia dell’emancipazione. Il mondo del lavoro fu accessibile alle donne solo quando i “padroni” delle fabbriche tessili e delle miniere decisero di aver bisogno di loro. C’era bisogno di più manodopera e, soprattutto, di pagarla meno. Mutatis mutandis! La produzione legata al salario è l’unica cosa che conta oggi. Senza di essa non si può vivere e si è ricattabili. La nostra vita è così rigidamente limitata da clausole contrattuali (quando ci sono!), da rapporti di forza, da speranze puntualmente tradite.

Ci troviamo in una fase in cui nelle nuove forme di lavoro tutto è capitalizzabile. La nostra più intima soggettività, quella che un tempo era custodita nello spazio vitale e segreto della nostra interiorità è messa sul mercato. Ogni sfera dell’esistenza fa gola alle nuove forme di economia che si appropriano di tutto generando grandi profitti. Come soggetti dotati di valore per il mercato non siamo più al riparo da niente. Passioni, gusti, tendenze, paure, sogni e desideri, tutto ciò che riguarda l’ambito dell’espressione pura della soggettività è entrata nella sfera della produzione. Qualsiasi elemento personale può generare profitto e valore. Siamo di fronte alla natura biopolitica dei rapporti di lavoro, natura che ha attinto a piene mani dal bagaglio esperenziale femminile. La “femminilizzazione del lavoro” all’interno del capitalismo ha puntato – come descritto da Cristina Morini – ad appropriarsi della polivalenza, della multiattività e della qualità del lavoro femminile, sfruttando, con ciò, un portato esperienziale delle donne che deriva dalle loro attività realizzate storicamente nella sfera del lavoro riproduttivo, del lavoro domestico (…). La famiglia, la città, le relazioni tra gli esseri umani si trasformano progressivamente in uno spazio economico. Dentro il lavoro odierno stanno incastrate componenti linguistico - affettive. In questo senso il lavoro di cura delle donne si iscrive perfettamente dentro un meccanismo assai più vasto, che comprende anche le relazioni. Le quali diventano oggetto di valorizzazione economica”.

E allora: come preservare quelle dimensioni dell’esistenza che non sono e non possono essere regolate dalla legge economica? Di quali relazioni si sta parlando? Quale margine di sottrazione è ancora possibile? Oggi, attraverso i social network, si assiste a una continua esaltazione delle relazioni e delle opinioni. Si può dire tutto e il contrario di tutto e ogni relazione, proprio perchè disincarnata, ha la propria funzionalità e utilità. Eppure, sappiamo/sentiamo che esiste un surplus che non rientra nella capitalizzazione, che fa resistenza all’atteggiamento predatorio che il sistema economico neoliberale ha mostrato così sfacciatamente. Sappiamo che sono necessari nuovi punti di avvistamento per ripensare il difficile intreccio tra libertà e necessità, tra corpo e mente, tra vita materiale e vita contemplativa. Qui ci aiuta Simone Weil, alla quale riconosciamo di aver avuto una parola originale sul lavoro e sull’intreccio tra personale e impersonale. La necessità si deve attraversare, “cantare”, si è liberi quando si sta dentro la necessità, non quando si fugge da essa. Se non si ha una comprensione della realtà e della necessità, non si è mai veramente libere/i. Così come non c’è creazione, invenzione, se non si passa dalla materia. Libertà, infatti, si ha quando il pensiero dell’azione precede l’azione. Ogni nostro gesto prevede un lavoro, una trasformazione che restituisce il senso di ciò che facciamo. Non prevede più la

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cura, la responsabilità di un mondo già dato, ma la facoltà dell’attenzione per ciò che ancora non c’è, per l’impossibile. E ci vuole anche una certa dose di irresponsabilità per stare di fronte e desiderare questo impossibile. Per questo è importante non solo non smettere mai di pensare a ciò che si fa, a come lo si fa, come già diceva Virginia Woolf, ma anche, seguendo qui Simone Weil, è necessario imparare a percepire l’uso del nostro fare, percepire la modificazione che il lavoro produce su di noi e sulla natura delle cose. Si tratta di dare una nuova misura. Questa è la pratica politica del partire da sé messa al mondo dal pensiero della differenza. Oggi è necessario porre le basi per un’economia completamente diversa, per una trasformazione del lavoro che sia quanto più radicale possibile. Un’economia basata su relazioni di libertà che ci consentano di passare dal sapere tout court alla relazione di sapere. Perché solo attraverso la fatica si guadagnano pezzi di realtà mantenendo, senza retrocedere, l’irriducibilità del proprio sé, il proprio “frammento d’inaddomesticato”.

Testi di riferimento:Marguerite Duras, La vita materiale, Feltrinelli, Milano 1987. Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano, 1991. Angela Putino, Simone Weil. Un’intima estraneità, Città Aperta, Troina, 2006. Simone Weil, La condizione operaia, SE, Milano, 2003. Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre Corte, Verona, 2010.

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Lettrice dell’editorialeLoretta Borrelli

Ho letto con attenzione il vostro editoriale e appena finito mi sonochiesta cosa faccio e come lo faccio. È una domanda che mi pongospessissimo, soprattutto per quanto riguarda una parte del mio lavoro. Mi interesso di culture digitali e arte, ho studiato in quel campo. Scrivo e collaboro con una rivista d’arte. Ma mi sono anche dovutaadattare al mercato del lavoro e da quasi quindici anni mi occupo disviluppo di siti web e applicazioni internet. Negli anni mi sonoritrovata a dovermi confrontare con uno sviluppo tecnologicoipertrofico e in costante aggiornamento. In questo tempo ho sviluppatosempre più la consapevolezza che quello che faccio quando sviluppocerti applicativi è adeguarmi alle caratteristiche imposte dallefunzionalità dei social network o del web 2. 0.

Queste funzionalità sono qualcosa di molto distante dal senso cheattribuisco alle relazioni nella mia vita quotidiana. Le relazioniincarnate non possono mai diventare oggetto di valorizzazioneeconomica, non sono funzionali. Solo il simulacro/feticcio dellerelazioni è funzionale per essere capitalizzabile.

Per questo motivo, dubito che il processo di femminilizzazione dellavoro sia da intendersi come una presa di tutti gli aspetti dellavita da parte dello sviluppo capitalistico. Credo ci sia stato unosvuotamento simbolico che arriva da molto lontano, come fate notareanche voi, e che a dispetto della sua pochezza trova una

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amplificazione massima nella tecnologia o in forme di produzioneimmateriale. Cerco di sfuggire a questa visione senza vie d’uscita esoprattutto sento la necessità di parole per dire quello che una partedi me “inaddomesticata” sente sia stato svuotato e usato in modostrumentale. Ne sento la necessità non solo per un cambio delle miecondizioni di lavoro, ma perchè desidero con urgenza l’impossibile. Un’inquietudine in cui ho il desiderio di tenere insieme parti dellamia vita, e comprendere quello che accade intorno a me e che mirimanda un senso opprimente. Penso sia possibile farlo attraverso lerelazioni e, grazie a queste, ho anche imparato che è importantealternare momenti in cui riponi il centro su te stessa in un movimentocontinuo.

È un processo faticoso. Mi aiuta molto l’esperienza di lavoro chefaccio nella redazione di Aspirina e l’esperienza dell’Agorà dellavoro di Milano. In questi scambi non trovo risposte o immediatesensazioni di libertà, tutt’altro, nella maggior parte dei casi neesco particolarmente turbata e forse più confusa di prima. Ma sento diguadagnare pezzi di realtà. Per questo motivo anche per me èimportante insistere sulla fatica che si porta dietro la complessitàdel vivere. Negli ultimi tempi ho sentito diversi pensatoripolemizzare con questo concetto di Hannah Arendt associandoloall’esaurimento e alla stanchezza, e ignorandone lo slancio vitale edi desiderio. Forse perché questi pensatori sono troppo concentratisulle tensioni mortifere e sterili del capitalismo, sono diventaticiechi di fronte alla nascita, alla vita e a tutto il lavoro dimanutenzione che queste comportano. Spesso una declinazione in sensonegativo della fatica ha la meglio e lasciare spazio a questadeclinazione toglie pienezza alle relazioni.

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Lasciarsi amare stancaAnna Correale

Vado su e giù per le scale, da sola, o con il cane che mi segue docile e compiaciuto. Migliaia di scalini su e giù fino allo sfinimento fino a che la fatica trovi una propria espressione nelle gambe che fanno male e quel male ti chiede di accorgerti di me. Questa richiesta mi è per lo più ignota, un po’ si svela nel riposo, quando sono in poltrona, le gambe sollevate sul tavolino ad osservare l’arrivo della pace, allora mi rendo conto che tutta questa fatica è rivolta a te. Non smetto di chiederti di amarmi. È così faticoso che avanza poca forza per altro, oltre a questa richiesta continua di essere amata. Come se gran parte della mia vita non fosse impegnata in altro che in questo.

Faccio mai qualcosa per me stessa oltre la mia richiesta d’amore? Sembra che ogni mio gesto non sia altro che dimostrativo: guarda come sono brava, guarda come arrivo a farcela, oppure: guarda come soffro, guarda cosa mi infliggi e neppure te ne accorgi, guarda come mi abbandoni.

Cosa avrei voluto? Che mi dicessi quello che non mi hai mai detto: sono qui, ti vedo, sto attento a che nulla ti accada più, sono qui ad abbracciarti, a non lasciarti più sola. E quest’altro poi non saresti tu ma quello che io avrei voluto e anche quello che non esiste perché io possa restarne senza. È come se di questo “senza” avessi bisogno per non lasciarmi amare. Perché proprio da te voglio quello che non puoi darmi? L’amore non è accettare da qualcuno quello che non ha senza neppure volerlo, quello lacaniano? E lasciarsi amare dovrebbe essere lasciarsi offrire da qualcuno quello che non ha senza volere altro. E invece io voglio e voglio e chiedo e resisto con tutte le mie forze, ancora, fino allo sfinimento. Forse solo perché so che tu non puoi darmelo quello che chiedo. Ed è così che mi ritengo essere quella che ama, quella che

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vuole dare l’amore che forse è amore di assenza, a te che non lo vuoi. Perché forse tu non vuoi essere la mia assenza, il mio vuoto, allora ti riproponi con gesti che chiedono attenzione, che però sono proprio quelli che non posso notare, perché in quelli tu ci sei, sei là a dirmelo che mi ami, a modo tuo, nella tua differenza che come sempre non voglio accogliere nella prossimità e che continua ad essere qualcosa che mi spaventa, che mi porta via da chissà quale unione completa, da chissà quale compiutezza originaria.

Poi i tuoi gesti ed il mio malcontento passano insieme nel filtro del silenzio, diluiscono l’amore nel flusso del non detto, dove anche noi veniamo trascinati, portati via da noi stessi, separati, naufraghi, in quella pozza stagnata che diventa disamore. E perché in quei tuoi gesti che dimostrano amore non c’è mai l’abbraccio giunto per tempo? Continuo a chiedermi: è amore questo? L’incapacità della carezza a smuovere l’acqua del disamore? Così mi irrigidisco. Mi raccolgo in sofferenza e in attesa che quella carezza e quell’abbraccio arrivino prima della stanchezza che conduce alla distanza in cui non avverto più nulla, in cui le labbra, le dita, le braccia, sfiorano senza raggiungermi.

Stasera hai lavato i piatti in silenzio e sei andato via, ieri mi hai vista sul divano sotto la coperta, gli occhi spenti davanti al televisore, allora hai chiamato il cane e siete usciti, hai capito che non avrei potuto farlo io, sono rimasta con il rumore della porta che si chiudeva dietro di voi. Giorni fa ho trovato le bollette messe in ordine nel cassetto e la caldaia ha ripreso a funzionare. E certo che è amore! Ritorno alla benevolenza e nell’accoglierti ti ricaccio. Non mi placa quel che fai se poi resta puro fare. Il silenzio basterebbe se fosse tenuto stretto nell’umida condensa di un unico respiro, e invece resta arido non detto di distanze incolmate. So che pensi che io non sia capace di vivere la separazione, di andare in giro per il mondo in un solo pezzo senza mai sentirmi rotta, so che tu mi trovi incapace di avere quiete in questa unicità dove è previsto l’abbandono, ma io so di quanta paura hai tu della dolcezza e di parlare d’amore e di confidarti all’abbraccio.

Ecco, allora, l’andirivieni stanca.

Andiamo e torniamo senza mai accoglierci fuori dai nostri limiti. Quando penso di essere andata via, subito dopo posso solo constatare di essere ritornata, pronta per la ripetizione, per ripetere quell’unica cosa che invece dovrebbe essere abbandonata: chiedere amore. Ed è proprio questa richiesta ostinata a rendermi cieca di fronte al tuo amore che è là, e che io non riconosco perché non ha i miei tratti, non aderisce perfettamente all’impronta cava del mio cuore, non diventa me in un’unica forma.

Riuscirò ad amarti senza riconoscerti? A lasciarmi amare senza riconoscermi? A lasciare l’amore fuori dal bisogno del riconoscimento? Riusciremo ad abbandonarci senza più inseguire l’identico nell’altro? Arriveremo al riposo dolce della tregua?

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Rivalutazione di tutti i valoriLa prassi futura della teoria femministaMichael Hirsch

1.

La questione femminile è in realtà la questione maschile: la questione della forma di vita dominante e normale nelle nostre società. Come sono definite, e come sono distribuite le forme diverse del lavoro sociale? La riconfigurazione della distribuzione tra lavori di tipo „economico“ e „non-economico“ è un elemento centrale nel progetto emancipatorio di una nuova forma di divisione del lavoro sociale. Con Jacques Rancière chiamerò distribuzione del sensibile (Le partage du sensible) questo fenomeno: la distribuzione di lavori, contributi, remunerazioni e riconoscimenti ( di persone e gruppi di persone diversi) nella società secondo una logica di valutazione sia materiale sia simbolica.

Per la forma di distribuzione del sensibile che abbiamo conosciuto, la divisione sociale secondo il genere ha un’ importanza fondamentale: la forma specifica della divisione di lavori di tipo produttivo e di lavori di tipo riproduttivo. Si tratta là, come ha dimostrato Carole Pateman in The Sexual Contract, di un contratto (implicito) sessuale. Si tratta di un contratto non solo implicitamente gerachizzante, che divide posizioni e attività favorevoli e svaforevoli; lavori nella sfera pubblica e nella sfera privata. Si tratta anche di un contratto che assume un ruolo fondamentale nel funzionamento quotidiano della società. È dunque di una forma di vita nel senso di una pragmatica del quotidiano: dell’uso del tempo, delle proprie forze, di se stesso e degli altri. Questi modi dell’uso costruiscono normalità e regole scritte e non scritte, possibilità e impossibilità – abitudini che producono non solamente delle forme di vita, ma anche delle identità. Pare che il ruolo sociale del lavoratore, del lavoro salariato sia una presupposizione normale o normalizzante nelle nostre società. È l’attributo, oppure la logica del androcentrismo della società del lavoro contemporanea in crisi da ormai quarant’ anni.

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Il consenso emancipatorio nelle nostre società consiste nell’idea che l’uguaglianza tra uomini e donne è stata accettata come uno scopo indubitabile – ma che le condizioni e le premesse di questo progetto sono tutt’altro che chiari. L’idea dominante dell’emancipazione delle donne dalla dominazione maschile è stata quella dell’assimilazione alle forme di vita esistenti degli uomini. La logica dominante dell’emancipazione è diventata, come diceva Pateman, che le donne, per essere libere, devono diventare repliche degli uomini. Devono cercare di diventare repliche di loro – ma in realtà delle repliche handicappate.

2.

Questo à lo stato di cose oggi. Il nuovo regime dei sessi nel neoliberalismo ha introdotto un radoppiamento di funzioni nelle vite femminili: Una donna contemporanea è responsabile sia per una sua vita professionale, sia per la sua famiglia e i lavori a domicilio di cura e di manutenzione nella sfera privata. Gli uomini invece continuano ad essere visti come sempre specializzati nel lavoro salariato nella sfera pubblica della società – dunque come sistematicamente indisponibili rispetto al lavoro domiciliare e alle fatiche che questi lavori rappresentano. Tutti quelli che si sentono responsabili per il lavoro riproduttivo della cura e della casa saranno dunque sistematicamente discriminati – sia donne, sia uomini emancipati. La logica profonda di questo regime è logicamente quella della fatica: La risponsabilità doppia è la nuova legge per le vite femminili (femminile inteso come forma di vita disponibile alla respnsabilità per il lavori non pagati a domicilio). La fatica forma il suo elemento centrale: è impossibile essere sempre all’altezza di questa doppia responsabilità. Si tratta di una forma di vita sistematicamente faticosa; al di sopra delle responsabilità di tipo privato (e tradizionalmente reso invisibile) si trovano ancora le responsabilità di tipo lavorativo pubblico (dove non si scherza). La fatica e l’esaurimento sono il destino dell’avangguardia emancipata femminile e maschile oggi. Abbiamo dunque assistito ad un cambiamento importante nelle identità delle donne (sopratutto delle classi medie) – ma non nelle identità degli uomini normali. Abbiamo assistito ad una trasformazione generale delle nostre forme di vita in comune nel senso di una contro-rivoluzione. Cioè, tutti quelli che da un pò di tempo cercano di gestire le loro vite quotidiane secondo una logica emancipatoria nei rapporti tra i sessi si sono esauriti: Hanno perso nella lotta per i posti favorevoli nella società: La disposinibilità per i lavori di tipo non pagati ci ha resi deboli, ci ha indeboliti rispetto a quelli che continuano con una logica più tradizionale della divisione dei lavori sociali.

Abbiamo perso economicamente e simbolicamente nell’ordine dominante della società. Hanno perso tutti quelli (donne e uomini) che si sentivano, nelle loro vite reali, responsabili per una forma di distribuzione più giusta. Hanno perso perchè si sono esauriti in delle vite più belle e più giuste, ma meno fortunate a livello professionale. Il neoliberalismo vincente è il trionfo di forme di vite maschili, di una specializzazione dell’esistenza. Ecco perchè negli ultimi 20 anni nei posti di grande influenza politica, economica, e culturale, sono stati integrati non una élite emancipata, ma piuttosto una nuova (e molto vecchia) élite fondamentalmente conservatrice nelle sue forme di vita, nel suo quotidiano.

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3.

La teoria femminista non à solamente un’ attività di tipo teorico rispetto a questo stato di cose. Piuttosto è un’attività profondamente etica e politica; una forma di vita propria. La sua verità vive del fatto che non è per niente neutra: che inevitabilmente si pone come parte nella lotta per l’egemonia. Questa lotta per l’egemonia culturale non può in alcun modo essere una cosa esterna alla teoria – dunque anche non esterna alla vita, alla prassi quotidiana del teorico femminista. Non solo che questo tipo di ricerca e questa posizione etica non è sufficientemente riconosciuta nel sistema ufficiale borghese della scienza borghese. Il lavoro di tipo femminista à anche sistematicamente, materialmente handicappato nel suo quotidiano: È più faticoso che il lavoro normale di teoria scientifica, che è intesa come una forma di lavoro specializzata, nella quale non entrano le passioni e i desideri della persona che lo performa, che lo vive. La crisi del femminismo contemporaneo sta nel fatto che sia sul livello politico dello Stato, sia sul livello della cultura e dell’Università solo una forma specifica, una forma borghese e professionale di Gender Studies e Gender Mainstreaming à stata riconosciuta come un lavoro nel senso di una prassi rilevante entrando nella forma esistente di riconoscimento economico e simbolico. Questa à la nostra situazione nei paesi occidentali. Puoi essere femminista (persino essendo un uomo) se rimani nei limiti di una concezione androcentrica e professionale del tuo „lavoro“. Il problema di questa situazione sta nel fatto che la lotta per l’egemonia del femminismo è nient’altro che la lotta per il superamento di un certo tipo della definizione a della valutazione di lavori sociali. La lotta per l’egemonia à dunque profondamente, nel nostro caso, una lotta per il superamento della concezione androcentrica del lavoro. È una lotta per la ri-valutazione, oppure per la transvalutazione di tutti i valori (Umwertung aller Werte nel senso di Nietzsche).

La cattura del lavoro teorico femminista nel mo(n)do androcentrico egemonico forma oggi l’ostacolo maggiore del suo potenziale liberatorio. Perchè si tratta nella teoria femminista sempre anche di un tipo di lavoro non staccato dalla persona, dal quotidiano, dal desiderio di vivere diversamente, dal desiderio di vivere bene. Renderci disponibili alle forme di vita androcentriche dominante vuol dire, in un certo modo, renderci disponibili ad una vita sbagliata: alla rinuncia del desiderio di una buona vita. Una delle forme importanti di questa rinuncia è la fatica come uno stato di cose ormai normale. L’abitudine ad una forma di vita sbagliata ha, nel quotidiano, la forma dell’abitudine all’affaticamento cronico. L’auto-sacrificio continuo universale specialmente delle donne nella fatica permanente (o diciamo, di esseri umani disponibili ai lavori casalinghi e ai lavori di cura nella famiglia e nelle amicizie) rappresenta oggi la sconfitta continua della teoria come della prassi femminista emancipatoria.

4.

La lotta per la transvalutazione dei valori è possibile solamente partendo dal desiderio di un’altra forma di vita: una forma di vita disponibile alle cura volontaria degli altri (e de se stesso), che non si vedrà più ridotta ad una scelta di vita necessaria per il funzionamento della società, ma di fatto inutile sul livello della costruzione della mia vita professionale. Che vita famililiare e vita professionale continuano a essere irriconciliabili sotto la legge dominante del lavoro valorizzato,

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secondo la logica androcentrica dell’egemonia del lavoro salariato – questo stato dei fatti significa che la lotta per l’emancipazione deve passare inevitabilmente per la rivalutazione (e per la ri-distribuzione!) radicale dei lavori sociali diversi, pagati e non-pagati. Questo è il progetto di una nuovo distribuzione del sensibile. Rifiutare la posizione subalterna, la posizione di quello o quella affaticata dal fatto di essere risponsabile, di sentirsi risponsabile della cura del quotidiano: Questo è il lavoro sia teorico-culturale sia quotidiano di soggetti che lavorano per la loro emancipazione (e per quella degli altri). In questo senso à vero che si deve attraversare, cantando, le necessità del quotidiano. Bisogna farne un’attività libera e non più subalterna e solamente faticosa.

Il personale è politico. La fatica è il risultato di una falsa struttura sociale dove vita professionale e vita personale, di famiglia, di cura e di amicizia, sono inconciliabili – è il destino di quelli che cercano delle soluzioni personali per il problema politico della distribuzione del lavoro sociale-sessuale. Bisogna dunque politicizzare la propria vita e i suoi problemi. Bisogna pensarla come il luogo di una ri-distribuzione e di una ri-valutazione fondamentale del sociale. La lotta di noi tutti contro la fatica ha dunque un significato politico e etico universale. Il nostro ufficio come femministi à veramente di trovare una nuova misura: una nuova forma dell’esistenza. Questa è anche la logica della differenza sessuale: di una pratica politica del partire da sè.

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Fatica e lavoro in Simone Weil

Una delle filosofe del ‘900, secolo del lavoro industriale per eccellenza, che ha parlato di fatica è S. Weil, che nel La Condizione Operaia, ci descrive la sua esperienza in fabbrica. Parlo non a caso della fatica perché nella concezione weiliana c’è differenza tra fatica e lavoro che non coincidono necessariamente; ma anche quando Weil parla di fatica e di fabbrica, l’accento sulla fatica è duplice. La fabbrica è per la nostra autrice il luogo in cui “la forza piega alla costrizione, assoggettando anima e corpo e dove la stanchezza e la fatica sono fatti ordinari dell’esperire umano che dovrebbero avere un nome a parte”(Weil - La Condizione Operaia). Ma la fabbrica è anche luogo di gioia e armonia “Tutti i rumori vi hanno un significato, tutti sono ritmati , e si fondono in una specie di grande respiro del lavoro comune cui inebria partecipare(…). Le cinghie di trasmissione, dove ce ne sono, consentono di bere con gli occhi questa unità ritmica che l’intero corpo avverte nei rumori e nella fibrillazione leggera di tutte le cose. Nelle ore buie delle mattine e delle sere d’inverno, quando splende solo la luce elettrica, tutti i sensi partecipano di un universo dove nulla rammenta la natura, dove nulla è gratuito, dove tutto è urto, urto duro e al tempo stesso conquistatore,fra l’uomo e la materia. Le lampade, le cinghie, i rumori, la ferraglia dura e fredda, tutto concorre a trasformare l’uomo in operaio”. (Weil - La Condizione Operaia)Weil ama la fabbrica: vede in essa realizzata un ordine superiore a quello naturale, nato dall’incontro scontro uomo - natura, ed esalta la funzione operaia quale creatrice di quell’ordine. Ma accanto alla fabbrica e all’operaio come potrebbero essere vi è purtroppo la fabbrica come effettivamente è. A differenza di Marx che sembra non essere mai entrato in una fabbrica, ella si è fatta operaia , soffre insieme agli operai la costrizione e la fatica della fabbrica, un’esperienza che le ha segnato la vita e che ha determinato la sua produzione intellettuale anche quella non direttamente legata a questa tematica. Ella abbandona la posizione dialettica propria del pensiero egheliano e marxista ed accede ad una visione che potremmo chiamare di Unione dei Contrari. Nello sfruttamento del

Giovanna Borrello

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lavoro operaio, la fatica, non solo provoca la mortificazione del corpo e delle condizioni materiali , ma la morte dell’anima. Si evince, quindi, che dal lavoro come fatica non ci può essere nessun accesso alla presa di coscienza, ma anzi una mortificazione così totale della coscienza che annienta e non esalta lo spirito di rivolta. Weil paragona lo stato della coscienza a quella di una bestia da soma. Cosa ha comportato per la Weil la costrizione opprimente del lavoro in fabbrica? La docilità, “una docilità da bestia da soma”.

Per Simone il riscatto dalla servitù non avviene attraverso la dialettica e il capovolgimento del rapporto Servo - Padrone, ovvero attraverso il superamento dello stadio precedente in una sintesi superiore, ma attraverso un adeguamento(la docilità) allo stato di necessità da cui non ci si può liberare , ma dentro cui è possibile il passaggio ad una dimensione diversa con il sopraggiungere di un imprevisto che spezza la sequenza necessitante delle relazioni di causa ed effetto : per dirla in breve un intervento gratuito ,quasi come la Grazia. Non a caso il titolo del libro che ho dedicato al tema del lavoro in S. Weil si chiama Il lavoro e la Grazia (Grazia con G maiuscola che sta a significare proprio la Grazia divina, un capitolo si chiama “ lavoro mistico”). Il testo è uno dei pochi in Italia sulla Weil dedicato esclusivamente al tema del lavoro. La Weil in merito al binomio lavoro/liberazione perviene ad un giudizio opposto a quello di Marx. Per questi , com’è noto , è proprio attraverso la coscienza della propria dura condizione lavorativa che si origina il processo di liberazione; viceversa per la Weil, la fatica, la durezza del lavoro diventa un fattore che inibisce sia la comprensione che l’intuizione del proprio sfruttamento. Le condizioni del lavoro in fabbrica sono talmente pesanti da indurre a “rinunciare completamente a pensare” e cancellano “automaticamente i sentimenti di rivolta” Come dicevamo sopra, nella fabbrica Weil impara l’ubbidienza e l’adattamento alla necessità.

Anche la concezione del lavoro è duplice, da una parte il lavoro coincide con la fatica ottusa e costituisce la più grave oppressione dell’uomo, dall’altra il lavoro è Metaxù, ponte, chiave d’accesso a reale, al reale in cui il Sovrannaturale discende. Il lavoro può configurarsi come “eccesso di costrizione”,e in tal caso segna il massimo di divisione tra anima e corpo, tra io e mondo, ma può anche costituire il massimo dell’unità quando coincide con la minima, indispensabile, inalienabile condizione d’umana “fatica”.

Il lavoro è azione che mette in relazione l’esterno con l’interno e viceversa,il lavoro è azione indiretta. Il lavoro non è tanto quella “apparenza d’azione con la quale la folle immaginazione mi fa mettere sottosopra il mondo, ciecamente, a causa dei miei desideri sregolati, ma l’azione vera l’azione indiretta, quale conforme alla geometria(…) E’ con il lavoro che la ragione afferra il mondo stesso e s’impadronisce della folle immaginazione”. (Weil - Riflessioni) Weil individua nel “lavoro” lo strumento per recuperare spazi di libertà. Non si tratta del lavoro ottuso che ci ha descritto ne La Condizione Operaia, ma del lavoro lucido, che ci descrive nelle Riflessioni ossia il lavoro filtrato dal Pensiero . Il lavoro lucido diviene non solo strumento di coscienza dell’operaio ma anche realizzazione di un grado più alto di Civiltà. Il vero dramma della Civiltà Moderna non è tanto dato dalla divisione e la gerarchizzazione delle funzioni lavorative, quanto, invece, dalla inconsapevolezza dei meccanismi che governano il lavoro. Il lavoro lucido è Attenzione, quindi, insieme consapevolezza di sé ed azione, “la conquista del partire da sé” come si dice nell’editoriale di questo numero della Rivista. Il lavoro lucido è quello che si concentra nella riflessione sull’azione che sottende i processi, che per Weil è un’azione indiretta. Questa è la parte più originale della concezione weiliana: la definizione di lavoro come azione non - agente(

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cioè azione non finalizzata ad uno scopo) che non solo crea una analogia con la pratica del partire da sé ma crea un ‘analogia tra economia ed estetica. Kant, infatti, considerato come uno dei più grandi fondatori dell’Estetica moderna, sostiene che è proprio della bellezza “la finalità senza scopo”. ”La bellezza è la forma della finalità di un oggetto,in quanto questo vi è percepito senza la rappresentazione di uno scopo”(Kant - Critica del Giudizio) L’operaio secondo Weil è nella sua stessa condizione che trova la sua realizzazione; la sua condizione addirittura l’avvantaggia rispetto ad altre condizioni umane. Cosa avvantaggia il lavoratore? L’impossibilità di avere un fine. “Nessuna finalità terrestre separa i lavoratori da Dio. Essi sono soli in questa situazione. Tutte le altre condizioni implicano fini particolari che fanno da schermo far l’uomo e il bene puro”. (Weil - L’Ombra e la Grazia). Ma se questa definizione ben si attaglia all’estetica è , però , alquanto estranea all’economia che non solo ha un fine ma ha un fine difficilmente classificabile come gratuito: la soddisfazione dei bisogni. Il lavoro, per Weil, è poesia e bellezza e in quanto tale ponte con Dio. Ed è proprio in questa contaminazione tra categorie che il sapere maschile ha settorializzato come opposte che ritrovo in Weil il punto di vista femminile. Weil non si è mai dichiarata femminista, anzi si faceva chiamare da sua madre Simon, ma il suo sguardo, il suo atteggiamento anticipa il femminismo; non a caso ha ispirato tanta produzione di pensiero e di pratica politica femminista. Si pensi a Non credere di avere dei diritti , esclamazione weiliana edita ne i Quaderni che diviene il titolo di uno dei primi saggi prodotti dalla Libreria delle donne di Milano e che dà inizio proprio al femminismo della differenza. Sulla scia di Weil come donne abbiamo,spesso, utilizzato per definire i contenuti del lavoro categorie come la bellezza che appartiene a una sfera del tutto opposta a quella economico - sociale che è l’estetica, categorie che esprimono e declinano legami tra sfere del sapere profondamente diverse. Mi è di obbligo qui ricordare che la bellezza, lo stile , la grazia sono state l’ispirazione del lavoro intellettuale e politico di una femminista a tutte noi cara come Lucia Mastrodomenico, che insieme ad Angela Putino ha fondato questa rivista: anche Lucia ha collegato la bellezza a qualcosa di diverso dall’estetica , ossia l’ ha collegata alla politica e alla sfera pubblica . ”Il nostro pensiero agisce nella vita pubblica con grazia” sostiene , infatti, in un numero di “Madrigale”, l’altra rivista da lei fondata e diretta.

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Metafisica del lavoro

Il proverbio (dal latino proverbiu(m), da verbum “parola”) enuncia una verità ricavata dall’esperienza e presentata come conferma di un’argomentazione, consolidamento di una previsione, ovvero come regola o ammonimento ricavabili da un fatto. Nella realtà storico culturale e linguistica napoletana rappresenta la saggezza del vissuto popolare e in particolare di quella femminile.In questo caso specifico la vita ci racconta una verità vissuta e cioè che di fatica si muore (buttare il sangue). Il dialetto, si sa, dice di tradizioni popolari nel loro insieme composite e confuse, ma narra anche storie e descrive biografie. Storie, relazioni, comportamenti e rapporti di fiducia, in una sola parola Valori quasi esclusivamente confinati nel privato. Il privato, infatti, è il luogo dell’espressione femminile per eccellenza. A Napoli non è facile distinguere il termine Lavoro da quello di Fatica. E’ uso dire: “Vai a faticare?”, “Che fatica fai?” Difficilmente si sente usare la parola Lavoro. E una corposa letteratura che va da Viviani a Matilde Serao, da Di Giacomo a Scarfoglio, per non parlare della Raimondino o della Ferrante, ci conferma che Fatica e Lavoro sono sinonimi. Se dunque il Lavoro è fatica, accettare la Fatica di esistere non significa diminuire la dignità della donna o dell’uomo, ma accettare un legame che non contiene in se una condanna bensì la consapevolezza dell’idea di laboriosità come virtù. Pensare di separare Fatica e Lavoro è pensare nella maniera “snob” di chi sogna una società in cui sia possibile relegare la Fatica in un angolo nascosto dove non si sa chi altri ne sopporterà il peso o dove la tecnica venga affidata alle macchine. Illusione elitaria di chi non vede che vivere è faticoso, che ogni Lavoro, anche il più creativo è Fatica. Se non partiamo da questo principio di realtà condanneremo il lavoro ad essere altro da chi lo fa, cioè la donna o l’uomo e non il suo stesso vivere. E’ opportuno uno sguardo nuovo per ridare senso al Lavoro nella vita. Lo sguardo rimanda all’animo e all’intenzionalità profonda della persona, non è però qualcosa di esterno che può rendere nuovo lo sguardo, qualcosa di esterno può sorprendere e stupire per la sua novità, ma

Alessandra Macci

‘A carne fa carne, ‘o vino dà sango, e ‘a fatica fa jiettà ‘o sango.

Proverbio napoletano

Sta campagna nun è ‘a nosta, comm’ è nosta sta fatica,

Campagnuò, tu sì ‘a furmica, ma ‘a pruvvista chi t’ ‘a da?

(Donne, sole) Simmo nate ‘mmiez’a terra,

Simmo gruosse e stammo cca’!

Si nun era pè la guerra, nun vedevamo ‘e città!

Raffaele Viviani

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non rende nuovo lo sguardo, che invece rischia di rimanere estraneo al cuore e alla vita. Rischia di tornare con rassegnazione a far cadere pigramente l’essere nella malinconia del proprio esistere. C’è bisogno invece di imparare innanzitutto a cercare una “Vita Nova”. Quello che Hannah Arendt in “Vita Activa” ha definito “ …niente di più che pensare a ciò che facciamo”. Indagare il rapporto tra il lavoro e la vita. Le grandi filosofie del lavoro delle quali il pensiero occidentale dispone sono quella marxista e quella arendtiana, due filosofie controverse e, per altro, l’una contro l’altra armate. Infatti, quello che noi chiamiamo Lavoro è un’invenzione della modernità. La forma in cui lo conosciamo, lo pratichiamo e lo poniamo al centro della vita individuale e sociale è stata inventata e successivamente generalizzata con l’industrialismo. Le società industriali proprio perché fondate sul lavoro remunerato sono considerate società di lavoratrici e di lavoratori in quanto tali, vale a dire che è il lavoro che fonda la coesione e la cittadinanza. Infatti l’idea contemporanea di lavoro fa la sua comparsa solo con il capitalismo manifatturiero. Fino ad allora, vale a dire fino al XVIII secolo, la parola lavoro designava la fatica dei servi e dei braccianti che producevano sia beni di consumo sia sevizi necessari alla vita, che richiedevano di essere rinnovati giorno dopo giorno senza sosta. Così come il “Campagnuolo” di Viviani che presta le proprie braccia come forza-lavoro in campagna in cambio di una retribuzione in natura o in denaro. E’ vero la terra ci mette in relazione materialmente con il lavoro perché il lavoro è agire relazionale e sanziona in forma pubblica la nostra permanenza nel mondo. In questo senso il lavoro è quell’agire con cui creiamo una sorta di seconda vita, cioè quella vita umana che non può fare a meno del lavoro. Metafisica del lavoro? Può darsi, ma come ha detto un grande giurista del XX secolo “dietro ogni fisica c’è sempre una metafisica”. Edgar Morin parlando di crisi ha detto che questa ha sempre un carattere di risveglio. Si potrebbe quindi concludere che “sognare non è fuggire dalla realtà. E’ sganciarsi dalle evidenze, lasciare deliberatamente i sentieri dell’obbedienza, proiettarsi in una realtà che si osa pensare differente” (Riccardo Petrella).

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Fatica del corpo

Sempre mi affascinava da bambina il gioco del caleidoscopio: giravi e una, giravi e due, giravi e sempre si ricomponevano forme diverse ma simili, simili ma diverse.Il gioco metaforico non si è mai fermato e quando la voglia di intrecciare relazioni si fece grande, matura, mi sono ricordata del caleidoscopio: alla fine i pezzetti colorati vanno insieme e tracciano un profilo!

Vita lunga, relazioni tante, fatica enorme, e scegliere lungo il cammino quali sono le relazioni che vuoi avere è impresa difficile, perché tra le tante possibilità, verso le quali vai incontro e che ti vengono incontro, la scelta è spesso legata alla forma che vanno ad assumere, come se apparissero al caledoscopio.

La premessa al tuffo in questa avventura dell’associazione di CortoCircuito Flegreo, sempre più un’assorbente d’energia, viene da tanti incontri che si sono mescolati caleidoscopicamente: le comunità di donne in America Latina - dal Messico alla Colombia, in special modo con quest’ultima si sono ripresi i legami dell’origine con la Madre Terra, la Pachamama, con rispetto e religiosità, sviluppando importanti percorsi politici e relazionali attraverso la cura dei territori e dei suoi preziosi beni, acqua terra aria intrecciandoli strettamente con i corpi, in particolare quelli violati. Si squarciavano, così, per me, delle cortine pesanti, lasciando penetrare lentamente un interesse vitale che mi conduce a “fare pace con la Terra”, come scrive Vandana Shiva.Per gli incontri con luoghi difficili e con i pensieri che ne scaturivano, questi si intrecciavano con pratiche quotidiane – di un doloroso vissuto locale – di luoghi “difficili” che diventavano talmente vicini, che li stavo attraversando con le mie stesse impronte.Per l’emergenza rifiuti, i roghi, le montagne disseminate nelle strade, sotto e fuori i portoni delle

Maria Rosaria Mariniello

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case, immagini ripetute e lanciate nell’etere in tutti i momenti attraverso la TV……che orrore, che angoscia! E con le altre amiche del nostro gruppo Donne in Nero di Napoli abbiamo ragionato e ragionato tanto sul nostro sentirci dentro un luogo difficilissimo, e abbiamo incontrato lungo la strada ingombra le Donne di Acerra, le Mamme Vulcaniche di Terzigno, il Presidio delle Donne Insistenti ... cercando di mettere in comune un pensiero che diventasse pratica politica da comunicare al mondo.

Approdare all’esperienza contemporanea e parallela di CortoCircuito Flegreo era ed è il mio impegno del sì, contrapposto al NO di tanti urli lanciati e caduti. Forse l’esigenza di concretezza, di andare oltre il denunciare, di conoscere realtà che concretamente si misuravano con le proprie economie in percorsi legati alla terra, alla produzione del cibo sano, al rifiuto dell’”abbondanza”, della chimica, in cambio del raccolto prodotto naturalmente, mi ha portato ad assorbire molta parte del mio tempo in un percorso, prima informale e poi associativo: CortoCircuito Flegreo – momento di incontro tra produttori e consumatori – con il desiderio/i, scritti in bianco e nero in qualcosa che si chiama “statuto”, di avviare un’economia solidale in posizione di scambio aperto. Non più il Mercato, per costruire relazioni autentiche che mi facessero affondare le mani in un terreno pulito, proliferante lumachine e coccinelle abitanti delle terre senza veleni. Avevamo iniziato in pochi ad inventarci un Gruppo di Acquisto Solidale, che sulle prime era una piccola conventicola che si vedeva nelle case di ciascuna/o per acquistare alcuni prodotti (olio, verdure, farine e poco più) e che si spingeva via via ad incontrare altri soggetti, in maniera più diretta, per raccontare di un processo produttivo che entrasse in relazione più solida, oltre il mero io compro tu vendi, pure se a km 0! Ricordo con tenerezza il primo contatto: (nome) Fortunato produttore di olio, che timidamente seduto intorno ad un tavolino nel soggiorno di Paola, ingombro di giocattoli, ci raccontava della sua collina nell’avellinese, che dava i suoi frutti attraverso un lavoro costante di cura e devozione. Della grande voglia di andare lì fianco a fianco con lui e le raccoglitrici a riempire, grattando dagli alberi le belle olive, tante ceste e poi portarle al frantoio. Esperienza bella e poi via via tante altre, dalle piane coperte di grano ai confini con la Puglia, ai campi ondulati del Sannio, ai pascoli umidi e brumosi dell’Irpinia, e poi, e poi …

Il corpo faticava: affondare con gli scarponi nelle zolle aperte, a volte fangose, risalire pendii scoscesi abitati da erbe selvatiche, anche spinose! Mi lasciava il fiatone, le gambe irrigidite, il sudore grondava... La mente faticava: la stagionalità, le concimazioni naturali, i grani antichi recuperati, la poltiglia bordolese, il macerato d’ortica, le piante che respingono insetti famelici, il benessere animale delle capre, dei maiali, delle galline ovaiole… Quanto lessico nuovo da imparare, tanto da memorizzare ed elaborare per esserci con maggiori strumenti cognitivi, e ricordare i volti, i nomi dei produttori, le zone di ogni singola provenienza e le storie di vita diverse le une dalle altre. È stato un bel problema mettere a fuoco ogni cosa e sperimentare un percorso dai tratti comuni. L’emozionalità faticava: le visite ai produttori, sugli orti, sui terreni di allevamento, il contatto umano diretto con persone di cui a stento mi ricordavo i nomi mi faceva sentire in imbarazzo, mi domandavo: forse non dovrei essere qui? Entrare nelle case, fare domande curiose e amichevoli sulla vita e le scelte fatte, osservare un quadro alla parete o un copriletto, una tazza sbrecciata o “il servizio buono”, il modo di offrire una bevanda o la condivisione di un pranzo mi dava un’emozione forte. Lo svelare i segreti del proprio abitare era come introdurmi in un mondo che schiudeva l’uscio lentamente e a cui dovevo dare umanamente valore. Ho iniziato a scrivere di

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ognuna e ognuno di loro in quelle occasioni, perché “stringere la mano di chi ti nutre” diventava un’elaborazione significativa del mio pensiero politico sull’economia solidale e del mio sguardo verso la terra, il cibo prodotto da persone di cui riconoscevi il volto, il nome, la mani ruvide e che consegnavano nella narrazione la loro storia. Peccato non aver tenuto un diario per prendere nota dei fermenti iniziali del progetto e delle evoluzioni che da essi sono venute e stanno venendo fuori!

La memoria da sola non basta per ripercorrere a ritroso tutti questi intrecci. Sicuramente la fatica delle emozioni è stata e continua ad essere l’incontro con persone – uomini e donne – così diversi gli uni dagli altri, le une dalle altre. Ogni storia non è uguale a nessun’altra, e ogni punto di vista – seppure con punti/spunti comuni – è un “punto di vista” e che spesso confligge con estenuanti discussioni, anche in sedute notturne! Che comunque lasciano tutto aperto e che spesso riportano tutto allo stato di partenza.

Quest’esperienza mi sta rendendo forte ed anche stanca.Forte perché, attraversando la concretezza di vite che hanno scelto la “scomodità” dei cicli della Natura, ho smesso di credere all’infallibilità dei percorsi comuni e omologanti, perché ora più che mai ho contezza che ogni percorso è ogni volta comune ma distinto; che il cammino è circolare e talvolta il cerchio che credi di percorrere sta tracciando orme discontinue, più sopra o più sotto. Stanca perché ogni volta tenacia e fatica devono convivere nella dimensione solitaria dell’esperienza, che è sempre e soltanto in compagnia di me stessa, punto di partenza ed arrivo della ricchezza delle relazioni, il mio inesauribile capitale.