Acqua o sasso

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Ivano Folli, romance psicologico. Walter ha 34 anni, vive a Milano e conduce una vita scandita da un tempo costante fatta di famiglia, amici, lavoro, musica, libri e film. Pier ha 38 anni, vive a Roma e conduce una vita tortuosa: è una rock star ritiratasi dalle scene che ha vissuto per anni sulla cresta dell'onda seguendo il must "sesso, droga e rock'n'roll". Tenta disperatamente di condurre una vita normale, ma il passato torna sempre a galla. Apparentemente entrambi sono sereni, ma sentimentalmente soli. Per motivi diversi hanno perso entrambi la speranza di trovare la propria metà, ma forse le cose stanno per cambiare e forse questa non è la sola cosa che li accomuna.

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In uscita il 30/9/2015 (15,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2015

(4,99 euro)

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IVAN FOLLI

ACQUA O SASSO

 

 

 

 

 

 

 

 

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ACQUA O SASSO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-913-5 Copertina: Immagine Shutterstock.com

 

Prima edizione Settembre 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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“Sapeva che non sarebbe mai potuto uscire di lì, che la sua vita era soltanto una copia della realtà,

ma dal suo mondo finto, mi guardava dritto in faccia ma la realtà non sopporta di essere guardata negli occhi...

Per questo non basta la ragione a capirla”.

(Cit. dal film Nirvana di Gabriele Salvatores)

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1. Walter, sei un coglione!

Che bello vivere in campagna, è davvero rilassante. Sento il gallo che can-ta. Che ore saranno? Presto sicuramente, in campagna ci si sveglia sempre presto: ci sono gli animali da accudire, i campi da coltivare, le piante da bagnare… Però questa vita mi rilassa. Mi sento un po’ come Renato Poz-zetto nel film Il ragazzo di campagna. Il gallo sembra sempre più vicino, il suo canto è sempre più forte e inces-sante. Oddio mi sta inseguendo, lo sento è sempre più vicino, più vicino… - Posponi – Non è tardi. Non vedo la luce del sole filtrare calda dalle persiane. Che ore saranno? Le cinque, forse prima. Ecco di nuovo il gallo! Ma non si stanca a cantare tutto il tempo? E poi è sempre più insistente! - Posponi - Che palle! Gallo di merda! Ti venisse una laringite! Che hai da cantare? Sei tanto felice? Cosa ci sarà di così bello in campag… ‘Fanculo! Io e la mia mania di cambiare la suoneria del cellulare, che mi fa anche da sveglia. Cosa mi sarà venuto in mente di impostare il canto del gallo al posto della suoneria che avevo? Però in fondo il canto del gallo mi piace. Teniamola. Ormai però mi conosco bene, troppo bene. Ci ho provato a puntare la sve-glia all’ora in cui dovrei alzarmi, le 6.30, ma a forza di posporla mi alzavo alle sette e inevitabilmente arrivavo tardi a lavoro. Così ho fatto un patto con me stesso, trovando il giusto equilibrio: la sveglia la punto alle 6.00, mi concedo il piacere di posporla due o tre volte e mi alzo alle 6.30. Lo so, è un comportamento idiota, anzi me lo dico da solo ora che sono davanti allo specchio in bagno, guardandomi dritto negli occhi: «Walter, sei un co-glione!».. Anche Lei odiava il mio modo di svegliarmi. All’inizio sorrideva quando sentiva che non riuscivo ad alzarmi e che continuavo a rimandare il suono della sveglia. Gli ultimi tempi, invece, già alla seconda volta, cominciava a

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insultarmi, a volte anche alla prima. Alla fine la mia sveglia non era il mio cellulare, ma i suoi insulti. L’avessi programmata la sera per insultarmi alle 6.30, avrei evitato di puntare il cellulare. Chissà perché quando non cono-sci bene una persona, il suo modo di fare ti fa sorridere e quando invece la conosci a fondo il suo modo di fare ti fa incazzare. Forse non bisognerebbe mai conoscersi fino in fondo, tenere sempre qualcosa per se, prendersi a piccole dosi, così si continua a sorridere per tutta la vita. Come inizio di settimana non c’è male: sono sveglio da pochi minuti, mi sono già insultato almeno un paio di volte e ho già avuto i miei pensieri fi-losofeggianti sul destino del mondo. Si prospetta davvero un bel lunedì! Il caffè sta salendo, lo sento. Ogni volta che l’aroma invade la cucina mi sento rassicurato, mi sento a casa. Non ho una domestica che me lo prepara ovviamente, ma ho Alicia. È la mia moka, fantastica! La sera le dici a che ora vuoi fare colazione e lei ti prepara il caffè. Quando ci siamo incontrati, in una corsia di un supermercato del centro, è stato amore a prima vista. L’ho presa sotto braccio e l’ho portata a casa. Nessun dubbio sulla nostra convivenza. Ogni mattina è lei a darmi il più dolce dei “Buongiorno”. Non è da tutti avere qualcuno che ti prepara il caffè… E non solo: se sei in ri-tardo, cosa che a me succede spesso, te lo tiene anche in caldo. È premuro-sa Alicia. Con gli anni ha perso un po’ i colpi: in teoria dovrebbe fare il caffè per tre, in realtà lo fa per uno e mezzo. Ho provato a cambiarle tutti i filtri, le guarnizioni, lavarla, pettinarla, ma niente. Io però mi sento fortuna-to, perché in fondo prepara il caffè solo per me. È impossibile non amarla. Ce ne fosse una che stira, una che pulisce i pavimenti, una che sistema casa e soprattutto una che lava, metterei su un harem e farei una vita da re. Che poi, diciamocelo, in fondo a tenere in ordine casa e stirare non me la cavo poi tanto male. Quando lo faccio. Già, sono piuttosto pigro e mi riduco sempre a pulire casa quando vedo le rotoballe di polvere sostare in cucina e in camera da letto. In fondo è dav-vero un po’ come vivere in campagna, solo che anziché avere le rotoballe di fieno, io ho quelle di polvere. Ho pensato qualche volta di chiamare un trattore che me le portasse via, ma alla fine ho optato per arrangiarmi col rastrello, cioè volevo dire la scopa. Stirare invece siamo sulla stessa lunghezza d’onda: ogni volta mi ripromet-to di stirare la roba man mano che si asciuga e invece mi riduco sempre a stirarla quando non ho più nulla da mettermi. Negli anni, però, sono riusci-to a ridurre al minimo sindacale le cose: mi ci sono messo d’impegno e so-no arrivato a una conclusione. Perché stiriamo i vestiti? Per sembrare più ordinati agli occhi della gente. Bene allora tutto ciò che non si vede, non si stira. Esentate dallo stiraggio quindi mutande, calze e magliette. Ma si può fare di meglio. Per esempio mi sono reso conto che i jeans, stendendoli be-ne, risultano già stirati… O quasi… Be’ poco importa. Dunque cosa resta

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da stirare: qualche camicia, qualche maglietta e poco altro. Gli asciugama-ni non si stirano, le lenzuola non le uso. Felpe e maglioni si mettono fuori dalla finestra il sabato e, se si è andati al ristorante cinese la sera prima e i maglioni sanno di involtini primavera, si portano in tintoria. I miei vestiti non hanno preso tanto bene la questione: i primi giorni hanno organizzato un sit-in sullo stendibiancheria, poi sono entrati in sciopero rifiutandosi di essere indossati, ma alla fine hanno ceduto. Dove ho le mie difficoltà è nel rapporto con la lavatrice. Uno dei dilemmi della mia esistenza, un po’ come “L’essere o non essere” di Amleto, è: “Bianco o colorato?”. Ogni tanto me lo chiedo, solo che al posto del te-schio tengo in mano la pallina di detersivo. Erano uscite anni fa: la riempi di detersivo e la metti in lavatrice e lei, durante il lavaggio, sbatte sulle pa-reti della lavatrice, rilasciando il suo contenuto. Andavano di moda allora, io più che l’utilità ne ho sempre apprezzato la consistenza: starei lì a pal-peggiarla per ore. E a lei piace, lo so. Comunque, la lavatrice per me è una macchina infernale. Lei, a suo tempo, aveva provato in tutti i modi a spie-garmi come si distinguono i bianchi dai colorati, ma credo che per il genere maschile questa sia una cosa inconcepibile. Certo, anche le donne quando ci si mettono… Immancabilmente ogni volta che ti fanno dividere la roba, dopo due capi che esamini con cura e che riesci a catalogare dopo ore di consiglio di amministrazione con il tuo io più profondo, ti imbatti o in qualcosa di bianco con pallini colorati, o in qualcosa a righe bianche e co-lorate. Li vorresti ucciderti. È la fine: non basterebbero tre giorni ininter-rotti di consigli di amministrazione per prendere una decisione. Fortunata-mente, da quando se ne è andata, questo problema si è risolto, dato che ho tutti vestiti scuri che non lasciano ombra di dubbio. In compenso ogni tanto qualche ombra la lasciano sugli altri capi che finiscono a nuotare con loro in lavatrice. Ma io lo so: non sono io a metterceli è la lavatrice, che non mi sopporta, a convincerli a tuffarsi con gli altri capi, promettendo loro acqua calda e detersivo d’annata. Ogni tanto qualche pasticcio lo faccio anche con le gradazioni, tipo un maglione nero al quale tenevo tantissimo, che ora va bene al mio gatto… Se non ingrassa ancora. Peccato che a lui non piaccia, gli starebbe bene e chissà quante gatte conquisterebbe! Lunedì. Il giorno che tutti odiano. Non io. Per me il giorno più odioso è il mercoledì: troppo distante dal week end dopo e già lontano da quello pre-cedente. È l’insulsa terra di mezzo, è un cibo insipido, è il colore grigio. Personalmente li cancellerei i mercoledì. Credo che la gente sarebbe molto più contenta e serena se dal martedì si passasse direttamente al giovedì. Perché la barba non te la sei fatta ieri? Perché sei il solito svogliato, ecco perché! Forza ora ti tocca farla, non puoi presentarti al lavoro così, tanto Alicia ti tiene il caffè in caldo. Certo che ho una faccia… Devo smetterla di andare a dormire così tardi, guarda che occhiaie mi vengono! Tutti pense-

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ranno che abbia passato la notte a masturbarmi. Comunque eccomi qui, faccia a faccia, io e me. Piacere, io sono Walter e già sul mio nome bisognerebbe aprire una paren-tesi. Apriamola. Il mio nome, trentaquattro anni fa, lo decise mia madre perché adorava il portiere dell’Inter: Walter Zenga. Da bambino mi sentivo figo ad avere un nome così, con una lettera così strana, come la W, dentro. Faceva già uomo vissuto, anche se ero solo un bambino. Poi iniziai ad an-dare a scuola e la mia felicità si tramutò ben presto in incubo. I compagni, soprattutto quelli milanisti e juventini, cominciarono a chiamarmi Water, Water Zenga. Crescendo il mio nome è stato storpiato in tutti i modi possi-bili. Oggi gli amici mi chiamano “Il mago”, rifacendosi a una vecchia can-zone di Ligabue, Il mago Walter, che mi si addice anche: “Fai comparire una donna, fai apparire una donna, faremo apparire una birra noi, se vuoi…” Il riassunto della mia vita in poche righe. Comunque, col passare del tem-po, al mio nome mi ci sono affezionato e, anni dopo, ho capito che non mi è andata neanche poi tanto male: se mia mamma si fosse innamorata di Fanna e mi avesse chiamato Pierino, per esempio, per me sarebbe stata di gran lunga peggio! Vivo in un ameno paese alle porte di Milano, la mia città. Lì sono nato. I miei genitori ci vivono ancora oggi, anche se in periferia. Anch’io sarei vo-luto rimanere in città, ma quando ho scelto di andare a vivere da solo, i prezzi della metropoli erano troppo proibitivi per le mie povere tasche e così mi sono rifugiato appena fuori. Qui sto bene, è un paesino di circa 10.000 anime. C’è tutto: un pub con dell’ottima birra, una chiesa, una far-macia, un negozio per tipo, una tintoria che lava gli involtini primavera a forma di maglione, un piccolo supermercato, una biblioteca, una piazza e un castello. Già: la sede comunale del mio paese si trova nel castello che si erge al centro della piazza principale. Si vocifera ci sia passato anche Na-poleone. I maligni dicono gli fosse scaduta la carta d’identità. Non so se sia vero o solo una leggenda, fatto sta che, circa ogni quattro anni come le O-limpiadi, fanno una rievocazione storica dell’accaduto. Per chi interpreta la parte di Napoleone vengono indette delle elezioni popolari. Il clima che si respira in piazza è molto gradevole: le persone più anziane, nelle stagioni calde, parlano sulle panchine. Qualcuno fuori dal bar gioca a scopa. Ovviamente non manca il solito vecchietto in piedi che, con le mani dietro la schiena, guarda le carte di tutti e che, quando finisce la partita, si prodiga nei suoi commenti da campione affermato di scopa: «Dovevi giocare il tre, erano pari e poi le carte erano tutte vostre. Anche se perdevi quello di denari non importa, tanto la napola era già rotta».

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È fatta. Da lì parte un’infinita discussione senza vinti e vincitori. Io ho sempre pensato che lo scopo non fosse vincere, ma discutere alla fine di ogni mano. Quello che mi sono sempre chiesto è: ma il vecchietto spettato-re insolente, viene fornito direttamente dai gestori del bar? E poi, se è così bravo come dice, perché non gioca mai? Oltre a questo quadretto degno del miglior “Bar Sport”, ciò che abbondano nel mio paese sono i negozi di ferramenta. Non so il perché, ma ce ne sono almeno tre solo in piazza, due in periferia e si vocifera qualcuna illegale che vende cacciaviti di contrabbando. Se cercate un qualsiasi attrezzo o vi-te qui la trovate! Tutti, o quasi, si conoscono e si fermano a parlare tra di loro. Io conosco pochissime persone invece, pur abitando qui da diversi anni. Quando esco con gli amici vado sempre a Milano, idem per il lavoro. In paese ci passo solo la sera, quando la piazza ormai dorme e il campanile scandisce l’inesorabile lento trascorrere del tempo. Di tanto in tanto ci passo anche il sabato, giorno del mercato. Di solito faccio un giro tra le bancarelle senza comprare mai niente e poi mi rifugio in biblioteca a noleggiare qualche li-bro o qualche film. Talvolta mi fermo lì un po’ a leggere. Mi sono trasferito qui quando avevo ventitré anni e da allora ho vissuto quasi sempre da solo. Intendiamoci, con i miei genitori non stavo male, ma sentivo il bisogno di fare qualcosa di costruttivo, di crearmi la mia indi-pendenza. Al tempo, fra l’altro, facevo un lavoro su turni: lavoravo indiffe-rentemente il giorno o la notte e, gli orari del tutto casuali, creavano non pochi problemi a mia madre, secondo la quale condurre una vita così irre-golare non era cosa sana. Forse aveva ragione, ma non ha mai considerato il fatto che sano non lo sono mai stato neanche io. Adoravo quella vita, so-prattutto quando lavoravo la domenica notte. Non tanto per il lavoro in sé, quanto per il fatto che quando smontavi la mattina e tornavi a casa, ti sen-tivi il più fortunato del mondo perché vedevi le persone del lunedì andare freneticamente al lavoro, mentre tu andavi beatamente a casa a dormire. In tutto ciò però non calcolavo che mentre loro erano in giro a divertirsi la domenica, io ero a lavorare. Dopo un po’ di anni difatti il lavoro su turni mi ha stancato. Hai un sacco di tempo libero, ma ce l’hai quando non ce l’hanno gli altri e questo tende a fare di te un eremita urbano. Con me ce l’ha fatta. Ancora oggi, infatti, non ho degli orari fissi, né per mangiare, né per dormire; vivo totalmente in balia delle sensazioni. A dirla tutta, però, ero così già da ragazzo. Finite le scuole medie, mi sarebbe piaciuto diventare cuoco, dato che ave-vo sempre avuto una particolare passione per la cucina. I miei genitori non condividevano la mia scelta, dicevano che era un lavoro duro, che non da-va molti sbocchi e così mi iscrissero alla scuola superiore per ragionieri. Erano ammaliati dalla parola “ragioniere”: uno che ragiona. Forse pensa-vano che così avrei messo un po’ di sale in zucca. Credevano che essere

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ragioniere mi avrebbe aperto le porte verso qualsiasi strada avessi voluto imboccare… E forse non avevano torto dato che, in fin dei conti, il ragio-niere non l’ho mai fatto. Comunque a diciannove anni ero un ragioniere fatto e finito, soprattutto fatto. Già, un ragioniere, alla Ugo Fantozzi. A scuola me la cavavo egregiamente, ma già lì avevo degli orari totalmente in mano al caso. Ricordo che le giornate tipo erano: andavo a scuola, tornavo a casa, man-giavo guardando i Simpson, dormivo un paio d’ore sul divano davanti a qualche programma pallosissimo del pomeriggio; le televendite erano le più gettonate per dormire! Verso le quattro mi svegliavo e uscivo. Passavo il pomeriggio al parco con gli amici e tornavo a casa alle sette di sera. Cenavo con i miei, guardavo il film in prima serata e poi, la notte, mi dedicavo allo studio. Quando c’erano le interrogazioni di diritto, economia, tecnica bancaria e ragioneria mi capitava di stare sveglio anche tutta notte. La mattina arrivavo in classe che mi ricordavo tutto… Be’, avevo appena finito di studiare! Così mi da-vo in pasto ai professori per essere interrogato subito. Avevo solo da gua-dagnarci: i compagni di classe mi vedevano come un eroe che si sacrifica-va per il popolo, i professori mi apprezzavano perché evitavano la figura da crudeli che li costringeva a eleggere “il condannato al supplizio” e io pote-vo passare le notti seguenti dormendo un po’ di più, dato che mi ero tolto quelle interrogazioni dalle scatole. In tutto ciò i miei genitori non dicevano niente, anche perché come puoi dire qualcosa a un ragazzo che studia la notte e ha la media generale del sette? Queste erano le giornate tipo dal lunedì al venerdì. Il sabato invece a scuo-la non ci andavo, soprattutto da quando potevo firmarmi le giustificazioni da solo. Era una sorta di rito: ci si trovava in cinque o sei in piazza Duomo a Milano, si faceva colazione in qualche bar del centro e poi si migrava al “Pick-Up” in via Torino, un locale con le sale biliardo al piano interrato. In pochi mesi eravamo diventati dei discreti giocatori di biliardo all’italiana: quello senza buche con i birilli al centro. Si stava lì qualche ora, poi si u-sciva e si andava fino alla darsena del Naviglio a piedi, dove c’era il “mer-cato di Senigallia”. È un mercato molto variopinto di Milano, frequentato soprattutto da ragazzi. Negli anni è stato spostato più volte, ma è sempre sopravvissuto nel tempo e nello spazio. Non è un mercato come gli altri, ci si trova tutto quello che non si trova negli altri mercati: biciclette usate, bi-ciclette rubate, vecchi dischi, vecchi poster, zaini militari, libri usati, spille, collane e bracciali di ogni genere, pezzi di ricambio per gli elettrodomesti-ci, videocassette, chiloom, narghilè e bonghi. Insomma ogni cosa che non potevi trovare in giro perché troppo vecchia, o perché era passata di moda, lì la trovavi. Quando entravi, ti sembrava di varcare la soglia di un altro mondo, dove presente, passato e futuro si fondevano insieme. Finivamo il giro verso l’una, ci si dava appuntamento per la sera e si torna-va a casa. Ai miei non ho mai nascosto quando marinavo la scuola, ma

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credo abbiano sempre apprezzato la mia onestà e sopportato il mio modo di essere. È facile dunque comprendere come, quando anni dopo mi si presentò la possibilità di fare un lavoro su turni, per me non fu altro che il prolunga-mento della vita irregolare e spensierata che mi piaceva e che avevo con-dotto fin dai tempi degli studi. Certo non è stato il primo lavoro fatto. Preso il diploma, infatti, sono passato dai lavori più assurdi, deludendo i miei ge-nitori che avrebbero voluto vedermi intraprendere la strada universitaria. Si erano però già giocati il loro jolly con ragioneria, così andai per la mia strada e mi gettai nel mondo del lavoro. Il peggiore che ricordo è quello in cui dovevo fare le interviste telefoniche alla gente. Sapevo benissimo di rompere le palle, ma se non portavo a termine un certo numero di interviste entro la sera, venivo richiamato dai superiori. Ancora oggi, quando qual-cuno mi chiama per farmi un’intervista telefonica, se ho tempo gli do retta. So come ci si sente quando si sta dall’altra parte. Una volta ricordo che do-vevo condurre un’intervista a proposito dei cibi già pronti che si comprano nei supermercati e una delle domande che dovevo fare era: «A lei i cibi già pronti mettono allegria?» Il signore dall’altra parte, molto cordialmente, mi rispose: «Se dovessi mettermi a ridere quando, mangiando da solo, mi ritrovo da-vanti a una pasta al forno già pronta, sarei un cerebroleso». Come dargli torto. Avrei voluto dirgli che se voleva sarei passato io ogni tanto a cenare con lui, in fondo a chi non piace la pasta al forno? I primi giorni di lavoro conobbi Giorgio. Aveva la mia età e cominciammo a lavorare lì a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Eravamo seduti ac-canto e questo ci portava inevitabilmente a darci una mano, passandoci le interviste fatte, se uno dei due ne aveva messe a segno troppo poche. Era-vamo sulla stessa barca. Diventammo presto amici e lo siamo tuttora. Sia-mo molto diversi e forse proprio per questo siamo legati, per il fatto che ci compensiamo. Lui per esempio non corre mai rischi se non quelli calcolati, che in fondo rischi non sono perché sai già come va a finire. È metodico: se una cosa funziona non c’è motivo di cambiarla. La sua vita è regolare, certa, cadenzata, e lo ammiro profondamente per resistere, senza alcuno sforzo, alla tentazione di cambiarla. Almeno credo. Ogni variazione dalla routine lo sconvolge. Per esempio ricordo che quando la sua ex lo lasciò, passò da me una settimana disperandosi. Non era affranto dal fatto che lei lo avesse lasciato, quanto dal fatto che doveva cambiare la sua vita, rimet-tersi in cerca di una donna per quadrare il suo cerchio. Siamo molto amici e, anche se ora facciamo lavori diversi, ci sentiamo spesso e nel week end usciamo per una pizza o una birra. Per qualche anno siamo andati anche in vacanza insieme, poi, dopo la famosa ex, si è fidanzato con Monica e quin-di, giustamente, ha preferito andare in vacanza con lei. Vivono assieme e

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credo abbiano in programma di sposarsi, ma ancora non ne parlano. Trop-po rischioso. Il suo modo di essere mi ha aiutato tanto, evitandomi spesso e volentieri di cacciarmi in qualche pasticcio o di agire d’impulso, facendo o dicendo co-se delle quali poi mi sarei pentito. È un po’ come se fosse la coscienza che non ho. Di questo gli sarò sempre grato. Passai oltre un anno facendo i lavori più assurdi e oggi, dal basso dei miei trentaquattro anni, posso dire che comunque tutto fa brodo. Ogni lavoro, in fondo, mi ha lasciato qualcosa che porto nel mio piccolo bagaglio d’esperienza: storie, persone, parole, emozioni. La cosa assurda di questi lavori sono gli stipendi, non tanto per la cifra che può risultare buona o non buona a seconda del proprio stile di vita, quanto per le modalità di pagamento. In questi posti di passaggio non vieni mai pagato a fine mese, ma a sessanta, novanta o addirittura centoventi giorni. Passi così dei mesi senza vedere il becco di un quattrino e altri dove invece ti ritrovi accreditati sul conto due o tre stipendi. Preferisco il secondo caso ovviamente. In quel primo anno di lavoro, essere ragioniere in fondo mi è servito: per capire quando, quali e quanti stipendi dovevo prendere, dovevo redigere una manovra finanziaria casalinga. A ventuno anni trovai il primo lavoro “serio”. Diciamo il primo nel quale sono stato assunto e venivo pagato a fine mese. Dopo un colloquio preli-minare venni preso come apprendista alla Mafros Personal Computer, una società che si occupava di assemblare, programmare e rivendere pc. Si ven-devano computer all’ingrosso a società e negozi di tutto il mondo. Per que-sto si facevano i turni. Non so come mai decisero di assumermi, forse determinante fu il fatto di rispondere “sì” alla domanda: «Sai usare il computer?». Io lo usavo a casa per la finanziaria domestica e al lavoro per registrare le interviste, ma forse loro compresero che ero una specie di piccolo genio del bit. I primi tempi venni affiancato a Simone. A prima vista sembrava un di-scendente diretto dei Black Sabbath: pantaloni di pelle nera, orecchini e anelli di metallo, capelli lunghi neri alla rinfusa sul viso e una passione in-condizionata per la musica metal ovviamente. Conoscendolo meglio però, mi resi subito conto che era un ragazzo paziente e colto: osannava le band che sgozzavano le caprette sul palco, ma il cuore di un agnello ce l’aveva lui. Cercava solo di impressionarti al primo impatto… E direi che ci riusci-va bene. Mi spiegò la funzione di ogni più piccolo componente con tutta la pazienza del mondo, e tutto quello che imparai nei sette anni che rimasi lì lo devo a lui. Anche con lui mi sento ancora oggi, anche se più raramente rispetto a Giorgio. Diciamo che anche se non ci sentiamo, sappiamo che ci siamo l’uno per l’altro in caso di bisogno. Una specie di salvagente reci-

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proco. Dopo un lunghissimo periodo solitario, credo abbia trovato l’anima gemel-la: Donatella. È il suo opposto: curata, ben vestita, precisa; però ha una mente aperta e accetta le diversità senza alcun problema. Non ha mai cer-cato di cambiarlo, ma lo ha preso e se l’è tenuto per come è. Questo non è da tutti… E non è neanche facile. Ci misi qualche mese e quale alimentatore bruciato, prima di diventare in-dipendente, ma già dopo sei mesi ero in grado di montare e smontare com-puter a occhi chiusi o quasi. Lì sì che me ne intendevo di pc! Di giorno si lavorava sodo, gli ordini erano continui; mentre la notte di solito il clima era più tranquillo e rilassato, un po’ perché la dirigenza non c’era e un po’ perché gli ordini di materiale e le riparazioni erano meno frequenti. Fu lì che una mattina, dopo circa due anni che lavoravo alla Mafros, co-nobbi Lei: Roberta, una ragazza minuta, mora, più giovane di me di tre an-ni. Era molto particolare e affascinante: la vedevo sempre con i jeans e una felpa americana, i capelli lisci corvini terminavano la loro corsa a metà schiena. Le piccole mani erano nascoste dalle maniche della felpa e le ve-devi spuntare solo quando sbucavano per sistemare i capelli dietro le orec-chie, adornate entrambe da una serie infinita di piccoli orecchini. Mi inna-morai subito di quelle orecchie e del suo sorriso, dominato da due splendi-di e imponenti incisivi superiori. Se ne vergognava e quando rideva lo fa-ceva a bocca chiusa, oppure si copriva con la mano, ma io li ho sempre trovati incantevoli. Ho sempre pensato che esistono due tipi di bellezza: quella oggettiva, nella quale rientrano modelle, attrici, donne dello spetta-colo… E quella soggettiva, determinata dai difetti che per noi difetti non sono. Per me Lei era soggettivamente bella. Era al suo primo impiego e lavorava in amministrazione. Si occupava degli stipendi e, ogni fine mese, facevamo il pellegrinaggio nel suo ufficio per ritirare i buoni pasto e le buste paga. Ognuno di noi dal 15 del mese si pre-parava la battuta da dirle al momento dell’incontro. Era una delle poche donne presenti in azienda, era condannata. Ci vollero sei blocchetti di buo-ni pasto prima di chiederle se le andava di prendere un caffè con me, altri due per chiederle di uscire, rigorosamente con altri colleghi di lavoro, una sera a cena. Ovviamente andammo in un posto dove si poteva pagare con i ticket. Dopo un anno, passai a ritirare il mio CUD e le chiesi di uscire a bere qual-cosa insieme. Al secondo CUD ci fidanzammo e poco dopo si trasferì da me. Scatenai così le ire dei miei colleghi, che da quel momento si videro costretti a limitare i loro apprezzamenti sessuali su Roberta. Avranno co-munque recuperato quando non ero di turno. Probabilmente se la nostra relazione fosse continuata ci saremmo sposati il giorno delle dichiarazioni dei redditi e avremmo fatto il viaggio di nozze in qualche paradiso fiscale. Sono orami quasi tre anni che se ne è andata, eppure, alcuni giorni, la casa

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mi parla ancora di Lei. Basta un oggetto, un odore e la memoria fa capoli-no. A proposito di odori, dall’aroma di caffè che sento direi che Alicia ha fini-to il suo lavoro, il caffè è pronto e il suo suono gentile me lo conferma. Il sabato e la domenica mi piace gustarlo lentamente il caffè, annusarlo, stringere la tazza calda tra le mani e soffiarci su facendo appannare i miei occhiali. Lo bevo accompagnato da qualche fetta biscottata con la marmel-lata o, se sono in crisi di zuccheri, con la crema di nocciole. No, non la Nu-tella! La crema di nocciole. Di solito lo gusto seduto davanti alla finestra con le persiane spalancate sul mondo. In quei momenti riesco a pensare co-se che non sarei mai riuscito a pensare. A volte, riesco anche a non pensa-re. In settimana invece, il rito del caffè è molto più distaccato. Le persiane so-no chiuse, lo sorseggio senza troppa passione come stamane. Non perché non mi piaccia, ma perché la mia mente è già altrove. In settimana lo ac-compagno con dei biscotti, oggi è il giorno di una delle mie passioni: i ri-tornelli! Li adoro: sono quei biscotti fatti a striscioline alternate bianche e nere, una alla mandorla, una al cacao. Che passione! Li morsico sempre cercando di staccare la parte nera da quella bianca. A volte ci riesco. Ne tiro fuori cinque dalla biscottiera e la ripongo al suo posto, altrimenti potrei continuare a mangiarli all’infinito. Ho ancora una mezz’oretta prima di uscire, giusto il tempo di lavarmi, vestirmi e accendere qualche minuto il pc.

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2 .Ho dormito in hotel. Ho speso 250 euro.

Nel buio della stanza, gli occhi di Pier si aprirono lentamente. Fuori regna-va ancora il silenzio, Roma si rigirava ancora tra le pieghe del sonno. Qualche macchina solitaria sfrecciava in lontananza, diretta chissà dove. Dove si trovava lui? Come era finito lì? E con chi? La sua mente cercava di darsi delle risposte, ma tutte le domande erano so-vrastate da un terribile mal di testa post sbornia. La bocca era impastata e un retrogusto di rhum e cola si era impossessato del suo palato. Rimase fermo qualche minuto, immobile, ascoltando il proprio respiro scandire i minuti che lentamente scorrevano. Improvvisamente si ricordò qualcosa, forse aiutato da una flebile aria che gli solleticava il collo. C’era qualcuno con lui. Allungò la mano nell’altra metà del letto, sfiorò una pelle liscia e sinuosa, vestita solo delle lenzuola sgualcite. Lampi di memoria si facevano sempre più insistenti nel temporale che re-gnava nella sua testa. La sera prima era uscito a cena con Iolanda, una chitarrista punk sudafrica-na, ma di chiare origini italiane. Era molto famosa nel mondo punk e lo rappresentava magnificamente: pantaloni laceri, maglietta inneggiante con-tro la polizia, orecchini e collane di ferro, un bracciale borchiato e uno stile di vita frivolo, totalmente incline ai propri piaceri. Avevano cenato insieme in qualche ristorante del centro di Roma, ovvia-mente si erano ubriacati pesantemente ed erano poi finiti a letto in una lus-suosa camera d’albergo. Lei si trovava lì di passaggio, era in tour con la sua band, lui invece a Roma ci viveva stabilmente. Il piano era più facile del previsto. Se si ricordava bene, Iolanda aveva tal-mente tanto alcol in corpo che non si sarebbe svegliata prima di mezzo-giorno, quando la fame chimica l’avrebbe sopraffatta. L’orologio sul co-modino segnava le sei e trenta. Aveva tutto il tempo che desiderava. Si alzò lentamente, raccolse i vestiti e scomparve dietro la porta del bagno. Cinque minuti più tardi l’acqua della doccia scorreva lenta e calda sul suo corpo. Uscì dal bagno asciutto e rivestito, pronto andarsene. Come suo so-lito, lasciò un biglietto sul comodino di lei. Era una tecnica pluriassodata, in questo modo evitava di trovarsi nell’imbarazzo di essere lì al risveglio della sua amica e di dover per forza dire qualcosa o fare colazione insieme.

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Ciao Iolanda, grazie per la bella serata. Sei stata fantastica stanotte. Pur-troppo devo lasciare la stanza, il lavoro mi chiama e non posso trattenermi oltre. Il mio numero ce l’hai, fatti sentire se ti va quando ripassi da Roma. Un bacio. Pier Scese alla reception dell’hotel, saldò il conto di 250 euro e partì in sella al-la sua moto. Destinazione: il conservatorio di musica. Le strade erano stranamente vuote quella mattina, l’asfalto correva veloce sotto le sue ruote, l’aria era fresca e leggera. In pochi minuti sarebbe arri-vato a destinazione. Una corsa continua, un continuo fuggire, scappare via da qualcosa o qualcuno, lontano da qualcosa. Era la sua vita… Aveva ormai trentott’anni Pier e di strada ne aveva fatta tanta. La sua cu-riosa avventura era iniziata circa vent’anni prima. Aveva da poco finito gli studi obbligatori al conservatorio di musica quando sua madre lo cacciò fuori di casa. Lasciato a se stesso, in pasto al mondo. Tutto ciò che gli ri-maneva erano una vecchia chitarra, qualche spicciolo, dei fogli immacolati con scritte le sue canzoni e uno zaino ricolmo di sogni di gloria. Così, in una fresca mattina di maggio, era partito. Trovarsi a diciannove anni senza un tetto e senza un soldo non era stato semplice, ma mendicando qui e là era riuscito a prendere in affitto un fati-scente monolocale in zona Trastevere. L’arredamento era minimalista: un materasso, un vecchio mobile per i pochi vestiti e uno scatolone come co-modino. Per lui era una reggia. Sua madre, la signora Carla, era molto conosciuta al quartiere Parioli. La-vorava come portinaia in uno dei palazzi dell’alta borghesia. Fra i vari in-quilini del palazzo risiedeva il Dott. Giovinazzo, dirigente della rete idrica romana. Pier ricordava ancora bene le notti passate tappandosi le orecchie, pur di non sentire sua madre ansimare sotto il corpo del Dott. Giovinazzo. Dicia-mo che la signora Carla altro non era che la tappabuchi del dirigente della rete idrica. Curiosa come cosa. Fatto sta che, casualmente, non appena Pier divenne maggiorenne, gli ven-ne offerto un lavoro come inserviente presso la società di gestione del si-stema idrico. Accettò quel lavoro a malincuore, più che altro per non delu-dere la madre che aveva dato tanto per lui e che era già ampliamente scon-fortata dalla scelta del figlio di frequentare il conservatorio di musica. Il sogno di Pier era, infatti, quello di suonare la chitarra e sfondare nel mondo del rock. Restò solo qualche mese in quel posto e, quando la situazione in casa pre-cipitò, diede le dimissioni dal lavoro e andò per la sua strada. Non rivide mai più la madre.

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Suo padre non lo aveva mai conosciuto. Pier altro non era che il frutto di un viaggio in Messico della signora Carla. Da quello che sapeva, sua ma-dre aveva avuto una storia con un afro-americano, anche lui in vacanza in Messico. “Messico e nuvole, la faccia triste dell’America…”. Questo era il motivo della sua pelle olivastra. Dopo un periodo piuttosto duro, riuscì a trovare un precario equilibrio. A-veva trovato lavoro come netturbino presso il parco di Villa Doria Pamphi-li a Roma. Gli orari erano buoni e gli consentivano di frequentare contem-poraneamente le lezioni private al conservatorio, o di broccolare le ragazze intente a fare jogging nel parco. Qualche storia fugace, nulla di più. Dopo un anno passato a inseguire il suo sogno, comprese che in Italia non sarebbe riuscito a concludere niente, così, chitarra in spalla e pochi spiccio-li in tasca, raggiunse Amsterdam in autostop. La Mecca Psichedelica offri-va grandi opportunità agli artisti di strada e così fu anche per Pier. Una sera riuscì, infatti, a esibirsi per la prima volta, in un pub, davanti a uno sparuto e stranito pubblico di un centinaio di persone, non di più. Gua-dagno della serata: cento euro circa. Poco male, come dicono: la cosa più difficile non è attraversare una stanza, ma varcarne la soglia. Rientrò a Roma e fondò una band, i Van Loon, ispirandosi in parte al suo viaggio nella terra dei tulipani, ma più che altro all’omonima canzone di Francesco Guccini: “Van Loon, uomo destinato direi da sempre a un lavoro più forte che le sue spalle o la sua intelligenza non volevano sopportare sembrò quasi baciato da una buona sorte quando dovette andare…” Era un’artista, o meglio si sentiva tale. Questo lo portò però a condurre una vita da rock star, anche se ancora non lo era. Finì sull’orlo del precipizio, sommerso da un uso spropositato di alcol, notti insonni e ragazze. Il suo sogno lo aveva sopraffatto, aveva perso consistenza, si era fatto fu-moso e ci volle un chitarrista come lui per riportarlo sulla retta via. Cristoforo frequentava il conservatorio con Pier ed entrarono subito in sin-tonia. Avevano la stessa età, lo stesso modo di vedere le cose, affrontare la vitae spesso si ritrovavano ad arpeggiare insieme i brani dei loro miti rock. Un giorno Cris gli disse una grande verità: «I rocker come noi, suonano la chitarra per conquistare i cuori delle fanciulle, ma alla fine si ritrovano a suonarla solo per dimenticarle».

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Non si sa perché, non si sa come, questo spronò Pier. Ancora una volta, si alzò e partì. Riuscì ad accaparrarsi il posto come spalla di una band abba-stanza nota del panorama romano e si esibì davanti a oltre mille persone. Riuscì a suonare otto canzoni sue più qualche cover famosa. Fu un succes-so. Il suo sogno riprese così forma, facendogli comprendere che non doveva più fermarsi. Ancora una volta si caricò la chitarra e le utopie sulle spalle e se ne andò. Girò mezza Europa facendo l’autostop ed esibendosi come spalla di artisti locali. Si fece una discreta fama e, al rientro a Roma dopo oltre un anno, la casa discografica della signora Moro Visconti, nota discografica romana, gli of-frì un contratto. Era fatta! Questo voleva dire fama, dischi e soldi. In breve tempo riuscì a pubblicare un EP: Sicks Of Indifference. Gli introiti del disco gli permisero di dotarsi di un vecchio furgoncino sgangherato per girare l’Europa e, come nella più bella delle favole, Cris entrò in band con Pier. I due erano più che amici, quasi fratelli e insieme erano proiettati alla con-quista del mondo. Avevano ventidue anni quando partirono con un tour che attraversò l’Europa e che poi li catapultò con sorpresa anche in America e Asia. Il lo-ro sound conquistava il pubblico, i dischi vendevano sempre di più e, quando rientrarono in patria, due anni più tardi, vennero accolti come guer-rieri trionfali al rientro da una battaglia. Ce l’avevano fatta: erano delle star! Erano entrati nella Top 50 mondiale del rock con i loro dischi, il vecchio furgoncino si era tramutato in un lussuoso pullman accessoriato di ogni confort, il conto in banca era lievitato di tre o quattro zeri, le fan e groupy erano in ogni dove. Il paradiso! Ma come spesso accade, quando tutto sembra perfetto, troppo perfetto, qualcosa si rompe. Non c’era più tempo per rimuginare sul passato. La strada era scivolata via senza accorgersene e la moto aveva già spento il suo rombo sotto al con-servatorio. I capelli sotto al casco erano ancora umidi, in quella fresca mat-tina romana. Se li sistemò guardandosi nello specchietto della moto, qual-che giovane ragazza gli si fece subito incontro. Qualcuna chiedeva consigli musicali, qualcuna chiedeva di pranzare insieme, qualcuna gli proponeva il suo corpo senza troppi problemi. Con un sorriso malizioso lanciato qui e là, riuscì a liberarsi in pochi secondi e a sparire dietro al portone. La sua giornata poteva cominciare.

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3. The Walter show.

Sapevo che avrei fatto tardi! Ogni mattina mi perdo sbadatamente nei miei pensieri o dietro ai miei affari. Potrei alzarmi anche un’ora prima del previ-sto e sono certo che farei comunque tardi. Avrei potuto prendere la macchina e raggiungere la metropolitana in pochi minuti, ma preferisco attraversare il parco a piedi, andare in stazione e rag-giungere Milano col pullman. Lo faccio ogni mattina. Sì, io abito in periferia nel mio paese… La periferia della periferia. Adoro attraversare il parco, respirare l’aria fresca del mattino, gli odori del-le stagioni. Col passare degli anni sono giunto alla conclusione che non c’è una stagione che preferisco, ma sono fermamente convinto che ogni sta-gione abbia la propria particolarità e il proprio fascino. Ormai l’autunno è inoltrato e pian piano lascerà spazio all’inverno. Gli al-beri sono ormai spogli, tappeti di foglie multicolori scricchiolano sotto i miei piedi a ogni passo. Nelle mattine più fredde, come oggi, inizia a ve-dersi la brina sui rami degli alberi. Presto anche lo stagno si ghiaccerà. Per ora le papere riescono ancora a nuotarci, ma presto si ritireranno in qualche angolo caldo e riparato del parco. L’aria è ovattata, mi sembra di cammina-re mentre il resto del mondo è paralizzato da un sortilegio che lo fa dormi-re, sognare forse. Spero siano bei sogni. Mi sento l’unica anima sveglia in questo lunedì autunnale. Nelle orecchie il lettore mp3 stamani risuona leg-gero People ain’t no good di Nick Cave. “Seasons came, seasons went The winter stripped the blossoms bare A different tree now lines the streets shaking its fists in the air The winter slammed us like a fist The windows rattling in the gales to which she drew the curtains made out of her wedding veils...” Anche la piazza è deserta: i negozi chiusi, le persiane delle finestre sbarra-te. Persino l’acqua della fontana di fronte alla banca non è ancora stata at-tivata. Cammino leggero cercando di non rompere questa quiete sovranna-

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turale. Le prime forme di vita le incontro in stazione e qui, ogni mattina, ho la net-ta sensazione di essere l’inconsapevole protagonista di un film, una specie di The Truman show… “The Walter show”. Le persone che aspettano e che poi prendono il pullman con me sono sem-pre le stesse e parlano sempre delle stesse cose. Ci sono “le quattro donne dell’Ave Maria” che fanno a gara su chi ha avuto il weekend peggiore per i casini in famiglia, i due ragazzi che cercano di rimediare all’ultimo le pagine che non hanno studiato, i due colleghi che discutono del campionato di calcio, le quattro ragazze che si confidano sui ragazzi conquistati il sabato in discoteca, la ragazza metallara e solitaria che ogni tanto cambia il colore dei capelli e il signore non vedente accom-pagnato dal figlio che aspetta finché il padre non sale sul pullman per poi allontanarsi velocemente. Anche l’autista è sempre lo stesso, mai un giorno di ferie o di malattia, mai un’espressione diversa da quella inespressiva di ogni mattina. La signora controllore è già pronta a verificare la validità dei nostri bigliet-ti, non le sfugge niente, peccato che siamo sempre le stesse persone e negli ultimi due anni, su questo pullman, non è mai riuscita a fare una multa. Una mattina ha provato a polemizzare per il fatto che gente salisse dalla porta sbagliata… Nessuno le ha risposto. Però mi fa sorridere vederla spe-ranzosa di trovare qualcuno in fallo. Quelle rare volte che compare qualcu-no di nuovo, lo punta con decisione, speranzosa di poter scrivere una con-travvenzione. Credo senta proprio la necessità di essere così ostile e di farsi odiare da tutti. Chissà perché poi. L’autista non parla mai, credo che anche lui non la sopporti. A volte ho pensato fosse un cyborg, privo di emozioni e di sentimenti. Alla fine sono stato colto dal sospetto che forse cyborg lo sono tutti. Vedo le stesse perso-ne ogni lunedì da anni e per loro il tempo sembra non passare mai. I di-scorsi sono sempre gli stessi, potrei anticipare la battuta di ognuno di loro. Mi è capitato di controllare se di lunedì in lunedì cambi la Gazzetta dello Sport che tengono sotto braccio i due colleghi. È diversa ogni lunedì, così come sono diversi i libri che studiano freneticamente i due ragazzi, ma i loro discorsi sono sempre gli stessi e anche i loro volti sembrano non in-vecchiare. O forse sono io che non lo noto. Il pullman sbuffando si mette lentamente in marcia, tiro un sospiro di sol-lievo, socchiudo gli occhi e spingo gli auricolari nelle orecchie di modo da non sentire per l’ennesima volta il solito copione. Una mattina o l’altra ci proverò: li guarderò tutti dritti negli occhi e dirò: «Buongiorno... E casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!». Chissà che reazione avrebbero. O meglio, chissà se avrebbero una reazione i replicanti.

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Il pullman non ha un tragitto lungo da fare, dieci-quindici minuti, non di più. Poi la metropolitana completerà il tratto mancante. Arriverò in ritardo, ma non di molto, qualche minuto al massimo. Chissà se Sandro sarà già arrivato o mi toccherà aspettarlo al bar come al solito. Mi aspettasse lui una volta tanto, invece mi tocca sempre attenderlo. Per fortuna ho sempre con me il notebook che mi permette di navigare in internet e occupare così l’attesa. Che strano personaggio però… Ci conosciamo ormai da sei anni, da quando lasciata la Mafros ho trovato lavoro in banca, e non ho mai capi-to se siamo simili o opposti. Ricordo che i miei genitori, quando dissi loro che avevo dato le dimissioni perché avevo trovato lavoro in banca, erano felici come due bambini il giorno di Natale quando trovano i regali sotto l’albero. Quante volte ho sentito la frase mentre parlano con i loro amici e parenti: «Sai, il Walter lavora in banca». Frase che odio. In primis per quel “il” davanti al mio nome, che mi rende quasi un estraneo e in secondo luogo perché gli fa credere di aver fatto be-ne a farmi fare il ragioniere, che in fondo sono finito a fare il lavoro per il quale ho studiato. La realtà però è sempre differente da come ce la immaginiamo. Credo mi immagino come direttore, o vice. Io non confermo e non smentisco. Li la-scio sognare. Stufo di fare i turni e di lavorare sabati e domeniche, mandai in giro un po’ di curriculum. Non badavo neanche se cercassero lavoratori o no, ricordo solo che aprivo i siti internet e se c’era una sezione “Lavora con noi” mi ci fiondavo e spedivo il mio curriculum. Nella miriade di curriculum inviati in quel periodo, diverse società mi contattarono. Tra queste la banca per la quale ora lavoro. Avevano bisogno di un sistemista che riparasse i pc che si guastavano o che li sostituisse. Però, dopo soli tre mesi nei quali mi stavo ancora am-bientando, il servizio informatico venne esternalizzato e io venni trasferito in un nuovo ufficio. Ufficio… Si fa per dire… Non sapendo pressoché nulla di operazioni bancarie, non potevo essere messo allo sportello di una qualsiasi agenzia, così venni spedito sotto terra agli inferi. Il lavoro mi venne descritto dal responsabile del personale come «un lavoro di responsabilità molto delicato, dal quale dipendono le sorti di molte ope-razioni. Un lavoro di precisione che solo persone particolarmente attente possono svolgere correttamente e con profitto…». Confesso che non capii pressoché nulla, forse non lo avevo ascoltato nem-meno troppo bene, ma mi dissi molto contento di poter intraprendere que-

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sta nuova avventura. In realtà ero contento di non essere lasciato a casa e di avere ancora un lavoro. Una settimana più tardi mi presentai nel mio nuovo luogo di lavoro, una delle agenzie del centro. Il direttore mi mostrò il mio ufficio. Scese due o tre rampe di scale ripide e strette, si chiuse alle spalle altrettante porte blin-date e aprì poi un’ultima porta. Qui mi presentò Sandro, mi disse che mi avrebbe spiegato lui il lavoro nel dettaglio e se ne andò. Mi sentivo come fuori dal mondo, come all’inferno appunto. Ero sotto terra di non so quanti metri, non c’erano finestre, i muri erano bianchi e inespressivi, intervallati solo da qualche poster di paesaggi appesi da Sandro. Dal soffitto si incune-avano dei tubi trasparenti che terminavano la loro corsa sul tavolo in mez-zo alla stanza al quale era seduto Sandro. Sembravano dei grossi cordoni ombelicali. Lì per lì pensai si trattasse dei condotti dell’ossigeno che ci permettevano di respirare in quel luogo ameno e dimenticato. Ero vestito a puntino quella mattina: abito scuro, cravatta scura, camicia chiara e barba fatta. Mi sentivo a disagio, non ero abituato a essere concia-to in quel modo. Notai subito che Sandro indossava un paio di jeans e una felpa e questo in qualche modo, mi rassicurò. «Quello è il tuo posto» mi disse, indicandomi la sedia posta di fronte a lui, all’altra estremità del tavolo sul quale vi era un telefono identico a quello che aveva di fronte lui. Poi mi porse la mano e proseguì: «Piacere, io sono Sandro». Ben presto compresi di che lavoro si trattava. Eravamo gli “uomini bussolotto”. Quando un cassiere aveva bisogno di denaro contante, ci chiamava su uno dei due telefoni, noi riempivamo il bussolotto con i soldi e lo spedivamo in superficie attraverso uno dei cor-doni ombelicali che avevamo di fronte. Alimentavamo la banca in fondo, sparando soldi attraverso un tubo. Avevo sempre pensato che quei soldi non fossero il frutto del lavoro di al-tre persone, che non ci fosse qualcuno dietro le quinte che li preparava, ma ero convinto arrivassero in superficie attraverso un sistema computerizza-to. Mi sbagliavo. Non nego che inizialmente la cosa mi turbò non poco: passare da essere “il guru del bit” a essere “l’uomo bussolotto” non era una gran carriera… È un po’ come se superman fosse superman abitualmente e all’occorrenza si tra-sformasse in Clark Kent. Sarebbe depresso. E poi c’era lo scoglio del tipo di lavoro: maneggiare per tutto il giorno una quantità immonda di soldi, che però non sono tuoi. Ma dopo un po’ ci si fa l’abitudine, o meglio non ci si fa caso. Col passare dei giorni compresi inoltre che, nonostante tutto, quel lavoro aveva i suoi lati positivi e che non erano pochi. Prima di tutto, come detto, non ero obbligato a vestirmi bene, come diceva

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mia madre, ma potevo arrivare a lavoro nei modi più disparati. Ricordo per esempio che d’estate capitava di stare in pantaloncini corti e sandali… Si sa, all’inferno fa caldo. Questo per me contava già molto, perché non nego che l’obbligo di vestirmi in giacca e cravatta mi avrebbe costretto in primo luogo a rivedere il mio guardaroba e in secondo luogo a indossare qualcosa che non era minimamente espressione della mia persona, del mio modo d’essere. Ma non era l’unico aspetto positivo quello dei vestiti. Potevamo per esem-pio portarci i nostri pc e navigare in internet o giocare se non arrivavano telefonate. Se avevamo una commissione da fare non serviva prendere permesso, era sufficiente che uno dei due fosse presente e nessuno si sa-rebbe mai accorto dell’assenza dell’altro. Potevamo ascoltare la radio, anche se in quel tugurio si prendevano giusto due o tre stazioni, quindi spesso ci portavamo dei cd da casa. Per un certo periodo ci siamo anche guardati dei film, ma poi ci sembrava di esagerare col lassismo e così abbiamo smesso. Ci avevano spinti nel sottosuolo e noi nel sottosuolo ci eravamo dissolti, sparendo nel nulla. Diventammo in banca dei personaggi mitologici. Qual-cuno sospettava non esistessimo neanche. Qualcuno faceva circolare la leggenda che potessimo uscire solo in pausa pranzo per l’ora d’aria, ma che la notte dormissimo lì. Nessuno ci diceva niente. Primo perché facevamo bene il nostro lavoro, oddio non che fosse così complicato, dovevamo giusto contare i soldi e spedirli verso la cassa esatta. Secondariamente non era facile trovare per-sone alle quali piacesse quel lavoro e quindi, trovati due come noi, non vi erano motivi per cambiare o per darci noia. All’inizio mi sembrava di essere in un’altra dimensione perché non sapevo cosa stesse succedendo fuori, ma poi compresi che il fatto di avere la radio e internet, ci permetteva di essere sempre aggiornati su tutto. Certo ci fosse stata una rapina nella nostra banca, non ce ne saremmo minimamente ac-corti. Non esistevano entrate o uscite secondarie, nessun tesserino poteva aprire le porte. Esistevano solo due copie di chiavi: una la avevo io, una Sandro. Chiunque volesse entrare doveva citofonare a ben tre porte blinda-te diverse. Questo ci dava tutto il tempo di far sparire il “materiale di con-trabbando” all’occorrenza, ma in realtà non è mai quasi stato necessario farlo. Sandro è una brava persona, sempre buono e disponibile con tutti, sempre allegro anche quando le cose magari non gli girano al meglio. Ci siamo in-contrati come colleghi, oggi lo considero un amico e credo che per lui sia lo stesso. Nella vita ha sempre vissuto inseguendo i propri sogni e le proprie aspira-zioni. Se ha un’idea, si butta a capofitto, senza temere le conseguenze, an-che se poi finisce spesso per annoiarsi dell’idea stessa. L’ho sempre ammi-

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rato profondamente per questo coraggio di rischiare che io non avevo mai avuto. Almeno non in campo imprenditoriale-affaristico. Non avrei mai rinunciato a un lavoro dipendente per mettermi in proprio. In realtà poi a lui non era andata troppo bene, difatti tutti gli “affari” nei quali si era tuffato, avevano finito per travolgerlo e sommergerlo dai debiti. Pian piano ne stava uscendo e ormai vedeva il traguardo. I colleghi e gli amici, parlando di lui, lo definivano spesso come incosciente, ma io credo che nella vita l’essere spregiudicati, o comunque non pensare troppo alle conseguenze, non sia sempre negativo. Spesso critichiamo coloro che vi-vono così, ma in realtà li invidiamo. In compenso lui non aveva rimorsi o rimpianti. Aveva fatto tutto quello che gli andava di fare, mentre coloro che lo criticavano erano ancora lì a chiedersi se continuare con la vita di tutti i giorni, lamentandosi, o se darci un taglio. E probabilmente sarebbero un giorno morti con quella domanda in gola. In realtà dopo essersi sposato e aver avuto un figlio, si era calmato e aveva smesso di gettarsi nelle sue avventure imprenditoriali improvvisate, ma ogni tanto una sorta di nostalgia riaffiorava nei suoi discorsi. Ricordo che una delle sue ultime fantasie, era quella di procurarsi una di quelle vecchie biciclette con cassone anteriore che si vedevano una volta e girare i parchi milanesi vendendo hot dog. Diceva che il mercato dell’hot dog era un business e che c’era solo da guadagnarci in quanto le spese era-no minime se non nulle. Un’altra volta stava per comprare un negozietto minuscolo in centro per vendere piadine da asporto e cose simili. Io lo consideravo un genio moderno ed ero convinto che le sue idee fossero buone, solo che era perseguitato da una sorta di legge di Murphy per la quale non ci poteva guadagnare. In questo modo avrebbe continuato a ela-borare nuove visionarie attività che lo avrebbero tenuto occupato. O forse vivo. La maggior parte dei colleghi ci ridevano su quando sentivano le sue idee strampalate, prendendolo per pazzo, ma si sa: genio e pazzia sono conside-rate alla stessa stregua. A ogni modo, ora ci pensava bene prima di intraprendere una nuova avven-tura e il più delle volte le sue idee rimanevano tali. Credo che il matrimonio e la nascita di un figlio provochino in un uomo una sorta di responsabilità che non ti permette di essere più completamente libero di inseguire i tuoi sogni. Implicitamente sai che dalle tue decisioni dipende anche il destino di altre persone e anche se sai che si sacrifiche-rebbero volentieri per te, ti senti comunque responsabile della loro sorte e ti colpevolizzi oltremisura se non riesci a farli vivere come ti sei preposto nella tua mente. Per questo credo di non esserci tagliato per queste responsabilità. Io ho la tendenza, prima o poi, ad annoiarmi di una relazione.

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Quando intraprendi una nuova storia, ti sembra di essere leggero, di sogna-re, ma dopo il primo periodo che può durare un lasso di tempo più o meno lungo, tutto tende a trasformarsi in consuetudine, in abitudinario. In quei momenti capisco che non ho più niente da chiedere e da dare e così mi di-leguo. Nel momento in cui hai un figlio, non ti è concesso sparire o tornare indietro, o se stai vivendo una relazione, spesso le tue sensazioni non corri-spondono a quelle del partner e così le tue decisioni finiscono per lacerare profondamente l’animo altrui. Vivere una storia d’amore è come avere in mano una spada che ti rende in-vincibile. Può difenderti da ogni colpo, da ogni insidia, da ogni nemico, ma allo stesso modo se non la sai maneggiare bene, puoi ferire mortalmente le persone a te care. Io, con le spade, non ci ho mai saputo fare. Così tendo a deporre le armi prima di ferire qualche innocente. Il problema è che la ferisci comunque, solo che non la vedi agognante a terra e così ti illudi che sia felice e che abbia trovato un nuovo scudiero che la protegga. A volte per fortuna è così. Eccomi qui. Di fronte al bar dove ci troviamo per colazione. Scruto la gen-te da fuori, ma di Sandro neanche l’ombra. Riesce a essere perennemente in ritardo. Se tu sei in ritardo di dieci minuti, lui riesce a esserlo di venti e così via. Lo aspetterò dentro, davanti a una tazza di caffè americano e a una fetta di crostata. Forse però dovrei fare quattro passi al Parco Sempio-ne… Magari lo trovo lì che vende hot dog.

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4. Che serata da panico! I mobili volavano e la TV è letteralmente esplosa!

Pier percorse il lungo salone del conservatorio. Nella testa tambureggiava ancora il rhum della sera prima. Aveva bisogno di un caffè, forte. Erano circa le otto e questo gli dava ancora del tempo prima di iniziare le lezioni. Fece così una deviazione per il bar studentesco. Passando per il giardino, accese una sigaretta che non riuscì però a finire in tempo e che spense scocciato sotto la suola delle scarpe. Al bar non c’era molta gente. Scrutò i tavolini, ma alla fine optò per pren-dere un caffè al bancone. Fece giusto un lungo sorso, quando una voce leggera e soave attirò la sua attenzione. «Ciao Pier, come stai?». «Ciao Esmeralda, cosa bevi?». «Un caffè anche per me, grazie». Era Esmeralda, una studentessa venticinquenne che frequentava il corso di canto presso il Conservatorio. Cantava già in un piccolo gruppo metal, ma voleva migliorare le sue doti canore e così si era iscritta al corso. Non era una studentessa di Pier, ma si erano conosciuti durante una pausa pranzo nella quale sedettero allo stesso tavolo della mensa scolastica. Esmeralda non passava certo inosservata: era alta un metro e sessantacin-que circa, magra e slanciata. I capelli e gli occhi scuri, le labbra carnose e chiare. Il trucco nero attorno agli occhi, li metteva in risalto e si adattava splendidamente alla collana borchiata che aveva al collo. Una maglietta aderente faceva risaltare i piccoli seni, la minigonna di pelle completava l’opera. Volontariamente, nel prendere la tazzina di caffè, sfiorò il braccio di Pier. «Giornata pesante oggi Pier?». «Naaa, non più delle altre. Ho solo un mal di testa post sbornia che mi sta facendo impazzire, ma se mi conosco bene tra qualche ora sarà solo un ri-cordo». «Sì ma insegnare col mal di testa deve essere piuttosto difficile». «Be’ mi consolerò pensando alla serata che mi aspetta stasera». «Perché che farai stasera?». «Uscirò a cena con te, passo a prenderti alle nove». Rimase sorpresa da quella frase, ma conosceva Pier e sapeva che erano ti-

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piche da lui. «Ok, ci vediamo più tardi allora… Fammi uno squillo quando sei sotto ca-sa, o citofonami, come preferisci. Grazie per il caffè… E per il mal di te-sta… Riflettevo che chissà quanti ne avrai avuti quando eri una rock star! Ci sarai abituato. Ciao». Si allontanò dedicandogli un ultimo sguardo che lui non contraccambiò. Pagò i due caffè e si diresse verso l’aula pensando a quell’ultima frase: “quando eri una rock star…”. Rientrati a Roma dopo i due anni di tour, Pier e Cris erano, in effetti, delle rock star affermate e le cose andavano sempre meglio: i dischi andavano a ruba, i loro video venivano proiettati più volte al giorno e le loro vite priva-te andavano sistemandosi per il meglio. Pier si sposò a venticinque anni con Rachele, una chitarrista punk cono-sciuta durante uno dei primi tour, con la quale ebbe un anno dopo una fi-glia: Alexis. Cris si sposò invece con Priscilla, nota percussionista e amica di vecchia data di Pier. Priscilla e Cris ebbero poi un figlio. Il matrimonio tra Pier e Rachele, come spesso accade nel mondo della mu-sica, era stato forse avventato e divorziarono tre anni più tardi quando Pier scoprì che Rachele aveva un amante e a sua volta Rachele scoprì che Pier aveva un flirt con la bassista del suo gruppo: Iris. Si separarono, ma né uno né l’altro ci soffrì più di tanto. Chi ne soffrì di più fu sicuramente la piccola Alexis che venne affidata al padre dal tribu-nale. Pier ci provò a essere un buon padre, ma il suo stile di vita frivolo e incline ai piaceri, spesso cozzava con il suo compito paterno. A ogni modo, la storia con Iris proseguì per il meglio e Pier riuscì con lei a trovare il giusto equilibrio, a essere felice. La band andava a gonfie vele e il fatto di avere sempre Iris accanto gli per-metteva di vivere appieno la carriera e la vita privata. A ventinove anni Pier sposò Iris, allora ventisettenne, e qualche mese do-po, adottò Paola, figlia che Iris aveva avuto da una precedente relazione. Due anni più tardi i due ebbero anche un figlio loro: Jeremy. Pier era al settimo cielo: i Van Loon erano tra le migliori rock band in cir-colazione, Pier e Iris andavano d’amore e d’accordo e i tre figli completa-vano un quadro degno della migliore foto di famiglia. Se per lui le cose andavano a gonfie vele, Cris invece viveva un profondo malessere. Forse con Priscilla si era sposato troppo presto e troppo presto aveva rinunciato a divertirsi come Pier. Non ci riusciva a fregarsene come l’amico fraterno, non ci riusciva a frequentare altre donne. Sentiva quella sorta di responsabilità insita nell’uomo e così prese un’altra strada. Giorno dopo giorno si spinse sempre più nei meandri dell’alcolismo. Pier e Iris e-rano sempre insieme, mentre lui riusciva a stare con la propria famiglia so-

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lo nelle pause dai tour e dai dischi. Ci provò a parlare con Pier di questo suo stato d’animo, ma si sa: quando si vive la propria felicità, non si riesce a comprendere il malessere altrui. Pier non badò più di tanto alle parole di Cris, pensando si trattasse di un momento passeggero come era capitato a lui del resto, ma circa un anno dopo, in una triste mattina primaverile, Cris si suicidò nella sua camera d’albergo di Londra, dove avevano trascorso la notte. La notizia raggiunse Pier, che dormiva con Iris nella stanza accanto, in tar-da mattinata e fu l’inizio della fine. Il tour in corso dei Van Loon fu immediatamente annullato e la triste noti-zia fu data ai fan e ai famigliari di Cris. I sensi di colpa sopraffecero Pier. Si sentiva responsabile per non aver dato ascolto al suo più caro amico, si sentiva responsabile della sua morte e anche lui cominciò a morire lenta-mente. Una decina di giorni più tardi, in un’amara conferenza stampa, Pier dichia-rò pubblicamente che l’avventura dei Van Loon era finita, che senza Cris non aveva più senso andare avanti a suonare, a fare rock. Quella stessa se-ra, mentre Iris e i figli erano al mare, maledisse quella musica che tanto gli aveva dato, ma che tanto gli aveva tolto, e cominciò a punirsi. Bruciò nel camino di casa tutti i vinili della sua band che custodiva con or-goglio, così come i ritagli dei giornali e le foto. La chitarra si frantumò contro la TV, rilasciando una fragorosa fiammata, i mobili vennero ribaltati a terra e presi a pugni fino a farsi sanguinare le nocche. Lacrime e sangue si fondevano sul pavimento. Una bottiglia di whiskey si svuotò nel suo corpo e due o tre dosi di eroina cominciarono a circolare nelle vene. Pier andò sempre più alla deriva, come una nave lasciata senza ormeggi e senza capitano, in balia della tempesta che lacerava il suo spirito. All’alcol e alla droga aggiunse le donne, che frequentava sparendo per giorni e giorni da casa senza dare sue notizie. I famigliari potevano solo sperare che fosse vivo. Inevitabilmente il rapporto con Iris si incrinò e precipitò definitivamente tre anni più tardi, quando, rincasando prima del previsto, Iris trovò Pier a letto con un’attrice francese. Firmarono le carte per il divorzio e una profonda tristezza pervase Pier, ri-trovandosi di nuovo in quell’aula di tribunale vista pochi anni prima con Rachele. Paola e Jeremy furono affidati alla madre, mentre Alexis rimase in affida-mento a Pier, dato che Iris non aveva mai potuto adottarla per questioni bu-rocratiche. Guardò negli occhi Iris, erano gonfi e colmi di dolore per quell’uomo tanto amato e che ancora amava probabilmente. Quegli occhi che erano stati prosciugati dal dolore e che non avevano più lacrime da ver-sare. Guardò poi i suoi figli che tanto amava, li abbracciò forte e il suo cuore pianse quel giorno. Non sgorgarono lacrime dagli occhi di Pier, ma dentro il petto, il cuore si stava contorcendo. Prese per mano Alexis e si

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allontanò. Capì in quel momento che il suo punirsi non aveva riguardato solo lui, ma aveva coinvolto anche altre persone, innocenti. Era giunto il momento di fare qualcosa. Si trasferì così negli Stati Uniti, a Seattle, dove frequentò delle terapie di gruppo per disintossicarsi da alcol e droghe. Ci volle oltre un anno, ma alla fine ne uscì, grazie anche alla sua determinazione. Alexis viveva con lui, si era chiusa in se stessa, ma tutto sommato il padre era riuscito a fare meglio di quanto potesse immaginare. Quando la piccola finì le scuole medie e Pier si era lasciato alle spalle i suoi problemi, almeno quelli più evidenti, decise che era giunto il momen-to di tornare a Roma, la sua vera casa. Trovò una villetta fuori città, nella strada che porta a Ostia e vi si trasferì. Nel frattempo la fama del gruppo era scemata ed erano ormai annoverati tra le band rock storiche del passato. Provò a rintracciare Iris, voleva assicurarsi che stesse bene e scusarsi con lei per il suo comportamento, oltre a riabbracciare Paola e Jeremy. Ottenuto l’indirizzo di lei, in un caldo pomeriggio d’estate inoltrata, decise di incontrarla, ma quando la vide sorridere accanto a un altro uomo e vide i bambini giocare felici nel giardino di casa, capì che la sua presenza avreb-be solo portato nuovi problemi e nuovo dolore. A lei e ai suoi figli non vo-leva più fare del male, altro male. Sorrise, si voltò e se ne andò senza farsi notare. Aveva bisogno di un lavoro, non tanto per i soldi, che non mancavano, quanto per tenersi occupato e allacciare nuovi rapporti. Di risalire sul palco non se ne parlava, però l’unica cosa che sapeva fare bene era suonare. Così decise di insegnare la nobile arte della chitarra agli studenti e venne assun-to al Conservatorio di Musica di Roma. Non era facile alcuni giorni andare avanti, ma ce la faceva, in particolare per Alexis, ultima persona cara rima-stagli accanto. Dalla droga ne era uscito completamente. L’alcol non era più una dipendenza: una sbronza ogni tanto, nulla di più. Le donne… Be’ quelle non mancavano mai per lui, ma si rifiutava di avere nuove storie che durassero più di una notte e così si ritrovava spesso la mattina a scappare prima che la bella di turno si destasse, così come aveva fatto poche ore prima. La campanella delle 8.30 interruppe il suo viaggio nel passato. La prima lezione stava per iniziare. Spense ancora una volta a metà la sigaretta che aveva iniziato nel frattempo, spense il cellulare e si incamminò a passo de-ciso verso la classe.

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5 .Pillola azzurra o pillola rossa?

Il primo giorno della settimana era trascorso senza troppi intoppi. Appena l’agenzia chiude, sistemiamo i contanti rimasti in giro nella cassaforte e Sandro si dilegua. Lo capisco, quando si ha qualcuno a casa che ti aspetta, non vedi l’ora di rientrare dai tuoi cari. A me capita spesso, prima di scendere in metropolitana e fare il percorso inverso della mattina, di fare un giro per il centro. La meta più ambita soli-tamente è Piazza Duomo, ma non disdegno neanche Piazza Castello o Piazzale Cadorna. A volte, quando proprio non ho voglia di rincasare, fac-cio tutta Via Torino a piedi fino ai navigli e vado a prendere la metro qual-che fermata più avanti. Mi riporta indietro nel tempo, a quando il sabato da ragazzo marinavo la scuola. I luoghi mi sembrano sempre gli stessi di allo-ra. Possibile non sia cambiato nulla in tutto questo tempo? O forse sono cambiato io? Comunque oggi sarà la volta di un classico: piccolo giro di Piazza Duomo prima di scomparire di nuovo nel sottosuolo. Mi piace Piazza Duomo in questo periodo e più si avvicina l’inverno, più aumenta il suo fascino. È ancora presto per il periodo Natalizio, ma la gen-te la si vede già girare all’impazzata per la piazza o per le vie del centro. Sembrano tante formichine impazzite che mettono via le provviste per il periodo freddo. Adoro passare accanto ai camioncini delle caldarroste e respirarne l’odore. Raramente mi concedo il piacere di comprarne un foglio accartocciato. Di solito, quando lo faccio, è per festeggiare qualche giorno speciale. Mi fermo spesso a guardare gli artisti di strada: giocolieri, man-giafuoco, acrobati, ma i miei preferiti sono i musicisti. Alcuni sono davve-ro bravi, altri semplicemente ci provano, ma credo ci voglia comunque co-raggio per farsi dare in pasto alla piazza. Ricordo che qualche mese fa mi commossi ascoltando un ragazzo che suonava con la chitarra elettrica Stairway to heaven dei Led Zeppelin. Una versione solo suonata, senza pa-role, malinconica come la canzone. E io invece sono davanti alla mia Highway to hell che mi riporta sotto ter-ra. Prima di salire sulla metro, passo sempre davanti a Mariposa, un picco-lo negozietto di dischi, ormai storico, che si trova nel sottopassaggio del Duomo. È grazie a lui se un giorno di tanti anni fa ascoltai per la prima

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volta Neil Young. Spiegai al ragazzo al bancone il tipo di musica che stavo cercando e lui, dopo aver rovistato un po’ negli scaffali, mi porse l’Unplugged di Neil Young. Gliene sarò sempre grato. Quel ragazzo oggi lavora ancora lì, solo che ormai i suoi capelli sono brizzolati. Oltre ai dischi, vende anche dvd musicali, i biglietti per i concerti e una se-rie di gadget delle band, soprattutto metal. Io ci passo davanti quasi ogni sera per vedere i concerti in programma e lanciarmi come una iena famelica su una preda se vedo qualcosa che mi interessa. Non so quanti concerti ho visto fino a oggi, credo di aver perso il conto. Solitamente me ne concedo due o tre all’anno, a seconda del costo. Mi pia-cerebbe vederne molti di più, ma devo fare i conti anche con le mie tasche. Per questo giro credo di aver già dato, difatti mi sono concesso un doppio concerto di Ben Harper, mio artista preferito, a Milano in coppia con il mi-tico Robert Plant e a Villafranca di Verona da solo. Dovrò solo attendere la primavera o estate del prossimo anno. La metropolitana è piena come al solito. Questo è il prezzo da pagare per i pellegrinaggi senza meta in centro, ma è un prezzo che pago volentieri, an-che se spesso le mie chiappe rischiano di essere ghigliottinate dalle porte scorrevoli. Lentamente, tra le proteste e i sospiri della gente, il treno si mette in moto. Mi piace osservare le persone che mi circondano, provare a immaginare le loro vite, le loro storie. A volte gli amici mi dicono di avere una spiccata dote nel comprendere le persone, ma io credo di non avere nulla di specia-le, mi limito a osservare con cura i movimenti o i gesti, quello che senza un po’ di attenzione non noti, o che non vuoi notare. Per esempio, quella ragazza laggiù che due volte a fermata controlla il cel-lulare, sicuramente sta aspettando una risposta da un uomo, oppure è solo speranzosa che lui le scriva. Tutto il resto non le interessa, non ora almeno. L’uomo accanto a lei guarda l’orologio in continuazione. Ha un appunta-mento. Con una donna, altrimenti non continuerebbe a sistemarsi i capelli o a guardare il proprio riflesso nel finestrino sporco. Credo che una distinzione a prima vista si possa fare tra chi sta andando a casa e troverà qualcuno ad aspettarlo e chi invece vive solo. Io stesso, quando vivevo ancora con Roberta, difficilmente la sera mi fer-mavo da qualche parte, ma appena finito il lavoro, come Sandro oggi, mi dileguavo. Lei non mi aspettava a casa, solitamente arrivavo prima io, oppure ci tro-vavamo a qualche fermata e rincasavamo insieme, ma non è questo il pun-to. Il punto è che sai che hai qualcuno che ti aspetta o qualcuno da aspetta-re, qualcuno che si prenderà o del quale prenderti cura, e allora corri incon-sapevolmente a casa.

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Quando Roberta se ne è andata, ho provato a prendermi un gatto, Biagio, ma non è la stessa cosa. Biagio è diffidente, quando torno mi considera giusto due minuti e poi sparisce a farsi gli affari propri. Non mi aspetta ne-anche per cena, dato che fa tappa da tutte le vecchiette del circondario che lo rimpinzano come un porcello. D’altronde vorrei vedere se io mi trovassi nella sua condizione: cibo e gatte gratis ovunque, una sorta di sovrano del quartiere… Chi me lo fa fare di aspettare uno che rincasa quando vuole lui e che mi versa nella ciotola dei croccantini rinsecchiti, quando nel resto della giornata vengo sfamato con ogni prelibatezza? Da tempo volevo un gatto, ma Roberta era allergica al loro pelo e forse an-che al mio. Se ne è andata circa tre anni fa, senza rancori. Semplicemente avevamo capito entrambi che non eravamo adatti per vivere insieme, nes-suno dei due però voleva la responsabilità di essere quello che stacca la spina. Così, ci siamo trascinati avanti per un bel po’ con un rapporto che chiamarlo di coppia era un complimento. Una domenica mattina in tv pas-sava il film Matrix, l’avevamo già visto decine di volte, ma la nostra atten-zione, in un momento di totale silenzio, fu catturato dalla frase: «Matrix è ovunque, è intorno a noi. Anche adesso, nella stanza in cui sia-mo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore. L' avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tas-se. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità». «Quale verità?». «Che tu sei uno schiavo. Come tutti gli altri sei nato in catene. Sei nato in una prigione che non ha sbarre, che non ha muri, che non ha odore. Una prigione, per la tua mente». Ci guardammo per un istante infinito, sentivo il cuore tremarmi nel petto. Lei guardò fuori dalla finestra, con gli occhi lucidi e io mi avvicinai. Sape-vamo entrambi che eravamo l’uno le catene dell’altro e noi stessi eravamo la nostra prigione. Sapevamo entrambi che quelle catene andavano spezza-te, ma nessuno dei due, prima di allora, aveva trovato la voglia o il corag-gio di farlo. Ci baciammo. Un bacio dolce e amaro contemporaneamente e poi facem-mo l’amore, quasi come fosse la prima volta. In realtà era l’ultima. Restammo sdraiati sul letto per un lungo istante, in silenzio, respirando i nostri reciproci profumi. Sapeva benissimo che se non si fosse alzata in quel momento, ci avremmo ripensato e le catene non le avremmo spezzate neanche quella volta. All’improvviso si alzò e iniziò a raccogliere i vestiti riponendoli nella bor-sa. La guardavo in silenzio senza proferire parola. Una parte di me avrebbe

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voluto fermarla, ma un’altra sapeva che dovevo lasciarla andare, che era la cosa giusta per entrambi. “Pillola azzurra, fine della storia, domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio”. Uscì dalla porta di casa e dalla mia vita senza rancori, senza rabbia, senza rumore. Di tanto in tanto ci sentiamo ancora e in fondo credo siamo riusciti a istaurare un buon rapporto di amicizia, nulla di più. Lei vive con un ra-gazzo ora, ma non entriamo quasi mai nei particolari delle nostre vite pri-vate. All’inizio non è stato facile tornare a vivere da solo, non tanto per il fatto di essere attorniato da un gran silenzio, quello non mi ha mai spaventato, quanto per il fatto di dover ridisegnare la mia vita, che ormai era scandita su determinati ritmi e consuetudini. Alla lunga ho capito come quei ritmi e consuetudini sono state probabilmente per entrambi un arrendersi alle abi-tudini di tutti i giorni. L’altra cosa veramente difficile da sopportare sono state le telefonate di mia madre, aumentate in modo esponenziale quando ha saputo che ero tor-nato a vivere da solo. Ogni tanto le rispondo male, scocciato, ma poi me ne pento perché in fondo so che lo fa solo perché si preoccupa. A volte mi sento un veggente, ecco il cellulare che suona, sicuramente è lei… «Ciao Walter, sono la mamma». «Ciao mamma». Dovrò svelarglielo prima o poi che mi compare il nome della persona che mi sta chiamando… «Dove sei? Ho provato a chiamarti a casa, ma non mi ha risposto nessu-no». «Sono appena sceso dalla metro e sto salendo sul pullman, sono quasi a ca-sa». «Ah. Ma hai fatto tardi al lavoro?». «Sì». Non è vero, ma spiegarle del giro in centro sarebbe troppo complicato. «Lavori sempre tanto tu e non ti fai mai sentire. Come stai?». «Bene… Il solito… E tu?». «Il solito. Tuo padre me le fa girare tutti i giorni… Ma… Ti racconterò. Senti, volevo dirti, domenica hai da fare? Vieni a pranzo da noi?». «Mamma ma è lunedì! Non credo di aver da fare domenica, ma magari ci aggiorniamo in settimana. Ok?». «Sì perché io devo preparare, fammi sapere tu, va bene?». Vado a pranzo dai miei circa una volta al mese e mia madre ogni volta pre-para il cenone di Natale, anche se non è Natale.

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«Sì, va bene mamma, ti faccio sapere. Ciao». «Ciao Walter». Questa telefonata non era prevista nel copione e così ho attirato su di me gli sguardi di tutti i replicanti del pullman, che hanno notato una variazione dai soliti discorsi serali. Qualcuno mi guarda con compassione, quasi a vo-lermi spingere ad accettare l’invito di mia madre, qualcun altro mette nello sguardo tutta la sua comprensione, quasi a volermi dire “È lo stesso anche per me”. Sono umani in fondo. Quando scendo dal pullman è ormai buio, le luci rischiarano a malapena la piazza della stazione. Piccole nuvole di fumo scandiscono il mio respiro. Fa freddo stasera. La piazza è deserta, così come stamattina. Si animerà almeno di giorno? D’estate capita di trovare ancora gente in giro, ma appena inizia il freddo è un’impresa trovare anima viva. Passerò dalla biblioteca, giusto per noleggiare un libro, o forse un film. La biblioteca del mio paese non è molto grande, sono giusto tre stanze. Nella prima vi sono due computer per connettersi a internet, un grosso ta-volo di legno attorniato da sedie, qualche poltrona sparsa qua e là, rigoro-samente diversa l’una dall’altra, un angolo video e uno videogiochi. Le al-tre due stanze sono dedicate ai libri, divisi per categoria, anch’esse con qualche poltrona seminata di tanto in tanto per leggere. Certo non vi si trovano gli ultimi libri, però se si cerca un romanzo uscito da poco, i ragazzi che la gestiscono si mettono in contatto con le altre bi-blioteche del circondario e fanno il possibile per trovartelo. Sono molto gentili. In passato mi è capitato di donare qualche libro che non avevo apprezzato, ma ora lo faccio raramente perché a casa ho ormai solo quei libri dai quali non mi voglio separare, quelli che rileggo volentieri di tanto in tanto o che comunque mi piace sapere di avere. Anche il reparto video non è fornitissimo, vi si trovano come ultime novità film usciti da due o tre anni. Però credo sia un’ottima biblioteca. Fino a una decina di anni fa era quasi in disuso, destinata forse a chiudere, poi dei ragazzi universitari del paese, l’hanno rimessa in piedi, creando la sezione dei video e dei videogiochi, dotandola di una connessione a internet e rinnovando attraverso scambi e donazioni, il reparto libri. Il sabato, dopo il classico giro al mercato, ci vengo spesso e magari mi fer-mo qui qualche ora a leggere o a uccidere il tempo col computer. Purtroppo non è molto frequentata. Quando ho contato cinque persone, cre-do di aver trovato il pienone. È difficile incontrare qualcuno che si fermi qui a leggere o altro… E visto l’affollamento in piazza, dubito troverò

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qualcuno stasera. Chiudo velocemente la porta alle mie spalle per non far uscire il caldo, do uno sguardo rapido alla sala, da dove si vedono le altre due. Deserto. Con passo svelto mi dirigo all’angolo video, ma quando ormai ci sono da-vanti cambio idea e decido di optare per un libro. Sto per lasciarmi lo scaf-fale dei dvd alle spalle, quando il mio occhio cade sul film L’attimo fug-gente con Robin Williams. L’avrò visto… Ah non so quante volte, ma ogni volta riesco a commuovermi. Ecco perché adoro questa biblioteca: ci trovi tutto ciò che era attuale vent’anni fa. E la cosa non mi dispiace. Sto per af-ferrare il film quando tutti i miei pensieri vengono interrotti improvvisa-mente da una voce leggera: «Serata impegnativa eh?!». Lascio ricadere il film nel suo scomparto. Il sangue mi si gela, non mi a-spettavo ci fosse qualcuno che mi stesse osservando, non me ne ero mini-mamente accorto. Mi volto lentamente, come un cowboy sotto tiro, quasi quasi alzo anche le mani. Una ragazza sorridente, con dei libri in mano, mi stava osservando con un sorriso stampato in volto. Credo si sia accorta del mio imbarazzo. «Mi scusi, non volevo disturbarla… Sa io lavoro qui e mi era sembrato di vederla già da queste parti ogni tanto e così mi sono permessa di fare una battuta. Mi scusi». Grattandomi nervosamente i capelli… «No, ma quale disturbo. È solo che di solito non trovo mai nessuno e mi aspettavo anche oggi di essere qui solo». «Perché i miei colleghi sono dei fannulloni e se ne vanno al bar di fronte anziché presenziare qui». Ero incantato dal suo sorriso. «Ah ecco perché. Lei invece è ligia al dovere e rimane sul campo di batta-glia… Ma non mi pare di averla mai vista qui la sera». «Infatti. Solitamente io faccio il turno di pomeriggio perché sono più co-moda, ma il ragazzo che doveva coprire il turno stasera aveva un impegno e così eccomi qui». Un altro sorriso. Dio, credo di svenire se continua a sorridermi così. «Be’… Piacere… Io sono Walter». «Piacere mio, Costanza…». «Possiamo darci del tu direi». «Decisamente sì. E scusa di nuovo se ti ho disturbato. È un gran bel film quello che stavi per prendere». Costanza. Avrà avuto qualche anno in meno di me credo. O forse in più, ma li portava meglio. Niente trucco. I capelli lisci e neri arrivavano appena

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sotto il collo, ma li teneva legati. Gli occhi erano di un colore indecifrabile tra il grigio e il verde scuro, sovrastati da un paio di occhiali da vista grandi quanto, se non più del suo viso. Il fisico era esile e minuto, ma indossava un maglione grigio di lana grossa che sarebbe andato bene anche a me pro-babilmente, dal quale non spuntavano le mani. Avrebbe potuto indossare solo quello, le faceva praticamente da vestito, invece aveva anche un paio di pantaloni neri piuttosto larghi. «Lo so che è un gran bel film. L’ho visto non so quante volte, ma credo meriti sempre di essere guardato una volta in più». «Concordo, ma ci vuole del coraggio per guardarlo di lunedì sera. Rischi di andare in depressione per tutta la settimana così». Un nuovo sorriso che questa volta contraccambio. «Cosa mi consigli allora Costanza?». Quella domanda deve averla spiazzata. È arrossita leggermente, ma in po-chi secondi il suo colorito è tornato normale. Ha appoggiato i libri sul tavo-lo alle sue spalle e si è avvicinata allo scaffale dei video, osservandoli con cura. Ha un buon profumo, ma sono rimasto anch’io con lo sguardo fisso sullo scaffale. Ha estratto un dvd. «Ecco. Questo! Memento. L’hai mai visto?». «No, mai». «È molto bello. Certo devi prestarci attenzione quando lo guardi, ma meri-ta davvero». «Ok. Allora vada per questo! Se poi non mi piace mi lamenterò con la di-rezione». Rido subito e lei sorride con me. Quanto è bella con quel sorriso sulle lab-bra. Le porgo la tessera annuale della biblioteca e lei aggiunge: «Riportalo pure con calma se vuoi, non è molto richiesto. L’importante è che non te lo dimentichi… Tutt’al più scrivetelo su un braccio». Sorridendo di nuovo, continua subito senza darmi il tempo di replicare «Tranquillo, quando vedrai il film capirai». «Ok, ciao Costanza». «Ciao Walter». Faccio per uscire, ma poi non so perché, torno sui miei passi: «Senti Costanza, se non hai tempo di andare a prendere un caffè, posso ri-manere qui io mentre vai. Oppure possiamo andare a prenderlo insieme, tanto non credo verrà molta gente, e poi dalla vetrina del bar si vede l’entrata della biblioteca, quindi ci basta stare attenti e se arriva qualcuno, cosa che dubito per altro, torni qui subito. Credo sia il trucco che usano i tuoi colleghi fannulloni».

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Le parole mi uscivano di getto, senza pensarci. A ogni parola in più nella mia mente ripetevo “Fermati Walter, fermati” ma non c’era verso di fer-marmi, ero come un fiume in piena che aveva rotto gli argini. Credo di es-sere arrossito al termine della mia frase. Forse perché in tutto il discorso non avevo respirato. Timidamente è comparso un nuovo sorriso sul suo viso, ma meno marcato di precedenti. «Grazie Walter, sei molto gentile, ma è meglio di no: sto sistemando le ul-time cose e tra una mezz’oretta chiudo. Grazie comunque». Sono rimasto immobile, fissando un punto indefinito per qualche istante di troppo, cercando di concentrarmi sul nulla, poi sono uscito. Sul serio que-sta volta. L’aria è fredda e pungente, una timida luna prova a fare capolino tra le nu-vole pesanti. Cammino fino a casa a passo spedito, ripensando a quella fra-se che mi era uscita così, senza pensarci. Un po’ me ne sono pentito, ma in fondo non credo di aver detto niente di male o di averla offesa. Mi ero solo offerto di sostituirla per qualche minuto. Forse avrei dovuto fermarmi a quella frase e non aggiungere che potevamo andare a prendere un caffè in-sieme. Non sembrava scocciata però. Be’ certo non ha neanche accettato. Assorto nei miei pensieri sono giunto a casa senza accorgermene. Il silen-zio mi ha dato il benvenuto. Ho messo subito su il film, mentre contempo-raneamente provo a imbastire qualcosa di commestibile per cena. Doppio insuccesso: non sto capendo nulla del film e non sto ottenendo nulla di commestibile. Memento dovrà attendere dopo cena. Fine anteprima.Continua...