Acque immobili

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Alessia Cavallo, giallo Sulle rive di un lago meraviglioso e all’apparenza incontaminato, viene trovata morta una donna, considerata pazza e solitaria da tutti. Bianca, un giovane commissario competente e donna problematica, vuole a tutti i costi concludere rapidamente l’indagine, forse perché, pur non avendola conosciuta, sente un’affinità dolorosa con la vittima. Bianca è infatti delusa dal genere umano e fugge qualsiasi relazione sentimentale, ma nel corso dell’indagine scoprirà molte cose su se stessa e sulle ragioni che l’hanno portata a non avere più fiducia negli altri. Con l’aiuto di un giovane viceispettore, si troverà a districarsi tra vecchi segreti, nuovi omicidi e, inaspettatamente, con il male dell’ultimo decennio: lo sversamento di sostanze inquinanti. Dovrà inoltre confrontarsi con i fantasmi che la tormentano per riuscire a ricominciare a vivere e a risolvere l’indagine, mettendo da parte talvolta anche le sue convinzioni, ma anche a mettere in serio pericolo...

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In uscita il 23/12/2015 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio febbraio 2016

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ALESSIA CAVALLO

ACQUE IMMOBILI

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ACQUE IMMOBILI

Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-941-8

Copertina: immagine di Daria Lucci

Seconda edizione Dicembre 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi a-nalogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale.

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Immobile Era un posto strano. Un luogo dove ti sentivi sospeso nel tempo. Immo-bile. Forse dipendeva dalla luce. Al lago la luce è particolare, sembra quasi filtrare dalle canne e dalle foglie degli alberi. Bianca aveva sempre odiato quell’immobilità, da ragazza la trovava snervante e un po’ deprimente. Dicono che il lago sia un luogo distensi-vo, e proprio per questo non adatto ai soggetti depressi. Aveva sempre trascorso qui il mese di luglio, comunque dedicato agli studi, e forse per questo le sembrava un posto di cui non riusciva a sfrut-tare al meglio le possibilità. E a volte le sembrava non le avesse quelle opportunità di svago e di di-vertimento che gli altri riuscivano a cogliere. Adesso il destino, o meglio il caso, l’aveva riportata lì a Ronciglione, nel suo ruolo di vice questore aggiunto. Chissà perché in Italia si pensa che dando alle cose un nome più lungo e pomposo se ne cambi la sostanza; fin da piccola aveva sempre desiderato essere un commissario e invece adesso lavorava come vice questore aggiunto. Quella mattina si era svegliata presto; ancora non si era abituata ai rumo-ri del lago, così diversi da quelli di città. La innervosiva il silenzio assor-dante che caratterizzava la notte, e all’alba veniva svegliata dai versi di uccelli, anatre e rane. Si era trasferita momentaneamente nella casa di vacanza dei genitori, una vecchia villa che necessitava di urgenti e considerevoli lavori di ristruttu-razione, ma che godeva di una posizione invidiabile. Affacciava sul lago. Davanti aveva solo una distesa di canne e un paesaggio di montagne così particolare che sembrava quasi di essere in un piccolo paesino della Svizzera, non certo nell’entroterra laziale. L’alba e il tramonto erano speciali, la luce trasformava il paesaggio ren-dendolo irreale. Così aveva preso l’abitudine di sedersi in veranda con

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un caffè o un tè, a seconda dell’ora, per ammirarne la vista. La rilassava e la aiutava a schiarirsi le idee, a catalogare gli eventi accaduti e a trova-re soluzioni ai quesiti che le poneva il suo lavoro. Stava facendo colazione fuori. Aveva dovuto indossare un giaccone pe-sante pur essendo fine settembre perché l’umidità del lago entrava nelle ossa e abbassava la temperatura. Solo a fine mattinata il sole avrebbe di-sperso l’umidità e l’aria sarebbe diventata di nuovo fin troppo soffocan-te. La telefonata non la colse di sorpresa, c’era un’atmosfera così irreale che si aspettava accadesse qualcosa. Il vice ispettore Giannini la informò con voce balbettante che era stato rinvenuto un cadavere nel lago, il pubblico ministero era già stato avvi-sato e stava arrivando, per cui era necessaria anche la sua presenza. Il ri-trovamento era avvenuto a pochi metri da casa sua, e questo invece la sorprese non poco. In alcuni minuti giunse alla piccola spiaggia che si apriva tra le canne e la trovò già brulicante di gente che faceva avanti e indietro dalla strada, muovendosi intorno a un cadavere riverso nell’acqua bassa. Era una donna, non giovane; il viso non si vedeva poiché era adagiata nell’acqua sulla pancia. L’acqua era talmente bassa che in realtà il corpo era sdraiato sulla sabbia, un piede incastrato nelle canne, i capelli grigi che le galleggiavano intorno alle spalle seguendo il movimento dell’impercettibile risacca. Era in vestaglia e apparentemente non presen-tava ferite. Quando gli agenti la tirarono fuori dall’acqua, il medico legale notò subi-to i lividi intorno al collo e comunicò che la morte doveva risalire proba-bilmente alla tarda serata. Bianca osservò che le piante dei piedi della donna erano pieni di graffi e si chiese dove e come avesse perso le scarpe. Il vice ispettore Giannini la raggiunse con il suo inseparabile taccuino in mano. Era giovane e inesperto, al suo primo incarico lontano da casa. Metteva quasi tenerezza con i suoi modi impacciati. Quello era il suo primo cadavere e il colorito verdastro che gli caratterizzava il volto mo-strava tutta la sua incapacità a gestire emotivamente la situazione. Nonostante ciò si era dato da fare, aveva raccolto molte informazioni mettendo a frutto la sua solerzia nordica. «Dottoressa Parisi, buongiorno!» esclamò con un tono più alto e sostenu-to del dovuto per mascherare la tensione.

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«Buongiorno vice ispettore, cosa abbiamo?». Il giovane cominciò a snocciolare le informazioni raccolte, contento di poter fissare gli occhi sul taccuino. «La donna si chiamava Wanda Chia-ris, cinquantasette anni, abitava in quella villa lassù» disse indicando la casa che si trovava pochi metri più in alto sulla collina che dominava il lago. «Era un tipo un po’ strambo, anzi per qualcuno era proprio una vecchia pazza. Abitava qui da quando aveva all’incirca vent’anni. La vil-la era di proprietà dei genitori e lei vi si era trasferita dopo essere rimasta orfana. Non ha mai lavorato, né si è mai sposata; i genitori erano ricchi imprenditori triestini che quando sono morti in un incidente stradale le hanno lasciato una rendita considerevole. La signora Chiaris viveva in perfetta solitudine, coltivando l’orto che aveva creato in giardino e accu-dendo le sue galline. A proposito, proprio le galline in passato le hanno creato problemi con il vicinato. Vi sono state denunce che lamentavano il rumore e gli odori che provenivano dal pollaio della Chiaris. La donna in un’occasione ha aggredito a male parole gli operatori dell’Asl che e-rano stati chiamati a monitorare la situazione». «Ti sei dato da fare Giannini, bravo» si complimentò la dottoressa Parisi, «come hai fatto a raccogliere tutte queste informazioni in così poco tem-po?». «Sa, commissario, io vengo da un piccolo paesino e so quanto le persone siano sollecite nel fornire informazioni, soprattutto se è accaduta una tra-gedia». Bianca si guardò intorno e si rese conto della moltitudine di persone che erano accorse e che tentavano di sbirciare il luogo del delitto, per poi ri-vendersi succulenti particolari ad amici e parenti. Fino a quel momento si era estraniata dal luogo e dai presenti, concentrando la sua attenzione sul corpo riverso nel lago. Le capitava sempre così, la scena del crimine la ipnotizzava, e nell’intento di cogliere più particolari possibili non si accorgeva di ciò che le ruotava intorno. «Senti, Giannini, avete trovato le scarpe o altri vestiti della donna in gi-ro?». «No, dottoressa, al momento niente, ma la corrente potrebbe averli allon-tanati». La corrente. Il lago sembrava immobile, l’ombra delle canne si rifletteva sulla super-ficie liscia e nera. Quelle acque erano il ritratto dell’immobilità; tutto, i

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colori, l’aria, le piante sembravano un quadro tanto erano fermi. Ma quell’immobilità era apparente. Il lago è subdolo. Sembra un luogo tran-quillo e sospeso ma è un’illusione, e quell’omicidio ne era la dimostra-zione. Le acque ferme sapevano all’improvviso creare mulinelli anche letali che ti trascinavano a fondo, spesso negli stretti cunicoli della calde-ra dell’antico vulcano. Vi era anche un detto del posto che riguardava proprio il fatto che ogni anno qualcuno morisse nelle acque del lago. Se-condo i residenti quei decessi derivavano da una tragedia accaduta più di un secolo prima, quando durante una processione religiosa le barche che trasportavano i fedeli si erano rovesciate nel lago, provocando decine di morti. Da allora in paese si raccontava che fossero le anime dei morti a trascinare a fondo i bagnanti. Chiaramente Bianca riteneva che le morti fossero incidenti, causati per lo più dall’incoscienza dei villeggianti che entravano in acqua appena finito di mangiare o a volte completamente ubriachi. «Lei abita qui vicino, dottoressa?» Giannini la riscosse dai suoi pensieri. «Sì, a non più di trecento metri». «Bel posto. È l’unico punto del lago costruito; come mai non ci sono al-tre ville sulle sponde del lago?». Il vice ispettore era arrivato da poco e ancora non conosceva tutti i parti-colari della storia locale. «L’intera zona è parco e come tale protetta. Dall’altra parte del lago vi sono delle postazioni di birdwatching. La zona protetta fu istituita per proteggere la flora e la fauna locali, ma fu grazie a un deciso pretore che si riuscì a mantenere intatto il paesaggio. Negli anni ’70 si adoperò fino allo sfinimento contro gli insediamenti abusivi che continuavano a sorge-re come funghi. Si dice addirittura che vagasse personalmente nei din-torni per controllare che nessuno disapplicasse le normative. Il suo ciuffo rosso divenne leggendario, ma anche temuto e odiato. La gente del posto all’inizio non apprezzò questa tutela ambientale che bloccava l’espansione immobiliare di quegli anni. Io personalmente gli sono grata, è anche grazie a lui se questo luogo ha mantenuto tutto il suo fascino». Mentre parlavano il personale medico rimosse il cadavere e la spiaggia cominciò a svuotarsi. «Bene, Giannini, si comincia. Stavolta si tratta di una sfida quasi perso-nale. Questo luogo non mi sembrerà più lo stesso finché non avremo scoperto cosa è accaduto. Tu continua a raccogliere informazioni in giro, ti riesce bene e in più sei forestiero. Hai uno sguardo più oggettivo su

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quest’ambiente, non viziato dalle consuetudini; inoltre potresti anche fa-vorire i racconti della gente, ognuno vorrà farti partecipe della sua indi-scutibile verità. Io vado a perquisire la casa della vittima sperando di tro-vare qualche indizio sull’accaduto. Ci vediamo nel pomeriggio in com-missariato». «Bene, dottoressa, a dopo». Giannini era così ansioso di essere utile che poco ci mancò le “battesse i tacchi” pur essendo un poliziotto. Bianca chiamò due agenti e si diresse verso la villa che si scorgeva più in alto. Dovettero fare un lungo giro da dietro, infatti tutte le ville dei din-torni, compresa quella dove abitava Bianca, non avevano una scesa diret-ta al lago. O meglio, l’avevano ma era inutilizzabile poiché le canne in-vadevano ogni piccolo spazio tra la riva e le acque più profonde. Ciò era dovuto sempre all’intervento del pretore ambientalista. Le canne erano specie protetta e non potevano essere in alcun modo rimosse, con buona pace del desiderio dei proprietari delle ville di avere la loro spiaggia pri-vata! Le spiagge del comprensorio erano solo due, piccole e contornate dalle canne. Quindi per arrivare alla casa della Chiaris occorreva risalire sulla strada principale e giungervi da dietro. Il cancelletto pedonale della villa era aperto, mentre quello grande era chiuso con un lucchetto arrugginito che sembrava lì da anni, d’altronde non si vedeva alcuna automobile e probabilmente non veniva veramente aperto da decenni. Gli agenti cominciarono a ispezionare il giardino che era grande e girava intorno alla casa; Bianca notò che era incolto e spoglio, non c’era alcuna traccia di manutenzione. Solo l’area del pollaio era curata, anche se dalla casetta proveniva un odore nauseabondo di animali e letame. La porta di casa era bloccata, ma girando sul lato trovarono la portafine-stra della cucina chiusa solo da una zanzariera; da lì entrarono nella stan-za più disordinata e sporca che Bianca avesse mai visto: stoviglie e sac-chetti appoggiati su ogni superficie e il pavimento disseminato di piatti di plastica pieni di cibo per animali. Il resto della casa rispecchiava la cucina, ovunque era disordine e polvere, sembrava una casa abbandonata da anni nel bel mezzo di un trasloco. Al piano di sopra la camera da letto e il bagno erano nelle stesse condizioni. Vi era solo una grande camera perfettamente in ordine, il letto rifatto, le tende chiuse e un forte odore di naftalina. Sul comò una fotografia di due

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giovani sposi, una foto scattata molti decenni prima. Bianca immaginò che quella fosse la stanza dei genitori di Wanda e che non fosse utilizzata dalla loro tragica scomparsa più di trent’anni prima. Bianca si chiese se la donna avesse subito un trauma talmente profondo per quella morte da renderla così strana come veniva descritta dai conoscenti. Nel corridoio del piano superiore scorsero una botola d’accesso alla mansarda. Quando salirono nella stanza era ormai ora di pranzo, e come previsto il sole inondava l’ampia camera pur filtrando solo dalle strette e alte finestre laterali. Bianca si accorse subito che la mansarda era perfet-tamente in ordine come la stanza da letto padronale. Tutto era rigorosa-mente sistemato in scaffali e bauli, un ordine che strideva con il caos sot-tostante. La polvere ricopriva tutto, indice che la stanza non era utilizza-ta. Bianca si guardava intorno un po’ imbarazzata nel trovarsi lì, le sem-brava di invadere l’intimità altrui, i ricordi di famiglia, evidentemente così preziosi o dolorosi da essere custoditi gelosamente. Fu per caso, grazie alla luce piena di quell’ora, che si accorse della cre-denza alla sua sinistra. Il piano era quasi pulito e sui cassetti si notavano ampie zone circolari senza polvere. Quei cassetti erano stati aperti non più di qualche giorno prima. Bianca si mise un paio di guanti ed esaminò il contenuto del mobile. Trovò vecchie foto della Chiaris bambina, sorri-dente accanto ai suoi genitori nelle più diverse occasioni. Inoltre vi erano i documenti più disparati, tra cui il certificato di nascita della donna, il suo diploma all’istituto magistrale di Trieste e qualche altro vecchio fo-glio. Non sembrava nulla di interessante, eppure Bianca sentiva di non dover-ne sottovalutare la scoperta. Se la Chiaris o qualcun altro era entrato nel-la mansarda chiusa da anni e aveva cercato qualcosa solo in quel mobile, c’era un motivo preciso, e forse era legato all’omicidio della donna. Ri-discesero al piano di sotto e Bianca si rese conto che era impossibile ca-talogare tutti gli oggetti presenti nella casa e scoprire qualche indizio sul-la morte della donna. Sembrava di essere in una di quelle trasmissioni statunitensi che mostrano case stracolme di oggetti di cui i proprietari non riescono a liberarsi. Valeva comunque la pena di fare un tentativo e così lasciò i due agenti a cercare di scoprire qualunque cosa potesse essere utile per l’indagine. Bianca decise di mettere un po’ di distanza tra lei e l’omicidio per fare ordine nella sua testa e capire come procedere. Così decise di mangiare qualcosa sul lungolago prima di rientrare in commissariato ed essere tra-

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volta dalle informazioni raccolte da Giannini. Nella stretta stradina dove sorgeva la casa della Chiaris vi erano altre tre ville, una affacciata sul lago e le altre due interne. Si chiese se fossero abitate anche in quel periodo. Il comprensorio dalla fine di agosto era pressoché deserto. Quasi tutte le abitazioni venivano utilizzate solo du-rante la bella stagione o per le vacanze. Erano pochi i proprietari che ri-sedevano lì. Doveva fare una telefonata a sua madre, lei conosceva tutto e tutti, cu-stodiva ogni minimo dettaglio sulle case e i loro proprietari. La donna ogni tanto provava a raccontare alla figlia qualche novità, ma Bianca senza rendersene conto si estraniava, la sua mente iniziava a vagare e la voce della madre diventava solo un fastidioso sottofondo; non era mai stata espansiva, i dettagli della vita degli altri non le interessavano, forse perché per il suo lavoro era costretta a scavare anche nei segreti più na-scosti; non si considerava asociale, semplicemente era un tipo riservato. Tutto il contrario di sua madre che amava il contatto ininterrotto con la gente, con cui parlava e che ascoltava con vero interesse. Bianca si rese conto che vi era il serio rischio che la madre si precipitas-se lì da Roma per accudirla in questa difficile indagine. Doveva chiamar-la prima che fosse informata da altri dell’omicidio e bloccare ogni sua iniziativa. Il pensiero le ricordò che doveva trovare una sistemazione au-tonoma prima di Pasqua, altrimenti si sarebbe trovata a dividere la casa con i suoi genitori. A trentacinque anni era troppo grande per questo. Magari poteva andare a vivere in paese. L’inverno era lungo in quel po-sto, non sentirsi completamente isolati sarebbe stato piacevole. Non riu-sciva però a decidersi. Quando la mattina apriva le pesanti imposte di le-gno e si trovava davanti il paesaggio fantastico si sentiva rigenerata. Cer-to non aveva negozi, ristoranti e librerie a portata di mano ma la natura era impagabile, almeno per un po’. Forse quando si fosse disintossicata dallo smog e dallo stress cittadino sarebbe diventata insofferente a quel luogo dove la mostra o il cinema più vicino erano a trenta chilometri, ma era lì solo da cinque mesi e ancora non era stufa. Immersa nei suoi pensieri aveva svoltato a destra sulla strada principale del comprensorio; la sua casa si trovava a sinistra dopo un paio di traver-se. Si avviò nel senso opposto, verso la discesa al lago, dove si trovavano il ristorante e il bar. Tutte le case che incontrava erano deserte. Era mer-coledì, questo particolare non era da sottovalutare: a fine settembre con

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ancora belle giornate di sole i proprietari delle case tornavano per il weekend, ma di mercoledì il comprensorio era pressoché disabitato. Questo obiettivamente restringeva i sospetti ai residenti. Quest’ultima considerazione era importante, molto importante, rifletté la donna en-trando nel bar che si affacciava splendido sul lago. Un posto con quella “location” a Roma sarebbe stato all’ultima moda, minimal e frequentato da quelli che quando era giovane lei erano detti pariolini. Qui vi era invece un’atmosfera dimessa, da paese, tutto era es-senziale e un po’ malandato, ma la sostanza era eccellente. I panini erano preparati sul momento, con pane cotto personalmente dalla cuoca del ri-storante accanto che gestiva anche il bar. Tutti i locali della zona d’altronde puntavano sulla genuinità, non certo sull’apparenza. Mentre gustava il suo panino, il commissario Parisi cercò di riordinare le idee. Un omicidio in quel posto era rarissimo; vi erano piccoli furti nelle case di vacanza, reati legati alle attività agricole, incidenti automobilisti-ci, ma niente di più. Sicuramente non si sarebbe parlato d’altro per molto tempo e la pressione sul commissariato sarebbe stata forte. Almeno la Chiaris non aveva parenti che l’avrebbero assillata tutti i giorni per conoscere gli sviluppi delle indagini! Quella donna le metteva addosso una strana inquietudine, voleva risolve-re al più presto il caso, ma per il momento gli indizi erano scarsi. Se si escludeva l’ipotesi di un malintenzionato di passaggio, l’unico indizio era il “documento” scomparso o comunque cercato. Un elemento che le-gava l’omicidio della donna alla sua vita lì. «Dottoressa, ho appena saputo, ci sono novità?». Ecco, si aprivano le danze! Bianca sospirò. La domanda proveniva dalla cuoca del locale. In realtà chiamarla cuoca significava sminuirla. Era eccezionale, preparava lei pane e pasta fresca tutti i giorni, favorendo l’incrementarsi dell’azienda di famiglia. Quel ri-storante era sorto negli anni ’50 e continuava a prosperare grazie al pae-saggio e all’ottima cucina. «Signora Mariella, buongiorno. Mi dispiace ma non posso dirle nulla a riguardo». «Certo, mi scusi, ma sa siamo tutti sconvolti dalla notizia. È vero che Wanda era mezza matta, ma una fine del genere poverina… non la augu-rerei a nessuno!». «Nonna! Mi dai la pizza?». Una bimbetta con la faccia vispa interruppe

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la conversazione tra le due donne con l’urgenza tipica dei bambini e Bianca fu contenta dell’intromissione che la salvava momentaneamente da ulteriori domande. «Veronica, non fare la maleducata e saluta la dottoressa Parisi!». «Ciao, ma tu come ti chiami veramente?» le chiese la bimba, che doveva avere all’incirca cinque anni. «Mi chiamo Bianca, piacere» rispose il commissario trattandola da adul-ta e porgendole la mano. «Bianca!» la bimba sgranò gli occhi. «Ma non è possibile! I tuoi capelli sono nerissimi!». Fin da quando era piccola Bianca era abituata a sentire quell’obiezione. In effetti, a tutti quelli cui si presentava faceva un po’ di impressione as-sociare il suo nome candido alla massa di ricci neri e ribelli che le rica-devano sulle spalle. Così rispose con pazienza alla domanda che le era stata posta mille volte. «Sai, i miei genitori quando hanno scelto il mio nome non sapevano di che colore avrei avuto i capelli, perché appena nata ero tutta pelata. Però se ci pensi anche Biancaneve aveva i capelli neri». Questa risposta piacque molto a Veronica che tornò soddisfatta al suo bisogno primario. «Nonna! La pizza!». «Sì, sì, hai ragione. Scusi, dottoressa». «Si figuri, devo tornare al commissariato». «Venga a cena, così si rilassa, ho preparato i tortorelli al coregone». «Vedremo, grazie» tagliò corto temendo che la cena fosse una scusa per estorcerle nuove informazioni. Quando arrivò in commissariato si demoralizzò un po’. L’atmosfera di paese la deprimeva tanto quanto quella del lago la incantava. Appena si sedette alla scrivania bussarono. Era l’ispettore Giannini. «Dottoressa, posso disturbarla?». «Prego, Mauro, vieni, sto aspettando la relazione preliminare del medico legale ma ancora non è arrivata. Tu cosa hai da dirmi?». «Tante notizie, dottoressa, notizie che però andranno verificate. Bisogna scremare la verità dai pettegolezzi». «Mi sembra indispensabile. Vedo che hai capito lo spirito della nostra indagine. Sarà lo scoglio più grande. A volte questo posto mi ricorda Pe-yton Place. Districarsi tra le false verità che ci appariranno sarà la cosa

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più difficile». «Per quanto riguarda la Chiaris, i vicini e conoscenti hanno confermato che era una donna particolare, sola, senza amici e parenti, si occupava dei suoi animali e del suo orto. Spesso vi sono state liti a causa delle condizioni del suo giardino, indecorose secondo i vicini. Inoltre, partico-lare interessante, la Chiaris era solita lasciare la portafinestra della cucina aperta, anche quando si allontanava per lunghe nuotate. Era un’ottima nuotatrice e faceva lunghi bagni, anche al largo e anche quando il clima non era propriamente estivo. Spesso girava per il comprensorio scalza e con indosso solo l’accappatoio». Bianca rifletté ad alta voce. «Questo getta una nuova luce sul fatto che fosse scalza e sui graffi sotto i piedi. Forse l’assassino l’ha sorpresa men-tre si recava al lago o tornava dal bagno. Certo era in vestaglia, non in accappatoio, ma dato il soggetto particolare potrebbe essere plausibile». «Sì, ha ragione, da quanto è emerso la Chiaris non badava molto alle ap-parenze» confermò Giannini. «Mauro, basta con questo lei» sbottò Bianca spazientita, «sono un tuo superiore ma ho solo pochi anni più di te, mi fai sentire vecchia. Se mi dai del tu non minerai certo la mia autorità». Era tempo che tentava di convincere il vice ispettore che quel formali-smo era inutile e improduttivo, ma spesso il ragazzo se ne scordava. «Ha ragione dottoressa, cioè scusi, scusa». «Va bene, vai avanti, cosa altro ti hanno riferito?». «In effetti è proprio l’espressione adattata, io non ho scoperto nulla, sono stato sommerso dalle informazioni! Tutti gli interpellati erano desiderosi di dire la loro, come ci aspettavamo. Tutti tranne uno». «Bene, chi è il riservato?». «Il proprietario del ristorante, Osvaldo Lettieri. Mi ha opposto molte dif-ficoltà. Non voleva parlare, dice, a causa dell’enorme mole di lavoro che aveva, ma dato l’orario il locale era vuoto. Messo alle strette ha ammes-so attriti pregressi con la Chiaris. Non si sopportavano a causa di beghe di vicinato. La proprietà della vittima confina con il terreno del ristoran-te. Più volte il Lettieri aveva chiesto alla donna di vendergli la striscia di terra più vicina al lago, che comunque era inutilizzata. Dice che avrebbe voluto chiedere una concessione per un’area attrezzata per il ricovero di piccole imbarcazioni e pedalò, sfruttando una delle poche aperture natu-rali tra le canne per l’accesso all’acqua. La donna si è sempre rifiutata, sosteneva che il lago dovesse rimanere integro».

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«Sì, è vero, la famiglia Lettieri possiede quel terreno da decenni; il risto-rante è stato costruito almeno cinquanta anni fa, ed è sempre stato gestito dalla famiglia, solo che negli anni i parenti sono aumentati, così hanno tentato varie attività, tra cui il bar dove ho pranzato oggi, che ha aperto all’incirca dieci anni fa. Evidentemente vorrebbero estendere le attività». Bianca si incupì pensando alla splendida bimbetta curiosa conosciuta quella mattina, la figlia di Lettieri. Si augurò che niente sconvolgesse la sua vita. A volte gli adulti sono più irresponsabili dei piccoli, agiscono di impulso senza pensare alle conseguenze che i loro comportamenti hanno sulla vita dei propri cari. «Quante persone lavorano al ristorante?». Giannini riprese il suo resoconto. «In questo momento il signor Lettieri come responsabile. La moglie, la sorella e la madre in cucina, mentre una cugina e la zia in sala. Poi nel periodo estivo assumono altri lavoran-ti stagionali. Il bar invece è gestito stabilmente dallo zio, Lettieri Luigi. Prima l’intera proprietà era della signora Mariella, la madre di Osvaldo Lettieri, e dei suoi fratelli Luigi e Anna; poi, in seguito a un periodo di crisi degli affari, Osvaldo Lettieri ha rilevato le quote dei famigliari, è accaduto all’incirca dieci anni fa». «Sì, me lo ricordo, ha investito i guadagni ottenuti da un brevetto di sof-tware. Se ne parlò molto, e mia madre mi ha riferito tutti i pettegolezzi. In paese si diceva che volesse in questo modo riscattarsi e vendicarsi per non aver potuto seguire le sue passioni giovanili. Quando aveva dicias-sette anni era un promettente genio dell’informatica, in un momento in cui questo mercato era in piena espansione. Avrebbe voluto proseguire gli studi, gli era anche stato offerto uno stage negli Stati Uniti, ma la fa-miglia gli ha imposto di restare in paese e di occuparsi dell’attività di famiglia. Così successivamente è sembrato naturale che si offrisse di comprare l’intera proprietà. I rapporti con i famigliari non sono stati però più gli stessi. Già Osvaldo Lettieri era amareggiato dalla costrizione su-bita, e in più molti lo vedevano troppo giovane per assumersi la respon-sabilità di un’attività che sostenta molte famiglie. Infatti i parenti sono rimasti come dipendenti, ma mi sembra di ricordare che qualcuno se ne sia anche andato». «Come sai tutte queste cose?». «Mia cugina ha l’età di Osvaldo Lettieri, e a differenza di me è sempre stata entusiasta di questo luogo. Prima che il lavoro la costringesse lon-

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tano veniva ogni fine settimana anche di inverno. Si era formato un bel gruppo di ragazzi, e tra questi c’era Osvaldo Lettieri. Me lo ha sempre descritto come un giovane allegro e pieno di speranze, infrante quando si è trovato incatenato nel ristorante. Con l’aumentare delle responsabilità si è rinchiuso in quel locale, abbandonando definitivamente l’informatica. Ok, chi altro hai ascoltato?». «I vicini, il parroco e il giardiniere del comprensorio». «Qualcosa di interessante?». «Mah, non saprei, le solite cose: la vittima viveva da sola, non amava la compagnia. Per lo più la consideravano tutti una mezza pazza. Il parroco mi ha riferito che non è sempre stata così. I genitori erano praticanti e quando si trovavano in villeggiatura frequentavano la chiesa. Li ha de-scritti come una bella famiglia, unita e di sani principi. La Chiaris come una ragazza solare e socievole. Poi quando si è trasferita qui dopo la morte dei genitori non ha più frequentato la parrocchia». I pensieri di Bianca vennero interrotti dallo squillo del telefono. «Sì, dimmi. Va bene, arrivo subito». Si rivolse poi a Mauro: «Era il me-dico legale, ha pronta la relazione preliminare, mi ha chiesto di andare al laboratorio. Tu comincia a studiare la situazione patrimoniale della vit-tima, chissà che ne esca qualcosa di interessante». Bianca, che era già uscita, si riaffacciò alla porta. «Mauro, ottimo lavo-ro».

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Si aprono le danze Bianca non impiegò più di venti minuti ad arrivare all’istituto di medici-na legale di Viterbo, a quell’ora le strade erano deserte. Trovò il medico legale in ufficio, appena uscita dalla sala autopsie. «Bianca, buongiorno!». «Salve, Rosa, come va?». «A parte il lavoro di oggi, alla grande! Mi rende sempre malinconica e-saminare un cadavere per morte violenta». Rosa era bellissima e sexy anche con il camice da medico e i capelli im-brigliati nella cuffia, niente riusciva a intrappolare la sua dirompente e-nergia e voglia di vivere. «Ti sei già fatta qualche idea?». «Sì, dall’esame preliminare risulta essere morta per annegamento; tutto lo conferma; avrò la certezza tra qualche giorno, però sarei veramente sorpresa del contrario». «Ci sono segni di colluttazione, percosse…?». «Ha i polsi arrossati, credo sia stata costretta a immergersi nel lago e lì annegata, ma per il resto sembra un soggetto sano». «Ho notato che aveva i piedi molto rovinati, può essere collegato all’omicidio?». «No, non penso, i segni sono relativamente vecchi, e i calli e i duroni sotto i piedi fanno pensare che fosse solita girare scalza. I capelli non e-rano tinti, le unghie spezzate… nel complesso sembra una donna sana ma trascurata». «Sì, dalle informazioni che abbiamo finora raccolto risulta fosse un tipo stravagante. Quando sarà disponibile la relazione definitiva?». «Tra una settimana. Che fai stasera? Io vado a ballare in un nuovo locale a Viterbo, vieni?». «No, grazie, ho avuto una giornata pesante, facciamo un’altra volta,

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ok?». «Va bene, va bene, tanto hai sempre una scusa; devi imparare a divertirti, hai bisogno di un uomo». «Non mi fare la predica, sembri mia madre. Ti prometto che la prossima volta sarò dei vostri. Adesso vado». «Ok, fatti sentire!» le urlò Rosa mentre Bianca quasi scappava dall’istituto; non aveva alcuna intenzione di farsi incastrare dall’amica. Il medico legale era una delle poche amicizie che era riuscita a stringere in quei mesi, ma i loro stili di vita stridevano. I locali fumosi, dove ci si dimenava senza poter scambiare una parola per il rumore, non facevano per lei. Forse era davvero per questo che era trascorso così tanto tempo dalla sua ultima relazione. Escludendo i colleghi, non entrava in contatto quasi con nessuno. La carriera era al momento la sua unica priorità, ac-cantonava tutto il resto, compresa l’idea che il lavoro fosse un rifugio, un modo per sfuggire a nuove sofferenze. Il passato la condizionava ancora, la verità era che non riusciva più a fidarsi degli uomini. Nel profondo sapeva di essere bloccata, ma non era ancora pronta ad af-frontare e a rimuovere il peso che le premeva sul petto. E poi si giustifi-cava: ma quali relazioni stabili potevano nascere da quei contatti occa-sionali? Era convinta che le donne che frequentavano quei posti volesse-ro tutte in realtà un bel matrimonio in chiesa con tanti bambini, mentre gli uomini volevano solo divertirsi. Inoltre cominciava a sentirsi un po’ attempata in quei locali. L’età media era al di sotto dei trent’anni e i ra-gazzini non facevano per lei. Invece Rosa era fantastica, eccentrica e di-sinibita, non si faceva nessuno scrupolo a divertirsi senza complicazioni, e a differenza della maggior parte delle donne rifuggiva i legami. Forse avrebbe dovuto frequentarla di più, ma la verità era che nel profondo an-che lei voleva la famiglia felice del Mulino Bianco, ma non si sentiva ancora abbastanza forte per tentare di conquistarla. Immersa in questi pensieri malinconici arrivò a casa, ma la vista del me-raviglioso tramonto sul lago non riuscì a risollevarla molto. Era lì, im-mobile in veranda, con gli occhi fissi su quegli splendidi colori quando squillò il telefono fisso. Era tutto il giorno che temeva quel momento. «Pronto, mamma». «Come facevi a sapere che ero io?». «Chi mi deve chiamare qui, mamma, lo sai che uso solo il cellulare!». «Sì, sì, va bene. Allora? Perché non mi hai chiamato subito? Che succe-de, che notizie mi dai?».

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«Posso parlare o ti vuoi dare anche le risposte?». «Come sei nervosa!». «Scusa, hai ragione, sono stanca e preoccupata, questa indagine per il momento è un rompicapo. Come lo hai saputo?». «Ho ricevuto almeno cinque telefonate da persone diverse, ma è vero che era nuda?». «No, mamma! Ma ti pare possibile?» Bianca cominciò a canticchiare: la calunnia è un venticello… «Comunque non posso dirti più di tanto, lo sai benissimo che c’è il segreto investigativo». «Lo so! Mi sembri tuo padre. Però così non mi dici nulla. E se fosse pe-ricoloso per te stare lì da sola? La casa è isolata, e se ci fosse un serial killer? Forse farei meglio a venire lì». «Mamma, calmati e ragiona, sono un poliziotto, sono addestrata, ho una pistola, e soprattutto non c’è nessun serial killer. E poi se ci fosse non sarebbe sicuro per te venire qui. Inoltre anche se mi accogliessi a casa tutte le sere con un bel piatto di lasagne non potrei raccontarti più di tan-to, e tu saresti frustrata». Le obiezioni razionali di Bianca avevano zittito la curiosità e l’ansia della donna, così continuò: «Comunque per il mo-mento avrei veramente poco da dirti; siamo agli inizi e ancora non ho trovato il bandolo della matassa». «Hai ragione, scusa, ero solo preoccupata. Però promettimi di chiamarmi se avrai bisogno di me». «Te lo prometto, mamma, buonanotte». «Buonanotte, tesoro mio». Con un buon bicchiere di vino, Bianca si rilassò sulla poltrona preferita dal padre davanti al camino ora spento. Una donna sola e solitaria era stata trovata morta in un posto isolato. Sembrava veramente un rompicapo. Escludendo il movente accidentale doveva trovare un legame, un particolare, qualcosa che giustificasse l’odio che spinge un essere umano a sopprimerne un altro. Nei film c’è sempre qualcosa di apparentemente insignificante che illumina l’investigatore consentendogli di risolvere il caso ma Bianca sapeva che quell’illuminazione era rarissima, il lavoro dell’investigatore era per lo più duro e noioso. Decise di sentire personalmente le persone informate sui fatti, sia per farsi un’idea dei soggetti descritti dall’ispettore Giannini, sia perché di solito una convocazione ufficiale innervosisce chi ha qualcosa da na-

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scondere, e si sa che chi è nervoso spesso cade in errore. Però l’indomani sarebbe andata personalmente dal parroco; il suo retaggio cattolico le imponeva un certo riguardo per l’abito che portava.

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Sospettati L’indomani Bianca si presentò presto alla parrocchia; la chiesa si trovava a non più di quattrocento metri da casa sua; era lì da mesi ma era la pri-ma volta che vi entrava e notò infastidita che ciò la faceva sentire in col-pa. Chiese a una vecchietta di parlare con il parroco; questa le rispose con solerzia e una buona punta di disapprovazione. «Don Mario è in sagrestia, tra dieci minuti comincia la messa». «Grazie, sarò breve» tagliò corto Bianca. Bussò con discrezione ed entrò. «Salve don Mario, sono la dottoressa Pa-risi». «Buongiorno. Prego, si accomodi. Le dispiace se continuo a prepararmi? Tra poco devo celebrare messa e se ritardo le mie parrocchiane mi ven-gono a prendere e mi trascinano per le orecchie sull’altare». Bene, a Bianca faceva piacere non trovarsi davanti a un burbero parroco di campagna. Don Mario sembrava dotato di ironia e intelligenza. «So che ha già parlato con il mio collega, però volevo sapere se le fosse tornato in mente qualcos’altro. Il vice ispettore Giannini mi ha riferito che quarant’anni fa lei era già qui e si ricorda la famiglia Chiaris». «Sì, è vero, purtroppo il tragico incidente che ha distrutto quella famiglia me l’ha impressa nella mente. Come ho già riferito a quel simpatico gio-vane, i genitori della povera Wanda erano praticanti, partecipavano a tut-te le attività parrocchiali mentre erano in villeggiatura. Quando moriro-no, la ragazza si trasferì immediatamente qui e all’inizio mi recai spesso a casa sua per confortarla, ma trovai una ragazza spaesata e nel contem-po inaridita, rigida nelle sue posizioni. Mi fece capire senza mezzi termi-ni di non volere il mio conforto spirituale, e non la vidi più in Chiesa. Anche i suoi amici dopo un po’ si allontanarono; ricordo che qualcuno venne a chiedermi consiglio su come comportarsi, ma sembrava che Wanda fosse irraggiungibile. Credo fosse rimasta amica solo con Tullio

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Ceccarini e sua moglie». «Chi sono?». «Due giovani del posto, si erano sposati qualche mese prima del ritorno della Chiaris e le rimasero vicini nonostante il suo comportamento sco-raggiante. Lui faceva il giardiniere del comprensorio insieme al padre e suo figlio ha proseguito sulla stessa strada. Tullio è morto l’anno scorso per un brutto male. Mi dispiace ma di più non ricordo». «Don Mario, grazie, mi è stato molto utile, più informazioni riesco ad assumere sulla vita della vittima più possibilità ho di scoprire cosa è ac-caduto. La ringrazio ancora per il disturbo e buona giornata». Mentre Bianca si avviava alla porta don Mario la gelò: «L’aspetto dome-nica allora». Ecco, era in trappola. «Se le indagini me lo consentono ci sarò». «Non trovi scuse, si deve occupare anche dei vivi, non solo dei morti». Diamine, quelle parole sembravano uscire dalla bocca di sua madre, si sentiva accerchiata. Uscita dalla chiesa si ritrovò a inspirare profonda-mente, aveva sempre subito l’autorità delle tonache, forse perché aveva studiato a scuola dalle suore. Però ne era valsa la pena, aveva ottenuto informazioni preziose. Ancora più di prima era indispensabile ascoltare il giardiniere. Telefonò a Giannini. «Mauro, sto arrivando in commissariato, convoca per il pomeriggio il signor Ceccarini e il signor Lettieri». Chissà cosa ne sarebbe uscito. In commissariato non ebbe il tempo di aggiornare il vice ispettore, fu su-bissata dalle incombenze amministrative che negli ultimi due giorni ave-va tralasciato, così, quando questi bussò alla porta e fece accomodare il Ceccarini, Bianca non aveva avuto modo di confrontarsi con qualcuno di cui si fidava e di riordinare le idee. Mauro le piaceva, era un ragazzo sveglio e ragionava bene, Bianca non si sentiva sminuita nel suo ruolo nel chiedergli consiglio. Roberto Ceccarini era un uomo magro, con la pelle rovinata dal sole e dall’aria. Sul viso, indurito dal lavoro che svolgeva, i suoi occhi azzurri quasi stonavano e gli conferivano un’aria un po’ stupita. Bianca si accor-se subito che era nervoso, quasi spaventato, ma questa circostanza tutto sommato non era strana, sicuramente non aveva avuto molti contatti con l’autorità, il suo certificato penale era immacolato, però non bisognava sottovalutare questo particolare. Decise così di sfruttare la situazione per

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scoprire se il giovane nascondeva qualcosa, e fu molto più dura di quanto avrebbe dovuto. «Bene, signor Ceccarini, l’ho convocata per interrogarla sui suoi rapporti con la signora Chiaris». L’uomo sbiancò palesemente. «In che senso i miei rapporti con la signo-ra Chiaris? L’ho già detto all’ispettore, non ero il suo giardiniere. Del giardino si voleva occupare personalmente, anche se per la verità di fatto non lo faceva. Io la vedevo quando facevo manutenzione alle siepi della strada o ai giardini delle ville vicine». «Quindi non avete mai avuto contatti?» lo incalzò Bianca. «Be’, sì! Non avevamo rapporti, però la signora era molto gentile, d’estate mi offriva dell’acqua e d’inverno un tè caldo». «Quindi la faceva accomodare in casa?». «Non sempre, solo quando faceva freddo, d’estate restavamo in giardi-no». «Così eravate amici». «Ma no, commissario cosa va a pensare, sarà capitato una decina di volte nell’ultimo anno, prima non mi aveva mai rivolto la parola». «E di cosa parlavate?». «Del giardino, della cura delle piante; sembrava molto interessata all’argomento e conosceva molte cose sui fiori, anche se poi non le met-teva in pratica. Mi sono offerto più volte di sistemarle il giardino, ma è sempre stata evasiva». «Le ha mai detto che conosceva i suoi genitori?». La domanda ebbe l’effetto desiderato, sembrava che il Ceccarini avesse ricevuto uno schiaffo. «I miei genitori, dice? Sinceramente non ricordo bene, forse mi ha rac-contato di quando era giovane ma non è scesa nei particolari». Era evi-dente che nascondeva qualcosa, era pallido e si tormentava le mani. «Bene, per il momento può andare, se avremo ancora bisogno di lei la contatteremo». Ceccarini sembrava aver vinto alla lotteria, quasi schizzò sulla sedia. «Grazie, grazie, arrivederci signora, cioè commissario». Quando la porta si richiuse Mauro, che fino a quel momento era rimasto in disparte, decise di intervenire. «Perché lo hai lasciato andare? È evi-dente che ci nasconde qualcosa». «Hai ragione, ma per il momento non abbiamo idea di cosa sia, era inuti-

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le insistere alla cieca. Però un risultato lo abbiamo raggiunto, sappiamo che ha un segreto e lo abbiamo spaventato, adesso aspettiamo e vediamo se commette un passo falso». Dopo un momento di silenzio Bianca cominciò a ragionare ad alta voce. «La Chiaris era scontrosa, solitaria, stravagante al limite della pazzia, ri-fuggiva ogni contatto con il genere umano, e poi di sua iniziativa invita un giovane sconosciuto per il tè. È quantomeno singolare, deve avere un significato. In più quel giovane è figlio delle uniche persone che la Chia-ris ha frequentato al suo ritorno qui dopo la tragedia dei genitori. Le cir-costanze devono essere legate». Giannini era d’accordo con lei. «Forse dovremmo sentire la madre». «Sicuramente dovremmo sentirla, dove abita?». Mauro consultò i documenti che aveva davanti. «Hanno una casa nelle villette a schiera vicino alla piscina del comprensorio, rientra nel contrat-to di lavoro del Ceccarini». «Ottimo, stasera tornando a casa vedo di passarci io. Invece, per quanto riguarda le indagini sulla situazione patrimoniale della vittima, ci sono novità?». «Nulla di rilevante, la Chiaris non aveva quasi uscite; a parte le spese per la manutenzione della casa non c’è nulla, persino per il cibo spendeva pochissimo, d’altronde aveva l’orto e le galline. Le proprietà sono gestite da uno studio di commercialisti di Trieste, credo fosse lo stesso del pa-dre». «E per quanto riguarda le entrate?». «La villa di Trieste è affittata a un imprenditore locale, e poi c’è l’affitto di un noccioleto, qui sulle rive del lago, non appena finisce il terreno del comprensorio. Questi redditi erano più che sufficienti al suo sostenta-mento, negli anni ha messo da parte un bel patrimonio, inoltre i genitori avevano anche molti titoli che hanno continuato a fruttare. Il commercia-lista mi ha riferito che il patrimonio, tra mobili e immobili, ammonta all’incirca a due milioni di euro». Bianca socchiuse leggermente gli occhi assorta. «Questo potrebbe essere fondamentale. Il mio professore di criminologia ripeteva sempre che si uccide solo per passione o per denaro. A chi è affittato il noccioleto?». «A una cooperativa, sto ancora accertando chi la gestisca concretamen-te». «Per fortuna in questo periodo non ti sarà difficile scoprirlo, è tempo di raccolta, dovresti trovare tutti sul luogo. Se non sbaglio tra due giorni c’è

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la sagra delle nocciole». Mauro segnò qualcosa sul suo taccuino. «Domani mattina vado perso-nalmente sul posto. Intanto faccio accomodare il signor Lettieri». Quando entrò, Osvaldo Lettieri era visibilmente infastidito e non faceva nulla per nasconderlo. Forse, pensò Bianca, era solo uno stratagemma per celare il suo nervosismo, o forse no. Avevano più o meno la stessa età, ma il Lettieri dimostrava dieci anni di più. Il volto era teso e tra i capelli scuri comparivano molti fili bianchi. Sicuramente non aveva avuto una vita facile, adesso lavorava più di do-dici ore al giorno, con la responsabilità di sostenere tutta la sua numerosa famiglia. «Non capisco cosa ancora abbiamo da dirci, vi ho raccontato tutto quello che sapevo». Il tono era infastidito e autoritario, si comprendeva che l’uomo era abituato a comandare e a non essere contraddetto. «Signor Lettieri, mi dispiace averla disturbata, ma un’indagine per omi-cidio non si completa in un giorno; stiamo riascoltando tutte le persone che potrebbero fornirci altri indizi utili». «Mi scusi, commissario, è che non vedo proprio cosa potrei aggiungere a quanto già riferito al suo collega; inoltre in questi giorni siamo molto oc-cupati, questo fine settimana c’è la sagra delle nocciole e il paese sarà pieno di turisti; il ristorante è già tutto prenotato, sia a pranzo sia a ce-na». «Allora saremo rapidi, non voglio rubarle altro tempo». Bianca aveva optato per una linea morbida. Osvaldo Lettieri non era un uomo spaurito e inesperto come il Ceccarini, non si sarebbe spaventato e non sarebbe caduto in contraddizione facilmente. Se stava nascondendo qualcosa avrebbe dovuto essere molto abile per smascherarlo. «Riassumendo: i suoi rapporti con la Chiaris si limitavano a contatti di vicinato?». «Sì, direi di sì. Ogni tanto abbiamo avuto da ridire perché scendeva in spiaggia in accappatoio. Capisce, non era decoroso. Immagini che al ri-storante ci sia un ricevimento e, mentre gli sposi tagliano la torta ammi-rando il lago, arriva Wanda scalza e in accappatoio! Ma tanto non c’era verso di farla ragionare. “L’accesso al lago è pubblico e io mi vesto co-me mi pare!”. Sembrava un disco rotto, però in sostanza aveva ragione e quindi i nostri dissidi terminavano lì». «E che mi dice riguardo alla vendita del terreno della Chiaris?».

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«Ma quella è una storia vecchia» il Lettieri la liquidò con un gesto infa-stidito della mano. «Avevo proposto più volte a Wanda di vendermi quella striscia di terra, tanto lei non la poteva utilizzare. A me sarebbe stata utile, potevo adattarla a ricovero barche o pedalò una volta ottenuta una concessione. Ma lei è sempre stata irremovibile, mi trattava come se avessi voluto prosciugare il lago e farvi un parcheggio. Per cui non se ne è fatto mai nulla e ormai erano mesi che non tornavo sull’argomento». «Quando l’ha vista l’ultima volta?». «Non ricordo precisamente, qualche giorno fa; è venuta come al solito a nuotare verso sera, anche se ormai l’acqua del lago è fredda». L’uomo guardava insistentemente l’orologio. «Se non ha altro da chiedermi io tornerei al lavoro». «Prego, vada pure, per il momento non abbiamo nulla da chiarire». Quell’incontro la lasciava ancora più perplessa di prima. Tutte le infor-mazioni che otteneva non componevano il quadro desiderato. Non riu-sciva a capire dove concentrare i suoi sforzi per trovare la chiave del de-litto. Il Lettieri non le era parso nascondere qualcosa, ma poteva sba-gliarsi, certo non era un uomo da sottovalutare. Immersa in queste consi-derazioni uscì dal commissariato e si diresse verso casa. All’altezza della chiesa lasciò la statale ed entrò nel comprensorio per una strada diversa. Quasi subito si trovò davanti a una serie di villette a schiera, nuove, piccole e ordinate, che stonavano con le grandi ville un po’ trascurate che le contornavano. Scese dalla macchina e cercò il civi-co giusto. Individuò subito la casa, aveva un giardino modesto ma perfet-tamente curato. Una donna all’interno stava raccogliendo le foglie di una giovane magnolia. Era alta e magra, con la pelle scura e indurita come cuoio, ma nel complesso era ancora una bella signora. «Salve, lavoro duro, eh?». Anche Bianca aveva una magnolia in giardino e il prato era sempre ricoperto di foglie secche. «Sì, ma ne vale la pena, è un albero magnifico, e il suo profumo è fanta-stico. Mio marito l’ha voluto piantare a tutti i costi, e adesso che lui è morto tocca a me ogni giorno tenere pulito. Sa come la chiamano la ma-gnolia? La vergogna del giardiniere. Serve tanto lavoro continuo se si vuole avere un albero, e soprattutto un prato, perfetto». «Signora, sono la dottoressa Parisi, avrei qualche domanda da farle sulla morte della signora Chiaris». La donna impallidì e si irrigidì, sembrò quasi aggrapparsi al rastrello che aveva in mano e il suo atteggiamento cordiale cambiò repentinamente.

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«Non ne so nulla, mi dispiace». «Don Mario mi ha detto che eravate amiche, e suo figlio risulta essere uno dei pochi ad aver avuto accesso alla sua casa». Il suo sguardo era duro. «Amiche non è la parola giusta per definire il nostro rapporto, non la vedevo da trent’anni. Per quanto riguarda mio fi-glio è stato in quella casa solo per lavoro. Se mi vuole scusare adesso vado a preparare la cena». Bianca a quel punto decise di giocare la carta dell’autorità. «Perderebbe più tempo se la convocassi in commissariato. Risponda a qualche sem-plice domanda e la lascio tornare ai suoi lavori». La donna valutò rapidamente la situazione, infine emise un sospiro che sembrò sgonfiarla; aveva perso tutta la sua rigidità e adesso sembrava realmente provata da quella conversazione. «Va bene, dottoressa, mi dica». «Quando ha conosciuto la Chiaris?». «L’ho incontrata quando si è trasferita qui dopo la morte dei genitori. Mio marito la conosceva già, io invece prima di sposarmi abitavo in un paese vicino a Viterbo e non frequentavo quest’ambiente». «E suo marito come lo ha conosciuto?». «Era l’autunno prima che la Chiaris tornasse. Venne a fare dei lavori di giardinaggio nella villa in cui mio padre lavorava come custode e dopo pochi mesi ci sposammo». «È stato un colpo di fulmine». La donna sorrise suo malgrado. «Sì, non avevamo voglia di aspettare, e poi mio marito già lavorava. Quell’estate tornò Wanda, e noi per un po’ la frequentammo. Era molto provata per quello che le era successo e non voleva vedere nessuno, se ne stava sempre chiusa in casa». La donna, mentre parlava, continuava con il suo lento lavoro di rastrellatura; non sembrava preoccupata, forse un po’ malinconica, anche se ogni tanto a Bianca sembrava che stringesse con troppa forza il rastrello. «Come mai eravate gli unici amici che la Chiaris voleva frequentare?». «Non saprei, come le ho detto io l’ho conosciuta solo in quell’occasione, ma era amica di mio marito. Forse il fatto che io non l’avessi frequentata prima l’ha avvicinata a me, non le ricordavo costantemente la vita che aveva perso». «E come mai non siete rimasti in contatto?». «Sa, lei era sempre più strana, e con la nascita del bambino i nostri im-

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pegni sono cresciuti e ci siamo persi di vista». Bianca non era soddisfatta, stava pensando a nuove domande da porre alla donna, che era stata quantomeno evasiva, quando arrivò Roberto Ceccarini. Non appena la vide si rabbuiò e il suo atteggiamento fu da su-bito aggressivo e poco cordiale. «Cosa ci fa lei qui?». «Avevo bisogno di porre alcune domande a sua madre» rispose Bianca con calma e gentilezza. «Che cosa c’entra mia madre in questa storia? Come si è permessa di di-sturbarla?». La trasformazione dell’uomo era sorprendente, qualche ora prima in commissariato sembrava un gattino impaurito, mentre adesso stava ti-rando fuori gli artigli: un bell’esempio di amore filiale o c’era qual-cos’altro? Bianca lo osservò molto attentamente senza farsi intimidire. «Signor Ceccarini, non si agiti, sono semplici domande di routine. Stia-mo svolgendo un’indagine e ho il dovere di sentire tutte le persone in-formate sui fatti. Mi dispiace se questo la turba». «Ma cosa dice! Non mi turba affatto. Comunque se ha finito noi rien-triamo in casa. Arrivederci». «Arrivederci. Signora, è stato un piacere conoscerla». Bianca si allontanò lasciando lì madre e figlio che la osservavano immo-bili, come se temessero un suo ripensamento e il riprendere delle do-mande. Arrivò a casa che era già quasi buio, ma nonostante ciò aprì tutti i pesanti scuri di legno di castagno e si mise a girovagare per il giardino. Il prato andava tagliato e sotto l’alta magnolia era ricoperto di foglie. Forse a-vrebbe dovuto chiamare un giardiniere, pensò sorridendo. Non credeva che il Ceccarini sarebbe stato disponibile. Era chiaro che poco fa l’aveva percepita come una minaccia, ma perché? Si preparò da mangiare e portò tutto in un vassoio sul divano davanti al camino. Anche spento le dava serenità. L’aspettava una noiosa serata in compagnia delle carte trovate nel cassettone della soffitta della Chiaris. Sperava di trovare qualcosa di utile. Rosa avrebbe avuto da ridire su co-me passava le sue serate, ma per il momento non aveva nulla di meglio da fare. Era già passata un’ora quando la chiamò sua madre. «Come stai, sei al lavoro, vero?». «Sì, mamma» Bianca adottò il tono un po’ sbrigativo di quando aveva

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fretta sperando di ridurre al minimo la telefonata. «Non voglio farti perdere tempo né estorcerti informazioni, spero solo di poterti essere utile. Ti ricordi la mia amica Cristina, quella che vive ac-canto alla chiesa?». «Quale? L’insegnante che si è trasferita qui dopo la pensione?». «Sì, proprio lei. La sorella minore era nella compagnia della Chiaris quando erano giovani. Magari ti può essere utile parlarle. Così l’ho chiamata e domani mattina ti aspetta». «Mamma! Non sono cose che ti riguardano, mi dovevi interpellare pri-ma. E poi domani mattina devo andare presto in commissariato». «Scusa! Come sei suscettibile, credevo di farti un piacere». «Va bene, grazie. Vedrò di farci un salto». Bianca conosceva i meccanismi mentali della madre: aveva bisogno di essere presente in ogni situazione per lei rilevante, in più in questo modo la controllava anche. Ma forse era sul serio nervosa e questo acuiva i lo-ro atavici contrasti. Comunque la telefonata e il cambiamento di programma le avevano fatto scoppiare un forte mal di testa. Ripose le carte che fino a quel momento si erano rilevate inutili e decise che era il momento di un bel bagno caldo e un buon libro. Non sapeva se le metteva più tristezza quel programma o il piacere che provava nell’attuarlo. Che diamine, aveva trentacinque anni, non si pote-va ritenere soddisfatta nel trascorrere così le sue serate! Desiderava con-dividere i suoi pensieri, le sue emozioni e le sue ansie con qualcuno, ma si rendeva conto che le esperienze deludenti e il trascorrere del tempo l’avevano resa molto selettiva. Non le bastava una persona qualunque, lei stava cercando ancora il compagno perfetto. Ma in alcuni momenti di lucidità si chiedeva se i criteri troppo restrittivi che aveva imposto alla sua ricerca non fossero in realtà giustificati dalla paura di rimettersi in gioco in una relazione. Bianca decise che l’inizio di un’indagine per omicidio non era un buon momento per iniziare un’autopsicoanalisi e salì al piano di sopra per immergersi nella vasca. Fine anteprima. Continua...