A Silvia- Leopardi
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A Silvia
La lirica, composta a Pisa nel 1828, è quella che inaugura la stagione dei cosiddetti “grandi
idilli”: Leopardi torna alla poesia, dopo l’intervallo di sei anni delle Operette morali. Queste poesie, a
differenza degli idilli giovanili, sono pervase dalla consapevolezza dell’”arido vero”, causata dalla fine delle
illusioni giovanili.
La Silvia che è protagonista della lirica è stata tradizionalmente identificata con Teresa Fattorini, figlia
del cocchiere di casa Leopardi, morta giovanissima di tubercolosi circa dieci anni prima. Il nome “Silvia”, oltre
che per il gioco fonico che forma con “salivi”,ultima parola della prima strofa, è significativo anche perché è il
nome della protagonista dell’Aminta di Tasso. Comunque, al di là dell’identificazione biografica, è importante
soprattutto notare che Silvia diventa il simbolo della giovinezza, dell’amore, delle trepidanti attese, del vago
fantasticare, interrotti troppo presto dalla morte, che fa cessare miseramente tutte le illusioni. Infatti, ciò che
la unisce al poeta non è una vera e propria storia d’amore, bensì è la comune condizione giovanile, fatta di
speranze e sogni destinati ad essere ben presto delusi. La morte di Silvia, il suo “cadere” rappresentano
anche la morte di ogni speranza ed illusione giovanile del poeta. Per questo, si scaglia contro la natura,
incapace di mantenere le promesse fatte; alla fine, resta solo la “fredda morte” a spegnere ogni immagine di
vita.
Tutto il componimento è pervaso dalla vaghezza e dal senso di indefinito che, per Leopardi, sono
massimamente poetici: infatti non vi sono descrizioni, la figura femminile non presenta dettagli concreti. Gli
elementi fisici e realistici sono solo un punto di partenza: l’unico particolare concreto cui si accenna è lo
sguardo ridente, luminoso e al tempo stesso pudico che illumina la figura di Silvia e ne sottolinea
l’atteggiamento spensierato, felice ma anche riflessivo; anche l’ambiente circostante è rarefatto e
caratterizzato solo da pochi aggettivi evocativi: “quiete”, “odoroso”, “sereno”, “dorate”. La poesia è resa
possibile soltanto dal filtro del ricordo, che, come il filtro “fisico” rappresentato dalla finestra del “paterno
ostello”, rende le immagini sfocate, quindi “vaghe e indefinite”. La finestra, come la siepe de L’infinito, infatti,
limita il contatto con il reale, scatenando l’immaginazione. Inoltre il filtro del ricordo concorre in maniera
determinante a spegnere le illusioni, che non possono essere vissute ingenuamente come nella giovinezza,
bensì sono interrotte dalla consapevolezza del vero. Tuttavia, anche se la poesia si chiude con l’immagine
lugubre della morte, è tutta pervasa da immagini di vita e di gioia, poiché Leopardi vuole levare un grido di
protesta contro la natura “matrigna” che ha negato queste cose belle all’uomo: non si rassegna al dolore,
ma, pur nella disperazione, non rinuncia mai a rivendicare il diritto alla felicità.
Netta la contrapposizione anche nell’uso dei tempi verbali: l’imperfetto caratterizza le strofe del
ricordo indefinito degli anni giovanili e domina le strofe 1, 3 e 5, il presente quelle dell’amara constatazione
del dolore, la 4 e la 6. Nelle strofe del ricordo, la sintassi è piana e limpida, in quelle di riflessione è più
mossa e tesa, ricca di interrogative retoriche e di esclamazioni. Molte sono le parole appartenenti al
linguaggio del “vago e indefinito”: “fuggitivi”, “quiete”, “perpetuo”, “vago”, “odoroso”, “lungi”, “dolce”.