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Quotidie Magazine Maggio 2020 Pag 66 L'isola carcere Antonella Giordanelli NICCHIA ECOLOGICA

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Fui soccorsa esanime e quando aprii gli occhi verso la stretta finestra, vidi dal letto d’ospedale le montagne. Intanto i miei figli mi avevano subito provvisto degli indispensabili effetti personali: biancheria intima e un auricolare per il telefonino sincronizzato su radio3RAI (anni addietro li avevo pregati: “Non fatemi morire senza musica!”). Coincidentalmente una sera, a Radio3 Suite, si descrisse la meraviglia artistica del Cimitero Monumentale di Milano e io rivedevo con la mente ognuna delle sculture descritte, perché da bimbina vi passeggiavo ammirata ogni qualvolta mia madre andava a trovare una sua studentessa.

Forse il medesimo biancore marmoreo su cui era sempre poggiato un vaso con garofani rossi freschi mi faceva percepire la medesima attinenza con la morte per cui rimanevo compostamente ferma, con le mani congiunte in grembo, sulla soglia della macelleria. Infatti, nel negozio accanto, invece, esplodevo di vitalità giocando tra le cassette di frutta che ogni primate afferra grazie al pollice opponibile, mangiandone i colori con gli occhi e mordendone la polpa potendone nutrirsene naturalmente senza alcun mezzo artificioso sia per procacciaselo, grazie alla posizione eretta, che per assimilarlo col proprio apparato

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digerente. In ospedale, ancora i miei figli mi mantennero in contatto col paradisiaco dandomi da mangiare la mitica frutta del giardino terrestre, invece dell’orrido pasto distribuito nell’ospedale che somma agonia ad agonia. Poi potei stare in poltrona alla porta finestra spalancata sui rami animati dall’alacrità di coppie nidificanti che, insieme alla nostalgia per la mia “bella d’erbe famiglia e d’animali” suscitata dai cani a spasso nel sottostante parco, accelerarono il mio ritorno alla vita col bagaglio di semi e noccioli riposti nel comodino. Se mi avessero ricoverato in una camera dall’altro lato del corridoio,

avrei avuto davanti alle finestre un muro…e sarei morta.

Come può un essere animale o vegetale vivere murato? Eppure mettiamo i selvatici in gabbia e in vaso. Acquari e aiuole, giardini zoologici e d’infanzia dove umani adulti allevano amorevolmente in tot metri quadri ergastolani innocenti, tenuti in isolamento sanitario, irreggimentati per brevi ricreazioni in aree cani e spazi attrezzati, subito rilegati al guinzaglio o al banco a evitare ogni contatto fisico intergenerazionale o interspecifico; se la socialità comporta intreccio alla radice o confronto ibridante, si

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diradano i rapporti estirpando o allontanando dalla comunità gli extra invasivi per sterilizzare ogni simbiosi e sincretismo. Pianta non tocchi pianta. Cane non tocchi cane. Infante non tocchi infante.

Tutto sia igienizzato e messo in sicurezza (non vi sia radice affiorante o gioco che possa far sbucciare l’umano ginocchio!): azzerate le emissioni d’ossigeno nei parchi e nei viali con l’abbattimento arboreo mentre i bambini vi sono accompagnati da premurosi genitori in auto a combustione…green.

Nella razionalizzazione applicata alla natura, ogni animale selvatico appetibile viene “prelevato” per essere immesso nella redditizia filiera della carne, mentre la carcassa dell’animale da reddito che muore al brado, invece che nell’apposito macello, deve essere smaltita con gran lavoro di professionisti abilitati. Nel frattempo gli atavici spazzini crepano di fame.

Le 200mila aziende agricole italiane allevano oltre 200milioni di animali destinati al mattatoio, eppure infinite complicazioni burocratiche

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infinitesimale delle migliaia di tonnellate di sottoprodotti di macelleria si possano destinare, invece che agli inceneritori, alla distribuzione in carnai per 500 grifoni, 150 gipeti, 50 capovaccai, il cui maestoso volo e la nobile funzione, la natura va perdendo definitivamente.

Intanto noi primati umani ci saziamo di bistecche al sangue e fritture di pesce, buttando ai carnivori cani e gatti crocchette che hanno sostituito nell’Italia del benessere il tozzo di pane, il quale ora costa più del mangime per una strana catena alimentare che hanno creato le multinazionali partendo dal mar Artico.

Sotto quelle acque internazionali ci sono giacimenti d’oro nero e le compagnie petrolifere hanno necessità di “presidiare” con enormi navi il territorio senza dare nell’occhio: le baleniere sono perfette sennonché i mammiferi marini sono protetti. Poco male, è bastato indossare, sopra agli interessi economici, un camice bianco per riaprire la caccia alle balene col nobile fine della ricerca scientifica. Risoluzione geniale anche al problema di smaltire utilmente le carcasse incommerciabili, giacché le carni sono dure e stoppose. Infatti, storicamente, oltre alle popolazioni siberiane, se ne sono nutriti, inevitabilmente,

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solo i giapponesi dopo che le bombe nucleari statunitensi avevano reso radioattivi mare e terra. E voilà le multinazionali si ricambiano abito e riciclano nelle crocchette per animali d’affezione. Ergo gli animalisti finanziano inconsapevolmente la strage delle balene, perché la catena industriale va dai petrolieri a bigfarm e, ognuno di noi cittadini, anche scegliendo di oliare con attenzione un unico anello, inevitabilmente tiene in moto tutto l' ingranaggio che è sostenuto dalla ragion di Stato di ogni Stato.

Era pragmatismo, e non etica, quello che destinava luoghi irraggiungibili e sperduti per esili

in isolamento assoluto. Chi di noi non vorrebbe rieducarsi agli arresti domiciliari profumati di mirto, corbezzolo, rosmarino, erica, lentisco, alaterno, fillirea, ginepro, finocchio marino e limonio endemico tra lecci, ornielli, pini d’Aleppo, ontani neri, castagni e ulivi autoctoni, laddove, prima dei monaci certosini nel 588, aveva trovato rifugio sicuro solo la foca monaca nella Grotta del Bove Marino.

Duecento ettari incontaminati e inaccessibili dal 1869 dove la riappacificazione col sé e col mondo è rappresentata dall’ulivo bianco di Gorgona, l’isola carcere. Lì dal 1986 al 2015 ha lavorato il dott. Marco Verdone. Incaricato come veterinario

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dell’ultima colonia penale agricola s’è preso cura, con l’attenzione dell’omeopata, degli animali che ha accompagnato dalla nascita nella fattoria fino al conforto di un ultimo abbraccio nel mattatoio di Livorno e ha saputo educare detenuti e carcerieri, mostrando con l’esempio di vita e la profondità degli scritti quanto uccidere le creature che si erano cresciute amorevolmente, dando loro un nome e condividendone la quotidianità, vanificasse ogni riabilitazione etica. Lo soccorsero un direttore illuminato e le scuole di Livorno: i bambini

chiedevano la grazia e asilo “politico” nell’isola di Gorgona per gli animali che sull’auricolare identificativo avevano, invece che un numero, il nome con cui li avevano battezzati: SALVATI CON NOME è stato un meraviglioso progetto educativo che ha coinvolto le istituzioni scolastiche e penitenziarie.

Vi sono altre realtà, in cui alla vita degli innocenti s’intreccia la privazione di libertà. L’ordinamento penitenziario italiano con L. 354/1975 all’art 11, comma 9 consente alle mamme di tenere con sé i propri piccoli sino all’età di 3

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anni in appositi ICAM (Istituti a Custodia Attenuata per Madri), che a tutt’oggi esistono solo a San Vittore, Giudecca, Torino, Cagliari, Lauro (Avellino). Lì, in piccoli appartamenti non ci sono sbarre né personale in divisa e i bambini hanno diritto a un giorno alla settimana fuori dal carcere. Nel 2001 si volle approvate l’8 marzo “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori” (40/2001), provvedimento che lasciava le mamme agli arresti domiciliari, ma che purtroppo si scontrò con la dura condizione di donne senza dimora o prive di un ambito casalingo sicuro. Così, dieci anni dopo, la Legge 62/2011, oltre a portare

fino a 6 anni il diritto del bambino a non essere separato dalla madre, istituì delle “idonee casa famiglie” che rimangono però nell’irrilevante numero di due, rispettivamente a Milano e a Roma.

Intanto l’insufficiente numero di posti negli ICAM fa sì che la maggior parte dei “bambini ristretti” con le proprie mamme vivano tra le sbarre del carcere­nido in celle dove alle brande si aggiungono i lettini di legno, conoscendo come figura maschile solo quella in divisa dei secondini.

Oltre alla cella una piccola ludoteca, una cucina, un giardinetto tra le mura: tutto il

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mondo è la propria mamma, tutto il tempo e lo spazio tra le braccia della propria mamma da cui sono portati via improrogabilmente raggiunta l’età, sperando che vi sia una famiglia accogliente ad attendere i piccoli, espulsi nella vastità rumorosa e affollata del mondo libero. E pensare che ci sono scolaretti “normali” che piangono il primo giorno di scuola perché si separano dalla mamma per qualche ora in un edificio sconosciuto!

Dei 67 “bambini ristretti” la metà si trova nel “carcere­nido” di Rebibbia dove, nel 2018, una giovane mamma, appena

appresa della condanna definitiva, ha precipitato dalle scale la figlioletta di pochi mesi col fratellino di poco maggiore: <Sono una buona madre: ho liberato i miei figli, adesso sono in Paradiso>. Ricorda un’altra madre di cui ha reso testimonianza un operaio che lavora in una fattoria della bile, farmaco della medicina cinese. Lì gli orsi della luna, a cui hanno preventivamente strappato unghie e denti, sono tenuti tutta la vita distesi in gabbie come bare con una sonda nel fegato:<Il cucciolo stava piangendo mentre gli stavamo inserendo la cannula da cui estraiamo la bile, quando la

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madre è riuscita a fuggire dalla gabbia per tentare di liberarlo dalla catena. Non riuscendoci, come gesto estremo, l’orsa l’ha soffocato e poi si è scagliata a testa bassa contro un muro, ponendo fine anche al suo inferno.>

Pure Leonardo racconta di un cardellino a cui un contadino aveva rubato i piccoli dal nido che riuscì attraverso le sbarre a imbeccarli con amore uno per uno, per l’ultima volta, dando loro il tortomalio, un’erba velenosa: “Meglio morti che prigionieri”. Anche una coniglia in gabbia che non allatta i suoi piccoli non è una madre snaturata, come credono

uomini arroganti, ma è in tale stato di sofferenza da volere a tutti i costi risparmiarla ai propri figli.

Allora io mi chiedo, poiché nella colonia penale agricola di Gorgona c’è posto per 70 detenuti insieme con altrettanti residenti in servizio, perché mai i circa sessanta bambini “incarcerati” non possano trascorrere i loro primi anni su quella minuscola isola?

Potrebbero ricordare e raccontare a maestre e compagni la loro prima infanzia in un luogo incantato per mamme, bambini e animali dove si vive nella natura senza gente, senza macchine, senza muri, chiusi

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solo dall’infinità del mare.

Invece i bimbi, la cui scuola d’infanzia è il carcere, chiamano la porta IL BLINDO… e anch’io, come moto spontaneo sentendo anacoluti e ossimori come carcere­nido, ho quasi un rimpianto per l’uso di parole che esprimevano implicito un giudizio come erbacce, donnacce, bastardo, finocchio.

Già, perché il finocchio è una pianta che brucia con una combustione lenta, quindi quando si organizzavano i roghi pubblici, prima di far entrare in scena l'eretico o la strega protagonista, lo spettacolo cominciava con una scenografica corona di pire di finocchio che bruciavano vivi, oltre la durata del rogo centrale, gli omosessuali, appositamente tenuti in serbo per queste occasioni. Molto realisticamente il Papato ha chiesto venia per il processo a Galileo Galilei in questi tristi anni in cui i sacerdoti dello scientismo invocano l’oscuramento della “congiura dei somari” accusati di terrapiattismo (ma non era dogma imposto dal potere costituito?) e ha glissato sui Giordano Bruno e i diversamente viventi.

Per questo ora alle parole chiave ricorrenti “ libertà, sicurezza, igiene, pulizia, sterilizzazione” io rispettivamente abbino, con timoroso sospetto, “vigilata, massima, mentale, etnica, biocida”. E invoco con Marco Verdone OGNI SPECIE DI DIRITTO.

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