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Anno II - Numero III - Rabbia Officina

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Anno II - Numero III - Rabbia

Officina

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La redazione

Alessia Milillo IH Claudio Martinelli IVH Domitilla Caponio IH

Eleonora De Camillis VD Fabrizio Iacovazzi IB Flavia Fucilli IIK

Flavio Cibelli IB Francesca Gallo IH Giuseppe Albergo IG

Nicola Moretti IA Pamela Moliterni VD Serena Schiavone IIK

Simona Clarizio IA Sofia Padovano VD

Il giornale Agorà, La Canestra, Utòpia… il giornale scolastico del nostro Liceo, nella

sua lunga tradizione, si è trasformato di anno in anno, ogni redazione

l’ha fatto proprio e ha lasciato un segno del suo passaggio. Nel 2014 è

diventato Officina, ispirandosi alla rivista letteraria fondata da Pier

Paolo Pasolini nel 1955. Da tre anni a questa parte è un progetto inte-

ramente autogestito e autofinanziato da noi studenti, perché, anche in

mancanza di fondi, desideriamo portarlo avanti, credendo fermamente

nella sua importanza e nel suo enorme potenziale. Officina è un luogo di

fermento, di dibattito, di scambio, ospitale e accogliente, che offre a tutti

la possibilità di esprimersi e di dare fondo alla propria creatività e fanta-

sia. Vogliamo che quest’anno Officina ritorni nelle classi del Socrate ad

alimentare nuovi confronti e ci auspichiamo che ogni studente e studen-

tessa la senta propria e voglia dare il suo contributo.

Il tema – la rabbia Il filo rosso che collega tutti gli articoli presenti in questo numero di

Officina è la rabbia: un sentimento primitivo, potente, che ci accomuna

tutti e che abbiamo, perciò, deciso di studiare, analizzare e declinare in

tutte le sue sfumature; abbiamo svolto ricerche, ci siamo rivolti a degli

psicologi, siamo stati aiutati da chi l’ha trasformata in arte: Basquait,

Matthieu Kassovitz con il suo film “La Haĩne”, i The Doors, John Lennon,

Bob Dylan... Con “La Chimera” di Vassalli abbiamo visto come l’invidia e

l’ignoranza si trasformino in cieca rabbia in ogni epoca: nel ‘600 come al

giorno d’oggi, fra haters sui social network e violenti neofascisti e

neonazisti. Zerocalcare, invece, ci ha permesso di riflettere sulla nostra

generazione talmente delusa e scoraggiata da non riuscire a trarre dalla

rabbia qualcosa di costruttivo. Ci auguriamo che possiate trovare i nostri

articoli e le nostre riflessioni interessanti e ci piacerebbe sentire la vostra

opinione. Vi aspettiamo in redazione!

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Ad Antonella

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La vita è un cinema, tanto che taci

Le tue bottiglie non hanno messaggi

Chi dice che il mondo è meraviglioso

Non ha visto quello che ti stai creando per restarci

Rimani zitto, niente pareri

Il tuo soffitto: stelle e pianeti

A capofitto nel tuo limbo, in preda ai pensieri

Procedi nel tuo labirinto senza pareti

Da Caparezza -“Una Chiave”

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LA RABBIA (breve guida all’utilizzo della rabbia)

La rabbia, come le

altre emozioni

della triade

dell’ostilità1, è

spesso associata a

primo impatto ad

un esperienza e a

delle sensazioni

negative, ma

bastano a

chiunque pochi

attimi di riflessione

per maturare un

punto di vista più

ampio: la rabbia

permette di

superare difficoltà, di reagire, di inibire

le paure per raggiungere uno scopo

ritenuto necessario, di abbattere gli

ostacoli più intimidatori. Come può

allora un’emozione dal potenziale tanto

alto, un’emozione fondamentale per la

sopravvivenza stessa, essere

considerata istintivamente “negativa”?

La risposta è semplice, si trova

all’interno del concetto stesso di rabbia.

Che cos’è la rabbia?

La rabbia (emozione primitiva2) è la

tipica emozione che scaturisce in seguito

ad una frustrazione, fisica o psicologica.

Eppure, come chiunque può constatare,

la relazione frustrazione rabbia non

è immediata, ma necessita d’un fattore

intermedio: la volontà che si attribuisce

ad un ente, di provocare la nostra

frustrazione. La rabbia, quindi, nasce da

un DOLORE, ed è necessaria per

provocare in noi quella passione che

inibisce la paura e ci porta ad attaccare

l’oggetto frustrante, liberandoci dal

dolore e provocando in noi piacere e

soddisfazione.

Negli ultimi

millenni però, la

percezione di

quest’emozione è

mutata, in seguito

ad una naturale

evoluzione

emotiva e ad

un’artificiale

inibizione, imposta

dai costumi della

società. Gli effetti

di quest’inibizione

hanno lasciato

evidenti tracce

nella storia umana e ancora oggi minano

gli equilibri sociali. Quando la rabbia non

viene sfogata (e bisogna precisare che

solo in rari ed estremi casi la rabbia

sfocia in violenza fisica o verbale), essa

può sia evolvere in rancore o rabbia

narcisistica, sia subire dei cambiamenti:

l’oggetto verso cui si indirizza la rabbia

si sposta (spesso in modo casuale), fino

ad arrivare all’identificazione

dell’oggetto frustrante con se stessi o ,

peggio ancora, con TUTTO ciò che ci

permetta di sfogarci. Razzismo,

sessismo e specismo sono solo i casi più

evidenti.

Esiste un modo per evitare che

questo jolly, di cui la natura ci ha

premurosamente fornito, si

trasformi in uno strumento di

distruzione di massa? La rabbia, a

differenza di ciò che scrivono numerosi

rotocalchi, non va domata, né

tantomeno “sprecata” accanendosi

contro un povero sacco da box: la

rabbia va COMPRESA (identificazione

1La triade dell’ostilità comprende il disgusto, il disprezzo e, apice della piramide, la rabbia.

2Un’emozione che può essere osservata sia in bambini molto piccoli che in specie animali diverse dell'uomo.

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della frustrazione e dell’oggetto frustrante), RIELABORATA (riflessione sull’oggetto frustrante e contestualizzazione dell’accaduto) ed infine ESPRESSA. Per riuscire a compiere questo viaggio all’interno delle proprie emozioni è necessario un requisito, tanto caro a noi classicisti: bisogna conoscersi. Conoscenza e cultura sono gli strumenti che ci permettono di accedere ed usufruire delle nostre emozioni. Imparare significa abbattere confini, ampliare i propri orizzonti e saper cambiare opinione: l’uomo colto è colui che sa empatizzare con l’altro e vedere nell’altro se stesso. Chi riesce a trattare il prossimo con amore, chi medita sulle conseguenze delle azioni proprie ed altrui, sarà portato a riconoscere le ingiustizie del mondo più vividamente,

avendo sviluppato una maggiore sensibilità, e quindi a provare più frustrazione … spesso essere colti comporta essere arrabbiati. Eppure, il sapiente ha le facoltà per sfruttare la propria rabbia in modo costruttivo, trasformando quel fuoco interiore, che distrugge e brucia, in una fiamma che non ustiona ma riscalda e illumina. Nel sapiente rabbia e amore sono posti sullo stesso piano: la cultura e lo studio non passivo regalano all’uomo quella rabbia che permette all’amore per il mondo di non spegnersi mai.

Flavia Fucilli II K

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Cos’è lo “Sportello dello Psicologo”?

Si tratta di uno sportello di ascolto di 35 ore, gratuito e aperto a tutti voi, studenti e studentesse del Liceo Socrate. Gli incontri non hanno una

finalità terapeutica, ma vi offrono l’opportunità di confrontarvi con qualcuno in possesso di competenze specifiche relative alle problematiche che possono sorgere alla vostra età. La vostra privacy e la vostra intimità sono ovviamente protette dal segreto professionale.

Cosa ne pensa dei pregiudizi nei confronti degli psicologi?

Sono molti i pregiudizi nei confronti degli psicologi e spesso sono più gli adulti che i ragazzi a mostrare reticenza. Le sedute sembrano quasi delle chiacchierate, in cui potete sentirvi a vostro agio. Non ci sono contenuti “giusti” o “sbagliati”. L’adolescenza viene spesso definita come una “seconda nascita”, un momento in cui ai ragazzi non basta più

il confronto con i loro genitori o con gli insegnanti. E lo psicologo, come un amico, ma con delle competenze in più, può essere d’aiuto per dare il giusto peso alle difficoltà che si incontrano in questo particolare momento della vita.

Il tema scelto per questo numero è la “rabbia”. Come gestirla e trasformarla in un sentimento costruttivo?

La rabbia è un’emozione universale; ci spaventa, perché ci fa perdere il controllo. Molte volte crediamo che la soluzione per gestirla sia reprimerla, ma questo può portare a conseguenze estremamente negative e deleterie. La soluzione, invece, sta nel mezzo: canalizzare la rabbia, ovvero saperla assecondare nel modo giusto. Non ci sono, però, delle regole determinate che insegnino a farlo; trovare autonomamente la propria modalità di gestione di questo sentimento rappresenta, infatti, un importante momento nella crescita di ogni individuo.

a cura di Domitilla Caponio IH

LO SPORTELLO DELLO PSICOLOGO intervista alla dott.ssa Maria Antonella

Balzano, specializzata in psicologia dell’infanzia e dell’adolescenza

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Corriamo o rincorriamo? Ascoltiamo o sentiamo? Parliamo o muoviamo solo le labbra dalle quali escono flebili suoni? Viaggiamo o più semplicemente scappiamo? Vorremmo urlare eppure non riusciamo ad emettere neanche una vocale. Ci definiscono una generazione sbagliata, priva di valori e quasi insulsa, mia nonna direbbe: gioventù bruciata. Forse non siamo bruciati, magari ardiamo ancora perché il fuoco si è spento ma la brace, il cuore è ancora vivo. Un vecchio detto dice: "un uccello in gabbia non canta per amore, canta per rabbia". Qual è la nostra gabbia allora? È fatta di cemento, di lamiera, di legno? Ha realmente delle pareti in fondo, e se le ha, si potranno mai abbattere? Siamo immersi nei sentimenti, nelle emozioni più strazianti e sconvolgenti, in quelle che ti fanno battere il cuore a ritmo di bit e di una frase vista su un

muro, ma quella più invadente, quella più ostile, ma a cui ogni giorno stringiamo la mano è la rabbia. Vi assicuro che è difficile essere così piccoli rispetto a quest'emozione così grande ed adulta. Una rabbia che fa da padrona ad ogni sigaretta, a ogni pagina strappata, a ogni riga scritta e ricancellata almeno venti volte; la rabbia delle sei di mattina, la rabbia degli autobus presi al volo, che Fantozzi al nostro confronto ci fa un baffo. La rabbia di non sentirsi parte di qualcosa, di essere troppo o troppo poco, di, come diciamo noi, "sfrasiare" sempre . Quell'impeto, quella voglia di scappare, quella voglia di sparire che ci accomuna tutti come le versioni di Cesare in quarto ginnasio, a volte prende il sopravvento e in un istante, in una frazione di secondo, sei dissolto chissà dove. Ci chiedete cosa vorremmo? In cosa speriamo e volte anche in cosa crediamo. La risposta è sempre più vaga, sempre più irrisoria e incerta, ma la volete la verità? Quella che arde ancora? Vorremmo un mondo che non è esattamente come quello che ci state lasciando, speriamo nel domani, nel "io speriamo che me la cavo". Crediamo in tutto e in niente, poiché ci ritroviamo costantemente a un bivio tra cos'è il bene e cos'è il male, tra chi frequentare e tra chi no, tra cosa sognare e cosa ripiegare e chiudere a chiave in un vecchio baule. Vorremmo svegliarci un giorno ed essere ancora in tempo, capire quali sono le nostre scelte sbagliate, accorgerci che il mondo è là fuori e non nella nostra cameretta con i muri tappezzati di vecchi miti ormai andati. Vorremmo essere padroni non del mondo, ma quanto meno della nostra vita. Chiediamo troppo? Probabilmente no, in fondo questo è solo l'urlo della generazione bruciata.

Simona Clarizio I A

TUTTO QUELLO CHE AMO FARE

È ILLEGALE O IMMORALE

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L’ERA DIGITALE TRA LUCI E OMBRE Allo scoccare del terzo millennio, il

mondo delle intercomunicazioni globali e

la sfera delle dinamiche sociali e

politiche sono stati catapultati in una

nuova era: l’era digitale. Con l’isteria

di Internet e con le varie rivoluzioni in

campo informatico che stanno

travolgendo gli utenti, il fenomeno della

rete si fa strada tra luci e ombre.

I sentimenti e le opinioni personali

escono a pezzi dall’incontro-scontro con

lo strapotere del web e la sua potenza

in costante ascesa. È ormai dilagante la

tendenza a perdere di vista, volenti o

nolenti, il valore della libera espressione

del proprio pensiero. La possibilità data

dai social media di condividere i propri

pensieri senza limiti di tempo o di

distanza e senza censure si sta

trasformando in un abuso della libertà e

ci sta gradualmente facendo perdere di

vista il valore delle parole. Una così

grande libertà di esternazione delle

proprie emozioni, impiegata

impropriamente, ci fa perdere di vista i

sentimenti stessi che cerchiamo di

esprimere, troppo impegnati nell’atto di

renderli plateali piuttosto che viverli.

La banalizzazione dei sentimenti finisce

per causare una visione alterata della

realtà. Si pensi al sentimento della

rabbia, forse quello più abusato sulle

piattaforme mediatiche. Ci si lamenta e

ci si adira così tanto che a volte si

finisce per perdere il senso della propria

collera e, in un vano tentativo di

ritrovarlo, si estremizzano questi

sentimenti fino al limite del ridicolo, fino

al punto di privarli totalmente di rilievo.

I protagonisti siamo noi: i

“millennials”, nati insieme al

millennio, inghiottiti sin dalla nascita

dalla rete informatica globale che ormai

regola quasi ogni azione e transizione, a

tal punto da non contemplare mai la

possibilità di farne a meno.

Semplicemente perché il mondo, per

noi, è ormai questo ed è impossibile

concepirne uno diverso. Occhi incollati

allo schermo, urla fatte di pixel, ira e

aggressività gratuita… Se pure talvolta

commettiamo l’errore di sfogarci sui

media senza poi concretizzare questo

nostro sfogo in azione, altre volte invece

la fase reattiva del nostro sentimento

c’è, ma è oscurata dall’invadenza e dalla

platealità della fase precedente.

La rabbia è nella natura dell’essere

umano, non appartiene a una cultura o

a un’epoca. Essa è insita in qualsiasi

generazione: cambia solo il modo in cui

viene espressa. La nostra rabbia, nel

millennio dell’egemonia tecnologica, ha

un valore o è solo un sentimento

vuoto? E se così fosse, la colpa è

davvero da imputare a Internet? L’arrivo

della rete si può considerare

un’evoluzione dell’umanità, o piuttosto

una sua involuzione?

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Forse dovremmo chiederci se siamo

anche noi colpevoli di questo “abuso

della libera espressione” che ha portato

alla svalorizzazione del sentimento; se

la nostra rabbia costituisce un metodo di

sfogo, di catarsi, e può risultare in

qualcosa di produttivo, o se è

semplicemente rabbia che genera altra

rabbia, ed è dunque deleteria per noi

stessi e per gli altri. Rispondendo a

questi ultimi quesiti, troveremo più

facilmente la risposta anche ai primi.

Alessia Milillo I H

Viviamo in una società in cui l'importante è apparire uguali, viviamo ormai in una società in cui ci dichiariamo “unici" quando tutte le nostre scelte e le nostre opinioni si fondano su pensieri altrui.

La ricerca del nostro io è ormai impossibile perché “uguale" è giusto , “diverso" è sbagliato e tutti noi accettiamo questa realtà ma ciò significa che la nostra società è formata dalla maggioranza di deboli, venendo ingannati da questi ideali bruciando le tappe dei loro veri interessi. Noi tutti dovremmo cercare di scoprire i nostri veri desideri, le nostre reali aspirazioni.

La diversità spesso ci fa paura poiché tutti noi abbiamo qualcosa di speciale, di diverso e di unicamente bello ma spesso cerchiamo di reprimere le nostre caratteristiche più esclusive per timore di non essere accettati o di essere definiti diversi, difatti noi ci priviamo di essere quello che vogliamo per cercare la totale omologazione.

L’omologazione quindi è una forma di “soffocamento” passivo per tutti noi che speriamo di essere ben accetti nei confronti di un sociale sempre più incline al voler apparire qualcuno che in realtà non siamo: fenomeno altamente tossico per ogni generazione, poiché si sta eliminando ogni forma di neutralità e soprattutto di spontaneità per voler essere qualcuno che non si è realmente; ciascuno di noi infatti indossa ormai una maschera per neutralizzare i comportamenti definiti diversi e insoliti per paura del pregiudizio del prossimo fondando ogni nostra caratteristica su una figura che in verità non esiste ma è frutto di cambiamenti, di falsità e finzione. Inoltre questo fenomeno si fonda su una caratteristica

fondamentale: la superficialità poiché la volontà del voler essere tutti uguali deriva da una scarsa analisi dell'anima di ciascuno di noi. Ormai ha importanza solo l'aspetto esteriore e non si è inclini a mettere in rilievo la psicologia di noi uomini.

I media e gli strumenti di informazione ,

inoltre, danno un esempio sbagliato di

come si dovrebbe essere , proponendo

modelli eccessivamente “perfetti” che

aiutano solo a frantumare la debole

autostima di ciascuno, generando a

volte numerose problematiche. Questi

mezzi di comunicazione, attraverso le

comunissime pubblicità, infatti, cercano

di influenzare il pensiero di ogni singolo

individuo proponendo articoli di ogni

tipologia, dall'abbigliamento al cibo o

addirittura facendo riferimento ad

alcune modalità di vita rendendoci

volontariamente incapaci di selezionare

ogni elemento che prende parte alla

nostra vita secondo i nostri veri interessi

e prendendo in considerazione ciò che è

definito “bello" ed “appropriato" da voci

martellanti pubblicitarie che girano e si

divulgano attraverso una televisione,

una radio o uno smartphone.

Ovviamente queste “voci" sono gestite e

pilotate da soggetti che influenzano le

menti dei consumatori a loro vantaggio

quindi inoltre spesso sono attuate a

scopo economico perciò dobbiamo

renderci conto di essere oppressi

costantemente da un sistema solo per

degli interessi personali e cercare di

creare delle personalità che ci

distinguano da ognuno per aspetto

morale ed estetico.

Pamela Moliterni V D

SOCIETÀ INTIMORITA

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Una macchina fotografica è capace di

fare centinaia di scatti diversi l’uno

dall’altro ma solo quelle immagini che

non immortalano semplicemente

l’aspetto esteriore di oggetti o persone

e che ci mostrano l’anima dei soggetti,

sono dette fotografie. Il fotografo, o

meglio, l’artista attraverso le foto

trasmette emozioni, sentimenti e stati

d’animo provati, momenti felici e tristi e

luoghi e persone incise nel cuore. Con

la fotografia, non solo si esprimono

sentimenti, ma si può anche

denunciare e urlare la propria rabbia

contro tutte le aberrazioni e le storture

della nostra società. Uomini e donne

coraggiosi girano il mondo in cerca di

scatti che mostrino una realtà spesso

nascosta ai nostri occhi. E’ questo il

caso del fotogiornalista sudafricano

Brent Stirton che con la sua foto di un

rinoceronte vittima dei bracconieri ha

vinto il premio Wildlife

Photographer of the Year 2017,

concorso fotografico britannico

organizzato dal Museo di storia naturale

di Londra. La foto mostra la carcassa di

un rinoceronte nero morto da 24 ore

che giace nel fango in una riserva

naturale del Sud Africa, il cui corno è

stato tranciato dai bracconieri. Al posto

del magnifico corno resta solo il rosa

della mutilazione, che

colpisce violentemente lo

sguardo come un pugno

allo stomaco. Con questa

immagine Stirton,

impegnato già da anni

nella lotta contro il

bracconaggio vuole

denunciare lo spietato

massacro dei rinoceronti

indiani e africani uccisi per

il valore dei loro corni

oggetto di un prosperoso

commercio tra la Cina e il

Vietnam per il loro

presunto potere curativo.

Gente senza scrupoli si arricchisce

mutilando e uccidendo animali indifesi e

in via di estinzione speculando sulla

ignoranza di persone ingenue e

disperate che pensano di poter curare o

di poter risolvere i loro problemi con le

“virtù magiche” del corno del

rinoceronte nero, di cui attualmente

sono rimasti 30.000 esemplari e

solamente cinque specie viventi. Il

fotografo riesce a scioccarci con una

foto che pur essendo così cruenta è

sconvolgente nella sua semplicità

perché attraverso la figura chiave del

rinoceronte mutilato, segnala un

improrogabile problema che va risolto al

più presto poiché tra qualche anno la

fauna del nostro pianeta si ridurrà

talmente tanto che resteranno in vita

solo esigue specie con tutte le inevitabili

e drammatiche conseguenze per il

nostro pianeta. La foto è un

campanello d'allarme che ci vuole

spronare a utilizzare tutta la nostra

rabbia per trovare una soluzione perché

non dobbiamo pensare alla rabbia come

ad un qualcosa di distruttivo, pieno di

violenza e di odio, ma anzi bisogna

imparare ad utilizzarla per reagire e

opporsi in maniera costruttiva a chi sta

distruggendo il nostro ecosistema.

Eleonora De Camillis V D

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5 CURIOSITÀ SULLA RABBIA

(Foto di Manuela Kulpa)

Ti hanno mai detto di contare

fino a 10, quando sei arrabbiato? Avevano ragione! Quando ci si

arrabbia la zona del cervello

responsabile di elaborare le

informazioni in istinto (e

permetterci di reagire

rapidamente a pericoli,

minacce e stress), l’amigdala,

prevale sulle altre. Il sangue

affluisce rapidamente verso

questa zona del cervello che

in pochi millisecondi è in grado di

farci arrabbiare. Basta aspettare

qualche secondo per permettere ai

lobi frontali di elaborare e

razionalizzare l’accaduto, dandoti la

facoltà di controllare le tue azioni.

Ti hanno mai dato dell’isterica?

Rispondi che… Il termine “isteria” (da “hysteron”,

utero) viene coniato da Ippocrate

secondo il quale questa malattia era

causata nelle donne proprio da uno

spostamento dell’utero. Decine e

decine erano i sintomi che (solo e

soltanto nelle donne) portavano alla

diagnosi di isteria, eppure la terapia

proposta rimaneva sempre e solo

quella: il matrimonio, per gli antichi

greci, il rogo, per i medici precedenti

il XVIIa.C. Il termine isteria è stato

tolto dal DSM solo nel 1980, in

quanto estremamente sessista e non

corrispondente ad un effettiva

patologia.

Da Bruce Banner ad Hulk Ti è mai capitato di tirare

pugni, calci, di correre

per ore o di rompere

oggetti.. per la rabbia?

Per quanto questo sia un

comportamento da

evitare, ha una

spiegazione (che non ti aiuterà a

riparare il vaso a cui i tuoi tenevano

tanto). Quando ci arrabbiamo

la frequenza cardiaca, la tensione

arteriosa e la produzione di

testosterone aumentano, e l’emisfero

sinistro del cervello diventa più

stimolato; il tuo corpo è pronto a

reagire, i muscoli pieni d’ossigeno

urlano al tuo cervello: AZIONE!

Non fare quella faccia … oppure

sì? Sopracciglia corrucciate, angoli della

bocca tendenti verso il basso,

mandibola serrata e denti scoperti..

la riconoscete? È l’espressione della

rabbia! Nella maggior parte dei

mammiferi le manifestazioni e le

espressioni facciali della rabbia sono

le stesse, così da permettere a tutti di

sapere quando evitare

un animale, che sia

cane, orso, bonobo o

uomo.

Μῆνιν ἄειδε θεὰ... Freud non è stato di certo il primo ad

analizzare e a studiare gli effetti e le

cause della rabbia. Tra i suoi

predecessori, uno spicca e risalta

rispetto agli altri, tra noi classicisti …

Omero! L’Iliade è il poema “dell’ira”

per eccellenza, nonché il primo testo

in cui vengono descritte le fasi, i

moventi e le conseguenze della

rabbia. Che l’autore ne fosse

consapevole o no, aveva appena dato

un contributo fondamentale per

tracciare la storia della rabbia nella

società umana indietro nei secoli.

Flavia Fucilli II K

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MACERIE

Negli ultimi anni si è sentito spesso

parlare di Zerocalcare, un autore che

riesce a parlare ai giovani in racconti

autobiografici di grande successo.

Tra dialoghi in romanaccio e riferimenti

alla cultura pop anni ’80 il fumettista di

Rebibbia è riuscito sempre a inserire

spunti di riflessione sulla sua

generazione e sulla società.

In Kobane Calling è riuscito a far

capire con chiarezza la drammatica

situazione dei curdi e della città di

Kobane, assediata, in un ottimo

reportage in cui narrazione e tempi

comici vengono perfettamente calibrati.

In Macerie Prime (la sua ultima fatica)

ci riporta a Roma, dove ritroviamo gli

amici di Zero conosciuti nei libri

precedenti (La profezia

dell’armadillo, Un polpo alla gola

ecc...)

Ed è proprio su questi personaggi che ci

si concentra nell’opera.

Ciascuno di loro deve fare i conti con la

propria situazione attuale: c’è chi vive

ancora con i genitori, c’è chi decide di

sposarsi e figliare e chi non può

permetterselo, c’è chi ha studiato tanto

per poi finire a lavorare in un’azienda

che produce cucchiai.

Le vite di questi personaggi (ispirate a

quelle di persone realmente esistenti)

hanno preso nel corso degli anni delle

direzioni inaspettate.

Nelle interviste Zerocalcare afferma:

“Se penso che le persone con le quali

sono cresciuto – persone migliori di me

che ancora adesso quando parlano

prendo appunti per segnarmi le cose da

dire nelle interviste – fanno l’inventario

di notte nei supermercati, l’unico modo

che ho di rappresentare le loro vite è

questo: un mondo di macerie.”

Un mondo di illusioni tradite e sogni

infranti.

Macerie lasciate da chi c’era prima e da

cui bisogna iniziare a ricostruire.

Il mondo mostrato da Zerocalcare ha

un’ambientazione post-apocalittica ed è

infestato da mostri e demoni, i quali si

nutrono dei sentimenti dei protagonisti,

che siano la paura dell’irreversibilità,

della crescita o la rabbia per quello che

non si riesce ad ottenere dalla vita.

Nulla di cui purtroppo non

siamo abituati a sentir

parlare…

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Macerie Prime è solo la prima parte di

un’opera più ampia che vedrà la sua

conclusione in un secondo volume in

uscita a maggio.

Il volume magari non è l’ideale per chi

volesse avvicinarsi ai fumetti di

Zerocalcare (per quello è sempre

consigliato “la profezia dell’armadillo”)

ma è comunque un’opera gradevole e

interessante, riuscitissima anche dal

punto di vista grafico: splash page

memorabili e impostazione delle tavole

mai statica, uno stile più pulito e

“maturo”, come del resto avevamo

notato negli ultimi libri.

Consigliatissimo.

Fabrizio Iacovazzi I B

Anche Zerocalcare, protagonista del racconto, non se la passa bene.

Lui ce l’ha fatta, ha trovato stabilità economica, ha una bella casa.

Eppure preme su di lui un forte senso di responsabilità dovuto alla popolarità.

Gli “accolli”, le scadenze, il non voler deludere il pubblico, la tensione, la paura di “diventare un’altra cosa, troppo lontana da come sembrava giusto essere”.

Il tutto lo porta ad un crollo psicologico.

Quella sensazione causata dalla nostra rabbia che ci porta a dire:

“Sai che c’è? Chissenefrega.”

IL NAZIFASCISMO È MORTO? Domenica 3 dicembre Matteo Renzi,

segretario del Partito Democratico,

intervistato da Fabio Fazio a Che Tempo

Che Fa, per la prima volta propone una

riflessione che fa riflettere parecchio:

“Diamo per scontato che I giovani

sappiano tutto riguardo l’Olocausto e la

Shoah. Stiamo sottovalutando il peso

dell’ignoranza che diventa occasione

pericolosa per il farsi strada della

violenza”, “Ognuno può votare per

qualsiasi partito politico, ma sul

nazifascismo non si scherza”,

aggiunge. “Non possiamo fare finta di

nulla. Bisogna dire che queste cose sono

patrimonio di tutta la politica.” Inoltre

afferma: “Questa priorità educativa e

culturale di raccontare e far sì che la

memoria abbia un valore deve

accomunare tutte le forze politiche.”

Queste affermazioni giungono in merito

ad alcuni episodi di cronaca avvenuti

prima e dopo la stessa intervista: la sera

del 29 novembre, durante l’assemblea

dell’associazione Como senza Frontiere,

associazione che si occupa

dell’integrazione dei rifugiati, un gruppo

di naziskin ha fatto irruzione nel chiostro

di Sant’Eufemia ed ha obbligato i

presenti all’ascolto di un volantino di

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di propaganda. Da tempo si denuncia una forte presenza di stampo fascista in Lombardia. La sera del 2 dicembre viene trovata una bandiera nazista affissa a una parete di un ufficio della caserma dei carabinieri Baldissera, vicino Firenze, sede del sesto battaglione dell’arma e del comando regionale, filmata da una telecamera. Il carabiniere responsabile del gesto è stato deposto dalla carica e arrestato. La mattina del 7 dicembre un gruppo di esponenti di Forza Nuova a volto coperto protesta con bandiere, striscioni e fumogeni sotto la sede del giornale La Repubblica, incitando a boicottare il giornale stesso e L’Espresso, di sua proprietà. Nove di loro sono stati identificati e arrestati. In seguito l’A.N.P.I. ha chiesto il bando dell’associazione politica; ovviamente la richiesta è stata ignorata e messa sotto silenzio. Un'altra forza politica orientata alla parte più estrema della destra è Casa Pound, che forte dell’appoggio del clan malavitoso degli Spada ad Ostia è riuscita ad entrare nel consiglio comunale superando la soglia del 4%. A livello nazionale Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, si sta allontanando dalle linee ferree del suo predecessore Umberto Bossi, dando al suo partito una connotazione non più federalista, cioè per l’indipendenza del Nord Italia, ma nazionalista e anti-europeista, rendendo obsoleti i vecchi slogan e creandone di

nuovi. Condivide la stessa linea di pensiero il Front National di Marine Le Pen, la quale si è affermata come seconda forza politica del paese alle presidenziali spaventando i vertici di Bruxelles che già avevano ammonito Nigel Farage, leader dello

UKIP, partito antieuropeista britannico, prima che spingesse l’acceleratore sul referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, sfidando l’allora primo ministro Cameron e facendo false promesse all’elettorato. In Germania, cuore economico dell’Europa, si fatica a creare un governo stabile, e si avrà bisogno di nuove elezioni poiché Martin Schulz si è opposto a un governo con la cancelliera Merkel e il partito nazionalsocialista AfD ha acquistato molti consensi, dopo che l’accordo con i verdi e i liberali non è andato a buon fine. In Polonia la società è spaccata in due: da un lato la sinistra, legata ai valori di Solidarnosc, dall’altro la desta xenofoba e antieuropeista che l’11 novembre ha trasformato il corteo previsto per la festa dell’indipendenza polacca in una manifestazione ricca di scontri con la polizia. La soluzione per l’Europa di liberarsi dei nazionalismi e dalla rinascita di piccole minoranze di stampo nazifascista è il fare mente locale degli errori, fare fronte comune davanti ai problemi e sviluppare una coscienza unitaria anche davanti alle sfide internazionali. Nel 2018 parlare di lotta al nazifascismo sembra quasi assurdo dati i valori di democrazia che hanno mosso fondatori dell’Unione Europea dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Claudio Martinelli IV H

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Il sabato dell’undici settembre 1610 nella campagna di un villaggio del novarese, Zardino, Antonia Spagnolini viene bruciata sul rogo per stregoneria. Ha poco più di vent’anni e la sua vita non è mai stata semplice e serena: lei è un’esposta, una delle bambine e dei bambini che vengono abbandonati alle cure delle suore nel ‘600, ai tempi della dominazione spagnola; in quel periodo, infatti, i soldati iberici dettano legge nelle valli dell’Italia settentrionale senza trovare nessuna opposizione e spadroneggiano nei piccoli villaggi e nelle città, in cui sono soliti violentare le donne, come se sia del tutto lecito e normale. Di conseguenza il fenomeno dei neonati lasciati negli orfanotrofi, esito di quegli abusi sessuali, è ampiamente diffuso. Per Antonia quello di essere un’esposta è un marchio indelebile, che l’accompagnerà per tutta la vita: tutto in lei, a partire dai capelli corvini e dalla carnagione scura, urla al mondo che è figlia della violenza, e quindi non è degna di essere considerata al pari degli altri. Solamente i suoi genitori adottivi, Francesca e Bartolo Nidasio, le riconoscono delle qualità e le valorizzano, ma per tutti gli altri ella è destinata a rimanere per sempre un’emarginata. Per di più Antonia è bella, estremamente bella, da incanto, da portare il trambusto attorno a sé, dovunque fosse capitata; e questo non fa altro che aumentare esponenzialmente la distanza che c’è fra lei e coloro che la circondano. “Che diritto aveva una ragazza del popolo, e per giunta esposta, d’esser così bella? Non era forse implicito, in

tale bellezza eccessiva e fuori luogo, un elemento scandaloso e diabolico?” si domandano le suore che l’hanno allevata, gli abitanti di Zardino e gli inquisitori che si occupano del suo caso. Tutti loro sono corrosi dall’invidia, non solo dovuta al suo aspetto fisico, ma anche alla sua intraprendenza, alla sua curiosità e alla sua bontà: caratteristiche che, evidentemente, in quell’epoca non sono apprezzate! E invece contribuiscono ad alimentare quel pregiudizio e quel

disprezzo che diventeranno la causa della sua morte. Antonia, come molte delle ragazze consegnate al braccio secolare, infatti, non è mai stata una strega, in quanto non ha mai commesso “malefici” o “incantesimi”, ma ha avuto solamente il coraggio di opporsi alla dottrina rigida della Chiesa dell’epoca e alla mentalità chiusa della gente; l’essere donna, difatti, nel ‘600 significa venire giudicata in base al proprio aspetto fisico e al proprio comportamento: se una ragazza è brutta, nessuno la vuole ed è considerata adatta solamente a lavorare in casa o ad assistere un malato, se, invece, è bella, allora è proprietà dell’uomo; se si ribella, è sconcia o è una strega. Con questo quadro dai caratteri cupi e negativi della società del ‘600, tirato fuori dal “nulla” di una valle piemontese, con la sua concezione della donna, con i suoi “disvalori”, Sebastiano Vassalli, che pubblica “La Chimera” nel 1990, vuol far riflettere su quanto sia cambiato rispetto a quattro secoli fa e sui quanto ci sia da cambiare ancora oggi sul modo di relazionarsi con il “diverso”.

Domitilla Caponio I H

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Quando l’arte

fa rabbia. Emilio Carlo

Giuseppe Maria

Salgàri, nato a

Verona il 21

agosto 1862, è

riuscito ad

imprimere, grazie

ad un’attività

editoriale

abnormemente

prolifica, il suo

nome nella lista

dei più grandi

romanzieri italiani

del XX secolo e

forse, di tutti i tempi. Nome che magari

risulterà sconosciuto ai lettori meno

avvezzi, ma che sopraggiunge al ricordo

di chiunque citando il nome di alcune

delle sue opere più celebri come ad

esempio “Sandokan” oppure “Il

Corsaro Nero”.

Il tratto distintivo di questo scrittore, in

genere apprezzato dai più, oltre

l’asciuttezza e la semplicità dello stile,

privo di anacoluti e di perifrasi, è la

straordinaria perizia di particolari nella

descrizione di ambienti, popoli, tradizioni,

piante e animali esotici. I suoi romanzi,

infatti, hanno ambientazioni che variano

dalla Cina all’India al sud America e

persino all’Artico. I suddetti luoghi

vengono resi in maniera talmente

accurata nei dettagli da riuscire a

trasportare facilmente il lettore in una

giungla amazzonica o nel palazzo di un

rajà, restituendone fedelmente gli odori, i

colori, i sapori e gli immortali personaggi.

Verrebbe dunque da pensare che questo

autore, tra l’altro apprezzato anche

all’estero (è ricordato come lo scrittore

preferito di Che Guevara, che lesse 63 dei

suoi romanzi) abbia condotto una vita

peregrina ed errabonda attraverso i

continenti e le nazioni. Ma in verità ci si

sbaglierebbe poiché, mirabile dictu,

Salgàri non lasciò mai la penisola. Tutto il

suo sapere e la sua approfondita

conoscenza dei luoghi più disparati era

frutto di uno studio condotto “a tavolino”

nella biblioteca di famiglia.

Quest’autore, però, portò sulle spalle un

terribile peso, tanto da condurlo, il 25

aprile 1911, a togliersi la vita,

tagliandosi la gola. Egli infatti visse

l’ultimo periodo della sua vita in estrema

povertà e colpito da una tragedia dopo

l’altra: nel 1887 morì la madre e poco

tempo dopo, nel 1889, anche il padre,

suicida. Nel 1892 sposò sua moglie, Ida,

che non molti anni dopo, finì per soffrire

di disordini mentali talmente gravi da

essere costretta a ricoverarsi in un vero e

proprio manicomio. Furono proprio le

spese contratte per le cure della moglie a

farlo finire sul lastrico. Infatti a duri colpi

dal punto di vista familiare ben presto si

aggiunsero gravi problemi di carattere

economico.

Dovette indebitarsi pesantemente e i suoi

editori, approfittandosi della sua

situazione, lo costrinsero a pubblicare con

ritmi disumani tre libri all’anno: era

obbligato a passare giorni e notti sullo

scrittoio e ad adoperare il poco tempo

libero per le documentazioni necessarie

alla stesura degli stessi, tutto ciò ad una

retribuzione da fame. Il pover’uomo non

resse quello stile di vita frenetico e

disperato e, disgraziatamente, si tolse la

vita a soli 49 anni, ignorato da tutti e

lasciandoci una delle produzioni letterarie

più ampie della lingua italiana e passando

ai suoi figli solo 150 lire e molti debiti da

saldare. Questa, ahimè, è una storia che

fa rabbia, ossia quando l’arte, la libera

espressione dell’artista, il trionfo del suo

estro artistico, è ridotta, per colpa del

mero e basso gioco capitalista, a mucca

da mungere a più non posso. E vi

confesso che dopo aver letto della triste

fine di questo geniale scrittore, non potrò

più leggere un suo romanzo senza, come

minimo, l’amaro in bocca. Per quanto

piccolo, questo è il mio modesto tributo

e, se vogliamo, riscatto a colui che è

stato protagonista della mia infanzia

letteraria. Giuseppe Albergo I G

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LA HAÎNE «Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all'altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: "Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene." Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio.» L’Haîne (L’odio) racconta la storia di un mondo, di una società allo sbando che più si avvicina all’atterraggio e più si ripete che va tutto bene, preferendo in questo modo essere cieca davanti alla cruda verità. Matthieu Kassovitz porta così sul grande schermo una pellicola che si rivelerà emblematica per il futuro della cinematografia europea. Paragonabile a un reportage, il film ci permette di immedesimarci nella vita dei tanti ragazzi appartenenti ai sobborghi parigini più malfamati. Il film è ambientato, infatti, in una Parigi in preda agli scontri più feroci nati dopo la cattura e il pestaggio della polizia nei confronti di un ragazzo apparentemente innocente, Abdel. Nasce tra i suoi amici, Vinz, Saïd e Huber la sete di vendetta. Questi ci mostrano tre sentimenti di rabbia differenti. Quella di Vinz è una rabbia che è stata fino a quel momento repressa, ma che è scoppiata d’impeto, è trapelata al di fuori di sé e lui non può far a meno di essere un attaccabrighe, sentendosi sempre colpito nel personale appena gli si dice qualcosa di spiacevole, in più è convinto che per ottenere rispetto si debba sempre ricorrere alla violenza. La rabbia di Hubert è dovuta, più che all’accaduto,

alla distruzione in fiamme della palestra che gestiva e che aveva faticato per costruire, lo vediamo però sempre calmo, silenzioso perché la

sua rabbia lo porta al voler evadere da dove si trova in quel momento e immagina così di scappare lontano dai tumulti. Saïd è colui, invece, che si accoda: non prende posizione nelle discussioni e arranca tra i doveri che gli spettano, in quanto i suoi fratelli sono quasi tutti carcerati, e la vita tumultuosa del ghetto. Sequenza dopo sequenza, scopriamo insieme a questi personaggi la verità su uno Stato che è sempre più opprimente e che cerca invano di non vedere i disagi dei ceti più bassi e su una comunità arrabbiata, stanca che, da come intuiamo nel significativo spezzone in cui Saïd sostituisce con una bomboletta spray sul manifesto che dice “Le monde est à vous” la v con la n, cerca di far intendere una volta per tutte con un mare di proteste e manifestazioni, che “il mondo (non) è vostro” come si dice tentando malamente di scaricare l’imponente responsabilità nelle mani dell’altro, come se fosse qualcosa che non ci riguardasse, ma che “il mondo è nostro”. La pellicola è distribuita in bianco e nero perché non abbiamo bisogno di nessun’altro effetto se non della verità, delle emozioni forti quali la rabbia e la forza di sovvertire lo stato delle cose. Allo stesso modo noi non dobbiamo solo desiderare la fuga come Hubert, ma anche di lottare come Vinz.

Francesca Gallo I H

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“My revolution” (in lingua

originale “Ma révolution”) di Ramzi Ben

Sliman, prodotto in Francia nel 2016, è

selezionato a Berlino e al “Giffoni Film

Festival”. Ha come sfondo la Primavera

araba: un insieme di proteste

cominciate nel 2010 nel Nord Africa e

parte del Medio Oriente, specialmente in

Tunisia, Algeria e Marocco. Queste sono

cominciate per la pessima economia

della Tunisia e, per le stesse ragioni,

altre rivolte sono state innescate negli

altri paesi del mondo arabo, portando

alle forzate dimissioni di quattro

governatori. Nel corso della rivoluzione

ci sono stati atti estremi come suicidi e

auto-immolazioni, partendo dal povero

commerciante Mohammed Bouazizi, il

cui darsi fuoco a causa del sequestro

della sua merce da parte della polizia ha

risvegliato l’insoddisfazione dei cittadini

e iniziato i moti rivoluzionari.

Ramzi Ben Sliman, pur essendo nato e

cresciuto a Parigi, si è interessato alla

situazione come soggetto per il suo

primo film in quanto di origini tunisine.

Marwann (Samuel Vincent), il

quindicenne protagonista del film, non

è, però, altrettanto attirato dalle

sue origini; è troppo concentrato sui

classici problemi adolescenziali per

preoccuparsene: è, infatti, innamorato

di una ragazza, Sygrid (Anamaria

Vartolomei). Con l’aiuto dell’amico Fèlix

(Lucien Le Guern), fa di tutto per

attirare la sua attenzione e per

diventare popolare come lei a scuola,

ma nulla sembra funzionare. Una sera

s’imbatte casualmente in un rally di

strada organizzato da dei giovani

tunisini e si fa catturare dalla musica e

dalle danze. Non curandosi di cosa stia

realmente accadendo, afferra una

bandiera e balla con loro. Senza che lui

se ne accorga, un giornalista del più

importante quotidiano di Parigi lo

fotografa, e, da quel momento,

Marwann è diventato il volto della

“Rivoluzione dei Gelsomini”. Accetta

di buon grado il ruolo di eroe e di

simbolo (anche se non crede realmente

negli ideali che rappresenta) perché

questo gli ha dato una chance per

avvicinarsi a Sygrid, affascinata dalla

sua nuova identità di eroe. Il ragazzo si

informa sugli avvenimenti che accadono

Portabandiera per caso Dritto al cuore...della Rivoluzione!

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nel suo paese e partecipa alle

manifestazioni per mantenere la

maschera di paladino della giustizia, il

che lo porta a far parte del gruppo dei

ragazzi più in vista della scuola e a

fidanzarsi con Sygrid. Ottiene tutto

quello che ha sempre voluto, insomma.

Ma questo suo comportamento ha

colpito anche i suoi genitori, i quali

prenderanno una decisione che

sconvolgerà questo idillio… Il

lungometraggio è rivolto a un pubblico

giovane, in quanto tratta i temi del

primo amore,

dell’adolescenza e del

modo in cui gli

avvenimenti concernenti

la politica siano visti e

vissuti dalla maggior

parte dei ragazzi a

quest’età.

Il primo amore di

Marwann è Sygrid,

l’unico vero motivo per

cui continua a recitare il

suo nuovo ruolo, colei

per cui farebbe tutto.

L’adolescenza è

rappresentata in tutta la

superficialità delle mode

e di alcuni contesti

sociali solo per

l’accettazione da parte

dei propri coetanei, per il

bisogno di mantenere un’immagine, un

ruolo da recitare quotidianamente, di cui

la perfezione del copione diventa il più

importante o l’unico obiettivo da

raggiungere. Gli avvenimenti politici in

generale, o più in dettaglio le

manifestazioni, che erano una volta

condotte quasi esclusivamente da

giovani, ora sono da essi ignorate o

sfruttate, come dal protagonista del

film, per scopi più futili di popolarità.

Il personaggio di Marwann è quello del

classico teenager dei giorni nostri, ma

non eccessivamente stereotipato. È se

stesso solo con il migliore amico, Fèlix,

che per questo, pur non ricoprendo un

ruolo principale, è fondamentale per

comprendere lo sviluppo psicologico del

protagonista, che si confida con lui.

Sygrid non è solo la ragazza da

conquistare, ma ha un suo spessore

psicologico, anche se su di lei sappiamo

ben poco. Infatti, è indipendente e crede

davvero negli ideali per cui protesta.

Una scena all’inizio del film potrebbe

lasciar intendere che provasse già

qualcosa per Marwann, ma, come lui,

fosse vincolata dalla sua “reputazione”.

Un altro personaggio fondamentale,

seppur in secondo piano,

è la madre del ragazzo,

perché è lei che

dall’inizio pensava alla

Primavera araba e le sue

parole, tanto piene di

passione, sono copiate

dal figlio per apparire

informato e interessato a

riguardo. Inoltre, da lei

dipenderà il colpo di

scena che cambierà la

sorte della famiglia. Il

nonno è il personaggio

comico del film, che

appare in ben poche

scene, ma ispira

Marwann nel continuare

la sua farsa.

Dal mio punto di vista, il

regista ha svolto un

ottimo lavoro nel rappresentare la

prospettiva dell’adolescente, ma il

tempo dedicato a ciascuna scena non è

stato spartito giustamente. Alcune scene

di poco conto si sono dilungate troppo e

altre, effettivamente utili, durano per

troppo poco o mancano di dettagli, il che

lascia lo spettatore con delle domande

irrisolte. L’aggiunta di una voce

narrante, magari quella del ragazzo,

avrebbe aggiunto carattere al film e

chiarito alcuni punti non chiari,

risolvendo ogni dubbio di chi guarda.

L’ambientazione, invece, è realistica e

ben studiata, così come la veridicità

storica degli avvenimenti.

Sofia Padovano V D

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JEAN-MICHEL BASQUIAT RABBIA SUI MURI

Mamma portoricana, papà haitiano, Jean-Michel Basquiat nasce il 22 dicembre 1960, a Brooklyn (NY). Passa la sua infanzia nel ghetto della città e sin da piccolissimo sviluppa un notevole interesse per l’arte, affascinato dai cartoni animati e dai musei di New York (il Brooklyn, il Metropolitan e il MoMA in particolare), presso cui la madre lo accompagna spesso. Nel 1968 il divorzio dei genitori lo porta ad un disagio interiore non indifferente, tanto che - preso da un impeto di rabbia - nel 1975 scappa di casa, utilizzando una panchina come letto. Viene arrestato per vagabondaggio e nel 1976 si iscrive alla “City as A School”, un istituto per ragazzi di talento, ma che non potevano essere ammessi in scuole tradizionali. Questa condizione di isolamento e discriminazione, di una società che ancora non accetta la convivenza di diverse realtà etniche e culturali, di una vita da reietto, in un quartiere separato dagli altri, in una scuola che riconosce solo apparentemente il valore dei suoi studenti, porta Basquiat a un livello di rabbia e di non sopportazione estremo. Insieme all’amico All Diaz inizia a fare uso di LSD e, unendo le loro capacità artistiche, i due cominciano a produrre

graffiti per le strade di New York, firmandosi come SAMO© (acronimo per Same Old Shit, “la solita vecchia merda”). Bomboletta e pennarello indelebile: questi sono gli strumenti che danno voce al dinamismo interiore di Basquiat. Il colore disomogeneo, e steso in maniera tutt’altro che armonica. I colori accesi e contrastanti, le forme spigolose, le linee discontinue, le figure elementari. Come se un bambino avesse preso per la prima volta una matita e stesse dando sfogo alla sua creatività, con totale noncuranza di regole, canoni e norme estetiche. I soggetti di Jean-Michel non sono chiari: si tratta di linee colorate confuse tra loro, che a volte danno origine a volti umani, perlopiù arrabbiati, con i denti ben in vista e le sopracciglia aggrottate. Sui muri di New York ci sono rabbia e voglia di riscatto. Una rabbia incontenibile, senza raziocinio, espressa nel pieno del suo impeto, in nessun caso combinata a una rielaborazione razionale, esattamente come succede per i bambini. Una voglia di riscatto che, purtroppo, Basquiat non riesce ad ottenere in vita. Il vortice delle droghe, la situazione sociale, l’irruenza della situazione complessiva, accentuano la sua inquietudine, la rabbia prende il sopravvento sulle altre emozioni, diventa quasi primordiale, insaziabile, inarrestabile, impossibile da controllare e da razionalizzare; impossibile da salvare.

Serena Schiavone II K

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Rise Above – Black Flag, Damaged (1981) – Hardcore punk -.

…we are born with a chance…and I am gonna have my chance…

Prima traccia di uno degli LP più famosi e importanti nella storia del punk rock, “Rise Above” è forse il brano più celebre della band californiana. La traccia si apre in pieno stile hardcore: un riff di chitarra semplice ed estremamente veloce accompagnato da una batteria impazzita che per tutto il brano suona in maniera frenetica e dinamica. Dopo una breve variazione parte subito il cantato del minaccioso frontman Henry Rollins che, incazzato come un diavolo, urla nel microfono sul riff che accompagna ogni strofa. A ogni strofa sussegue una variazione di accordi che dà inizio ad un brevissimo ritornello lungo due versi. Dopo due strofe e due conseguenti ritornelli arriva un assolo tipicamente punk: virtuosismo completamente assente, velocità fulminante e note stridule rendono la composizione ancora

più interessante proprio perché il rifiuto dell’artificio tecnico e dell’esibizionismo è una scelta stilistica non sempre dovuta a scarsa bravura o incapacità di eseguire un corretto assolo. Seguono poi

un’altra strofa/ritornello e un outro sulle note della strofa. Quel che rende “Rise Above” un capolavoro e di conseguenza una delle più memorabili canzoni di genere punk della storia è la perfetta combinazione delle componenti del brano che dà vita ad un impeccabile prototipo di canzone hardcore punk: risultato dell’enorme fiuto di Rollins e compagni nel trovare e comporre melodie per ogni strumento che, nonostante durezza e complessità, creano una paradossale armonia. La voce di Rollins si fonde eccellentemente con la chitarra pesantemente distorta di Greg Ginn: musicalmente, lo stile dei black flag è uno stile aggressivo, cattivo, dirompente, ruvido, pieno di rabbia, energia ed esplosività. Uno stile che ha influenzato vari artisti appartenenti alla scena alternative degli anni 90 come i Nirvana e i Melvins, che ha saputo distinguersi dal punk anni 70, caratterizzato da melodie più allegre e meno pesanti, e che soprattutto pone un muro fra i Black Flag di “My war”(1984), inclini alla

sperimentazione e ad una composizione più articolata, e quelli di “Damaged”, uomini primitivi dal sound selvaggio. Il testo del brano è un chiarissimo invito a insorgere e a lottare contro i potenti e gli oppressori, che nel brano vengono insultati e definiti come gelosi codardi. Le parole dei Black Flag rivendicano la rabbia degli emarginati, dei vessati, dei deboli. Una rabbia feroce che si scaglia contro chi tenta di mettere in ginocchio gli altri. Una rabbia che si traduce in attenzione alla politica, alla denuncia dei mali della società e in interesse verso la condizione degli ultimi, temi che soprattutto l’hardcore punk ha sempre trattato e che per questo rendono nobile e mai privo di senso o banale il movimento punk anni 70/80, un movimento capace di smuovere le masse e di risvegliare la coscienza di seguaci e non.

Masters of War – Bob Dylan, The Freewheelin’ Bob Dylan (1963) -.

You've thrown the worst fear that can ever be hurled, fear to bring children into the world…

Musicalmente parlando, non c’è molto da dire sulla canzone; come già fatto in precedenza, Dylan sceglie una melodia popolare, qui quella di Nottamun Town, sulla quale modella il suo semplice stile chitarristico e il suo cantato caustico dai toni profetici e predicatori. A rendere il pezzo, seppur composto agli esordi, un gran capolavoro del canone dell’artista sono le sue strofe, ognuna delle quali tira fuori schiette e brutali proteste, sentenze e minacce contro l’industria bellica, il militarismo e tutte quelle persone di potere definibili “mastri della guerra”, responsabili per la morte di milioni di persone. Non sono adottate metafore o simbolismi di alcun genere, perché il messaggio deve essere chiaro: i peccati commessi da tali persone sono così gravi che “nemmeno Gesù li potrebbe mai perdonare” e “meriterebbero di morire al più presto”. Di nascosto, dietro maschere e scrivanie, progettano strumenti di morte, li mettono nelle mani degli incoscienti e fuggono non appena accadono tragedie, si rintanano nei loro lussuosi palazzi e contano il denaro

accumulato massivamente, con il quale pensano vanamente di potersi ricomprare un’anima che da troppo tempo è volata via.

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Ogni elemento di questo loro stile è perfettamente rintracciabile in Fortunate Son, dedicata, come il resto dell’album, alla classe proletaria, di cui tutti i membri del gruppo facevano parte. Il pezzo è in particolare un’ironica e violenta accusa rivolta ai “figli fortunati” dei ricchi, dei capi militari e dei politici, che in un modo o nell’altro sfruttavano la loro posizione per sfuggire alla coscrizione o perlomeno per trovare una posizione rassicurante al di fuori del vero e proprio conflitto armato che, al tempo della pubblicazione del pezzo, avveniva in Vietnam. L’ultima strofa è inoltre un derisorio riferimento a quel eccessivo e cieco patriottismo tipico di chi “è nato con gli occhi che luccicano di stelle”.

Drunken Butterfly – Sonic Youth, Dirty (1992) – Noise Rock -.

…deep down inside, drunken butterfly...

I Sonic Youth sono sempre stati dei tipi strambi, non a caso sono rinomati come artisti fondamentali per la scena alternative anni 80/90. Ma quando nel 92’ pubblicarono “Dirty” lasciarono tutti a bocca aperta: un album interamente noise rock, genere al tempo pressoché sconosciuto, che ebbe ottimi riscontri da parte del pubblico. “Drunken Butterfly” è una delle tracce più potenti del disco ed ha una sonorità decisamente violenta ed abrasiva, ma allo stesso tempo intrigante.

Un’ intro del tutto singolare dal sound sporco, confuso e aggressivo apre il brano scombussolando l’ascoltatore che viene assordato dalla cruda distorsione di due chitarre. Si parte subito con la prima strofa, nella quale delle note strumentali rabbiose e cattive vengono cavalcate dalla voce sinuosa e sensuale di Kim Gordon. Nel ritornello la voce della bassista cambia, facendosi più ruvida ed energica, capace di addolcire le chitarre di Thurston Moore e

Lee Ranaldo, che per tutto il brano sembrano strafatti di cocaina (e probabilmente lo erano). Dopo il ritornello segue un’altra strofa/ritornello e si arriva all’assolo che,

nonostante la povertà di note, crea un’atmosfera catastrofica e misteriosa. Vi è poi un lungo bridge pieno di effetti e suoni bizzarri (come noise rock vuole che sia) che precede l’ultima strofa ritornello del brano.

Il brano parla di un ragazzo a cui piace divertirsi con una ragazza prendendola in giro e illudendola con parole d’amore, quando in realtà non ricorda nemmeno il suo nome ed ha il solo obiettivo di portarla a letto. Le parole di Kim Gordon descrivono i sentimenti della ragazza, che reagisce con scombussolamento e rabbia alla falsità del ragazzo, definendo se stessa una farfalla ubriaca, disorientata dalla cattiveria di un vero stronzo.

The Unknown Soldier – The Doors, Waiting For The Sun (1968) -.

And it's all over for the unknown soldier… Make a grave for the unknown soldier, nestled in your hollow shoulder…

La mano creativa di Jim Morrison, abilissima nel creare una poesia ricca di simbolismi e metafore che, incastrate in situazioni e ambientazioni suggestive, celavano le sue emozioni e istinti più forti, ha tuttavia dimostrato, analizzando tutta la carriera dei Doors, di aver sempre dato prove minori nel realismo impegnato, e questo pezzo, chiaramente anti-guerra, sembra quasi un’accozzaglia di luoghi comuni del genere, ma aggiunge in realtà un’interessante figura alla galleria classica del gruppo, quella appunto del “milite ignoto”. Egli non è altro che la rappresentazione della situazione d’anonimato della sofferenza e della morte del singolo soldato, la cui vita, confrontata con tutte le altre di milioni che in guerra si spengono, sembra perdere qualsiasi valore per diventare un altro semplice numero che va ad unirsi a bilanci e statistiche delle vittime, continuamente riportati dalle TV nei salotti di migliaia di famiglie, la cui realtà è ben diversa. E’ interessante osservare come la struttura del pezzo e le sue dinamiche siano funzionali alla situazione riportata dal testo; la canzone vera e propria, introdotta da una litania in cui è evocata la figura del “milite ignoto” e accompagnata da una terrifica linea d’organo, è interrotta nel mezzo da un’esecuzione, magistralmente prodotta ed eseguita con rullate, colpi di grancassa e urla a ritmo di marcia.

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Ogni strofa offre delle immagini diverse, alcune più criptiche di altre, che, in prospettiva, danno delle previsioni su quel

che potrebbe essere il comportamento tipico dell’uomo del III millennio, schizoide e vittima dei suoi stessi vizi, consumista patologico e perennemente coinvolto in una trucida guerra sanguinolenta in cui innocenti vengono torturati e stuprati con strumenti all’avanguardia. Si tratta sicuramente di un capolavoro a 360 gradi ed è curioso notare come differisca, sia per dinamiche e tematiche, da ogni altra canzone dell’album; la strumentazione è ricca di numerosi elementi, tra cui fiati, e ognuno di essi è trattato con distorsore, specialmente voce (Greg Lake) e chitarra, suonata dal fondatore del gruppo Robert Fripp, ideatore del riff marziale che contraddistingue il pezzo e della sezione di mezzo, orientata sull’ acid jazz, in cui viene eseguito un assolo particolarissimo, che lambisce l’atonalità. Importanti da segnalare per l’esecuzione sono anche il drumming creativo e ricco di Michael Giles e il basso acrobatico di Greg Lake, successivo fondatore degli ELP. La produzione, per quanto chiassosa, non è mai ridondante e ogni suono, provenga esso da una chitarra o da un disco graffiato, è perfettamente nitido e distinguibile dagli altri.

Limo Wreck – Soundgarden, Superunknown (1994) – Grunge -.

The wreck of you is the death of you all...

“Limo Wreck” è la nona traccia di “Superunknown”, quarto album in studio della celebre band di Seattle. Il brano si apre con un intro inizialmente allegra che dopo pochissimi secondi assume un tono cupo, misterioso, quasi inquietante, grazie soprattutto alle note del basso di Ben Sheperd. Il cantato malinconico e addolorato di Cornell contribuisce a dare un’atmosfera post-apocalittica alla musica che accompagna ogni strofa. La voce del leader dei Soundgarden rimane sommessa e triste per le prime due strofe, per poi risvegliarsi nel pre-chorus,

accompagnata da un effetto di chitarra elettrizzante, ed esplodere in tutta la sua potenza nel ritornello. E’ proprio il ritornello il punto saliente del brano:

Cornell sfoggia tutto il proprio virtuosismo vocale insieme all’altrettanto virtuoso Kim Thayil che con note sfuggenti, acute, veloci e taglienti anima la voce raschiante di Cornell. Al tutto vengono conferiti volume e forza da un basso dal tono gravissimo e dalla tuonante batteria di Matt Cameron. Seguono poi un’altra strofa e un altro ritornello e si arriva al momento cruciale; dopo un bridge fra secondo ritornello e pre-chorus il brano collassa letteralmente nell’ultimo ritornello: tutti i componenti sembrano impazziti e si sbizzarriscono col proprio strumento, Cornell raggiunge livelli vocali della scala sonora spaventosi, facendo quasi a gara con la chitarra di Thayil il quale, completamente fuori controllo, si scatena in un’improvvisazione assurda e sublime, ottenendo come risultato un’esplosione di suono che chiude il brano nella confusione più totale, rispecchiando d’altronde il senso delle parole del cantante. La canzone parla di come il mondo stia scivolando verso il baratro a causa del menefreghismo, dell’indifferenza e del disinteresse della gente di fronte ad una società che si fa schiavizzare da dogmi e regole imposte dall’alto e distrarre da idiozie e permette ai padroni di operare un lavaggio del cervello di massa. Cornell ha compreso tutto ciò e fa un monito: prima o poi questa cecità sarà la rovina di noi tutti e il nostro relitto, cioè i nostri corpi e le nostre anime pigre e insipienti che rifiutano di aprire gli occhi e comprendere, ci ucciderà tutti. Cornell si abbandona alla rabbia, rabbia che si tramuta in apatia e tristezza per la tragica fine che verrà.

Fortunate Son – Creedence Clearwater Revival, Willy And The Poorboys (1969) -.

Some folks are born silver spoon in hand, don't they help themselves…But when the taxman comes to the door, the house looks like a rummage sale…

In quello che fu l’anno di attività più intenso per il gruppo, furono rilasciati ben tre album (Bayou Country, The Green River e Willy), ognuno dei quali contenente canzoni che consacrarono i CRR al successo internazionale e allo status di gruppo cardine del rock classico americano. La formula vincente di quelle canzoni era impressa nel loro stile energico, caratterizzato da una sezione ritmica impetuosa arricchita dalle robuste chitarre di Tom e John Fogerty e dal canto di quest’ultimo, grintoso e passionale.

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Gimme Some Truth – John Lennon, Imagine (1971) -.

…No short-haired, yellow-bellied son of Tricky Dicky is gonna Mother Hubbard soft soap me with just a pocketful of hope…

Nonostante il pezzo fosse stato rilasciato per la prima volta da Lennon come traccia nel suo secondo album solista Imagine del 1971, esso fu originariamente concepito nel 1969, durante l’ultimo anno di militanza nei Beatles, e vede la partecipazione di George Harrison alla chitarra, che accompagna la voce con degli arpeggi echeggianti e suona un intenso assolo distorto con la tecnica della slide guitar. Già a un primo ascolto si possono cogliere alcuni aspetti della canzone, tra cui il tono frustrato e aggressivo del cantato e un forte senso di protesta; si tratta, infatti, di una forte invettiva del cantante contro atteggiamenti ipocriti, chauvinisti e manipolatori assunti da molti politici dell’epoca, di cui ha avuto chiaramente abbastanza, e il suo unico fine è, come ripetutamente affermato, di ottenere “un po’ di verità” da parte di questi sulle loro reali intenzioni. È fatto particolare riferimento a Richard Nixon (qui riportato come Tricky Dicky – “Dicky l’imbroglione”), ben noto per essere coinvolto in diversi scandali e accusato di aver favorito l’escalation della Guerra in Vietnam e che in seguito mise Lennon al centro di un’indagine del FBI, con l’intento di farlo espellere dagli USA a causa del suo avverso attivismo politico.

I be so glad when the sun goes down – Artista sconosciuto, brano eseguito da Ed Lewis, Sounds of the South (1993) – Canto popolare blues/Delta blues -.

You will never be worried when the sun goes down…

Ah, il blues, che dire a riguardo se non che è probabilmente il dono più prezioso di cui l’uomo sia mai stato omaggiato, essenza di vita che prende forma sonora, sentimento che parla, canta e suona. Non basterebbero tutti gli elogi del mondo per rendere omaggio a quello che, a parere di molti (e anche mio), è il genere più bello che sia mai comparso sulla faccia della terra. Ma ora si parla di un particolare tipo di blues: il canto popolare. Un mondo purtroppo poco esplorato, poco conosciuto

e spesso sottovalutato, ma che allo stesso tempo nasconde varie perle e brani molto interessanti.

“I be so glad” è un classico dei canti popolari blues, le sue origini sono completamente sconosciute ma, grazie ai cultori del genere e agli appassionati, è giunto fino a noi in un remake in studio cantato dallo storico trombettista jazz Ed Lewis. Il canto è strutturato in maniera molto semplice: un cantato di poche note che segue un testo per tutta la durata del brano. Assai curioso il ritmo che, nella registrazione, viene scandito da delle catene. A ogni frase della voce solista corrisponde un coro che ripete la stessa frase o pronuncia semplicemente un “Oh oh”. La voce solista procede malinconica, straziata e rassegnata per tutto il brano, piena di dolore e sofferenza, e sembra quasi che il coro, con un tono più acceso e solenne, compatisca il suo dolore. Una voce rassegnata proprio perché conscia del fatto che non sarà mai libera, una voce commovente e capace di raccontare la triste storia di un intero popolo, vittima dello schiavismo e del razzismo per decenni. Una voce che, stanca di tutto il male subito e piena di rabbia per questo, desidera che tramonti il sole perché la notte la libererà dalla fatica del lavoro e dall’umiliazione della condizione di schiava, perché per quella notte potrà forse essere libera, essere voce di un uomo e non di un animale. Si potrebbe, in maniera più pessimistica, interpretare il tramonto a cui si allude come la morte che, con potere catartico, rompe le catene della schiavitù, concedendo la tanto sperata e agognata libertà che non può essere altro che celeste, poiché quella terrena si è dimostrata irraggiungibile.

21st Century Schizoid Man – King Crimson, In The Court Of The Crimson King (1969) -.

Nothing he's got he really needs…Innocent raped with Napalm fire… Twenty first century schizoid man…

Il paroliere Pete Sinfield fornisce il testo a quello che è probabilmente l’emblema del movimento progressive e il più grande successo dei King Crimson, che, nella sua formazione originale, comprendeva tra le menti più creative e geniali del rock inglese.

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Anno I - Numero I - The red vinyl a.s. 2017/18

Officina del suono A cura di Nicola Moretti IA & Flavio Cibelli IB