A PRO P O S I T O D I… PUCCINI e VACALLO la stanza, gli acquisti (uno spartito del Parsifal...

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A PROPOSITO DI… A PROPOSITO DI… PUCCINI e VACALLO PUCCINI e VACALLO Puccini all'epoca dei suoi soggiorni a Vacallo Ubicazione della casa in via Puccini 2 Vacallo e i luoghi circostanti erano stati spazio di villeggiatura della famiglia di Giacomo Puccini (1) anche in precedenza: infatti nel giugno 1888 Michele Puccini, fratello minore di Giacomo, aveva soggiornato a Pizzamiglio, frazione di Vacallo e di lì aveva scritto allo zio Nicolao Cerù (2) e alla sorella Ramelde (3). E Giacomo Puccini vi trascorse qualche settimana nell'estate 1886, da agosto a novembre del 1888, poi nell' estate del 1889, nuovamente da luglio a novembre del 1890, e nell'estate del 1892. Durante quest'ultimo soggiorno anche Ruggero Leoncavallo, che stava lavorando ai Pagliacci, si trovava a Vacallo e abitava in una locanda situata di fronte alla casa in cui risiedeva Puccini e si racconta che sulla finestra del primo veniva appeso un pagliaccio e su quella del dirimpettaio una grande mano “manon”. Il collega musicista venne in aiuto di Puccini fornendogli alcuni versi per la Manon Lescaut. (4) e probabilmente Puccini portò a termine la composizione dell'opera, come lascerebbe intendere quanto scriveva in una lettera spedita al collega Alfredo Soffredini da Vacallo: “Io sto bene e sono agli sgocciolini, eppoi laus deo”. La casa abitata da Puccini si trova al centro del paese, e prospetta da un lato verso il fianco destro della chiesa parrocchiale, e dall'altro verso la Valle di Muggio. In questa lettera spedita da Vacallo il 15 novembre 1890, Puccini dà notizie dirette sue, dei famigliari e dell'opera che stava componendo: Ill.mo Sig. Comm.re GIULlO RICORDI Via Omenoni 1, Milano

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A P R O P O S I T O D I…A P R O P O S I T O D I…

PUCCINI e VACALLOPUCCINI e VACALLO

Puccini all'epoca dei suoi soggiorni a Vacallo Ubicazione della casa in via Puccini 2

Vacallo e i luoghi circostanti erano stati spazio di villeggiatura della famiglia di Giacomo Puccini (1) anche in precedenza: infatti nel giugno 1888 Michele Puccini, fratello minore di Giacomo, aveva soggiornato a Pizzamiglio, frazione di Vacallo e di lì aveva scritto allo zio Nicolao Cerù (2) e alla sorella Ramelde (3).

E Giacomo Puccini vi trascorse qualche settimana nell'estate 1886, da agosto a novembre del 1888, poi nell' estate del 1889, nuovamente da luglio a novembre del 1890, e nell'estate del 1892. Durante quest'ultimo soggiorno anche Ruggero Leoncavallo, che stava lavorando ai Pagliacci, si trovava a Vacallo e abitava in una locanda situata di fronte alla casa in cui risiedeva Puccini e si racconta che sulla finestra del primo veniva appeso un pagliaccio e su quella del dirimpettaio una grande mano “manon”. Il collega musicista venne in aiuto di Puccini fornendogli alcuni versi per la Manon Lescaut. (4) e probabilmente Puccini portò a termine la composizione dell'opera, come lascerebbe intendere quanto scriveva in una lettera spedita al collega Alfredo Soffredini da Vacallo: “Io sto bene e sono agli sgocciolini, eppoi laus deo”. La casa abitata da Puccini si trova al centro del paese, e prospetta da un lato verso il fianco destro della chiesa parrocchiale, e dall'altro verso la Valle di Muggio.

In questa lettera spedita da Vacallo il 15 novembre 1890, Puccini dà notizie dirette sue, dei famigliari e dell'opera che stava componendo:

Ill.mo Sig. Comm.re

GIULlO RICORDI

Via Omenoni 1, Milano

Vacallo 15.11.90

Gentilissimo sig. Giulio

S.M. il doge di Vacallo sta bene e lavora. I sudditi son calmi e in salute. Poco freddo poichè la sala è riscaldata dal patriarcale camino dogale. Il Kronprinz (5) è il più vegeto rampollo della repubblica. La Czarina (6) è un pò... secondo il solito. A giorni faremo ritorno alla capitale. La mia favorita Manon è cresciuta e mi pare in buona salute. Dal mio primo ministro Oliva (7) non ho più notizie attendo il 4° atto e 2°. Di Madrid niente? a quando l'andata? (8). Abbiamo una splendida stagione e a dir la verità mi rincresce tornare a Milano - qui lavoro tanto bene!! Sempre all'oscuro di tutto, senza notizie – e senza noje - Elvira mi incarica di salutarla e così ancora la Signora Giuditta e la Ginetta. A presto dunque e discuteremo ancora perchè... è malattia cronica per me. Ossequi alla Signora e alla Sposina Tito e Manoli.

Tante cose aff. dal suo

G. Puccini

PUCCINI AL LAVORO

Se anche Giacomo Puccini vi avesse soggiornato solamente, la casetta di Vacallo ci attrarrebbe; si è tanto sorriso sulle troppo numerose camere da letto corredate di lapide "qui dormì Napoleone", ovvero "qui si riposò per una notte Giuseppe Garibaldi, l'Eroe dei Due Mondi"; eppure anche quel contatto materiale di un corpo illustre non in sé ma per la mente che lo abita, con un pavimento, delle pareti, dei mobili, ha più senso di quel che non si vorrebbe.

Ma a Vacallo, invece, Puccini non si limitò a pranzare, cenare, dormire; nella casetta in bellavista, Puccini lavorò, e non certo in un momento qualunque (ammesso che ce ne fossero): stava musicando nientemeno che la Manon Lescaut, vale a dire 1'opera che lo rivelò in tutta la sua vera statura; ben oltre il successo lusinghiero delle Villi e i dubbi dell'Edgar, la Lescaut mette Puccini sulla pedana di chi produce capolavori, stacca decisamente il suo mondo da quello verdiano per accendere fuochi di ben diverse passioni anche se non è già, come La Bohème, un balzo verso e anzi dentro l'ormai vicino Novecento. Tanto più, dunque, il lavoro di Puccini su quel pluripartorito libretto importa di per sé, ed è fin troppo facile attrattiva.

Ma, oggi il banco di lavoro di Puccini ci interessa più che mai. Quanto lo "spontaneo" sor Giacomo fosse tormentato nel comporre, si sapeva da un bel pezzo; troppo eloquenti sono le pagine di abbozzi dove ci son più cancellature che note, e abbozzi, si badi, che una volta decifrati (!!) mostrano di corrispondere a quanto poi venne stampato, non appunti volanti e spersi. Il punto interessante, però, va oltre quei segni di scrupolo e di insoddisfazione.

Da alcuni anni, ci si è messi a rintracciare e a studiare le differenti versioni stampate delle opere di Puccini. Direi che fino agli anni Sessanta a codesto fenomeno non si faceva caso; non per niente si credeva di sapere che la Butterfly fosse esistita in due sole versioni, una fischiata e una trionfante, e la cosa non attraeva, tanto che spartiti molto diversi da quello definitivo venivano creduti

genericamente "la prima", che pur stampata quasi nessuno conosceva e che nessuno menzionava nei giusti termini.

Ci volevano la Bibliografia di Hopkinson (1968), poi i primi scritti sul "caso Rondine" (tre versioni) e infine il "caso Butterfly" e delle sue quattro versioni con la riscoperta della prima versione e addirittura il confronto in teatro a Venezia (1983), tra la prima e la quarta nonché definitiva, a mostrare quanto, nell' esame delle versioni e dunque del Lavoro e del Laboratorio di Puccini, contribuisca a capirne il valore, la sostanza, i problemi, i rapporti col passato, col presente e col futuro. Ancora nel 1969, una tesi di laurea sulle varianti in Puccini (di Luciano Gherardi, allievo di Fedele D'Amico) sembrava una rarità un po' strana; dieci o quindici anni dopo, la pensiamo ben diversamente. Anche per questo, al di là dell'affetto e di quella indescrivibile aura che resta nei luoghi frequentati dai grandi, la casetta di Vacallo (oggi restaurata e situata in via Puccini n. 2) merita attenzione, rispetto, cura.

E il 15 luglio 1985 venne posta una lapide:

LA LAPIDE

DEDICATA A GIACOMO PUCCINI

Casa Puccini a Vacallo in un bozzetto di Giorgio Juon Casa Puccini a Vacallo in una fotografia del 2007

1) Giacomo Puccini nasce il 22 dicembre 1858 a Lucca da una famiglia di musicisti: Michele, il padre, insegna armonia e contrappunto all'Istituto musicale di Lucca. Diverrà in seguito direttore della Cappella Municipale.

Alla morte di Michele Puccini l’incarico viene assunto da uno zio materno di Giacomo, secondo cui il giovane Puccini è un “falento”, ossia un fannullone senza talento. A dispetto di tale giudizio la madre Albina lo iscrive all’Istituto, dove

conseguirà il primo premio per la classe d’organo nel 1875. Già da qualche anno Giacomo accompagna le funzioni religiose in diverse chiese, anche fuori Lucca.

Nel 1876 si reca a piedi fino a Pisa per assistere alla rappresentazione di Aida: "Ne rimasi sbalordito, direi quasi spaventato". L'episodio assume il significato di un presagio: poco incline alle mansioni e agli obblighi di famiglia si sentirà d'ora innanzi chiamato ad un altro destino.

In questi anni, oltre che organista (poco ortodosso) è all'occorrenza un pianista, arrangiatore estemporaneo nella taverne e in alcuni centri di villeggiatura.

Nel 1880 termina gli studi presentando una Messa a quattro voci. Forte del successo che riscuote, si reca a Milano dove in autunno supera a pieni voti l'esame di ammissione al Conservatorio: qui seguirà le lezioni di Antonio Bazzini e Amilcare Ponchielli.

Gli anni milanesi sono molto lontani dalle esuberanze lucchesi: Giacomo si rivela un allievo assiduo, paziente, molto responsabile. Divide la stanza, gli acquisti (uno spartito del Parsifal comprato in società) e le avventure con un amico livornese di poco più giovane: Pietro Mascagni.

Il successo arriva con la rappresentazione di Le Willis nel maggio del 1884 al Teatro Dal Verme, riedito col titolo definitivo di Le Villi e rappresentato al Regio di Torino nel dicembre dello stesso anno. Lavora intanto a Manon Lescaut, che verrà rappresentata al Regio di Torino nel 1893. L’accoglienza trionfale segna un rovescio di fortuna: pagati i debiti, riscattata la casa paterna, si colloca definitivamente tra i grandi dell’opera italiana.

Intanto suscita scandalo il legame con la moglie di un amico d’infanzia, da cui avrà un figlio, Antonio.

Per sfuggire alle ostilità di un ambiente chiuso e moralista si rifugia con la famiglia “irregolare” a Torre del Lago, dove trascorre un periodo buio e precario.

Con Illica e Giacosa inizia la collaborazione a La Bohème. L'opera sarà rappresentata al Regio di Torino nel febbraio del 1896 sotto la direzione di Arturo Toscanini. L'accoglienza è tiepida: secondo i critici si tratta di un inutile tonfo dopo i successi di Manon.

Tuttavia nelle ventiquattro repliche l'opera prende quota, culminando nel successo decretato dal pubblico di Palermo, letteralmente in delirio. Una tournèe nei maggiori teatri d'Europa confermerà un adesione di pubblico piena e cordiale.

Il prossimo titolo è già deciso: si tratta di Tosca, sempre con Illica e Giacosa. L'opera viene rappresentata a Roma nel 1900, in un clima incerto: a fronte del favore del pubblico, i critici esprimono un forte imbarazzo.

A quell'epoca assiste al Covent Garden al dramma di Belasco Madama Butterfly: sospesi tutti gli impegni ne affida la stesura ai librettisti di fiducia, Illica e Giacosa. Il debutto alla Scala, il 7 febbraio 1904, è un fiasco probabilmente pilotato.

Invitato a New York per Manon e Butterfly, assiste a The Girl of the Golden West, altra opera di Belasco. Il 10 dicembre 1910 La fanciulla del West viene rappresentata al Metropolitan con Toscanini direttore, la Destinn e Caruso protagonisti: il successo è trionfale.

Le opere degli anni successivi, ad eccezione di Gianni Schicchi, non avranno altrettanta fortuna. Alla soglia degli anni ’20 comincia il lavoro all’opera della maturità, Turandot, che sarà motivo di continue crisi di sfiducia e ripensamenti.

L’opera non sarà portata a termine: quando Puccini muore, il 29 novembre 1924 a causa di un cancro alla gola, è ferma al terzo atto, al compianto per la morte di Liù. La terminerà Franco Alfano.

2) NICOLAO CERÙ (inizio 1800-1894). Medico lucchese, prozio di Puccini, in quanto figlio di un fratello di Angela Cerù, moglie di Domenico Puccini, nonno di Giacomo. Benestante, concede a Giacomo una modesta rendita (i «denari

[…] che lei mi manda sono per il puro necessario») per completare i due ultimi anni di studio a Milano; ma a lui Giaco-mo si rivolge anche per qualche necessità straordinaria, come l'acquisto di «una di quelle stufe economiche che fanno assai caldo» e del «carbone che costa tanto» (a Cerù, 6 dicembre 1882). Lo tiene regolarmente informato dell'andamento degli studi, lo ringrazia per l'invio di un «pardessù» e gli assicura che «sarò sempre riconoscente» (a Cerù, 24 aprile 1883). Quando Giacomo, con i primi successi, comincia a guadagnare, vuole indietro i soldi che gli ha anticipato, suscitando in lui una infastidita reazione: «il dottor Cerù mi ha intimato di restituirgli i denari che mise fuori per il mio mantenimento a Milano agli studi, con gli interessi fino ad oggi! E dice che con Le Villi ho guadagnato quaranta mila lire! Adesso, per tutta risposta, gli mando il conto dei noli di Ricordi, e vedrà, sono, invece, sei mila lire solo le mie quote, Che differenza! Non me lo sarei mai aspettato!» (a Michele, 30 aprile 1890).

3) RAMELDE (1860-1912), settima figlia di Michele e Albina, la più giovane giunta alla maggiore età fra le sorelle di Giacomo, nata quasi esattamente due anni dopo di lui. Il 3 febbraio 1883 sposa il possidente lucchese Raffaello Franceschini (1854-1942), funzionario della Pubblica Amministrazione, poi direttore dell' esattoria comunale di Pescia, e ha tre figlie, Alba (Albina), Adelaide (Nina) e Nelda, per le quali lo zio Giacomo provava grande affetto. Molto affia-tata col fratello (la primavera del 1881 gli regalò un vestito: «sei stata molto di buon gusto perché mi è piaciuto moltissimo», a Ramelde, 4 aprile 1881), che spesso non solo la eleggeva a propria confidente, ma ne sollecitava il consiglio per la scelta dei soggetti delle opere. Era anch'essa appassionata autrice di improvvisate poesie, e all'inizio del 1901 tenne per qualche mese un diario. Dopo la sua morte, avvenuta a Bologna l'8 aprile 1912, Giacomo elesse come propria confidente la maggiore delle sue figlie, Albina: «vorrei tu fossi vicina almeno per sfogarmi a chiacchiere» (ad Albina, 19 maggio 1914).

4) MANON LESCAUT, opera in quattro atti di Giacomo Puccini.

Terza opera di Puccini in ordine cronologico, Manon Lescaut indicò all'autore la futura strada da percorrere. È generalmente considerata la sua prima partitura operistica completamente matura e personale.

La prima rappresentazione ebbe luogo la sera del 1º febbraio 1893 al Teatro Regio di Torino, dove l'opera ottenne un successo clamoroso.

Ispirata al romanzo dell'abate Antoine-François Prevost Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut, Manon Lescaut fu composta fra l'estate del 1889 e l'ottobre del 1892. Ad allungare i tempi fu soprattutto la laboriosa gestazione del libretto, passato tra le mani di cinque letterati. Iniziato da Ruggero Leoncavallo, che abbandonò presto il lavoro, fu scritto in gran parte da Marco Praga e Domenico Oliva. A completarlo e rifinirlo fu però Luigi Illica, che in particolare lavorò al terzo atto e alla scena iniziale del secondo. Nessuno dei poeti alla fine lo firmò.

Questa girandola di librettisti, in ultima analisi, attesta come l'impianto drammaturgico, se non i singoli versi, vada attribuito a Puccini, che arrivò ad eliminare di sana pianta un atto: quello del nido d'amore degli innamorati, tra gli attuali primo e secondo atto.

Puccini ritoccò in più occasioni la partitura. L'intervento più importante fu la sostituzione del finalino del primo atto, avvenuta poco dopo la prima rappresentazione. Il finale originario si basava sul tema cantabile del primo duetto tra Manon e Des Grieux e non conteneva l'attuale dialogo tra Geronte e Lescaut.

I successivi interventi riguardarono prevalentemente il quarto atto, che fu accorciato in vari punti. In una delle edizioni per canto e pianoforte pubblicate da Ricordi l'aria di Manon, Sola, perduta, abbandonata fu addirittura soppressa, ma Puccini in seguito protestò contro questo taglio e reintegrò l'aria, sia pure dopo averla accorciata di alcune battute. Nell'occasione Giuseppe Adami ampliò il testo della sezione iniziale, in cui fino ad allora Manon ripeteva ad oltranza le parole dell'incipit.

Alcune modifiche alla partitura orchestrale furono infine suggerite da Arturo Toscanini, per la storica ripresa del trentennale, alla Scala di Milano.

La trama

Il primo, fatale incontro con Des Grieux ad Amiens, la fuga a Parigi, la separazione e il successivo ritrovamento, poi la condanna alla deportazione ed infine la morte nell'arido e sterminato deserto d'oltreoceano: queste le tappe della romantica e tragica vicenda di Manon Lescaut (soprano) che, destinata alla vita monastica a causa della sua leggerezza ed indocilità, si incontra per caso con Renato Des Grieux (tenore), un giovane studente di provincia.

Fra i due sboccia d'improvviso un amore travolgente, e la fanciulla, riuscita a sfuggire ad un tentativo di rapimento che il ricco banchiere Geronte di Ravoir (basso), colpito anch'esso dalla sua grazia, aveva progettato, si lascia convincere da Des Grieux a seguirlo a Parigi. Qui gli amanti vivono ore felici: ma per poco, perché Manon ben presto non resiste alla tentazione del lusso e, con l'appoggio dell'equivoco fratello (baritono), si lascia irretire da Geronte, abbandonando Des Grieux. Questi però non rinuncia a Manon, per il cui amore aveva troncato i rapporti con la sua ricca e onorata famiglia, riducendosi in miseria; riesce a rintracciarla nel palazzo del vecchio gentiluomo e la investe violentemente, ricordandole i giorni del loro amore ed i sacrifici affrontati per lei.

Manon però non tarda, con il suo fascino, ad attrarre nuovamente a sé il giovane che, dimentico dell'infedeltà, stringe la fanciulla in un abbraccio appassionato: così vengono sorpresi da Geronte che, per vendetta, denuncia Manon come prostituta. Condannata alla deportazione, Manon è rinchiusa con altre cortigiane nella prigione di Le Havre, dal cui porto l'indomani salperà per l'America un veliero con il suo carico doloroso. Des Grieux è disperato per la sorte riservata all'amata e cerca di salvarla ad ogni costo; un tentativo di fuga fallisce miseramente, ed egli allora comprende come nessuna speranza rimanga ormai di sottrarre Manon al suo destino.

Ma non vuole separarsi da lei ed ottiene, per la benevolenza del comandante della nave, il consenso di imbarcarsi come mozzo: condividerà quindi con la donna amata i rischi ed i patimenti della nuova esistenza. Nel deserto della Nuova Orleans, sotto il sole rovente, Manon e Des Grieux, dopo essere riusciti a fuggire, vagano senza meta, stremati dalla fatica. Manon è allo stremo delle forze: cade al suolo, incapace di proseguire.

Nessun soccorso può più offrirle ora il fedele amante, che lancia nello spazio il grido della sua disperazione; e la bella e voluttuosa Manon di un giorno muore fra le sue braccia, sorridendogli amorosamente per l'ultima volta.

5) Antonio Puccini (Monza 1886 - Viareggio 1946), unico figlio di Giacomo ed Elvira Bonturi, entrò come interno in un Istituto tecnico di San Gallo, in Svizzera: «Tonio studia il violino, verrà a giorni [a Milano] per farsi un vestitino e poi ritornerà al collegio. Verso il 20 di luglio verrà in campagna [al Castellaccio] con la Fosca che ritornerà da Levico [dove era stata mandata a metà giugno in Compagnia della moglie di Giulio Ricordi]» (a Franceschini, 15 giugno 1895). «Mi fermo un giorno a S. GaIIen dove ho mio figlio in Collegio» (a Bondi, 24 ottobre 1903). «Tonio a giorni parte per San Gallo» (a Ramelde, 29 settembre 1904). «Tonio è a Marina di Pisa: va giornalmente in città a prendere ripetizioni per gli esami che avrà prossimi in Germania» (a Ramelde, 14 agosto 1907). Non superò gli esami, e intorno all 1910 il padre lo fa lavorare presso la fabbrica di automobili S.P.A. (Società Piemontese Automobili), fondata a Torino verso il 1906; poi alla Lancia di Milano. Negli anni successivi lascia il lavoro, e segue il padre; gli è molto vicino soprattutto nei mesi che precedono il ricovero a Bruxelles. Dopo la morte del padre, nasce la figlia Simonetta (2 giugno 1929), e nel 1933 sposa Rita Dell'Anna (1904-1979).

6) Elvira Puccini-Bonturi (1860-1930), moglie di Giacomo.

Nata a Lucca il 13 giugno, sposò il 19 febbraio 1880 il commerciante in coloniali Narciso Gernignani, da cui ebbe due figli, Fosca nel 1880 e il secondogenito Renato (1885-1957). La prima notizia della conoscenza fra Elvira e Giacomo si trova in una lettera inviata al compositore dal fratello Michele: «Che farai? Dice che non vai via [da Lucca] perché t'in-teressa troppo la Buchignani e fai come nel novembre che volevi andare via ma poi non andasti» (Michele a Giacomo, Milano, 5 giugno 1885). "Buchignani", con una deformazione equivoca tipica dei giovani maschi Puccini, potrebbe essere appunto la Gemignani, e aprire subito il discorso sulla forte attrazione che fin dal principio legò i due Iucchesi, che peraltro in quel momento non erano giovanissimi: Elvira, venticinquenne, aveva un marito e due figli (l'ultimo appena partorito), mentre Giacomo stava per compierne ventisette, e aveva già alle spalle un primo, seppur modesto, successo operistico. Diversi anni dopo, nel 1891, Puccini spiegò in questo modo alla sorella Ramelde gli eventi che portarono alla fuga da Lucca nell'estate 1886, alla nascita di Antonio (23 dicembre 1886) e alla decisione di convivere:

«Quando partimmo da Lucca l' '86, fu una partenza provvisoria perché la trippa [lo stato interessante di Elvira] era a un punto da non potersi più tenere celata. Lei finse di essere a Palermo e per diverso tempo la cosa fu creduta: dopo venne alla luce il Tonio e il menage era iniziato e non s'era seccati da nessuno. Né da una parte né dall'altra si mise più in campo l'idea della divisione e cioè del ritorno ai propri lari» (a Ramelde, fine aprile 1891). Per un breve periodo essi, con Fosca (Renato era rimasto col padre), si stabilirono a Monza, dove nacque Antonio, poi a Milano; negli anni seguenti, fino a quando nel settembre 1891 Puccini affittò una casa a Torre del Lago, vissero spesso separati, specie quando lui tornava a Lucca. Nacquero così i primi accenni di gelosia, acuiti nei mesi in cui essi vivevano separati: «Per carità non mi dar dispiaceri, pazienta. [ ... ] Ho da lavorare e tanto [alla Manon Lescaut] lo sai e dal mio lavoro dipende tutto - e non ho la quiete che mi bisogna - Per carità topisia pensa a me e fa' il sagrifizio di esser calma e star al tuo posto non temer di me io sono e sarò sempre il tuo topisio d'amore e verrà tempo che saremo quieti e felici» (a Elvira, 23 maggio 1891); «La tua lettera mi ha fatto un'impressione tremenda. Povera Elvira mia ma santo Dio! perché prendersela così? perché non stai calma più che puoi! poi poi ... che ragioni hai da parte mia di esser così costernata? mi dici che hai da dirmi certe cose a voce ... io per me non ho nulla da rimproverarmi sulla coscienza - ho agito e agisco lealmente con te, niente sotterfugi, niente idee di abbandoni o tradimenti. Il mio unico desiderio è di poter tranquillamente finir Manon, di cui ho preso formale impegno (se mancassi sarebbe la mia rovina) per Torino carnevale prossimo» (a Elvira, 3 giugno 1891). Infine, superata la crisi artistica e finanziaria collegata all' insuccesso di Edgar, e anche la fase acuta dei pettegolezzi lucchesi, essi proseguirono la convivenza a Torre del Lago. Una convivenza non del tutto pacifica, per una complessa serie di motivi. Innanzi tutto, a Elvira non piaceva la vita in campagna («tu ti sei sempre annoiata in campagna e io l'ho amata tanto»), e desiderava avere il più possibile la compagnia dei suoi parenti «per alleggerirti del peso noioso del verde», e questo, come sottolineava Puccini, «ha dato lo sfratto alla nostra intimità» (a Elvira, 9 ottobre 1900); poi, mostrava sempre più spesso quella che Puccini, anni dopo, definì «anima tragica» (a Elvira, 14 marzo 1913).

Se «la Czarina è un po' ... secondo il solito» (a G. Ricordi, 15 novembre 1890), da parte di lui, malgrado le dichiarazioni di lealtà, il rapporto fu costellato da frequenti tradimenti e altrettanto frequenti pentimenti, che naturalmente ingigantivano i malumori, le irrequietezze, le scene di gelosia da parte di lei, qualche volta addirittura ingiustificate, come forse nel caso pietoso di Doria Manfredi. Tuttavia la convivenza, fra alti e bassi, continuò fino alla fine, e ci sono buoni motivi per ritenere che essa fosse del tutto confacente alle esigenze psicologiche di Puccini, che aveva bisogno di un luogo sicuro e organizzato dove sentirsi protetto e, malgrado tutto, amato. Qualche volta si parla anche di matrimonio (la «vecchiata», come la chiama Puccini), ma la presenza del marito Gemignani è un ostacolo che Puccini non ha intenzione di scalzare ricorrendo al divorzio. Vi accenna con una buona dose di ipocrisia nei giorni in cui è in corso la sua relazione con Corinna: «Chi ne soffre molto e ne è ammalata è la povera Elvira che è ridotta al minimo stato non tutto però per colpa mia. lo forse ho contribuito ad aggravare il male. Però spero che sopraggiungendo la calma e con le cure Elvira si rimetterà. [ ... ] In quanto al divorzio, se riesce di farlo, io non ho nessuna difficoltà a far la vecchiata, non foss' altro che per il Tonio» (a Ramelde, 25 maggio 1901).

Un momento cruciale della convivenza fu il febbraio 1903 quando, mentre stava nascendo Madama Butterfly, quasi nello stesso giorno (il 25 e 26 febbraio) avvenne il grave incidente automobilistico di Puccini e la morte violenta di Gemignani. Costretto all'immobilità, Puccini fu obbligato a interrompere ogni contatto con Corinna, e nello stesso tempo Elvira mostrò un attaccamento, una attenzione che Puccini non poté fare a meno di apprezzare. Certamente ci furono contrasti fra i due, e forse aspri litigi, come si può arguire da alcune parole indirizzate da IIlica alla sorella Ramelde: «Non le nascondo che l'Elvira mi dà ai nervi! E penso che se Puccini agisce così, vuoi dire che l'Elvira non ha saputo ispirargli maggiore e migliore rispetto! I popoli hanno quei governi che si meritano! E l'Elvira an-che!» (metà aprile 1903). Ma alla fine, trascorsi i regolamentari dieci mesi di vedovanza, si giunse il 3 gennaio 1904 al matrimonio civile nella villa di Torre del Lago, celebrante l'avvocato Cesare Riccioni, sindaco di Viareggio, testimoni Giuseppe Razzi marito di Ida Bonturi sorella della sposa e il dottor Rodolfo Giacchi, medico condotto di Torre; poi matrimonio religioso la sera, celebrato dal parroco di Torre, don Giuseppe Michelucci.

La condizione matrimoniale non muta affatto il rapporto fra i due: lui continua a desiderare e a realizzare brevi evasioni, lei si mostra gelosa ma nello stesso tempo maternamente amorevole: «Elvira è qui con me [a Parigi] e veramente ha

una pazienza e mi assiste e cura con un amore unico. E con me ce ne vuole della pazienza! Son tanto nìfito [uggioso]certi giorni!» (a Tomaìde, Il novembre 1906).

Mentre è in gestazione La fanciulla del West, si verifica il suicidio della cameriera Doria Manfredi (6a), e si giunge a qualche mese di separazione di fatto, e a un progetto di separazione legale, caldeggiato soprattutto dall'avvocato Nasi e dagli amici, mentre Puccini sembra interessato soprattutto a non prendere posizione, e si mostra infantilmente spaventa-to. Mentre è a Roma ed Elvira a Milano, e l'avvocato lavora per la separazione, scrive alla sorella Ramelde: «Aspetto notizie da Milano dove l'avvocato si è abboccato con Elvira per definire la separazione di consenso. [ ... ] Andrò a Torre ma mi spaventa la sera ad esser solo. Tu verresti per un po'? [ ... ] Sì, tornerò a Torre, là forse spero trovare la calma. [ ... ] Non so più cosa dirti. Sono accasciato, avvilito, finito!» (fine gennaio 1909). Un intelligente e spregiudicato suggerimento venne da IIlica che, prendendo spunto dalla Fanciulla del West, propose: «In tutta fretta: vuoi che ti dica (per quel che può valere beninteso) quello che farei io in te? Prenderei il transatlantico pronto in par-tenza a Genova e me ne andrei dritto dritto a New York! Porterei lontana la mia presenza da avvenimenti (che forse non succederanno ma che possono anche succedere) che oggi non si possono prevedere. Il soggetto, l'ambiente, l'autore del lavoro che stai musicando, spiegano logicamente e legittimano la tua risoluzione. Tu ti attacchi al tuo la-voro siccome quello che unico, oggi, può darti e la tranquillità e la pace che ti sono necessarie per aspettare la naturale soluzione di tutto, evitando da parte tua ogni probabile complicazione mettendoti così al riparo contro ogni sorpresa che la tua debolezza potrebbe - malgrado la tua ferma volontà del momento - riserbarti» (Illica a Puccini, inizio marzo 1909). Sarebbe stato un gesto clamoroso, ma Puccini preferiva l'autocommiserazione: «Elvira agisce come una pazza cattiva e incorreggibile [ ... ]. Ha imbevuto tutti delle sue idee false e io non sono creduto più da quasi nessuno. Mi si vuoi togliere persino Torre del Lago. Ah! quando scrivesti anni addietro che quella donna era la mia rovina! Avevi tanta ragione!» (a Ramelde, metà marzo 1909). Puccini, che intanto aveva lasciato Roma ed era tornato a Torre del Lago, venne raggiunto da una lunga ed esasperata lettera di Elvira, nella quale, sia pure in modo un po' confuso, ribadiva la colpa del marito: «Se posso darti un consiglio, è quello che tu smetta di mentire perché forse è il solo mezzo per riabilitarti in faccia a tutti. Perché tu menti anche a te stesso, e la prova più certa è quella di esserti fab-bricato un alibi che ti scusi completamente e per esser certo di non confonderti, te lo sei scritto e io l'ho letto» (Elvira a Puccini, 25 marzo 1909). Probabilmente negli stessi giorni (ma la data è sconosciuta), Elvira scriveva anche alla cognata Ramelde: «Mi sono umiliata, ho pregato, ma visto che a nulla ha servito, ho deciso di separarmi e lo farò, tanto è inutile, io non potrò più essere per lui quella che san sempre stata; la ferita è stata troppo profonda e mai si potrà rimarginare. [ ... ] Dunque che vale restare uniti? Potrei più vivere serenamente insieme? No. Dunque è meglio stare ognuno da sé. Non ti nascondo che ne proverò un gran dolore perché, pur essendo stata calpestata e torturata al di là del possibile, io ho vergogna a confessarlo ma gli voglio ancora bene, però non mi sento più il coraggio di vivere insieme, chissà che la lontananza me lo faccia dimenticare!» (Elvira a Ramelde, data sconosciuta). Una lettera sincera; nel frattempo il marito se ne stava a Torre del Lago, accudito dalla sorella Ramelde, che aveva con sé le due figlie Albina e Nina e l'altra Albina, figlia di Nitteti: «a lui non manca proprio nulla: è servito come un pascià. Non è più come i primi giorni e non si lamenta di nulla» (Ramelde a Franceschini, 15 aprile 1909). Forse aveva trovato la soluzione ideale, con quattro donne fedelissime intorno a sé; ma poi, alla fine di luglio, tacitati i parenti di Doria con il versamento di dodicimila lire, Giacomo ed Elvira sono di nuovo insieme: «Ora siamo tutti e tre [compreso Antonio] uniti e pare che la vita vada molto meglio. Elvira mi sembra molto cambiata dopo le dure prove della separazione» (a Seligman, 26 luglio 1909).

I rapporti si stabilizzano, e se qualche volta lei si accorge di qualche improvvisa sbandata, lui la tranquillizza con la solita filosofia del maschio: «Santo Iddio il mondo è pieno di queste cose e tutti gli artisti coltivano questi piccoli giardini per illudersi di non essere finiti o vecchi stracci da buttar da parte - Tu t'immagini cose immense e invece non è che uno sport al quale tutti più o meno dedicano qualche pensiero senza ledere quella cosa seria e sacra che è la famiglia» (a Elvira, 30 agosto 1915). E così, augurandosi di trovare sempre a casa un «buon piatto di giovialità», lui continua a praticare lo sport del giardinaggio, chiedendo agli amici di coprirlo: «Sarei dunque felice di levarmi da questo putridume per 10 o 15 giorni. lo non trovo il modo di muovermi - data la mia vita stazionaria. Mia moglie si inalbera e mi intralcia - ma se viene un richiamo da te io spero di riuscire - attendo tua lettera - tu magnifica la gita e parla anche di Rondine da combinare - fingi che Schalk [direttore d'orchestra all’ Opera di Vienna] è a Salzburg. Insomma rimetto alla tua fantasia la spronatura a farmi riuscire a uscir di qui» (a Schnabl, 19 luglio 1921). Ma non è

sempre facile trovare gli agganci giusti, e resta il gusto del lamento: «Buon per te che sei libero e padrone di far quello che vuoi! lo san vecchio e ho mille cose che mi tengono qui - prima di tutte il lavoro - a volte mi dico: hai lavorato assai o mio Giacomo, smetti e goditi - ma ho il matrimonio che mi inchiavarda! [sic] Dio poco di buono!» (a Schnabl, 18 marzo 1922).

Quando, il 4 novembre 1924, giunge il momento della partenza per Bruxelles per affrontare l' operazione alla gola, Elvira, che non sta bene, se ne rimane a Viareggio, e qui viene raggiunta dalla notizia della morte del marito. Vivrà appartata ancora cinque anni, e morirà a Milano il 9 luglio 1930.

6a) Doria Manfredi, (1885-1909). Fu assunta da Puccini come cameriera nella villa di Torre del Lago all'inizio del 1903, al tempo dell'incidente automobilistico. Nell' autunno 1908 Elvira, convinta di una relazione fra Doria e suo marito, comincia a perseguitare la ragazza, tanto che Doria, esasperata, lascia il servizio nell'ottobre 1908, e il 23 gennaio 1909 ingerisce alcune pastiglie di sublimato. Nell'apprendere la notizia, Puccini, che si trova a Roma, ne è sconvolto: «se si arriva in tempo! questo pensiero è tremendo - vedo distrutto tutto per me famiglia pace - addio mio Torre del Lago per sempre! ... tutto è sfacelo - e i rimorsi prenderanno tutti ... ma gli altri non hanno anima ... lo sarò il più infelice di tutti - Povera Doria così buona così dolce e affezionata!» (a Bettolacci, 26 gennaio 1909). Ma non si arriva in tempo, e Doria muore il giorno 29 dopo terribili sofferenze. Poiché nel paese si sparge subito la voce che la cameriera è morta in seguito a un aborto, per evitare spiacevoli incidenti Elvira raggiunge subito Milano, mentre Giacomo, sempre da Roma, si rivolge all'avvocato Nasi che, da Torre del Lago, gli scrive: «Non ti nascondo che era per me una grave preoccupazione la voce corsa (e di cui mi parlava una lettera che ti mostrerò) che si trattasse di aborto ecc., ormai ogni dubbio anche lontano è svanito ed è rimasta ormai assodata la integrità assoluta di quella povera creatura». Nasi poi rassicurava Puccini sul benevolo atteggiamento del paese nei suoi confronti, e invece sui «sentimenti ostilissimi» nei confronti di Elvira; annunciava come inevitabile «un sacrificio di denaro» in vista della prevedi bile azione giudiziaria per diffamazione da parte dei parenti di Doria contro Elvira, e soprattutto consigliava «una separazione legale [ ... ]. Ormai la moglie tua non può più tornare giù. Tu devi invece restarci dopo un certo lasso di tempo. Continuare a vivere col veleno quotidiano è impossibile. Non sistemare le cose solennemente sarebbe una follia» (Nasi a Puccini, 31 gennaio 1909).

Il 1° febbraio 1909 Rodolfo Manfredi, fratello di Doria, sporgeva querela contro Elvira, e il processo venne fissato per il 6 luglio 1909 presso il Tribunale Penale di Lucca. Forse mal consigliata dai suoi avvocati, di fronte al giudice Elvira continuò ad accusare implacabilmente Doria e, non avendo alcuna prova da addurre, venne condannata per diffamazione, ingiurie e minacce a cinque mesi e cinque giorni di prigione, a 700 lire di ammenda e al pagamento delle spese processuali. I suoi avvocati ricorsero in Appello, che venne fissato per il 21 luglio seguente, ma nel frattempo Puccini ebbe un incontro con i familiari di Doria e, dopo aver versato la somma di Lire 12.000, ottenne il ritiro del-l'accusa; il 2 ottobre la Corte d'Appello archiviò la pratica.

7) Domenico Oliva, (1860-1917), uno dei librettisti di MANON LESCAUT. Giornalista, poeta e librettista. Laureatosi in giurisprudenza a Parma, iniziò la professione di avvocato a Milano, svolgendo nel contempo attività politica come consigliere comunale a Milano, poi deputato della Destra per il collegio di Parma. Fondò a Milano, con A. Sormani, il settimanale "L'idea liberale", e nel 1914 fu uno dei fondatori del Partito Nazionalista. Dal giugno 1898 al maggio 1900 diresse il "Corriere della Sera" e collaborò a "L'Illustrazione italiana" con la rubrica "Lettere di un giovane deputato". Ma il suo maggior impegno giornalistico si svolse nel campo della critica drammatica quando, trasferitosi a Roma nel 1900, collaborò con "II Giornale d' Italia" (1901-1913), e dal 1914 con "Idea Nazionale", di cui fu direttore per un anno. Una parte delle sue critiche drammatiche è raccolta nei volumi Il teatro in Italia nel 1909 (1910) e Note di uno spet-tatore (1911); pubblicò anche un volume di critiche letterarie, Note letterarie (1897), il saggio San Sebastiano e le Canzoni d'oltremare di Gabriele D'Annunzio (1913) e fondò il settimanale letterario e artistico "Penombre" (1883). La sua produzione letteraria comprende un volume di impressioni di viaggio, Primavera parigina (1914), e il dramma in cinque atti Robespierre (1897). Infine, nel campo della poesia, Pietas (1880), Poesie (1889) e Il ritorno (1896).

Fu proprio la produzione poetica che spinse Marco Praga, incaricato di occuparsi del libretto di Manon Lescaut, a chiedere aiuto a Oliva, che probabilmente iniziò il lavoro fin dall'inizio del 1890. In maggio, Oliva informò Ricordi che «il secondo atto è terminato da due mesi: Puccini, a cui lo lessi quasi tutto, se ne dimostrò arcicontento» (Oliva a G.

Ricordi, 20 maggio 1890). Una impressione errata, poiché il secondo atto concepito da Praga e Oliva venne del tutto eliminato. In ottobre Oliva comincia a rendersi conto che scrivere un libretto, soprattutto per Puccini, è impresa difficile: «prima della Manon Lescaut non avevo idea alcuna delle difficoltà d'un libretto ed ho sulla coscienza certi giudizi ... che di giudizi non avevano che le forme, se pure avevano quelle» (Oliva a G. Ricordi, 7 ottobre 1890); tut-tavia continua a lavorare a una successiva versione del terzo atto, che ora comprende non solo l'arresto di Manon nel palazzo di Geronte, ma anche la sua traduzione al porto di Le Havre fra le prostitute: «eccoti la seconda parte del terzo atto»; e nella medesima lettera mette in luce un'incoerenza del libretto, che anche il successivo intervento di Illica non potrà risolvere: «tutto quanto fa Lescaut in quest' atto è illogico: a che scopo un briccone come lui, un cinico, uno svergognato si trascina sino all' Hâvre? per riunire Manon a Des Grieux? e che gli deve premere dell'una e dell'altro?» (Oliva a Puccini, 19 ottobre 1890). All'inizio del 1891, anche Oliva, dopo Praga, abbandonò la Manon Lescaut, che giunse nelle mani di Illica.

8) Si riferisce all'EDGAR che andò in scena al Teatro Reale di Madrid nel mese di dicembre

BIBLIOGRAFIA: Arnaldo Marchetti (a cura di), Puccini com' era, Milano, 1973, lettere n. 131 e 132; Eduardo Rescigno, Dizionario Pucciniano, San Giuliano Milanese, 2004.

© 2007 Edy Bernasconi, Via dei Barchetta 3a, CH 6926 Montagnola© 2007 Edy Bernasconi, Via dei Barchetta 3a, CH 6926 Montagnola