A proposito di Dafne

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Monia Colianni, romance young adults

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MONIA COLIANNI

A PROPOSITO DI DAFNE 

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A PROPOSITO DI DAFNE Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-451-2 In copertina: Immagine di Monia Colianni

Prima edizione Settembre 2012 Stampato da

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Qualsiasi riferimento ad avvenimenti, luoghi e persone realmente esistenti è puramente casuale, perché frutto della fantasia dell’autrice.

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Al mio piccolo principe Alla mia famiglia

Perché in fondo sono una volpe addomesticata

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A proposito di Dafne  Da bambina Dafne lo sognava continuamente. L’uomo dei sogni era una vera fissazione. Era cresciuta a pane e cartoni animati, e non di rado mamma Dolores la scovava nella sua cameretta a recitarne con convinzio-ne le scene più romantiche. Lo spigolo dell’armadio si prestava perfetta-mente a impersonare il suo cavaliere, al quale spesso si avvinghiava ripe-tendo le battute delle puntate appena viste: «Oh, André, anche io ti amo. La rivoluzione ci aspetta, ma con te mi sento al sicuro!» Erano scene esilaranti, un’attrice di cartoni animati degna di Oscar. Dafne trascorse gli anni dell’innocenza nella totale convinzione che un uomo dei sogni sarebbe arrivato anche per lei. E quel giorno non sarebbe stato un armadio, ma un prestante giovane con voce propria e aspetto in-cantevole. Sin dall’adolescenza si era dimostrata una ragazza sveglia ed estremamen-te originale. Agli occhi dei coetanei risultava spesso strana, per molti ge-nitori la classica ragazza con troppi grilli per la testa. Possedeva un’incredibile dote: disegnava e dipingeva in modo sublime. Era un’eccentrica creativa. A ventiquattro anni avrebbe acquistato una reflex; dopo mille foto, scattate a raffica in soli due giorni, pensò che quell’aggeggio era prodigioso, ma distruggeva ogni cosa. Dal suo artico-lato punto di vista, la fotografia di precisione immortalava le cose e le per-sone esattamente così come le vediamo nella realtà. Per la maggior parte della gente, questo è lo scopo primario della fotografia; per Dafne, un’ingiustizia, che definiva l’omicidio bello e buono della parte divertente del cervello. Anche il suo stile era tutto ciò che la gente spesso faticava a comprendere. Non passava mai inosservata. Naturalmente estrosa, una per le quali, nel bene o nel male, ci si volta sempre.

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Aveva due piercing e tre tatuaggi; farfalla, elfo e tribale? Assolutamente no. A ornare il suo corpo aveva scelto disegni pianificati e bizzarri, che pochi avrebbero avuto modo di comprendere; ma in fondo, non le interes-sava affatto che ciò accadesse. Il giorno in cui Dafne si recò a fare il terzo tatuaggio, entrò nello studio una ragazza molto raffinata, senza dubbio vestita d’alta sartoria. Dafne os-servò la scena. La ragazza “seria” si avvicinò frettolosamente al bancone e si rivolse al tatuatore, incurante della gente che ancora aspettava. «Voglio un delfino sulla caviglia destra, di circa quattro, cinque centime-tri; se torno alle diciotto ce la fai in un’ora?» Dafne non fece in tempo ad attivare il silenziatore dei suoi pensieri, e a gran voce espresse la sua opinione. «E poi ci si chiede perché i delfini si estinguano!» Ska, il tatuatore, la guardò per un lungo, interminabile istante e, noncuran-te della nuova cliente, rispose al pensiero espresso dall’amica. «Mah! Vuoi dire che nel mesozoico si tatuavano tutti il tirannosauro?» Dafne non capì mai perché la ragazza “seria” andò via sbattendo la porta e fracassandole i timpani. Ma di sicuro, da quelle parti non l’avrebbero più vista. Il concetto di moda generalmente la irritava. Dafne aveva usato per anni le All Star quando per il mondo erano scarpe da sfigati. Quando il mondo i-niziò a spendere una fortuna per quelle calzature, lei smise di usarle per-ché si sentiva sfigata. Tornò così, con infinito appagamento, all’intramontabile Clark color cammello. Solo quando la moda era anni settanta, Dafne sembrava alla moda. «Quando porti i jeans a zampa e reggiseno in vista sei una drogata! Quan-do la moda impone jeans a zampa con reggiseno in vista sei una tipa giu-sta! Mettete in salvo il cervello se sono io la pazza!» Questo urlò una volta a un’amica parlando di moda. Non ho dimenticato la descrizione fisica di Dafne. I lineamenti delicati del volto e del fisico erano in perfetta sintonia con la personalità; semplici ma fuori dagli schemi, certi giorni lasciavano senza parole, in altri passavano silenziosamente inosservati. Il colore dei suoi capelli mutava velocemen-te; dai sedici fino ai ventisei anni aveva cambiato innumerevoli tinte. La tonalità ricorrente nei suoi esperimenti era sempre stato il rosso; rosso mogano, rosso fuoco, neri con fiammanti ciocche rosse, rosso carota, ros-so con tracce di verde sulle punte. Dafne avrebbe vissuto dipingendo, ma la vita necessitava di denaro. Già da ragazzina temeva che dipingere non

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gliene avrebbe mai portati abbastanza. Non in Italia. Ma non voleva am-metterlo, specie con i genitori, che invece non perdevano occasione per farglielo notare. Spesso, avvicinandosi all’età adulta, si era fermata a pen-sare al suo futuro. Pensava che forse non aveva ancora capito cosa volesse fare da grande, e che forse era meglio tornare a un colore naturale di ca-pelli per cercare l’intramontabile posto fisso, in quella frenetica e ipocrita società in cui aveva avuto la sfortuna di nascere. Attraversata la crisi, le tornava in mente l’amore per l’arte, per la creatività, ciò che dava senso e vita a ogni cosa. Di colpo si rasserenava e ascoltava musica, isolandosi da tutto e dai brutti pensieri. Iniziava a sognare una vita ideale; trovarsi in una casetta in cima a una collina, racchiusa da un piccolo recinto di legno colorato, con una di quelle caratteristiche caselle di posta in stile america-no e un dondolo per due nel giardino, in cui cullarsi con l’uomo dei sogni. Altre volte la sua musica preferita la trasportava sul ciglio di una scoglie-ra; il vento le scompigliava i lunghi e folti capelli. Era libera. I sogni non garantivano denaro, ma nessuno poteva strapparglieli. Dafne andò via di casa molto giovane. Nei primi anni d’indipendenza si era data a una varietà di lavoretti, che in qualche modo si era fatta piacere, seppur scelti al solo scopo di sbarcare il lunario. Aveva lavorato a lungo in un art bar. In quel posto, a lei molto caro, aveva esposto varie volte i suoi dipinti, e questo l’aveva entusiasmata a dismisura. L’art bar era stata la sua seconda casa per molto tempo. Ci aveva lavorato la prima volta nel 2004, a ventiquattro anni, e dopo varie e tormentate vicissitudini si era trovata a lavorarci di nuovo qualche anno più tardi. Per un periodo aveva collaborato con una cooperativa sociale, esperienza breve ma che le aveva permesso di conoscere realtà molto diverse dalla sua; durante l’ora di pranzo portava pasti a domicilio ai malati o agli an-ziani di alcuni quartieri periferici di Milano, città in cui era nata e cresciu-ta. Zittire le persone con una frase fredda e incisiva era la geniale peculiarità di Dafne. Non badava a nulla; che ti conoscesse o meno, per lei non face-va differenza. Se uno è stronzo ha tutto il diritto di saperlo, questo pensa-va dopo aver freddato qualcuno. La verità e la schiettezza dei propri pen-sieri erano da sempre dogmi intoccabili della sua vita. In particolare odia-va le ingiustizie, soprattutto quelle a carico di persone che giudicava indi-fese. Non riusciva a farsele scivolare addosso, anche a costo di farsi il sangue acqua per faccende non sue. Un particolare aneddoto a questo proposito si verificò durante l’attività dei pasti a domicilio.

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Un martedì andò a portare il pranzo alla signora Buzz, che chiamava così per via del suono del suo campanello; le sembrava uno di quei pulsanti sonori dei quiz televisivi. Dopo averlo suonato, subito urlava: “Il pranzo è servito!” Inesorabilmente, il cane della signora Buzz andava su tutte le fu-rie. Dopo aver annunciato la sua presenza, Dafne prendeva la chiave da sotto al vaso di ciclamini ed entrava. Quel particolare martedì, varcata la soglia di casa, posò il cibo e si diresse come al solito in cucina per apparecchiare. La signora era sulla sua sedia a rotelle, e rimase in un angolo del soggiorno. Quando Dafne fece capolino dalla cucina, scorse l’anziana donna ancora nel suo angolino, con in mano un portafoto argentato. Osservava la foto della figlia. «Qui Cristiana aveva solo ventisei anni, l’abbiamo scattata il giorno della laurea; è una bravissima dirigente, anzi managger, come dite voi giovani! È sempre tanto impegnata! Ma tra poco vedrai che mi chiama per gli au-guri! Mamma mia, ne faccio settantanove!» Dafne rimase in silenzio. La signora Buzz voleva convincere lei o se stes-sa? Il giorno seguente non toccava a Dafne portare il pranzo alla donna; deci-se comunque di passare a trovarla. L’anziana fu molto sorpresa nel riceve-re quella visita inaspettata. Restò ancora più sorpresa nel vedere tutto ciò che Dafne le aveva portato: dolci di ogni tipo, tutti rigorosamente teneri e a prova di dentiera. La signora Buzz pianse e ringraziò decine di volte. Dopo aver mangiato un dolce insieme, Dafne chiese alla signora se la fi-glia l’avesse poi chiamata per gli auguri. La donna ebbe di nuovo gli occhi lucidi, che invasero quello stanco volto di una travolgente tristezza. «L’avranno sicuramente trattenuta in ufficio! Cristiana è talmente brava, certi giorni non possono proprio fare a meno di lei.» Dafne non disse nulla, le chiese solo a che ora sarebbe arrivata la badante e se poteva esserle utile in qualche modo. Prima di lasciare l’appartamento, la ragazza rubò per qualche istante la rubrica del telefono e copiò un numero sul suo cellulare. Una volta a casa compose il numero; dall’altra parte risposero dopo due squilli. «Salve Cristiana, noi non ci conosciamo e mi scusi sin da ora se le rubo tempo prezioso. Cercherò di metterci davvero poco a farle gli auguri per il suo settantanovesimo compleanno.» Riagganciò senza attendere risposta.

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Quella notte Dafne si addormentò con tristezza, pensando a quella tenera vecchietta. Cristiana Vincenzi si addormentò in preda al pianto, speranzo-sa che si facesse presto giorno per andare dalla madre.

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A proposito dei genitori di Dafne  Dafne nacque il tredici agosto 1980 a Milano, con immenso dolore di sua madre Dolores; un travaglio di ventidue estenuanti ore. Quando finalmen-te venne alla luce, tutti i presenti rimasero stupefatti; nonostante le lunghe ore di fatica, i suoi tratti si fecero in poco tempo rosei e distesi come quelli di una bambola. Era come se avesse spiegato da subito quanto poco si sa-rebbe sconvolta di fronte alle difficoltà della vita. Rimase figlia unica. Dafne era cresciuta nella netta sensazione di essere tutto ciò che i suoi ge-nitori non avrebbero mai voluto. A dispetto di ciò, era incredibilmente at-tratta tra loro, come se una strana chimica li legasse senza ragione, e nemmeno lei sapeva spiegarsene il motivo. Col tempo aveva capito che i suoi genitori potevano essere come il fuoco per i bambini piccoli: oggetto di un grande richiamo ma che inevitabil-mente, a ogni contatto, genera dolore e delusione. La situazione si sconvolse irreversibilmente quando Dafne compì quindici anni. Era finito il suo primo anno di liceo classico ed era stata bocciata. Non avrebbe mai voluto frequentare quella scuola di “bacchettoni”, come definiva i compagni e gli insegnanti che aveva avuto il dispiacere di cono-scere quell’anno. Da quando aveva memoria, Dafne ricordava matita e gessetto come pro-secuzione naturale della sua mano destra. Voleva disegnare e vivere i suoi anni migliori tra ragazzi e docenti che amassero la creatività, piuttosto che nel piattume emotivo incontrato in quella scuola. Dafne odiava oltremodo quelli che definiva “i fighetti alternativi”, ovvero i figli di medici, inge-gneri e avvocati della “Milano bene”, quelli che vestiti di costosi stracci fanno i finti anticonformisti e “combattono il sistema”. Il suo liceo ne era pieno. L’estate dopo la terza media era stata un incubo terribile in casa di Dafne. Il padre diceva che l’arte era bella ma che doveva lasciarla fare agli altri.

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«Devi disegnare nel tempo libero, Daffy! Scarabocchiare non è mica un lavoro! Il lavoro è quello che ti porta il pane in tavola. Non ti pagherò la scuola per imparare a morire di fame! Io e tua madre non abbiamo mai avuto nessuno che ci pagasse gli studi, e guarda cosa siamo: operai del cazzo senza una lira da parte!» Quelle parole le erano state ripetute così spesso che, nonostante fosse già una ragazzina forte e determinata, le avevano creato un assurdo senso di colpa. Così si convinse che era giusto provare con il classico. Sta di fatto che un vulcano attivo può riposare, fare silenzio e apparire un’innocua collina, ma nelle viscere resta pur sempre terra che arde. Daf-ne era uno di quei vulcani in apparente riposo. In seguito alla bocciatura, una sera, decise di affrontare i genitori, con aria minacciosa ma allo stesso tempo estremamente educata. «Non posso obbligarvi a pagarmi una scuola che odiate, quindi frequente-rò di giorno e cercherò un lavoro per la sera. Ma farò l’artistico.» Questo disse, e con tutta la calma di questo mondo cominciò a mangiare. A diciannove anni Dafne si era congedata dal liceo artistico col massimo dei voti e una mostra di fine anno allestita, per buona parte, da tavole sue. Ma non erano stati certo anni facili. La madre non aveva permesso che la-vorasse per pagarsi la scuola, e questo le aveva dato diritto a continue re-criminazioni. Nonostante tutto, si era scontrata con il marito, che invece continuò a opporsi con energia alla scelta della figlia fino all’ultimo anno. «Dovrebbe lavorare la sera e fare i suoi scarabocchi di giorno; così capi-sce cosa vuol dire sgobbare!» urlava papà Aldo ogni tanto. «Noi le pagheremo la scuola, esattamente come avremmo fatto per il clas-sico. Quando finirà a fare l’operaia, mentre gli altri saranno dottori e av-vocati, allora saranno fatti suoi, e si arrangerà!» ribadiva mamma Dolores con finto distacco. Dafne non capiva quale dei due genitori si comportasse peggio; se il padre che non voleva pagarle la scuola per evitarle un fallimento, o la madre che voleva pagargliela nella speranza di rinfacciarle un fallimento. Non era riuscita a darsi una vera risposta, e non si era mai rassegnata all’idea che tutte le azioni di quei due fossero legate unicamente al denaro. Una figlia poteva comunque dare soddisfazioni, anche senza diventare medico o avvocato. Ma questo era un concetto troppo astratto per una coppia di cinquantenni che probabilmente cercava un riscatto attraverso la figlia, visto tutto ciò che la vita aveva negato loro. Dafne sperava sempre che l’atteggiamento della madre fosse frutto di un estremo orgoglio e che,

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in fondo, la donna volesse lasciarla libera di coltivare la sua passione sen-za volerlo ammettere al marito. Speranza alla quale cercò di aggrapparsi per anni. Metabolizzate queste considerazioni, la ragazza diede il via alla peggiore delle ribellioni adolescenziali; non si sarebbe più fatta gli scrupoli della rispettosa figlia perbene, facendo ciò che credeva più opportuno per se stessa. Fuori dalle opprimenti mura familiari, si sarebbe solo divertita. Già a sedici anni aveva provato un consistente numero di droghe, a dicias-sette ne abusava regolarmente; si era ripromessa di rifiutare l’eroina, cosa che fece senza problemi. Dafne voleva andar fuori di testa, ma non avreb-be mai permesso a nessuna sostanza di rubarle del tutto la volontà. In quel periodo la sua eccessiva stravaganza generava discussioni a dir poco accese. La madre distrusse un piatto quando scoprì i primi tatuaggi. Ma per la donna fu tutt’altro il colpo di grazia in quel periodo. Una sera, durante la cena, al telegiornale trasmettevano una notizia sul Papa. Senza neanche alzare la testa dal piatto Dafne parlò: «A proposito di Papa, non intendo più frequentare le ore di religione; mi serve una firma per la scuola. A quanto pare minorenne vuol dire incapace d’intendere e volere!» Dove sta il colpo di grazia? Nel fatto che i genitori di Dafne fossero fer-venti cattolici. Non sempre le scelte di Dafne erano legate al puro gusto di ferirli o co-munque non sempre questa cosa avveniva in modo consapevole. Dafne non era giunta al rifiuto religioso in maniera sprovveduta. Aveva ascoltato anni di lezioni e prediche sull’argomento, sia a scuola che a catechismo. Una volta letta la Bibbia riscontrò, dal suo punto di vista, numerose con-traddizioni rispetto all’atteggiamento tipicamente cattolico. Decise così che non avrebbe più permesso a nessuno di entrare nel suo io interiore per dirle se, chi e come pregare. «Non crederò mai in un Dio che permetterebbe lo sfarzo che c’è in Vati-cano! Lourdes sembra il centro commerciale dell’acqua santa! E per cre-dere in Dio non serve inneggiarlo con altre cento persone impellicciate ogni domenica mattina!» Questo disse a Don Peppe, quando lo incontrò un pomeriggio per strada. Dafne capiva che ogni sua scelta era una pugnalata per la sua famiglia. Ma la sua era sempre stata una doppia lama; li feriva e al tempo stesso soffri-va per la costante disapprovazione ricevuta. Lei era un’entità, una perso-na, e come tale non poteva e non voleva essere la loro copia solo per quie-

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to vivere. Avrebbe voluto disperatamente un dialogo costruttivo, un con-fronto che purtroppo sembrava non arrivare mai. Anche durante le scuole medie e l’anno del classico aveva avuto la netta sensazione di negata stima, eppure i suoi capelli erano del colore naturale, non fumava né erba, né sigarette, frequentava la messa e l’ora di religione. Quindi per loro fare bene o male era la stessa cosa. Erano freddi e severi in ogni caso, come da copione. Aldo e Dolores non erano persone cattive. Il problema reale non risiedeva certo nel non amore per la figlia. Era sito, piuttosto, nell’assoluta incapaci-tà di dimostrarlo, come anche nell’estremo orgoglio che li accomunava. Non riuscivano mai a dare prova dei loro sentimenti. L’educazione ricevu-ta e il loro complesso vissuto li avevano portati alla completa ibernazione emotiva. Un gesto dolce o affettuoso era segno di debolezza, cosa che loro non potevano permettersi. Dimostrare amore e concedersi inutili svenevo-lezze, era per entrambi un modo certo per perdere il controllo, e quelle due persone odiavano oltremodo perdere il controllo. Con i figli bisogna-va usare “bastone e carota”; peccato che, secondo Dafne, la carota l’avevano persa per strada. I primi anni di matrimonio furono una vera lotta per la sopravvivenza, senza alcuna certezza. Il padre aveva fatto ogni tipo di mestiere, sempre rigorosamente in nero e sottopagato. L’amarezza maggiore era scaturita dalla totale assenza dei familiari, in alcuni casi per reale impossibilità, in altri per pura indifferenza. Sta di fatto che i due coniugi impararono presto a non avere bisogno di nessuno, e si ripromisero altresì che nessuno a-vrebbe mai avuto nulla da loro, anche si fosse trattato di una semplice pa-rola di conforto. Le fabbriche piemontesi furono la loro prima conquista del nord alla ricerca di un lavoro stabile. Con un colpo di fortuna trovaro-no miglior sistemazione nel milanese, dove si stabilirono definitivamente nel 1979. Purtroppo, in questa totale e innaturale privazione della sfera emotiva, Al-do e Dolores innalzarono un muro invisibile e insormontabile, anche con la figlia. A distanza di anni era molto difficile stabilire se perfino tra di lo-ro fosse rimasto un po’ d’amore, o se piuttosto il tutto andasse avanti per il reciproco rispetto del sacro vincolo matrimoniale. Agli occhi di Dafne, solo in due occasioni sembravano complici e coinvolti: durante la messa e durante la lettura del resoconto in banca. Proprio in questo Dafne vedeva la loro più grande contraddizione: Dio e Denaro idolatrati in egual modo.

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Singolare fu il tatto di Dolores quando decise di affrontare con la figlia, ormai adolescente, il discorso sul sesso. Un sabato sera, prima che la ra-gazza uscisse di casa, la raggiunse nella sua stanza. «Dafne, hai rapporti sessuali?» Bastò l’espressione della figlia a farle capire “certo, che credevi?” La donna ebbe una reazione priva di logica. «In quella scuola di tossici cosa potevi venir fuori? Attenta a te a non tor-narmi a casa con la pancia, Dafne! Ricordalo bene ogni volta che esci da quella porta… che schifo!» In realtà, fino a quella sera, Dafne aveva custodito gelosamente la sua verginità. Era riservata, chiusa nel suo mondo, e non si sarebbe mai con-cessa al primo venuto. Forse aveva voluto provocare la madre, forse vole-va vederne la reazione. Non aveva sentito né una parola sul sesso sicuro e sul rischio di malattie, né una frase carina del tipo “andiamo insieme dal ginecologo?” Niente di niente, solo uno sbotto premeditato. L’unico pen-siero della donna era stato quello di ordinare alla figlia di non farsi ingra-vidare. Quel sabato Dafne uscì con troppi “forse” nella testa e con la con-vinzione che la madre la considerasse una puttana. Qualche ora più tardi, dopo una sbornia colossale, aveva perso la verginità con un ragazzo del quarto anno che le moriva dietro da mesi, e che dopo quella notte non a-vrebbe mai richiamato.

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A proposito dell’uomo dei sogni  Paradosso dei paradossi, il rapporto tra Dafne e i genitori un giorno iniziò a sfiorare la normalità; per la precisione quando, a vent’anni, la giovane donna andò via di casa. Per i primi due anni divise l’appartamento con due ragazze, una timida studentessa universitaria abbondantemente sovvenzionata dai genitori, e una cubista che si manteneva gli studi ballando in discoteca. Le due ra-gazze in questione furono presenze a dir poco irrilevanti nella vita di Daf-ne. Rimasero nei suoi sfumati ricordi come le tizie con cui smezzava il primo affitto. Finito il liceo, Dafne pensò più volte di frequentare l’accademia d’arte, ma il tutto scemò immediatamente non appena si rese conto del numero di anni, aggravato dal costo delle rette e del materiale. Non considerò nean-che un secondo l’idea di chiedere soldi ai genitori, e anche volendo, il loro punto di vista si era manifestato spontaneamente dopo l’esame di maturi-tà: «Se ora ti deciderai a fare una facoltà seria, allora possiamo considerare l’idea di rimboccarci le maniche e pagarti l’università, ma se pensi a qual-che altra scuola da morta di fame, non contare su di noi, stavolta sul se-rio!» Dafne aveva resistito gli anni del liceo, oltre non sarebbe stato possibile. Aveva scelto la libertà; libertà dai sensi di colpa, dai litigi, da ogni predica sopportata gratuitamente. Ciò che durante l’adolescenza l’aveva fatta star male più di ogni altra cosa, era la totale assenza di “perché”; se ogni tanto glielo avessero chiesto, Dafne avrebbe trovato quel dialogo a lungo cerca-to, riuscendo a spiegare come mai si era impegnata tanto per essere così diversa da loro. Era amareggiata dal fatto di dover scartare a priori l’accademia, ma almeno non avrebbe più sentito recriminazioni o minac-ce: aveva scelto di iniziare a vivere, senza sentirsi costantemente inade-guata. Del resto, secondo Dafne, l’arte non poteva essere insegnata in nes-

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suna accademia, forse migliorata, ma non insegnata; a vent’anni, o ce le hai nel sangue, o non te la puoi inventare. Il liceo artistico era stato più che sufficiente, soprattutto per una persona che, come lei, vantava un’incredibile dote naturale. Per proseguire gli studi, pensò a qualcosa che non fosse troppo impegnativo e che potesse aprirle una prospettiva di la-voro. Dafne avrebbe vissuto dipingendo, ma su questo, forse inconsciamente, dava ragione al padre più di quanto lei stessa accettasse; dipingere era la sua vita, ma nel frattempo doveva pur mangiare. Si lasciò incuriosire dal mondo pubblicitario, una sfera molto creativa che nel milanese offriva consistenti sbocchi lavorativi. Molti dei suoi ex compagni si sarebbero buttati sulla grafica. Perché non tentare? Dopo un’accurata ricerca, scelse un corso di tre anni in ambito di comunicazione e pubblicità, grazie al quale raffinò particolarmente il design della comunicazione visiva. I primi periodi trovò lavoro in un centro commerciale della città, al repar-to profumi. Lo stipendio part-time di quel posto non era affatto male, arro-tondato spesso da straordinari. Ma appena lavoro e studio le concedevano tregua, si defilava in un qualunque angolo della città per ritrarre qualcosa. Quello che in ambito pubblicitario Dafne faticava ad accettare, era che i computer stessero imparando a disegnare al posto degli uomini. Il tutto era giustificato dalla frenesia, dagli elevati costi di quel settore e dalle alte possibilità che quelle macchine fornivano. Il vantaggio competitivo che promettevano era indiscutibile, eppure per Dafne era molto triste. Era il 2001 quando iniziò la sua scuola. Conobbe molte personalità bril-lanti, tra aspiranti art designer, copywriter e decine di altre figure legate al mondo della comunicazione di massa. Quello che studiava le piaceva ab-bastanza, anche se il suo carattere estremamente riservato stonava davvero molto in mezzo a quella giungla. La maggior parte di quella gente avrebbe fatto carte false per emergere, mentre Dafne, per sua natura, non amava per nulla ostentare le sue doti. “Gli applausi si ricevono, non si chiedono”, questo diceva sempre. Dafne conobbe il vero amore durante quella scuola; l’uomo dei sogni tan-to atteso era arrivato. Ma come tutti i migliori cartoni animati anni ottanta, si presentò con non poche complessità. Non era un collega di corso, tan-tomeno un coetaneo; per rimanere affine alla sua originalità, Dafne perse la testa per il docente di teorie e tecniche della comunicazione pubblicita-ria del terzo anno. Lei aveva ventitré anni. Per tutti, lui era il Professor Roberto Chellini; per Dafne divenne presto “Bob”.

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Quando si conobbero, Bob aveva trentacinque anni. Era un uomo enigma-tico, di primo acchito glaciale. Intrigava con indifferenza uomini e donne. I primi grazie alla suo estro professionale fuori dagli schemi e alla sicu-rezza di ogni sua argomentazione, mentre con le donne bastava la presen-za. Tutto dipendeva dall’avvenenza dei suoi tratti, unitamente a un fisico slanciato e ben definito da anni di nuoto, passione che ancora coltivava nei momenti liberi. I capelli erano lunghi, spesso movimentati da curve leggere, anche per la sua abitudine a lasciarli asciugare senza ausilio del phon, aggeggio che odiava. A scuola li imprigionava in una coda. Il bion-do scuro della chioma era solcato prematuramente da ciocche color argen-to, che creavano piacevoli riflessi. Dafne si perdeva sovente a fissarli. Il solo gesto di discostare i ciuffi ribelli dal volto distraeva tre quarti di clas-se. Il viso era accattivante, delineato da tratti decisi, che apparivano duri a primo impatto. Ma ciò che sopra ogni cosa catturava di quell’uomo, era lo sguardo; occhi di un indefinito color chiaro, tra il grigio e il verde, che al solo incrociarli penetravano come una morsa allo stomaco. Era decisamente il classico professore che tutte le ragazze vorrebbero ave-re. Per Dafne, Bob possedeva l’intrigo dell’artista. Quel look incravattato e impeccabile da perfetto pubblicitario nascondeva dell’altro. Ne era certa. Nonostante questa sua impressione positiva, il loro rapporto in aula era stato a lungo gelido, come se a pelle, nonostante l’avvenenza di entrambi, qualcosa non funzionasse. Ragion per cui, l’esordio della loro storia fu tutt’altro che idilliaco. Nei primi due mesi di scuola si erano osservati molto, con moderata insistenza. A dispetto di ciò, i loro sguardi si comu-nicavano diffidenza. Gli interventi di Dafne erano monosillabici, al con-trario delle altre ragazze che trovavano sempre un pretesto per trattenerlo e parlarci. Ogni lezione era contornata da mille dubbi e domande; lo idola-travano in maniera a dir poco spudorata. Lui non si sottraeva a gentilezze, per quanto misurate e con dovuto distacco. Secondo Dafne quell’adorazione lo autorizzava a sentirsi uno “strafigo”. Era questo il principale difetto della ragazza: avventarsi in giudizi affrettati, spesso in-concludenti. Era una forma involontaria di autodifesa; sta di fatto che, a causa di questo atteggiamento, collezionò le peggiori figuracce della sua vita. Tutto iniziò con un nervoso scambio di battute, con le quali lei chiarì taci-tamente che non si sarebbe fatta mettere i piedi testa, neanche dal più o-sannato dei professori.

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Dafne aveva il pomeriggio libero dal lavoro, e decise di trattenersi in isti-tuto per ripassare l’ultima lezione in vista dei test di novembre. Conviven-do con una cubista, le prime ore del venerdì pomeriggio non erano mai ot-timali per lo studio, dato che la ragazza si metteva in salotto a provare le sue bizzarre “coreografie”. In quello stesso momento Bob, controllando la sua borsa, si accorse di a-ver dimenticato in aula il suo indispensabile Black-Barry. Tornò indietro e trovò con stupore la sua allieva più sfuggente, concentratissima su alcuni appunti. «Spero vivamente che siano appunti miei. Li sta ripassando con una tal devozione!» esordì l’uomo con aria apparentemente seria. Dafne lo guardò scocciata, seppur stupita di vederlo piombare in aula. «Devozione? E magari a Natale vuole un cero sulla cattedra?» rispose sec-ca, con aria di sfida. «Mi scusi, era solo una battuta. Ho solo intuito che lei è l’unica su venti persone che capisce davvero il senso delle mie lezioni. Ma vedo che a pranzo non si è cibata di buon umore quindi… le auguro buon weekend.» Afferrò il telefono dal cassetto della cattedra e lasciò immediatamente l’aula. Dafne, per la prima volta, aveva trovato pane per i suoi denti. Inebetita, sentiva di non aver capito nulla. Nonostante si fossero sempre snobbati, Roberto Chellini la stimava, sbattendoglielo in faccia pesantemente. Non riuscendo ad aspettare lunedì, gli corse dietro come una furia: «Aspetta! Ehm, aspetti!» disse col fiatone. «Nessun problema per il tu; problemi?» chiese con un mezzo sorriso di chi aveva molto apprezzato il gesto, accuratamente mascherato da uno sguardo gelido. «In effetti ho finito il buon umore, me ne offre un po’? Vede, la lezione che ripassavo era la sua… magari ne approfitterei per chiederle qualche chiarimento. Lo apprezzi, perché non mi capita tutti i giorni di pentirmi per ciò che dico.» Dopo queste parole Dafne gli aveva accennato un timido sorriso. «Direi di passare a un reciproco “tu”. E poi aggiungo che in quanto Dio supremo, scenderò dal mio altare e ti perdonerò. Più che buon umore ti offrirei un caffè. Però sto tenendo due cani a un amico che si trova negli Stati Uniti; sono chiusi in casa dalle dieci. Capisci bene che potrei trovare di tutto se non corro a farli uscire. Potresti farmi compagnia…» provò lui, seppur certo di aver osato un po’ troppo.

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Dafne lo aveva ascoltato con interesse, colpita da quanto quel freddo “so tutto io” fosse alla mano e pronto alla battuta. «Non sarà sconveniente?» ammiccò Dafne, iniziando a prenderci gusto. «Sì, potrebbe esserlo; ma per un’allieva che vuole fare pubblicità il buon umore è fondamentale. E poi gli altri studenti sono fuggiti via. Sai, è ve-nerdì.» D’improvviso le si avvicinò, tanto da farle sentire un profumo inebriante; il suo tono si fece serio. «Da lunedì sarò via per una settimana e vorrei darti i chiarimenti che ti servono prima dei test; ho il problema dei cani, ma dopo tornerei all’idea del caffè, se vuoi.» «Che tono serio!» lo bacchettò lei «evidentemente siamo in due a non ca-pire le battute. Aspetto fuori, vicino al parchetto.» In macchina Dafne era nervosa. Non capiva cosa la imbarazzasse tanto. Era abituata a gestire qualunque situazione, con tutti. Ma qualcosa per la prima volta la faceva sentire inadeguata. Nonostante le prime iniziali pro-vocazioni sulla “sconvenienza”, Dafne non avrebbe mai fatto delle serie avances al suo docente. Non accettava minimamente che questo desiderio potesse anche solo sfiorarla; avrebbe fatto la figura penosa di tutte le altre ragazze dell’istituto. Ma allora perché si sentiva tanto impacciata? Che fossero quelle le famose “farfalle allo stomaco”? Tentò di pensare a tutt’altro. Ma poi lo guardava con la coda dell’occhio e pensava di non aver mai visto nulla di così bello; teneva una mano sul volante, mentre si era portato la sinistra davanti alla bocca, passandosi lentamente l’indice tra le labbra. Quello era per lui un gesto abbastanza usuale, soprattutto nei momenti di concentrazione o imbarazzo. Dafne gli osservò le mani, ap-profittando dei momenti in cui una delle due si adagiava sul cambio o si-stemava la ventola dell’aria calda. Aveva dita lunghe e ben modellate. Poi, l’ennesimo e veloce sguardo al profilo del volto. A quel punto, nella testa di Dafne, si frantumò ogni certezza; provava sensazioni tanto inaccettabili quanto irrefrenabili. E quella figura alla sua sinistra somigliava sempre più all’uomo dei sogni che aspettava da una vita. Cercò di resettare ogni pensiero assurdo con tentativi banali di conversazione. Arrivarono a casa sua. Dafne comunicò la preferenza di aspettare in mac-china. Il professore pensò che fosse meglio accettare senza obiezioni. Ciononostante, una volta fatti uscire i cani davanti al giardinetto di casa, riattraversò il cortile e si avvicinò deciso alla macchina, chinandosi sul fi-nestrino per parlarle.

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«Vorrei che entrassi solo un momento; ho qualcosa da mostrarti.» A Dafne il cuore fece un balzo. Una sensazione stupefacente, gioia liquida in vena, un senso di confusione mai provato prima. Non sapeva più come domare quelle sensazioni. Qualunque cosa lui volesse mostrarle, non era importante; ciò che contava è che non l’aveva lasciata in macchina ad a-spettare. Una volta oltrepassata la soglia, la ragazza scorse i ritratti più belli che a-vesse mai visto; erano numerosi, appesi qua e là in un piccolo e moderno openspace. Dafne fu invasa da un senso di fermento. Erano chimerici. «Sono tutti miei» spiegò Bob «l’ultimo è quello, l’ho fatto tre anni fa.» Dafne era strabiliata, trovava quei dipinti semplicemente straordinari, tan-to da non riuscire a controllare la sua eccitazione. «Allora non sei solo un pubblicitario tutto spot e computer! Non ci crede-rai, ma è da settembre che ti osservo, che ascolto ciò che dici, parola per parola; il tuo genio nella materia era palese ma… io percepivo anche altro, e non mi sbagliavo. Tutto questo è fantastico, sono fantastici! Prima di ogni altra cosa sei un pittore! E sei…» Dafne si fermò, nel tentativo di cercare l’aggettivo giusto che non facesse trapelare in modo spudorato le sue sensazioni. Bob si passò nervosamente le mani tra i capelli; li sciolse, poi li rilegò di fretta. Sembrava teso. Pose le mani giunte davanti alla bocca. Si fissarono qualche istante, imbarazzati, fino a che lui parlò. «E sono? Cosa sono? Perché sai, io mi sento solamente un gran coglione in questo momento… perché vorrei vederti nuda nel mio salotto e dipin-gere le tue curve su un foglio bianco… e sono un coglione perché non so-no riuscito a non dirtelo.» Dafne lo guardò con occhi sgranati, senza riuscire a rispondere, comple-tamente disarmata. Il respiro si era fatto affannoso. Era la prima volta che non sapeva come venirne fuori ed era già la terza volta che quell’uomo riusciva a spiazzarla. A qualunque altro docente avrebbe già tirato qualco-sa addosso; ma con lui era invasa da un pericoloso brivido eccitante. Combattuta all’inverosimile, decise che doveva farsi trasportare. Qualun-que cosa avesse lasciato in quella casa scappando, lo avrebbe rimpianto di sicuro. Dafne si tolse la giacca e iniziò a sbottonarsi dolcemente la cami-cia che le fasciava le delicate forme. Andò avanti a spogliarsi, fissandolo con sguardo ammaliatore, persa nei suoi occhi, fermi e magnetici. Sperava di non essere interrotta, fino a che rimase in biancheria intima. Bob ebbe davanti a sé una ragazza mezza nuda che gli si avvicinava con estrema

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sensualità; una figura esile e seducente. Le si approssimò con timore. Ap-pena le fu a pochi centimetri ne sentì il respiro agitato. Le carezzò il collo, per poi far scorrere le dita lungo la spalla, accompagnando giù la bretella del reggiseno. Proseguì, fino a scoprirla completamente. Con gesti decisi, ma allo stesso tempo apprensivi, la condusse verso il divano. A quel punto lei riuscì a pronunciare una sola frase, con l’unico filo di voce possibile. «E vorresti solo ritrarmi professore?» Bob le si avventò addosso con energica passione, mozzandole del tutto il fiato con una bacio intenso e carico di desiderio. E non era certo un desi-derio nato da qualche ora. Dopo quel primo contatto, accompagnato dai primi gemiti, Bob non ebbe più alcun timore; Dafne non l’avrebbe ferma-to. Si persero in disinibiti ed eccitanti preliminari, per unirsi in un intenso, lungo godimento. Mentre lui le si muoveva sopra con vigore, Dafne sco-priva come tutto il sesso fatto prima di allora fosse stato squallido e privo di emozione. Era tardo pomeriggio, quando ansimarono insieme l’ultima volta. Bob le sfiorò a lungo i capelli, in quel periodo colorati di un intrigante rosso fuo-co, come la passione che li aveva appena sconvolti. Il tempo sembrava una dimensione inutile e lontana. Solo i cani che reclamavano cibo li ri-portarono alla realtà.

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A proposito del Natale 2003  Trascorsero due mesi da quel travolgente primo incontro. Appena possibi-le, Bob e Dafne facevano l’amore, con regolare passione e coinvolgimen-to. La scuola dove Bob insegnava era un istituto privato. Nonostante ciò la sua storia con Dafne non poteva essere resa pubblica, entrambi ne erano consapevoli. Lui voleva proteggere la sua etica e proteggere lei da una nomea senz’altro poco ortodossa. Lei, invece, voleva solo proteggere l’indiscutibile professionalità del suo compagno. Se una cosa del genere si fosse saputa, l’invidia delle aspiranti pubblicitarie gli avrebbe causato danni enormi. Inoltre, ambedue, proteggevano un rapporto pulito e coin-volgente, che li aveva spiazzati all’improvviso. Spesso, durante i corsi, lui portava i ragazzi in sala computer. Assegnava loro numerose esercitazioni, passando dalle varie postazioni per osservar-ne lo svolgimento. Quando Dafne lo vedeva chinarsi sul banco di altre ra-gazze, impazziva; osservava con ribrezzo le facce ammiccanti di quelle oche spudorate. Così terminava le lezioni con una buona dose di nervosi-smo. Lui invece era capace di mantenere una fredda indifferenza, che lei non sopportava, benché la capisse. Poi le lezioni finivano e tutti cambiavano frettolosamente aula, mentre Dafne tentava il più delle volte di temporeggiare. Altre volte correva in bagno, per poi tornare indietro quando tutti se n’erano già andati; a quel punto Bob era finalmente solo, libero di concederle uno sguardo sincero, desideroso di parlarle, sfiorarle i capelli, spogliarla velocemente per fare l’amore. Tutto comunicato in un breve, ma intenso sguardo. Nei pomeriggi liberi lui prendeva il fuoristrada e passava a prenderla; spesso si ritrovavano a cento chilometri di distanza, senza neanche accor-gersene. Cercavano e visitavano posti che Dafne non aveva mai immagi-nato di poter vedere. Negli ultimi anni,

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Bob si era molto appassionato di fotografia paesaggistica; proprio grazie a questa passione, conosceva luoghi sbalorditivi, spesso a poche ore di stra-da dalla grigia frenesia milanese. Fu in quel periodo che Dafne acquistò la sua reflex, rimanendone in fretta delusa; all’inizio era certa che avrebbe potuto far sua ogni passione di Bob, poi realizzò che l’amore non era vestirsi dei gusti dell’altro, quanto piuttosto amarli incondizionatamente, mantenendo saldi i propri. Bob e Dafne parlavano spesso delle loro passioni. Lui le aveva raccontato di aver smesso di dipingere da anni. Fu uno dei rarissimi riferimenti che le fece a proposito del suo vissuto. Dafne conosceva molto delle sue abitudi-ni attuali e della sua professione; il suo lavoro gli restituiva molte soddi-sfazioni, sia come docente che come consulente e stimato creativo. Spesso si aggiornava all’estero, per poi iniziare brillanti collaborazioni. Ma chi era Bob oltre a un affascinante uomo di successo? Dafne intuì già dalle prime settimane che lui non era affatto propenso a condividere troppi aspetti del suo passato, o forse, della sua vita. Durante quei primi mesi erano riusciti a vedersi abbastanza frequentemen-te; spogliato dagli abiti del docente, era un uomo molto dolce. La trattava come se provasse un vero e reale sentimento. Così, molto velocemente, Dafne iniziò a chiedersi quale fosse questo sentimento. Ma la paura di parlargliene era ingombrante. Era troppo presto, e temeva di fare la figura della ragazzina, che dopo poche settimane vuole già “definire il rapporto”. Decise quindi di non far correre troppo la mente, vivendo la loro relazione giorno per giorno. Non si era mai innamorata prima di allora, e di sicuro non si era mai approcciata a un uomo vero, più grande di lei. Allo stesso tempo conosceva bene l’universo maschile: posti davanti al domandone ma io e te… cosa siamo? inizia il panico assoluto, seguito in genere da una fuga senza ritorno. Non poteva correre questo rischio; senza contare che la loro storia era ulteriormente complicata dalla differenza di età, a-spetto che lei temeva più di ogni altra cosa. «Prima o poi mi farà il classico discorsetto: sei troppo giovane per me, meriti di stare con un coetaneo, abbiamo esigenze diverse, quando ne a-vrò cinquanta tu ne avresti dodici di meno… bla, bla, bla… me lo sento!» Questo disse Dafne alla cubista, una sera in cui aveva alzato il gomito per via della paranoia; e la cubista le aveva dato un’inaspettata perla di sag-gezza. «Sapevo che ti saresti fatta uno più grande. Tu non sei proprio il tipo dalle mezze cartucce di vent’anni che vedo in discoteca ogni sabato. Se non è

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scemo non te lo fa il “discorsetto”, vedrai! E dove gli ricapita una gnocca intelligente come te?» Dafne pensava che ne avrebbe trovate a migliaia, perché Bob era ogni giorno di più, la cosa più bella che avesse mai visto. Quella sera Dafne pensò anche che quella cubista doveva essere una ragazza più profonda di ciò che l’apparenza raccontava. Ma ormai era tardi per approfondirne la conoscenza; Dafne avrebbe cambiato casa la settimana dopo. A un prezzo imperdibile aveva trovato un vecchio monolocale alle porte di Milano, dove sarebbe stata finalmente sola. Durante quel freddo dicembre, la vita di Dafne cambiò velocemente. Lei odiava oltremisura perdere il controllo, e Bob le stava provocando proprio questa sensazione; era dipendente da quell’uomo ogni giorno di più. Ave-va sempre giurato a se stessa che non si sarebbe mai “rincretinita” per nessuno, ma ormai il cuore era partito per il suo dove irrazionale, come una biglia che inizia a percorrere il fatidico piano inclinato. Dafne dovette cedere, iniziando a barcollare sulle sue stesse convinzioni, invogliata dagli atteggiamenti sempre più coinvolgenti dell’uomo. Quando traslocò, Bob fece saltare alcuni impegni e decise di farle una sorpresa. «Oggi ti aiuto con il trasloco, compriamo un po’ di addobbi natalizi e sta-sera mi fermo a dormire da te; e per l’intera notte proporrei di fare l’amore tra queste!» Bob le stava mostrando le lenzuola blu elettrico che avevano visto insieme la settimana prima in un negozietto di Lecco. Dafne non aveva detto nulla, le aveva solo ammirate. Era pazzesco che lui lo avesse captato. Il colore di quella stoffa pregiata era intenso e agghiacciante, come ciò che provava in quel momento. Lui le aveva regalato le lenzuola dove insieme, per la pri-ma volta, avrebbero fatto l’amore in una casa tutta sua. Era il 20 dicembre 2003. Passarono tutto il pomeriggio a fare l’amore. Gemiti e sospiri avevano fat-to eco per ore tra quelle mura ancora spoglie. Bob la guardava con mera-viglia, carezzandole i capelli e consumandola di baci. Lei era persa tra le sue braccia. Ne osservava le spalle larghe, le mani affusolate, i lunghi ca-pelli argentati che solo in intimità vedeva sciolti. La Dafne bambina tor-nava con prepotenza, pensando che quella figura fosse di gran lunga mi-gliore dei suoi eroi preferiti. Nonostante tutto la sua testa non riusciva a non pensare a tutte le paure che l’avevano invasa nei giorni precedenti. «Perché non dipingi più Bob?»

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Dafne sentiva di aver fatto la prima domanda che le potesse svelare il lato più intimo di quell’uomo, desiderosa di farne parte più concretamente. «Be’, ogni pittore fa il suo tempo, Daf.» Le stampò un bacio sulle labbra. Lei captò immediatamente il tentativo di fuga istantanea dall’argomento. «Ma che risposta è? Sei un pittore incredibile, e sembra che tu abbia smesso di dargli importanza.» Dafne si stava agitando visibilmente, sfuggendo a ulteriori carezze, più interessata ad approfondire il discorso. «Sei la presunzione in persona!» sentenziò lui dietro a un amaro sorriso. «E io noto che tu, stranamente, continui a non rispondere. Del resto an-diamo a letto da un po’, e io so a malapena dove abiti! Di cosa mi stupi-sco?!» ribatté seccata, pentendosi immediatamente. «Allora è questo il problema. Mettiamola così Dafne: io non dipingo per-ché semplicemente ora faccio qualcosa di più produttivo. Seconda cosa, qui siamo in due ad andare a letto insieme, e non ti ho mai obbligata. Ora, se non ti spiace, esco a prendere qualcosa da mangiare.» Bob si vestì e fece per uscire, ma Dafne lo freddò sulla soglia. «Mettiamola così professore, torna a mangiare a casa tua. Non mi fai nes-sun favore a starmi intorno, e non vorrei che ti fossi messo in testa il con-trario.» «No, non mi sono messo in testa proprio nulla, spero tu sia sicura delle cose che dici.» «Lo sono Bob» rispose seccamente Dafne, incaponita ad avere la meglio. «Bene» replicò lui. L’uomo lasciò l’appartamento seguito da un velo di tristezza che Dafne non percepì. Si era imposta di tenere lo sguardo basso fino alla completa chiusura della porta, certa che incrociandone lo sguardo, sarebbe tornata sui suoi passi. L’epilogo del giorno più bello della sua vita era stato devastante; in poche battute, gli aveva detto tutto ciò per cui si era ripromessa di prendere tem-po. D’altra parte non aveva sentito nulla di incoraggiante; un uomo sfug-gente che non si apriva a una vera conoscenza. Soffrì molto vedendolo andare via, ma per orgoglio non lo fermò. Dafne era già perdutamente in-namorata di Bob, ma quel giorno, nonostante le mille lacrime, tenne salda la sua rinomata testardaggine. Non voleva permettere a quel sentimento di annebbiarla del tutto. Questo è quello che pensava quella sera. I giorni se-guenti e il Natale 2003, furono invece una prova durissima e senza prece-

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denti. Dopo quel litigio, Bob sparì nel nulla. Inizialmente Dafne si era preoccupata poco; era inconsciamente eccitata dal loro primo litigio, proiettata già a una serata di coccole e sesso sfrenato che li avrebbe riap-pacificati. Poi, non sentendolo per giorni, iniziò ad aver paura. La paura si fece terrore non appena si accorse che il suo cellulare era spento a tutte le ore. Si maledisse per non avergli mai chiesto il numero del secondo cellu-lare. Su quello del lavoro lo chiamavano almeno cinquanta volte al giorno, senz’altro lo avrebbe trovato acceso. Al quarto giorno si piazzò davanti a casa sua, sperando di scorgere l’arrivo del fuoristrada da un momento all’altro. Non aveva riferimenti, nessuno che la potesse aiutare. Dalla disperazione chiamò la segreteria della scuola, ma era folle trovare qualcuno il giorno della vigilia. E poi cosa avrebbe chiesto? Cosa si sarebbe inventata per cercare notizie? An-che trovando qualcuno, non le avrebbero mai dato informazioni personali su un docente. Alle otto di sera Dafne lasciò quel maledetto cortile, salì sulla sgangherata utilitaria bordeaux e passò dai suoi genitori, per informarli che non avreb-be pranzato con loro a Natale. Alle due del pomeriggio del 26 dicembre aveva ricevuto un invito da al-cuni vecchi amici del liceo, che non vedevano l’ora di divincolarsi dall’insignificante mandria di parenti che invadevano casa durante le fe-ste. Dafne aveva pianto tutta la notte tra le lenzuola di raso blu, quel ma-ledetto profumo di Bob non le dava tregua. Si vestì e accettò l’invito degli ex compagni. Da sola avrebbe rischiato la pazzia. Dopo l’aperitivo, durato un paio d’ore, il festino ribelle continuò a casa di James, un ragazzo originario di Londra che aveva frequentato parte del primo anno di liceo con Dafne per poi ritirarsi e fare la spola tra Italia e Inghilterra. James in quel periodo avrebbe dato un braccio per uscire con Dafne, ed era molto eccitato all’idea di rivederla. Lei quella sera non lo aveva nean-che riconosciuto. Fece molta fatica a ricordarsi di essere stata sua compa-gna di classe, considerato che quando James si unì alla combriccola, lei aveva già ingurgitato tre pesanti cocktails. James era rientrato da due mesi, e stavolta aveva preso casa e trovato un lavoro semifisso come barman, anche se le sue entrate più consistenti arri-vavano da altri giri. Era un ragazzone dai capelli rossicci cosparsi di gel, un naso lentigginoso e fisico da giocatore di rugby in pensione, di quelli che tracannano birra da mattina a sera. Nell’ultimo periodo divideva

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l’appartamento con due ragazzi del sud, che per le feste erano tornati dalle famiglie. La casa era stata accuratamente fornita di ogni tipo di super al-colico, alle dieci di sera erano tutti completamente ubriachi. Dafne era sta-ta invitata calorosamente da un paio di amiche a evitare il festino alcolico dell’inglese, ma la ragazza non aveva voluto sentire ragioni, facendo di testa sua. Dafne non perdeva mai completamente il controllo, ma quella sera la testa non rispondeva e il cuore le faceva troppo male; Bob le man-cava come non mai, non l’aveva neanche chiamata per gli auguri di Nata-le, l’aveva abbandonata. Non poteva accettare che quell’uomo avesse pre-so il primo pretesto utile per mandarla a quel paese. Immersa in quelle pa-ranoie, si era ritrovata in mezzo a una decina di sconosciuti, a casa di un inglese del quale continuava a ricordarsi a malapena. Aveva fumato qua-lunque cosa le fosse passata tra le mani e, dopo l’ultimo sorso di vodka umanamente tollerabile, si estraniò dal gruppo alla ricerca del bagno. Tro-vata la porta perse l’equilibrio e ruzzolò a terra, a pochi centimetri dalla vasca da bagno. Quando riaprì gli occhi, a stento ricordava di essere cadu-ta. Nonostante fosse intontita dalla botta e dall’alcool, sentiva indistinta-mente la presenza di qualcuno: era James, che tentava di sfilarle i collant mentre già le toccava il seno semiscoperto, ansimando come un maiale. Realizzato il tutto, Dafne iniziò a insultarlo e a colpire ovunque, nel tenta-tivo di divincolarsi e coprirsi; sembrava una pazza, tanto che il ragazzo fuggì via all’istante, insultandola. Dafne era di nuovo sola, si sentiva di non avere molte forze per rialzarsi; aveva utilizzato le ultime per colpire e maledire quel porco. Udiva uno strano silenzio provenire dal soggiorno. La festa doveva essere finita da un po’. Si guardò addosso e si rese conto di indossare ancora lo slip. Gra-zie al cielo James era troppo ubriaco per riuscire a spogliarla con prontez-za. Con movimenti rallentati si alzò e fece per guardarsi allo specchio. James riaprì la porta e le gettò la giacca addosso: «Qui sei rimasta solo tu, ma visto che fai la difficile puoi andartene.» Dafne gli tirò addosso una saponetta e scappò via. Si trascinò letteralmen-te alla macchina e aspettò al freddo di essere nelle condizioni per arrivare a casa indenne. Era furiosa come una belva con quel maledetto inglese, ma era soprattutto arrabbiata con se stessa. Ringraziava il cielo per essersi svegliata in tempo. Aveva corso un rischio enorme. Nonostante ciò, la sua testa non era concentrata solo su quell’incidente; stava male per Bob. Accese la macchina e partì, piangendo.

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Cos’era successo al suo cuore? Come aveva potuto perdere il controllo a quel modo? Dafne aveva sempre detestato le sue vecchie compagne che avevano vissuto l’adolescenza a tormentarsi e umiliarsi per qualche bel ragazzo. Aveva vissuto diverse relazioni, ma il cuore non ne era mai stato coinvolto. Forse era stata davvero una scelta, oppure era stata solo fortuna. In quegli anni l’avevano chiamata spesso “mangia uomini”, per la facilità con cui veniva corteggiata, nonostante lo stile poco elegante. Ora era lei a farsi le famose seghe mentali, era lei ad aver conosciuto il famoso tormen-to amoroso, ed era lei che per dimenticare una sofferenza aveva rischiato di far sesso da svenuta con il più lurido degli individui. Giunta a casa non fece un gran parcheggio, ma quanto meno era arrivata intera. Una volta dentro, si tolse i vestiti e corse a lavarsi con acqua bol-lente. Lavò i denti due volte e fece grosse quantità di gargarismi, per atte-nuare il sapore dell’alcool. Si stupiva di come non avesse vomitato l’anima. Solo dopo realizzò che non mangiava adeguatamente da tre gior-ni. In casa non aveva nulla, giusto qualche fetta biscottata, del tonno e un po’ di latte. Il suo istinto di sopravvivenza reclamava cibo, ma il giorno dopo avrebbe lavorato otto ore al centro commerciale, e il solo pensiero le fece scordare la fame. Puntò la sveglia e crollò stremata in un sonno pro-fondo, non privo di incubi. Alle sette di sera del giorno dopo, Dafne finiva il suo turno. Non c’era sta-to molto lavoro, subito dopo il Natale era sempre così. Jessica, la sua re-sponsabile al reparto profumi, le aveva fatto trovare una busta piene di creme e campioncini: «È avanzata tanta roba quest’anno, questi li ho lasciati per te; e vista la tua cera di oggi, ti serviranno!» disse sorridendo. Dafne, negli ultimi anni, non aveva dato molto spazio alle amicizie. Poche persone le avevano trasmesso quella fiducia di cui aveva bisogno, e dopo il liceo le aveva perse per strada. Non era interessata ai mille conoscenti da poter chiamare per una serata, le sarebbero bastate poche persone, ma sincere. In quella situazione, rimpiangeva amaramente la solitudine; era trascorsa ormai una settimana dalla sparizione di Bob, e lei non aveva nessuno con cui sfogarsi. Così, quando Jessica le chiese il perché di quella faccia abbattuta, Dafne scoppiò in un pianto disperato e incontrollabile. La ragazza le passò un paio di fazzoletti e le propose una spaghettata, per parlare un po’. Dafne pensò che quella proposta fosse una manna dal cie-lo.

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Dopo la cena raccontò di Bob, di come era nato tutto, di come lui l’avesse piantata in asso per il Natale, e dei mille dubbi che le facevano scoppiare la testa. Jessica fu molto precisa e schietta nel dare la sua prima impressione. Era laureata in psicologia, e questo le dava un modo analitico e autorevole nel fornire il proprio punto di vista. «Mi pare evidente che alla tua prima presa di posizione questo Bob si è sentito messo con le spalle al muro; tipico di molti uomini con bassa auto-stima. E di solito la fuga è da manuale. Ma senti, permettimi la franchez-za. È sposato? Divorziato?» Dafne la guardava con aria confusa. «È proprio questo il punto! Io non so nulla! Niente di niente! Speravo che col passare delle settimane mi parlasse di sé, come avevo fatto io. Dopo due mesi ho desiderato approfondire il nostro rapporto, sapere qualcosa di più. Ma si è mostrato sfuggente, e io credo che sia per il fatto che non vo-glia una vera storia. Comunque non credo sia sposato. Eravamo insieme molto spesso, e lui lavora davvero tanto. Quando avrebbe avuto tempo per la moglie?» Dafne si toccava nervosamente i suoi mille bracciali, infastidita che si po-tesse anche solo pensare a una moglie. «Non ti conosco bene Dafne, e forse questo mi aiuta ad avere la massima schiettezza e obiettività; anche se non fosse sposato, cosa che credimi, non escluderei assolutamente, non credo che Bob stia provando quello che provi tu. È lampante, tu lo ami alla follia e vorresti una storia d’amore concreta, ed è sacrosanto alla tua età. Lui non ha lo stesso scopo, eviden-temente. Ecco perché non trova sensato parlarti delle sue cose. Non si la-scia la persona amata al primo litigio, non a Natale e non in questo modo. Capisci cosa ti voglio dire?» Gli occhi di Dafne si inumidirono nuovamente; segno inequivocabile che le parole della ragazza l’avevano colpita in pieno. Quelli appena sentiti, erano i dubbi che le avevano inondato il cervello dal principio, e ora qual-cuno glieli aveva pesantemente sbattuti in faccia. «Voleva solo scopare, secondo te?» chiese con sofferenza, prima che le scendesse l’ennesima, tagliente lacrima. «Credo che tu sia molto bella, di una vitalità molto rara Dafne. Nessun uomo si sarebbe perso l’occasione.» «Ma io c’ero!» urlò Dafne alzandosi in piedi «c’ero quando ci guardava-mo in classe, quando mi ha desiderata la prima volta, nei pomeriggi in-

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sieme! Abbiamo un mondo di cose in comune, si accorgeva di cosa guar-davo per poi farmi un regalo! Mi sono concessa subito, e andiamo a letto da due mesi, perché avrebbe dovuto fare tutto il resto del teatrino?» «Perché a molti uomini piace proprio questo, Dafne. Quando vogliono del puro sesso vanno dalle puttane. Ma è molto più appagante farlo con una donna perdutamente innamorata. E quindi alimentano l’innamoramento, anche senza volerlo. Senza scordare il classico gioco cacciatore e preda, per poi vantarsi in giro della conquista. Sai che onore ostentare ad amici e colleghi l’ennesima avventura con una studentessa? Intendiamoci Dafne, mi auguro davvero che non sia il caso di questo Bob. Ma stai attenta, certi uomini sanno essere molto meschini a volte. E tu parti svantaggiata, per-ché non ti stai confrontando con un coetaneo, ma con un uomo fatto e fini-to.» «Mi pare tutto assurdo Jessica» bofonchiò Dafne. «Ho solo qualche anno in più di te, ma ne ho passate tante da poterci scri-vere un libro. E la psicologia è solo agli albori dal conoscere davvero l’universo di certe teste.» Le versò la seconda tazza di caffè americano. «Io non credevo che mi avrebbe regalato un ti amo a Natale; però speravo mi dicesse che eravamo una coppia, che finito il mio terzo anno avremmo potuto uscire a cena con i suoi colleghi, farci vedere alla luce del sole, o magari presentarmi alla famiglia. Credevo provasse qualcosa di grande nonostante il poco tempo insieme. Ora invece ho paura di essermi fatta dei film inesistenti.» Sorseggiò il suo caffè, pensando che in vita sua non era mai stata così ma-le. Dafne parlò moltissimo con Jessica. Dopo aver congedato l’argomento amoroso, le due ragazze si resero conto di avere molte cose in comune, tra cui la riluttanza nell’approfondire troppe amicizie e la solitudine che a volte le tormentava. Si ripromisero di vedersi altre volte e di fare shopping insieme dopo le feste; concordavano pienamente sul fatto che i saldi po-tessero fare miracoli, perfino nei momenti peggiori. Alle undici e mezza, Dafne indossò il suo cappotto in velluto viola e si congedò con un sorriso. Tutto poteva immaginare, ma non che qualcuno la stesse aspettando fuori casa, seduto sul marciapiedi, in una gelida notte di fine dicembre. E mai avrebbe creduto che quel qualcuno potesse essere Bob. E invece lui era lì, avvolto in un montgomery nero, con i lunghi capelli sciolti, inumiditi dal freddo, ad attenderla. Si stava soffiando nelle mani, nel tentativo di scal-

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darsi. Scorse l’auto di Dafne e alzò lo sguardo, senza muoversi. Lei scese dalla macchina, e appena lo vide si paralizzò, come se una lama fredda le stesse tagliando il corpo, come se il cuore avesse deciso di schizzarle via dal petto. Non riusciva a respirare. Dopo una manciata di secondi indie-treggiò, come per tornare all’auto; lo fece fino a sbatterci contro con la schiena. Si voltò e tentò di aprirla per fuggire via. Tremava dal freddo, tremava dalla rabbia, non riusciva a infilare quella maledettissima chiave. Lui l’afferrò da dietro e prima che lei potesse dire qualunque cosa, le pog-giò delicatamente la mano sulle labbra. Con l’altro braccio le cinse la vita, schiacciandola a sé. «C’è qualcosa che devi sapere Daf. Ti prego, aspetta…» Dopo un principio di ribellione, Dafne tornò immobile, come all’inizio. Non sentiva più freddo; era di nuovo, improvvisamente, tra le sue braccia e fu come se tutto l’amore che provava per quell’uomo le stesse scorrendo bollente nelle vene, veloce. Si voltò e lo guardò un lungo istante. Lo a-vrebbe schiaffeggiato, lo avrebbe baciato, era tutto contrastante; testa e cuore stavano lottando all’ultimo sangue. Lui era palesemente infreddoli-to. Dafne si rese conto che doveva averla aspettata a lungo. Il cuore ebbe la meglio. Quegli occhi glaciali e profondi l’avevano guardata con suppli-ca, stregandola, come tutte le volte. «Sarà il caso che tu salga a farti una doccia calda» disse lei, in un vano tentativo di indifferenza. Salirono in casa, Dafne gli consegnò un accappatoio pulito. Lui non aveva ancora detto nulla dalla prima e unica frase sussurrata vicino alla macchi-na. Lei altrettanto. Mezz’ora dopo Bob uscì dal bagno, avvolto nell’accappatoio con i capelli ancora umidi; erano sempre molto mossi appena lavati, con un profumo tale da invadere la stanza, qualunque fosse il prodotto utilizzato per lavar-li. Nel vederlo così dannatamente bello, Dafne faticò non poco a mostrar-gli indifferenza. Il cuore le batteva all’impazzata. «Perché mi hai lasciata qui a tormentarmi come una pazza?» chiese lei, rompendo il ghiaccio che li separava. Aveva appena assassinato il suo orgoglio con quella frase. Ma aveva biso-gno di immediata chiarezza. «Domenica, su quel letto, sei riuscita a farmi l’unica domanda che poteva devastarmi. Tu neanche immagini quanto. Poi mi hai freddato, mandan-domi via.» Dafne cercò di intervenire ma Bob la bloccò seduta stante.

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«No, ti prego, fammi finire. Io non so cosa pensi davvero di me. Ma quel pomeriggio mi hai fatto sentire il classico stronzo che scopa con qualun-que ragazzina gli capiti sotto tiro. Ho avuto mille occasioni, ma non le mai concretizzate una volta. Volevo te. Se credi a questo, allora posso final-mente darti le risposte che cerchi…» Dafne abbassò la testa, gesto che Bob interpretò come affermativo. «Allora, vuoi ancora sapere perché non dipingo più e da dove arrivo?» Dafne tornò a guardarlo, tesa come una corda di violino. Era spaventata all’idea di cosa avrebbe sentito. Allo stesso tempo sentiva forte l’emozione per le dolcezze sentite poco prima; lui aveva intuito ogni suo dubbio e l’aveva fatta sentire importante. Non era una delle tante, non era l’avventura di un mese; forse non sarebbe comunque durata, ma di sicuro le sue sensazioni erano giuste e Jessica si era sbagliata. «Ti credo. Vorrei sentire cosa vuoi dirmi… ma siediti qua vicino, prima» disse lei con timidezza. Appena le fu accanto, Dafne gli spostò i capelli umidi dal volto portandoli dietro alle orecchie; passò le sue dita sottili sulla sua barba incolta, poi sulle labbra. Stavano per farsi travolgere l’uno dall’altra, ma si fermarono. Era tempo di ascoltare cosa Bob avesse da dire. «Hai presente il quadro all’ingresso? Ti avevo detto che quello era stato l’ultimo, dipinto tre anni fa…» «La donna distesa sul letto…» bofonchiò Dafne a voce bassa. «Proprio quello» chiarì lui. Dafne fece mente locale e cercò di ricordarne ogni dettaglio; il corpo era di una donna distesa su un letto, le cui forme sensuali erano fasciate in un lenzuolo. I colori di quel dipinto erano caldi, fiabeschi per Dafne. La ra-gazza si rese conto che l’aveva sempre analizzato da un punto di vista ar-tistico, ma non si era mai posta il problema di chi fosse la proprietaria di quel fantastico corpo. Bob sembrò leggerle nel pensiero e proseguì il suo racconto: «Quella sul letto è Vanessa, mia moglie, e grande amore della mia vita dai tempi dell’università.» Dafne fece un balzo, portandosi dall’altra parte della stanza. «Devi farmi finire Daf, o non ce la farò più a proseguire. Ti prego ascol-tami!» Dafne era pietrificata, invasa da un formicolio che le impediva di sentire il corpo. Bob rispettò il suo distacco e continuò a raccontare.

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«Ho vissuto a Pisa per cinque anni. Arrivavo da Siena, dove sono nato e cresciuto. Avevo diciannove anni quando mi trasferii, era l’ottantasette; studiavo arte all’università, e lì conobbi Vanessa. La incontrai durante una lezione; era la modella che avremmo ritratto. Erano tutti al settimo cielo, io invece ero infastidito al pensiero che una ragazza tanto giovane e bella si mostrasse nuda a decine di idioti…» Bob fissava il vuoto, come se stesse rivivendo quella scena proiettata in aria, mentre Dafne si faceva saltare via tutto lo smalto viola dalle unghie. «Non te la faccio lunga… dopo un mese io e Vanessa ci frequentavamo e nel novantaquattro ci sposammo. Lei voleva trasferirsi a Milano. Decisi che era la cosa migliore, perché volevo realizzarmi nel mio campo e di-mostrarle quanto valessi. Lei organizzava eventi. Dalla vita volevamo solo il massimo…» Ascoltata quest’ultima affermazione Dafne lo interruppe bruscamente. «Potresti risparmiarmi i dettagli sulla vostra vita di successo? Vai al sodo Bob, dov’è questa Vanessa? E che c’entro io nella vostra perfetta vita del cazzo?» Le lacrime le invasero il viso turbato. Cercava di trattenerle, ma le fu im-possibile. Lui rimase dov’era, passandosi le mani sul volto e poi tra i ca-pelli. Era inquieto, in seria difficoltà. Attese un tempo che a Dafne sembrò infinito. «Vanessa è morta» dichiarò Bob con pacata freddezza «è morta nel no-vantanove, dopo due anni di dolore e sofferenza… due anni da dimentica-re.» Gli occhi di Bob, per la prima volta, si fecero lucidi, anche se cercò di controllarsi con forza, per riuscire ad andare avanti. «E quello di lei sul letto è l’ultimo ritratto che le ho fatto. Dopo, ho giura-to a me stesso che non avrei mai più ritratto.» Dafne non poté dire nulla. Il fiato le si fermò in gola, come se le avessero strappato i polmoni dal petto e il suo sangue si fosse fermato. Provò sen-sazioni contrastanti. Si malediceva per le cose che aveva detto poco pri-ma. Sarebbe volentieri sprofondata, molto in basso. Lui colse tutto questo, grazie all’empatia che li aveva legati da subito. Si alzò e le andò vicino, poggiò la sua fronte contro quella della ragazza te-nendole la testa fra le mani. «Dopo che è sparita dalla mia vita ho passato anni di inferno. Anni pieni di lavoro, solitudine, viaggi all’estero, tutto nel tentativo di non concedere tempo al dolore. Poi sei arrivata tu e… ho provato cose incredibili. Ho a-

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vuto paura, paura di provare qualcosa di forte. Ma mi mancavi, e dovevo tornare da te, per dirti cosa mi portavo dentro e poter finalmente ricomin-ciare.» Dafne era esterrefatta; aveva ascoltato cose molto forti, nel bene e nel ma-le. Ma ora un’unica frase le rimbombava in testa: gli era mancata e voleva ricominciare. «Non voglio sapere altro, né sulla sua morte né su quello che hai passato. Me ne parlerai solo quando vorrai farlo. Mi spiace per tua moglie, mi sen-to uno schifo per questo. Non potevo sapere… ma allo stesso tempo sono felice. Felice perché anche io voglio ricominciare. Anzi, cominciare, con te…» Nessuno dei due poteva sapere come sarebbe andata, o per quanto sarebbe durato quel fatidico desiderio di viversi. Ma capirono in fretta cosa sareb-be accaduto un attimo dopo; ancora invasi da un forte turbamento si fuse-ro in un bacio, tra il tremore e la trepidazione di appartenersi ancora. In un attimo furono una cosa sola, con una passione che solo amore e dolore in-sieme potevano generare.

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A proposito dell’estate 2004  Nel maggio 2004 Dafne terminò il corso post diploma. Come prova finale, tra gli altri test, avrebbe dovuto preparare una piccola campagna promo-zionale per un fittizio prodotto di bellezza. Era stato un duro lavoro, ma ne aveva ricavato discreti risultati. Bob le era stato di grande aiuto, specie sulla parte più tecnica, per la quale Dafne aveva un’innata e incredibile riluttanza. Le cose tra loro andavano bene. Erano passati cinque mesi da quella fred-da notte in cui Bob le aveva raccontato tratti veloci della sua storia passa-ta. Dafne non aveva ancora sentito un suo ti amo, ma sapeva che per que-sto non doveva fare pressioni; a dicembre aveva imparato la lezione, sia con lui che con se stessa. Bob aveva faticato ad accettare l’idea di un nuo-vo rapporto, nonostante ne avesse voglia e bisogno. Iniziando la storia con Dafne, era come se avesse detto finalmente addio a Vanessa e ai sensi di colpa, di questo la ragazza era convinta. Per Bob esternare a parole questo sentimento sarebbe stato un altro passo, che lei avrebbe atteso con pazien-za. Dafne aveva provato a dirgli che lo amava, ma tutte le volte si ferma-va, temendo che lui si sentisse in imbarazzo oppure obbligato a restituirgli l’affermazione. Così, in diverse occasioni, gli aveva lasciato qualche post-it sul frigo o dentro alla borsa, in modo che Bob leggesse il ti amo in sua assenza. La relazione li appagava immensamente, e la fine della scuola aveva tolto loro l’incombenza del rapporto docente-discente. L’unico imbarazzo per Dafne restavano i suoi genitori. Al momento preferiva che non sapessero nulla; il confronto con la loro mentalità ottusa e conservatrice l’avrebbe nuovamente devastata, e non intendeva farsi rovinare il momento più bel-lo della sua vita. Dopo una prima esperienza di stage durante l’ultimo trimestre, Dafne non era affatto convinta che il suo futuro professionale potesse essere lo stesso del suo compagno. Amava creare pubblicità, ma odiava l’ambiente di la-

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voro dei creativi. Aveva intuito da subito che si trattava di una vasca piena di squali, in cui la cattiveria e l’invidia regnavano sovrane. Aveva un me-stiere in mano nel quale, anche grazie a Bob, avrebbe potuto eccellere e inserirsi senza problemi, eppure non voleva approfittarsene per via del suo cocciuto carattere. O almeno non in quel momento. L’estate del 2004 fu per lei un binomio di felicità e frenesia; era la prima estate con l’uomo dei suoi sogni. Ma era anche tempo di cercare un nuovo lavoro. Decise che avrebbe indirizzato le sue ricerche nell’ambito della fumettistica e del disegno manuale, magari come storyboard artist, cer-cando di rimanere nel campo della pubblicità portando avanti la sua pas-sione. Sperava che l’era del personal computer non avesse ucciso del tutto le sue aspettative. Gli annunci in campo di illustrazione non erano certo a suo favore, e quando li scovava il suo curriculum veniva scartato a priori per scarsa esperienza. Tutto ciò che le si apriva davanti era la possibilità di stage gratuiti, che non poteva permettersi. «Maledetti! Non mi hanno neanche chiesto di vedere i miei disegni, non sanno neanche cosa so fare e mi scartano!» urlò una mattina per sfogarsi all’ennesimo “le faremo sapere”. Bob non era per niente entusiasta di quella situazione, e lo fu ancora meno quando Dafne fissò un colloquio in un art bar, non molto distante dalla zona di Brera. «Devi essere impazzita Daf! Come puoi lasciare un posto che non ti appa-ga in profumeria per sceglierne un altro ancora più inutile? Senza contare che fare la cameriera ti impegnerà in orari più irregolari. Hai davvero stu-diato tre anni per finire in un bar?» «Bob io non lo so! Dopo lo stage di primavera ho capito che in quel posto di fighette non potrei mai sopravvivere. Questo bar non dista molto da Brera e potrebbe procurarmi agganci per quello che voglio fare veramen-te. Di sicuro molti di più rispetto a una profumeria. E nel frattempo tiro su qualche soldo» spiegò lei, un po’ infastidita da quell’atteggiamento pater-no di Bob. «Daf, perderai solo tempo prezioso, che dovresti investire da subito per fare esperienza in campo grafico e pubblicitario; è un mondo frenetico, con nozioni e programmi che cambiano di mese in mese. Se ti tagli fuori, quando finalmente tornerai in te dovrai ricominciare tutto da capo! Siamo nel 2004 Daf, Raffaello e Michelangelo farebbero la fame al giorno d’oggi…» replicò Bob, che con l’ultima affermazione provocatoria, tra-sformò Dafne in una furia.

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«Davvero non ti capisco! Tu sei un pittore, un artista! Dovresti spronarmi a seguire la mia vera strada e avresti dovuto farlo anche tu! Invece sembri mio padre. Come hai potuto permettere alla pubblicità di farti accantonare l’arte? Io davvero non capisco!» I due compresero in fretta che con quei discorsi non sarebbero arrivati da nessuna parte, rischiando solo i alimentare divergenze, dovute all’età di-versa, al vissuto e soprattutto al fatto che Dafne ragionava di pancia, men-tre Bob era estremamente razionale. Decisero tacitamente che non ne a-vrebbero più fatto motivo di discussione, dando priorità al bello che quella storia dava loro sul piano emotivo. A fine giugno Dafne lasciò il lavoro nel centro commerciale per iniziare a lavorare all’art bar. Il proprietario, un uomo di trent’anni, era un tipo giocoso e disponibile, nonostante di prima impressione si ponesse in modo scorbutico. Aveva tentato il colpaccio dell’attività grazie a una piccola fortuna ereditata dai nonni. Si chiamava Alberto Moristani, ma per gli amici era solo ed esclu-sivamente Moris. Era di origine mantovana, ma il fiuto per gli affari, così come per la bella vita, lo avevano condotto a Milano. Qualcuno lo chia-mava anche Bruce, per la vaga somiglianza che lo legava a un famoso at-tore, soprattutto in quanto a muscoli, mancanza capelli e sguardo cupo alla Die Hard. La sua vita era dedita al divertimento. “Bisogna lavorare per vivere, non vivere per lavorare, e quando si lavora bisogna divertirsi”. Questo era il suo motto. Visto l’aspetto piacente, le donne non gli erano mai mancate; nonostante ciò, con nessuna aveva mai concretizzato una vera storia. Era un irresisti-bile spirito libero, con tutta l’intenzione di rimanerci. Al colloquio con Dafne, Moris chiese come mai un’artista titolata si ac-contentasse di servire in un bar. La risposta sfacciata e poco ruffiana di Dafne lo portò ad assumerla immediatamente. «Non so ancora cosa fare da grande, ma di sicuro ne ho piene le scatole di vendere profumi in centro. L’affitto da solo non si paga. E poi potresti e-sporre qualche mio dipinto nel tuo bar e io potrei aggiungere al curriculum che ho partecipato a numerose mostre in zona Brera. Che dici, sono abba-stanza motivata?» I due entrarono subito in sintonia, e questo permise a Dafne di avanzare subito qualche richiesta per gli orari di lavoro. Aveva patteggiato per due sole sere alla settimana, garantendo apertura e aperitivi per il resto dei giorni lavorativi. Fortunatamente nel weekend la

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squadra era già al completo, quindi Dafne riusciva a vedere Bob il più re-golarmente possibile. Il lavoro al bar era di gran lunga più appropriato a una persona estrosa come Dafne. In quel posto si sentiva finalmente a suo agio. Oltre a essere accogliente, era frequentato da persone di tutti i tipi, dai ragazzi fashion victim dell’aperitivo del venerdì sera, agli alternativi di quartiere interes-sati all’arte in tutte le sue espressioni. Moris organizzava numerosi eventi, dando spazio ad artisti emergenti di ogni tipo. Per Dafne quel bar era il luogo ideale per cercare agganci; per Bob, era il luogo peggiore in cui la sua ragazza potesse perdere tempo. Oltre al lato professionale, l’idea di quel cambiamento scatenò in lui un’improvvisa gelosia. La profumeria dava poca opportunità a incontri maschili, mentre il bancone di un bar era un porto di mare, e la sua Daf era troppo provocante e improvvisamente socievole per passare inosservata. Bob non aveva mai ritenuto che la dif-ferenza di età fosse una minaccia, ma in quel periodo l’idea che numerosi coetanei potessero avvicinarla iniziò ad agitarlo. Palesò questi pensieri per la prima volta, una calda notte d’estate. Al bar era stata dedicata una serata al quattro luglio, riproponendo lo stile ameri-cano, con degustazione di pietanze tipiche e l’esposizione di quadri di pop art. Bob giunse di sorpresa alle undici e mezza. Al suo ingresso trovò Dafne che brindava con un ragazzo aldilà del bancone. Il tipo, sui venticinque anni, a suo avviso la stava guardando dappertutto fuorché negli occhi. Appena Dafne lo intravide sulla porta, con grande esultanza gli fece segno di avvicinarsi. Bob, per tutta risposta, fece marcia indietro e tornò a casa, lasciando che Dafne ultimasse la serata nella tensione più totale. Chiuso il bar, si recò immediatamente a casa sua, noncurante dell’ora. Si attaccò al campanello con l’intento di svegliarlo, per poi capire che Bob non dormiva affatto. Udì la sua voce vicina, probabilmente in salone, che la invitava a fare da sé; la porta era aperta. Dafne lo trovò seduto ai piedi del divano. Indossava solo un pantalone della tuta e aveva raccolto i ca-pelli in uno chignon. La televisione era accesa, trasmetteva a volume bas-so il secondo tempo di un dvd che Bob per anni aveva divorato: Il Corvo di Alex Proyas. Dafne non credeva ai suoi occhi; Bob stava disegnando. Continuò a farlo, nonostante lei fosse piombata in casa in modo rocambo-lesco. L’iniziale voglia di aggredirlo scemò in un attimo. Era sbalordita. Poteva immaginare tutto, ma non quello spettacolo. Il suo uomo aveva ri-preso in mano la sua più grande passione.

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«Dio Bob, è stupendo…» disse con dolcezza. «Non l’hai neanche visto» rispose Bob freddamente, senza staccare gli occhi dal foglio. «Il disegno lo sarà senz’altro, ma io… mi riferivo a te. È stupendo ciò che vedo, quello che stai facendo, tu…» L’emozione le tagliava la voce, rendendola sottile e quasi impercettibile. A volte, e soprattutto in quel momento, Dafne faticava a rendersi conto che quell’uomo tanto accattivante e bello da togliere il fiato fosse suo. «Vieni a vedere allora» la invitò lui. Dafne lasciò cadere la borsa sul divano e si chinò sulle ginocchia, per ve-dere meglio. Vide se stessa. Il profilo del suo volto guardava verso il bas-so, i capelli sciolti sembravano mossi dal vento. La mano di uomo le toc-cava il collo avvolgendolo completamente. Sembrava che quei pochi sem-plici tratti di carboncino le parlassero. «Quando sono entrato al bar e ti ho vista bere con quel tipo non ho capito più niente; so che è tuo dovere essere gentile, ma quel tizio ti sbavava ad-dosso. Mi sento un quindicenne stupido… ma solo io posso guardarti così, perché ti amo e…» Bob non proseguì. L’aveva detto. Un attimo dopo averlo fatto la guardò negli occhi, in modo penetrante, del tutto perso. Dafne si portò le mani al-la bocca, con tutta l’emozione che solo quel tanto atteso ti amo poteva provocare. Lo baciò con passione e trasporto, restituendogli decine di ti amo nei pochi attimi di respiro che quei baci lasciavano. Fecero l’amore. Era sempre stato travolgente, ma quella sera nessuno dei due poteva im-maginare di meglio. Alle quattro del mattino i loro corpi esausti e sudati dormivano l’uno sull’altro, mossi solo dal loro respiro. Poco distante, gia-ceva immobile il primo ritratto che Bob fece a Dafne. Per l’ultima settimana di agosto, lui le regalò la loro prima vacanza insie-me: un viaggio a Santorini, un’isola che entrambi videro per la prima vol-ta e che li lasciò a dir poco estasiati. Bob, al terzo giorno, aveva già scatta-to circa trecento foto, lei aveva fatto uno schizzo a matita del favoloso pa-esaggio; una volta a casa avrebbe creato un dipinto su tela. Quel posto fu per loro un paradiso. Si erano realmente liberati da ogni pensiero, dal traffico imperterrito della metropoli, dalle discussioni sul la-voro, dalle gelosie, e da tutto ciò che non fosse amore e passione. Si desi-deravano di continuo. Dafne lo provocava a ogni occasione e, come due diciottenni alla prima esperienza, si nascondevano da qualche parte e si

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amavano, incuranti di tutto e tutti, eccitati dall’incessante brivido di quelle situazioni. Ciò accadde anche all’ultima sera di vacanza, mentre passeggiavano lungo il bagnasciuga. Il mare era nero, immerso in una notte senza luna; più che vederlo si riusciva a sentirne l’odore e ad ascoltarne l’interminabile fru-scio. In lontananza un fiume di gente scivolava ancora per la strada illu-minata, piena di inglesi che sorseggiavano l’ennesima birra nei piccoli bar. Guardando più su, tante minuscole luci identificavano le abitazioni di quell’isola, che si arrampicavano armoniosamente sul corpo del vecchio vulcano. Dafne guardava estasiata quel paesaggio notturno. Si sentiva an-cora il brusio della gente per strada, quando lui le sollevò il vestito. Usa-rono quel letto di sabbia scura per la loro ultima notte d’amore a Santorini. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...