Abolireivoucher - Abiti Puliti

1
pagina 8 il manifesto SABATO 4 GIUGNO 2016 Em. Gio. L a Cina è di gran lunga il lea- der mondiale nella produ- zione di calzature ed è an- che tra i maggiori consumatori di scarpe al mondo con 3,65 mi- liardi di paia contro i 2,8 della Ue e i 2,3 degli Usa. La maggior par- te delle calzature vendute nella Ue - oltre la metà nel 2013 - è pro- dotto in Cina. L’Unione europea, in termini di valore, è però il più grande mercato delle calzature nel mondo e, in termini di volu- me, il secondo più grande dopo l’Asia. La Cina produce anche cuoio ma non lo esporta in for- ma grezza semmai come semi la- vorato (wet blue) di cui l’Italia e altri Paesi europei sono invece forti acquirenti (il 97% della pelle prodotta italiana ha origine da importazione estera di grezzo o wet blue). La pelle semilavorata arriva nelle concerie italiane e poi magari torna – finita o semila- vorata - nei Paesi di provenien- za. Secondo i dati della Fondazio- ne Italia Cina, nel 2013 l’Italia ha esportato nell’Impero di mezzo «articoli in pelle e cuoio» per 1,1 miliardi, e «scarpe e accessori» per oltre 400 milioni. Dalle scarpe alle borsette, dal grezzo al semilavorato, il mondo del cuoio è fortemente globaliz- zato sia per la necessità di mate- rie prime, sia per l’utilizzo di ma- nodopera a basso costo nei Paesi in via di sviluppo o di rapido svi- luppo, sia per le diverse fasi di la- vorazione del cuoio finito che in Italia ha le sue eccellenze. Ma an- che qualche buco nero. Da un punto di vista geografi- co, l’attività di concia è sviluppa- ta principalmente in tre distretti che assieme coprono l’88,6% di tutta la produzione nazionale. Per ordine di importanza sono: Arzignano in Veneto, lungo la val- le del Chiampo in provincia di Vi- cenza, Santa Croce in Toscana, tra le province di Pisa e Firenze, Solofra in Campania, tra Napoli e Avellino. L’industria conciaria italiana è dominata da piccole imprese (molte delle quali internaziona- lizzate, dalla Serbia al Vietnam) alla ricerca di pelli a basso co- sto da ricollocare, lavorate, sul mercato mondiale. E’ un merca- to complesso – in stretta relazio- ne con quello della carne bovi- na - ma dove l’Italia è ben posi- zionata: i maggiori esportatori di pelli semilavorate sono Brasi- le, Usa e Ue. «La Ue – spiega un rapporto del dicembre scorso del Centro Nuovo Modello di Sviluppo e della Campagna Abi- ti Puliti di cui il manifesto ha già dato notizia - importa quasi il doppio di quanto esporta e il leader del settore è è l’Italia, con il 76% delle importazioni europee». Nel distretto di Santa Croce ad esempio, 240 conce- rie affiancate da oltre 500 labo- ratori terzisti contribuiscono al 70% di tutto il cuoio per suole prodotto in Europa e al 98% di quello prodotto in Italia. Sono aziende medio piccole, spesso a conduzione famigliare. Il distretto impiega 12.700 perso- ne, tra lavoratori alle dirette di- pendenze delle imprese e assun- ti da agenzie interinali. I primi, racconta il dossier, rappresenta- no il 72% del totale, i secondi il 28%. «È nelle officine dei terzisti che si concentra il lavoro interi- nale... dove si registrano le situa- zioni di maggior sfruttamento la- vorativo» in un settore dove il la- voro è cresciuto ma in forma sempre più precaria. Nel 2014 hanno trovato lavoro 4.650 nuo- vi addetti, ma solo 1.199 alle di- pendenze delle aziende produt- trici. E i contratti di lavoro interi- nale sono di vario tipo e persino di sole quattro ore, spesso con manodopera straniera, la più sindacalmente fragile. C’è dun- que un’ombra diffusa sul merca- to della pelle, sia esso in Cina o nei Paesi che lavorano in conto terzi, sia in Italia dove i grandi marchi di calzature firmate ven- dono in tutto il mondo. Un’om- bra che cammina con le nostre scarpe. Emanuele Giordana C on oltre 15,7 miliardi di paia di scarpe confezionate nel solo 2014, la Cina è il mag- gior produttore mondiale di calza- ture e l’Unione Europea è, a sua volta, il più grande mercato di sbocco dei prodotti in cuoio e cal- zaturieri del Celeste impero. Scar- pe che vengono e che vanno: cuo- io, suole, tomaie, cuciture, prodot- ti finiti e semilavorati. Loro là noi qua, ma le scarpe su cui camminia- mo, le borsette o i giacconi di cuo- io che indossiamo, hanno spesso una componente cinese anche se sono «Made in Italy». Chiedersi co- me e in che condizioni lavora il più grande mercato mondiale del- le scarpe non è dunque peregrino. Lo abbiamo fatto con le magliette, i palloni, i tappeti, le tennis. Ades- so un’alleanza internazionale di 18 organizzazioni, che ha lanciato la campagna Change Your Shoes, cerca di vedere oltre confine. Per- ché i lavoratori della filiera calzatu- riera abbiano diritto a un salario di- gnitoso e a condizioni di lavoro si- cure. E perché i consumatori sap- piano su cosa camminano. Non è la prima indagine della Campagna che ha già condotto ri- cerche in India, Indonesia, Euro- pa dell’Est, Italia e Turchia. Que- sta volta un dossier - Tricky Fo- otwork. The Struggle for Labour Rights in the Chinese Footwear In- dustry - punta i riflettori sulla Ci- na, sulla base di un’inchiesta rea- lizzata a fine 2015 tra i lavoratori di tre fabbriche della provincia di Guangdong curata dall’organiz- zazione tedesca Südwind. Il rap- porto denuncia una situazione al- larmante dal punto di vista delle violazioni dei diritti umani per chi lavora nella grande fabbrica asiatica di scarpe. L’indagine non è stata facile e si basa in gran parte su interviste che confermano come nell’industria ci- nese del cuoio e delle calzature le violazioni delle leggi sul lavoro sia- no diffuse. E così le punizioni: un verniciatore è stato licenziato do- po 5 anni di lavoro nei giorni se- guenti a uno sciopero. «Mentre scioperavamo – racconta un altro - la polizia ci ha aizzato i cani con- tro, istigandoli a mordere». Gli in- tervistati, che lavorano in stabili- menti che producono per conto di noti marchi europei (come Adi- das, Clarks, Ecco), segnalano retri- buzioni basse (400 euro al mese circa) e orari faticosi (una media di oltre 10 ore al giorno) con straordi- nari obbligatori, sicurezza inade- guata, tutele insufficienti per i più giovani, maltrattamenti e divieto di riunirsi in assemblea, repressio- ne degli scioperi, contributi previ- denziali non versati, liquidazioni insufficienti. Le donne poi sono un capitolo a parte: solo la metà degli intervistati ha riferito che alle donne è concessa l’aspettativa per maternità e per alcune di loro, nel periodo di assenza dal lavoro, lo stipendio è stato calcolato sul mini- mo anziché sulla media salariale come stabilisce per legge. Donne e uomini non sarebbero poi trattati allo stesso modo senza contare le denunce di abusi verbali. Ma ciò che colpisce della situa- zione cinese – che raccontata così non differisce molto da quella di al- tri Paesi dell’area – è che le condi- zioni di lavoro degli operai del set- tore sono in contrasto con le leggi sul lavoro, in Cina molto avanzate. Soprattutto, nota il rapporto, se il confronto lo si fa a con quelle di al- tri Paesi produttori. Per legge infat- ti i lavoratori godono di molte tute- le - anche se non della libertà di riunione e associazione – e inoltre quasi tutti i grandi marchi delle cal- zature hanno adottato codici di condotta per un maggior controllo dei fornitori. Una spiegazione la dà Deborah Lucchetti, coordinatrice di Abiti Puliti che aderisce alla Campa- gna: «Il settore delle calzature è molto dinamico e la Cina gioca un ruolo fondamentale nella rete di fornitura globale che assegna ai veri Paesi funzioni produttive diverse. Questo porta a una com- petizione senza regole che sacrifi- ca i diritti dei lavoratori e ostacola processi di emancipazione nelle fabbriche». Anche a discapito del- le regole che evidentemente subi- scono pochi controlli in nome del motto «arricchitevi» che in realtà non è ancora stato sostituito dal nuovo trend cinese la cui parola d’ordine sarebbe «armonia». Nel- le fabbriche del Guangdong sem- bra ce ne sia pochina. Per mettere assieme il dossier so- no stati intervistati 47 lavoratori di tre calzaturifici del Guangdong, una delle aree più densamente in- dustrializzate del Paese e centro della produzione di scarpe. Lo stu- dio termina con una serie di racco- mandazioni per favorire migliora- menti di natura sociale e ambien- tale nell’industria cinese di cuoio e calzature, settore che ha conosciu- to una crescita record ma che ha anche ignorato alcuni standard in- ternazionali di tutela come quelli indicati dall’Organizzazione Inter- nazionale del Lavoro. Documenta però un dato positivo: una maggio- re capacità di organizzazione dei lavoratori e di conseguenza con- quiste ottenute attraverso diverse forme di lotta. S econdo stime sindacali in Italia 1.700.000 persone (di tutte le età, in maggioranza donne) ricevono per il loro lavo- ro un voucher al posto del sala- rio. Sono il 10% di tutti i lavorato- ri dipendenti ed il loro numero è in continua crescita. Se ne preoc- cupa anche il Presidente della Re- pubblica, che chiede si metta fi- ne al loro «utilizzo improprio». L’ intenzione della legge del 2003 era quella di regolarizzare alcune forme di lavoro saltuario e di contrastare il caporalato, in particolare nei lavori stagionali in agricoltura. Per queste finalità i voucher sono stati utilizzati po- chissimo. La loro crescita espo- nenziale comincia dopo il 2008, con la crisi e l’avvio di un diffuso processo di riorganizzazione del- le imprese caratterizzato dal re- cupero di efficienza e di produtti- vità e dal risparmio non solo dei costi, ma anche degli occupati. Nel 2009 i voucher acquistati pas- sano da 500.000 a 2,7 milioni e poi in crescendo si arriva ai 115 milioni del 2015 . In otto anni ne sono stati venduti per 4 miliardi di euro, anche perché, grazie alle leggi dei governi Berlusconi, Monti e Renzi, si è esteso e libera- lizzato il loro utilizzo: dal com- mercio e turismo ai laboratori ar- tigianali ; dai cantieri edili ai servi- zi pubblici per la cura del verde, la manutenzione degli edifici sco- lastici, i servizi funebri, la siste- mazione degli archivi. Questo non ha ridotto l’area del lavoro nero. Diffuso rimane il caporala- to in agricoltura anche al Nord. Lo stesso vale in edilizia. Lo pro- va la denuncia dell’Inail: quasi sempre il giorno di infortunio in cantiere o nei campi coincide con il primo pagamento del buo- no-lavoro. I voucher servono non per sa- nare situazioni di irregolarità, ma per rendere regolare lavorare senza contratti di lavoro, cioè senza misure di sostegno al red- dito in caso di disoccupazione, malattia, maternità; senza gode- re di tredicesima, ferie, permessi, maggiorazioni per il lavoro festi- vo. Alla divisione dell’era fordista tra esercito del lavoro ed esercito di riserva dei disoccupati ora, nell’epoca del toyotismo, si sosti- tuisce la frattura tra lavoro "ne- cessario", impegnato nei proces- si di miglioramento continuo (il kaizen) per reggere la competi- zione globale, e lavoro "accesso- rio", precario, intermittente, co- munque just in time, sempre a di- sposizione. Senza di ciò non si ca- pirebbe perché la crescita espo- nenziale dei voucher ha interessa- to le regioni più ricche del Paese, come la Lombardia o il Veneto, e perché in un anno è raddoppiata nelle attività "non classificate", dove c’è tanta manifattura, dall’operaio al programmatore informatico. Il toyotismo ha come caratteri- stica di fondo l’aziendalismo e per questo avversa i contratti na- zionali di categoria ed il sindacali- smo confederale. Che si chiami Wcm come alla Fca o «metodo kaizen» come nell’industria del presidente di Federmeccanica o lean production come alla Luxot- tica, l’obiettivo di fondo è la mes- sa in mora della contrattazione sindacale da sostituire con la "partecipazione". Al Galileo Festi- val di Padova , di fronte ad una af- follata platea di imprenditori ve- neti, lo ha ripetuto con forza To- shio Horikiri, il manager che ha portato la Toyota in Cina e ora fa accordi di consulenza in Italia. In questo sono di grande aiuto le leggi dei Governi che in Europa, conservatori o "progressisti" che siano, non sono mai stati così an- ti-sindacali, dalla Gran Bretagna alla Germania per finire alla Francia, dove è in atto una dura lotta sindacale. In Italia la spon- da è il Jobs Act. Mentre svanisce l’effetto propagandistico del «più libertà di licenziare, più as- sunzioni» (dopo 16 mesi il 40% degli assunti ha già perso il lavo- ro), ciò che conta è impedire che la contrattazione collettiva inceppi il meccanismo. Un’azienda che firma accordi in deroga al Jobs Act «è di fatto fuo- ri dalla nostra associazione»: questa è la linea di Maurizio Stir- pe, il responsabile per le relazio- ni industriali di Confindustria. Per contrastare questa deriva non basta "tracciare" i voucher (o "regolari meglio", come si di- scute nel Governo) oppure con- trattarli in azienda (come propo- ne la Cisl). Occorre un sindaca- to capace di invertire il proces- so con cui negli anni Ottanta le imprese fecero proprie le con- quiste operaie, dal riconosci- mento dei nuovi contenuti pro- fessionali al controllo collettivo sul processo produttivo, sosti- tuendo progressivamente i dele- gati sindacali con i team-lea- der, attivisti del progetto azien- dale di partecipazione. Si tratta ora di contrattare questi nuovi schemi di lavoro partecipativi, facendo leva sullo scarto tra ac- cresciute responsabilità e limi- tata autonomia; tra superlavo- ro e precarietà. La richiesta del- la Cgil di abolire l’attuale legisla- zione sui voucher è un passo in questa direzione. JOBS ACT Abolire i voucher Salari da fame, licenziamenti, maltrattamenti e violazione dei diritti sindacali INDUSTRIA · L’uso di semilavorati nella conciaria Un’ombra sul mercato italiano delle pelli Il mondo del cuoio è fortemente globalizzato per le materie prime e il lavoro a basso costo LAVORO SCIOPERO NEI CALZATURIFICI YUE YUEN A HONG KONG FOTO REUTERS CINA · Dossier della campagna Change your shoes sul maggior produttore mondiale di calzature Operai come scarpe vecchie INDUSTRIA DI SCARPE A WENZHOU, CINA FOTO REUTERS Mario Sai L’obiettivo è sostituire la «partecipazione» alla contrattazione sindacale

Transcript of Abolireivoucher - Abiti Puliti

Page 1: Abolireivoucher - Abiti Puliti

pagina 8 il manifesto SABATO 4 GIUGNO 2016

Em. Gio.

La Cina è di gran lunga il lea-der mondiale nella produ-zione di calzature ed è an-

che tra i maggiori consumatoridi scarpe al mondo con 3,65 mi-liardi di paia contro i 2,8 della Uee i 2,3 degli Usa. La maggior par-te delle calzature vendute nellaUe - oltre la metà nel 2013 - è pro-dotto in Cina. L’Unione europea,in termini di valore, è però il piùgrande mercato delle calzaturenel mondo e, in termini di volu-me, il secondo più grande dopol’Asia. La Cina produce anchecuoio ma non lo esporta in for-ma grezza semmai come semi la-vorato (wet blue) di cui l’Italia ealtri Paesi europei sono inveceforti acquirenti (il 97% della pelleprodotta italiana ha origine daimportazione estera di grezzo owet blue). La pelle semilavorataarriva nelle concerie italiane epoi magari torna – finita o semila-vorata - nei Paesi di provenien-za. Secondo i dati della Fondazio-ne Italia Cina, nel 2013 l’Italia haesportato nell’Impero di mezzo

«articoli in pelle e cuoio» per 1,1miliardi, e «scarpe e accessori»per oltre 400 milioni.

Dalle scarpe alle borsette, dalgrezzo al semilavorato, il mondodel cuoio è fortemente globaliz-zato sia per la necessità di mate-rie prime, sia per l’utilizzo di ma-nodopera a basso costo nei Paesiin via di sviluppo o di rapido svi-luppo, sia per le diverse fasi di la-vorazione del cuoio finito che inItalia ha le sue eccellenze. Ma an-che qualche buco nero.

Da un punto di vista geografi-co, l’attività di concia è sviluppa-ta principalmente in tre distrettiche assieme coprono l’88,6% ditutta la produzione nazionale.Per ordine di importanza sono:Arzignano in Veneto, lungo la val-le del Chiampo in provincia di Vi-

cenza, Santa Croce in Toscana,tra le province di Pisa e Firenze,Solofra in Campania, tra Napolie Avellino.

L’industria conciaria italianaè dominata da piccole imprese(molte delle quali internaziona-lizzate, dalla Serbia al Vietnam)alla ricerca di pelli a basso co-sto da ricollocare, lavorate, sulmercato mondiale. E’ un merca-to complesso – in stretta relazio-ne con quello della carne bovi-na - ma dove l’Italia è ben posi-zionata: i maggiori esportatoridi pelli semilavorate sono Brasi-le, Usa e Ue. «La Ue – spiega unrapporto del dicembre scorsodel Centro Nuovo Modello diSviluppo e della Campagna Abi-ti Puliti di cui il manifesto hagià dato notizia - importa quasiil doppio di quanto esporta e illeader del settore è è l’Italia,con il 76% delle importazionieuropee». Nel distretto di SantaCroce ad esempio, 240 conce-rie affiancate da oltre 500 labo-ratori terzisti contribuiscono al70% di tutto il cuoio per suoleprodotto in Europa e al 98% diquello prodotto in Italia.

Sono aziende medio piccole,spesso a conduzione famigliare.Il distretto impiega 12.700 perso-ne, tra lavoratori alle dirette di-pendenze delle imprese e assun-ti da agenzie interinali. I primi,racconta il dossier, rappresenta-no il 72% del totale, i secondi il28%. «È nelle officine dei terzistiche si concentra il lavoro interi-nale... dove si registrano le situa-zioni di maggior sfruttamento la-vorativo» in un settore dove il la-voro è cresciuto ma in formasempre più precaria. Nel 2014hanno trovato lavoro 4.650 nuo-vi addetti, ma solo 1.199 alle di-pendenze delle aziende produt-trici. E i contratti di lavoro interi-nale sono di vario tipo e persinodi sole quattro ore, spesso conmanodopera straniera, la piùsindacalmente fragile. C’è dun-que un’ombra diffusa sul merca-to della pelle, sia esso in Cina onei Paesi che lavorano in contoterzi, sia in Italia dove i grandimarchi di calzature firmate ven-dono in tutto il mondo. Un’om-bra che cammina con le nostrescarpe.

Emanuele Giordana

Con oltre 15,7 miliardi di paiadi scarpe confezionate nelsolo 2014, la Cina è il mag-

gior produttore mondiale di calza-ture e l’Unione Europea è, a suavolta, il più grande mercato disbocco dei prodotti in cuoio e cal-zaturieri del Celeste impero. Scar-pe che vengono e che vanno: cuo-io, suole, tomaie, cuciture, prodot-ti finiti e semilavorati. Loro là noiqua, ma le scarpe su cui camminia-mo, le borsette o i giacconi di cuo-io che indossiamo, hanno spessouna componente cinese anche sesono «Made in Italy». Chiedersi co-me e in che condizioni lavora ilpiù grande mercato mondiale del-le scarpe non è dunque peregrino.Lo abbiamo fatto con le magliette,i palloni, i tappeti, le tennis. Ades-

so un’alleanza internazionale di18 organizzazioni, che ha lanciatola campagna Change Your Shoes,cerca di vedere oltre confine. Per-ché i lavoratori della filiera calzatu-riera abbiano diritto a un salario di-gnitoso e a condizioni di lavoro si-cure. E perché i consumatori sap-piano su cosa camminano.

Non è la prima indagine dellaCampagna che ha già condotto ri-

cerche in India, Indonesia, Euro-pa dell’Est, Italia e Turchia. Que-sta volta un dossier - Tricky Fo-otwork. The Struggle for LabourRights in the Chinese Footwear In-dustry - punta i riflettori sulla Ci-na, sulla base di un’inchiesta rea-lizzata a fine 2015 tra i lavoratoridi tre fabbriche della provincia diGuangdong curata dall’organiz-zazione tedesca Südwind. Il rap-porto denuncia una situazione al-larmante dal punto di vista delleviolazioni dei diritti umani perchi lavora nella grande fabbricaasiatica di scarpe.

L’indagine non è stata facile e sibasa in gran parte su interviste checonfermano come nell’industria ci-nese del cuoio e delle calzature leviolazioni delle leggi sul lavoro sia-no diffuse. E così le punizioni: unverniciatore è stato licenziato do-po 5 anni di lavoro nei giorni se-guenti a uno sciopero. «Mentrescioperavamo – racconta un altro- la polizia ci ha aizzato i cani con-tro, istigandoli a mordere». Gli in-tervistati, che lavorano in stabili-menti che producono per conto dinoti marchi europei (come Adi-das, Clarks, Ecco), segnalano retri-buzioni basse (400 euro al mesecirca) e orari faticosi (una media dioltre 10 ore al giorno) con straordi-nari obbligatori, sicurezza inade-guata, tutele insufficienti per i piùgiovani, maltrattamenti e divietodi riunirsi in assemblea, repressio-ne degli scioperi, contributi previ-denziali non versati, liquidazioniinsufficienti. Le donne poi sonoun capitolo a parte: solo la metàdegli intervistati ha riferito che alle

donne è concessa l’aspettativa permaternità e per alcune di loro, nelperiodo di assenza dal lavoro, lostipendio è stato calcolato sul mini-mo anziché sulla media salarialecome stabilisce per legge. Donne euomini non sarebbero poi trattatiallo stesso modo senza contare ledenunce di abusi verbali.

Ma ciò che colpisce della situa-zione cinese – che raccontata cosìnon differisce molto da quella di al-tri Paesi dell’area – è che le condi-zioni di lavoro degli operai del set-tore sono in contrasto con le leggisul lavoro, in Cina molto avanzate.Soprattutto, nota il rapporto, se ilconfronto lo si fa a con quelle di al-

tri Paesi produttori. Per legge infat-ti i lavoratori godono di molte tute-le - anche se non della libertà diriunione e associazione – e inoltrequasi tutti i grandi marchi delle cal-zature hanno adottato codici dicondotta per un maggior controllodei fornitori.

Una spiegazione la dà DeborahLucchetti, coordinatrice di AbitiPuliti che aderisce alla Campa-gna: «Il settore delle calzature èmolto dinamico e la Cina giocaun ruolo fondamentale nella retedi fornitura globale che assegnaai veri Paesi funzioni produttivediverse. Questo porta a una com-petizione senza regole che sacrifi-ca i diritti dei lavoratori e ostacolaprocessi di emancipazione nellefabbriche». Anche a discapito del-le regole che evidentemente subi-scono pochi controlli in nome delmotto «arricchitevi» che in realtànon è ancora stato sostituito dalnuovo trend cinese la cui parolad’ordine sarebbe «armonia». Nel-le fabbriche del Guangdong sem-bra ce ne sia pochina.

Per mettere assieme il dossier so-no stati intervistati 47 lavoratori ditre calzaturifici del Guangdong,una delle aree più densamente in-dustrializzate del Paese e centrodella produzione di scarpe. Lo stu-dio termina con una serie di racco-mandazioni per favorire migliora-menti di natura sociale e ambien-tale nell’industria cinese di cuoio ecalzature, settore che ha conosciu-to una crescita record ma che haanche ignorato alcuni standard in-ternazionali di tutela come quelliindicati dall’Organizzazione Inter-nazionale del Lavoro. Documentaperò un dato positivo: una maggio-re capacità di organizzazione deilavoratori e di conseguenza con-quiste ottenute attraverso diverseforme di lotta.

Secondo stime sindacali inItalia 1.700.000 persone (ditutte le età, in maggioranza

donne) ricevono per il loro lavo-ro un voucher al posto del sala-rio. Sono il 10% di tutti i lavorato-ri dipendenti ed il loro numero èin continua crescita. Se ne preoc-cupa anche il Presidente della Re-pubblica, che chiede si metta fi-ne al loro «utilizzo improprio».

L’ intenzione della legge del2003 era quella di regolarizzarealcune forme di lavoro saltuarioe di contrastare il caporalato, inparticolare nei lavori stagionaliin agricoltura. Per queste finalitài voucher sono stati utilizzati po-chissimo. La loro crescita espo-nenziale comincia dopo il 2008,con la crisi e l’avvio di un diffusoprocesso di riorganizzazione del-le imprese caratterizzato dal re-cupero di efficienza e di produtti-vità e dal risparmio non solo deicosti, ma anche degli occupati.Nel 2009 i voucher acquistati pas-sano da 500.000 a 2,7 milioni epoi in crescendo si arriva ai 115milioni del 2015 . In otto anni nesono stati venduti per 4 miliardidi euro, anche perché, grazie alleleggi dei governi Berlusconi,Monti e Renzi, si è esteso e libera-lizzato il loro utilizzo: dal com-mercio e turismo ai laboratori ar-tigianali ; dai cantieri edili ai servi-zi pubblici per la cura del verde,la manutenzione degli edifici sco-lastici, i servizi funebri, la siste-mazione degli archivi. Questonon ha ridotto l’area del lavoronero. Diffuso rimane il caporala-to in agricoltura anche al Nord.Lo stesso vale in edilizia. Lo pro-va la denuncia dell’Inail: quasisempre il giorno di infortunio incantiere o nei campi coincidecon il primo pagamento del buo-no-lavoro.

I voucher servono non per sa-nare situazioni di irregolarità,ma per rendere regolare lavorare

senza contratti di lavoro, cioèsenza misure di sostegno al red-dito in caso di disoccupazione,malattia, maternità; senza gode-re di tredicesima, ferie, permessi,maggiorazioni per il lavoro festi-vo. Alla divisione dell’era fordistatra esercito del lavoro ed esercitodi riserva dei disoccupati ora,nell’epoca del toyotismo, si sosti-tuisce la frattura tra lavoro "ne-cessario", impegnato nei proces-si di miglioramento continuo (ilkaizen) per reggere la competi-

zione globale, e lavoro "accesso-rio", precario, intermittente, co-munque just in time, sempre a di-sposizione. Senza di ciò non si ca-pirebbe perché la crescita espo-nenziale dei voucher ha interessa-to le regioni più ricche del Paese,come la Lombardia o il Veneto, eperché in un anno è raddoppiatanelle attività "non classificate",dove c’è tanta manifattura,dall’operaio al programmatoreinformatico.

Il toyotismo ha come caratteri-stica di fondo l’aziendalismo eper questo avversa i contratti na-zionali di categoria ed il sindacali-smo confederale. Che si chiamiWcm come alla Fca o «metodokaizen» come nell’industria delpresidente di Federmeccanica olean production come alla Luxot-tica, l’obiettivo di fondo è la mes-sa in mora della contrattazionesindacale da sostituire con la"partecipazione". Al Galileo Festi-val di Padova , di fronte ad una af-

follata platea di imprenditori ve-neti, lo ha ripetuto con forza To-shio Horikiri, il manager che haportato la Toyota in Cina e ora faaccordi di consulenza in Italia. Inquesto sono di grande aiuto leleggi dei Governi che in Europa,conservatori o "progressisti" chesiano, non sono mai stati così an-ti-sindacali, dalla Gran Bretagnaalla Germania per finire allaFrancia, dove è in atto una duralotta sindacale. In Italia la spon-da è il Jobs Act. Mentre svaniscel’effetto propagandistico del«più libertà di licenziare, più as-sunzioni» (dopo 16 mesi il 40%degli assunti ha già perso il lavo-ro), ciò che conta è impedireche la contrattazione collettivainceppi il meccanismo.Un’azienda che firma accordi inderoga al Jobs Act «è di fatto fuo-ri dalla nostra associazione»:questa è la linea di Maurizio Stir-pe, il responsabile per le relazio-ni industriali di Confindustria.

Per contrastare questa derivanon basta "tracciare" i voucher(o "regolari meglio", come si di-scute nel Governo) oppure con-trattarli in azienda (come propo-ne la Cisl). Occorre un sindaca-to capace di invertire il proces-so con cui negli anni Ottanta leimprese fecero proprie le con-quiste operaie, dal riconosci-mento dei nuovi contenuti pro-fessionali al controllo collettivosul processo produttivo, sosti-tuendo progressivamente i dele-gati sindacali con i team-lea-der, attivisti del progetto azien-dale di partecipazione. Si trattaora di contrattare questi nuovischemi di lavoro partecipativi,facendo leva sullo scarto tra ac-cresciute responsabilità e limi-tata autonomia; tra superlavo-ro e precarietà. La richiesta del-la Cgil di abolire l’attuale legisla-zione sui voucher è un passo inquesta direzione.

JOBS ACT

Abolire i voucherSalari da fame,licenziamenti,maltrattamentie violazionedei diritti sindacali

INDUSTRIA · L’uso di semilavorati nella conciaria

Un’ombra sulmercatoitaliano delle pelli

Il mondo del cuoioè fortementeglobalizzato per lematerie prime e illavoro a basso costo

LAVORO

SCIOPERO NEI CALZATURIFICI YUE YUEN A HONG KONG FOTO REUTERS

CINA · Dossier della campagna Change your shoes sul maggior produttore mondiale di calzature

Operai come scarpe vecchie

INDUSTRIA DI SCARPE A WENZHOU, CINA FOTO REUTERS

Mario Sai

L’obiettivoè sostituire la

«partecipazione»alla contrattazione

sindacale