A. Negri. Fabbriche Del Soggetto

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 Indice PARTE I. FRA SUSSUNZIONE FORMALE E SUSSUNZIONE REALE. PREFAZIONE pp. 7-25 PARTE II. PROLEGOMENI DI UN¶ONTOLOGIA DELLA SOVVERSIONE pp. 27-154 Introduzione ± La rivoluzione come preambolo pp. 29-39 Capitolo Primo. No future, ossia sull¶essenza etica dell¶epistemologia pp. 41-74 1. L¶indifferenza dell¶universo della comunicazione pp. 41-47 2. Rompicapi dello spirito pp. 47-52 3. Terrore e contingenza pp. 52-57 4. L¶antagonismo come << principium individuationis >> pp. 57-63 5. Per un¶estetica tra scendentale del corpo pp. 63-67 6. Il concetto di costituzione pratica pp. 67 -74 Capitolo Secondo. Metus-Seperstitio: ossia sulla produzione di soggettività nel capitalismo maturo. pp. 75-111 1. Il concetto di sussunzione reale ed il problema dell¶analiti ca pp. 75-80 2. Analitica: il diritto com e legittimazione pp. 80 -86 3. Il modello formalistico : Hans Kelsen pp. 86 -91 4. Il modello contrattualistico: Rawls pp. 91 -95 5. Luhmann: il modello sistemico e la sua c ritica pp. 95 -100 6. L¶antagonismo nella teoria della legittimazione pp. 101-106 7. Per una nuova determinazione del problema pp. 106-111 Capitolo Terzo. Compact ± per una dialettica trascendentale del potere pp. 113-154 1. Critica del concetto di potere pp. 113 -119 2. A proposito di movimento, oggi pp. 120-125 3. Il lavoro del soggetto pp. 125-131 4. Lavoro, territorio e libertà pp. 131-138 5. Compact: fra diritto e rivoluzione pp. 139-147 6. Il concetto di pratica sociale pp. 147 -154 PARTE III. FRA CATASTROFE E RICOSTRUZIONE. APPENDICE pp. 157-245 1. Erkenntnistheorie. Elogio dell¶assenza di memoria pp. 159-167 2. La potenza sociale del lavoro. Nota introduttivo alla ristampa di << Classe operaia >> pp. 168 -180 3. Per un nuovo schematismo della ragione. Risposta a Jean Peti tot pp. 181-187 4. Sull¶orlo dell¶essere. A proposito di un libro di Giorgio Agamben pp. 188 -195 5. L¶istituzione logica del collettivo e le fatiche dell¶estetica. A proposito del libro su Frege di Roberta De Monticelli  pp. 196-207 6. Dell¶aforisma << Pessimismo della ragione, otti mismo della volontà >> e della ragionevole opportunità di rovesciarlo pp. 208-235 7. Lenin a New York. Progetto di lavoro pp. 236-245

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Indice 

PARTE I. FRA SUSSUNZIONE FORMALE E SUSSUNZIONE REALE.PREFAZIONE pp. 7-25

PARTE II. PROLEGOMENI DI UN¶ONTOLOGIA DELLA SOVVERSIONE pp. 27-154

Introduzione ± La rivoluzione come preambolo pp. 29-39

Capitolo Primo.

No future, ossia sull¶essenza etica dell¶epistemologia pp. 41-74

1. L¶indifferenza dell¶universo della comunicazione pp. 41-47

2. Rompicapi dello spirito pp. 47-52

3. Terrore e contingenza pp. 52-57

4. L¶antagonismo come << principium individuationis >> pp. 57-63

5. Per un¶estetica trascendentale del corpo pp. 63-67

6. Il concetto di costituzione pratica pp. 67-74

Capitolo Secondo. 

Metus-Seperstitio: ossia sulla produzione di soggettività nel capitalismo maturo. pp. 75-111

1. Il concetto di sussunzione reale ed il problema dell¶analitica pp. 75-80

2. Analitica: il diritto come legittimazione pp. 80 -86

3. Il modello formalistico: Hans Kelsen pp. 86 -91

4. Il modello contrattualistico: Rawls pp. 91-95

5. Luhmann: il modello sistemico e la sua critica pp. 95-100

6. L¶antagonismo nella teoria della legittimazione pp. 101-106

7. Per una nuova determinazione del problema pp. 106-111

Capitolo Terzo.

Compact ± per una dialettica trascendentale del potere pp. 113-154

1. Critica del concetto di potere pp. 113-119

2. A proposito di movimento, oggi pp. 120-125

3. Il lavoro del soggetto pp. 125-131

4. Lavoro, territorio e libertà pp. 131-138

5. Compact: fra diritto e rivoluzione pp. 139-147

6. Il concetto di pratica sociale pp. 147-154

PARTE III. FRA CATASTROFE E RICOSTRUZIONE. APPENDICE pp. 157-245

1. Erkenntnistheorie. Elogio dell¶assenza di memoria pp. 159-167

2. La potenza sociale del lavoro. Nota introduttivo alla ristampa di << Classe operaia >> pp. 168 -180

3. Per un nuovo schematismo della ragione. Risposta a Jean Petitot pp. 181-1874. Sull¶orlo dell¶essere. A proposito di un libro di Giorgio Agamben pp. 188 -195

5. L¶istituzione logica del collettivo e le fatiche dell¶estetica. A proposito del libro su Frege di Roberta De Monticelli

 pp. 196-207

6. Dell¶aforisma << Pessimismo della ragione, otti mismo della volontà >> e della ragionevole opportunità dirovesciarlo pp. 208-235

7. Lenin a New York. Progetto di lavoro pp. 236-245

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PARTE I Fra sussunzione formale e sussunzione reale.

Prefazione

Karl Marx, Il Capitale: Libro I, Capitolo VI Inedito, trad. it. Firenze, 1969, pp. 53-54: << A questi cambiamenti,

tuttavia, non si è finora accompagnata una trasformazione sostanziale del modo d¶essere vero e proprio del processo

lavorativo, del processo di produzione reale. Al contrario, è nella natura delle cose che la sottomissione (sussunzione)

del processo lavorativo al capitale si verifichi per ora sulla base di un processo lavorativo ad esso preesistente, 

configuratosi sulla base di antichi e diversi processi produttivi e di altre e diverse condizioni d ella produzione: ilcapitale si sottomette un processo lavorativo dato, esistente - per esempio, il lavoro artigianale o il lavoro agricolo

corrispondente alla piccola economia contadina autonoma, - e le modificazioni che possono tuttavia verificarsi

all¶interno del processo lavorativo, non appena esso soggiaccia al comando del capitale, possono essere soltanto

conseguenze graduali della già avvenuta sottomissione dei processi lavorativi dati, tradizionali, al capitale. Il fatto

che l¶intensità del lavoro aumenti, che la durata del processo lavorativo si prolunghi, che il lavoro si svolga più ordinato

e continuo sotto l¶occhio interessato del capitalista ecc., questo fatto non cambia in sé e per sé il carattere del processo

lavorativo reale, del modo vero e proprio del lavoro.

Tutto ciò contrasta decisamente con il modo di produzione specificamente capitalistico (lavoro su grande scala ecc.)

che, come abbiamo visto, si sviluppa man mano che la produzione capitalistica progredisce; modo di produzione che,

insieme al rapporti fra i diversi agenti della produzione, rivoluziona anche il modo d¶essere del lavoro e la forma a reale

dell¶intero processo lavorativo.

Appunto in contrapposto al modo di produzione specificamente capitalistico noi chiamiamo sussunzione formale del

lavoro al capitale la sottomissione da parte di quest¶ultimo del processo lavorativo come l¶abbiamo esaminato finora,

cioè come sottomissione di un modo di lavoro già sviluppato prima che il rapporto capitalistico sorga.

Le due forme hanno in comune il rapporto capitalistico come rapporto di coercizione inteso a spremere il plusvalore

dal lavoro salariato, dapprima solo prolungando la durata del tempo di lavoro-rapporto che non poggia su alcun legame

di signoria e dipendenza personale, ma nasce unicamente dalla diversificazione delle funzioni economiche. Mentre però

il modo di produzione specificamente capitalistico conosce anche altri modi di estorsione di pluslavoro e plusvalore,

invece, sulla base di un modo di produzione esistente, quindi di uno sviluppo dato della forza produttiva del lavoro e di

un modo di lavoro corrispondente a questa forza produttiva, il plusvalore può essere prodotto solo prolungando la

durata del tempo di lavoro: sotto la forma del plusvalore assoluto. E¶ a questa forma di produzione del plusvalore

che corrisponde la sottomissione formale del lavoro al capitale >>.

Pp. 57-58: << L¶incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente

sociale, socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all¶interno della fabbrica,

l¶impiego delle macchine, e in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze

naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto

ciò corrispondente (solo questo lavoro socializzato è infatti in grado di applicare i prodotti generali dell¶evoluzione

umana, per esempio le matematiche, al processo di produzione immediato, allo stesso modo d¶altra parte che l¶intero

sviluppo di queste scienze presuppone un dato livello del processo di produzione materiale), questo incremento,

dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso

dell¶individuo singolo, e con esso l¶applicazione della scienza - questo prodotto generale dello sviluppo sociale -

 processo di produzione immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché

come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso,

non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure del lavoratori cooperanti nel processo di produzione.

Questa mistificazione, propria del rapporto capitalistico in quanto tale, si sviluppa ora molto più di quanto potesse

avvenire nel caso della pura e semplice sottomissione formale del lavoro al capitale. E¶ d¶altra parte soltanto quit, che il

significato storico della produzione capitalistica appare nella sua evidenza specifica, proprio attraverso la

trasformazione dello stesso processo di produzione immediato e lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro.

Si è già dimostrato (capitolo III) che non solo nella << rappresentazione >> ma nella << realtà >>, l¶aspetto sociale, <<

la socialità >> ecc., del lavoro si erge di fronte all¶operaio come elemento non s oltanto estraneo ma ostile e

antagonistico, apparendo oggettivato e personificato nel capitale. Allo stesso modo che la produzione del plusvalore

assoluto può essere considerata come l¶espressione materiale della sottomissione formale del lavoro al capitale, la

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 produzione del plusvalore relativo può considerarsi come l¶espressione della sottomissione reale del lavoro al capitale.

>>

Pp.68-69: << Sottomissione reale del lavoro al capitale. Permane qui la caratteristica generale della sottomissione

formale, cioè la diretta subordinazione del processo lavorativo, comunque sia esercitato dal punto di vista

tecnologico, al capitale. Ma su questa base si erge un modo di produzione tecnologicamente (e non solo

tecnologicamente) specifico, che modifica la natura reale del processo lavorativo e le sue reali condizioni - il modo

di produzione capitalistico. Solo quando esso appare ha luogo la sottomissione reale al capitale. >> << Lasottomissione reale del lavoro al capitale si sviluppa in tutte le forme che generano, a differenza del plusvalore assoluto,

 plusvalore relativo. Alla sottomissione reale del lavoro al capitale si accompagna una rivoluzione completa (che

 prosegue e si ripete costantemente) nel modo stesso di produzione, nella produttività del lavoro, e nel rapporto fra

capitalisti e operai.

La sottomissione reale del lavoro al capitale va di pari passocon le trasformazioni nel processo produttivo che abbiamo

già illustrate: sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro e, grazie al lavoro su grande scala, applicazione della

scienza e del macchinismo alla produzione immediata. Da una parte, il modo di produzione capitalistico, che ora

appare veramente come un modo di produzione sui generis, dà alla produzione materiale una forma diversa; dall¶altra,

questa variazione della forma materiale costituisce la base per lo sviluppo del rapporto capitalistico, la cui forma

adeguata corrisponde perciò a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro >>.

P. 74: << Primo: Poiché, con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale e quindi del modo di

produzione specificamente capitalistico, il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore,ma una forza-lavoro sempre più socialmente combinata, e le diverse forze-lavoro cooperanti che formano la macchina

 produttiva totale partecipano in modo diverso al processo immediato di produzione delle merci o meglio, qui, dei

 prodotti - chi lavorando piuttosto con la mano e chi piuttosto con il cervello, chi come direttore, ingegnere, tecnico ecc.,

chi come sorvegliante, chi come manovale o come semplice aiuto -, un numero crescente di funzioni della forza-

lavoro si raggruppa nel concetto immediato di lavoro produttivo, e un numero crescente di persone che lo eseguiscono

nel concetto di lavoratori produttivi, direttamente sfruttati dal capitale e sottomessi al suo processo di produzione e

valorizzazione. Se si considera quel lavoratore collettivo che è a fabbrica, la sua attività combinata si realizza

materialmente e in modo diretto in un prodotto totale, che è nello stesso tempo una massa totale di merci dove è del

tutto indifferente che la funzione del singolo operaio, puro e semplice membro del lavoratore collettivo, sia più lo ntana

o più vicina al lavoro manuale in senso proprio. Ma, d¶altra parte, l¶attività di questa forza -lavoro collettiva è il suo

consumo produttivo immediato da parte del capitale, è autovalorizzazione del capitale, produzione immediata del

 plusvalore; quindi, come vedremo meglio in seguito, trasformazione immediata dello stesso in capitale. >>

Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell¶economia politica, trad. il. Torino, 1976, vol. I, p. 722: << Come,

conlo sviluppo della grande industria, la base su cui essa si fonda, ossia l¶appropriazione di tempo di lavoro altrui -

cessa di costituire o di creare la ricchezza, così, con esso il lavoro immediato cessa di essere, come tale, la base della

 produzione, poiché per un verso viene trasformato in un¶attività prevalentemente di sorveglianza e regolatrice; ma poianche perché il prodotto cessa di essere il prodotto del lavoro isolato immediato, ed è piuttosto la combinazione 

dell¶attività sociale a presentarsi come produttore. Nello scambio immediato il lavoro isolato immediato si presenta

realizzato in un prodotto particolare o parte di questo prodotto, e il suo carattere sociale comunitaria - ossia il suo

carattere di materializzazione del lavoro generale e di soddisfacimento del bisogno generale - è posto soltanto attraverso

lo scambio. Per contro, nel processo di produzione della grande industria, come da un lato l¶assoggettamento della forze

della natura all¶intelligenza sociale è il presupposto della forza produttiva del mezzo di lavoro sviluppato a processo

automatico, così dall¶altro il lavoro del singolo, nella sua esistenza immediata, è posto come lavoro singolo

soppresso, ossia come lavoro sociale. Così viene a cadere l¶altra base di questo modo di produzione. >>

P. 716: << Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere

meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti messi in moto durante il

tempo di lavoro, la quale a sua volta - questa loro poderosa efficacia - non sta in alcun rapporto con il tempo di lavoro

immediato che costa la loro produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal progresso della

tecnologia, o dall¶applicazione di questa scienza alla produzione >>.

Pp. 717-718: << La ricchezza reale si manifesta piuttosto - e ciò viene messo in luce dalla grande industria - nella

straordinaria sproporzione tra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa

tra il lavoro ridotto a pura astrazione e la potenza del processo produttivo che esso sorveglia. Il lavoro non si presenta

 più tanto come incluso nel processo produttivo, in quanto è piuttosto l¶uomo a porsi come sorvegliante e regolatore nei

confronti del processo produttivo stesso. (Ciò che si è detto per il macchinario, vale ugualmente

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 per la combinazione delle attività umane e per lo sviluppo del traffico umano). Non è più l¶operaio a inserire l¶oggetto

naturale modificato come termine medio tra sé e l¶oggetto; egli inse risce invece il processo naturale, che egli trasforma

in un processo industriale, come mezzo tra sé e la natura inorganica di cui si impadronisce. Egli si sposta accanto al

 processo produttivo invece di esserne l¶agente principale. In questa situazione modificata non è né il lavoro immediato,

eseguito dall¶uomo stesso, né il tempo che egli lavora, bensì l¶appropriazione della sua forza produttiva generale, la sua

comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale - in breve lo sviluppo

dell¶individuo sociale, che si presenta come il grande pilastro della produzione e della ricchezza. Il furto di tempo di

lavoro altrui, sul quale si basa la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile in confronto a questanuova base creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grandefonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di esserne la misura, e quindi il valore di scambio cessa e

deve cessare di essere la misura del valore d¶uso. Il lavoro eccedente della massa ha cessato di essere la condizione

dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello

sviluppo delle potenze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il

 processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell¶antagonismo. Il libero

sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma

in generale la riduzione a un minimo del lavoro necessario della società, a cui poi corrisponde la formazione artistica,

scientifica ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e al mezzi creati per essi tutti. Il capitale è esso stesso la

contraddizione in processo (per il fatto) che esso interviene come elemento perturbatore nel processo di riduzione del

tempo di lavoro a un minimo, mentre d¶altro canto pone il tempo di lavoro come un ica misura e fonte della ricchezza.

Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro necessario, solo per aumentarlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; pone quindi in misura crescente il lavoro superfluo come condizione - questione di vita e di morte - di quello necessario.

Per unverso chiama in vita tutte le potenze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e del trafficosociale, allo scopo di rendere indipendente (relativamente) la creazione della ricchezza del tempo di lavoro in e ssa

impiegata. Per l¶altro verso vuole misurare con il tempo di lavoro le gigantesche forze sociali così create, e relegarle nei

limiti che sono richiesti per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive e le relazioni sociali -

entrambi aspetti diversi dello sviluppo dell¶individuo sociale - al capitale si presentano soltanto come mezzi, e per esso

sono soltanto mezzi per produrre a partire dalla sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni materiali per far 

saltare in aria questa base. >>

* * * 

Ho qui riportato questi testi marxiani ad un solo scopo: introdurre il lettore in medias res. L¶argomentazione che segue,

 presuppone infatti una constatazione: viviamo nella sussunzione reale - meglio, stiamo sistemandoci in essa in

maniera definitiva, dopo aver vissuto il compiersi del processo di assoggettamento formale della società da parte delcapitale lungo gli ultimi secoli. E¶ quindi utile aver presente la definizione marxiana di << sussunzione formale >> e di

<< sussunzione reale >>. Al lettore la possibilità di confrontare le categorie e la realtà: se l¶utilizzo di quelle gli

 permette di meglio riconoscere questa, egli allora può forse seguitare la lettura. Va solo tenuto presente che

l¶accettazione di queste categorie marxiane non implica l¶accettazione di << tutto Marx >> né, in alcun modo,

l¶adesione alle interpretazioni più o meno ortodosse del suo pensiero. Le definizioni di << sussunzione formale >> e di<< sussunzione reale >> sono in effetti solo parzialmente dipendenti dallo sviluppo complessivo della teoria marxiana:

sono illuminazioni su un futuro prossimo, piuttosto che l¶analisi di un presente; sono tendenze che l¶uomo politico e il

 profeta identifica per il nostro presente, piuttosto che determinazioni scientifiche di questo lo accetto e rilancio questa

 provocazione marxiana perché in essa trovo, ora, una formidabile adesione all¶attualità, la verità dello stato presente

delle cose. D¶altronde, termini come << postmoderno >>, come << Civilisation >>, come << Nihili smus >>, come <<

Krisis >>, quando siano utilizzati per indicare la crisidel razionalismo occidentale nella maturità capitalistica - sono,

ognuno nella sua specificità, sinonimi di << sussunzione reale >>. Ciò detto, va tuttavia sottolineato che, nelle categorie

marxiane, è contenuta, assieme alla descrizione della tendenza, la chiave pratica del suo rovesciamento: in ciò le

categorie marxiane si distinguono da quelle nietzscheane o freudiane, wittgensteiniane o adorniane, per non parlare, si parva licet, di quelle splengeriane o baudrillardiane. Non il contenuto della descrizione distingue Marx dalla filosofia

contemporanea nella definizione del presente, ma il punto di vista: quello della liberazione, quello della soggettività

antagonista. Lo voglio procedere su questa direzione del discorso marxiano: qui dunque non chiedo più al lettore diseguirmi sulla base di una constatazione comune - perché in questo caso non di constatazioni si tratta, bensì di scelte. Se

vorrà farlo, lo farà a suo rischio. Della fondazione ontologica di una scelta di liberazione tratta comunque, in buona

 parte, questo libro.

Precisiamo un concetto. Si è detto: << fra >> sussunzione formale e sussunzione reale, ma evidentemente si intende

come ormai l¶accento cada essenzialmente sulla realtà della sottomissione della società al capitale. Di conseguenza, se

la modificazione dei modi di produzione è un processo complesso e la tendenza che presiede alla modificazione, è

estremamente articolata: pure l¶egemonia del modo di produzione capitalistico è ormai totale e le differenze e le

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resistenze sono caratterizzate da una straordinaria precarietà - insomma, la sussunzione reale è effettuale. Il paradigma

del modo di produzione è definitivamente mutato. Il capitalismo ha proceduto fino all¶estrema istituzione formale del

collettivo. Il lavoro e la produzione sono determinazioni ormai solo sociali: Se ci sono ritardi nello sviluppo

complessivo, questi non toccano la sostanza del processo e non ritardano l¶attualità del suo compimento. E¶ dunque a

 partire da questa situazione, centralmente definita, che il ragionamento deve muovere. E tenersi strettamente a queste

condizioni.

Salvo rovesciarle. Poiché la sussunzione reale, della quale lo sviluppo capitalistico virtualmente rivela le definitivecondizioni, è - nell¶effettualità - un sistema di contraddizioni. Ma queste contraddizioni sono state percorse dal sistema

delle macchine ed estremizzate dalla sua logica fino al punto di essere condottead un¶ultima alternativa: quella del

comando e dello sfruttamento, appunto, ma spinta al limite del terrore, al ricatto della guerra, fino alla drammatica

 proposizione dell¶alternativa dell¶essere e della sua negazione. E¶ su questo orlo dell¶essere che il ragionamento

filosofico e la decisione etica divengono oggi decisivi. E la tragedia che viviamo, dentro questa precarietà dell¶essere,

attraverso la violenza della nostra reazione morale, potrebbe aprirsi al godimento.

* * * 

I << Prolegomeni ad un¶ontologia della sovversione >> costituiscono un primo tentativo di raccogliere in una

 prospettiva di rottura e di trasformazione radicale la determinatezza delle modificazioni strutturali della produzione e

del soggetto produttivo che abbiamo verificato in questo secolo. Lo sono e resto convinto che il più enorme evento di

questo secolo sia stata la rivoluzione d¶Ottobre. Essa ha cambiato il mondo. Essa ha imposto un¶accelerazione

straordinaria allo sviluppo capitalistico, - sia nei paesi laddove essa si è affermata, sia nei paesi a più antica vocazione eriuscita industriale. Le oblique e talora perverse risultanze del regime socialista non possono indurci in errore e a

rinnegare Lenin perché dopo di lui è venuto Stalin, quanto la rivoluzione francese perché ha prodotto Napoleone. Ma

v¶è di più: la rivoluzione d¶ottobre, contribuendo in maniera straordinaria alla modernizzazione industriale ed alla

liberazione politica di tutti popoli, costruendo perciò - direttamente o indirettamente - le condizioni di un mercato

mondiale, ed in ogni caso accelerandone la realizzazione, ha attratto nell¶area della sussunzione reale ogni formazione

storico-produttiva - e tutte le ha integrate e articolate lungo un medesimo e solo processo di sviluppo. Sul livello

mondiale una nuova ontologia dell¶essere sociale è venuta così formandosi. Lo l¶assumo come dato - non mi

interessa qui descriverla da un punto di vista sociologico (l¶abbiamo già fatto altrove - io e molti altri studiosi - e la

nostra tesi sull¶ operaio sociale e multinazionale hanno fin qui ricevuto solo delle conferme - altrove approfondirò il

discorso), m¶interessa invece problematizzare l¶ontologia del soggetto produttivo sull¶orizzonte del mercato mondiale,

mettendola a confronto con le tensioni catastrofiche attorno a cui, verticalmente, s¶è riorganizzato il potere: potere di

vita e di morte, potere nucleare, potere di determinazione del non-essere, - e soprattutto, tentativo del potere di costruiredirettamente la soggettività, di togliere il soggetto produttivo all¶essere ed alla verità. Per mia parte sono convinto - e

tento di dimostrarlo - che la soggettività può opporsi, sul terreno ontologico, alla macchina del potere capitalistico, che può impedire la sua tensione di morte, che può autorganizzarsi e costruire opposizione, ed anche antagonismo, contro il

dominio.

E qui ci troviamo su uno snodo importante, che vogliamo cercare di chiarire. Dentro l¶enorme verticalizzazione del

 potere, il tema della pace è divenuto essenziale. Esso ci è proposto come ricatto, e ci si minaccia di toglierci, a questo

livello della potenza produttiva, con la pace, l¶essere, la vita, la riproduzione della specie. La difesa della pace è, a

questo punto, il risvolto del dominio. Che cosa vuol dire allora, in questa situazione, formare antagonismo contro

il dominio? Che cosa vuol dire rifondare la vita nel rifiuto della minaccia di distruzione dell¶essere? Che cos¶è

oggi la critica dell¶economia politica della pace? Rispondere a queste domande è fondare una nuova prassi collettiva,

un nuovo diritto e una nuova società. Riconquistare la pace non come fondazione dell¶oppressione ma come espressione

di libertà, non come incubo di distruzione e necessità del dominio ma come desiderio: cost ruzione, innovazione,

immaginazione e godimento - collettivi - è la grande operazione ontologica del secolo che si chiude. Si badi bene: il

corrispettivo formale della possibilità di tutto distruggere, è la potenza materiale di tutto costruire. Ogni tabù cade -

la ragione etica, quella potenza che più mettere le mani sull¶essere e che solo in quanto lo fà, è storicamentesignificativa - ora, questa potenza è nella nostra nuova natura e nella nostra ontologica determinazione. Pace è legare larealtà del movimento all¶espressione della potenza costruttiva - ai nuovi compiti etici che si aprono sui confini

dell¶essere, oltre il limite della datità, laddove si scopre che quel potere che può tutto distruggere, bisogna disarmarlo -

attraverso quella potenza che può tutto costruire. L¶essere soprattutto.

Gli scritti raccolti nella III parte e qui globalmente intitolati << fra catastrofe e ricostruzione >>, sono stati redattilungo gli ultimi anni. In che cosa sia consistita la catastrofe, crediamo sia chiaro - soprattutto al lettore italiano: è la

distruzione della continuità lineare della memoria storica della sovversione, è la sconfitta politica di un movimento di

massa grande e generoso (quale la storia contemporanea aveva raramente conosciuto, nei paesi capitalistici avanzati).

Ma anche che cosa sia la ricostruzione, credo sia possibile oggi intenderlo. E¶ la ricostruzione di un comportamento

sovversivo, di un nuovo movimento proletario, a partire da una condizione irreversibile della coscienza - il comunismo

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come preambolo, come alternativa concreta e prassi immediata, la coscienza della natura collettiva della produzione e

della riproduzione come nuovo paradigma del sapere, l¶immaginazione di nuovi processi di valorizzazione sociale come

compito. Noi viviamo in una società archeologica: vi sono dei padroni capitalisti che, come sovrani assoluti, comandano

la vita produttiva di milioni di uomini attraverso il pianeta; vi sono altre persone, gestori e proprietari dei media, che,

come inquisitori medioevali, posseggono tutti gli strumenti di formazione dell¶opinione pubblica; vi sono poi degli

individui che possono, fuori da qualsiasi responsabilità personale, scelti - come in altri tempi gli stregoni - per 

cooptazione, condannare degli uomini alla prigione a vita o trattenerli entro istituzioni totali; ecc. ecc. - vi sono infine

due o tre poteri al mondo che, imperialmente, garantiscono questo modo di produzione e di riproduzione della ricchezzae delle coscienze, sovraintendendolo in modo mostruoso - attraverso i1 ricatto nucleare, attraverso la minaccia didistruggere l¶essere. Rifiutare tutto questo come si rifiuta quello che è vecchio e marcito - questo non è un compito ma

una necessità, una precostituzione ontologica. Non è credibile che il mercato mondiale, e le enormi forza collettive che

in esso si muovono, abbiano padroni; non è possibile, meglio, è senz¶altro ripugnante il diritto della proprietà e dello

sfruttamento. Tanto più se queste aberrazioni sono applicate alla formazione dell¶opinione pubblica - qui i cittadini sono

imprigionati nel momento in cui dovrebbero democraticamente sviluppare il loro diritto di informazione, di

comunicazione e di critica. Archeologiche e odoranti morte e follia, sono poi le corporazioni giuridiche, amministrative,

 politiche dello Stato della sussunzione reale. Ma la morte che hanno nelle membra e nel cuore, esse rovesciano contro il

mondo! Rompere con tutto ciò, ricostruire! Lo parlo qui di ricostruzione perché, dopo la crisi dell¶ultimo decennio,

ovunque ormai, in Europa come nel mondo, il processo rivoluzionario si è rimesso in moto. Con fatica, negli anni

scorsi, nei saggi che qui metto insieme, lo abbiamo descritto in questa nuova figura - mano a mano approssimandone

sempre di più le caratteristiche. La rivoluzione come preambolo, l¶immaginazione al potere, questi sono dunque i poli del processo di ricostruzione, di uscita dalla catastrofe. Su questo bordo dell¶essere noi ci troviamo davanti ad una

natura umana modificata dallo sviluppo e dalle lotte - anche dalle sconfitte - ad un processo di autovalorizzazione chesocialmente ha formato nuove soggettività e ha depositato una grande esperienza del futuro.

* * * 

Mi è capitato, in questi scritti, di utilizzare ampiamente, quando parlo dell¶immediatezza dell¶esperienza di liber azione,

il termine filosofico << estetica trascendentale >>; quando parlo dell¶immaginazione e della sua funzione creativa, il

termine << dialettica trascendentale >>; quando infine, ed al contrario, parlo della capacità capitalistica di comando

attraverso gli strumenti del nuovo dominio e della stessa produzione di soggettività, utilizzo il termine << analitica >>.Ora, poiché temo che non tutti i miei lettori abbiano presente la definizione kantiana di queste categorie della critica, mi

 permetto qui di seguito di ricordarla (affinché in tal modo venga meglio compreso l¶uso di queste categorie e la radicale

anomalia che in quest¶uso introduco). E¶ comunque nel paragrafo 3 della Parte III (<< Per un nuovo schematismo >>)

che si discutono alcuni temi kantiani.

Emmanuelle Kant, Critica della ragion pura, trad. il., Bari, 1949, vol. I, pp. 66 -67: << Chiamo esteticatrascendentale una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità. Deve esserci una tal scienza, che costituisca la

 prima parte di una dottrina trascendentale degli elementi, in opposizione a quella che contiene i principi del pensiero

 puro e vien [sic] denominata logica trascendentale.

 Nella estetica trascendentale, dunque, noi isoleremo dapprima la sensibilità, separandone tutto ciò che ne pensa coi suoi

concetti l¶intelletto, affinché non vi resti altro che l¶intuizione empirica. In secondo luogo, separeremo ancora da questa

ciò che appartiene alla sensazione, affinché non ne rimanga altro che la intuizione pura e la semplice forma dei

fenomeni, che è ciò che la sensibilità può fornire a priori. In questa ricerca si troverà che vi ha due forme pure di

intuizione sensibile, come principi della conoscenza a priori, cioè spazio e tempo, del cui esame noi ci occuperemo or 

ora. >>

P. 108: << Analitica trascendentale: questa analitica è la risoluzione di tutta la nostra conoscenza a priori negli

elementi della conoscenza pura intellettuale. E qui bisogna por mente ai punti seguenti: 1) che i concetti sieno concetti

 puri, e non empirici; 2) che appartengano non all¶intuizione e alla sensibilità, ma al pensiero e all¶intelletto; 3) che sieno

concetti elementari, ben distinti dai derivati e da quelli risultanti da essi per composizione; 4) che la loro tavola sia

completa, e abbracci interamente tutto i1 dominio dell¶intelletto puro. Or questa compiutezza d¶una scienza data non

 può ottenersi con sicurezza col calcolo all¶ingrosso di un aggregato messo insieme per tentativi; quindi essa è possibile

soltanto mediante un¶idea della totalità della conoscenza intellettuale a priori e per mezzo della divisione dei concetti

che la costituiscono, determinata in base a cotesta idea, e quindi per mezzo della loro connessione sistematica.

L¶intelletto puro si distingue assolutamente, non solo da ogni elemento empirico, ma anche da ogni sensibilità. E¶dunque un¶unità per sé stante, sufficiente a se stessa, e non suscettibile di aumento per aggiunte dall¶esterno. L¶insieme

quindi della sua conoscenza formerá un sistema, da essere compreso e determinato sotto una sola idea, e la cui

compiutezza e articolazione possono fornire a un tempo una pietra di paragone per provare l¶esattezza e il valore di tutte

le parti di conoscenza che vi rientrano. Tutta questa parte della logica trascendentale consta di due libri, uno dei quali

comprende i concetti, e l¶altro i principi dell¶intelletto puro. >>

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Pp. 291, 293, 294: << Noi abbiamo detto più sopra la dialettica in generale logica dell¶apparenza >>. << L¶apparenza

logica, che consiste nella semplice imitazione della forma razionale (l¶apparenza dei sofismi) sorge unicamente da un

difetto di attenzione alla regola logica. Appena quindi questa viene rivolta sul caso in questione, quell¶apparenza si

dilegua del tutto. L¶apparenza trascendentale, invece, non cessa ugualmente, se altri già l¶abbia svelata e ne abbia

chiaramente scorta la nullità mediante la Critica trascendentale. E la causa è questa, che nella nostra ragione

(considerata soggettivamente, come facoltà conoscitiva umana) ci sono regole fondamentali e massime del suo uso, che

han tutto l¶aspetto di principi oggettivi, per cui accade che la necessità soggettiva di una certa connessione del nostri

concetti in grazia dell¶intelletto venga considerata come necessità oggettiva della determinazione delle cose in sé.Illusione, che è affatto inevitabile >>. << La dialettica trascendentale sarà paga per tanto di scoprire l¶apparenza deigiudizi trascendentali, e di prevenire insieme che essa non tragga in inganno; ma di questa apparenza anche si dilegui

(come l¶apparenza logica) e cessi di essere un¶apparenza, questo è ciò che non può giammai conseguire. Perché noi

abbiamo che fare con una illusione naturale ed inevitabile, che si fonda essa stessa su principi soggettivi, e li scambia

 per oggettivi; laddove la dialettica logica, nella risoluzione dei paralogismi, non ha da fare se non con un errore nello

svolgimento del principi, o con un¶artificiale imitazione di essi. Essa è dunque una dialettica naturale e necessaria della

ragion pura; non la dialettica in cui s¶avviluppi, per es., il guastamestieri per mancanza di cognizioni, o che un

qualunque sofista abbia escogitato ad arte per imbrogliare la gente ragionevole; ma la dialettica, che è inscindibilmente

legata all¶umana ragione e che, anche dopo che noi ne avremo scoperta l¶illusione, non cesserà tuttavia di adescarla e

trascinarla incessantemente in errori momentanei, che avranno sempre bisogno di essere eliminati. >>

Vol. II, p. 516, 517, 519: << Il risultato di tutti i tentativi della ragion pura non solo conferma quello, che no i già

dimostrammo nell¶Analitica trascendentale, ossia, che tutti i nostri ragionamenti, i quali vogliono condurci al di là del

campo dell¶esperienza possibile, son fallaci e senza fondamento; ma c¶insegna nello stesso tempo questo di particolare,che l¶umana ragione ha qui una propensione naturale ad oltrepassare questi limiti, che le idee trascendentali sono per 

essa altrettanto naturali che per l¶intelletto le categorie, sebbene con la differenza, che le ultime conducono alla verità,

cioè all¶accordo dei nostri concetti con l¶oggetto, laddove le prime generano una semplice, ma irresistibile apparenza, lacui illusione, appena si può rimuovere mercè la critica più acuta >>. << Lo affermo per tanto che le idee trascendentali

non sono mai d¶uso costitutivo, sicché per mezzo di esse possono esser dati concetti di certi oggetti; e che, ove esse

siano intese a questo modo, sono semplicemente concetti sofistici (dialettici). Ma, viceversa, hanno un uso regolativo

eccellente e impreteribilmente necessario: quello di indirizzare l¶intelletto a un certo scopo, in vista del quale le linee

direttive di tutte le sue regole convergono in un punto; il quale - sebbene non sia altro che un¶idea (focus

immaginarius), cioè un punto, da cui realmente non muovono i concetti dell¶intelletto, essendo esso affatto fuori dei

limiti dell¶esperienza possibile, - serve nondimeno a conferir loro la maggiore unità con la maggiore estensione. Ora per 

noi sorge veramente di qui l¶illusione, come se queste linee direttive si diramassero (come gli oggetti sono veduti dietro

la superficie dello specchio) da un oggetto stesso, che gichampionsse fuori del campo della conoscenza empirica

 possibile; se non che questa illusione (che pure si può impedire, che non inganni) è tuttavia inevitabilmente necessaria,

se oltre agli oggetti, che ci sono innanzi agli occhi, vogliamo vedere insieme anche quelli che ci stanno lontani allespalle, cioè se, nel nostro caso, vogliamo portare l¶intelletto al di là d¶ogni esperienza data (parte della totale esperienz a

 possibile), quindi anche alla maggiore estensione possibile ed estrema >>. << L¶uso ipotetico della ragione per via di

idee messe a fondamento come concetti problematici non è propriamente costitutivo, ossia non è di tal fatta che, se si

vuol giudicare con tutto rigore, ne segua la verità della legge universale per ipotesi; come sapere infatti tutte le

conseguenze possibili, che, derivando dallo stesso principio assunto, ne dimostrino la universalità? Esso invece è

soltanto regolativo, per mettere, quanto è possibile, unità nelle conoscenze particolari e approssimare così la regola

dell¶universalità >>.

* * * 

Fra sussunzione formale e sussunzione reale, fra catastrofe e ricostruzione, e un viaggio - un dislocamento

eptstemologico ed anche un processo storico. Poiché, come Marx ci ha insegnato, il tempo della rivoluzione modifica lo

spazio, meglio, segna di determinazioni temporali lo spazio e sceglie un tempo come luogo, più o meno privilegiato, di

sviluppo di crisi e di trasformazione. Noi stiamo vivendo non solo il ciclo della modificazione del modo di produrre masoprattutto la sua radicale innovazione, la sua sussunzione al livello più alto, - intendo, la sintesi terminale dello

sviluppo capitalistico. E¶ lì, dove lo sviluppo capitalistico appiattisce e riconduce ogni differenza, che il processo

rivoluzionario deve riconoscersi come preambolo dell¶esistente e del suo rovesciamento, come condizione

dell¶immaginazione. Diciamo, qua e là, in questo libro: << Lenin a New York >>, - per scherzare con la storia,

attraverso l¶immaginazione rivoluzionaria. New York è la sussunzione reale della società mondiale nel capitale, Lenin è

il genio dell¶antagonismo e della sovversione. Lenin a New York: sembra a me la divisa del comunismo per i prossimi

decenni. Qui io presento solo un¶introduzione - etica ed epistemologica - al problema. Credo tuttavia che questaintroduzione sia fondamentale. Negli scritti contenunti in Appendice, ed in particolare nella << Lettera ai compagni di

Montreal >>, sono indicati del terreni sui quali approfondire la ricerca. Ma non è possibile farlo se l¶etica

dell¶immaginazione sovversiva non s¶instaura alla base della ricerca. Se il preambolo rivoluzionario non si rivela, come

tale, nella prassi. Transiti diversi, varie strategie sono qui possibili allo scopo di afferrare praticamente la maturità

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della trasformazione necessaria. L¶urgenza del paradosso ontologico cui la vicenda del razionalismo occidentale e del

capitalismo ci ha condotto, il quadro di morte che l¶estrema accelerazione e maturazione dello sviluppo ci ha regalato -

tutto ciò l¶abbiamo dinnanzi. Non risultano tuttavia tali da imporsi un blocco della ricerca né una paralisi della volontà.

Se il pensiero si impianta nella pratica e sceglie quest¶ultima come luogo ontologico fondamentale, - il paradosso di

morte e i rompicapi distruttivi che ci si presentano, possono essere risolti. Questa è dunque una propedeutica

metafisica alla prassi trasformatrice.

7 aprile 1986

Avvertenza 

Alcuni dei testi qui pubblicati, sono già apparsi in varie riviste o sono stati letti in cenacoli diversi. Così, ad esempio,

l¶introduzione alla Parte II (<< La rivoluzione come preamboli >>) è la traccia di una conversazione che ho avuto

l¶onore di introdurre, il 15 giugno l984, nel seminario parigino di Fran cois Châtelet. Il paragrafo 6 della Parte III (<<

a proposito dell¶aforisma: pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>) è il testo di un intervento che in forma

solo leggermente semplificata è stato letto e discusso in alcune sedute del seminario dei prigionieri politici che si teneva

nel carcere di Rebibbia Roma G12, nel settembre - ottobre 1982 Quest articolo nell¶attuale forma e in traduzione

francese, è ora in corso di pubblicazione nella rivista << Chemin de ronde >>. Il Paragrafo 7 della Parte III (<< Lenin

a New York Progetto di lavoro >>), è una lettera scritta ai compagni che a Montreal, nell¶ambito dell¶Università delQuebec, hanno tenuto aperta una sede di lavoro teorico-politico spinato al marxismo critico rivoluzionario. La lettera è

datata 15 aprile 1985, e si riferisce in particolare al risultati del convegno del novembre 1984 sui movimenti autonomi

della classe operaia contro lo Stato. I Paragrafi 1, 2, 3, 4, 5 , della Parte III sono stati rispettivamente pubblicati: <<

Erkenntnistheorie >>, con il medesimo titolo, in << Metropoli >>, n 5, anno III, Roma, giugno 1981, pp. 50 -53 (il

saggio porta comunque la data 25 aprile 1981); << La potenza sociale del lavoro >> come nota introduttiva allariedizione di << Classe Operaia >>, Collettivo Libri Rossi/Area Milano, 1980 (la nota porta la data << agosto 1979 >>);

<< Per un nuovo schematismo della ragione >> é apparso, in francese, con il titolo << A¶ propos de Logos et théorie

des catastrophes de Jean Petitot >> in << Babylone >>, n 4, Printemps-Ete 1985, UGE 10/18, avril 1985, Paris, pp. 219-

227; << Sull¶orlo dell¶essere >>, è apparso in << Alfabeta >>, n. 41, ottobre 1982, pp.21-22; << L¶istituzione logica del

collettivo >> è stato pubblicato in << Aut aut >>, n. 197-198, settembre - dicembre 1983, pp. 133-142. Ai direttori ed ai

redattori delle riviste che ne hanno concesso a nuova pubblicazione, va il mio ringraziamenti.

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PARTE II 

Prolegomeni di un¶ontologia della sovversione

Introduzione

La rivoluzione come preambolo 

Ho tra le mani un piccolo libro, recentemente pubblicato da Suhrkamp, intitolato Mythologie der Vernunft. Hegels

ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus (1). Esso raccoglie, oltre al testo e ad un¶introduzione critica dei

curatori, gli articoli che a questo piccolo e fondamentale scritto sono stati dedicati da Franz Rosenzweig, Otto Pögler,

Dieter Heinrich, Annemarie Gethmann-Siefert. I curatori sono Christoph Jamme e Helmut Schneider. Non voglio

entrare nella polemica sulla paternità del testo e fare un¶ennesima congettura - se ne sia Hegel o Schelling o Hölderlin

l¶autore - tanto più che anch¶io non sono in difetto in proposito, avendo studiato il problema nei miei primissimi esercizi

filosofici (1958: sul giovane Hegel (2) e 1959: sulla storiografia (3) di Wilhel m Dilthey e della sua scuola) e poiché non

mi sembra di poter rinunciare, sulla questione dell¶attribuzione, alle conclusioni di Rosenzweig. Voglio solo riprendere

questo << antichissimo >> testo come origine e farci attorno qualche considerazione.

Leggo qualche passo (in una mia libera traduzione) (4): << Un¶etica. Poiché l¶intera metafisica si concluderà nella

morale - cosa della quale Kant con i suoi due postulati pratici ha solo dato un esempio senza ciò nulla esaurire - così

quest¶etica non sarà altro che un sistema completo di tutte le idee, ovvero, che è la medesima cosa, di tutti i postulati

 pratici. La prima idea è naturalmente la rappresentazione dell¶io stesso, come di un¶assoluta libera essenza. Con lalibera, autocosciente essenza nel medesimo tempo vien [sic] fuori un mondo intero, dal nulla - l¶unica vera e

concepibile creazione dal nulla. - Io vorrei qui entrare nel campo della fisica, il problema è questo: come dev¶essere

costruito un mondo per un essere morale? Potrei così dar nuove ali all a nostra scienza fisica che avanza tanto

lentamente attraverso esperimenti. Dalla natura vengo dunque all¶opera umana. Innanzitutto l¶idea di umanità - io

voglio mostrare che non si dà alcuna idea di Stato, poiché lo Stato è qualcosa di meccanico, e non si dà idea di una

macchina. Soltanto quello che è oggetto della libertà, questo si chiama idea. Noi dobbiamo dunque andar oltre lo Stato!

Poiché ogni Stato deve trattare l¶uomo come un ingranaggio meccanico; è appunto ciò che non si deve; quindi lo Stato

dev¶essere tolto. Consegue da ciò che qui tutte le idee di pace perpetua ecc. non sono altro che idee subordinate ad

un¶idea superiore. Vorrei nei medesimo tempo fondare principi di una storia dell¶umanità e nel medesimo tempomettere a nudo tutta la miserabile determinazione dello Stato, della costituzione, del governo, della legislazione.

Vengono infine le idee di un mondo morale, la divinità, l¶immortalità - rovesciamento dell¶incredulità che è

conseguenza del clericalismo - esso finge ora di usare la ragione, - bene, questo rovesciamento l¶attueremo attraverso laragione stessa. - Libertà assoluta per tutti gli spiriti che in sé portano il mondo intellettuale, che non debbono cercare né

Dio né l¶immortalità fuori di se stessi. In ultimo luogo l¶idea che tut te le altre idee unifica, quella di bellezza...>>

Questo testo mi ha sempre sconvolto.

Potrei dire che tutta la prima fase del mio lavoro filosofico maturo (negli anni Sessanta: dallo studio sul formalismo dei

giuristi kantiani (5) fino alla traduzione ed al commento degli scritti di Hegel del 1802-1803 (6), dagli studi sulla

macchina dello Stato (7) alle parallele ricerche sul cartesianismo nell¶ideologia politica e statuale (8) - che questa prima

fase matura di lavoro filosofico non sia stata dunque altro che una riflessione sull¶attualità di questi temi: riprendendonela fortissima valenza critica, e cioè guardando come l¶opera umana della libertà venga resa meccanica e ridotta al nulla

dai grandi poteri che le si oppongono la natura produttiva e lo Stato.

Ma debbo subito aggiungere che nei miei studi di allora, solo sulle sfondo resisteva il senso costruttivo di queste

tematiche critiche, e cioè il tentativo di identificare che cosa potesse oggi essere una nuova mitologia della ragione,della libertà, un¶estetica trascendentale che non fosse chiusa nelle maglie di una mediazione coatta. Quest¶ultimo infatti

era stato l¶esito che quell¶ << antichissimo programma >> aveva subito nello sviluppo della filosofia di Schelling e di

Hegel. Di questo destino Hölderlin era impazzito. Noi lo rifiutavamo ma eravamo incapaci di liberarcene. Anche il

marxismo era afflitto da questa malattia, inglobato nell¶analitico specchio del potere. Quanto agli autori degli anni Venti

e Trenta tedeschi, che soprattutti allora frequentavo: da Walter Benjamin a Theodor W. Adorno, da Ernst Bloch e Georg

Lukacs - bene, per loro avvertire la crisi era un¶esasperata dichiarazione di impotenza. Il cosiddetto pensiero della crisi,

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che tanta auge ha ora in Italia e altrove, noi allora interame nte lo vivemmo (9).

Ma ritorniamo al frammento programmatico. La copia hegeliana è dell¶inizio dell¶estate del 1796. La grande

Rivoluzione sta giungendo all¶apogeo del suo sviluppo. Ora, nelle pagine del frammento, essa è il presupposto del

sapere. Se la libertà umana è il fondamento, il sapere non può presentarsi che come etica e come costituzione. Giorgio

Agamben, uno dei pochissimi filosofi italiani in questa stanca epoca, ha di recente nuovamente sottolineato questa

verità (10). Come ha potuto allora, questa grande rivoluzionaria rifondazione, essere così brutalmente tradita? Come ha

 potuto, alla base della nostra cultura filosofica, la dialettica dell¶idealismo tedesco, ripetere il gioco dagli atroci risvo ltidi una Dialektik der Aufklärung? Perché l¶immediatezza di una nuova e potente estetica trascendentale, anziché

svolgersi verso la sfera dell¶immaginazione vera, è stata sottoposta alla mediazione dell¶analitica trascendentale, a

questa artificiosa prigione del desiderio di costituzione?

Leggo le Lezioni sulla fenomenologia dello spirito di Hegel tenute da Martin Heidegger (11). Vi sento, magistralmente

interpretata, non una risposta alla questione bensì un¶apologia di questo risultato. Heidegger mi offre il senso presente

di un¶ottusa analitica dello spirito, della storia e della libertà - che è divenuta impotenza dell¶immaginazione e delcorpo. L¶effettivitá storica di questa comprensione aumenta il disagio a fronte della tragica consonanza con la quale

l¶autore l¶accompagna.

Leggo Michael Theunissen, Sein und Schein. Die kritische

Funktion der hegelschen Logik (12). Siamo qui fra gli epigoni della francofortese filosofia critica. Non v¶è qui più

alcuna illusione che l¶analitica e la logica dialettiche possano riempirsi di contenuti di veri tà. V¶è tuttavia, in questa

recentissima e sofisticata operazione sulla dialettica hegeliana, a speranza che il negativo logico possa almeno

continuare a rappresentare un¶allusione, un¶allegoria dell¶essere e fondare perciò qualche formale orizzonte di

significatività. Funzione ontologica del negativo, del differente, nella logica? No, non è possibile.

Se ho citato questi volumi, non è perché occasionalmente (non potendo, in questo periodo, frequentare se non

episodicamente le biblioteche) me li sono trovati fra le mani. L¶occasione non ne toglie il valore di indice generale.

Ebbene, qui, emblematicamente, il sogno dell¶unificazione logica del sapere e l¶hegeliana Darstellung di una logicadell¶essere si mostrano e sono offerti come radice dell¶errore. In verità, dopo la rivoluzione, non è l¶essere che si è

appropriato della logica bensì è la logica che si è appropriata dell¶essere. Con Hegel la logica è divenuta la matrice

dell¶ideologia ed un¶analitica stringente si è opposta all¶estetica trascendentale della libertà. Lo spazio dell¶estetica

trascendentale è stato ridotto, nel migliore dei casi, a misure fenomenologiche. Il rapporto costitutivo fra estetica e

dialettica trascendentale dell¶immaginazione vera è stato costrittivamente attraversato da un¶analit ica, daun¶epistemologia, asfissianti ed onnicomprensive. Il più antico programma dell¶idealismo tedesco è divenuto il suo

rovescio - e noi viviamo questa tragedia.

Quando la filosofia contemporanea avverte questo esito diviene impotente. La caduta della dialettica, nella sua figura

hegeliana, sembra comportare la rovina di ogni possibilità di costruzione.

Così, nei momento nel quale la tragedia della ragione dialettica diviene storica e la ragione meccanica raggiunge l¶apice

della sua espressione determinata, realizzando completamente, fra Auschwitz e Hiroshima, il rovescio dell¶antico

 programma di libertà dell¶idealismo tedesco ed insieme mostrando l¶efficacia distruttiva del decorso storico della

dialettica, la filosofia si sente sull¶orlo estremo dell¶essere. Un orlo di distruzione, ove soffia e risucchia il vento del

vuoto, - e l¶orrore è moltiplicato.

La favola della filosofia non può tuttavia aver fine. Questo nostro essere sull¶orlo dell¶essere ci rivela non solo la

disperata effettualità della crisi del sistema del valore - ci pone anche di fronte alla genealogia di questa crisi e ci

colloca, attraverso questa scoperta, sul solo terreno sul quale l¶intelligenza riflette su se stessa. Viviamo un¶età barocca:

non la meraviglia o l¶ammirazione ma il terrore sono alla base del risveglio alla filosofia. L¶orrore della distruzione ci

incolla al corpo, alla sensibilità, alla vita - alla necessità di una riflessione intelligente. L¶orlo dell¶essere ci obbliga al

cuore dell¶essere, ci stringe su quel punto sul quale una estetica della libertà può nuovamente coniugarsi con una

dialettica dell¶immaginazione produttiva.

<< Un¶etica >>.

Con forza di anticipazione e capacità di raccogliere l¶anomalia di una straordinaria condizione storica, Spinoza ci ha

indicato questo cammino. Di nuovo qui posso ripercorrere la mia esperienza filosofica e i miei scritti degli anni settanta

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- una seconda fase del mio pensiero. Ora, fino a quando non ho incontrato Spinoza (13), se mi era chiara la necessità di

rompere la subordinazione della volontà di valorizzazione dei soggetti alla meccanica della ragione analitica, non me è

stato mai chiaro che a questo scopo andava interrotto il circolo vizioso delle omologie analitiche che continuamente si

determinavano quando dall¶esperienza soggettiva si passava all¶oggettiva - e viceversa. Nel migliore dei casi, quando si

scioglieva, lo spirito di sistema liberava (in polemica con l¶analitica) volontà anarchica; viceversa, lo spirito anarchico

resolve, alla maniera di un surrealista progetto, alla volontà di sistema. Nello schema filosofico tradizionale che subivo,la critica indicava la trascendenza del valore anziché assumere la possibilità radicale di sviluppare la potenza ontologica

del soggetto. In tutti i miei scritti degli anni settanta (14), che apparivano come scritti politici ma erano essenzialmentescritti di metodo, mi sono mosso in questo circolo vizioso. E¶ il circolo vizioso di un atteggiamento dialettico che

rifiutavo ma non riuscivo ad evitare - anche nei momenti di più fervida rivendicazione del vero materialismo marxiano

(15). Dall¶autovalorizzazione dei soggetti all¶autorganizzazione del partito, si diceva, dalla ricchezza cosciente della

spontaneità all¶autodeterminazione dei soggetti, al politico - e poi al comunismo (16). E¶ sbagliato. Dentro questa trafila

l¶autodeterminazione diviene trascendenza. E¶ trasfigurazione analitica della pratica del valore, è surretizio recupero

della mistificazione trascendentale della ragione meccanica. No, l¶autodeterminazione viene prima, è il preambolo.

L¶etica nasce dalla rivoluzione come preambolo. Il comunismo viene prima, come pratica.

 Non solo Schelling, Hölderlin, Hegel hanno conosciuto la rivoluzione come preambolo: anche noi abbiamo piantato i

nostri alberi della libertà. Fra il 1917 e il 1968 lo sviluppo pauroso dell¶analitica della ragione ha avuto come

corrispettivi il gioioso liberarsi di un¶estetica della libertà ed un¶immaginazione vera. Di nuovo una mitologia della

ragione si è presentata come possibilità filosofica. Di nuovo, di contro, contemporanei, il tradimento, il pentimento e

l¶analitico sistema del terrore hanno schiacciato questa possibilità. Ma questo nostro destino è troppo feroce e le sue

componenti troppo esasperate perché noi possiamo ancora illuderci. L¶analitica ha immediatamente il volto della morte.A queste condizioni, l¶estetica della libertà ha l¶immediata robustezza ontologica del l¶esistenza del corpo. Una nuova

mitologia della ragione, un¶ontologia dell¶etica, della sensibilità, del corpo: non è possibile spostarle. Sono condizioni

di esistenza.

Troppi << nuovi credenti >> (come li chiamava Leopardi), troppe anime pallide, ricercano nella trascendenza la via

d¶uscita da questa tragedia nell¶essere. << Asylum ignorantiae! >>. No, davvero questa forma dell¶andar oltre il terrore

analitico ha la figura del salto mortale. Già nella Germania degli anni Venti e Trenta, in questa comunque straordinaria

vicenda culturale, questa via non significò evitare la catastrofe ma annunciarla. Un pensiero autodistruttivo. L¶<<

angelus novus >> non intendeva la rivoluzione come preambolo bensì come soluzione delle aporie analitiche della

ragione. Non come condizione e Umwelt bensì come sviluppo ed Aufhebung. Il passaggio dall¶estetica alla dialettica

dell¶immaginazione fingeva così 1 superamento dell¶analitica, in realtà ne subiva il dominio e di conseguenza scartava

l¶estetica come fondazione. L¶Angelus novus non svolgeva l¶estetica in liberazione ma la traduceva piuttosto nell¶idea

della redenzione. Erlösung - ci dice quello stesso Rosenzweig (17) che pure ci aveva restituito il Systemprogramm,

quando, alcuni anni più tardi, non resiste alla potenza della morte che vede prendersi i suoi compagni nelle trincee della

Bielorussia.

Tutu noi abbiamo visto in questi anni la morte sedersi alla nostra tavola. Eppure non è questa, di Rosenzweig, la via per 

vincere la morte. Rosenzweig ripete il terrore analitico nel soffrirne i disperati effetti. Come invece rompere

l¶implacabile circolarità analitica e dare significato all¶esistenza, a fronte del senso nullificante che in essa l¶analitica

mette in moto? Come proporre, nelle maglie del capitalismo maturo e della sua analitica, la rivendicazione di una nuova

dialettica trascendentale dell¶illusione vera? Come sviluppare il preambolo rivoluzionario di un¶estetica della libertà

verso la costituzione del reale? Rispondere a questi interrogativi, operare in questo senso, è oggi ricostruire un¶etica.

La rivoluzione come preambolo, il senso della grande trasformazione in corso e della tragedia incombente - come

contenuto elementare dell¶estetica: che cosa significa questo? Se, sull¶orlo dell¶essere, tutto può essere dist rutto, tutto

 può essere anche costruito: il contenuto dell¶estetica è un paradosso metafisico trasformato, attraverso le dimensioni

delle possibilità, in paradosso pratico. L¶essere è, il non -essere non è: recita l¶antico adagio. Ma oggi l¶essere può nonessere. La possibilità della non esistenza, come competenza del soggetto, è una nuova attribuzione dell¶analitica. Ma

questo essere, divenuto assoluta contingenza, è possibilità di nuovo essere. La costituzione soggettiva filtra la possibilità

di costituzione ontologica e radica [sic] quest¶ultima nell¶estetica trascendentale. L¶analitica ci ha restituito il mondo

come assoluta contingenza: con ciò si fonda la radicale possibilità dell¶innovazione alternativa. Il contenuto assoluto

della verità, posto dall¶analitica come trascendenza sull¶estetica, risorge invece dal basso - non è una richiesta di altro e

d¶assoluto bensì un altro e un assoluto che vivono prima.

Un¶etica, dunque, una costituzione della libertà. Il cammino che sale dall¶immediatezza estetica della rivoluzione già

data, posta come preambolo, su, fino alla dialettica dell¶immaginazione vera - è questo il cammino che dobbiamo

 percorrere attraverso etica e costituzione, costituendo un¶etica. Imponendo all¶ontologia un¶etica. Rovesciando così il

 processo che ci ha sempre portati fuori dalle dimensioni etiche dell¶essere trasformato e ha sottoposto questo al dominio

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dell¶analitica. Non può più essere concesso che la logica sia la matrice dell¶ontologia e che l¶etica si trovi di

conseguenza relegata sull¶orizzonte della trascendenza, gioia delle anime belle e preda del cinismo.

Ancora dal Systemprogramm << Nel medesimo tempo noi sentiamo sovente dire che le masse hanno bisogno di una

religione sensibile. Non solamente le grandi masse, anche il filosofo ne ha bisogno. Monoteismo della ragione e del

cuore, politeismo dell immaginazione e dell¶arte, questo è ciò di cui noi abbiamo bisogno! Parlerò quindi d¶un¶idea che,

 per quanto ne so, mai è venuta alto spirito di nessuno, non ancora almeno - noi dobbiamo avere una nuova mitologia,

ma questa mitologia deve stare al servizio delle idee - essa deve divenire una mitologia della ragione >>.

Commentiamo questo brano. Oggi, l¶unificazione logica dell¶umanità ci si propone nuovamente con conseguenze

disastrose. L¶insignificanza dei linguaggi e la guerra sono divenuti l¶orizzonte dell¶esistere: hobbesianamente solo il

dominio ci propone possibilità di esistenza. Quale è la nostra miseria! Le differenze fra gli uomini sono organizzate

sulla gerarchia del dominio. La grande macchina della rappresentazione logica del reale si è formalizzata e toglie la vita

agli uomini, proiettandola nell¶insignificanza e spingendola sull¶orlo della distruzione assoluta (18). Come distruggere

questa ristrutturazione analitica della ragione e proporre invece alla ragione un altro, diverso, umano orizzonte - una

mitologia della ragione, un¶estetica dell¶immediatezza ragionevole?

Ho percorso l¶orizzonte della guerra armato di una mitologia della ragione, di una religione sensibile, perciò d i

quell¶orrore non ho subito il dominio. Ora è per me il momento di riaprire, attraverso la più radicale critica

dell¶analitica, il canale di scorrimento fra la resistenza all¶orrore e l¶immaginazione sensibile della libertà. Entro in una

terza fase del mio lavoro filosofico (19).

Il misticismo di Wittgenstein e l¶ascetismo dell¶ultimo Husserl ci hanno mostrato il grande quadro dell¶essere ormai

spostato sulla linea della più assoluta Sinnlosigkeit del significante. Il post -moderno e le ideologie sistemiche hanno

accolto e sviluppato in maniera apologetica quest¶apprensione del mondo - senza il dolore che, in casi simili, è propriodella grande filosofia. Questo morto mondo può essere rotto dal lavoro vivo, dall¶immaginazione vera del soggetto, da

un¶etica ragionevole dell¶immediatezza. La possibilità del mito è interna alla contingenza feroce di questo mondo, al

suo affacciarsi sull¶orlo della distruzione. Solo l¶etica può rappresentare la possibilità di una ontologia, di una filosofia

dell¶essere vero.

Un¶etica? Sì. Una politica.

NOTE INTRODUZIONE  

1) Mythologie der Vernunft. Hegels << ältestes >> Systemprogramm des deutschen ldealismus. hrsg. von C Jamme und

H Schneider. Suhrkamp, Frankfurt, 1984.

2) Antonio Negri, Stato e diritto nel giovane Hegel. Studio sulla genesi illuministica della filosofia giuridica e politica

di Hegel, Padova, CEDAM, 1958, pp. 288.

3) Antonio Negri, Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke, Feltrinelli, Milano, 1959, pp. 303.

4) Cfr comunque anche la traduzione di P Naville in Hölderlin, Oeuvres, Gallimard, Paris, 1967, pp. 1157 -1158.

5) Antonio Negri? Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant e nei giuristi kantiani

fra il 1789 e il 1802, Padova, CEDAM, 1962, pp. 400.

6) G W F Hegel, Scritti di filosofia del diritto (1802-1803), traduzione e introduzione di Antonio Negri, Laterza, Bari,

1962.

7) Antonio Negri, La forma Stato. Per la critica dell¶economia politica della costituzione, Feltrinelli, Milano, 1977, pp.

345; Scienze politiche 1 (Stato e politica), << Enciclopedia Feltrinelli -Fischer >> n. 27, a cura di Antonio Negri,

Feltrinelli, Milano, 1970.

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8) Antonio Negri, Descartes politico o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 212,

9) Antonio Negri, Studi su Max Weber (1956-1965), in << Annuario bibliografico di filosofia del diritto >>, Giuffrè,

Milano, 1967; Antonio Negri, La filosofia tedesca del Novecento, in << Storia della filosofia >>, diretta da Mario Dal

Prà. Volume X, << La filosofia contemporanea: il Novecento >>, Vallardi, Milano, 1978.

10) Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino, 1982.

11) Martin Heidegger, La << Phénoménologie de l¶esprit >> de Hegel, Gallimard, Paris, 1984.

12) Michael Theunissen, Sein und Schein. Die kritisce Funktion der hegelschen Logik, Suhrkamp, Frankfurt, 1980.

13) Antonio Negri, L¶anomalia selvaggia. Potenza e potere in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 300.

14) Antonio Negri, Operai e Stato, Lotte operaie e riforma dello Stato capitalistico tra Rivoluzione d¶Ottobre e New

Deal, Feltrinelli, Milano, 1972; Antonio Negri, Crisi dello Stato piano, Feltrinelli, Milano, 1974; Antonio Negri, Crisi e

organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano, 1974; Antonio Negri, Proletari e Stato, Feltrinelli, Milano, 1976; A Negri,

La fabbrica della strategia. 33 lezioni

- 38 -

su Lenin, Area ed, Milano, 1977, pp. 224; A Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della

trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano, 1978; A Negri, Dall¶operaio massa all¶operaio sociale, Multhipla ed,

Milano, 1979, pp. 176.

15) Antonio Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano, 1979.

16) Antonio Negri, Il comunismo e la guerra, Feltrinelli, Milano, 1980.

17) Franz Rosenzweig, L¶Etoile de la Rédemption, Le Seuil, Paris, 1981.

18) Antonio Negri, Macchina-tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione, Feltrinelli, Milano, 1982.

19) Antonio Negri, Pipe-line, Lettere da Rebibbia, Einaudi, Torino, 1983.

Capitolo Primo.

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<< No future >>, ossia sull¶essenza etica dell¶epistemologia.

1. L¶indifferenza dell¶universo della comunicazione. 

Ci sono tre elementi che caratterizzano l¶orizzonte metafisico della nostra epoca. Il primo dato è che viviamo in unmondo nel quale solo l¶immagine traduce l¶esperienza. Ogni autonomo momento di produzione, ogni rapporto dal senso

della proposizione al significato reale dell¶evento, ogni trascendimento del contesto della comunicazione appaiono

impossibili. La logica si muove su questo terreno: perciò non riesce mai a farsi epistemologia, senso e significato del

nostro linguaggio sono irrimediabilmente separati. A partire da questa prima constatazione vengono molte conseguenze:in primo luogo sembra chiaro che di questa situazione linguistica non possiamo neppure parlare - ci siamo dentro, e

qualsiasi tentativo di cogliere un riferimento reale non è altro che un trascendimento. Questa logica è autoreferenziale -

meglio, è tautologica. Certo, il complesso delle proposizioni che descrivono la vita non può immediatamente essere

riportato alla tautologia, - per la semplice ragione che la tautologia non può ricoprire la complessità. Ma è anche vero

che la tautologia è il minimo comune denominatore di questo universo, che un¶immaginaria riduzione ad elementi

semplici degli insiemi linguistici non potrebbe che mostrare la tautologia come chiave di tutto l¶universo logico. Ma

allora come funziona (perché malgrado tutto funziona) questo nostro universo logico, questa nostra vita organizzata da

giudizi e da inferenze logiche?

Vi è un secondo elemento che è assolutamente fondamentale ritenere, ed è che questo universo linguistico, logico, chenon possiede verità ma semplicemente movimento, - dunque, questo universo logico, è anche un universo produttivo.

Esso comprende, nel momento stesso nel quale fissa delle relazioni di comunicazione, parametri sociali, strutture e

figure, socialmente efficaci a rendere valido il linguaggio. Si tratta di veri e propri rapporti di produzione: il ling uaggio

infatti traduce nella sua propria struttura quella gerarchia che è alla alla riproduzione della società. Dentro questa

circolazione permanente di flussi linguistici, di immagini che precedono il reale, di un reale che è incarnato dalla forza

della comunicazione, la produzione del mondo si ripete in maniera continua. E¶ qui chiaro lo sviluppo dell¶intuizionemarxiana del completarsi del capitalismo nella fase della sussunzione reale. Vale a dire che ogni elemento dello

sviluppo sociale è qui compreso ormai nella totalità della circolazione delle merci: questa comprensione rende

evidentemente produttiva tutta la società, ma nello stesso momento in cui opera in questo senso, toglie la specificità del

 produrre, la oblitera espandendola in ogni direzione, la rende eguale a tutto ciò che esiste. Il paradosso è solo formale:

sostanzialmente il suo significato è che tutto ciò che esiste è capitalisticamente produttivo, - vale a dire non

semplicemente produttivo, ma produttivo dentro una determinata relazione di sfruttamento.

La sfera linguistica nasconde la totalità del processo produttivo, meglio, l¶assume per distruggerne le caratteristiche

antagonistiche. E¶ un fatto che quando tutto è produttivo non può esistere un criterio assoluto di misura - la misura cade,

e con ciò cade anche ogni rapporto reale tra sfera della comunicazione e sfera della produzione. Ma se la sfera della

 produzione é completamente implicita nella sfera della comunicazione - come articolare il rapporto, come descriverlo,

come dominarlo? Si conosce la risposta: è la moneta: quella merce universale che deve valere per queste funzioni. Ma è

 ben vero che per la moneta può essere detto esattamente quello che si è detto più in generale per il linguaggio. Con la

moneta chiamo gli oggetti in maniera diversa, do loro un nome che è un prezzo - ma tutto ciò subisce la stessa

circolazione insensata che è propria del linguaggio ed ormai nessuno può dire della moneta che i suoi nomi

corrispondano, meglio fissino un reale. Forse è solo la forza che discr imina e rende ricchi: antica banalità, al di là della

quale resta la necessità di comprendere.

Siamo dunque dentro un universo di sensi molteplici, ma sempre circolanti e tendenti all¶unità linguistica (ed alla nullità

epistemologica) della tautologia. Quest¶universo registra la crisi della comprensione del rapporto fra senso e significato,

fra nome e cosa, tra società e produzione. Ma questa crisi è dentro lo stesso orizzonte, lo stesso livello della

circolazione. Ne viene, con la caduta di ogni parametro di confronto, di misura, un regno di indifferenza. L¶indifferenza

è la tendenza. Quanto più questo mondo si sviluppa, quanto più si matura e si perfeziona, tanto più esso diviene

indifferente. Noi immaginiamo per questo mondo un¶intercomunicabilità totale - ma laddove non esiste criterio di

misura, riferimento oggettivo, ivi la comunicazione è caotica - meglio, è appunto indifferente. Ogni determinazione

viene meno, ogni capacità di riferimento reale è annullata.

Io ritengo che questi siano il termine e l¶e saurirsi necessari del pensiero occidentale, da quando e perché esso ha scelto

di privilegiare l¶orizzonte del Logos, cioè l¶orizzonte del comando, e di assumerlo a proprio esclusivo fondamento. Noi

abbiamo bisogno di liberarci da tutto questo, da questo sviluppo del pensiero che non è stato altro che una trascrizione

mistificata dello sviluppo del rapporti di sfruttamento. La ragione ha costruito la sua analitica, dentro la quale lo studio

dell¶esperienza ed il riferimento al reale sono stati di volta in v olta depurati o distrutti. La logica ha finto di eliminare

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ogni finzione estranea alla specificità del suo proprio cammino. Ma con ciò si è isolata dalla vita - meglio, è servita a

mistificare il senso della vita. Qui ora ci ritroviamo dinnanzi ad una spav entosa crisi di questo cammino. L¶analitica

trascendentale della vita ha fatto cilecca, è entrata in crisi, talora s¶è fatta prendere da eccessi paranoici. Come porre,

dentro le condizioni di questa crisi - non al di fuori, non al di là di questa crisi ma, lo ripeto, dentro questa crisi - come

 porre le condizioni di una riconquista dell¶esperienza? E¶ inutile qui ricordare come Kant abbia posto con forza questo

medesimo problema, per la prima volta nel corso dello sviluppo del pensiero occidentale: quali so no le condizioni di pensabilità dell¶esistente, qual¶è la forma nella quale il mondo della vita può essere percepito? E¶ inutile anche ricordare

che in Kant erano presenti, come sempre nella grandezza degli inizi, le varie risposte che a questo interrogati vo potevano essere date ma è certamente vero che la via fondamentale percorsa, in Kant e nei suoi seguaci, fu quella

dell¶<< analitica trascendentale >>. L¶analitica si pose come schermo forte e determinante fra << estetica >> e <<

dialettica trascendentali >> - mentre la prima fu man mano ridotta a mostrarsi non come esperienza irriducibile ma

come contenuto dell¶analitica, la dialettica trascendentale venne essa stessa costretta a progettarsi sugli schemi

dell¶analitica. Oggi abbiamo il risultato di questo processo. Un risultato che, in una specie di parallelismo, registra

l¶equivalenza del processo reale: una sfera analitica della conoscenza che si è fatta sfera astratta della comunicazione e,

in parallelo, un modo produttivo divenuto sempre più comunicativo e informativo, ma soprattutto autoreferenziale e

tautologico. In ogni caso è indifferente il riferimento al reale: l¶estetica trascendentale è negata.

Un terzo elemento è caratteristico della nostra percezione del mondo, oltre a quelli già detti, della percezione

comunicativa e della consapevolezza della sussunzione produttiva. Questo terzo elemento è proprio dell¶esperienza che

conduciamo dentro questi livelli critici. Vale a dire che se l¶indifferenza è la caratteristica della situazione, se la

tautologia è la chiave di volta del sistema comunicativo, pure tutto questo non può funzionare quando emergono su

questi terreni i problemi della scelta e della decisione etiche. Vale a dire che lo posso ben muovermi nella puracircolarità delle esperienze che mi sono proposte fino a quando non mi trovo dinnanzi alla necessità della scelta, vale a

dire alla necessità di mettere in atto le determinazioni del mio volere. Non è, questa, la ripresa di una nota e prometeica

rivendicazione dell¶esistenza - stavo dicendo rivendicazione << esistenziale >> dell¶esistenza! Non lo è perché qui

questa contraddizione non è una rottura, non è un << atto puro >> e cioè un¶incisione che riqualifica e dà senso

all¶indifferenza del contesto analitico questa percezione è solo un arr icchimento del quadro fin qui descritto. Vale a dire

che l¶insensatezza del rapporto fra logica tautologica, comunicazione circolare e contesto produttivo rivela, con

l¶indifferenza del rapporto, la precarietà del rapporto stesso. Questo emergere della volontà che chiede senso per 

l¶esistenza, non concede, né forma il senso dell¶esistenza. La volontà non è creativa - si trova messa in scacco a fronte

dell¶indifferenza dei significati. Ma una cosa essa rivela, ed è che la componente etica, pratica, materialm ente

determinata, corre attraverso l¶intero quadro dell¶analisi e in nessun momento è possibile da questa sganciarla. La

società della comunicazione è dunque percorsa da un insieme di rapporti di volontà che, se sono impliciti nella relazioneche essa intrattiene con la produzione, divengono espliciti quando l¶esperienza pratica individuale viene assunta entro

l¶analisi. Se di nuovo rileggiamo, anche a questo proposito, il vecchio Marx, di nuovo troviamo un inizio di risposta - ed

è, questo inizio, legato alla definizione dell¶esperienza stessa. Vale a dire che, come è largamente chiarito dalle <<Glosse su Feuerbach >>, il tessuto dell¶esperienza non è logico ma trasformativo. E¶ quest¶affermazione quella che

qualifica il materialismo dell¶epoca moderna, su da Machiavelli, attraverso Spinoza, fino appunto a Marx e ai grandi

movimenti di trasformazione della società. Vale a dire che il disorientamento che l¶universo della comunicazione,

 portato a questo piano di indifferenza, determina in noi, non riguarda semplicemente i momenti logici dell¶esperienza

né quelli produttivi, ma coinvolge la complessità della figura umana. Ed è evidente che non possa che essere così:

 poiché quella mancanza di misura, quella mancanza di criterio che creano il disorientamento, sono in effetti null¶altro

che indici della contingenza del rapporto nella sua complessità, e cioè dell¶esistenza intera. La tautologia logica è

mancanza di senso della vita. La mancanza di senso della vita è impossibilità di recuperare un qualsiasi criterio di

scelta, di direzione, di soddisfazione etica. Il tessuto etico corre attraverso, e ricopre, l¶intero mondo dellacomunicazione. In Marx questa percezione della sostanziale eticità dell¶esperienza del mondo è continuamente presente.

La caduta delle funzioni della << teoria/misura del valore >> nella fase della sussunzione reale non comporta la caduta

delle caratterizzazioni di valore che l¶intera esperienza umana, comunicativa come produttiva, possiede.

Siamo così al centro della definizione di questo mondo dell¶esperienza. In esso si incrociano a globalità della produzione, l¶insensatezza della comunicazione e l¶assoluta contingenza dell¶agire. E¶ questo cammino una specie di

crescere delle condizioni dentro le quali il nostro problema, e cioè il problema del senso dell¶esperienza, viene

 ponendosi. La mia tesi è che non sia possibile ricostruire un¶epistemologia (nel senso proprio di teoria della verità) se

non fondandola sul carattere etico dell¶universo dell¶esperienza. Le condizioni di un¶estetica tr ascendentale

dell¶esperienza, date le dimensioni del mondo della vita che conosciamo, debbono dunque essere impiantate sul tessuto

etico. Non certo perché esse appaiono come elementi imprescindibili dell¶esperienza stessa (soprattutto se essa è

riguardata dal punto di vista individuale), ma perché è sul tessuto etico che la contingenza del mondo si rivela tanto più

forte quanto più le sue caratteristiche reali e la sua sussunzione nella produzione si siano realizzate. Lo vedremo meglio

avanzando nella ricerca, ma fin d¶ora possiamo dire che la contingenza etica ha, rispetto allo sviluppo della nostra

ricerca, la stessa importanza centrale che ha il dubbio logico nell¶esperienza Cartesian dei primordi della rivoluzione

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capitalistica. Vale a dire che se l¶insensatezza logica e la nullità epistemologica possono, come tali, nel mondo della

comunicazione, sviluppare una funzione di mistificazione e perciò esistere, - il problema della contingenza del mondo

etico, intesa in termini assoluti, e cioè come possibilità o meno dell¶esistenza del mondo, bene, questo problema non

 può essere mistificato. Non è qui il problema religioso o moralistico dell¶<< essere -per-la-morte >> che porta al centro

dell¶analisi: qui il problema è il fatto che la distruzione dell¶essere è d ivenuta possibile nella misura stessa nella quale

l¶universo produttivo è stato sussunto nel capitale e l¶universo linguistico è stato ridotto a comunicazione indifferente.Fra queste operazioni di portata storica esiste un nesso profondo, ed è a partire da esso che la contingenza generale

dell¶universo, questa indifferenza etica dell¶universo, saltano in primo piano. La radicale contingenza dell¶essere non èsemplicemente possibilità di un punto catastrofico - è una tendenza, è un¶essenza, è un fluire che ha la stessa estensione

della costruttività umana dell¶essere.

Tre elementi dunque, in questa crisi dell¶epistemologia moderna, insieme cause ed effetti di questa. Tre elementi che si

incrociano e che si nutrono a vicenda. Il problema sarà dunque quello di vedere quale sia il punto più debole di questa

crisi e come sia possibile definire, oltre le condizioni di un¶estetica trascendentale, di un¶esperienza portata a questo

livello di maturazione storica, la fondazione di un progetto epistemologico globale.

O semplicemente se sia possibile muoversi in questa direzione.

2. Rompicapi dello spirito. 

Se seguissimo una di quelle vie che si raccolgono nella grande categoria filosofica del << ritorno a Kant >>, giunti a

questo punto della nostra indagine cercheremo comunque di forzare, dentro l¶indifferenza nella quale si configura il

mondo della vita, le sue dimensioni, i suoi orizzonti - cercheremo cioè di identificare limiti dell¶indifferenza e di

ricostruire le possibilità di un¶analitica trascendentale. Si badi bene: il fatto di escludere una fondazione logica

dell¶epistemologia non toglie la possibilità di organizzare un¶analitica critica della ragion pratica. Nel momento più

importante dello sviluppo del neokantismo, Windelband e Rickert seguirono questa via contro la linea di esasperazione

del formalismo della ragion pura, perseguita da Cohen e Natorp.

 No, qui si tratta di escludere comunque un progetto analitico, foss¶anche riguardoso della densità di caratterizzazioni

etiche che il mondo della vita rivela.

D¶altra parte è proprio quando si approfondisce l¶orizzonte dell¶estetica trascendentale, vale a dire il campo

dell¶esperienza, nel tentativo di produrre un orizzonte interno di mediazione e/o di costituzione - è proprio allora che il

cammino dell¶analitica si mostra impercorribile e che la ricerca si rivela prigioniera di una serie di rompicapi insolubili.

Per rompicapo intendo un limite essenziale del linguaggio che uso, l¶impossibilità di fondare il concetto che esprimo e

l¶imbroglio di ogni processo di verifica cui io possa sottoporre il rapporto linguaggio-concetto-realtà.

Ora, assumendo le caratteristiche del mondo della vita che abbiamo sottolineato, tentando per ipotesi di costruire

un¶analitica trascendentale a partire da quelle condizioni, mi trovo, davanti ad almeno tre rompicapi fondamentali. Di

nuovo insisto: non si tratta semplicemente di singoli punti del ragionamento che emergono in forma contraddittoria

 bensì di contraddizioni irresolubili che partecipano dell¶intero meccanismo concettuale che regge ogni tentativo di

costruzione di un¶analitica della ragione-logica logica o etica. Guardiamo questi rompicapi uno per uno.

Il primo rompicapo è quello che si può chiamare del comando o della misura. Esso può essere espresso in questi

termini: quando mi trovo in un universo completamente sussunto, quando rapporti che si stendono fra soggetti-oggettidi questo universo, frazioni e produzioni, non posseggono misura possibile, allora è solo una sovradeterminazionequella che può rendere senso, e un qualche ordine, a questo universo. Ma, come abbiamo visto e come meglio vedremo

andando avanti, se è vero che a mancanza di misura di questo mondo esprime la radicale contingenza di tutti gli

elementi che lo compongono, se è vero che questa equivalenza dei soggetti contingenti si riferisce all¶estremo

apprezzamento dei limiti dell¶essere, cioè alla scelta fra esistenza e non esistenza collettiva, è chiaro che la

sovradeterminazione non potrà darsi in termini risolubili dentro un processo di verifica del senso logico (o etico) della

 proposizione, e quindi verso una determinazione di significati reali. La relazione di potere è qui dunque statica - allude e

tende alla nullità.

Rivediamo il discorso da un altro punto di vista. Se l¶orizzonte del mondo della vita è completamente lineare, se ogni

sovradeterminazione risulterà perciò contraddittoria, può ben darsi che la relazione di potere possa essere definita in

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termini appunto relazionali. Vale a dire che, come fanno i matematici che tentano di definire la potenza na turale

numerica come limite di serie equipollenti, anche il concetto di potere - cioè la misura e la discriminazione degli eventi

sociali - potrebbe essere definito non come sovradeterminazione ma come limite geometrico di serie, volontà, atti

formalmente equipollenti. Tale è ad esempio il meccanismo che conduce alla definizione della << Grundnorm >> nel

 pensiero di Hans Kelsen. Più che di sovradeterminazione si dovrebbe in questo caso allora parlare di << determinazione

della determinazione >> - come di un processo cumulativo che costituisce man mano un referente decisivo. Ma anchequesta ipotesi non regge il peso dell¶assoluta contingenza. Certo, lo schema aperto che sta alla base di questa

definizione, ci aiuta a comprendere la realtà del contesto etico nel quale ci muoviamo - ma esso non risolve ilrompicapo né può rendere efficace un concetto di potere a questo livello. Così ci troviamo nell¶assoluta impossibilità di

definire cosa sia << l¶uno >> sull¶orizzonte etico e nel quadro della sussunzione. E¶ evidente che questo imbroglio

logico è profondo, tocca tutte le determinazioni del problema. E¶ evidente che, riguardando il problema del comando

dentro le prospettive della sussunzione reale, ci troviamo nell¶impossibilità non solo di risolvere questo problema, ma

addirittura di impostarlo.

Se il primo rompicapo riguarda il problema << dell¶uno >>, ovvero il problema del potere, il secondo rompicapo cui ci

troviamo confrontati riguarda il problema dell¶<< altro >>, e cioè di tutto ciò che si oppone all¶uno, della moltitudine

che si oppone al potere. Ora, nella tradizionale teoria costituzionale, ed anche nella teoria economica, a differenza è che,

come per i soggetti costituenti nella teoria politica, il concetto di moltitudine è rotto ² nella rozza solidità dell¶insieme

che rappresenta - e i suoi materiali sono condotti a medietà. Per medietà s¶intende una dimensione di valore che unifica

in termini equipollenti le molte unità che costituiscono << l¶ altro >> (che può essere chiamato il popolo, la classe, la

forza-lavoro« ). La forzatura che viene operata per ridurre la molteplicità alla medietà, l¶importanza che in questo caso

assume il concetto di valore (sia esso produttivo, etico o politico) hanno indubbiamente un ruolo fondamentale nellariqualificazione dell¶orizzonte del mondo della vita. Non perciò tuttavia questo metodo risulta conclusivo. Infatti anche

in questo caso ci ritrova di fronte ad un imbroglio insolubile: la mediazione è qui imposta nella forma di una sorta di

sottodeterminazione del valore. Ma, non diversamente da quanto avviene nella sovradeterminazione del potere, così

questa sottodeterminazione del valore si scontra radicalmente con la contingenza dei soggetti. E la relazione non ha in

tal modo la possibilità di riportare il senso al sign ificato.

Come nel caso del primo rompicapo, anche in questo caso abbiamo una forma subordinata di approccio al problema:

neppure essa conduce, tuttavia, alla soluzione del rompicapo medietà / moltitudine. In che cosa consiste questa seconda

redazione del problema? Consiste nel porre il rapporto fra le singole soggettività non in termini di mediazione (di

sottodeterminazione) bensì in termini di composizione (di interdeterminazione). E chiaro qual¶è il vantaggio di questa

 posizione: essa sembra costruire il soggetto come cumulo di determinazioni specifiche, l¶analisi dei soggetti e il

 processo del loro unificarsi son visti come un processo cumulativo di comportamenti, azioni, bisogni, tradizioni...

insomma come un insieme storico di determinazioni. E¶ in questo caso estremamente importante sottolineare l¶utilità di

questa impostazione: sulla sua base una prassi ricompositiva è spesso data e molti dei valori di una cultura democratica

 possono fondarsi su un apprezzamento siffatto, rispettoso delle molteplicità come singoli. Ma, ciò detto, il rompicapo

resta. Medietà e moltitudine, anche in questo caso, si oppongono irriducibilmente e la costituzione pratica di una

dimensione comune, di un tempo comune, quando non siano pura utopia, divengono mere illusioni.

Se ora, prima di trascorrere all¶analisi del terzo rompicapo, guardiamo quanto residua dalla definizione dei primi due,

sembra che alcuni risultati importanti siano stati definiti. Non solo quelli già segnalati (e cioè, sia attraverso il primo c he

il secondo rompicapo, l¶approfondimento della figura lineare dell¶orizzonte del mondo della vita) ma soprattutto lacritica di ogni caratteristica strutturalistica nella concezione del valore. Intendo dire che la teoria del valore, la si ass uma

in maniera oggettivistica, oppure in maniera soggettivistica, la si prenda dentro la prospettiva del comando oppure la si

ricostruisca in termini di composizione - comunque rappresenta una struttura rigida che impedisce un processo di

 pensiero che rompe con l¶analitica trascendentale. Per dirla altrimenti: la teoria del valore, nelle sue diverse dimensioni

e nelle sue differenti applicazioni, è la forma più alla nella quale si presenti l¶analitica trascendentale. Ed è appunto da

questo punto di vista, e dentro l¶apprezzamento di questi rompicapi, che noi cogliamo l¶inadeguatezza di tutti i concetti

che comunque alle teorie del valore si riferiscono (e, fra questi, quello di dittatura e di democrazia, quello di sviluppo e

di crisi) - inadeguatezza di tutti questi concetti ad esprimere la radicale contingenza dell¶essere.

Il terzo rompicapo sta nel coniugare il rompicapo primo (o del comando) con il rompicapo secondo (o vero della

costituzione). Questo rompicapo può dirsi [dirci] rompicapo della rivoluzione. Rivoluzione è la contraddizione che si

apre fra costituzione del comando e libertà della moltitudine. La soluzione di questo rompicapo si è voluta spesso

costruire sulla base dell¶apprezzamento del dinamismo particolare della rivoluzione. La rivoluzione, infatti, da un lato

distrugge e comunque destruttura, dall¶altro ricostruisce e comunque struttura: si è cercato allora un soggetto dinamico

di questo processo, un partito, un¶avanguardia, un principe, una classe rivoluzionaria... comunque un soggetto, al quale

riferire la continuità dei passaggi del processo, quasi questi ultimi rappresentassero delle espressioni del suo spirito. E¶chiaro che questa definizione è completamente ipostatica. Se il primo paradosso e il secondo sono insolubili, tanto più

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lo è la coniugazione dei due. In questo caso, poi, troppo spesso la crisi dei paradigmi ideali si è mostrata come tragedia

storica. (Si tenga presente che anche in questo caso esiste un approccio subordinato alla soluzione del rompicapo -

approccio che distende sull¶orizzonte del mondo della vita, in termini storici ed empirici, la descrizione dei processi

eversivi. Questa seconda figura, o forma attenuata della teoria della rivoluzione. mostra il processo come << dualismo

dei poteri >> e cerca di definire la crescita di un soggetto come prodotto di una regola puramente antagonista. E¶

evidente che, anche in questo caso, ci si trova di fronte ad una soluzione che è del tutto inadeguata: in effetti, da questo punto di vista, dentro la rigidità della relazione, non è tanto l¶antagonismo che regola la crescita del potere

rivoluzionario bensì quest¶ultima è comandata da una sorta di ricalco e di riflesso negativo del potere avverso. Il potererivoluzionario in questo caso finisce per essere complementare, negativamente complementare, rispetto al potere

sovrano, e la libertà del suo sviluppo è solo apparente).

Ora, a me sembra che ogniqualvolta, a partire dall¶esperienza, si tenta di risalire e di definire delle categorie analitiche

che strutturino l¶andar oltre il livello empirico ed i significati immediati del mondo della vita, - bene, in ognuno di

questi casi, si resta prigionieri nella rete dei rompicapi. Questo non significa che il livello dell¶esperienza non debba

essere superato, questo non significa che i grandi fenomeni della comunità umana, della sua organizzazione, della sua

rivoluzione, non debbano essere presi in conto anche secondo le leggi generali che a questi universi presiedono. Quello

che i rompicapi ci rivelano, non conduce all¶inesistenza dei fenomeni, mostra bensì l¶impossibilità di una loro

spiegazione dal punto di vista della ragion pura. E non solo di astratta e impotente spiegazione si tratta: quando ci si

muove sulla base dell¶egemonia e dell¶esclusività del Logos, si perviene piuttosto ad una serie di perversioni pratiche -

ad una coniugazione e moltiplicazione, cioè, dello sgorbio teorico con la crudeltà etica. In questa forma, il primo dei

rompicapi è il problema del giacobinismo, il secondo dei rompicapi è la mistificazione del riformismo, il terzo

rompicapo rappresenta il paradosso del cinismo politico, ovvero del machiavellismo.

3. Terrore e contingenza. 

Per contingenza intendo il fatto che l¶essere possa essere e/o possa non essere - effettivamente. Ovvero l¶essere nella

sua totalità. Il pensiero classico, nel considerare la contingenza, non l¶ha mai strappata al particolare. Le due coppie,

universale e particolare, necessario e contingente, stabilivano fra loro un rapporto univoco. Il necessario con

l¶universale, il contingente con il particolare. Qui noi viviamo in una situazione nella quale per a prima volta l¶essere

intero può essere distrutto. L¶universalità dell¶essere può praticamente essere messa in dubbio. L¶essere può essere

distrutto.

Se ora, a partire da questa prima immediata constatazione, ritorniamo a quanto detto nei primi approcci di questolavoro, possiamo cominciare a meglio comprendere la specificità della condizione metafisica nella quale siamo inseriti.

Vale a dire che il massimo grado di astrazione dell¶essere che abbiamo registrato, e la sua indeterminatezza, si colorano

qui di una determinazione pratica che ne sconvolge interamente la definizione. Dal quadro generale, astratto,

indeterminato, indifferente, non può uscire una determinazione logica: esce solo una determinazione etica. Perché quel

quadro è appunto contingente, e la contingenza è in questo caso vera e propria precarietà dell¶essere, condizione di

negatività che in generale ed individualmente subiamo. Un tempo si diceva che l¶essere che la sua compiutezza che lasua fatticità non potevano essere disfatte. L¶essere insomma era il fondo stabile della nostra esistenza e tutto all¶essere

 poteva ritornare, così come dall¶essere si era staccato. Ma ora l¶essere può essere disfatto. Questo disfacimento non è

una legge fisica ma una possibilità storica, - può essere la conseguenza di un atto. L¶essere può essere distrutto da un

soggetto: non questa o quella porzione dell¶essere, ma l¶essere intero, il mondo, il mondo della vita. Viviamo

l¶indifferenza e la massima astrazione dell¶essere, ma improvvisamente, come nella luce di un lampo, intendiamo che

quest¶enormità dell¶essere nel quale il nostro spirito si confonde, può essere volontariamente distrutto. L¶essere rivela

dunque una natura etica: esso, per esistere, è sottoposto alla volontà, alla soggettività, all¶etica.

Con ciò siamo davanti ad un¶inversione epocale del senso umano della vita. E chiaro che, se ci poniamo il problema di

una analitica del conoscere e della sua crisi, non possiamo più porcelo nei termini di una epis temologia tradizionale.

Poiché infatti l¶oggetto stesso del nostro rapporto conoscitivo può scomparire e comunque è sottoposto ad una

congiuntura radicale che ne impedisce un apprezzamento statico. Ogni apprensione del reale non può dunque, in questo

momento, che porsi su quel punto dove la volontà e la conoscenza pratica percepiscono la possibilità dell¶essere di

essere e di non essere, di essere disfatto, ma anche e soprattutto di poter essere ricostruito. Ma di questo più avanti.

Torniamo al filo del nostro discorso. Abbiamo inizialmente osservato la generale indifferenza del quadro ontologico nel

quale siamo inseriti. Abbiamo poi identificato alcuni grossi rompicapi, che impediscono ogni nostra logica, in termini

tradizionali, da quell¶indifferenza. Il problema della determinazione, il problema scelta, il destino del conoscere

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filosofico, sono in dubbio dentro quella situazione. Ora, noi avvertiamo che la massima astrazione dell¶essere è la sua

totale, radicale, definitiva, resa alla contingenza: con ciò noi comprendiamo l¶essere come essere etico. Ma quando

raggiungiamo questa coscienza, noi la raggiungiamo dentro le articolazioni dei rompicapi analizzati. Se infatti

logicamente le alternative dell¶uno e dei molti, della medietà e della moltitudine, della potenza e del potere, non

riescono ad essere logicamente superate, pure esse per prime alludono ad un contesto etico nel quale ogni processo

fenomenologico si conclude: sicché la scoperta della contingenza radicale è il coronamento di quelle prime annotazioni

e il complemento formale del loro presentarsi al nostro spirito.

Ma la scoperta della contingenza non è semplicemente una nuova chiave per riuscire ad affermare che il processo

conoscitivo deve muoversi, direttamente dentro il piano dell¶esistenza, non è solo a capacità di affermare in maniera

indistinguibile il rapporto fra mondo della scienza e mondo etico, e quindi di ridefinire l¶ontologia come ontologiadell¶etico: tutto questo non basta, perché il rapporto tra indifferenza del mondo, sua qualità etica e radicalità della

contingenza ci pone in una situazione assolutamente tragica e deve quindi riqualificare in tal senso il nostro metodo.

Intendo dire che, attraverso a scoperta della contingenza noi poniamo in termini radicali il problema del fondamento:ma di nuovo in maniera completamente irriducibile alla tradizione, perché qui il fondamento non è il punto a partire dal

quale il mondo si spiega - al contrario, questo fondamento è il punto a partire dal quale si dà il massimo allargarsi della

dimensione della possibilità. Una possibilità tragica, un¶eventualità che la nostra ragione e il nostro cuore non riescono

talora a sopportare, - la distruzione, appunto dell¶essere, una morte tanto generalizzata da non possedere ripetizione, - la

fine, insomma, del tempo. Il fondamento non è quindi il più semplice degli elementi nei quali possiamo scomporre il

linguaggio etico e logico, quasi il seme da cui sorgono gli alberi della vita: no, il fondamento è qui una cellula che può

scindersi nella vita e nella morte, l¶elemento semplicissimo dell¶affermazione, della negazione, dell¶essere e del non

essere. Qui la dialettica non è evidente, anzi, non ha davvero nulla a che fare con il reale. In effetti qui esiste una regol a

esclusiva: o c¶è l¶essere o c¶è il non e ssere. Tutta la logica tradizionale e tutta la metafisica classica, entrambe basate

sulla partecipazione e su una qualche commistione dell¶essere e del non essere, qui vengono meno. La dimensione

metafisica ci si presenta come dimensione antagonista, la cr isi è l¶assoluto. Eccoci dunque a spiegare di nuovo come i

rompicapi non siano altro che delle superficiali modalità rispetto alla profonda essenza di un essere per la prima volta

 portato alla potenza del non esistere. Nella fenomenologia del mondo contemporaneo questa situazione metafisica ci è

 presentata come terrore. La contingenza è il terrore. Vale a dire che la sovradeterminazione come linea di soluzione del

rompicapi, come analitica della ragione che si oppone alla radicalità delle determinazioni empiriche, si presenta come

terrore. La soluzione trascendentale o formalistica dei rompicapi dell¶esperienza e della contingenza dell¶essere è

terroristica.

 Non è la prima volta nella storia del pensiero occidentale che una situazione di crisi, dinnanzi all¶ immediatezza dei

contrasti dialettici ed all¶impossibilità di raggiungere altrimenti una sintesi, cerca una soluzione sovradeterminata dal

terrore. Le pagine del << Leviatano >> costituiscono un punto di riferimento costante dell¶esperienza metafisica. E

quanto più la situazione diventa indifferente, tanto più il mondo delle immagini che regolano l¶esistenza degli uomini è

sottoposto a reazioni d¶ordine, ad operazioni di semplificazione esemplare e terroristica: il capro espiatorio, la

sostituzione del reale con l¶immagine, la necessità metafisica del potere, queste favole vengono raccontate da sempre e

da sempre funzionano come terroristica medicina alle malattie dell¶umanità. Ma ora noi ci troviamo di fronte ad una

determinazione del terrore che non tocca il mondo delle immagini, ma investe quello reale. Non è un capro espiatorio

attraverso il quale, pur rudemente, l¶essere possa essere risanato - non è questo che ci viene preparato, non è la vecchia

morale, la potenza del bene e quella del male che accrescono o diminuiscono l¶essere e che talora debbono essereesemplificate << in corpore vili >> - non è qui in gioco una concezione anche terroristica della pena come restaurazione

dell¶essere in riparazione di una colpa che l¶essere aveva offeso: niente di tu tto questo, - qui il terrore tocca la radice

stessa dell¶essere. Il terrore è tanto assoluto quanto è assoluta la contingenza dell¶essere. Il terrore non tocca il regno

delle immagini, dell¶analitica, ma quello del reale, dei significati. Vige nel regno de ll¶estetica trascendentale.

Come sono poveri tutti i tentativi di rinnovare i fasti idealistici dell¶analitica trascendentale in questa situazione! Si pensi al contrario a quel passaggio, già da noi ricordato, a quel passaggio centrale nella storia del pen siero

contemporaneo, che è registrato nel << Primo abozzò di programma sistematico dell¶idealismo tedesco >> il senso della

crisi era inteso nella sua radicalità e si voleva, a fronte della crisi dell¶individuo e dei lumi, identificare il passaggio che

dall¶estetica trascendentale potesse direttamente condurre ad una dialettica dell¶illusione vera. Ebbene, quel passaggio

 per quanto sproporzionato nelle dimensioni nelle quali oggi la radicale contingenza dell¶essere si presenta, pure è anche

oggi metodologicamente adeguato. Ed invece eccoci di fronte alla ormai secolare storia dell¶analitica plasmata in

dialettica, eccoci alla ripetizione di analitici stereotipi neokantiani su questo frangente, alle chiacchiere fra Hegel e

Heidegger, eccoci insomma di nuovo davanti alla apologia impotente della Krisis!

La determinazione esistenziale che segue la scoperta della radicale contingenza dell¶essere ci si presenta ora con due

caratteristiche. La prima riguarda la posizione che l¶analisi filosofica assume nell¶affrontare il tema dell¶essere, la

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seconda riguarda la natura dell¶essere. Ma sia la prima che la seconda di queste caratteristiche sono legate, in maniera

inscindibile, nell¶estetica trascendentale che qui viene definendosi. Vale a dire che non sarebbe possibile concepire il

restringersi della ragione al campo dell¶estetica trascendentale Se, contemporaneamente, la ragione non fosse

enormemente potenziata dall¶apprezzamento concreto della nuova potenza metafisica, che è appunto, insieme tragica ed

etica. L¶alternativa che l¶essere presenta, nella sua assolutezza, nella sua esclusività, implica la definizione pratica della

ragione. Questo senso della radicale contingenza dell¶essere ci pone in una situazione Cartesian, - non astratta tuttavia bensì eticamente motivata. Come è difficile esprimere tutto questo nel vecchio linguaggio della filosofia: com¶è difficile

dire dell¶eticità dell¶essere e di questa metafisica precarietà che tocca il livello dell¶estetica trascendentale in quantotale! La metafisica si è sempre organizzata in un sistema di livelli per cui il superiore illuminava l¶inferiore, o in un

sistema di incastri, quasi un grande gioco di bambole russe, dove l¶oggetto più grande conteneva il più piccolo e, per 

così dire, lo spiegava. Qui il linguaggio antico e specialistico della filosofia fa difetto , ed aveva ragione Foucault

quando, rinnovando il metodo nietzschiano della << Genealogia della morale >>, rinnova anche le regole sintattiche del

linguaggio della filosofia morale. Io vorrei qui tentare una simile via per quanto riguarda il linguaggio del la metafisica.

Ora, siamo in una situazione Cartesian, ma non individuale, come si è detto, bensì collettiva e astratta, eticamente

rilevante, - con ogni probabilità qualificata in termini antagonisti. Deve essere chiaro che qui noi dobbiamo risalire,

trattenendoli dentro il livello dell¶estetica trascendentale, a quei soggetti della descrizione fenomenologica che abbiamo

inizialmente colto. L¶alternativa dell¶essere riguarda così l¶intero campo sul quale l¶astrazione delle potenze conoscitive

e produttive diviene indifferenza, riguarda tutte le trafile che percorrono e qualificano queste dimensioni. Nel prossimo

 paragrafo cercheremo di vedere come il paradosso della contingenza dell¶essere possa riproporre un cammino positivo

 per la ricerca: qui ci basti in sistere sempre di nuovo sulla forza di comprensione e sulla capacità di riassumere in sé la

totalità, che ha l¶alternativa tragica dell¶essere. Questo nuovo territorio ontologico ed etico riguarda perciòl¶epistemologia nella sua totalità. E¶ evidente che tutti problemi andranno riportati alle dimensioni di questa drammatica

dualità delle potenze dell¶essere. La contingenza è totalità anche e soprattutto sul piano dell¶epistemologia.

4. L¶antagonismo come << principium individuationis >>. 

Se dunque la definizione dell¶essere come assoluta contingenza ci ha permesso di cogliere le condizioni per così dire

negative di un¶estetica trascendentale, ora probabilmente l¶approfondimento del discorso potrà permetterci di toccare

alcune condizioni positive di questo medesimo problema. Abbiamo già sottolineato come per contingenza assoluta

s¶intenda la possibilità della distruzione radicale dell¶essere, - e come l¶antico principio << Factum infectum fieri nequit

>> venga in tal modo messo in crisi. Ma nell¶approfondire la potenza negativa di questa percezione, non possiamo nédobbiamo dimenticare l¶altro aspetto inerente a questa strutturale determinazione: vale a dire che, se la contingenzaassoluta mostra l¶estrema possibilità di distruzione, di perciò stesso essa in dica una radicale possibilità di costruzione.

E¶ come se fossimo messi dinnanzi ai materiali semplici che compongono l¶essere, in una situazione limite di possibilità

costruttiva. Nella filosofia, più volte questi principi di costruttività sono stati propo sti: e forse la forma eminente nella

quale il principio si è espresso, è quel << Verum ipsum Factum >> che dobbiamo a Gianbattista Vico. Risparmio qui, a

me e al lettore la farraginosa ermeneutica delle fonti e delle interpretazioni: se il principio sia id ealistico o

materialistico, se assoluto o relativo, se spiritualistico e creativo o semplicemente filologico e costitutivo, ecc. ecc..

Certo, il principio riguarda il mondo delle immagini, interpreta il reale e non lo fonda radicalmente. Qui invece, quando

ci troviamo di fronte al principio della contingenza assoluta, viviamo un paradosso che investe interamente lo spazio,

meglio la separazione, estesi fra negatività e positività assolute. Non so come meglio spiegare questo paradosso, questa

tensione estrema del concetto, questa condizione anche emotiva - che ci coglie quando tentiamo di metterci in

situazione! Perché infatti non è semplicemente il << Verum ipsum factum >> quello che qui affermiamo - qui

affermiamo qualcosa di molto più profondo: << Ens ipsum factum >>. La storia umana, pervenuta all¶orlo della

distruzione dell¶essere, rivela a se stessa, e a tutti i soggetti umani che vivono la storia, che questa, e il mondo e lanatura stessa, sono una loro continua produzione. Non ci sarebbe mondo senza questa produzione. Quest¶affermazione

che è sempre stata fatta passare per idealismo assoluto, - oggi, la consapevolezza della possibilità materiale di

distruggere il mondo, ci rende come affermazione di un assoluto materialismo.

Lo abbiamo già accennato, ma ora, continuando nella ricerca, vale la pena di sottolinearlo più ampiamente. Dentro

questa radicalità fondativa della contingenza assoluta noi non verifichiamo un punto catastrofico bensì una tendenza

ontologica. Se pensiamo il punto catastrofico, se pensiamo il terrore, è solo perché questi poteri costituiscono delle spie

su un profondo corso dell¶essere, e cioè sul rapporto fra serie delle azioni umane e loro cumularsi complessivo. Il

mondo è questo cumulo, è questa complessità. La materialità che costi tuisce il passato del mondo viene così mano a

mano riassunta nella tendenza della storia. La natura diviene (sempre più) storia. Anche in questo caso è l¶attuale

 possibilità della sua distruzione che ce lo rivela, poiché la distruzione mostra la natura, il mondo naturale, come

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contingenza e quindi come qualcosa che nella misura stessa in cui può essere distrutta, può essere conservata - ma

conservare significa qui ormai produrre, riprodurre, sviluppare... La natura diviene una protesi dell¶uomo. Sempre di

 più, non è dell¶uomo la condizione ma ne è piuttosto la conclusione. E questo vale non semplicemente per la natura, ma

 per la totalità fenomenologica, per quella enorme quantità di beni, di infrastrutture, di condizioni materiali che la storia

umana ha costruito e che ora, su questo passaggio epocale (nel quale tutto è sussunto nel capitale e tutto può dunque

essere distrutto), è insieme condizione di distruzione o determinazione rinnovata da una potenza d¶innovazione. Allaradicale contingenza dell¶essere corrisponde così, proprio sul paradosso della mancanza di fondamento, una dinamica

continua, tendenziale, totalizzante, - il problema dell¶essere vi è implicato e con esso, necessariamente, quello dellastoria e quello dell¶ecologia, quello storico e quello scientifico.

E¶ chiaro che questa apertura di prospettive e di sublimi orizzonti in qualche modo potrebbe qui lacerare il drammaticoed estremo paradosso della contingenza assoluta, - è chiaro inoltre che questa serie di intuizioni del tutto metafisiche, se

da un punto di vista iniziale sono linearmente distese, potrebbe appiattire l¶indagine svigorendo l¶evidenza del continuo

rinnovarsi del problema - al contrario, tutto ciò annulla la percezione fondamentale della contingenza se la natura di

questa viene coerentemente e continuamente definita come antagonistica. Voglio dire che quell¶elemento di rottura, di

contrasto, di antagonismo, che risulta definire la medesima percezione fondamentale dell¶essere - come rapporto tra

 positivo e negativo, tra essere e non essere - che tutto ciò permane, si prolunga, si ripresenta su ogni punto dello

sviluppo della tendenza. Questa determinazione antagonista è qualcosa che partecipa di ogni azione umana, nella misura

in cui ogni azione umana contiene una particolare densità, costruttiva o distruttiva dell¶essere. Ed è proprio dentro il

continuo ridimensionamento del positivo e del negativo, dentro l¶infinita serie di rapporti che in questo modo si

determinano, è dunque in questo modo che l¶individualità, la singolarità umane vengono definendosi. Nella filosofia

seicentesca, quando l¶atomismo propone per la prima volta l¶alternativa tra distruzione e creazione dentro la prospettivadel meccanicismo, quest¶idea dell¶individuazione antagonista prende corpo. Oggi, quando il principio del rapporto fra

distruzione e costruzione è strappato all¶intelligenza aurorale dell¶atomismo e condotto alla sperimentazione etica,

sembra dunque che quel criterio di individualismo possa essere ripreso. Ma di ciò più avanti.

Qui, prima di ritornare sul criterio di individuazione, val la pena di sottolineare come le forti intuizioni che il pensiero

moderno alle sue origini aveva sviluppato, sul terreno dell¶estetica trascendentale, in vista della definizione della

singolarità, siano state ampiamente negate nello sviluppo successivo del pensiero filosofico. L¶analitica trascendentale è

la forma, come abbiamo visto, nella quale questa negazione si costruisce e si sviluppa. Ma non è la sola forma:

assistiamo infatti, con frequenza, ad una negazione che non è, per così dire, l¶assolutizzazione di un momento del

 processo conoscitivo - e con ciò la sua alienazione analitica della totalità, - è bensì una specie di storicistica o

teleologica forma di sottrazione del conoscere, dell¶uso conoscitivo dell¶essere. Vale a dire che il pensiero moderno,

tutto teso alla ricerca e alla giustificazione delle forme tecniche della riproduzione umana, ha rifiutato di cogliere

nell¶antagonismo - nell¶assolutizzarsi di questo - la chiave di volta dello sviluppo, e contemporaneamente della

determinazione dell¶identità umana. Una teodicea della scienza e della tecnica è così venuta sostituendosi all¶analisi

dell¶essere. I problemi del valore sono stati di volta in volta sottratti alla centralità che pretendevano sul terreno

dell¶essere, e portati davanti a tribunali di grado inferiore. Di fatto l¶essere viene in tal modo depotenziato, ed è un processo di depotenziamento, di subtribunalizzazione continua, quello cui assistiamo. Anziché mantenere la tragedia

dell¶essere come elemento che ne qualifica la presenza - e ciò era già stato ampiamente mostrato alle origini del

 pensiero moderno - invece dunque di mantenere questa potentissima presenza, la si fugge. Il pensiero contemporaneo

quando coglie la crisi, non la coglie come elemento di costruzione ma come incentivo alla fuga. Trasforma la crisi in

nihilismo, trasforma la morale della crisi in irresponsabilità ontologica. La dimensione globale, metafisica, profonda

nella quale si presenta il rapporto fra essere e non essere deve essere sfumata, sfuggita. Ci si dedica alla scienza ed alla

tecnica - ma non sono appunto queste ultime che ci riconducono ineluttabilmente su quell¶orlo della distruzione

dell¶essere? Che significato ha più, a questo punto, parlare di laicizzazione, o rig uardare con una punta di scetticismo, o

con elegante e colta ironia, la possibilità della distruzione? Il tragico percorre la nostra vita, ma è solo in quanto lo

riconosciamo, lo assumiamo, facciamo di esso la disutopia positiva della nostra conoscenza - è solo in questo modo che

riusciamo a garantire la libertà dalla distruzione e la sopravvivenza dello spirito. E¶ completamente

idiota la rivendicazione della laicità, contro la religione, se quella rivendicazione nasconde che la nostra determinazione

nasce sul ritmo della distruzione, è insomma una condizione tragica per eccellenza. Alla religione non si oppone il

laicismo ma si può solo opporre un¶altra religione - quella del materialismo, quella di chi sa che vivere o morire è

 problema suo.

Eccoci dunque in una situazione nella quale qualsiasi tipo di fuga dai problemi dell¶essere ci diviene impossibile. La

volontà amaramente si confronta con se stessa nell¶ambito di questa contingenza - e anche la ragione guarda

all¶opposizione che la costituisce, con fredda ma non meno timorosa attenzione. Ciò detto, v¶è di contro e

contemporaneamente quell¶aspetto dell¶essere nel quale risiede la possibilità di ricostruzione, di una ricostruzioneradicale e profonda, - v¶è dunque quest¶aspetto dell¶essere cui tentare di adeguare il cammino metafisico. Questo

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tentativo di adeguamento deve essere operoso - lo dico con qualche distacco, per distinguere le condizioni nelle quali

oggi un discorso sulla speranza è possibile, dall¶emergenza che questo tema ebbe nell¶ambito della filosofia

contemporanea fra le due guerre. Voglio dire che << Das Prinzip Hoffnung >>, il principio della speranza, non può qui

essere concepito, come invece lo fu da Bloch e da Benjamin, come blitz irrazionale che si sottraeva alla crisi,

all¶esaurimento delle condizioni della rivoluzione - qui la speranza nasce dopo Auschwitz e Hiroshima, qui nessuno

fugge più nulla. Qui speranza, dunque, è la stessa cosa dell¶operare, e un senso della mancanza di fondamento talmente profondo (e che ci teniamo sulle spalle), è la sorpresa del vivere quotidiano - la nostra speranza non ci fa attendere nulla

se non il miracolo della nostra quotidiana riproduzione. Ma tutto questo è una forza enorme, tutto questo contiene il principio etico dell¶estetica trascendentale. Dagli anni `30 a noi è cambiato solo questo - ed è enorme e cioè che

l¶approfondimento del concetto di crisi è pervenuto all¶essere, ha strappato i veli letterari e filosofici che lo mostravano

come risultato intellettuale dell¶analitica, per diventare una cos a. Una cosa reale, che si tocca, un incubo che si vive, un

terrore che si subisce. E¶ questa materialità della crisi e dell¶essere nella crisi che la speranza interpreta. La chiamiamo

speranza perché non sappiamo come altrimenti chiamarla; e qualcuno potrebbe ironizzare, e dire la desuetudine di

questo termine, senza tuttavia per questo scandalizzarci. Prendiamola dunque questa parola come un neologismo per 

identificare quel rapporto operoso che si stende tra la condizione negativa e catastrofica e quella positiva e creativa

dell¶essere.

Solo su questo terreno, dentro cioè l¶antagonismo oggettivo che l¶estetica trascendentale rivela, dentro il presentarsi con

 polarità contrarie dell¶essere, dentro l¶eticità del nesso che tutto questo collega ma che nello ste sso tempo tende in

maniera insopportabile - qui il processo di individuazione si dà. Sarebbe bello - altrove lo faremo - riportare a questo

 proposito la nostra memoria al << Libro di Giobbe >>, dove appunto il problema metafisico dell antagonismo, della

colpa e della retribuzione materiale, pervengono poeticamente ad una fantastica quanto materialmente determinatadefinizione dell¶individuo. Ora, è appunto questo il terreno sul quale, rompendo con l¶indifferenza dell¶orizzonte

 postmoderno, del capitale sussunto, della comunicazione onnicomprensiva ed equivalente, la soggettività si pone. Credo

che il processo logico attraverso il quale la determinazione complessiva si realizza, sia qui ormai chiaro. Ma non si

tratta, in primo luogo, di rompere o di interrompere il meccanismo circolare che costituisce il tessuto fenomenologico

del mondo. Si tratta invece di considerarne la condizione metafisica, e cioè quella destinazione alla distruzione che esso

ha in se stesso. In secondo luogo, questa contingenza rivelata, si mostra come paradosso: quindi essa si apre ad

un¶alternativa completamente etica, l¶alternativa dell¶essere e del non essere. Questa alternativa qualifica in termini

tendenziali l¶intero universo dell¶esistente. Noi la percepiamo ed è collocandoci nell ¶intreccio delle pulsioni negative e

 positive che da questa tendenza sono prodotte, che determiniamo la nostra individualità. L¶orizzonte analitico negava

ogni individualità, meglio, confondeva la singolarità in una circuitazione continua ed equipollente. Quest¶orizzonte era

insuperabile, era un labirinto logico, una Babilonia linguistica ed una sodoma morale. E¶ solo il senso della distruzione,di questo mondo logicamente ed analiticamente corrotto ma anche, con esso, dell¶essere stesso, è dunque solo questa

distruzione che ci rimette davanti all¶essere. Un essere fondamentale perché lo si può distruggere o ricostruire, un

fondamento che è contingenza assoluta. E la singolarità viene determinata dalla tensione che a contingenza comprendein definizione. L¶estetica trascendentale viene così positivamente determinandosi.

5. Per un¶estetica trascendentale del corpo.

Zenone a Socrate: << Il volgo infatti ignora che al di fuori di questa strada che passa per ogni dove, di questo

trascorrere di cosa in cosa, è impossibile fare in modo che la nostra mente incontri la verità >>. (Parmenide 136e).

....

Quando si pone, contro l¶analitica, il problema dell¶estetica trascendentale, e lo si pone in termini propri, è bene subitoaggiungere che la ricerca non potrà che passare << per ogni dove >> e cioè esercitarsi attraverso approssimazionisuccessive, sciogliendo per così dire le categorie analitiche dentro l¶esperienza, innalzando i contenuti dell¶esperienza a

trasparenza concettuale. Questo processo di ricerca è un vero e proprio processo costitutivo. Abbiamo visto le

condizioni generali, metafisiche che stanno alla base di questo nostro avanzare: qui dobbiamo vedere come giudizi

analitici vengono costituendosi, in maniera necessaria, a posteriori. La costituzione del giudizio analitico a posteriori è

quindi, in questo paragrafo, il nostro fondamentale problema.

Deve essere chiaro - e questo lo diciamo prima di entrare nel merito dell¶argomentazione - che quando si parla di

giudizio analitico a posteriori, e cioè di giudizi dotati di un contenuto empirico che in quanto tale garantisce, mostra,

 produce, la verità del giudizio stesso - quando dunque si parla di giudizio analitico a posteriori, non solo si assume con

la massima forza un¶estraneità logica dai giudizi a prior i o a posteriori in generale, ma soprattutto si prende distanza

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dalla teoria kantiana dei giudizi sintetici a priori. Nel rovesciamento dei termini (poiché sintetico può stare per a

 posteriori ed analitico per a priori) uno spirito sofistico potrebbe infat ti facilmente arzigogolare di simiglianza di

approccio ed analogie di contenuto. Non è così: nella gnoseologia kantiana l¶elemento assolutamente preminente è

quello a priori in quanto esso rappresenta un attività formativa e la sintesi empirica è completam ente subordinata

all¶orizzonte trascendentale, - vale a dire a quell¶orizzonte sul quale si condensa ogni attività produttiva della ragione.

Quali che fossero le ambiguità kantiane a questo proposito, nessuno può negare la profonda coerenzadell¶interpretazione idealistica del fondamento trascendentale. Nella nostra terminologia, e al fondo del nostro progetto,

<< analitico a posteriori >> rovescia radicalmente l¶impostazione kantiana. Significa infatti che l¶elemento necessariodella conoscenza, il momento formativo del processo e della tendenza conoscitivi, risiedono nell¶esperienza empirica.

Tutto ciò può avvenire (e in questo può essere verificato il superamento delle aporie tradizionali dell¶empirismo),

 perché la nostra empiria, il mondo nel quale noi r ecuperiamo verità è quello disegnato, in termini di comunicazione, dai

grandi flussi di significati che costituiscono ogni orizzonte sensato. Strano paradosso questo: nella grande corrente dello

scetticismo linguistico moderno, formatasi tra Frege, Russell e Wittgenstein, la distinzione tra l¶orizzonte del senso e

quello del significato era intera ed insuperabile; di fronte alla precarietà ed alla contingenza dell¶orizzonte del senso,

sfumava dentro una lontananza irraggiungibile l¶universo materiale dei significati; ma ecco il rovesciamento: poiché

nella misura stessa in cui il mondo del senso linguistico e comunicativo diveniva esclusivo, su quel mondo si scaricava

l¶essenzialità fondamentale del vivere. Così la grande svolta linguistica della filosofia contemporanea indefinitiva non

solo non produce scetticismo ma al contrario ci restituisce un¶ontologia dei significati, un mondo sí circolare e fluente

ma dentro il quale, a posteriori. La necessità della determinazione si articola all¶emergere della verità . Ecco dunque in

che senso per noi, qui, il giudizio analitico a posteriori può darsi.

Direi che un ulteriore paradosso è qui verificabile ed utilizzabile in nostro favore. Vale a dire, riprendendo laterminologia kantiana: l¶analitica trascendentale aveva, in Kant e nell¶idealismo per così dire divorato, a valle, l¶estetica

e, a monte, la dialettica trascendentale. Ed aveva, di quest¶ultima, fatto un feticcio scettico, un regno di illusioni, false

ma non per questo meno efficiente. Ora, la riconquista dell ¶estetica, la denuncia dei processi di significazione che

l¶analitica dovrebbe produrre, l¶emergere della determinazione vera sul piano dell¶effettualità comunicativa: tutto

questo ci restituisce una dimensione della dialettica trascendentale non più soggiogata nel regno delle illusion, false

 bensì intesa come tessuto di continuità conoscitiva e proiezione di immaginazione vera. E¶ nel dislocamento di questi

livelli, nell¶articolazione tra queste funzioni parziali, che mano a mano viene costituendosi << l¶a nalitico a posteriori

>>.

Ma che cos¶è dunque (oltre la pregnanza gnoseologica della dizione: analitico a posteriori) il contenuto conoscitivo che

è, attraverso questo giudizio, innalzato a verità? Ora, iniziamo in termini polemica. La verità della determi nazione non

 può essere colta in termini intuizionistici né comunque condizionata dalla pretesa psicologica di apprensione di un reale

che, in quanto tale, indipendentemente si dia. Noi viviamo un mondo attraversato da mille sensi, siamo collocati dentro

una rete di relazioni che sole rendono questo mondo significativo. Ciò che è fondamentale, non è dunque indurre, al di

là di questa rete, dei sostrati stabili quanto irraggiungibili - importante è fissare la materialità, la irresolubilità di queste

relazioni. Che la definizione dell¶oggetto non, possa passare se non attraverso la categoria della totalità e cioè laconoscenza sia della relazione oggettiva che di quella soggettiva che s¶addensano sull¶oggetto: è una verità ormai

solidamente piantata nel tessuto scientifico del materialismo moderno. Eppure spesso il criterio della relazione, se non il

suo contenuto specifico, era convalidato da un elemento esterno alla relazione. Tipica è, a questo proposito, la posizione

di Marx: per lui i rapporti costituenti s oggetti, gli antagonismi, processi di produzione e le articolazioni di questa, sono

garantiti dalla teoria del valore, - ed è da lui solo lontanamente prevista una fase (la sussunzione reale della società nel

capitale) nella quale i rapporti di produzione e i valori reali non si distinguono né si duplicano in funzione astratta.

Dobbiamo attendere la più vicina modernità, ed in particolare gli autori della << svolta linguistica >>, per ritrovare la

garanzia del criterio dentro le relazioni che formano l¶oggetto. Quest¶operazione è pagata da talora consistenti

concession al formalismo - questo, almeno, in Frege e in Russell - molto meno è vero però già nell¶ultimo Wittgenstein

dove l¶orizzonte linguistico esalta una certa ombrosa ontologia. Non basta: dobbiamo liberarci di ogni minimo residuo

dialettico, formalistico o tautologico che esso sia. E¶ questo il programma positivo che presiede alla definizione

dell¶analitico a posteriori. Ora, quando noi ass assumiamo- l¶oggetto, non possiamo perciò che verificarne fin da subito,con l¶insistenza della relazione che lo definisce, la potenza e la direzione, il vettore insomma sul quale esso si orienta tr a

le relazioni che lo costituiscono. Vale a dire che le condizioni conoscitive non vengono logicamente poste - le

condizioni conoscitive sono condizioni di esistenza: solo l¶ << a posteriori >> libera l¶analitico dalla tautologia,

dall¶isolamento nella sfera del puro senso logico, dall¶incapacità di farsi corpo. In effetti la relazione dev¶essere per cos ì

dire scissa, interrotta, geometricamente trasformata in una serie di funzioni diversamente disegnate, che sempre tuttavia

si ricondensano sull¶oggetto. Tutto questo non è logico nel senso che esaurisce la proposizione in un mondo

autosufficiente capace di una propria circolare riproduzione. No, qui il termine logico va, alla maniera classica, riportato

alla capacità di piegarsi, di modularsi, dentro il concreto. L¶analitico sorge dunque qui, da questo non poter essere

diverso dal reale che è descritto dalle relazioni, da questa immanenza assoluta dell¶approccio filosofico. L¶analitico

dunque può e deve trovare il suo rapporto con la contingenza. Il problema logico di un¶estetica trascendentale di tipo

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nuovo muove, come abbiamo visto, dalla rideterminazione dell¶essere come contingenza. La contingenza è l¶essere così

come ci è presentato, nella sua mobilità, nella sua versatilità, ed insieme è l¶affermazione che l¶essere non può essere

diverso. Vi è una verifica analitica della contingenza ed è la necessità che l¶essere sia contingente. Con ciò noi parliamo

dell¶assoluta necessità che la dimostrazione scenda sempre a scontrarsi con il reale e a nutrirsi di esso e ad esasperare il

rapporto in esso. Le condizioni di un¶estetica trascendentale sono in questo processo. Se ci chi ediamo di nuovo se esse

siano sufficienti, in quanto condizioni logiche, a garantire la costituzione dell¶oggetto, possiamo ora dichiararel¶insufficienza dell¶affermazione. Meglio tanto la sua necessità quanto la sua insufficienza. Della necessità abbiamo

detto, e qui, in conclusione, possiamo sottolineare ancora l¶importanza di questo procedere << per ogni dove >>, manon senza una precisa direzione. Che questo processo non arrivi ad una conclusione definitiva è d¶altra parte necessario:

 perché la contingenza che caratterizza l¶analitico nella figura che questo assume sull¶orizzonte comunicativo, in nessun

caso permette una chiusura logica del discorso La contingenza, come abbiamo visto, è a chiave che apre la logica

all¶ontologia - ma soprattutto apre l¶ontologia all¶etico. E¶ su questo terreno, è nella prospettiva del fare, del costruire,

del costituire a nuova realtà del mondo e della comunicazione - e dunque in questo processo etico che l¶estetica

trascendentale del materialismo viene definendosi. Potenza, tendenza, antagonismo si disegnano dentro questo sviluppo

etico, ed il rapporto tra processo conoscitivo e verità, fra contingenza e necessita deve essere a questo contesto riportato.

Ma, insisto, questa conversione etica del processo conoscitivo non indebolisce, né toglie né elimina la specificità della

ricerca logica: ne indica semplicemente l¶insufficienza, esattamente quella che nella filosofia di Frege, di Russell e di

Wittgenstein è stata definita. Ne qui, sul a definizione di questa insufficienza , ci si può ancora fermare. Basti aggiungere

che non v¶è specialismo che possa trattenere e imprigionare la ricerca filosofica, se gli stessi termini della logica

rivelano un limite e richiedono un dislocamento. Questo dislocamento va compiuto - su di esso ogni strumento del

 pensiero filosofico va riapplicato. Così torniamo al rapporto fondamentale - quello definito dalla contingenza - ai suoi

diversi aspetti, ai suoi diversi gradi , al dualismo radicale che la domina. La logica è il corpo. L¶etica è il cor po.

6. Il concetto di costituzione pratica. 

Lo sviluppo della ricerca continua a spingerci verso l¶ontologia etica. E¶ solo sul terreno dell¶ontologia etica infatti che

le antonomie e i rompicapi della conoscenza potranno essere risolti.

 Nella nostra introduzione abbiamo letto e commentato il << Systemprogramm >> - qui, ora, siamo collocati laddove

esso intuisce il passaggio fra estetica e dialettica trascendentale. Questo passaggio è, qui come là completamente

inserito nella trama dell¶essere. Era il momento più alto di una concezione idealistica a natura si faceva storia, idea. Qui

quell¶assoluto si rovescia, come sempre avviene quando lo spingiamo - meglio le forze materiali della storia lo hanno

spinto - fino al suo opposto. Qui è la storia che s fa natura, o meglio, è la natura che assume un ventaglio di protesiorganiche e strutturali. La natura si modifica attraverso una sorta di assimilazione cibernetica di tutte le protesiintellettuali che ad essa si sono applicate. E¶ uno straordinario arricchimento, quello cui assistiamo: non è solamente a

forza produttiva del lavoro umano che raggiunge altissimi punti di qualità, assimilando a sé tutto il sapere, e

l¶intelligenza, e l¶immaginazione che una civiltà superiore sanno produrre - non è solo questo, anche se il processo

avviene sui ritmi dello sviluppo della produzione e dell¶arricchimento della forza lavoro: è in realtà l¶intero mondo

umano a conquistare questa strana e nuova figura. Si potrebbe parlare di una << seconda natura >>, ma forse anche di

una terza, o di una quarta, o di un¶ennesima potenza della natura tanto l¶insieme delle facoltà umane è venuto

modificandosi, poi trasformandosi ed arricchendosi. Nessuno può dire quale sia il senso, in meglio o in peggio, di

questa trasformazione - non ci sono teleologie storiche o antropologiche che possano fissare un termine alla querelle

degli antichi e dei moderni. Detto ciò, e messe le mani avanti in ogni senso, v¶è un¶unica cosa che si può dire con

certezza: ed è che è aumentata la capacità di fare, quella specifica capacità umana di fare che è legata all¶uso degli

strumenti. Ma questo incrementarsi della ragione strumentale ha condotto al di là dell¶orizzonte degli strumenti: il fare è

divenuto natura, ha di questa colto la forza immediata, l¶essenza irreversibile, a corporeità irriducibile.

Con ciò il discorso sulla costituzione pratica dell¶essere e sulla fondazione etica della logica divengono sempre più

evidenti. Innanzi tutto quella soggettività naturale, che fino a questo punto abbiamo seguito nella sua trasformazione, si

 presenta come essenza collettiva. Questa essenza collettiva é tale in senso proprio, vale a dire che ogni soggetto è

attraversato da un insieme di relazioni che lo definiscono in quanto tale. Ma collettivo in senso proprio sign ifica ancheche la capacità produttiva individuale e l¶essenza umana singolare così costituitesi, sono una determinazione universale.

Il divenire sempre più astratto dell¶intelletto umano, il divenire sempre più astratto della forza -lavoro - questo processo

di astrazione, questo straordinario incremento della ragione strumentale producono il paradosso di una nuova singolarità

(e la reale soluzione di questo paradosso). L¶astrazione astrae sulla vecchia natura, costruisce indecenti protesi su un

vecchio corpo mutilato - ma a partire da ciò l¶astratto è assorbiti nella nuova corporeità e le protesi si perdono nel

 prodursi del nuovo corpo. Tutto questo è tanto collettivo quanto sempre il concetto di natura è stato universale:

collettivo è qui dato in termini di ontologia logica. Vi è di più: ed è che questa corporeità nuova rivela due

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caratteristiche fondamentali. Tanto fondamentali quanto lo sono, in genere, le caratteristiche strutturali dell¶essere. I due

caratteri sono quelli della virtualità e della irreversibilità, il primo come funzione elastica e il secondo come funzione

rigida nello sviluppo di un¶etica costitutiva. Per virtualità intendo quella estrema determinazione del pratico che

rappresenta l¶essenza della sempre nuova determinazione singolare dei soggetti. Parlo di possibilità pratica, reale, come

rapporto fra una serie di determinazioni e la semplificazione di queste nella scelta. Rifiuto qui ogni determinazione della

 possibilità che ne annulli la capacità costruttiva, immergendola in una serie indefinita di predisposizioni e diopportunità. Virtualità è, di contro, il rapporto che, in maniera determinata, si costruisce fra un contesto storico già

consolidato, nel quale solo una serie di tendenze sono prevedibili, - e, d¶altra parte, quella pratica di decisione che fraqueste storicamente imitate ma ricche opportunità razionali, sceglie e quindi costituisce realtà singolare. E¶ chiaro che

quando si parla di ontologia etica si assume un tale profondo intreccio di logica e di etica, di giudizi di fatto e di giudizi

di valore - intreccio inteso alla costituzione della realtà stessa - che non si può più distinguere nettamente fra i due

livelli. E¶ questa constatazione un abbassamento del potenziale di libertà che è proprio del soggetto? Io non lo credo

 poiché è solo se noi consideriamo il tessuto delle scelte come tessuto preformato e percorso da tendenze concrete, è solo

in questo caso che un concetto di libertà in quanto concetto di un¶attività pratica, può darsi. Intendo dire che la nozione

di possibilità diviene reale solo trasformandosi in concetto di virtualità, con lo spessore e l¶intensità che questa

differenza registra.

Ma ciò detto è evidentemente chiarito anche il concetto di irreversibilità. Esso è, per così dire, il momento rigido della

virtualità, la statica che completa la dinamica. L¶irreversibilità è quel punto sul quale una piccola ma essenziale

catastrofe, un salto di qualità, si danno all¶interno dell¶essere, nel processo della sua costituzione. L¶accumulo di tutte l e

esperienze ad un certo punto diviene un evento rivoluzione. E¶ come quando guardiamo un disegno ed improvvisamente

cogliamo la bellezza di un particolare che ci era sfuggito e questo ci sembra trasfigurare l¶insieme dell¶opera checonsideravamo. Irreversibile è il mutamento della logica dell¶esistente: vale a dire che d¶ora in avanti, quando questo

 passaggio sia stato rivelato, tutti gli elementi della considerazione dovranno essere organizzati da una nuova logica,

interna all¶esistente considerato. Irreversibilità è chiusura di un processo genetico ed apertura di nuove genealogie.

Irreversibilità è definizione di nuove virtualità e rivelazione di nuove tendenze.

 Nel definire queste caratteristiche essenziali dell¶essere nell¶ambito di un ontologia etica, noi perveniamo al concetto di

virtualità e di irreversibilità da vari punti di vista. Innanzittutto, come si è visto dall¶apprendimento del rapporto tra

logica ed etica, fra giudizi il fatto e giudizi di valore, - meglio, dalla soluzione pratica dell antinomia che la

considerazione separata di codesti due giudizi può produrre. Solo infatti la dimensione pratica, l¶atto razionale di

volontà, qualora siano inseriti in un orizzonte collettivo, possono permetterci di riconoscere positivamente, e di agire

costruttivamente, quello lato che distingue il conoscere dal valore e di riconquistarlo all¶unità dell¶essere. Ma vi sono

altri punti di vista dai quali una nuova concezione dell¶essere - quando sia considerata attraverso la rappresentazione

della natura, può essere avvicinata. Ci spingono innanzitutto avanti le versioni più attuali e critiche della teoria delle

innovazioni nella ricerca scientifica intendo riferirmi alla teoria dei paradigmi. Essa non ha un fondamento neo-

kantiano, - essa è una teoria ontologica della scienza vale a dire una considerazione del rapporto che la scienza

intrattiene con la natura per modificarla, per costituirla, quindi per conoscerla. Quando assistiamo ad un mutamentocatastrofico del paradigma scientifico noi percepiamo allora un vero e proprio sussulto dell¶essere. Il nuovo paradigma

sarà irreversibile ed aprirà nuove virtualità. Ancora, un altro punto di vista a partire dal quale possiamo avvicinarsi a

questa concezione della natura, è quello storico intendo il punto di vista di quella storiografia dei movimenti sociali che

 permette di definire il passaggio dall¶una all¶altra composizione del soggetto storico, e di costruire tendenze e virtualità

a partire dal salto qualitativo, dalla novità radicale, che una nuova composizione mostra a fronte dell¶accumularsi delle

stesse esperienze intervenute nel suo processo genetico. Anche in questo caso vi è una catastrofe, una modificazione

radicale, che talora in termini storici diciamo << rivoluzione >>, - che in ogni caso residua una qualità assolutamente

nuova dell¶essere collettivo.

Ecco perché, per l¶oggi, parlavamo e continuiamo a parlare di nuovo giusnaturalismo. Qual¶era lo statuto teorico del

giusnaturalismo classico dei secoli dal XVI al XVIII? Era questo: la teoria giusnaturalista si poneva come immanenza

catastrofica contro a concezione teistica dell¶autorità e del valore, come teoria progressiva, individualistica contro la

concezione organica e tradizionale del valore. Vale a dire che la teoria del giusnaturalismo era una chiave dinamica di

 proposta trasformativa, di distruzione dell¶unità sociale ipostatica, di trasformazione pratica e di lettura moderna di

questa. Il salto avviene all¶interno del progetto: che la teoria giusnaturalistica fosse essenzialmente individualistica non

toglie il fatto che essa rappresentasse, in termini logici, l¶universalità di una pretesa di rinnovamento, anzi la sua

 progressiva effettualità. Così, dirsi nuovamente giusnaturalisti significa assumere il nuovo concetto di natura, questoconcetto di una natura trasformata, dentro la quale la rivoluzione è divenuta fondo stabile del sapere e dell¶agire - come

fondamento irreversibile e come definizione di possibilità nuova.

Altrove ho cercato di definire questo processo di singolarizzazione dell¶essenza astratta come apparizione del tempodella vita contro il tempo del potere, dimostrando come il secondo costituisce una macchina che riduceva a zero la

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 potenza del lavoro e del sociale. Ma quest antinomia può essere moltiplicata - ed anche nel corso di questa ricerca

abbiamo visto all¶opera alcuni rompicapi che ci sono sembrati avere una radicale funzione di rottura rispetto all

orizzonte logico della tradizione. Mi chiedo: in un estetica trascendentale del corpo e della comunità, quand¶anche le

condizioni logiche fossero date, non resta troppo generico il rinvio ad atti di significazione etica perché se ne possano

trarre indicazioni efficaci al superamento dei rompicapi. Altrimenti detto è possibile costruire comunità senza risolvere,

logicamente ed anticipatamente, i rompicapi dello spirito? Ora, io penso che a questo interrogativo si possa dare risposta positiva. E penso anche che la sola soluzione dei rompicapi sia pratica. La ricerca deve quindi procedere. Ma l¶abbiamo

fatto, credo, in maniera da non essere imprigionati da lle caratteristiche esterne del rompicapo. Vale a dire: il rompicaponon è un¶antinomia in generale, esso è un¶antinomia costruita dentro un paradigma e quindi una determinazione storica

 precisa, una produzione determinata.

 Non vi è superamento del rompicapo, vi è solo modificazione del paradigma. Ecco perché una risposta diretta alle

questioni poste dai rompicapi, non può essere una risposta diretta, ed ecco perché possiamo rispondere al quesito su

come sia possibile pensare il corpo e la comunità, prima d i, e fuori da, una soluzione dei rompicapi. Questa possibilità è

essa stessa pratica perché il paradigma è pratico. E¶ solo sulla base di un dislocamento globale che la questione diviene

risolvibile. Di nuovo allora possiamo pensare che l¶andare avanti nel pensiero della rivoluzione è, come prevedeva il <<

Systemprogramm >> e come dicevamo nella nostra introduzione, possibile solo a partire dalla rivoluzione come

 preambolo. Come preambolo storico determinato, dato. Come modificazione di paradigma già intervenuta.

 Nel << Systemprogramm >> si auspica la costruzione di una nuova mitologia sensibile. Questa richiesta è del tutto

collegata sia all¶urgenza di passare dal terreno della logica a quello dell¶agire etico -collettivo, sia dalla necessità di

trascorrere dall¶estetica trascendentale alla dialettica trascendentale. Il superamento dell¶analitica consiste in queste due

operazioni. Invero, di una mitologia abbiamo bisogno. In questo mondo nel quale ogni determinazione positiva si è

trovata travolta nell¶insensatezza di una circolazione pura; in cui ogni insistenza etica è stata subordinata ad emergenze

ciniche ed i valori e i disvalori sono intercambiabili - bene, una mitologia, un disegno empirico del valore sembrano

nuovamente necessari. Non certo per fondare pretese profetiche o retoriche, non certo per legittimare riduzioni della

complessità problematica, insomma, non per dare fondamento a ciò che fondamento non ha: ma solo per aprire un

orizzonte che sappia di nuovo... Una mitologia della ragione etica diviene così non tanto indicazione positiva di un

cammino da percorrere quanto definizione di un orizzonte da riconquistare. La dialettica trascendentale, oggi, non può

configurarsi che come momento di costruzione dell¶immaginazione vera, a partire da un¶estetica trascendentale

dell¶immediatezza. Contro ogni analitica, contro ogni pretesa regola della ripetizione, e contro ogni coazione formale,

anzi, assumendo tutto questo come oggetto specifico della critica razionale, di una critica che attraversa l¶empirico per 

esercitarvi la scelta etica, la pratica trasformativa - questo è il passaggio dall¶estetica alla dialettica trascendentale. Ed è

qualcosa di straordinariamente pieno di incompiuto - direbbesi, di inconcluso a monte; a valle di una straordinaria

virtualità creativa. La conclusione di questo processo infatti si potrà cominciare a scorgere solamente quando esso si

svolgerà completamente sul terreno della realtà corporea, della storia politica e della costituzione comunitaria. Noi

 possediamo - è quanto attiene alla modificazione del paradigma, è il contenuto della << rivoluzione come preambolo >>

- noi possediamo un¶irreversibile virtualità di astrazione completa del mondo, di sua singolarizzazione adeguata, quindi,di costruzione di una nuova corporeità creativa, di un sapere portato al più alto livello dei bisogni, del desideri, dei

 piaceri. Questo processo si svolge: ma ogni verifica completa è solo costruzione piena. Nelle attuali condizioni

l¶indefinitività di questo processo è rappresentata da un passare continuo da uno ad un altro grado dell¶essere ed il

 passaggio è indefinito quand¶anche esso si dia da un grado minore ad un grado maggiore di essere. Certo, vi è

comunque un arricchimento, dentro questa rivoluzione continua, dentro questi movimenti dell¶essere. Ma quando

riusciremo a dare un senso collettivo e una definitiva logica compiutezza a questo processo? Quando la soddisfazione e

la gioia etiche si sovrapporranno all¶etica della ricerca e della lotta? Io non vedo risposta. Siamo giunti al punto c he

nella scissione che domina questo mondo, nelle dinamiche che contro l¶ontologia etica sono messe in atto dal potere,

questa istanza e questa urgenza di mito, sono mistificate nella miseria del media. L¶illusione falsa viene opposta

all¶immaginazione vera. Così come il tempo dell¶uno, dell¶organizzazione e del potere vengono opposti al tempo dei

molti, della comunità e della potenza. Una lotta mortale si sviluppa fra queste opposte tendenze - e noi abbiamo visto

come questa lotta mortale sia inserita alla stessa radice dell¶essere - laddove la contingenza, nella sua assolutezza,costituisce assoluta mancanza di fondamento e radicale possibilità di alternativa. Di vita o di morte. Di essere o di non

essere. Un¶estetica della ragione è tuttavia, proprio per questo, oggi possibile ± e, contrastando ogni pretesa analitica, è

con tutta probabilità possibile progettare, a partire da quell¶estetica, determinazioni dialettiche.

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Capitolo Secondo

<< Metus-superstitio >>: ossia sulla produzione di soggettività nel capitalismo maturo.

1. Il concetto di sussunzione reale e il problema dell¶analitica. 

Il processo di sussunzione reale della società nel capitale ci restituisce a società come un enorme involucro di atti

circolari ed uniformi. Noi viviamo dentro quest¶ordine, dentro questa << Umwelt >> ordinata. La ricerca storica si

combina qui con la ricerca teorica nel dare, di questa forma della società, il quadro compiuto. E mentre la ricerca storica

ci permette di seguire l¶intreccio delle varie funzioni sociali ed il loro costituirsi in un tutto unico il confondersi del

lavoro produttivo e del lavoro improdutivo dentro un circuito del valore che ne toglie la differenza, - la ricerca teorica ci

 propone il problema della sovrastruttura e ci mostra come il rapporto, altre volte evidente, con l¶infrastruttura, sia ormai

definitivamente concluso. Concluso dentro un¶indifferenza materiale che, se permette di cogliere la genesi delle due

formazioni materialmente ce le dà completamente unificate, indistinguibili, inseparabili << Da Marx ad Althusser >> lateoria marxista ha descritto la crisi del rapporto struttura -sovrastruttura mostrando lo sviluppo del processo già indacato.

Da ultimo Althusser, descrivendo il funzionamento delle apparecchiature ideologiche dello Stato, ha ampiamente

mostrato come questi momenti cosiddetti sovrastrutturali fossero essenziali alla riproduzione della società capitalistica

in quanto tale. Ma le indicazioni di Althusser, per quanto corrette, non sono sufficienti a descrivere la situazione

determinata nella sussunzione reale. Qui il reciproco compenetrarsi del vari livelli di produzione, delle merci così come

delle norme, diviene totale. Quella che già si chiamava sovrastruttura, ovvero gli elementi ideologici, teori ci, dottrinali,

ecc. ecc. che descrivevano la realtà registrandone in maniera mistificata il riflesso e riproponendolo efficacemente verso

e contro l¶empiria - ora vive una vita completamente interiore allo sviluppo delle strutture produttive.

Quest¶orizzonte che abbiamo dinnanzi, questa << Umwelt >> nella quale siamo immersi, non permettono di operare fini

distinzioni: certo gli apici delle determinazioni, più empiriche o ideologiche, possono essere sempre indicati ma la

determinazione fondamentale è quella della compenetrazione e dell¶interna articolazione. Tutto questo ha un risvolto

 pratico, immediatamente pratico. La nostra società è organizzata per questa confusione di livelli per mistificare la sua

totalità produttiva e gli antagonismi che questa totalità reggono. Gli strumenti di potere e i momenti normativi, da

questo punto di vista, sono completamente interni al sociale. Si potrebbe dire che il sociale non potrebbe esistere - nella

forma, è ovvio, adeguata al grado di produttività attuale - se questa compenetrazione degli elementi di comando e delleregole normative, alle articolazioni del sociale non fosse data. Ma vi è di più. Non solo il sociale è genericamente

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assunto nel meccanismo di capitale, non solo le apparecchiature ideologiche di Stato diventano fondamentali nella

riproduzione ordinata della società, non solo infine la produzione di merce e di norme si articola e si confonde sul

livello sociale: non solo tutto questo dunque, - la società della sussunzione reale si caratterizza anche come tentativo di

 produzione diretta della soggettività. C¶è un nesso evidente fra determinazioni strutturali e determinazioni

sovrastrutturali, che attraversa la soggettività. Tutto questo è stato ampiamente sottolineato nella teoria. Ma oggi ci

troviamo di fronte a ben altro, poiché questo nesso (che interpreta e veicola la forma specifica del comandocapitalistico) tende a costituire la soggettività. La costituzione capitalistica della soggettività diviene così momento

centrale nella fase della sussunzione reale. Avevamo detto << da Marx ad Althusser >> per descrivere la crisi e lemodificazioni del rapporto struttura e sovrastruttura, - ora possiamo dire << Da Althusser a Marx >> per indicare

quanto si sia approfondito il rapporto di produzione della soggettività: è come una nuova accumulazione primitiva;

come in quella, in questa fase di sussunzione reale, si costruiscono non solo le condizioni della riproduzione sociale ma

anche gli attori, i portatori, i soggetti di questa produzione. Come in quel Marx dell¶ accumulazione primitiva, così qui la

totalità del quadro è indistinguibile dalle componenti. Questo quadro compatto si presenta sovente come mondo della

comunicazione, come complesso di strutture informatiche, come insieme meccanico-razionale di una strumentazione

intelligente del controllo e della produzione.

Ora, questa situazione presenta alcune difficoltà, che non possono essere trascurate dall¶analisi. Intendo dire che questa

<< Umwelt >> schiaccia, per così dire, la possibilità della ricerca sulla lin earità, e la disorienta nella circolarità dei nessi

fra singole emergenze soggettive. La stessa emergenza di un punto di vista critico sembra da ciò vietata. Ci troviamo

quindi di fronte a delle posizioni che, nel tentativo di resistere all¶indifferenza, s pesso organizzano la prospettiva di

ricerca e quella di intervento in termini volontaristici, - per esempio, in termini di rivendicazione di autonomia del punto

di vista scientifico. Vediamo un caso. E¶ fuori dubbio che, se nella situazione data (sussunzio ne reale) la forma valore ela sostanza di valore del processo di produzione tendono a sovrapporsi, l¶analisi deve assumere la << Wertform >> e la

<< Wertsubstanz >> come elementi complementari nella configurazione della totalità determinata da analizzare. Ma

dire complementari, non significa dire indifferenti - e con ciò accettare il blocco della ricerca. Infatti, pur tra queste

complementarità ed indifferenze, un quadro del genere è normalmente molto ricco di impliciti: la determinazione infatti,

nel mentre mostra i contenuti specifici dei meccanismi di produzione del valore, sta dal punto di vista degli strumenti

tecnologici, sia dal punto di vista della pertinenza dei contenuti, - dall¶altro si mostra come tendenza, come apertura

 potenziale di nessi produttivi generali, come articolazione di composizioni diverse della soggettività. Si tratta allora di

approfondire il nesso tra ricerca di valore ed analisi materiale laddove invece, spesso, l¶incapacità di procedere in questo

senso, dovuta a permanenze ideologiche o a resistenze nei confronti della nuova prospettiva, implica una ricerca che fra

valore e sostanza ripropone indifferenza o unità indifferenziate o confuse a connessioni analogiche, - sicché questo

rapporto, in sé scoordinatonon può che essere sempre di nuovo riportato all¶analisi e alla pratica del dominio. Le teorie dell¶autonomia del

 politico, da questo punto di vista, sono teorie attardate su una imperfetta comprensione degli effetti della sussunzione

reale. Di contro, la nostra ricerca assume l¶inerenza di strutture e di sovrastrutture, di forma e di sostanza, comeassolutamente data. Ed è a partire da ciò che i meccanismi di produzione della soggettività nel capitalismo maturo

 potranno essere finalmente definiti.

Ma proprio nella misura in cui procediamo in questo senso tanto più il problema definitivo sarà quello etico. Vale a dire

che non è l¶analisi dei rapporti di potere che può permetterci la comprensione di questo mondo compatto che abbiamo

dinnanzi, è bensì, a permetterci questo, l¶inerenza della nostra volontà, della nostra lotta. alla composizione della

società. Offe dice chiaramente << Il problema di una teoria dello Stato che si proponga di dimostrare il carattere

classista del dominio politico consiste dunque nel fatto che, in quant o teoria, in quanto rappresentazione oggettivante di

funzioni statali e del loro riferimento ad interessi, essa non è assolutamente attuabile. Soltanto la pratica della lotta di

classe ne soddisfa la pretesa conoscitiva... Questa limitatezza della conoscenza teorica non è tuttavia determinata

dall¶insufficienza dei suoi metodi, bensì dalla struttura del suo oggetto. Questo si sottrae alla chiarificazione in termini

di una teoria di classe. Semplificando si può dire che nella società industriale capitalistic a il dominio politico è il

metodo del dominio di classe che non si fa riconoscere come tale >>. Questa dichiarazione di Offe ci sembra

fondamentale. Vale a dire che l¶indifferenza del quadro sociale che si presenta nella sussunzione reale è semplicementeuna mistificazione oggettiva: è anche un momento di falsificazione, meglio di conoscenza falsificata, nella prospettiva

di dominio del soggetto. Ci scontriamo qui con un¶operazione di mistificazione che investe il sociale intero, con

un¶operazione di mistificazione che tenta di sottrarre alla coscienza la possibilità di identificare le condizioni

dell¶antagonismo.

Questa sottrazione è sostanziale, è reale, - la mistificazione é non solo efficace ma produttiva. Vivere questo mondo

della mistificazione produttiva, fino al punto nel quale essa investe la soggettività, è vivere una condizione eccezionale -

evidentemente il problema della rottura di tutto questo, della definitiva insopportabilità di tutto questo, ci riporta ai

grandi temi etici dell¶essere e della sua distruzione o della sua riproduzione. Ma sull¶argomento non vale certo la pena

di fermarsi di nuovo. Quello che è fondamentale invece è notare quanto sostanzialmente pratico sia questo orizzonte

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della sussunzione reale. Le produzione materiali tendono verso la soggettività, abbiamo detto: ma bisogna aggiungere

che questa soggettività va soprattutto considerata in termini di volontà. Sono le soggettività della lotta di classe quelle

che qui sono assunte, mistificate, sottratte alle condizioni dell¶antagonismo. Ora quest¶analitica della società, di una

società riguardata soprattutto dal punto di vista della volontà, dal punto di vista della possibilità di lotta e quindi della

creazione della differenza, - quest¶analitica è puramente e semplicemente il dir itto.

Quando parliamo di diritto parliamo del complesso di norme attraverso il quale la società costituisce il suo ordine in

riferimento alla produzione e alla riproduzione di se stessa. Intendiamo anche la serie di strumenti che sono messi inazione per garantire l¶efficacia di questa normativa: ma non riduciamo a normativa a questi strumenti perché essa è

infinitamente più larga e la sua efficacia infinitamente più estesa di quanto gli strumenti specifici dell¶organizzazione

giuridica possano il diritto, così come noi i assumiamo, è, dunque, un¶analitica sociale della volontà. La definizione puòessere immediatamente chiarita se risaliamo alla nozione di sussunzione reale ed agli effetti teorico -pratici che ne

seguono. Vale a dire che il diritto ha, rispet to al mondo della sussunzione reale, lo stesso ruolo che in un universo di

rappresentazioni individuali ha avuto l¶analitica kantiana. Il diritto vale qui a fissare le condizioni di pensabilità di una

società capitalistica matura. Solo la legalità, vale a dire la normatività diffusa ad ogni elemento costitutivo, permette di

 pensare la società. L¶analitica è la produzione di una mediazione sociale nella quale tutti i rapporti sono ricondotti alla

necessità della riproduzione sociale. Fondamentale è, ovviamente, il rapporto soggettivo. Ora, l¶analitica non costituisce

il soggetto - al soggetto è costituito dal rapporto produttivo in generale - ma l¶analitica, la normatività, il diritto, si

estendono lungo tutti i passaggi che costituiscono il teatro di azioni e reazioni, di rapporti di senso e di rapporti di

significato, costitutivi della sussunzione reale ± quindi il diritto è qui coestensivo, in quanto analitica, della sussunzione

reale. Il fatto di essere qui coestensivo non significa essere identico (vedremo nel prossimo paragrafo perché). Quello

che qui ci interessa di concludere e di sottolineare, è la densità del rapporto che il diritto ha verso, dentro, la società. E¶un vero e proprio investimento quello che il diritto opera: esso, in questo distendersi globale sul sociale, diviene una

specie di abito senza il quale a società non può mostrarsi. Il diritto è ostensione del sociale, è il linguaggio della sua

realtà profonda, è l¶articolazione delle volontà che percorrono e costituiscono il sociale. Il diri tto è una vera e propria

kantiana analitica del sociale. Non ho più parole per esprimere questa inerenza se non quelle adeguate ad esprimere il

rapporto tra il corpo e l¶anima: figurazione certo non post-moderna ma fortemente intrisa di suggestione reale.

Detto ciò occorre aggiungere che questa analitica è la figura morta della società.

2. Analitica: il diritto come legittimazione.  

E¶ stato Hegel a mostrarsi il funzionamento del diritto come analitica della società civile. Quello che non ci si sarebbeaspettato - e che certo Hegel non si attendeva - è che il diritto man mano divenisse, da analitica, anatomia della società

civile, usurpando così il luogo fin lì ricoperto dall¶economia politica. Dico usurpazione perché il fatto di pervenire ad

una tale interiorità nei confronti della società, non toglie al diritto le sue caratteristiche specificatamente e

fondamentalmente analitiche: la società si è fatta astratta, i suoi movimenti si sono proiettati verso un¶orizzontalità

lineare, - il diritto qui dentro ci sta bene, è adeguato, usurpa una funzione alla quale l¶economia politica, per il fatto di

 produrre questa società astratta, ha abdicato.

Il diritto segue l¶evoluzione dei rapporti sociali di produzione. Ne è la forma. Ma, procedendo lo sviluppo sociale e

 proiettandosi questo verso quell¶ordine particolare che è proprio della sussunzione reale, il diritto non è più solamente

forma sociale, meglio, dell¶ordine sociale, ma interviene strutturalmente in quanto funzione generale di legittimazione

nella riproduzione sociale. La legittimazione assume sempre più figure processuali, procedurali, esecutive: la grandemodificazione del diritto nel capitalismo maturo, la sua trasformazione funzionale, consistono appunto in ciò, nel fatto

che il diritto non trascende più i rapporti sociali ma è ad essi immanente, è esso stesso un evento - quanto generale si

voglia - del processo sociale. Oggi la forma della legittimazione è assolutamente specifica: vale a dire che essa si ponefra sussunzione reale e produzione di soggettività. Ciò significa che il diritto costituisce, in forma reale, i soggetti,

dentro una rete di qualificazione delle loro azioni, - rete che non costituisce semplicemente realtà giuridiche, costituisce

 bensì il soggetto in quanto tale. Non v¶è soggettività sociale senza che una serie di condizioni giuridico-istituzionali la

configurino. Il diritto interviene dentro la società delimitando continuamente in maniera amministrativa o

giurisdizionale possibili conflitti - ma non solo: costituendo gli stessi soggetti di un possibile conflitto, introducendo un

sistema di valutazione che cerca di rendersi sempre più efficace.

E¶ chiaro come questo processo, del diritto in quanto potenza sociale, rappresenti un morto paesaggio nella vita dello

spirito. Si diceva << analitica >>: vi può essere qualcosa di più analiticamente deprimente di questo continuo tentativo

di bloccare la dinamica detto spirito oggettivo? Il diritto è questo blocco - un blocco intelligente, una continua selezione

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dei materiali indistinti presentati sulla scena della sussunzione reale ed una loro formazione, un¶identificazione -

l¶invenzione del soggetto. Ma una invenzione che gioca semplicemente i residui, i margini, le esclusioni. E¶ chiaro

allora che il processo di legittimazione in quanto ins ieme di delimitazioni, selezioni, esclusioni, del sistema di

valutazione e della conseguente esecuzione amministrativa, tenderà sempre più a ripiegarsi e a chiudersi su se stesso.

Ogni difficoltà di soluzione del processo non potrà che spingere verso la dr ammatizzazione del momento esecutivo -

stato d¶emergenza, situazione di necessità ecc. ecc. Ogni eliminazione di possibilità corrisponderà ad una tensione versoun¶autolimitazione, un¶indipendenza, un¶autosufficienza del potere. La necessità di imporre un meccanismo di

regolazione che sia un meccanismo regolare, costante, continuo - questa necessità spingerà continuamente versoquell¶essenza del comando costituzionale che, con esagerazione linguistica ma con profonda adesione al reale, Carl

Schmitt ha chiamato << dittatura >>. Il diritto è dunque latenza di dittatura, o meglio dittatura mistificata. Questa

essenza gli deriva dal fatto di essere completamente interiorizzato nella società ma, in queste condizioni, di selezionare

unilateralmente l¶insieme delle potenze sociali. Il diritto, nella sussunzione reale, è di questa coestensivo - ma non è

identico ad essa. Non è identico ad essa perché è un sistema di selezione, una griglia di valutazione, un meccanismo di

esecuzione. Non è identico perché coglie coestensivamente il tessuto sociale della sussunzione reale ma solo nella

figura negativa che questa permette. Vale a dire che il diritto organizza la continuità lineare dei processi, i compromessi

e le articolazioni di valore che nel sociale si possono trovare - ma non riesce ad afferrare, né lo desidera, i nuovi

contenuti collettivi che questo sociale attraversano, ed in generale non riesce a cogliere il passaggio dall¶astrattezza del

rapporto ad una soggettività superiore. Il diritto produce soggettività solo in quanto essa si presenti come limitazione.

Limitazione anche dell¶astratto. Il diritto teme a potenza della soggettività - della soggettività ha bisogno solo in quanto

materiale su cui costruire la complessità dell¶ordinamento. Insomma il diritto è pura e semplice analitica, tanto più

 povera e morta, quanto più lo sviluppo astratto del lavoro si è affermato come potenza.

Abbiamo detto che il diritto è coestensivo della sussunzione reale ma non identico ad essa, anzi, che esso è predisposto

alla rottura degli equilibri dinamici che si sono formati nel processo di maturazione della sussunzione reale. E¶ noto

come sono andate le cose. Nel capitalismo maturo lo schema di regolazione dello Stato e della società insegue

l¶adeguamento continuo del rapporto fra forze produttive, consumi produttivi e stabilità politica. La regolazione è

 possibile quando essa avvenga su uno schema di valori unificato (o in ogni caso non immediatamente contraddittorio) a

 partire dall¶identificazione di soggetti abilitati alla gestione del rapporto, alla contrattazione, insomma alla

 partecipazione al processo di legittimazione. Il fatto che, in questo schema, il più alto ideale sia quello di un¶alla

 produttività e che la ripartizione del profitto fra soggetti produttivi si svolga secondo una regola che introduce nella

riproduzione sociale, e dentro questa amplifica, i benefici della riproduzione secondo moltiplicatori adeguati allo

sviluppo - il fatto insomma che la legittimazione marci a pari passo con la continua riforma dei rapporti di produzione,

esalta in maniera importante la funzione del diritto nella sussunzione reale e la mostra come articolazione necessaria di

questa.

Ma non appena elementi di crisi si rivelano, non appena il diritto è richiamato in maniera stringente ad eserci tare la

funzione analitica, ci troviamo dinnanzi ad una serie di eventi - meglio, di operazioni - che ampiamente caratterizzano il

funzionamento parziale del diritto nella nostra società. Voglio dire che la legittimazione analitica post -moderna trovauna sua specificità quando, scoprendosi coestensiva della sussunzione reale, rivendica la propria identità, quindi la

separatezza dalla propria funzione. Su tre punti si sviluppa questa ricostruzione della specificità analitica del diritto: in

generale, sulla ripresa, reinvenzione, ristabilimento, dell¶egemonia della forma sopra, contro la sostanza sociale. In

secondo luogo la legittimazione analitica è portata, nel sistemismo, contro l¶unità progressiva del sistema dei valori, e,

terzo, nel neo-contrattualismo, contro il sistema dei soggetti che promuovevano lo sviluppo giuridico verso l¶identità di

 produzione e riforme.

Accenniamo alle tre forme nelle quali vengono sviluppandosi questi fenomeni, dal punto di vista storico: procedendo

nella ricerca le vedremo con molta maggiore attenzione, basti qui descrivere la condizione generale del loro presentarsi.

Ora, è particolarmente interessante la forma nella quale si mette oggi in movimento quel processo che abbiamo detto di

scissione fra forma e sostanza della regolazione sociale. E¶ una specie di nuovo trascendentalismo quello che qui

appare. Nella filosofia tedesca contemporanea, in particolare, nella crisi e negli esiti della scuola di Francoforte, noi

soprattutto possiamo vedere come si sia sviluppata questa rinascita trascendentalistica. La ricerca di una fondazione

critica ha cominciato ad impiantarsi come un bisturi dentro l¶unità dell¶orizzonte della sussunzione reale. Ma invece di

trovarvi antagonismi, invece di sperimentare e di riassorbire nella scienza quanto in realtà stava accadendo - la crisi,

l¶impossibilità di rendere consensuale il nuovo modello di sviluppo ecc. - invece dunque di far ciò, la fondazione critica

ha separato la forma dalla sostanza di valore: << ipertribunalizzazione >> della forma di contro alla <<subtribunalizzazione >> della sostanza di valore. Vale a dire che, mentre l¶orizzonte trascendentale della forma era

fissato in maniera sempre più stabile, sempre più definitiva, d¶altra parte invece la sostanza di valore era respinta verso i

livelli più bassi dell¶empiria. La sintesi che, nella sussunzione reale, si era data, qui scompare. Una costituzione

unilaterale del reale viene così sempre meglio definendosi. Questa costituzione unilaterale è ottenuta attraverso la

sostituzione formale del reale medesimo. L¶essere è definito nella forma della sostituzione. I processi di sussunzione

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reale sono trasfigurati nell¶immagine della sussunzione - diritto, moneta, rapporti informatici, simulacri sociali, cifre

dell¶automatismo sociale, sacro, violenza della forma eec. La sussunzione ormai ci si presenta solo secondo questa

figura, solo entro questo quadro, prospettiva, orizzonte. Vedremo, procedendo nella ricerca, come il formalismo si sia

modificato in questo periodo di sviluppo, - ma come questo sviluppo non sia stato altro che realizzazione del distacco

fra forma e sostanza del valore.

Un secondo momento nell¶evoluzione del diritto verso funzioni dirette di costituzione analitica reale (nella fase della

sussunzione) ci è data in quell¶episodio dello sviluppo della scienza del diritto che si richiama al sistemismo. Ora, lafinalità essenziale di questa teoria è quella di cercare una forma della normazione giuridica (e sociale) entro cui

l¶autonomia e l¶insistenza autentica dei valori, e del loro combinarsi in un¶unità dinamica, siano distrutte. Quello che

interessa è determinare una serie di punti di riferimento che si oppongano, che neghino, che trasfigurino, ognifondamento ontologico dei valori. Esiste un antagonismo sociale ed esistono schemi teorici di organizzazione dinamica-

normativa di questo? Non devono esistere. Gli antagonismi, qualora si diano, non possono essere che funzioni o

soluzioni di processi restaurativi dell¶ordine, meccanismi in grado di neutralizzare, di volta in volta, ogni complessità

antagonista. Il diritto dovrà funzionare come strumento che sposta continuamente, costantemente, i termini di ogni

 problema ontologico e trasforma temi potenzialmente conflittuali in struttura di compatibilità. I soggetti vengono qui

 prodotti, esattamente come sono prodotti i valori. Quale terribile vitrea sostanzialità hanno questi soggetti. Quello che

interessa è ridurre il processo di sussunzione reale ad un¶immagine naturale - dove tutti i rapporti reali siano dissolti

e gli antagonismi ridotti a fluttuazione - su questa evoluzione, senza soluzione di continuità, il controllo fila via, come

appunto la volontà burocratica di dominio vuole.

 Non molto diverso, infine, è il terzo esempio che nel seguito della ricerca ricorderemo. Se nel sistemis mo il tema

fondamentale è quello della permanente fluidità del processo e quindi dell¶assoluta interscambiabilità dei valori, nel

neocontrattualismo si pone come egemonica la volontà di far circolare la soggettività dentro uno schema paritario (di

eguaglianza, di ricambio, di commutazione) che di questa soggettività toglie ogni caratteristica materiale. E¶ chiaro

anche in questo caso che la negazione del carattere ontologico dei soggetti comporta la massima formalizzazione dei

valori. La comunicazione riflessiva, la commutazione dei soggetti nel neocontrattualismo esige valori di garanzia che

siano assolutamente formali. Non si può scegliere se non l¶equivalente: questo paradosso del valore è, nel

neocontrattualismo, l¶equivalente della contingenza dei soggetti nel sistemismo.

Dunque - su tutto ciò torneremo. Basti qui cogliere quello che abbiamo più volte detto essere ormai la caratteristica

fondamentale del diritto come legittimazione, del diritto come analitica della sussunzione reale. I caratteri di morte che

la funzione giuridica si porta dietro, risultano a questo punto quanto mai evidenti. Il diritto è la chiave forzosa che deve

valere ad escludere la soggettività dal tessuto sociale della sussunzione reale. Il diritto è il modello di produzione dellasoggettività laddove la sussunzione reale sia stata assunta come semplice orizzonte di produzione e di organizzazionesociale pacificita. E non basta opporsi a questa onnivora teoria dei sistemi, quale nel diritto è manifestata, proponendo

una semplice mediazione (naturalmente sempre sul terreno trascendentale) fra teoria dei sistemi e teoria dell¶agire.

Occorre invece dare sostanza normativa, polemica ed antagonistica, alla critica: alla critica della ragione strumentale

che qui, nella definizione di diritto come analitica dello spirito oggettivo, trionfa completamente. Posizioni che nonassumano il punto di vista ontologico, che mantengano i processi di mediazione che sono propri del trascendentalismo,

non riusciranno mai a definire la sostanza etica del processo critico. I soggetti continueranno ad essere considerati come

semplici residui, non avranno mai la possibilità di esistere se non in quanto colonizzati dal sistema - elementi sí sempre

irrisolti, ma mai capaci di costruire alternative. Questa è una m anovra sofistica sul piano teorico - sul piano

dell¶esecuzione del diritto diviene una manovra repressiva. La razionalità strumentale vince sempre quando la scienza, e

le funzioni dell¶organizzazione sociale, non vengono confrontate con il reale. La mediazione, questa malattia mortale

del pensiero filosofico, questa criminale intenzione del pensiero giuridico, deve scomparire dall¶orizzonte della scienza.

Viene così configurandosi il terreno sul quale l¶analitica, funzione centrale del sapere trascendentale, tenta di

configurare un quadro del reale fatto a sua immagine e somiglianza.

3. Il modello formalistico: Hans Kelsen.

Riconsiderare il pensiero di Hans Kelsen, dopo aver proposto il problema del formalismo nei termini in cui abbiamo

fatto nel paragrafo precedente, può sembrare inutile preoccupazione archeologica. Non è vero, perché il genio di Kelsen

consistette appunto nel percorrere un cammino che, dal vecchio formalismo kantiano, portava ben oltre i limiti o le

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estreme estensioni di questo: anticipava quella formalizzazione del reale che oggi consideriamo propria della

sussunzione e del postmoderno. In Kelsen il formalismo si presenta come sovrastruttura della realtà - e però, fin da

subito, esso si arma di un¶autonoma produttività, sicché l¶avventura intellettuale di Kelsen descrive non solo una

vicenda soggettiva ma piuttosto la tendenza storica del formalismo.

Formalismo come sovrastruttura, dunque. Sovrastruttura di un contesto socio-economico, forma logica, nella quale

questo contesto è analizzato ed ordinato. Ma, se questa impostazione bastava a Stammler e ai suoi seguaci, se poteva

essere condizione egemone nel revisionismo social-democratico ottocentesco, non bastava certo a Kelsen. Lasovrastruttura è in Kelsen trascendentale. Come nella scuola di Marburg il trascendentale è produttivo, - produttivo di

schemi della ragione, di tendenze regolatrici, di tipologie formali del linguaggio e della scienza. Eccoci dunque a

scoprire non tanto una base quanto una sorgente del formalismo, ad identificare cioè il punto sul quale la regolazionedel sociale si manifesta esplicitamente come gestazione di una rete di comando. A partire da ciò il neokantismo

kelseniano si diluisce in un << Opus perpetuum >> che assume varie figure, tutte agganciate al presupposto neokantiano

ma tutte anche capaci di sganciarsi da questo e di svolgersi, per successive stratificazioni, verso risultati imprevisti. In

una prima fase, il pensiero kelseniano forma lo schema di lettura (e di organizzazione) del diritto sulla duplice funz ione

della purezza logica della teoria e della sua fondazione trascendentale (Grundnorm). Ma questo non basta: l¶analitica

deve svolgersi nello schematismo, la teoria pura del diritto deve accostare ad una statica una nomodinamica: insomma,

il diritto deve produrre la sua realtà. Eccoci dunque, su un primo punto essenziale, al discoprimento dei meccanismi del

formalismo. Lungi dall¶essere semplice registrazione (sovrastrutturale o meno), la forma è un motore, un orizzonte, uno

schema di comprensione. In realtà, la forma è un meccanismo di produzione sistematica. La Grundnorm produce il

sistema. Il sistema si forma attraverso un meccanismo di gradi - Stufenbau - ed ogni grado è capacità di produzione del

successivo. Gerarchia o meno, qui è egemone l¶idea di produzione. Le critiche rivolte al primo Kelsen, ed appuntatecontro la vuotezza del suo formalismo, sono pure e semplici banalità. Il pensiero di Kelsen è sempre un pensiero della

 produzione e la chiave che lo spinge ad una continua trasformazione, è il desiderio di cogliere e trattenere nella forma,

la realtà. La validità del sistema delle norme deve farsi efficacia giurisdizionale delle stesse - la norma deve mordere il

reale. Certo, questo senso della realtà che soggiace e regge l¶elaborazione e lo sviluppo della teoria pura del diritto, non

deve indurci in errore. Esso non è altro dal diritto, neppure come strappo, neppure come anticipazione del diritto: il

senso della realtà deve essere prodotto dal diritto. Questo è il concetto del formalismo kelsenian o, - una macchina

 produttiva, lanciata sulla realtà, e che a un certo punto non si pone più il problema di coniugarsi con il reale, si pone

 piuttosto il problema di produrlo, di sostituirlo attraverso la produzione, di creare qualcosa che sia simile al con cetto che

la teoria ha di se stessa e del diritto.

Questo paradosso è quello di tutta l¶analitica moderna. Ma qui assume una tale incredibile potenza, e violenza di

espressione, che davvero c¶è da rimanere sbalorditi. Soprattutto quando, continuando a rielaborare e trasformare il suo

sistema, prima Kelsen proporrà una concenzione realistica e processuale, poi una concezione decisionistica della norma

e del diritto. Per concezione processuale intendo un disegno del funzionamento del diritto che ricalca la dinamica

 procedurale della sua amministrazione nei sistemi giuridici aperti. Kelsen lavora espressamente su queste ipotesi fino

alla definitiva redazione de << La dottrina pura del diritto >>, probabilmente il più perfetto esempio di come ilformalismo possa fingere se stesso quale orizzonte ontologico! Ma, ancora, tutto questo non basta. L¶ultimo Kelsen,

quello della << Teoria generale delle norm >>, cercherà di sviluppare non più semplicemente un¶ipotesi di concordanza

fra sistema e realtà, fra dottrina pura e determinazione reale, fra validità ed efficacia: di contro, la potenza stessa della

formazione della norma, in quanto fatto trascendentale, sarà sviluppata come possibilità di costruire il sistema.

Ora, se noi riprendiamo questo schema di sviluppo del pensiero di Kelsen e cerchiamo di comprenderlo come filo rosso

di un processo storico di crisi e trasformazione del diritto, le cui fasi finali oggi sperimentiamo - se dunque ci muoviamo

in questo senso ci accorgeremo che, come abbiamo detto, il formalismo kelseniano è qualcosa di molto più largo di una

 pura e semplice trascrizione giuridica del formalismo kantiano. Qui il formalismo è piuttosto vissuto dentro la realtà del

 processo storico che conduce dalla fase di << sussunzione formale >> del lavoro e della società nel capitale alla fase di

<< sussunzione reale >>. Che cosa significa questo? Significa che, in concomitanza con questo passaggio storico e

assecondando le tendenze che in esso vivono, Kelsen interiorizza sempre di più e con sempre maggiore chiarezza il

 problema della produzione e della realtà giuridica, della validità e dell¶efficacia. La sussunzione reale è, come ormai

lungamente abbiamo sottolineato, quel momento nel quale la formalità dei rapporti di produzione viventi all¶interno di

una società è sottoposta all¶egemonia del modo di produzione capitalistica. Nella sussunzione reale la forma si fa

sostanza. La teoria pura del diritto non ha più quindi bisogno di una Grundnorm che faccia funzionare la sua egemonia

solo in termini parziali e a partire da un fondamento di trascendenza. Nell¶ultima fase del pensiero di Kelsen, ogninorma e una Grundnorm, il rapporto fra validità ed efficacia è per così dire rovesciato, e l¶efficacia anticipa la validità,

ogni norma è in qualche modo norma trascendentale, perché la sua fattualità non è riconducibile ad altro che alla

 propria esistenza. La teoria del diritto sfiora il decisionismo. Ma dello tutto questo, resta il fatto che quel reale è

comunque dinamico. Il sistema produttivo, la sua potenza formativa vengono fatti combaciare con la realtà. Efficacia e

validità che si sono talmente confuse che vivono ormai insieme la tensione produttiva del reale. Il formalismo

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kelseniano è un¶ideologia della produzione.

E¶ interessante, meglio, fondamentale questo riferimento a Kelsen. Probabilmente se il suo rapporto non si fosse fatto

talmente importante nella storia del pensiero giuridico e politico contemporaneo, sarebbe stato difficilissimo elaborare,

in positivo o in negativo, una teoria sistemica del potere. Que llo che colpisce è tuttavia soprattutto, nel pensiero di

Kelsen, la scoperta della impossibilità di evitare la produzione e, come abbiamo sottolineato, la capacità di far seguire a

questa scoperta un sistema produttivo sempre più determinato, sempre più capace di rispecchiarsi nel reale. In Kelsen

dunque noi troviamo completamente sviluppata quella rottura tra forma e sostanza del processo di valore che si ponecome condizione fondamentale della trasformazione della teoria sul terreno della << sussunzione reale >>. Ma, come

abbiamo visto, questa rottura è anche uno spostamento di livelli, un dislocamento. Dentro la realtà trasformata nel

 processo di spiazzamento, di dislocazione generale, dentro il linguaggio che registra questo orizzonte ed è, su questostrato della realtà, riorganizzato in termini di senso e di significato, - ebbene, qui Kelsen ricostruisce una nuova unità,

che è un circolo di validità e di efficacia, di normatività e di decisionismo, di diritto e Stato. Il formalismo kelseniano,

dopo aver vissuto una vicenda gerarchica che lo ha spinto di grado in grado, attraverso crisi successive, verso un nuovo

livello di realtà, ricostruisce e riorganizza ora questo livello come circolo. Un circolo che è fatto muovere dalla

materialità degli eventi che in esso sono registrati - potremmo dire che è la produzione ad essere la chiave di volta del

movimento nell¶orizzonte formalistico kelseniano.

Vi sono interessanti analogie che a questo proposito si possono porre: fra queste, soprattutto importante mi semb ra

quella che permette di confrontare movimento e figura del pensiero di

Kelsen e di quello di Keynes. Vale a dire che in entrambi questi autori la preoccupazione sistematica di controllare la

realtà nel sistema (<< Dottrina pura del diritto >> per Kelsen , << Trattato della moneta >> per Keynes) è spinta ad una

tensione massima, che configura l¶astrazione del reale nella forma del sistema. Ma, pervenuti a questo punto, spinta

avanti l¶analisi fino a determinare il salto della dislocazione, gli autori si gu ardano attorno - scoprono allora che questo

sistema dislocato corrisponde perfettamente al reale. L¶operazione di innovazione scientifica ha riconquistato la realtà,

la fiducia nella forma ha restituito la storia. Abbiamo dunque un secondo Kelsen ed un sec ondo Keynes (della <<

Teoria della norma >> e della << Teoria generale dell¶occupazione e della moneta >>) nei quali questo rovesciamento

che paradossalmente procede all¶interno, investendo la tensione sistematica, è attuato fino in fondo. E la circolarità delle

 proposizioni e dei soggetti sistematici è garantita da un autonomo interno movimento - che è quello sollecitato dal reale.

In questo secondo periodo del pensiero di Kelsen, - possiamo ora smettere l¶analogia con Keynes - non vi è solo dunque

nostalgia della realtà e quasi un senile riagganciarsi ad essa (come alcuni interpreti malevolmente suggeriscono) - vi è

 bensì la ripresa in carico del compito di spiegare la realtà giuridica e le trasformazioni dello Stato dal punto di vista

della loro effettualità. La rottura fra forma e sostanza del processo di valore è quindi, per così dire, superata...

naturalmente tutto questo si rivela essere solo una tendenza. Sarebbe senz¶altro esagerato ritenere che il realismo

giuridico - e soprattutto un realismo giuridico tanto sviluppato da essere capace di interpretare l¶orizzonte della <<

sussunzione >> - divenga oltre che egemone, esclusivo nell¶ultimo Kelsen. Al contrario è certo che tutti i passaggi in

questa direzione, non riescono a togliere al sistema quel radicamento formalistico che gli è proprio. Ma quello che a noi

interessa, è sottolineare come qui venga sviluppandosi quel dislocamento del terreno della considerazione scientifica,

quella catastrofe del paradigma, che, nei paragrafi successivi, vedremo dominare l¶analitica giuridica della <<

sussunzione >>. Per dirla in altri termini: Kelsen riconquista, nell¶ultima fase del suo pensiero il primato della

legittimità contro l¶eminenza della legalità.

Perché è attorno a questi due concetti che dobbiamo portare la nostra attenzione. Legittimità è categoria dell¶efficacia,

èdeterminazione fondamentale del sistema, - mentre legalità è validità normativa, è l¶orizzonte formale del medesimo.

Ora la circolarità di questi due termini si presenta come asimmetrica: nel formalismo quest¶asimmetria vede la forma

 prevalere sulla sostanza del valore. Ora Kelsen inverte i termini, - ma questa inversione non si fa a scapito della forma:

si fa - tenendo conto delle nuove condizioni del circuito giuridico - ricalibrando il rapporto fra forma e contenuto, fralegittimità e legalità, che resta si asimmetrico ma è riequilibrato rispetto ad un concetto di legittimità estremamente

ampio. L¶analisi del pensiero di Kelsen ci propone dunque l¶amplificazione dell¶orizzonte formale, ci propone un vero e

 proprio meccanismo di produzione reale a partire dall¶approfondimento dell¶analisi della forma e da un rovesciamento

dell¶asimmetria fondamentale del rapporto giuridico. Un nuovo reale è quello che ci è consegnato.

4. Il modello contrattualistico: Rawls. 

Dobbiamo andar al di là del Welfarestate: ma verso dove? E¶ fuori dubbio che lo Welfarestate sia in crisi: ma che cosa

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sostituirgli? E¶ certo che la situazione generale socio-economica si è trasferita e trasfigurata nella dimensione della <<

sussunzione reale >>: quail saranno gli assetti politici e giuridici che ne seguono?

E¶ con queste questioni che si misura il neocontrattualismo anglosassone nell¶ultimo ventennio. Un neocontrattualismo

che assume varie figure, o puramente liberali e giusnaturalistiche (alla Nozick) oppure socialdemocratiche e

consensualistiche (alla Habermas) - oppure, infine, propriamente neocontrattualistiche alla Rawls. Ora, a noi interessa

soprattutto cogliere quel memento attorno al quale l¶analitica del d iritto, un¶analitica radicata nella società della <<

sussunzione >>, comincia a configurarsi. E subito vedremo come il risultato del pensiero kelseniano sia qui assunto,come il suo formalismo sia qui utilizzato - ma vedremo anche come, dentro il nuovo livello di realtà che è assunto,

vengano fatti vivere valori e posizioni ideologicamente pregnanti, volte a distruggere, veramente ab imis, ogni

 permanenza del Welfarestate.

La crisi del Welfarestate è dunque considerata irreversible.

Al Welfarestate va opposta una concezione che sappia far valere un¶ideologia individualistica nel sistema del diritto.

Questo individualismo deve coniugarsi ad un orizzonte pluralistico ed egalitario e concorrere alla formazione di uno

schema di legittimazione del diritto e della società economica, così come essi sono dati nello sviluppo capitalistico. Il

contrattualismo non si propone di costruire schemi di regolazione, si propone piuttosto di determinare le condizioni

affinché possa essere organizzata la società nel periodo dopo lo Welfarestate. Si badi bene: c¶è un individualismo

conservatore, legato a valori immobili, patrimoniali e monetari,. e c¶è un individualismo egalitario: fra questi il

contrattualismo sceglie, e sceglie decisamente, nel senso del secondo polo dell¶alternativa. C¶è poi un utilitarismo borghese e un utilitarismo che riguarda le finalità sociali complessive: anche in questo secondo caso il contrattualismo

 pretende di scegliere il secondo dei due principi. Sicché esso ritiene di potere costruire uno schema di equilibrio sociale

orientato dal principio di eguaglianza, sorretto da un principio di reciprocità formale, sviluppato in termini

sostanzialmente riformistici. E¶ chiaro che mai come in questa posizione risulta evidente la paternità filosofica del

kantismo e di una certa neokantiana fenomenologia: le figure di orientamento e di tendenza che sono definite nel

neocontrattualismo stanno infatti a mezzo fra il formalismo dell¶intelletto e lo schematismo della ragione.

Con ciò un certo tipo di dinamicità formale è impressa al circuito: laddove tuttavia deve essere chiaro che non v¶è

soggetto se non come imputazione formale del circuito stesso. Caratteristica del neocontrattualismo è il fatto di

distruggere ogni soggettività indipendente, di considerarne la possibilità solo in termini di aggregazione formale. E¶

difficile riassumere brevemente la complessità di mezzi che viene in proposito messa in atto per raggiungere la

descrizione di uno schema di << reflective equilibrium >> sociale-giuridico. Da un lato giocano, nel senso di questa

costruzione, gli elementi già ricordati della filosofia kantiana e fenomenologica - dall¶altro giocano soprattutto le

sollecitazioni che derivano dalle correnti anti-utilitaristiche degli anni µ30 (Lionel Robbins, Hayek ecc.), e sop rattuttoche pervengono agli autori del contrattualismo da parte delle scuole scettiche e realistiche di Pareto, di Arrow ecc.Insomma i contrattualisti cercano di identificare un terreno sul quale dei soggetti fittizzi, eguali, equivalenti si

confrontano l¶uno con l¶altro, determinando all¶interno di questo confronto, e come riflessione su questo confronto, la

loro costruzione come soggetti giuridici. Vale a dire che l¶individualismo contrattualista vuole distruggere ogni

referenza ontologica del soggetto. Ma non avevamo noi stessi sostenuto che l¶unico livello interessante per l¶analisi era

appunto quello sul quale l¶astrazione trionfava e il complesso delle relazioni socio-politiche e giuridiche si offriva

solamente come contesto di equivalenze! Certo - ma questo non significa non cercare di reidentificare, una volta

riconosciuto e fissato questo livello come terreno adeguato della ricerca, gli antagonismi soggettivi. Il problema non è

quello di negare la trasformazione del reale che abbiamo dinnanzi - è bensì quello di cogliere in questo reale modificato,

il riproporsi dell¶antagonismo, il funzionamento dei meccanismi della soggettività. Sembra chiaro allora che la teoria

neocontrattualistica, a fronte della crisi del Welfarestate e della prassi di regolazione giuridica del medesimo, pur 

riconoscendo che questa crisi è definitiva, tenta semplicemente il ricorso ad un nuovo formalismo - nello sforzo di

comprendere analiticamente il nuovo. Ma è appunto questo il momento critico: quando il contrattualismo nega la

 possibilità di considerare i soggetti della contrattazione riformistica se non dal punto di vista di un¶identificazioneriflessiva e formale. Occorre andare a fondo su questo concetto di riflessività. Esso ha lo spessore della profondità, ha

una liquida densità. Da esso non sembra possibile uscire. Detto tutto ciò risulta evidente che questa specie di

formalismo al quadrato, questo riflettersi della forma in se stessa definisce esattamente la sostanza del problema e non

ne costituisce la soluzione. Che cos¶è infatti l¶orizzonte della << sussunzione reale >> se non appunto questo

ingigantirsi ed ispessirsi dell¶orizzonte della forma? Ma, laddove lo stesso Kelsen comprendeva che dentro questo

 processo si definiva una nuova realtà, i neocontrattualisti godono nel giocare formalisticamente gli elementi di questo

nuovo complesso. Davvero non può nascere determinazione in una notte siffatta - qui << tutti i gatti sono bigi >>.

Eppure questa insistenza sulla definitività della crisi di regolazione del Welfarestate, questa descrizione così

approfondita della società attuale come insieme formale di relazioni riflessive, potevano permettere di inquadrare i

nuovi elementi di conoscenza e di impostare una soluzione giuridica adeguata. Qui invece ci troviamo di fronte alla

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vittoria del momento di mistificazione. La legittimazione del potere dovrebbe nascere, in questo schema, dallo sviluppo

ordinato delle relazioni formali - ma tutto ciò è pura e semplice mistificazione, e i valori formali non hanno certo la

capacità di mordere criticamente la realtà, hanno al massimo la possibilità di veicolare lo stato di cose esistenti. Sicché,

anche a questo proposito, sembra che il vecchio kelsenismo sia teoria, malgrado tutto, più scientificamente efficace:

esso infatti sembra rappresentare il problema dentro un quadro dinamico e proporre la tematica dei coefficienti

d¶adesione dei soggetti ai principi della legittimità, in termini aperti ma, malgrado tutto, più definiti di quanto non facci a

il contrattualismo.

E¶ strano considerare il modo in cui la crisi dello Stato keynesiano si sviluppa fra questi autori. C¶è infatti

un¶ostinazione nel negare la presenza di soggetti collettivi nello sviluppo della stessa crisi del Welfarestate - ostinazione

davvero incredibile! Questa mancanza di concettualizzazione nei riguardi dei soggetti collettivi si reggefondamentalmente su due punti di vista: il primo consiste nel negare che in qualsiasi memento si possa dare un

equilibrio sostanziale al rapporto di produzione, quando dentro questo rapporto si muovano soggettività collettive; il

secondo punto consiste nell¶affermare che non si potrà mai dare coerenza fra interessi dell¶individuo e determinazioni

collettive del soggetto. Sicché la stessa esistenza del contratto fra gli individui è sempre ape rta alla crisi. La razionalità

della produzione e la durabilità del contratti prevedono dunque l¶autorità - ma dentro questa stessa previsione è escluso

che ciò che deve essere garantito possa essere il garante - e la difficoltà insormontabile di costruire soggettività

collettive ci costringe dunque a ripiegare sul formalismo. Ma è corretta questa impostazione? E chi garantisce che

l¶elemento fondamentale cui riferirsi sia l¶individuo? Può mai funzionare un sistema produttivo moderno sulla base

dell¶individualismo? E che significato ha parlare oggi di contratti su base individuale? Se si parla di crisi del

Welfarestate e di entrata in una fase di << sussunzione reale >> è appunto per porre il problema di una fondazione

collettiva infinitamente più avanzata, per quanto riguarda la struttura del diritto e dello Stato! Eccoci dunque a coglierequello che è il buco nero delle teorie neocontrattualiste nell¶evoluzione della tematica della crisi del Welfarestate. Il

formalismo che esse introducono è un passo indietro rispetto allo stesso formalismo kelseniano. L¶unico contributo

importante di queste correnti viene dalla forte caratterizzazione dell¶orizzonte della << sussunzione >> che è il

 presupposto dell¶analisi. Questo presupposto viene poi abbassato ad un intreccio di volontà e di intenzioni individuali.

Ci è data cioè in forma mistificata, e solo in forma mistificata, la modificazione del quadro di riferimento. In forma

mistificata, tutto questo ci è dato per una sola ragione: negare assolutamente l¶esistenza del soggetto e la possibilità che

rinasca antagonismo sul livello della << sussunzione >>.

5. Luhmann: il modello strutturale e la sua critica.  

Riguardando al modello analitico che è costruito dalle teorie neocontrattualiste e connfrontandolo con l¶impostazionesistemistica che adesso considereremo con cura, va subito detto che il neocontrattualismo si rivela essere unadeterminazione di passaggio, un fenomeno teorico transitorio piuttosto che una sicura conclusione del processo analitico

stesso. Voglio dire che il neocontrattualismo rivela al suo interno una serie di componenti, che sono accostate più che

sintetizzate, una serie di elementi tipici della tradizione anglosassone ed in particolare della sua variante conservatrice

(non è tanto Locke, quanto Burke per intenderci). Il neocontrattualismo, nella sua fondamentale spinta verso

l¶appiattimento formale delle contraddizioni, verso un egalitarismo del tutto vuoto di pulsioni soggettive, vale in realtà a

descrivere una serie di comportamenti diversi e a confondere le diversità, piuttosto che esaltarne un meccanismo di

mediazione. Per riprendere la nostra terminologia (e quella marxiana) si potrà dire che il neocontrattualismo è una teoria

giuridica del passaggio dalla << sussunzione formale >> a quella << reale >> che esso raccoglie gli elementi diversi di

una tradizione composita per confonderli in un quadro sintetico, che ha bensì trovato una dimensione unitaria ma non

ancora determinato l¶efficacia di un unico motore. Stato e diritto vengono così reinterpretati dentro una fluida mélange

di liberalismo, contrattualismo, federalismo e, insomma, di tutti quegli elementi che in qualche maniera hanno potuto

caratterizzare lo sviluppo dello Stato liberale nell¶ultimo secolo. Da questo punto di vista, e forse in tal modo

correggendo delle affermazioni fatte nel paragrafo precedente, si può dire che qui permane una fondamentale tensionealla legittimazione, che essa si esprime attraverso queste resistenze ed insistenze tradizionali, che quindi l¶egemonia

della legalità sull¶orizzonte della legittimità è comunque parziale e, in maniera latente ma reale, sempre insidiata.

 Non così certo vanno le cose quando tocchiamo le teorie sistemiche. Il loro radicalismo configura definitivamentel¶orizzonte del diritto nella << sussunzione reale >>. L¶analitica è qui completamente sviluppata, è l¶analitica di una

cosa, di una formidabile morta potenza. Vi è un barlume di estetica trascendentale che si intravede alla base della

monumentale costruzione analitica: è la definizione della contingenza delle relazioni sociali. Una contingenza, tuttavia,

che non pone il problema di una determinazione e di una scelta ontologica che valgono a superarla; al contrario, questa

contingenza è assolutizzata, ogni valore in essa circola in maniera completamente indifferente ed equivalente, nessuna

selezione può essere ontologicamente definita, la circolarità è Completa e la tautologia, che su questa circolarità di

referenze si forma, è anch¶essa totale. Su questa base ci si pone il problema : << eliminare la tautologia nel sistema di

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autoreferenza: l¶obiettivo risiede nell¶autocatalisi nella riduzione della sfera del caso al momento della costituzione del

sistema >>. Si vede quanto l¶estetica trascendentale sia mero elemento di orizzonte, quanto il riferimento alla

contingenza valga la pena ad identificare, in senso esclusivo, un rapporto verso la fatticità analitica. Il tramite della

costruzione sistematica è la comunicazione: << la comunicazione è un processo necessariamente riflessivo che si

integra in se stesso come comunicazione >>, << il Consensus è il telos della comunicazione >>. Tutto ciò per affermare

infine che sono solo le dimensioni del senso quelle sulle quali le determinazioni della comunicazione includono la

significanza di ogni fenomeno sociale ed escludono ogni rinvio al di là di questo orizzonte autoreferenziale.

L¶illuminismo sociologico e giuridico di Luhmann diviene a questo punto lo strumento fondamentale per la costruzione

del sistema, quando si tenga presente che questo illuminismo è la capacità di determinare connessioni formali, di

semplificare il complesso, di costruire il sistema. Illuminismo è qui riduzione, ovvero la produzione di un orizzontesemplice, semplificato, che si ponga come condizione della logica sistemica. E¶ incredibile come questo meccanismo

totalmente formale cresca su se stesso, si espanda, si rafforzi. E¶ una protesi della natura che domina la natura: << i

concetti tradizionali di autoreferenza, di riflessività, di riflessione sono così trasferiti d alla teoria del soggetto alla teoria

dei sistemi; essi sono trattati come strutture della realtà e la conoscenza appare allora nel sistema come un caso del

 processo di autoastrazione della realtà >>. Il meccanismo epistemologico che regge questo sviluppo conoscitivo

interpreta una funzione fondamentale, che è quella della neutralizzazione degli antagonismi, meglio, della distruzione di

ogni orizzonte di valore, della destrutturazione completa di ogni determinazione ontologica propria dell¶universo

dell¶autodeterminazione (del mondo dell¶astrazione del lavoro). Così si chiude il processo costitutivo dell¶orizzonte... e

chi può più dire di quale orizzonte? Orizzonte della legittimità o della legalità? Quando ogni elemento ontologico è

chiuso in una indifferenza che è totale nei confronti di altre possibilità, quando la dinamica dei fattori è sempre

manipolabile in maniera da poter essere compatible con la stabilità del sistema, quando ogni determinazione vieneassorbita sul terreno del senso, - a questo punto la stessa indicazione di una alterità fra validità ed efficacia, tra legalità e

legittimità risulta inafferrabile. Come dice giustamente Gozzi: da questa situazione << consegue un processo senza

struttura, un¶evoluzione senza soluzioni di continuità in cui il momento dello scontro viene allontanato nell¶infinita

 possibilità di differenziarlo attraverso la struttura del potere (monetizzazione, giuridicizzazione, politicizzazione,

spoliticizzazione, ecc.). NelI¶evoluzione delle forme sistemiche anche la decisi one diventa solo una funzione del mutare

contingente delle strutture >>. Che dire dunque in questa situazione? Dove mai sarà la differenza fra quei sensi

fondamentali - verso l¶ideale, verso il reale - che caratterizzano l¶esperienza? Qui dominano tautologia e fluttuazione,

qui emerge un parmenidismo essenziale. Qui l¶orizzonte della pura contingenza diviene una prigione che trattiene dalla

ricerca del significato.

Eccoci, dunque, al centro di un¶operazione resa necessaria dal passaggio compiuto alla << sussunzione reale >>: la

distruzione dei valori. Come nella teoria neocontrattualistica avevamo visto i soggetti sfumarsi dentro un meccanismo

formale di interrelazioni, così ora vediamo l¶orizzonte del valore dissolversi dentro la mobilità del sistema. Al di là

dello schema teorico v¶è quindi un duplice meccanismo: il primo è quello della distruzione dei valori nel senso del

riconoscimento che questi possono in ogni caso organizzare un elemento di blocco, di opposizione e di crisi, del

 processo di legittimazione dello Stato democratico-capitalistico; il secondo è un meccanismo di sostituzionedell¶orizzonte stesso sul quale le contingenze si scontrano. Voglio dire che il sistemismo segue il processo di <<

sussunzione >>, coglie di questo il carattere radicalmente catastrofico ed innovativo, identifica la dimensione astratta

che caratterizza questo nuovo universo, caratterizza in maniera adeguata (contingenza versus comunicazione) questo

stesso universo, - ma fa tutto questo per eliminare ogni possibilità di opp osizione, per eliminare le stesse condizioni

dell¶opposizione, delle determinazioni storiche. Il sistemismo costituisce al reale un mondo che non è finto nei

meccanismi di astrazione che lo producono - diviene finto, posticcio, fittizio, solo nella mistifi cazione del risultato -

quando cioè questo mondo viene svuotato di ogni vita.

E¶ esattamente quanto i critici rimproverano a Luhmann. Assumiamo e seguiamo, ad esempio, le critiche di Habermas.

Esse si concentrano contro le affermazioni di Luhmann relative alla possibilità di autoadattamento dell¶amministrazione

rispetto alla complessità dei problemi del capitalismo avanzato; inoltre, Habermas insiste sul deficit di razionalità che è

sempre presente, e a cui certamente non si può ovviare in termini filosofic i, nel rapporto tra amministrazione e

controllo. In entrambi i casi Luhmann proporrebbe una pianificazione globale non partecipativa, una determinazione

dell¶intervento amministrativo priva di controlli che non siano puramente tecnici. Ma la tecnica non può in ogni caso

sostituirsi al consenso, soggiunge Habermas, - ed è impossibile sottrarre lo statuto logico di un progetto di

 pianificazione o semplicemente di un disegno o di un¶organizzazione amministrativa alla scelta politica di un certo (o di

un altro) concetto di razionalità. Questa critica di Habermas coglie non solo del punti singoli della sistematica diLuhmann - essa coglie l¶ispirazione stessa di quella teoria. Vale a dire che l¶analitica viene qui svelata nella sua estrema

e ultima prepotenza che è quella di togliere ogni possibilità di ricorso alla determinazione ontologica, al fatto, ai

movimenti della vita. E¶ quella di sostituire il reale. Si badi bene: non è contro la materialità, l¶effettualità di questo

 passaggio che qui si polemizza, è piuttosto contro il fatto che la verità di questo passaggio è opposta alle dinamiche

completamente umane, fisiche materiali che, sia determinano il passaggio, sia continuano a caratterizzare il risultato. Da

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questo punto di vista la stessa critica di Habermas è, per quanto corretta, solo parziale: qui infatti non si tratta di

attaccare le insufficienze tecniche del discorso di Luhmann (il quale, tuttavia, illustra fino in fondo il passaggio alla <<

sussunzione reale >>), qui si tratta di andare a fondo sulla q ualificazione di questo universo nuovo dentro il quale

viviamo e di riqualificare le categorie sociali e la loro critica a questo livello.

Ora, è la posizione, critica e/o costruttiva, che le scuole tedesche (Habermas, Apel, Tugendhat, ecc.) assumono,

sufficiente a rispondere agli interrogativi proposti dal sistemismo? A me non sembra. Infatti la linea alternativa al

sistemismo, (sulla base della medesima fenomenologia che il sistemismo assume) è identificata in una nuovadefinizione di trascendentalismo. Vale a dire che il rapporto tra sfera del senso e mondo dei significati sociali viene

identificata in genere qui su un terreno medio di espressione del valore. Il mondo della comunicazione e quello delle

contingenze empiriche sarebbero attraversati da un asse, a sostanza etica, che può ridurre in maniera non tecnica, informe non meccaniche, la complessità reale. Le differenze fra codici linguistici, fra determinazioni pratiche che

discendono dai temi linguistici, fra le varie sequenze temporali entro le qua li le determinazioni della comunicazione

vengono svolgendosi, - tutto questo deve essere risolto attraverso un¶operazione pragmatico-trascendentale che, per i

filosofi tedeschi che si scontrano con il sistemismo, consiste nel principio del consenso. Laddove il sistemismo tiene, e

forma, anche sul livello del massimo di astrazione, il principio tradizionale dell¶obbligazione, vi questi nostri amici

tedeschi (che ormai possiamo cominciare a chiamare filosofi critici) introducono il tema del consenso come tessuto sul

quale costruire assi di legittimità. Quanto poco questo processo ci entusiasma, sarà già apparso chiaro dal tipo di

esposizione che ne abbiamo fatto. Certo, onesto è il tentativo di opporsi a quella fondamentale e rigorosa distruzione

della prassi che caratterizza il sistemismo; certo, è molto importante questo riagganciare il tema dell¶etico e riproporlo

come chiave di comprensione logico-teorica; certo è essenziale porre il problema di un attraversamento ontologico (sia

 pure, appunto, etico) sull¶orizzonte della << sussunzione reale >>. Ed è a tutti questi problemi infatti che dovremorispondere. Ma non v¶è speranza di soluzione laddove ci si tenga, come fanno filosofi citati, all¶orizzonte del

trascendentale, alla dimensione della mediazione.

Ma su di questo già detto moltissimo e a più riprese, inoltre saremo più innanzi ancora costretti a tornare su questo vizio

occulto della filosofia (e della filosofia critica in particolare) che si chiama analitica. Qui per concludere cerchiamo

 piuttosto di dare, e questa volta senza rivolgersi agli amici tedeschi, una valutazione complessiva e definitiva del

sistemismo. Che dire dunque? Che dire se non che esso rappresenta un¶ambiguità enorme? Esso è ambiguo infatti

 perché comprende e offre insieme due dimensioni, una prima - corretta - di analisi, ed una seconda di mistificazione. Il

sistemismo definisce correttamente la dislocazione, il salto epocale, che l¶organizzazione del sistema dei valori

costruisce nel nostro tempo a fronte delle necessità dello sviluppo capitalistico maturo. Il sistemismo descrive questo

universo in maniera ricca e per alcuni versi compiuta. A lato di questo esso mistifica il processo: ce lo dà come

disperato orizzonte dal quale non e possibile evadere, sul quale si e obbligati ad auto riferirsi a se stessi. Ma a quale se

stessi? Perché infatti qui, non solo non si danno soggettività, qui non si danno più neppure valori - qui si possono dare

solamente forme di controllo su un contesto di indifferenza totale. Il sistemismo è dunque una vi a per la mistificazione:

il fatto che la mistificazione risulti efficace risulta dal fatto che la fenomenologia sulla quale il sistemismo lavora, è

esatta.

6. L¶antagonismo nella teoria della legittimazione. 

Tentando di riassumere e di definire lo stato d ella dottrina del diritto nella fase attuale dobbiamo notare con quanta

forza il passaggio ad un¶altissima integrazione sociale abbia influito sulla forma della scienza. In ciò consiste la faccia

 positiva delle discussioni che, sulla natura della scienza e sul suo sviluppo, oggi sono aperte. Ma d¶altra parte questa

 pressione della farina dell¶interazione sociale sulla farina della scienza si è prodotta in termini meccanici. Il pensiero

 borghese si presenta, quindi, nella sua versione forte, come sistemismo, nella sua versione debole, come funzionalismo

e contrapposizione. Ma non sono queste definizioni, dentro il rapporto lineare che la lega all¶integrazione sociale, piuttosto fossili risultati che prodotti viventi del rapporto fra scienza e società?

E¶ caratteristico il modo nel quale le tendenze a trasferire il rapporto sociologico (e la sua sempre più stringente

moderna qualificazione) versa il terreno della scienza, come l¶apporto di Max Weber alla sociologia della conoscenza e

della scienza, siano stati qui corrotti. In Max Weber la scivolare del significato, del valore, dal piano della realtà a

quella della rappresentazione, costituiva un rapporto contraddittorio: non dialettico, ma contraddittorio. La

contraddizione non si chiudeva in nessun caso ed il trasferimento delle tematiche castituiva [costituiva?], per così dire,

un piano di intersezione, mobile, orientato in infiniti sensi, - sicché ogni passaggio versa l¶astratto determinava

conflitto, fissava ai valori direzioni politeiste, offriva alla scelt a una dimensione tanto trasversale quanto multilaterale.Ma ora, che cosa avviene? Guardiamo a questi weberiani accademici: in loro ogni drammaticità inerente allo scontra dei

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valori è caduta - la loro unica preoccupazione è che i criteri di legittimazione possano scontrarsi - o non formarsi

compiutamente ed egemonicamente sul lato del potere esistente. E per loro la democrazia è sempre un eccesso che va

corretto (come un indimenticabile saggio della Trilaterale ha raccontato per il nostro secolo). Così in Raymond Aron la

 burocrazia diviene, molto poco weberianamente, non un prodotta di un processo di legittimazione fondato comunque su

scelte ed antagonismi di valore, ma la base di ogni moderna democratica fondazione della legittimità. Così per Michel

Crozier i processi di burocratizzazione diventano talmente centrali nella considerazione che, non prima o attorno ocomunque fuori di essi, ma solo dentro di essi, processi di valore e di legittimazione possono definirsi. In questo modo

il sistemismo tedesco ed anglosassone viene tradotto in francese, con il vantaggio di essere rivestito di politica, diesperienza amministrativa e di buon senso burocratico. La figura astratta, provocatoria, radicale del sistemismo tedesco

e anglosassone è tolta. Il sistemismo viene ovattato - perde in realtà anche le sue caratteristiche fenomenologiche e

descrittive, positive per quanto riguarda la nostra conoscenza dei fenomeni e delle trasformazioni della

contemporaneità; ed in tal modo si riduce a pura e semplice fossile escrescenza di un processo concluso. L¶antagonismo

che è alla base del passaggio verso la << sussunzione reale >> è così cancellato in maniera, non più radicale,

 provocatoria, offensiva per la ragione - forse proprio per questa prepotenza, utile - bensì ne è imposta una negazione

fluida e surretizia. Nel nostro tempo vediamo questa fossile mistificazione dei processi di legittimazione nella <<

sussunzione reale >> divenire assolutamente egemonica E quando si piange sulla spoliticizzazione o sull¶indifferenza

dei singoli e delle masse, è a ciò che occorre far risalire il pensiero: a questa fissazione, ormai indiscutibile, del tema

della legittimazione.

Di contro, tessuti vari e campi diversi di esperienza. Vi è una nuova << Entzauberung >> che si sta mettendo in atto.

Questa meraviglia, questo stupore filosofico che deve portare allo smagamento non può oggi esercitarsi che su questa

dimensione formidabile del nostro esistere in quanto esseri sociali. La << sussunzione reale >> e le forme dilegittimazione, fossili e spente, che di essa organizzano la struttura politica e quella giuridica si scontrano a tal punto

con il sentimento comune, ed a tal punto rivelano la contingenza di ogni soggetto implicato in questo meccanismo, che

il dubbio e la volontà di rispondere non possono che farsi radicali. Abbiamo già visto nella prima parte di questa nostra

ricerca come appunto sia a fronte della << sussunzione reale >> e di quel << postmoderno >> che in parte

letterariamente li incarna, che la coscienza della contingenza e l¶estremo radicalismo delle sue scelte vengono

emergendo. Qui non ci interessa tornare a quella profondità: qui ci interessa piuttosto restare in superficie, - eppure

considerare come da questa superficie si diramino delle possibilità di domanda metafisica, e già, prima, delle domande

che investono, attraverso il tema della legittimazione, la ragione dell¶esistenza sociale. Quando l¶uomo è completamente

sussunto nella forma della società, la dignità della filosofia si fonda intera sulla sua adesione al s ociale. Venendo al

concreto: l¶esperienza, quella stessa esperienza che si scontra con la rigidità delle mistificazioni del << postmoderno >>,

determina un¶insofferenza, una tensione di rottura, riapre in ogni caso del fronti di antagonismo che vengono vissutidrammaticamente dal soggetto. Certo, i processi di << sussunzione >> non lasciano spazi di agibilità per il soggetto, al

di là di quella superficie totale sulla quale egli è schiacciato; certo, la domanda sull¶essere è domanda sull¶essere sociale

quale questo viene rappresentandosi in questa nostra esistenza sussunta. Ma è appunto questo apparire della soggettivitàsulla, e come, superficie del mondo che ripropone un pluralismo a fortissima densità ontologica - ma pluralismo qui,

non può che significare, sul largo orizzonte della << sussunzione >>, il costituirsi di chiaroscuro, il definirsi sempre

meno evanescente dei nuclei di soggettività, insomma l¶eventualità, meglio la possibilità, di antagonismo. Io non so

come questa esperienza possa essere compiutamente descritta: qui è luogo, in questo nostro triste tempo, alla letteratura

ed alla poesia più che alla filosofia. Ma è certo che quando, ad esempio, la genesi di questi antagonismi sul terreno

sociale viene impattata da meccanismi di legittimazione rigidi e repressivi, è certo che allora lo scontro fra libertà e

necessità, tra vita e morte, tra dinamica e forza fossile di questo mondo dominato, diviene un elemento di definizione

ontologica della società. La soggettività come superficie del mondo è un paradosso - ma questo terreno paradossale è

attraversato da tensioni inesauribili che definiscono ogni orizzonte di vita come terreno di scontro, di genesi e/o di

equilibrio di valori.

 Nella teoria della legittimazione ci troviamo quindi di fronte, da que llo che siamo venuti dicendo, all¶opposizione di due

grandi prospettive teoriche. Da un lato vi è lo schema della legittimazione così come è proposto dalle forze che hanno

dominato il processo della << sussunzione >>: qui, fra neocontrattualismo, funzionalismo e sistemismo, la macchina del potere tenta di costruire l¶intera panoplia dei beni e dei soggetti giuridici. Che il diritto sia una macchina per la

 produzione di qualificazioni per l¶azione umana, sociale, è noto: meno noto è il fatto che qui non si parla di valori da

organizzare o di soggetti da qualificare, si parla bensì di valori e/o soggetti da costruire o da distruggere. Nella socialit à

della << sussunzione >> la produzione di soggettività da parte dello Stato si vuole totale. Totale significa, in questa

accezione, esclusivo di ogni altra autonoma insistenza di valori o soggetti e di ogni altro meccanismo di produzione di

valori e di soggetti. L¶egemonia della produzione di valori e soggetti da parte dello Stato, o del potere, è organizzata nel

 processo di legittimazione - e questo processo è lineare, ha la violenza di un normale fenomeno naturale, è guidato da

leggi di semplificazione tanto efficaci quanto lo sono le leggi naturali. Ma si sa bene che l¶astrazione delle leggi naturali

corrisponde solo eccezionalmente alla concretezza del reale. Ed é per questo che le teorie della legittimazione,

funzionali, neocontrattuali, sistematiche, sono costrette a muoversi in un mondo di evanescenti figure o di

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irraggiungibili fantasmi. In questa teoria della legittimazione, l¶astratto è astratto. Non così nella realtà della <<

sussunzione reale >>: dove l¶astrazione è divenuta vita. Se non si capisce questo si resta prigionieri della forma

mistificata dell¶astrazione, sulla quale si basa il modello del dominio. L¶uomo è divenuto diverso, si è arricchito di

un¶enormità di forze intellettuali e morali. Il suo cervello è divenuto mille volte più astratto, le sue mani non servono

 più ma le macchine sono sempre le sue mani. E¶ questo rapporto, che deve essere rapporto di dominio dell¶uomo su

questa natura trasformata e meccanizzata, che costituisce la vita nella << sussunzione reale >>. La si potrà amare o no,ma è la vita. Ma è vita. Ed è talmente diversa, e mette in movimento un insieme di forze talmente opposte a quello che è

il dominio e la nuova astrazione dell¶analitica, - bene, è questo il terreno sul quale l¶analisi va riportata. Se i meccanismidi legittimazione e i processi complessi che conosciamo attraverso le teorie del diritto, vogliono fissare nell¶ast razione

dei meccanismi di produzione di soggettività, noi d¶altra parte siamo dentro un tessuto vitale che, per parte sua,

continua a produrre soggettività.

Vale la pena di porsi il problema di una rifondazione della teoria del diritto? Per chi abbia fatto l¶esperienza di quanto le

teorie del diritto e dello Stato siano sempre state il prodotto di una volontà di dominio e come, addirittura, essendo la

centralità e l¶importanza di queste teorie eccezionale, le stesse figure disciplinari della logica, dell¶et ica, del sapere in

generale, siano subordinate alle ingerenze di dominio delle teorie politico-giuridiche - per chi dunque abbia fatto questa

esperienza la risposta è facilmente negativa. Noi continuiamo a costruirci la gabbia dentro a quale ci imprigionia mo. Ma

questo forse giusto, certo mistico rifiuto, se vale a toglierci la volontà di rifondare teorie del diritto, certo non vale ad

imporci [imporsi?]di capire che cosa avvenga sul terreno sociale della produzione e della regolazione di valori e di

soggetti. Ora, è fuori dubbio che qui l¶antagonismo non solo non può essere negato ma costituisce addirittura l¶esclusiva

chiave di ogni considerazione teorica. E non solo: qui l¶antagonismo e le sue ragioni e il suo modo di essere provano la

lore esclusività sul terreno della << sussunzione >>. La concezione dell¶analitica, secondo la quale il modello teoricoantagonistico (un antagonismo fondato su espressioni ontologiche) scoperto nell¶estetica trascendentale, deve essere

riplasmato per potersi collocare nell¶analitica e per poter quindi essere trasferito, già in forma modificata, verso la

dialettica trascendentale - bene, questa pretesa è insostenibile qualora ci si tenga a quella prova di irriducibilità che

continuamente la moderna << Entzauberung >> produce.

L¶antagonismo è il processo di sviluppo della << sussunzione >>, è la << sussunzione >> in atto. L¶antagonismo è

quindi l¶esperienza dentro la quale viviamo la crisi ed il suo superamento. L¶antagonismo è d¶altra parte la bestia nera,

l¶elemento assolutamente inaccettabile dalla parte dell¶avversario. Ogni meccanismo di legittimazione dovrebbe

concludere all¶eliminazione dell¶antagonismo. Ora, è proprio tenendo presente queste assunzioni, largamente dimostrate

nelle pagine precedenti, che lo statuto logico dell¶antagonismo emerge in maniera ineliminabile. Oggi il nostro

 problema è quello di ritrovarlo, di riqualificarlo positivamente nell¶ambito della << sussunzione reale >>. Il problema

non sarà quindi certo quello di rifondare teorie del diritto e dello S tato, - è solo quello di identificare l¶antagonismo

come chiave del processo di integrazione sociale, di amministrativizzazione della << sussunzione >>, insomma come

nuova natura del processo scientifico. Probabilmente, proprio perché l¶antagonismo è questa nuova natura del rapporto

scientifico, è probabilmente per questo che la scienza del diritto avrà finalmente mostrato il suo limite costituzionale,

ovvero quel limite al di là del quale non vi è riproduzione. Di questa crisi non potremmo che essere contenti. Ma ciò cheinteressa, è cogliere la nuova natura della rappresentazione scientifica dell¶antagonismo. L¶analitica sola il diritto, e le

teorie dello Stato, in un ambito disciplinare specifico per noi tutto questo non ha senso. La << sussunzione >> ha

 prodotto l¶unificazione dei terreni disciplinari, ha reso concreta l¶universalità del sapere. Ora, su questo terreno, la

scienza del diritto e dello Stato possono solo essere subordinate a quella scienza sociale trasfigurata di cui la <<

sussunzione >> permette ed esige la vita. L¶antagonismo è quindi rivelazione di una crisi ed, insieme, costruzione di un

nuovo terreno. Nuovo terreno? Solo impropriamente possiamo dirlo, perché in realtà non si tratta di accedere ad un

nuovo campo di indagine, qualificato in termini originari: si tratta bensì di ritornare a quella dimensione

fenomenologica, a quella estetica trascendentale da cui siamo partiti. La conoscenza della << sussunzione reale >> si

determina nell¶immediatezza dell¶esperienza. Questa pratica viene prima di qualsiasi nuova idea della scienza e della

natura. Essa deve comunque distruggere ogni tentativo di mistificare attraverso la mediazione teorica il tessuto vivo

dell¶esperienza. Questo tessuto è caratterizzato in maniera esclusiva dall¶immediatezza dell¶antagonismo.

7. Per una nuova determinazione del problema. 

Da quanto siamo venuti dicendo in questa parte del nostro lavoro risulta chiaro che un¶epistemologia della legittimità

non potrà ormai porsi se non su un terreno sul quale le vecchie antinomie giuridiche risultano ineffettuali. Ci troviamo

davanti una possibilità molto interessante: è quella di muoversi dall¶interno di un orizzonte, meglio, di una macchina,

che caratterizza l¶intero contesto della nostra esperienza. Sia dal punto di vista sogg ettivo che oggettivo, sia dal punto di

vista individuale che da quello collettivo. La << sussunzione reale >> ed il suo mondo si manifestano come seconda

natura. Ne hanno lo stesso spessore. Hanno della prima natura il colore e la forza, ma di quella hanno maggiore

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intelligenza e più consistente capacità di produzione. Ci dobbiamo dunque dichiarare, dentro questa natura rinnovata,

dentro questa storia consolidata, a partire dalla capacità di far funzionare almeno parzialmente questa macchina nella

quale siamo inseriti, - ci troviamo dunque a potersi [poterci ?] dire giusnaturalisti. Non è un paradosso: semplicemente

il sentimento più forte che la protesi è divenuta più umana dell¶umano e che natura e storia sono indistinguibili: sicché

la salvazione dell¶una o dell¶altra e la riproduzione di entrambe si costituiscono in un solo atto.

Ma il nostro problema è evidentemente, su questo limite di analisi critica dell¶analitica trascendentale, soprattutto quello

di fissare il quadro epistemologico della legittimità giuridica. Ora, piuttosto che totalmente, noi possiamo qui solodefinire alcune condizioni che rendono un approccio costruttivo, a questo problema, possibile. I tre punti sui quali ci

fermeremo qui di seguito sono: la critica del funzionalismo, la critica dell¶intuizionismo, la critica

dell¶autoreferenzialità del processo.

Per quanto riguarda il funzionalismo - ma potremmo [potremo ?] anche dire di tutta quella serie di ipotesi che stanno fra

formalismo e sistemismo - possiamo dunque concludere l¶analisi già così largamente sviluppata insistendo sul fatto che

questa serie di teorie finisce per non spiegare nulla, nella misura in cui, anziché teorie, esse rappresentano dei materialidella costruzione del mondo sussunto. Certo, dentro questa coerenza del quadro, il funzionalismo produce, per quanto

riguarda l¶ambiente della nostra esistenza e riproduzione, una serie di spunti di valore. Vale a dire che la produzione

collettiva di momenti innovativi ed in generale il passaggio ad una nuova epoca (che è quella d ella << sussunzione reale

>> trova nel funzionalismo una specie di codice di regolazione, meglio una stabilizzazione, un¶immediatezza, una

coerenza che di quei valori innovati fanno un paesaggio. Una seconda natura, appunto. Detto questo tuttavia non si è

aggiunto molto all¶analisi, poiché infatti risulta sempre più evidente che su questa base possono a pari titolo trovarsi

cose tanto diverse quanto un movimento di liberazione o operazioni di mistificazione. Non è il funzionalismo che può

distinguere le une dalle altre - anzi, esso ci consegna entrambe le possibilità come equivalent,, o perché - su un lato - di

tutte il funzionalismo ci propone un minimo comune denominatore formale, o perché - su un altro estremo - il

sistemismo ci mostra la connessione e la possibilità di ribaltamento dell¶un termine e dell¶altro. Il funzionamento gioca

sempre fra la statica formale e la dinamica sistemica. Il funzionalismo ci mostra un mondo nuovo, ma esso è, in questo

mondo nuovo, dominato da un passivo sbalordimento.

D¶altro lato, questa serie di valori, che si sono consolidati sul nostro orizzonte, noi possiamo intuirli. Il giusnaturalismo

è sempre, per qualche verso, un intuizionismo. Infatti esso prevede l¶immediatezza dei valore, il loro solido consistere e

il loro materiale offrirsi. Il valore è, nell¶intuizionismo, qualcosa di percepibile immediatamente - e anche quando

questo nuovo giusnaturalismo si presenti nella forma della << sussunzione reale >> e/o del postmoderno, bene, allora i

valori, conterranno una tensione a distendersi entro la circolazione generale - dentro la comunicazione che costituisce

l¶orizzonte: non per questo essi saranno meno mediabili e la loro scambiabilità, non per questo, rinnegherà la

consistenza assiologica. Ciò detto, tuttavia, non ci resta che trarre, anche in questo caso, delle conseguenze critiche. In

ogni intuizionismo infatti, ed anche in questo che pure è così sofisticato, vi è sempre un momento fondamentalista - vale

a dire un momento nel quale il valore si sottrae alla circolazione - ma questo è contro l¶ipotesi del passaggio alla <<

sussunzione >> sia formale che reale. L¶intuizionismo è la filosofia delle anime belle - purtroppo, a questo livello di

sviluppo, c¶è poco spazio per queste filosofie. Logicamente l¶intuizione propone, sia pure in forma introduttiva, una

teoria della legittimazione come incontro di volontà, di soggetti e di valori, opposti ma convergenti. Da questo punto di

vista ogni intuizionismo si sviluppa verso il contrattualismo - e viceversa. Ma come abbiamo visto criticando il

contrattualismo, possiamo ora, sul piano dell¶epistemologia, ripetere quelle critiche - cioè insistere sul fatto che in tal

modo si finisce solo per alludere ad una specie di ventre molle della scienza, ad una confusa materialità che tuttodovrebbe mediare, ad una in fondo equivoca medietà scientifica. Che tutto questo sia un aspetto, un carattere, fissato

ormai, del mondo della << sussunzione >>, è evidente. Ma proprio per questo ogni intuizionismo è insufficiente a

determinare un atteggiamento critico complessivo.

L¶autoreferenzialità del modello è un terzo momento da sottoporre a critica. Di nuovo ci troviamo di fronte ad una

caratteristica che è fondamentale nel sistemismo, ma che lo è anche nell¶intuizionismo. Si potrebbe dire che, mentre nelsistemismo l¶autoreferenzialità è costruita dall¶alto, in maniera estensiva, e quindi raccoglie orizzontalmente valori e

soggetti in un circuito appunto di referenze esaustive - nell¶intuizionismo l¶autoreferenzialità è costruita dal basso, a

 partire dal fondamento intuito, e raccoglie così, in un disegno continuo, su assi verticali, le referenze di valore. Ora, in

entrambi casi noi ci troviamo di fronte ad uno schema che corrisponde al prodotto del movimento verso la <<

sussunzione >> - ma nell¶autoreferenzialità questo movimento è perduto, l¶immagine autoreferenziale del prodotto non

contiene né il ricordo né la nostalgia del movimento. L¶autoreferenzialità è per qualche verso sempre ipostatica. Essa è

d¶altra parte contraddittoria con lo statuto ontologico degli elementi che ne costituiscono la definitiva figura, perché

questi elementi di contingenza comportano, nel loro dinamismo, alternative radicali - che nella conclusione del processo

sono invece bloccate e fissate. In più: vi è, in questo concetto di autoreferenzialità, qualche cosa che colpisce

negativamente perché il processo sembra obbligato a svilupparsi in maniera lineare, a possedere un meccanismocostrittivo - insomma, l¶autoreferenzialità esprime un risultato che era già tutto implicito ne lla sua origine, non ha

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quindi movimento. Come già si è detto, l¶autoreferenzialità è parmenidea. Di contro la critica della scienza e la

comprensione delle sue interne dinamiche - la critica della scienza dunque ci mostra quanto sia reale un processo

opposto a quello fissato nel modello di autoreferenzialità. Lo sviluppo scientifico è uno sviluppo per salti, attraverso

modificazioni radicati di paradigmi, ed innovazioni qualitative. La regola che domina lo sviluppo scientifico è la

medesima che regola i processi di fondo, naturali o storici - nella loro realtà: e quindi le regole della trasformazione

innovativa dei movimenti e della loro sempre nuova dinamica di aperture multilaterali. Non voglio qui giocare al piccolo Engels, né voglio troppo stringere una dialettica della natura e la dialettica della scienza - ché, ciò facendo, si

introdurrebbe una connessione lineare del tutto ingiustificabile fra questi due orizzonti. Ciò su cui voglio insistere è ilfatto che tutti i possibili orizzonti si collegano dentro una grande quantità di possibilità multilaterali di trasformazione.

Le contingenze sono contingenze vere e proprie ² non v¶è nessun nesso, neppure logico, che possa ad esse essere

 precostituito. Qui verifichiamo fino in fondo la potenza di quell¶ipotesi sull¶analitico a posteriori sulla quale, nella

 prima parte di questo lavoro, abbiamo tanto insistito - e non è senza grande emozione che il pensiero si volge verso

quelle teorie logiche delle << notiones communes >> che tanta importanza ha avuto nel momento di nascita della

scienza moderna.

Assunti questi elementi, ed escluso dunque che il problema epistemologico della legittimità possa essere posto a partire

dal funzionalismo, dall¶intuizionismo e dall¶autoreferenzialità, - ammesso, tuttavia, che in tutte e tre queste

impostazioni è rivelato qualche aspetto essenziale della trasformazione degli universi culturali che abbiamo vissuto -

assunto dunque tutto ciò, e con ciò la critica di ogni analitica trascendentale che voglia porsi come scienza - eccoci

dunque a riproporre il tema della legittimazione. E¶ chiaro che qui non possiamo che riprendere le conclusioni della

 prima parte del nostro lavoro. Abbiamo fatto un détour, piuttosto lungo e comunque tanto approfondito quanto ne

nasceva la necessità in relazione alla natura stessa delle cose analizzate. Ma è fuori dubbio che qui siamo arrivati alla

stessa conclusione a cui era arrivato il nostro progetto di una possibile estetica trascendentale. Voglio dire che questo

mondo dell¶immediatezza, di una immediatezza talmente astratta e sviluppata, non può trovare senso logico e soluzione

teorica se non sul terreno della pratica. Di nuovo siamo pervenuti a quel limite di crisi che è lo sviluppo dell¶esistente

nella << sussunzione reale >>, di nuovo siamo arrivati a definire quel mondo nel quale astrattamente siamo collocati e

quell¶indifferenza nella quale soffochiamo. La logica, l¶analitica sono chiave di volta di questa realtà: una chiave di

volta in senso proprio, perché sono infilate nell¶edificio e da esso sono indisgiungibili. Una via d¶uscita da questa

situazione non può darsi che sviluppando una pratica emancipativa, alternativa, una proposta di liberazione. Qui, di

nuovo, l¶ontologia si libera della logica e chiede uno sbocco etico. Non uno sbocco quanto una rifondazione. Il

 problema della legittimazione non è distinguibile da questa operazione di dislocazione ontologica. Fin qui abbiamo

seguito il processo nella sua figura mistificata: ora dobbiamo vedere finalmente che cosa possa essere, di là da questa

mistificazione analitica, un nesso diretto e costruttivo fra trascendentale e schematismo (o dialettica ?) della ragione. Ma

è una ragione piantata nella pratica, questa che seguiremo ± una ragione etica.

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Capitolo Terzo

<< Compact >>, per una dialettica trascendentale del potere. 

1. Critica del concetto di potere. 

Siamo dunque in grado di affrontare il problema dialettico, ovvero di procedere sul terreno dell¶illusione vera. In questa parte, dopo che nella prima abbiamo cercato di identificare quella rete etica e quel punto di vista pratico che soli

 possono permettere lo sviluppo della teoria e, ad essa, di non perdere il rapporto con l¶immediatezza reale, - dopo che

nella seconda parte abbiamo visto come la soggettività, i suoi nomi, sensi, orizzonti, possono essere prodotti dal potere,

direttamente, ma in forma non meno antagonista - in questa parte, dunque cercheremo di articolare l¶immediatezza del

fondamento sia riguardo alla fenomenologia dei soggetti che con riferimento alle finalità del movimento.

Procedere su questo terreno, significa produrre un concetto di potere. Questo non ci aiuta certo a chiarire le cose - anche

se ritenessimo infatti il concetto di potere subordinato ad una gerarchia di valori, che in qualche modo lo

 predeterminano o lo collocano in assetti complessi, saremo preda di vecchie ambiguità concettuali. Recentemente, del

concetto di potere si è molto discusso. Proprio queste immediate connessioni assiologiche sono state al centro della

critica. Per approfondire la critica, sarà quindi necessario non solo rompere quelle connessioni ma affrontarle dal punto

di vista della genealogia storica e teorica. Ora, su questo terreno, si avverte che le ambiguità del concetto di potere erano

il frutto di una non conclusa sua secolarizzazione. Così, fissare la centralità del concetto di potere, significa inseguirne

le determinazioni storiche, vedere come esse siano venute svolgendosi, e contemporaneamente sviluppare la critica.Ora,

la mia ipotesi è che il concetto di potere si a mistificato ogni qualvolta esso è sganciato dalla concezione del soggetto.

Ogni qualvolta ciò avviene, ed in particolare ogni qualvolta esso ci viene presentato o come immediatezza oggettiva ocome pura rete di rapporti strutturali, bene, questi tipi ide ali estremi di concettualizzazione del potere rappresentano

 pure e semplici mistificazioni. A questo proposito non troviamo nulla di diverso da quanto abbiamo già visto

analizzando il concetto di legittimità - quando cioè abbiamo visto scontrarsi una concezione realistica ed una

concezione formalistica/funzionalistica. Mutatis mutandis, ci troviamo nella medesima situazione ed abbiamo a che farecon le medesime mistificazioni. Per uscirne è necessario allora procedere nel senso già precedentemente identificato -

cercare cioè un momento di sintesi per eliminare l¶isolamento degli elementi conoscitivi, l¶astratto che è e resta astratto

- un momento analitico a posteriori, una volontà conoscitiva, soggettivamente determinata, dotata di potenza creativa.

Questo fondamento a posteriori del potere, nella sua immediatezza, è dunque comunque soggettivamente definito, -

anche se certamente non si conclude nella soggettività. La storia del concetto di potere ci mostra come questo venga

man mano soggettivandosi, ma nello stesso tempo proponendo una concezione complessa del soggetto: se vi è un

 processo di secolarizzazione, esso non va certamente inteso come compimento dell¶antropomorfismo nella concezione

del potere, ma come sempre più complessa articolazione soggettiva del suo concetto.

Prendiamo un solo esempio: il rapporto fra concetto di potere e concetto di pace. Che la pace possa essere uno dei

contenuti del potere è relazione nota. Che, con maggiore intensità, la pace debba rappresentare il concetto di potere,

come tale, in maniera esclusiva, è una concezione che si è affermata quando le origini teologiche del concetto di poteresono state gettate via e la figura pessimistica del giusnaturalismo è divenuta egemone. Ma il rapporto tra pace e potere

ha presto superato queste determinazioni, per così dire, trascendentali - perché esse, implicitamente ma non menonecessariamente, facevano di pace e potere forme tautologiche, indifferenti, morte. Di conseguenza presto il rapporto si

è fatto soggettivo: e se qui si sono r ipetute le alternative che nei periodi precedenti la razionalizzazione del problema era

 possibile cogliere, l¶interrogativo cioè attorno alla funzione etica della pace e della soluzione del conflitto - pure, qui, lo

sviluppo e la determinazione dei concetti sono stati caricati di una dimensione operativa, positiva, di una

determinazione materiale sopra una genealogia soggettiva e creativa. Il potere diviene così sempre di più qualche cosa

che cresce con un soggetto sociale, che quindi ha una sua specifica articolazione interna, un sistema di valori che è

capace di esprimere - insomma il potere è la stessa potenza di esistere di un soggetto collettivo. Non c¶è possibilità di

definire il concetto di potere se non in termini sociali, dove cioè la relazione e i valori non sono esterni ma interni al

soggetto, non trascendentali ma prodotti direttamente dal soggetto. La differenza tra potere e forza, tra potere e violenza

consiste nella razionalizzazione che della forza e della violenza vien [sic] fatta dal soggetto collettivo - forza, violenza,

in questo caso, possono anche chiamarci [chiamarsi ?] pace - è infatti del tutto chiaro che la pace deve essere

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conquistata, difesa e organizzata, ecc. ecc.

Entriamo dunque, in questo modo, su quel terreno sul quale la capacità di esistere costituisce un tessuto complesso. In

questa prospettiva il potere diviene un luogo originario che va determinato. Potere è quindi, genealogicamente, in primo

luogo, lavoro. Il lavoro infatti è, stando alla definizione dei classici, quella a ttività trasformativa che viene esercitata al

fine 1. del dominio della natura e 2. della riproduzione della specie. Ma il potere tenta continuamente di introdurre, al di

là di queste determinazioni, una nuova struttura: quella 3. del dominio dell¶uomo sul l¶uomo. E di specificarla. Esso ha

ragione di muoversi in questo modo, perché così, sia pure in form a mistificata, soggettivizza il concetto di potere. E¶esattamente lo sviluppo di questa soggettivizzazione mistificata che distrugge infatti quella terza determinazione:

meglio, toglie ogni pretesa di razionalità alla definizione del dominio dell¶uomo sull¶uomo e riconduce le

determinazioni del potere ad un luogo critico, aperto all¶attività e alle qualificazioni sociali. Il lavoro dunque, e le suemodalità trasformative, l¶insieme della forza lavoro, costituiscono la base del concetto di potere. E se quella legge

infame che vuole che le ragioni del dominio corrano assieme, anzi si identifichino con quelle dell¶organizzazione del

lavoro, va distrutta, - si può qui subito aggiungere che ciò può darsi solo se essa sia colta ed estremizzata e, per così

dire, spinta verso a sua estinzione materiale, dopo che la sua insensatezza logica sia stata provata.

Tutto questo in maniera generalissima. Qui di seguito cercheremo ora di vedere come il concetto di potere si articoli e si

autodefinisca, interpretando quella soggettività specifica che è il prodotto dei meccanismi di sfruttamento del lavoro

nella fase della << sussunzione reale >>. Cercheremo cioè di vedere come, in questa dimensione, il soggetto lavorativo

si autorganizzi, quale rapporto esso stabilisca con altri soggetti sulla scena sociale, come i suoi bisogni e desideri

vengano trasformandosi e infine come la sua egemonia possa organizzarsi. E¶ su questa specificità che si raccoglieranno

fili dell¶analisi complessiva.

Su questa specificità. Significa che la prossimità di soggetti diversi costituisce un elemento centrale della percezione

fenomenologica del sociale e del politico. Può darsi che questi soggetti collettivi siano confusi in formule generali di

accordo, di consenso, di processo costituzionale, - può appunto darsi: ma per quanto? Se c¶è una cosa che il processo di

secolarizzazione e di soggettivazione complessa del potere ha mostrato, attraverso un i rresistibile seguirsi di crisi e

convulsioni, è il fatto che sulla scena costituzionale si presenta una irriducibile pluralità di soggetti collettivi. Il rapp orto

fra questi non ha nessuna caratteristica formale: esso si esprime, e si risolve (se si risolv e), solo su una lunga prospettiva

di rapporti di forza. Il potere è certo sempre funzione ed organizzazione costituzionali, è certo schema trascendentale di

una serie di pulsioni e tendenze che vogliono trovare coordinazione logica fra di loro - ma il fatto di essere tutto questo

non toglie, anzi sollecita il fatto che il processo si sviluppi dentro ed attraverso le singole separate soggettività. Il pot ere

è sempre funzione costituzionale, ma e costitutivo non di un rapporto generale ma di un rapporto parti colare, di

un¶articolazione specifica, all¶interno delle singole grandi soggettività. Potere è costituzione, costituzione è specificità.

Al di là di queste generalità si tratterà allora di determinare lo spazio, il tempo, la qualità di ogni singola emergen za

soggettiva e di ogni specifica risultante costituzionale.

Quando affrontiamo questi problemi, noi sviluppiamo allora più importanti spunti di un¶estetica trascendentale della

 prassi. Vale a dire che noi sviluppiamo il punto di vista del fare come punto di vista fondamentale. La centralità di

questa prospettiva discende, con caratteristiche di necessità, dalla centralità ontologica dell¶etica, meglio, dal fatto che

noi ci muoviamo dall¶interno di un¶ontologia etica, vivendola, come si può vivere un¶esperienza egemone nella

sensibilità filosofica contemporanea. E¶ una genealogia del potere o dei poteri, quella che è qui proposta. Il rapporto tra

soggettività, punto di vista del fare, ontologia ed etica, è centrale perché questo solo sembra essere il tessuto sul quale

 poter determinare un orientamento metafisico. Foucault sosteneva che solo da un punto di vista storico queste filiere del

fare potevano essere seguite - ed è vero. Ma non è men vero che, da un punto di vista metodologico, queste potenze

 possono essere spinte verso un punto di vista teorico e quindi essere considerate nell¶indipendenza delle teorie, - senza,

con ciò, che esse perdano la loro etica pregnanza.

Seguiamo ora questo cammino con riferimento al problema del potere. Ci siamo fin qui apert i alla critica del concetto edelle sue possibili mistificazioni, abbiamo poi definito un possibile punto di vista metodologico. Infine, nei prossimi

capitoli, vedremo le interne articolazioni di questo processo. Ma ora, tra il prima e il dopo, ci resta da chiarire un

concetto: ed è che il potere, se son veri i presupposti, si presenta sempre come molteplicità, come contro -poteri, meglio,

come rete di contro-poteri. Parlando di etica avevamo sottolineato il ruolo fondamentale del principio di antagonismo:in forma generalissima basterebbe questo a dar ragione del fatto che il potere si dia come contro potere. Ma ogni

condizione siffatta determina problema. Ne deriva che la singolarità delle determinazioni soggettive che costituisce il

rapporto antagonistico dei poteri va analizzata specificamente - perché questa singolarità, questa forte individuazione

attraverso forte antagonismo, non negano ma nutrono e costituiscono la complessità specifica del quadro. Troppo

spesso, nella esposizione volgare dei concetti filosofici, ci siamo trovati di fronte a sequenze, cosiddette dialettiche, in

cui, all¶incrementare del grado di antagonismo, corrispondeva l¶estinguersi della sua misura nella complessità. Questo è

appunto un meccanismo espositivo, tanto comune e banale quanto perverso. Di contro, l¶aver collocato il principio

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ontologico nel bel mezzo della vita etica, l¶aver con ciò fissato una connessione indissolubile fra ontologia ed etica, ci

 permette oggi di dimostrare che sull¶orizzonte dell¶antagonismo è l¶intera complessità del reale che si prova. Siamo

nella << sussunzione reale >>. Siamo in una situazione nella quale ogni determinazione, tanto più se teorica, può essere

completamente riassunta nell¶insensatezza circolare di una fenomenologia del dominio. Solo il fare, il punto di vista

 pratico - solo quella determinazione che si colloca sull¶orlo dell¶essere e del non essere, a cavallo fra la catastrofe e la

speranza - ecco dunque la collocazione aggressiva dell¶immaginazione trascendentale, oggi. Essa non annulla maevidenzia drammaticamente la complessità del processo storico. Un¶enorme contingenza ha invaso l¶esistente. A partire

da questa contingenza che tocca tanto a natura del fare quanto le sue dimensioni e i suoi orizzonti, noi comprendiamo lacomplessità. Le collocazioni antagoniste, e cioè un loro certo porsi nello spazio, nel tempo, nel contesto dei valori,

dunque, non tolgono complessità né all¶essere né all¶antagonismo. Né l¶antagonismo cancella la complessità, né

viceversa a complessità cancella l¶antagonismo. Se uno dei due termini è eliminato, questa determinazione non dipende

dal principio complementare ma da altre ragioni. Condizione comunque difficilissima da verificare.

La critica del concetto di potere, riassumendo le determinazioni che siamo venuti fin qui fissando, esprime, dunque, una

situazione metafisica in cui soggettività, antagonismo, pluralità, complessità, convivono, si susseguono nel

caratterizzare la potenza sociale. E¶ una specie di universo leibniziano quello che abbiamo davanti, è l ¶universo nel

quale la libertà etica vive della contingenza, quindi dell¶indeterminatezza di traiettoria della soggettività. Leibniziana è

anche l¶idea che, quanto più si scontra con l¶esterno, tanto più la soggettività scava in se stessa ed organizza la p ropria

costituzione. Noi potremo dunque parlare di costituzione, se ne parleremo, a partire da un contesto di contro -poteri, e

cioè da un contesto di determinazioni soggettive che abbiano scoperto in se stesse il massimo di articolazioni di

 potenza.

Per fare un esempio. E¶ fuori dubbio che, ad un certo punto. nella storia del pensiero politico occidentale, è intervenuta

un¶efficace operazione di mistificazione, una vera e propria perversa modificazione di paradigma, in riferimento al

concetto di potere. Vale a dire che il tessuto sociale, nel primo contrattualismo dell¶evo moderno, era definito su un

orizzonte, per così dire, piatto, orizzontale, appunto << contractum unionis >>. Ad un certo punto, tuttavia, un enorme

 potenziale antagonistico, un enorme potenziale soggettivo che pretende all¶egemonia, vengono rovesciati su questo

rapporto, al fine di determinare una sua verticalizzazione: << contractum subjectionis >>. Il pluralismo, così, non vien

[sic] più dato come tessuto di eguaglianza, come terreno delle possibilità, come contingenza, - ci viene invece dato già

organizzato dentro una struttura gerarchica. La società è sussunta formalmente nel capitale. In questo modo il potere

viene tolto alla potenza dei soggetti. Questo peccato originale è un implici to nella storia del pensiero politico

occidentale. Per continuare nell¶esempio accennato si può allora notare in che modo il valore << pace >> venga giocato

su questo passaggio: è la pretesa di garantire la pace che sta alla base della verticalizzazione del potere, cioè della sua

 perversa semplificazione, cioè della repressione del pluralismo e dell¶antagonismo. Qui la pace è concepita come

l¶elemento di scarico di ogni tensione vitale, come tranquillità di fronte al movimento, come vuoto di fronte al pieno

delle passioni, dei desideri, dei movimenti delle singolarità. La semplificazione del complesso: questo è la pace. Ma

questo può essere anche puro e semplice terrore...

Ecco perché, dunque, insistiamo e reinsistiamo sul fatto che il concetto di potere, così come può essere definito

attraverso la critica, non è altro che il concetto di movimento delle potenze sociali che noi sperimentiamo nel loro

 pluralismo e nell¶antagonismo, che verifichiamo dunque come processo e rete di contro-poteri. E¶ evidente che, per 

riprendere il nostro esempio, noi non semplificheremo i formidabili problemi sollevati dall¶intreccio fra movimento dei

contro-poteri ed esigenza della pace. Esiste qui una contrapposizione insolubile? Noi non lo crediamo. Anzi. Solo percorrendo questo cammino accidentato, che è quello che la storia e le nostre coscienze ci presentano, riusciremo a

costruire a figura positiva della critica del potere. Materialmente.

2. A proposito di movimento, oggi. 

Quando diciamo movimento indichiamo quella dimensione sociale che è costitutiva del potere. Come si rivela? Qual¶è

il rapporto che stringe, al livello attuale dei rapporti di produzione e di cultura, soggetto ed ambiente?

E¶ chiaro, sulla base dei presupposti generali della nostra analisi, e cioè sulla base di quel singolare intreccio tra Krisis e

Umwelt, fra risultanze critiche dello sviluppo e dislocamento generale delle condizioni di riproduzione, che abbiamo

verificato - è chiaro, dunque, che l¶inerenza di soggetto e ambiente è qui totale. Quando parliamo di dimensione

ecologica come base costante dell¶analisi, a tutti i livelli, oggi, noi non facciamo che evidenziare questa inerenza che

costituisce la faccia, per così dire, superiore di quell¶integrazione dei circuiti sociali che << sussunzione >> e post -

moderno ci presentano. Ogni parametro del vivere sociale è oggi dato in termini ecologici - non che questo costituisce

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una grande novità rispetto alla condizione metafisica del rapporto uomo-ambiente, che sempre ha mostrato questa

fondamentale relazione: oggi la modificazione consiste nel fatto che il conflitto che caratterizza, come ha sempre

caratterizzato, la dimensione ecologica, non si svolge semplicemente attorno al confronto tra uomo e natura, bensì sul

ritmo del confronto fra vari modelli di integrazione uomo-natura. Altrove, e precedentemente in questo stesso scritto, ho

molto insistito sul concetto di << seconda natura >>, per indicare in questa categoria il risultato di una trasformazione

del rapporto dell¶uomo con la natura ed il consolidamento di una specie di nuovo presupposto naturale (che èevidentemente storico, dotato di una certa astrazione, ecc.) alla base dell¶analisi dell¶universalità umana, oggi. Se ora

cerchiamo di definire questo rapporto ontologico nuovo in relazione all¶idea di potenza, e quindi se cerchiamo diconiugare l¶analisi delle condizioni ecologiche (<< seconda natura>>) con il concetto singolare di movimento (

<<contropotere >>, contropoteri), eccoci davanti al nostro problema.

Stranamente, quando approfondiamo questo rapporto, questo problema, abbiamo una prima serie di annotazioni che

sembrano costringerci ad una considerazione << quasi scettica >> dell¶oggetto in analisi. Voglio dire che, a prima vista,

tutte le determinazioni che possiamo cogliere in superficie, ci riportano a quell¶interpretazione di soggetto-ambiente

che, nella sua circolarità, è ineffabile, comunque indifferente e inafferrabile. Si comprende bene, allora, come sul livello

teorico e pratico l¶ecologia abbia potuto presentarsi come ambientalismo, una specie cioè di fondamentalistica

rivendicazione di valori naturali. Il fatto che questi valori, cosiddetti [cosidetti ?] naturali, fossero in realtà

irriconoscibili, come tali, che dunque la rivendicazione fondamentalistica si muovesse fra il sogno di un¶utopica

restaurazione e l¶esaltazione di un certo banale e posticcio equilibrio uomo-natura, nulla aggiungeva: l¶utopia e la

giaculatoria non aggiungono chiarezza all¶indistinzione logica che l¶assunzione di un rapporto strettissimo uomo-natura

nell¶immediato determina. Si può aggiungere che anche la definizione di una << seconda natura >> non modifica a

 banalità, l¶insignificanza delle determinazioni che immediatamente emergono dall¶integrazione/interazione uomo-natura. Insomma, una volta che la natura sia da ta come potenza completamente intercambiabile nell¶ambiente umano,

siamo di fronte all¶impossibilità di discernere linee di movimento e tendenze di trasformazione. Non a caso il

fondamentalismo ecologico non propone che una sempre potenziale e sempre frustrata alternativa o una paradossale

conclusione: la catastrofe. Il fondamentalismo non riesce ad articolarsi se non assumendo il suo opposto come momento

di identificazione, di interna autocoscienza, come indice costruttivo.

Se assumiamo di nuovo il discorso sul rapporto tra potere e pace, come traccia ed esempio, possiamo vedere quali siano

le metamorfosi mistificatorie del fondamentalismo ecologico. Esso si tende verso la ricerca di un limite naturale

assoluto, di una condizione naturale ideale, - ma per definirla, ha bisogno di distruggere le realtà tecniche e storiche che

hanno modificato in maniera irriversibile la vita degli uomini. Essendo quindi impossibile questo passaggio, il

fondamentalismo chiede aiuto all¶immaginario collettivo e, nella ricerca della pace, quindi nell¶esercizio di un atto di

 potere che alla determinazione della pace deve pervenire, cerca di inserire la sua utopica natura. Ma che cos¶è

quest¶utopica natura? Non è nulla di reale, neppure una vestigia o un ricordo, è semplicemente il contrario della

situazione catastrofica, rovinosa, che è intuibile dopo l¶avvenimento distruttivo nucleare. La natura è il contrario della

distruzione - la pace è il contrario di una guerra più che distruttiva, mortale per l¶umanità. Dentro questa opposizione, in

realtà nulla si muove. La forza degli opposti è talmente enorme da rendere impossibile l¶analisi della singolarità, delcorpi, che fra questi opposti vivono e si riproducono. Insomma la circolarità reale del rapporto uomo -ambiente

impedisce che del modelli vengano formandosi ed ammette che questi modelli si diano solo come estremizzazione

dell¶esistente, della sua polarità. La pace diviene così un feticcio, altrettanto vuoto, nel rappresentare l¶assoluto

contrapasso rispetto alla morte catastrofica, quanto lo era nelle teorie del giusnaturalismo borghese, che assumevano il

concetto di pace come momento centrale nella costruzione della sovranità e nella repressione dei contropoteri sociali.

E¶ invece, appunto, questo il nostro problema: quello di identificare l¶emergere e lo svolgersi dei contropoteri, proprio

su quel terreno unificato che << sussunzione >> e post-moderno de finiscono. Un¶altra obiezione, tuttavia, ci si presenta

dinnanzi. Si dice: se la relazione singolarità/ambiente è tanto stringen te, se la diversità può cogliersi solo nella forma

dell¶utopia, dell¶alternativa radicale, nella progettazione totalmente altra, - bene, allora si tratta di sviluppare un

 programma radicalmente alternativo, che si ponga la totalità nemica come avversario e che, rispetto a questa, si misuri.

Ma ecco, anche in questo caso, insorgere alcune difficoltà. Esse consistono nel fatto che anche qui, malgrado tutto, e

cioè malgrado la forte attenzione allo specifico, si cade nella trappola della generale indifferenza. Qui l¶opposizione, il

contropotere, possono essere concretamente identificabili: ma, d¶altro canto, qui l¶alternativa deve accedere al livello

della totalità del potere. Il rapporto simbiotico fra uomo e natura è allora, in questo modo, completamente tras figurato e

considerato su un terreno di totalità che è il medesimo che è attribuibile al concetto di potere. Non se ne esce: si

determinano, così, una serie di omologie che impediscono la considerazione del diverso, delle singolarità, del riprodursidi questo e di quella, dentro meccanismi di contropotere. Così, essendo data l¶indifferenza del contesto, l¶analisi si

sviluppa tra Scilla e Cariddi: laddove, su un lato, stanno l¶impossibilità di discernere il singolare e il tentativo di

riaffermarlo attraverso la produzione di opposizioni utopiche; su una seconda polarità sta, nel corpo dell¶indifferenza,

l¶illusione di poter recuperare uno spazio politico e teorico, produttivo e riproduttivo, attraverso la totalità, quindi dent ro

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l¶omologia con il potere.

Dobbiamo riproporre il problema ab imis. Innanzi tutto giocando su quel punto di vista pratico, etico, di cui abbiamo

rivendicato la validità. Ora, a partire da questo punto di vista, l¶integrazione tra singolarità e natura non è una

condizione statica, ma una condizione dinamica. Il rapporto che la << seconda natura >> fissa, non è un rapporto

definitivamente dato - è data semplicemente la capacità di produrre unità fra uomo e natura, in forme sempre diverse e

sempre più mature, a partire da quella base inizia le. Insomma la << seconda natura >> è, mi si perdoni il controsenso

[contro senso?], una macchina. Ora, in secondo luogo, è appunto questa connessione che bisogna percorrere. Occorre percorrerla nel mentre essa si sviluppa, nel mentre essa costruisce nuovi e più stretti circuiti di integrazione. In questa

condizione generale l¶uomo si fa potenza naturale appropriandosi della natura. Il movimento reale è movimento di

appropriazione. Il concetto di potere è forza che si apre fra le determinazioni già concluse del processo della << secondanatura >>. Il contropotere è appropriazione reale nel mondo della << seconda natura >>. Tutto questo significa che il

 potere non può essere condotto all¶utopia del fondamentalismo né essere omologia con il potere esistente. Il

contropotere è una forte e durissima movenza di appropriazione. Esso vive solo laddove può, per così dire, essere in

osmosi con la Umwelt storica, solo laddove riesce a sviluppare un rapporto omeopatico con le determinazioni storico -

naturali dell¶ambiente. Il contropotere è un¶esperienza pragmatica che attraversa e sussume l¶esperienza e la prassi che

su quei territori sussunti sono venute svolgendosi.

Probabilmente il concetto fondamentale che dalla definizione del contesto fenomenologico della prassi oggi si può

trarre, è che ogni atto di potenza, sviluppato dalla singolarità, è equivalente su questo livello. Quest¶equivalenza è

 prodotto della sussunzione. L¶affermazione è tanto più importante perché insieme essa fissa un metodo e riqualifica una

serie di categorie. Fissa il metodo di una costruzione filiforme e plurale del potere. Un potere lillipuziano, il contrario di

una generalizzazione del suo concetto, eppure tanto potente da riuscire ad imprigionare qualsiasi Gulliver. Una

metodologia. dunque, che veda il potere come momento analitico a posteriori, che lo considera come una dinamica che

costruisce, in maniera sempre più larga, assetti determinati. Potremmo chiamare questo metodo in termini antichi:

ideologia libertaria o impostazione << liberal >> (all¶americana), concezione decentrata dell¶amministrazione,

democrazia di base,« ma ognuna di queste definizioni è parziale. Perché qui, muovendosi no, all¶interno di una

Umwelt sussunta, e cioè all¶interno dell¶indistinzione tra sfere diverse - nella fattispecie, nell¶indistinzione fra

economico e politico, fra produttivo e riproduttivo - bene, in questa situazione, la nostra metodologia è metodologia di

riappropriazione materiale. Questa singolare filatura del concetto di potere ci mostra l¶unità del livello politico e di

quello economico e produttivo. Come vedremo andando più avanti nel nostro ragionamento, vi sono soggetti specifici,

individui collettivi mutanti, che sono alla base di questa considerazione del concetto di potere. Qui ci basti continuare

ad insistere su questo metodo, su questo punto di vista, su questa ricchissima considerazione delle articolazioni del

reale. Il potere è questo.

Di qui si apre la considerazione di alcune altre categorie. Ma una, soprattutto, qui prendiamo in esame quella di

legittimità. Altrove abbiamo notato come sempre esista una certa asimmetria fra il concetto di legittimità e quello di

legalità (validità giuridica). Qui possiamo dire che questa asimmetria è finita, nel senso che non vi è più possibilità di

assumere la legalità come << altro >> dalla legittimità. La norma giuridica non potrà che valere in quanto atto

 particolare sottoposto alla dinamica del contropoteri, raccolto nella concretezza della dialettica del consenso. Quando si

 parla di consenso e di legittimità, (che ci piace qui considerare come concetti assolutamente complementari) si parla,

dunque, di nuovo, di quel metodo di contrasto, di << compact >>, di articolazione potente e di confronto fra interessi

materiali diversi (sociali, economici e politici) - non certo di un equivoco prodotto generale del consenso, non certo diuna volontà generale che lo sostituirebbe, e neppure, infine, di figure contrattuali entro le quali si eserciterebbero

volontà astratte.

Potere è contropoteri. Potere è l¶immediatezza della potenza della singolarità. Potere è movimento, dimensione sociale

di questo, totalità del rapporto fra soggetto ed ambiente. Potere è contropoteri eguali ed equivalenti, che tutti coloro che

operano in una società, possono materialmente detenere. Ma se quest¶eguaglianza è tanto reale da apparire comeequivalente, la comunanza delle opportunità e dei beni è qualcosa di necessario, di implicito, di presupposto. Il

comunismo è un presupposto del potere e non semplicemente un suo risultato. E parliamo a questo proposito di un

comunismo pervasivo, etico, che caratterizza tutti i passaggi del rapporto fra uomo e natura, così come sono stati

definiti nel processo di storicizzazione dell¶universo: il comunismo come movimento, tanto esteso quanto è estesa la

vita. Se non è possibile immaginare alcun rapporto vitale fra uomo e uomo, fra uomo e natura che non sia rapporto di

 potere, tanto meno è oggi possibile immaginare una società non comunista. Il reale che abbiamo dinanzi è illusione.

Dietro l¶illusione si nasconde la realtà del comunismo. Dobbiamo dunque scavare, rispondere a molti interrogativi: che

cosa significa che potere è libertà, che nella particolarità dei contropoteri si annidano prodotti collettivi di libertà,

meglio, che la libertà, nascendo dal rinnovato contesto uomo-natura si vuole come comunismo? Tutto ciò siamo venuti

fino a questo momento analizzando da un punto di vista, per dire, di superficie. Ora, qui di seguito, dovremoapprofondire l¶analisi per vedere come questo contesto, questo ambiente, questo rapporto fra poteri, e fra natura e storia,

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e fra uomini, - come, dunque, questo rapporto di superficie sia organizzato da una macchina più profonda e potente.

3. Il lavoro del soggetto. 

Il tema della crisi e la critica del potere che lo attrav ersa, a partire da quelle caratteristiche di sviluppo e di movimentoche sono specifiche della sussunzione, non possono che concludere alla¶riproposizione del tema del soggetto. Non esiste

 processo senza soggetto: neppure la più alla analisi formale è riuscita a darci uno schema plausibile di un siffattomeccanismo, a meno di non proiettarlo sul più screditato degli schermi, quello della ragion pura e dell¶analitica. Né il

materialismo ha mai escluso il soggetto, anzi la scoperta specifica del materialismo marxiano è appunto quella del

carattere ontologico del soggetto. Tutte le determinazioni devono infatti rovesciarsi sul soggetto, perché è solo il

soggetto che sa esprimere lavoro. Il lavoro non è solo sfruttamento, ma è anche paradossalmente e soprattutt o questo:

 perché attraverso lo sfruttamento passa un attività di rifiuto, di lotta e, conseguentemente, di innovazione: è questa

attività che mette in movimento l¶intero processo storico. Il lavoro del soggetto è dunque la chiave di volta di ogni

determinazione positiva dell¶essere. Filando questo tessuto, seguendo la molteplicità dei suoi disegni, noi possiamo

allora determinare il rapporto complesso che si stende fra sfondo ontologico e figura specifica del soggetto.

La mia ricerca, e quella di molti miei compagni, si è sviluppata lungo gli anni attorno a questo problema del rapporto fra

sfondo ontologico e determinazione dell¶attività soggettiva. Il logo << composizione di classe >> ha sempre infatti

alluso a questo tema. E¶ subito da aggiungere che troppo spesso, ma non sempre, la sua trattazione è stata rigida: ilrapporto fra i vari elementi, storici, politici, tecnici, ma anche morali e più largamente etici, che caratterizzano il

rapporto compositivo, è stato studiato e descritto secondo trafile lineari. Troppo spesso la dialettica, meglio, una specie

di tradizionale e cieca fiducia nel realizzarsi di processi di negazione e superamento: da essi, appunto, è formata la

cosidetta dialettica - bene, troppo spesso questa simulazione ideale si è sovrapposta alla concretezza del progetto.Inoltre, di nuovo troppo spesso, gli elementi di volontà politica e lo stesso formarsi della coscienza, sono stati visti

sgorgare dalla composizione quasi si trattasse di una conseguenza logica e non invece - come era - di un salto e di

un¶innovazione storici. Eppure da questa autocritica non può derivare un annullamento delle grosse verità che

nell¶ambito di quelle ricerche erano state costruite: sia dal punto di vista metodologico che sostanziale.

Dal punto di vista metodologico. Il lavoro del soggetto consiste in due operazioni fondamentali: la prima è quella per 

così dire centripeta, vale a dire di attrazione ed accumulazione sulla figura del soggetto di tutti gli effetti

dell¶organizzazione del lavoro che il soggetto stesso coglie come elementi della propria costituzione e sviluppa

criticamente verso orizzonti di rifiuto, di lotta e d¶innovazione. Vi è poi un¶operazione centrifuga: essa dipende o deriva

o segue alla concentrazione di forza che permette quella costruzione delle soggettività: ora, nel rapporto che si stendetra la soggettività e l¶ordinamento oggettivo del reale si determina una differenza di potenziale che, quando si scarica,

determina insieme crisi e dislocazione del rapporto dato. Questa connessione fra lavoro e dislocazione del quadro

oggettivo è, metodologicamente, il più alto risultato dell¶analisi della << della composizione di classe >>. Tutto ciò lo

riteniamo come contenuto del nostro conoscere e come strumento ancora importante per proseguire nell¶analisi. Né

quanto siamo venuti dicendo, potrà certo essere negato dall¶approfondimento promesso in questo lavoro a partire

dall¶estetica trascendentale: perché infatti, quand¶anche la relazione fosse spinta su quel limite di scissione fra essere enon essere di cui abbiamo parlato - ciò non ridurrebbe la relazione alla catastrofe ed anche in questo caso fondamentale

resterebbe comunque l¶apprezzamento dei contenuti progressivi della relazione - ed è rispetto a questi che l¶analisi deve

sempre essere rinnovata.

Anche dal punto di vista sostanziale il nostro vecchio lavoro lascia, poi, dei risultati positivi, e all¶autocritica è dato s olodi perfezionarli. La figura soggettiva, nello sviluppo del capitalismo, ci si è presentata in un gioco complesso di

appropriazione di forme dell¶organizzazione produttiva, ed almeno quattro grandi figure di soggetto produttore sono

state identificate come egemoni in singole e successive fasi dello sviluppo: l¶operaio indifferenziato, l¶operaio professionale, l¶operaio massa ed, infine, quella complessa e definitiva figura ch¶è l¶operaio collettivo-sociale. Siamo

nel mezzo della grande trasformazione che, appunto, a questa figura sociale del lavoro sta compiutamente portandoci.

Ed è, credo, attorno a questa trasformazione che vale, quindi, oggi soffermarsi e vedere come si svolge il lavoro del

soggetto.

Il punto più interessante è quando verifichiamo una concentrazione di nuove capacità produttive. Cominciamo a fissarvi

l¶analisi. Ora, c¶è un nesso sincronico che corre fra tecnologia, società e cultura. Ovvero, c¶è un quadro generale entro il

quale la tecnologia si presenta come produzione di socialità ed insieme le condizioni generali della società si presentano

come elementi di produzione di tecnologia. E¶ chiaro che il rapporto t ra tecnologia e processo sociale, proprio perché

investe un così ampio spettro d¶esperienza, non è un nesso semplice - né sincronicamente, e cioè se identifichiamo le

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correlazioni puntuali che processo, soggetti lavorativi e sistema produttivo presentano; né diacronicamente, e cioè

quando inseguiamo grandi passaggi storici di modificazione delle tecnologie e delle composizioni soggettive, che si

accompagnano. Processo complesso dunque, mancanza di omologie: eppure riproposizione, in tal modo, di un tema

fondamentale, ovvero, del tema della crisi e della dislocazione. Osserviamo come venga annunciandosi e come cominci

a svolgersi il passaggio verso la composizione dell¶operaio sociale e la sua presenza egemone. Una differenza di

 potenziale, come si diceva, viene qui innanzittutto determinandosi. Il lavoro produce valore: ma questo valore, meglio il plusvalore estorto, non è riunificato e trasformato in valori mercantili ed in profitti monetari sul luogo della produzione;

di contro, solo la circolazione (come livello diffusivo, come massimo di estensione del mercato) e la riproduzione(come livello intensivo, di accumulo istantaneo di valori produttivi) ci mostrano il valore stesso. Siamo di fronte ad una

modificazione del sistema produttivo che è caratterizzato dal fatto che esso, in termini propri, non produce valore, ma

semplicemente ne è il motore di una globale trascrizione sociale. Almeno così appare. In tal modo l¶origine del

 plusvalore è nascosta. Il meccanismo produttivo sociale diviene un velo che nasconde lo sfruttamento dell¶uomo

sull¶uomo. Non a caso le caratteristiche tremende dello sfruttamento non si riveleranno - né saranno percepite - come

immediatamente collegate al lavoro, bensì esse si riveleranno collegate alla società lavorativa - il numero degli esclusi,

dei nuovi poveri, degli emarginati, dei carcerati, dei malati, dei pazzi, ecc. ecc., potrà solo essere calcolato sulla

dimensione sociale dello sfruttamento. Ma qui l¶apparenza si squaglia ed una serie di conseguenze divengono esplicite.

La società dell¶automazione si mostra come struttura di dislocazione della natura del valore. Non vi è più valore che

 possa essere riferito all¶entità singola di sfruttamento. Il marxismo volgare degli economisti oggi non serve neppure

come scienza di gestione. Vale, invece fino in fondo, il marxismo come scienza della società e della sua dinamica:

quindi come conoscenza della dislocazione del valore. Il lavoro del soggetto è dunque, oggi, sociale nella sua estensione

e collettivo nella sua qualità. Sappiamo questo da sempre - si potrà obiettare: ed in effetti da sempre il lavoro è stato

sociale e collettivo ed è attraverso queste caratteristiche che esso ha sempre prodotto più della somma degli sforziindividuali. Ma questa obiezione non è molto significativa quando si consideri che oggi il lavoro individuale non è più

distinguibile dal lavoro sociale e collettivo. Un tempo, il lavoro collettivo era un risultato, ora il lavoro sociale e

collettivo è un presupposto. Avevamo cominciato col dire che ci si trova di fronte ad un meccanismo che non mostra

l¶estrazione del valore, anzi che la mistifica e nasconde, mentre esibisce su un piano di traslazione sociale l¶insieme del

valore prodotto dalla società. Ma più procediamo nella discussione e nella ricerca, più avvertiamo di essere dinnanzi ad

una specie di autentica seconda accumulazione originaria. Autozione come struttura di dislocazione della natura del

valore? Pare proprio di sí. Ma allora ritorniamo al lavoro del soggetto. Se la prima accumulazione originaria è consistitain un processo violentissimo attraverso il quale alla forza lavoro è stata imposta la forma -merce, la seconda

accumulazione originaria rappresenta ora l¶imposizione di uno schema generale di dominio ad una forza-lavoro che,

attraversando il mondo delle merci, ha scoperto di possedere un¶ernorme ricchezza ed una infinita sapienza produttiva.

La traslazione del valore corrisponde così ad una dislocazione del soggetto. Siamo di fronte ad una delle grandi

trasformazioni epocali della natura della forza-lavoro. Se volessimo seguire qui le mille articolazioni di questo processo

 potremmo farlo senza fatica: ma non interessa e altrove comunque lo faremo. Qui interessa solamente percepire come le

leggi generali che regolano il lavoro del soggetto si siano di nuovo rivelate su un passaggio fondamentale, dimodificazione radicale del modo di produrre. Di conseguenza, dentro e attraverso, fuori e contro questa trasformazione,

si è venuto formando un nuovo soggetto - se è difficile farne un identikit, non è perché le caratteristiche complessive del

 processo di formazione siano ignorate ma perché una definitiva figurazione può darla a se stesso solo il nuovo soggetto,

riproducendosi materialmente ma soprattutto politicamente.

C¶è un altro livello, del tutto complementare al primo, rispetto al quale la ricerca deve ora procedere, muovendo dal

vecchio concetto di << composizione di classe >>,: è quello che lega le determinazioni intensive, qualitative, nazionali

del tema << operaio sociale >> alle dimensioni es tensive, dinamiche e multi o transnazionali. Ci troviamo per la prima

volta di fronte ad un processo che tocca i limiti del nostro universo conoscitivo. All¶unificazione capitalistica delmondo, alla sua riduzione intera a mercato, corrisponde sia un susseguirsi di lotte, di resistenze e di dinamiche

antagoniste sui singoli snodi del mercato - e di qui la necessità di controlli repressivi sempre più efficaci e di

dislocazioni produttive sempre più astratte; sia un ripiegarsi mobile ed articolato del comando sulle dimensioni della

giornata lavorativa - sicché la sua frammentazione, la sua flessibilità, la sua plasmabilità, ecc. possano essere

rigorosamente ricomposte su un piano generalissimo, non perciò meno costrittivo. Prendiamo il mercato mondiale edimponiamogli un sistema di assi Cartesian: avremo sull¶ordinata la mobilità della giornata lavorativa e sull¶ascissa

l¶estensione orizzontale del mercato, con tutte le sue difficoltà e i suoi intoppi. Ma dal quadro Cartesian uscirà, appunto,

un meccanismo spazio-temporale completamente modificato rispetto alla tradizione. Questa dimensione, che

chiamiamo trans o multinazionale e che comprende anche (non certo in termini secondari) quella figura temporale

infranta della giornata lavorativa - questo quadro, dunque, si accompagna strettamente alle determinazioni tecnologiche

già considerate. Nella dislocazione del soggetto noi non verifichiamo, dunque, soltanto la socialità della figura produttiva, ma anche questa dimensione multinazionale. Automazione, rottura della giornata lavorativa, mercato

mondiale, misurano unitamente, simbioticamente, la figura dell¶operaio sociale. Ecco dunque un esempio di

dislocazione, un momento paradigmatico del lavoro del soggetto.

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II mondo s¶è chiuso. Quando tocchiamo questa verità dell¶estetica trascendentale, noi non affermiamo una vecchia

verità. Noi non ripetiamo quel sentimento di impotenza che spesso ha toccato l¶uomo, pascalianamente, davanti

all¶incombere delle sue miserie. Qui la chiusura del mondo corrisponde all¶enorme espandersi di tutte le componenti

interne di questo medesimo mondo. Quello che scopriamo non è nuovamente il vecchio mondo medioevale - mondo

finito per antonomasia - scopriamo invece come il mondo infinito della rivoluzione rinascimentale si sia esaurito,

rovesciandosi riflessivamente su se stesso, e come l¶infinita del rapporti che quell¶immagine del mondo conteneva, sisia ora riqualificata dentro sequenze puramente intensive. Vale a dire che oggi il mondo è infinito solamente nella

misura della divisibilità, non in quella dell¶estensione. Il mondo è infinito verso il suo interno : indefinitivamente plasmabile ma non superabile. I suoi limiti sono rigidi.

Ecco dunque, il lavoro del soggetto pervenire, in maniera definitiva, alla riscoperta, ridefinizione e ver ifica di quei paradossi dell¶estetica trascendentale che inizialmente avevamo colto e definito in termini di immediatezza. Il lavoro

del soggetto ci si mostra qui come causa di quella situazione ontologica che l¶estetica trascendentale ci attestava in

 prima battuta. Ora, è evidente qui che il soggetto non è semplicemente un prodotto del movimento storico: esso è il

motore di quella serie di rapporti che si stabiliscono in un tutto unico che coinvolge l¶ambiente e l¶ontologia produttiva.

Ciò è un primo risultato: l¶unità e l¶indifferenza del sostrato ontologico, produttivo, collettivo, sono qui verificate. In

secondo luogo, poi, questa matrice pratica che costituisce la soggettività ci pone davanti all¶estrema tensione

dell¶essere: ad un processo che, dislocazione dopo dislocazione, ha chiuso questo mondo su se stesso. E¶ al soggetto

muoversi, al suo lavoro scegliere di essere o non essere.

Stiamo riagganciando ontologia e soggettività. Non solo, stiamo anche rideterminando le caratteristiche storiche di

questo rapporto. Un pensiero filosofico che muove dal punto di vista dell¶immediatezza empirica, cogliendo in questa

l¶universalità delle determinazioni ontologiche, non può che procedere, appunto, come procediamo: riflettendo su se

stesso, scoprendo in maniera totalmente dispiegata ciò che era implicito, e rivelando il dato dalla cui implicita ricchezza

la ricerca è partita. L¶estetica trascendentale offre alla dialettica dell¶immaginazione vera un terreno di scoperta e di

verifica. Il lavoro del soggetto si fa, dunque, soggetto del lavoro: vale a dire che quel lavoro che abbiamo visto

svilupparsi come critica dell¶esistente, come costruzione di movimento, come rifiuto di essere preda della produzione

capitalistica di soggettività - quel lavoro ora smette << le vesti curiali >> e torna all¶abbigliamento quotidiano, che è

quello del lavoratore, che è quello dell¶organizzazione collettiva del lavoro. D¶altra parte, è solo la capacità che deriva

dall¶aver attraversato le regioni della << sussunzione >>, e cioè dall¶ aver toccato quell¶incredibile misura di astrazione

che lo sviluppo delle forze produttive e il comando su di esse ha determinato, a permetterci ora di cogliere il soggetto

del lavoro nella sua storica corporeità. Il lavoro astratto diviene corpo. Non è un mistero, non è nuova incarnazione

dialettica, tanto meno religiosa o simbolica - quest¶incarnazione è quella che il lavoro conosce passando attraverso il

macchinario informatico e le reti di telecomunicazione. Quest¶astratto diviene concreto perché in esso si sviluppa

l¶appropriazione materiale dei contenuti di conoscenza che le tecniche e i sistemi producono. Come altrove abbiamo

scritto la protesi diviene natura. Di più diviene corpo.

Ma i corpi sono singolarità. Qui lo sviluppo dei paradossi dell¶essere nella fase della << sussunzione reale >> si

incrementa ancor più, poiché, infatti, non solo quel mondo astratto che è la comune matrice di ogni corporeizzazione, si

scinde nelle singolarità - ma queste singolarità assumono dimensioni specifiche, quiddità - e poi identità collettive,

 potenziali di libertà - tali che alle singolarità si accoppia un fortissimo grado di diversità. La grande rete dell¶astrazione

è qui percorsa, quasi sostituita, in ogni caso segnata << a contrario >> (ad ogni momento dell¶indif ferenza si oppone

una differenza) da una rete multicolorata di espressioni singolari. Si potrebbe dire che queste due reti rappresentano dueaspetti di un gioco ottico: ad un lieve movimento, l¶uniformità incolore dell¶astratto si tramuta in un trionfo di tinte. La

costituzione dell¶essere consiste in questo: in questa contemporaneità, simultaneità, di una contraddizione che è

antagonista, tra il massimo di astrazione e il massimo di concretizzazione corporea. La regola antagonistica si manifesta

qui come regola della costituzione. E¶ per questa diversità che la rete dell¶astratto si è sconvolta in rete di espressioni

singolari. Ultimo, ma non meno importante elemento di questo processo, che ora cogliamo nelle sue fasi estreme, è il

condensarsi comunitario di queste espressioni. Vale a dire che nello scontro che le oppone alla rete astratta ed uniforme

del comando, le espressioni di libertà, di lavoro, di corporeità, raggiungono una sorta di equilibrio che le

riterritorializza, cioè sistema gli elementi della diversità dentro una comunità, un territorio umanamente contrassegnato,

uno spazio umano.

E¶ importante sottolineare questa serie di passaggi. Probabilmente non vi è una legge che determini priorità, sequenze,

rigidità - non può esservi. Abbiamo in ogni caso casistiche di percorsi differenziati. Ma ciò che è importante

sottolineare è che questa serie di elementi, questa precipitata consistenza di materialistiche determinazioni, ha uno

spessore ontologico fortissimo. Nei miei lavori precedenti, troppo spesso ho considerato il rapporto tra i processi di

autovalorizzazione e processi di autorganizzazione come termini conseguenti, come tappe di un medesimo progetto -

l¶autovalorizzazione, la spontaneità del processo visto dalla prospettiva proletaria erano comunque prima, fondanti,ontologicamente superficiali ed evanescenti. Non a caso, di conseguenza, la determinazione aperta dei fili di

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autovalorizzazione - immagine che qui confermo - mi sembrava scaricare il quadro di caratteristiche ontologiche

 pesanti. Ci si muoveva nel soft piuttosto che sull¶hard. Invece qui vogliamo proprio insistere sull¶altro aspetto - vedere

cioè come i processi di autorganizzazione procedano, o comunque siano contemporanei, a quelli di autovalorizzazione.

Spieghiamoci. Innanzitutto i due processi sono complementari e la definizione dell¶uno solo difficilmente (o del tutto

erroneamente) può essere fatta senza la definizione dell¶altro. Certo, vi saranno crasi, deviazioni, sentieri interrotti: ma è

essenziale ricordare che autorganizzazione e autovalorizzazione si iscrivono su un medesimo contesto ontologico. In unsecondo luogo, tuttavia, occorre affermare che l¶autorganizzazione viene prima di tutto: essa è la via che va in

 profondità, quasi uno scivolamento tettonico, un radicarsi che non può subire strappi e comunque è capace di unasublime resistenza. Tutti i termini della rete di espressioni che costituisce (nel senso pesante di costituzione) l¶essere de l

soggetto, troviamo qui una sistemazione, un ordinamento interno, una tendenza vitale, per così dire, diretta dalla ragione

di queste connessioni. Immanente, autoriflessiva, potente. Di tutte queste caratteristiche che si può parlare senza

attribuire loro qualificazioni organicistiche: la dinamica è descrivibile su un terreno meccanico - quando a questa

meccanica sia garantita l¶intera dimensione di potenza dell¶essere. A me Spinoza è servito per leggere in tal modo, fuori

da ogni tentazione organica, fuori da ogni scivolamento idealistico, questa potenza dell¶essere. L¶autorganizzazione,

dunque, precede ontologicamente l¶autovalorizzazione. Ma questa precedenza è, come abbiamo accennato, logica

 piuttosto che storica. Vale a dire che le vicende storiche, nel mentre si danno e variano e si moltiplicano, fanno

comunque precipitare ed iscrivono segni sulla corteccia razionale dell¶essere. L¶autovalorizzazione organizza: ma non

 potrebbe farlo se questo passaggio attivo non possedesse una referenza solida, una rete dentro la quale collocare il

significato degli eventi, un senso secondo il quale organizzarli. Se qui si insiste tanto su questa anticipazione (in ogni

caso logica) della potenza ontologica su quella storica: è perché la nostra esperienza ci ha a questo condotto. Cioè a

considerare che l¶attività etica non poteva sviluppare il suo senso se non quando fosse inserita su un tessuto ontologico e

che molti fallimenti, logici e pratici, avrebbero potuto essere evitati se la determinazione pesante dell¶ontologia eticafosse sempre stata criticamente posta all¶ordine del giorno ed esibita come prima linea di orientamento.

Tuttavia non è certo questa potenza ontologica che, sia pure come sfondo, può fermare la felice vitalità dei processi di

autovalorizzazione. Dicevamo prima che i percorsi nell¶essere, di produzione dell¶essere, possono subire deviazioni ed

intralci e conoscere difficoltà. Ma questo non solo è necessario: è anche bello. L¶estetica trascendentale raccoglie qui,

sia pure in termini di pura superficie, la felicità dell¶evento. Ed è probabilmente su questa leggerezza dell¶ess ere che

un¶eventuale dialettica può essere ritmata. Deviazioni, dunque, intralci, scontri: la potenza ontologica è una rete di

contropoteri. E¶ dentro questa vicenda, che noi ci ostiniamo a ritenere felice, com¶è felice la superficie dell¶essere,

anche quando mostra risvolti di tragico, - è dunque dentro questa dimensione che le leggi di formazione della

soggettività vengono fissandosi. Quelle leggi che, nel paragrafo precedente, abbiamo cercato di descrivere: leggi di

condensazione, ma poi di appropriazione e di dislocazione, leggi che scandiscono il definirsi di identità collettive alivelli sempre superiori. Ma queste leggi di formazione devono essere esse stesse sottoposte a quel ritmo instabile che

qualifica il rapporto fra autorganizzazione e autovalorizzazione, che lo colloca, in maniera fragile e pur duratura, dentro

un territorio dello spirito e che attraversa con libertà queste temporanee determinazioni. Ogni linearità uniforme è rotta:meglio, può forse essere utilizzata come ipotesi, ma è solo una verifica portata su tutte le vicende del processo che ne

convalida il senso ed il significato. Ogni teoria dello sviluppo attraverso determinazioni preconcette, stadi e fasi, è

anch¶essa rotta: di nuovo, può essere utilizzata come ipotesi di ricerca ma solo quando il meccanismo della ricerca non

tenga dietro o si disperda fra pedagogiche tradizioni.

Ogni analisi concreta, fin qui condotta o sviluppata altrove, conferma la correttezza delle qualificazioni e tendenze del

rapporto fra lavoro, territorio e libertà che sono state descritte. Torniamo, ad esempio, all¶identificazione del soggetto

sociale e multinazionale del lavoro e dello sfruttamento: vedremo, in questo caso, come appunto lo sviluppo della

 potenza produttiva del lavoro abbia raggiunto un consolidamento irreversibile, come sul ritmo di questo consolidamento

si siano ovunque formale identità collettive del medesimo spessore. L¶ultimo proletariato entrato nel mercato mondiale

non deve percorrere tutti gli stadi dello sviluppo per pervenire a collocarsi nel circuito mondiale di scambio delle merci

e di realizzazione del valore: tutte le tematiche relative ai prerequisiti sono enormemente semplificate, e non esiste

dottrina che possa (in maniera rigida) proporre fissi scenari di sviluppo. Di contro: qu est¶ inserimento nel mercato, ed ai

 più alti livelli dei processi produttivi, esplicita momenti di resistenza e processi di identificazione al più alto livello. Irapporti che si pongono fra mercati diversi, vengono in gran fretta sospinti verso un massimo di orizzontalità ed una

massima intensità di reciproco ricambio. Questo in generale. Tanto più tutto ciò vale per i soggetti che in questi processi

sono insieme collocati (come ad esempio varie frazioni della classe operaia impiegata da una medesima trasnazionale, o

diversi segmenti proletari partecipanti ad una medesima filiera produttiva) ed organizzati nelle dinamiche unitarie che

corrono la produzione ed il mercato. Sicché l¶operaio sociale-multinazionale si trova dinnanzi al compito di stringere il

rapporto fra le diverse frazioni del proletariato mondiale perché la materialità stessa del rapporto produttivo mostra che

l¶interesse degli uni e degli altri deve coagularsi su un unico asse. L¶internazionalismo non è certo morto!

E¶ difficile, per noi stessi che abbiamo vissuto questo periodo, comprendere con quanta intensità questo processo di

identificazione di soggetti collettivi abbia proceduto nei tempi stretti della << sussunzione reale >>. Ma è certo che,

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entro questi tempi strettissimi, è corsa una implacabile iniziativa del capitale. Ed è altresì certo che, di contro alla

 possibilità operaia e proletaria di forzare la costruzione soggettiva della resistenza, le regole del dominio si sono

riproposte a quell¶altissimo livello di unificazione, con straordinaria efficacia; e che, quanto più l¶istanza di

riterritorializzazione attraversava le nuove identità collettive, tanto più da parte capitalistica venivano astratti i modi

dello sfruttamento e i contenuti del controllo. Ad esempio, un orizzonte di controllo puramente monetario, simbolico ma

non perciò meno efficace, veniva imposto con strumenti terroristici durante il decennio che segue al µ68 ed allaconseguente crisi nixoniana del dollaro e del petrolio. Da allora la moneta fluttua senza senso - senza un senso che non

sia quello dell¶adeguamento puntuale ed istantaneo alle necessità di repressione. Così i momenti potenti diautodeterminazione si scontrano ad una capacità di repressione esatta e feroce. Così i processi di appropriazione sono

 bloccati sul nascere. E ciò che sembrava divenire corpo, è in tal modo confinato all¶astratto, ciò che tentava di divenire

comunità è condannato al ghetto. Finché non si dia rivolta. Quale rivolta? Quale insistenza antagonistica? Dal 1982 è

chiaro come questa resistenza possa formarsi: appunto sul livello e contro il terrore monetario, contro il ricatto e la

repressione che si esercita attraverso l¶equivalenza generale. Dentro questo passaggio si spiegano, in termini

assolutamente espliciti, le dimensioni del rapporto di forza che al lavoro del soggetto sono in questo periodo imposte, -

fra il 1971 e il 1982, fra la liberazione nixoniana del dollaro e la rivolta dei paesi indebitati contro la ferocia delle

 banche e degli Stati centrali.

Lasciamo per ora ulteriori esemplificazioni: su di esse potremo eventualmente più tardi tornare. Quello che invece qui

non possiamo trascurare, è di osservare come, a partire dalla situazione esemplificata, il livello di resistenza ontologica

si sia, per così dire, talmente fissato da re ndere pressoché nulla l¶elasticità del sistema. Dall¶analisi di questa situazione

 possiamo indurre un¶ulteriore modificazione del paradigma. Se non fosse paradossale dirlo in questo momento, e cioè

 proprio quando la funzione repressiva della moneta si sviluppa appieno, si potrebbe prevedere che, a fronte del grado diresistenza oggi verificata, gli strumenti monetari hanno concluso il ciclo storico nel quale era a loro affidata la funzione

centrale nel controllo. Si può oggi, di fronte alle resistenze che c ontro il comando monetario si sono levate, parlare di

capitalismo senza moneta? Non Sarebbe la prima volta che il comando si è esercitato, nella storia dell¶umanità, fuori del

rapporto monetario. Né l¶eventuale conclusione del ciclo del comando monetario del capitale può garantirci [garantirsi

?] che altre adeguate forme di comando non subentrino alla moneta. Ma ciò che è qui estremamente interessante notare,

è che, nel momento nel quale la funzione del comando monetario viene meno, gli aspetti, certo non e sclusivi e

comunque non secondari, progressivi della funzione monetaria, - sono ora fatti propri dal soggetto del lavoro. Voglio

dire che quell¶universalità di comunicazione e di movimento, quella mobilità e quella leggerezza che il danaro impone

agli uomini e alle merci, - ed in tutto ciò è consistita un¶enorme spinta progressiva per l¶umanità - bene, tutto ciò è

conquistato direttamente ed immediatamente dai soggetti produttivi. Nella stessa misura in cui il capitale distoglie dal

denaro la funzione immediata, diretta del comando - il capitale oggi propone comando in termini militari e terroristici.Sicché uno dopo l¶altro una serie di elementi di libertà si accumulano sul soggetto del lavoro: ma su di esso si

condensano nella misura in cui, dall¶altra parte, il controllo, il comando, il capitale, estremizzano l¶esercizio del potere e

ne portano la disponibilità direttamente sull¶alternativa fra l¶essere e il non essere. C¶è una nascente metafisica che simostra in maniera opposta, antagonista, per il lavoro e il capitale: ora, quanto più si determinano sviluppo e modernità,

tanto più questo antagonismo perviene all¶ alternativa dell¶essere e del non essere, perché a questo punto al lavoro del

soggetto è dato il rapporto con l¶essere in maniera esclusiva, mentre al capitale è dato, in maniera sempre più stringente,

il non essere. Dunque, ogni qualvolta il processo complessivo avanza, noi ci troviamo di fronte ad un allargamento di

questa alternativa. Ogni qualvolta matura la grande capacità produttiva del soggetto del lavoro, tanto più la biforcazione

si scandisce e si approfondisce. Siamo nell¶epoca nella quale questa scissione, prodotto della crisi, del suo superamento,

delle lotte e del loro futuro, è tesa al massimo dei livelli.

 Nell¶osservare tutto questo, abbiamo nuovamente affrontato il tema della simulazione astratta, per quanto concerne il

controllo dei meccanismi di valore. Altrove abbiamo chiarito come i meccanismi di valore si configurino oggi sul

terreno della circolazione sociale, meglio, in forma collettiva; e come, mentre è impossibile riferire all¶individuo la

determinazione del valore, questa si può costituire attraverso il lavoro di soggettività collettive. E¶ interessante allora,

sulla base del ragionamento che abbiamo fin qui condotto, aggiungere qualche considerazione su come il rapporto fra

astrazione e comando venga disgiungendosi. Vale a dire che nella misura in cui l¶astrazione diviene sostanza delsoggetto ed il comando tende ad essere unico elemento caratterizzante del potere contrapposto - bene, in questo caso noi

ci troviamo di fronte ad un¶operazione con una immediata valenza etica. Vale, ancora, a dire che il valore è direttamente

implicate in questo processo e che il processo stesso mostra una immediata divaricazione. Così da un la to, a questo

livello dello sviluppo, il valore è strappato alla forza-lavoro individuabile e riproposto come figura dell¶insieme

collettivo delle attività sociali. D¶altro lato, invece, ecco che il simulacro diviene pura e semplice falsità, ipocrisia,

ideologia. Esso è puro comando, non contiene più l¶allusione al valore, non è più neppure mistificazione. E¶ violenza

diretta, tanto folle, vuota ed assurda quanto lo è il comando di un despota. La simulazione è non essere, è paranoia,

autoproduzione fantastica, espressione esasperata di un comando esasperato... Il lavoro del soggetto è il contrario di

tutto questo. Questa simulazione potrebbe definirsi come il lavoro dell¶oggetto: morto e cieco. Se dal lavoro del

soggetto siamo risaliti al soggetto del lavoro e questo abbiamo collocato su un territorio di libertà, - simulazione è,

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assieme alla negazione del valore, negazione del lavoro, della sua territorializzazione e della sua libertà.

5. Compact: fra diritto e rivoluzione. 

Ci siamo fin qui mossi dentro la materialità dei rapporti sociali e la loro immediatezza - che pur abbiamo trovato pienadi senso. Ma questi rapporti vanno portati al pieno del loro significato, vanno dipanati e riguardati come elementi di

coscienza. Questo compito è urgente: già sul terreno dell¶estetica trascendentale lo sviluppo dei rapporti sociali si èmostrato come precipitazione verso un orlo dell¶essere che noi abbiamo considerato aperto al nulla dell¶essere. Ora, è

appunto su quest¶orlo, che la nostra necessità di rendere coscienti, e con ciò desiderabili, prevedibili, costruibili i

rapporti sociali, si pone con estrema intensità. Questa necessità, sulla base dello sviluppo della coscienza, viene

dall¶interno dei rapporti sociali - quest¶internità inoltre definisce come urgente il compito di sviluppare il processo di

 presa di coscienza, anzi, esalta la pertinenza dell¶impegno. E¶ un cammino che viene dall¶interno dell¶immediatezza:

qui si dimostra come assolutamente inutile la mediazione, la presa di distanza che è un controllo sulla genesi dei

 processi che ci interessano - qui si rivela come vuota la pretesa totalizzante del controllo, della previa astrazione e

separazione dei valori che comandano l¶esistente. Questi valori sono ricchi. Il reale comprende, nella sua lussureggiante

figura, un sottobosco in cui i valori si riproducono, contraddittori ma ricchi. Il sottobosco dei valori è la loro enorme

 potenza. Il cammino che attraversa la realtà, per promuovere in essa gli elementi di innovazione, di potenza e di

creatività, non è quindi (e non può essere) una mistificata, previa e preconcetta selezione di valori - esso si distende

ovunque - la vocazione è alla cucitura, al collegamento, all¶articolazione del valori. Insomma, siamo al limite inferioredella dialettica trascendentale ma questa dialettica trascendentale non scende da un¶analitica qualsiasi, deriva invece

direttamente dall¶interna articolazione dell¶estetica trascendentale e di questa spiega la densità ontologica, trasformando

quelle premesse in strumenti di conoscenza più generale e di fondazione dell¶etica. Questa deviazione del cammino è

 prepotente - l¶analitica è un fondo inerte della conoscenza e un residuo morto ed antagonistico (antagonistico in quanto

morto) della coscienza. Solo questa denuncia, questa dichiarazione, già all¶interno del minuto meccanismo dell¶essere

singolare, ci indicano l¶interiorità della scelta - quest¶eterno Cartesian o Socratic dubbio - nell¶immediatezza.

Una dialettica trascendentale, dunque, che non sia una teoria della mediazione ed una conseguente pratica cosciente

dell¶immediatezza: eccoci a fronte di questo compito e delle sue condizioni. Meglio, le condizioni sono presupposte, si

tratta di sviluppare il compito. Noi dunque muoviamo dall¶interno del reale, dell¶immediatezza - vogliamo costruire, ed

immaginiamo tutti i passaggi e gli strumenti che possono permetterci di costruire veramente il mondo. Dialettica

trascendentale diviene così l¶insieme degli strumenti che permettono la realizzazione dell¶immaginazione vera - di

quell¶immaginazione che tenta di raggiungere e contenere e modificare strati della realtà. Un¶immaginazione creativa.

Abbiamo visto come la rete che chiude l¶orizzonte dell¶esistenza, sul terreno dell¶estetica trascendentale, possa esserestrappata quando la sua coerenza è posta a fronte degli antagonismi elementari che la dominano - ora, è appunto suquesto strappo che si apre la speranza ricostruttiva... Che contenuto di violenza esistenziale prevede la costruzione di un

orizzonte etico, una prospettiva etica di ricostruzione! Non è certo qui luogo di pensiero debole: il pensiero è forte,

energumeno - è ricerca di toccare la terra per averne tutta la sua forza. Né pensiero debole è quanto segue a quest¶atto di

rottura: un venire avanti progettando, mettendo all¶opera schemi di conoscenza possibile, collegando momenti empirici

e pulsioni ideali. Induzione, ma intrecciata alla deduzione - induzione profonda, quindi, alla Peirce, andar cercando e

costruendo, secondo ordini che abbiamo trovato all¶interno della nostra esperienza empirica... Ma questo andar per 

tracce, non è pensiero debole, di nuovo: è inseguire le linee interne dell¶essere, è uno sforzo ontologico.

Con ciò cominciamo ad entrare nel merito di quello che più propriamente qui ci interessa. Rispondere cioè alla

domanda: come può organizzarsi l¶insieme di pulsioni etiche che ci permettono di costruire il rapporto sociale e di

controllarlo nel suo distendersi temporale? Che cos¶è una dialettica trascendentale dell¶immaginazione vera?

Ora, quello che su questo terreno noi sempre di nuovo ci troviamo davanti è il tentativo di chiudere in formulazionianalitiche il processo costitutivo della realtà sociale. Questo tentativo di bloccare la fantasia creativa e il suo rapporto

con l¶innovazione reale va sempre battuto. Vale a dire che nello svilupparsi del punto di vista costitutivo deve risiedere

sempre uno spunto antagonistico che lo individua. Ma questo spunto antagonistico non solo individua, singolarizza,

esso pone anche il problema di come, fra queste differenze necessarie, possa svilupparsi punto di vista costitutivo.

Problema: il modo nel quale essa possa determinare la prospettiva della ricostruzione, dello sviluppo

dell¶immaginazione vera: anzi, questa forza di rottura aumenta ed ingigantisce le differenze e dilat a le difficoltà.

Ma perché diciamo questo? Non è vero, al contrario, che il contesto delle differenze è il contesto della ricchezza

dell¶esperienza? E che un processo costitutivo deve di conseguenza provarsi essenzialmente e soprattutto su questo

terreno? Il punto di vista costitutivo è quello della costruzione interna del disegno innovativo, in ogni momento della

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nostra vita e della nostra esperienza; la costituzione si presenta come un processo umano, sempre aperto, sempre

enormemente potente. Quando consideriamo tutto questo, percepiamo allora che la dialettica trascendentale della

ragione si rappresenta qui, realmente, come dialettica ontologica fra singolarità, autovalorizzazioni, insorgenze di

movimento, - e questo nella figura della differenza. E¶ un processo del tutto formativo, che plasma la realtà, che soffre

delle sue durezze ma che, nel contempo, di quegli antagonismi fa un momento propulsore. In fondo, il rapporto fra

autorganizzazione e autovalorizzazione, e la stessa dialettica che fra queste funzioni si esercita, ritrova in questoformare, in questo processo continuo, la sua ricchezza. La sua articolazione e la sua potenza. Potenza è in effetti questo

rapporto continuamente aperto. Il disegno costitutivo è la creazione che il sapere e la volont à esprimono, raggruppandoe trasformando gli oggetti e gli uomini e il loro rapporto reciproco. Tutto questo avviene dentro quell¶area di sostanziale

omogeneità che l¶ambiente determina - ogni punto di vista ha una dimensione ecologica cui riferirsi, laddove per 

ecologia riteniamo l¶insieme di tutte le forze che costituiscono l¶ambiente, - fisiche, morali, storiche.

E¶ qui, dunque. che il discorso si fa esplicito: poiché pone attraverso l¶interiorità ontologica, la necessità di riferimento ,

da una parte di questa potenza ontologica, all¶esteriorità dell¶essere. Dobbiamo muoverci [muoversi ?] dentro

l¶esteriorità dell¶essere: la capacità critica consiste in questo, in questo aver portato il pensiero e l¶esperienza fino all a

loro esteriorità. Ora, si tratta di far incontrare ciò che percorre cammini diversi e vedere come possa, se non accordarsi,

certo trovare la maniera di convivere - ma soprattutto si tratta di porre il problema di come le compresenze ontologiche,

le contemporanee differenze possono costruire, attraverso il rapporto, nuovo essere, nuova potenza.

Il pensiero sul diritto ha sempre questo vantaggio, fra le varie forme di pensiero dell¶essere: ed è quello di proporsi

l¶esteriorità, vale a dire il massimo della potenza dispiegata. Perché infatti, d iversamente da quanto possano pensare i

kantiani e tutti coloro che del diritto danno un¶immagine banalizzata nella sua esteriorità, - ecco invece l¶esteriorità

divenire dignità ulteriore del pensiero e massimo punto di creatività, nel momento stesso nel q uale essa si presenta come

incontro di differenze ed articolazione, terribile e drammatica, di esse. La parola << Compact >> ci piace molto, in

questo senso. Essa definisce ogni diritto come diritto federativo - essa scontra il giacobinismo in tutte le sue

articolazioni, avendo, del giacobinismo, conosciuto preventivamente ogni possibile perversione. Essa mostra le

differenze all¶opera nel costruire l¶ambito normativo della convivenza, della collaborazione, della costruttività sociale -

senza nascondere come quest¶ambito sia anche, e comunque possa essere, quello della dialettica distruttiva, fino

all¶ultimo antagonistica e feroce. Il diritto non nasce dall¶attualità della pacificazione - nasce solo dalle condizioni di <<

compact >>, dalla possibilità di una pacificazione, meglio, di un passaggio in avanti del contrasto fra forze sociali, fra le

soggettività antagonistiche, che sia tale da arricchire l¶intero ambito della conoscenza e dell¶interazione umane. Su

questo termine << compact >>, sul contenuto federalistico e nello stesso tempo fortemente dialettico che esso

comprende, noi naturalmente proseguiremo il discorso: ma quello che qui, metodologicamente almeno, va sottolineato,

fortemente, è il fatto che solo la differenza crea diritto, ed il suo immediat o e forte riconoscimento.

Ma occorre essere chiari. Il diritto non toglie la rivoluzione. E¶ curioso notare come ogni concezione realistica del

diritto, spesso molto aperta e sinceramente progressiva, veda quest¶ultimo come forma nella quale la rivoluzione si

organizza. E¶ questo l¶ultimo modo di togliere la rivoluzione: considerare che il diritto la organizzi. No, è la rivoluzione

che organizza il diritto. Con ciò il diritto diviene normatività, tessuto nel quale si determina una trasformazione continua

degli assetti sociali - insomma, è nel rapporto potente fra rivoluzione e diritto che si formano gli strumenti della

costruzione continua della dialettica trascendentale, - tentativo di raggiungere il valore a partire dal reale, di

autovalorizzazione a partire dal fatto di consistere ontologicamente. Altrimenti il diritto è solo comando idiota, buco

nero nell¶insieme collettivo delle coscienze, resto distruttivo dell¶esistere. Dunque, quando la totalità si oppone alladifferenza, o lo fa in quanto essa è pienezza delle differenze, ed allora è rivoluzione - e conseguentemente diritto - e

ancora rivoluzione e diritto, ecc. - oppure la totalità è vuotezza delle differenze, ed allora il diritto è la forma zero del

 potere, l¶organizzazione della pura volontà di potere spinta alla distruzione degli uomini e della loro capacità di

immaginare sempre di nuovo il reale.

Il reale è un contesto di contropoteri. Il soggetto si configura come contropotere. Meglio sarebbe dire come potenza,come contropotenza, per definire l¶inerenza dell¶antagonismo alla definizione della potenza stessa. La potenza non solo

esprime un contenuto metafisico ontologicamente originale, essa sviluppa anche una specificità, un differenziale che

nasce dall¶antagonismo, dalla particolarità, dalla singolarità che la contraddistingue. Ora è in questo gioco che la

rivoluzione, dopo averlo legittimato, si differenzia dal diritto. Fra diritto e rivoluzione, infatti non c¶è solo una

differenza di potenziale: il primo è più debole, la seconda è più forte. No , c¶è qualcosa di più - ed è la caduta di ogni

omologia con lo stato nello svilupparsi della rivoluzione mentre il diritto può esistere anche in società statali - anche se

esse sono società di morte. Il rapporto fra la rivoluzione e lo Stato, anche se la r ivoluzione passa attraverso il diritto, è

invece - lo ripetiamo - di nessuna omologia. La dimostrazione di questa affermazione va, com¶è evidente, riportata

all¶analisi ontologica. Il tema dell¶omologia, questo tema così profondamente criticato - ma prima di tutto posto

all¶ordine del giorno - da Foucault, bene, esso ormai domina i nostri pensieri. L¶analisi ontologica apre alla sceltadell¶essere etico. E¶ perciò che noi vogliamo distruggere ogni omologia con il passato, con quella concezione del potere

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che ci ha imprigionato. Il diritto non toglie la rivoluzione - ma la rivoluzione che si articola a quelle figure del diritto

naturale alle quali noi ci richiamiamo, toglie comunque lo Stato. Il reale è un libero contesto di contropoteri.

Rivoluzione e diritto, se vogliono esser degni dello stesso nome, nascono sotto la stessa coperta.

Eccoci dunque a poter descrivere l¶ampio e variegato gioco sul quale si esercita il << compact >> delle energie

soggettive - questo terreno ampio, dentro il quale si formano e si distruggono i soggetti, ma che mostra sempre, di

conseguenza, un disegno, un ordinamento. Questa vita del diritto e della rivoluzione, che nasce dal medesimo

movimento, dalla medesima origine, - ecco, questa è la linea che dobbiamo seguire. Altri lo ha fatto dal punto di vistadella genealogia della morale, altri dal punto di vista dell¶intreccio fra istituzioni e volontà politiche - ma nel passato,

guardando indietro a quanto era avvenuto, sia pure per averne un¶indicazione positiva nel futuro. Per la teoria. Qui noi

ci muoviamo sul terreno del presente. Riprendiamo quell¶aurea linea teorica che è stata di Machiavelli, Spinoza e Marx- la prendiamo come si prende un¶arma, pronti a colpire. E¶ la linea del sapere pratico, del sapere che incide

sull¶ontologia, che in ogni momento opera quel miracoloso effetto che è il coordinamento tendenziale delle soggettività

quand¶esse siano intese alla costruzione del reale.

E¶ assolutamente necessario togliere di mezzo qualsiasi sospetto di idealismo, quando si affronta questo tipo di analisi e

si insiste su questa metodologia. Non è difficile comprendere che questo approccio metodologico non solo non è

intenzionalmente idealistico - non lo può comunque essere: perché è la materialità delle istanze soggettive che qui si

confrontano, ad escluderlo. Quando dico materialità delle istanze soggetttive [sic, soggettive] intendo tutto quello che

cade nel potere dell¶uomo, ovvero gli oggetti e le idee, che egli usa. Il concetto di prassi è materialistico non perché

ripeta insulse definizioni meccanicistiche: non le ripete, infatti - ma perché comprende questo formarsi complesso del

reale come conseguenza di atti diversi, ognuno dei quali ha una sua resistenza, una maggiore o minore elasticità, un

 potenziale diverso ecc. ecc. Qui tutto si crea e si distrugge. Non ci sono avveniri diversi da quelli che l¶uomo costruisce,

collettivamente, per se stesso e per la propria collettività. Quando risalgo appunto a quell¶illustre tradizione alla quale

mi richiamo - a Machiavelli, a Spinoza e a Marx - ai quali posso aggiungere alcuni nomi della filosofia contemporanea

e, di nuovo a mezzo fra la modernità ed il presente, il ricordo del mio eroe Leopardi - dunque, in questo quadro io

allontano non dico l¶accusa ma solo il sospetto di idealismo. A meno di non considerare il materialismo come, ero

giovane, alcuni marxisti di scuola sovietica lo intendevano: un catechismo per bambini scemi!

Mi sembra che quanto sono venuto fin qui dicendo, sia da tempo consolidato in un sapere che si intende quale prodotto

di movimento, cioè di un processo collettivo, di trasformazione. Ma ecco, di nuovo, qui vicina, una obiezione seria: di

quale diritto, dunque tu parli? Non hai sempre considerato, nelle tue precedenti opere, ed in consonanza marxista, il

diritto e lo Stato come equivalenti? Ed ora come puoi dimostrare che il diritto è rivoluzione e non Stato?

Ora, non è per gioco che ho fin qui, nei capitoli che precedono, tanto insistito sul rapporto fra livello ontologico e livell ostorico, che ho tentato di spiegare come l¶autorganizzazione venga prima e non dopo dell¶autovalorizzazione. Non è per gioco che ho tentato di far capire come un nesso ontologico o comunque un momento di ordinamento interno della

coscienza, non solo non siano opposti ma centrali nell¶organizzazione del movimento esterno della coscienza e nella

stessa formazione delle soggettività. Ora, detto tutto questo, e inserita, come fosse un segno di caratterizzazione

 profonda, la legge dell¶antagonismo nel mezzo dello stesso meccanismo dell¶individualismo, il diritto sembra possa

essere recuperato al pensiero rivoluzionario. Come? Forse quel diritto del quale tutti abbiamo subito la pazzesca idiozia

e volontà di repressione? L¶arbitrio e il gioco al massacro, la simulazione e la ferocia della condan na? No, non è di

questo che si parla - si parla invece della possibilità-necessità di far nascere un diritto come ordinamento aperto e

vivace, vivente e forte, dall¶interno del processo rivoluzionario, dall¶interno del processo di distruzione della rigidit à

 burocratica del mondo che conosciamo. Un diritto completamente impiantato nella libertà collettiva - un diritto mai

vendicativo e sempre aperto alla gioia dell¶innovazione.

 Non vorrei più usare la parola diritto. E¶ una parola sporca, è una parola che sporca alcune delle realtà che descrive.

Intendo, le realtà nuove. Un ordinamento che nasca dalla vitalità collettiva e che si formi sull¶urgenza di distinguerel¶essere dal non essere, la violenza distruttiva da quella creativa - un diritto siffatto lo abbiamo spesso conosciuto e,

quando lo abbiamo conosciuto, lo abbiamo amato. Ora, noi vogliamo seguire questa strada che abbiamo indicato e

riconoscerla. Coordinamento di soggettività, coordinamento tendenziale, - abbiamo detto. Sia chiaro: nulla è

 precostituito, tutto è aperto, è giocato in quanto è giocabile attraverso mille tendenze. Che cosa significa alloracoordinare, che cosa significa tendenza? Per rispondere non possiamo che riportarci a quanto abbiamo più volte ripetuto

- e cioè che una sorta di condensazione è quella che, in maniera centripeta, si forma nello sviluppo delle forze

soggettive che costituiscono le singolarità rivoltose, sovversive, cariche della dignità dell¶essere e della liberazione. Che

 poi una specie di catastrofe si scatena, e su questa catastrofe di tutti i sensi finalmente si inquadrano nuovamente le

figure dell¶essere. Nuove composizioni si danno. Nuovi orizzonti si definiscono. La genealogia è ritornata ad essere

cosmogonia - meglio, cosmologia, ma dentro, per un mondo che è completamente e definitivamente astratto: tra questa

astrazione, non come medietà bensì come tendenza materiale e sempre di nuovo costruita, e sempre di nuovo verificata,

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il movimento del mondo va compiendosi. La sua ontologia è a posteriori, non esiste per es sa necessità metafisica - ma è

 ben vero che una volta formatasi essa assume la verità dell¶analitico. Senza esserlo, negandolo. Analitico a posteriori.

Eccoci dunque al termine di queste pagine e dello sviluppo di questa tematica. Abbiamo visto quanto il c oncetto di <<

compact >> ci possa concedere in termini di ricchezza e di utilità sistematica. Fra diritto e rivoluzione noi veniamo così

raccogliendo gli elementi fondamentali della nostra ipotesi. Essa riconquista la metafisica per porla in prime piano su l

terreno materialistico e ateo dell¶analisi - sul terreno soggettivo della costruzione. Il senso della costituzione si traduce

nel reale. Nell¶operatività grandissima delle mute e mille energie che all¶interno di esso si formano e si sviluppano. E¶un fiume quello che ci corre davanti: ma noi sappiamo che potremmo essere dentro ogni singola corrente che questo

fiume, infinitamente, compone. Lo abbiamo visto nella nostra esperienza rivoluzionaria, ogniqualvolta l¶abbiamo

vissuta onestamente. L¶abbiamo visto nella storia dei processi rivoluzionari e soprattutto nella formidabile avventuraleninista e maoista. Ora, e forse in maniera più importante (dell¶orgoglio della ragione occore [occorre?] andar fieri, se è

vero che per esso l¶Eden fu perduto) - ora dunque, queste gigantesche esperienze noi possiamo raccoglierle in uno

schema ideale. Erasmo viene prima di Lutero. Melantone viene dopo: mi trovo ad essere l¶un l¶altro, al servizio di un

Lutero eterno.

6. Il concetto di pratica sociale. 

Siamo così giunti al termine della nostra ricerca. Essa s¶è mossa da una fenomenologia del presente che ci ha mostratocome noi fossimo costretti a vivere un reale, completamente trasfigurato dallo sviluppo del capitalismo. E¶ stato

difficile riconoscersi li dentro - siamo stati risucchiati in una circolazione dalla quale non riuscivamo a liberarci ed i

 paradossi che immediatamente apparivano, ecco, essi pure erano per noi elementi di prigione e non momenti di

liberazione. La prigionia dell¶esperienza era nello stesso tempo prigione linguistica - la filosofia contemporanea sisviluppa in questo senso, raggiunge questi formidabili limiti - sono i limiti di un¶illusione che non sa rompersi e non è

 possibile andare oltre a riconquistare il reale. Ho vissuto questo sviluppo nel mio pensiero, - assieme alla mia

generazione, alla mia epoca. Marx ci ha mostrato, nello sviluppo del capitalismo, quello che Wittgenstein ci ha mostrato

 per lo sviluppo della filosofia borghese: la sussunzione reale, dove il linguaggio diviene la gabbia socia le che tutto

comprende, e non c¶è possibilità di romperla né di cogliere di là da essa un reale vero, un terreno su cui posare i piedi,

una base che ci strappi all¶irruenza del fiume della circolazione.

Eppure, sul limite estremo di quest¶orizzonte, al qua le pure eravamo obbligati, ma non solo, schiacciati piuttosto, legati

 ± su questo limite, ecco la crisi mostrarsi in termini estremi, - non è la nostra intelligenza che ci porta di là del reale, né

il nostro desiderio - vorrebbero: ma solo la violenza del reale, in questo caso, della contraddizione, dell¶estremoantagonismo, vi riesce. Questo mondo chiuso e disperato nel quale ci siamo trovati a vivere, nella figura del quale

l¶intera storia del razionalismo occidentale si chiude - mostra un limite nel suo proprio cuore. Questo limite, lo sviluppo

ci mette dinnanzi: è la scelta fra l¶essere e il non essere, fra il continuare ed il finire - è la scelta della vita o della morte.

Insomma, v¶è un punto, dentro la circolazione totale dell¶irrazionale, che sfugge alla circolazione, alla mistificazione

che in essa si rivela - è il punto sul quale una scelta diviene possibile. Quel mondo che si è sempre nuovamente

composto davanti a noi, fino al punto nel quale la composizione sociale e la stessa composizione di clas se, si sonomostrate come prigione, quel mondo dunque ora viene rovesciato: deve essere scelto, quel mondo, perché la sua

conclusione è la morte. Ma laddove vi è morte, là c¶è anche la possibilità per la vita di riapparire. Essa deve riapparire,

come alternativa. La vita non la troviamo più - laddove la troviamo. Essa è gettata all¶irrazionalità ed alla possibilità di

morte - la vita non la ritroviamo, bensì la ricostruiamo. Questo paradosso è il termine della nostra vita passiva, del

nostro subire. E¶ l¶inizio del nostro desiderio, della vita attiva. Il principio della pratica sociale si determina solo a

questo punto. La pratica sociale, nasce, si mostra, in primo luogo, come scoperta della tessitura ontologica della

costituzione sociale. Nella crisi che lo sviluppo della razionalità occidentale ci ha proposto, noi scopriamo che la

costituzione, che il principio costitutivo dunque, precede la composizione dell¶essere, la sua datità. L¶essere è quelloche noi vogliamo, che noi accettiamo essere. E ciò, almeno nel momento più mostruoso dell¶esperienza collettiva, e

cioè laddove la scelta diviene esplicita fra la vita e la morte, fra l¶essere e il non essere. Il concetto di composizione

 porta con sé la pregnanza di una relazione dialettica, di un fare soggettivo - ma non ha la potenza formativa del

costituire, e la complessità della composizione deve perciò dissolversi nella felicità della costituzione, nella serie dirapporti innovativi, nella radicalità che questa ci mostra. Eccoci allora nel mezzo di questo ca mmino costitutivo - il

 principio della pratica sociale, che qui dobbiamo solo definire, è il principio creativo: un cogliere, analizzare e

 percepire, formare e sviluppare, costruire e seguire quelle linee che la volontà, il sapere, il desiderio costituisco no.

Immediatamente.

Mille obiezioni vengono opposte a questa determinazione. In particolare la mentalità metafisica insegue sempre il reale,

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non per costruirlo, non per identificare regole e situazioni nelle quali il processo della datità e della passività possa

essere invertito, - al contrario, sempre la metafisica ci rinvia, di mediazione in mediazione di ipotesi in ipostasi, a quel

sostrato cieco e violento, sul quale l¶essere inutilmente ripete una vuota identità. Il principio della pratica sociale è la

negazione di tutto ciò. E¶ il punto sul quale, poco o moltissimo - ma quasi sempre poco, un frammento, una traccia,

eppure un elemento creativo - è creato. La pratica sociale nasce su questo limite, ed è qui che essa mostra quanto sia

incontenibile questa sua pochezza: un atto di resistenza, di rivolta, di gioia, un atto intrattabile - l¶essere che appare, edistrugge ogni blocco ed ogni compiacimento della miseria. Un atto che costituisce, un atto che mostra che la pratica ci

 pone effettivamente sul terreno della prassi costitutiva e che in ciò l¶essere è raggiungibile e plasmabile. Il mondo dellacostituzione ci si rivela a questo punto come qualcosa che davvero non può essere mistificato. La scoperta alla sua base,

di un concetto di azione, la scoperta che l¶essere è fondato su un¶operazione etica, tutto questo ci mostra il mondo della

costituzione come un mondo che è segnato dal correre di fili magicamente costruttivi. Cartografie etiche, tessiture

ontologiche, filature di atti, di operazioni dell¶essere e dell¶azione etica, insieme.

Quest¶ontologia etica ha le caratteristiche di un orizzonte ecologico. Noi ci troviamo dentro, e di essa conosciamo già

l¶aspetto molteplice e le molte vite e le molte variazioni, e i fili che a percorrono e che ci permettono di orientarci.

Siamo in essa immersi come in un mare vasto, del quale conosciamo molte articolazioni. Ma sempre di un mare si tratta

- se vogliamo trasformarlo appieno in macchina controllabile, se vogliamo compiere quest¶opera difficile ed onerosa,

allora dobbiamo accettare di muoverci in esso... fino al riconoscimento dell¶impossibilità di mettere questa macchina in

nostro possesso. L¶appropriazione è un processo che non riesce a farsi macchina risolta. La macchina è sempre irrisolta.

Lo sfondo ontologico, che pure costituiamo, non si fa afferrare. L¶ontologia è un¶epistemologia - ma un¶epistemologia

solo dell¶attraversamento - l¶essere ecologico non può essere afferrato. Un attraversamento. L¶epistemologia qui si

segnala come una tecnica che solo a posteriori è comprensibile. Procediamo nell¶essere - solo segni, tracce, sintomi,quelli che afferriamo - essi si aprono verso tendenze, che si aprono a loro volta. Verso dove? Anche queste tendenze

non sono definitive - la struttura ecologica, in maniera caratteristica, reagisce come insieme di tendenze, sensi, e

diramazioni - fino al punto in cui un nuovo equilibrio viene formandosi - ma anche questo, e queste macchine che lo

esibiscono, e in generale queste stabilizzazioni del movimento dell¶essere, non sono preformate. Perché l¶ecologia non è

uno stato, è un soggetto dinamico.

Ma come? Come possiamo rompere questa situazione nella quale la pratica sociale è presa dentro le mute antinomie e

dentro le mille vegetazioni dell¶ontologia della trasformazione? Ci siamo riconosciuti come partecipi di un orizzonte

teorico e pratico autoreferenziale, di una fenomenologia chiusa, di un¶insensatezza fondamentale - attraverso la

 percezione di quest¶insensatezza, e del dolore che ne segue, abbiamo posto la domanda sulle condizioni di questa realtà,

e del suo rovescio. Come possiamo, ora, dare all¶atto costitutivo che è elemento di rottura del labirinto, di vendetta

contro Babilonia, come possiamo dunque fissare una ragione della << pratica della pratica >>? Dico della << pratica

della pratica >>, perché alla sola pratica è già concesso il vivere e il costituire - ma insensato. Esiste, e come si

definisce, una << pratica della pratica >>, che ci permetta di rompere la volgare meccanicità di quest¶universo che ci

chiude?

Il concetto di pratica sociale è un concetto di pratica della pratica. E¶ concetto di una decisione, di una scelta, di un

 passo in avanti decisivi. Qualcosa che ha l¶intensità di un atto religioso, di un¶operazione orgiastica. La pratica della

 pratica è la costruzione della pratica, il possesso indiziario ma efficace della sua macchina, è l¶atto di innovazione

ontologica. La pratica della pratica, e cioè il concetto completamente dispiegato della pratica sociale, è un surplus

ontologico che

noi aggiungiamo all¶orizzonte del mondo.

Certe volte non so spiegarmi: questo è il caso. Sono davanti ad un momento di modificazione dell¶essere che non può

essere concluso nel rapporto fra le mille determinazioni del divenire. Qui il rapporto fa un << piccolo salto >> in av anti

- e si arricchisce, in maniera straordinaria. Qui il principio della pratica sociale, della pratica della pratica, cioè dellariflessione del fare su stesso, si fa principio del soggetto. Il lavoro è la pratica, è la pratica che si spinge su se stessa . Il

soggetto è la consolidazione del lavoro. Ed e così che questo innova: costruendosi, costruendo, trasformando il reale in

sempre nuovo reale. Non so spiegarmi con me stesso, perché questo progredire è un processo indefinito e senza limite -

sempre verso una comprensione maggiore, - che mai saprà darmi un concetto bell¶e fatto e mettermelo fra le mani -

riuscirà tuttavia a darmi una capacità sempre maggiore di comprendere. E di costruire. E di desiderare. Questo

modificarsi è una pratica, una pratica inflessibile, una spada conficcata nel tempo, garantita dall¶essere, dalla

modificazione che sempre procede e costruisce: costruisce essenza. Il processo dell¶ontologia si modifica. L¶ontologia

viene dopo, è il prodotto dell¶essere vivente. L¶ontologia non è più un presupposto, ma un prodotto. Prodotto della

 pratica, prodotto della soggettività.

Questa conclusione è epistemologica: vale a dire che nel principio della pratica si forma qui l¶ontologia della

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conoscenza. Ma perciò stesso questo principio non è concluso: possiamo e dobbiamo parlare di inconclusività dell¶etica

- l¶ontologia, noi la formiamo, ma la formiamo solo nella misura in cui continuiamo a formarla, a costruirla, a fissare

criteri di direzione e di dinamicizzazione etiche. L¶etica è conclusa. E ssa costruisce essere stendendosi in un tempo

reale, infinito nella sua estensione, nella pluralità che lo costituisce, ed indefinito nella sua durata, nella susseguente

riapparizione [riparazione?] di mondi, di orizzonti, che forma il suo incedere. Ed è a ll¶incrocio di questo meccanismo,

di determinazione ontologica e indefinitezza etica, che si forma la singolarità, - singolarità dell¶evento e del soggetto,singolarità dell¶atto e del sostrato. La pratica della pratica consolida il principio del soggetto solo astrattamente:

concretamente, singolarmente, questa pratica costitutiva attraversa mille emergenze e fissa mille precipitazioni dieventi. E¶ una rete di antagonismi,

reali e storici, di discriminazioni, logiche ed etiche, quella che si forma dentro questo incedere dell¶essere. L¶essere siforma in maniera continua, instancabile - la sua formazione non è altro che un continuo sovrapporsi di strati dinamici,

una meccanica di argomenti e di alternative, che si conclude, di volta in volta, su singolarità specifiche. La pratica

sociale diviene costituzione del soggetto, in termini propri, in termini veri, solo quando attraversa questa grande

quantità di occasioni ontologiche, di singole costruzioni ontologiche. La pratica della pratica, la riflessione dell a pratica

su se stessa, diviene elemento definitivo nella storia dell¶ontologia, nella genealogia dell¶essere, solo quando si

accompagna ad una specie di sovrabbondanza nella costruzione di infinite sintesi, mai concluse, di singolarità, - sintesi

aperte su ogni lato, e su ogni lato debordanti.

Di nuovo insorgono difficoltà di descrizione - meccanismi di rottura si accompagnano ovunque allo sviluppo

dell¶epistemologia costitutiva - di fatto, non riusciamo a fissare delle leggi generali - ogni omologia costitutiva è tolta -

noi riusciamo solamente ad esaltare la singolarità e a considerare la singolarità come elemento che non può essere

racchiuso in sequenze rigide. Si sviluppano tipologie costitutive - questo è il massimo dello sforzo sistematico cui

 possiamo accedere. Tipologie costitutive che ripetiamo sulla base dell¶analogia empirica, e non sulla base di qualche

criterio di scientificità. Quella rottura che il principio della pratica della pratica ha innanzitutto cercato, per definire se

stesso, noi la ritroviamo ora come un dato - un dato che qualifica le tipologie, le distingue l¶una dall¶altra, determina -

insomma - ogniqualvolta una singolarità è nata - un rinnovamento del senso dell¶indefinitività del cammino della

 pratica. Il momento di determinazione ontologica è anche quello sul quale l¶indefinitività del cammino etico si propone.

La fissazione epistemologica dell¶oggetto è definizione dell¶inconclusività etica del soggetto.

La pratica della pratica sociale: è così anche questo continuo ritorno che la pratica é costretta ad operare su se stessa.

 Nell¶oscillare fra certezza epistemologica e inconclusività etica, la pratica è costretta a piegarsi continuamente su se

stessa, a riflettere. Riflessione della pratica su se stessa: non è dunque un principio idealistico, né un principio di

autocoscienza o solamente di critica o autocritica - riflessione della pratica su se stessa è pratica della pratica, è un

fondare essere e un prenderne le distanze, ma solamente in maniera pratica, e cioè attraverso la cont inua costruzione di

essere, di nuovi scenari teorici e di nuove prospettive etiche dell¶agire ontologico.

Perché allora non chiamare semplicemente rivoluzione questo movimento della pratica che costituisce essere, nello

stesso momento in cui riflette su se stesso e propone un¶instancabile e obbligata continuità del processo? Fra limiti e

superamenti, che non hanno senso unitario ma solo determinazione e senso singolare? Perché allora non chiamare

semplicemente rivoluzione la pratica della pratica, il concetto della pratica sociale?

Per rispondere a quest¶ultimo quesito - ultimo nell¶ordine della nostra ricerca - occorre rispondere che il concetto di

rivoluzione è stato spesso confuso con operazioni politiche di dubbio senso e che spesso si sono intrattenute sulla più

screditata superficie della storia. Noi siamo disposti a riprendere il termine rivoluzione solo se riusciamo a ricondurlo al

significato ontologico della locuzione. Rivoluzione: accettiamo il termine solo se esso ci indica una modificazione della

sostanza profonda del tempo storico, una trasformazione delle anime, una mutazione dei soggetti. C¶è un punto di

equilibrio, nella definizione del concetto di rivoluzione, - un punto di equilibrio ontologico che troviamo piazzato fra il

senso del tempo lungo di Tocqueville e il principio di salto qualitativo, di catastrofe storica, che è di Lenin. Entrambequeste tendenze toccano la dimensione profonda dell¶essere, - e non è nostra l¶abitudine di distinguere specie, raffinate

o meno, dell¶essere. L¶essere è l¶essere. Non feticizziamo il tempo lungo o la catastrofe: entrambi possono intervenire

in maniera rivoluzionaria sull¶essere, - è quest¶effetto che ci interessa, è quest¶irriducibile qualità che ci piace. Ora,

dunque, il problema è solo quello di strappare al concetto di rivoluzione le connotazioni estremistiche, utopiche,

 politicistiche, che contiene. Di rendergli le caratteristiche storiche, profonde, innovative, di mutazione, che possiede.

Pratica della pratica diviene allora allusione a quest¶evento dell¶essere. Rivoluzionario è dunque ogni atto della

conoscenza che modifica i rapporti di potere, esprimendo potenza ed innovazione. L¶innovazione dell¶essere si realizza

laddove la potenza la vuole. La relazione fra potenza delle singolarità, lavoro del soggetto ed innovazione dell¶essere è,come sappiamo, non lineare ma certamente esistente. Noi non possiamo descriverla in maniera definita, non possiamo

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ricondurla a motivi astratti - ma possiamo viverla. Quell¶evento dell¶essere che chiamiamo pratica della pratica,

 principio rivoluzionario della pratica sociale è, più semplicemente, rivoluzione - è dunque una testimonianza continua e

comune della nostra appartenenza all¶essere collettivo, e sua trasformazione, sua mutazione. L¶alternativa si alza, fuori

della continuità indifferente della circolazione dei valori assoggettati dal capitalismo, e quest¶alternativa si fa creativa.

Creativa di altro essere. Basta che passi nella coscienza, questo principio di mutazione, in una coscienza - di lì, da

questa ricchezza discende allora a rivoluzione.

Ritorniamo, ricollochiamoci nel paesaggio che ci è stato offerto all¶inizio della nostra ricerca. Un orizzonte nel qualetutto circolava e l¶epistemologia lineare di un comando astratto sostitutiva senza posa, al presente ed alla sua

 pesantezza, orizzonti insignificanti e funzionali. Abbiamo attraversato quest¶orizzonte - lo abbiamo riconosciuto -

abbiamo scoperto che, malgrado la sua atroce crudeltà, questo orizzonte costituiva la nostra seconda natura. Dentro ladislocazione che con ciò si determinava, era a noi dato, tuttavia, scegliere. Meglio, lottare. Lo abbiamo fatto. Abbiamo

scelto se accettare o no che la seconda natura - dentro la quale, comunque, la nostra energia vitale e le nostre capacità

costruttive erano moltiplicate - restasse nelle mani del vecchio potere, fosse assoggettata all¶inerzia dell¶antico potere.

Un potere che annullava l¶essere, che ne riduceva ogni qualità all¶indifferenza ed ogni tempo a zero Abbiamo rifiutato.

 Nel rifiuto sta la nostra dignit à. Nell¶approfondimento del rifiuto, nel ricominciare la nostra bellissima via attraverso

l¶essere, nel ritorno all¶essere, al senso della mutazione, sta principio di rivoluzione. La pratica della pratica sociale lo

rinnova.

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PARTE III

Fra catastrofe e ricostruzione.

Appendice. 

1. Erkenntnistheorie. Elogio dell¶assenza di memoria. 

Lascia stupiti l¶iterazione della dichiarazione che il µ68 è morto. Per non dire del µ77. L¶informazione di regime recluta

suoi funzionari sulla base di un¶esplicita vocazione: farò il becchino, quindi il giornalista politico, ecc. Il paradosso siingigantisce quando si avverte che la memoria esistente del µ68 e del decennio successivo è ormai solo quella del

 becchino. Il rinvio a giudizio del 7 aprile è memoria del becchino: la cerimonia (ma ciò si deve allo scarso gusto degli

autori) ha poi il grossolano fasto del funerale meridionale. Avrebbe potuto essere più elegante. Peccato!

Forse per questo il proletariato metropolitano, da Berlino a Brixton, da Napoli a Zurigo, da Amsterdam a Varsavia,

conosce la realtà ed è rivoluzionario secondo dispositivi che la memoria non gli ha consegnato.

Quello che mi interessa è dunque la mancanza di memoria. Come possano esistere un sapere rivoluzionario - ed esiste -

ed una teoria della conoscenza su questo terreno - teoria che è effettuale - fuori dalla memoria storica del movimento,indipendentemente dalla sua continuità e dalle sue cesure e dai suoi problemi? La mancanza di memoria: la pongo a

 problema.

* * *

Si potrebbe cominciare col dire: quello che era volontario si è fatto fisiologico, senza che la trasformazione sia stata

mediata dalla memoria, da una qualsiasi continuità più o meno cosciente.

La storia si è fatta natura, seconda natura, - così come avviene sempre sulla trasformazione della composizione di

classe. E¶ una ipotesi: ma non spiega lo specifico del nostro problema, che è quello della mancanza di memoria, non

quello della pura e semplice trasformazione. L¶epistemologia borghese e quella socialista conoscono questo passaggio

dalla storia alla natura, alla seconda natura della composizione di classe trasformata, e lo tematizzano attorno al

concetto di organizzazione del lavoro e di trasformazione dei rapporti di produzione. La sequenza << lotta di classe /

ristrutturazione capitalistica / nuova composizione proletaria / nuovo dominio >> rappresenta la più astuta descrizione

del processo.

Ma in questo caso, nel caso di mancanza di memoria, non serve. Infatti, nel quadro dell¶epistemologia borghese e

socialista, la dialettica di spinte e controspinte, di lavoro e conoscenza, è indistricabile: una termodinamica di

evoluzione, da stato di equilibrio a stato di equilibrio, è sottesa allo schema esplicativo. Dialettica / storicismo /

metafisica. Se l¶uno si divida in due o il due ritorni all¶unità: da Platone a Ciu En Lai la possanza dell¶argomentaziones¶è riposata in questa miseria di alternative: in realtà, di equivalenze. La chiave dell¶ambiguità è sempre nella memoria.

La dialettica è memoria. Un filo nero di coscienza la percorre.

Affabulazione del passato, consolidamento di discipline, lavoro, comando. Il tempo è azzerato dalla memoria così comedalla coscienza alienata. Il tempo è azzerato dal lavoro, - tempo misura di atti umani ridotti ad astrazione. Ma questo

azzeramento è un¶operazione reale e la memoria resta. Non è dunque il nostro caso.

Di contro, infatti, la composizione di classe del soggetto metropolitano contemporaneo non ha memoria perché non ha

lavoro, perché non vuole lavoro comandato, lavoro dialettico. Non ha memoria perché solo il lavoro può costruire peril proletariato un rapporto con la storia passata. Non ha dialettica perché solo la memoria ed il lavoro costituiscono la

dialettica.

Ma il non-lavoro è comunque un soggetto: tutti lo vedono. Privo di memoria e di dialettica. Ma un soggetto: tutti lo

temono. Quindi un agente di conoscenza in quanto cumulo di sapere. Di quale sapere e di quale conoscenza?

* * *

Al termine dell¶illuminismo e nel mezzo della trionfante rivoluzione capitalistica, Immanuel Kant si chiudeva quali

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fossero le condizioni di un conoscere che costituisse il nuovo mondo della libertà borghese. Concludeva la sua ricerca

affermando che, sulla base della formativa della scienza e del lavoro capitalistici, si dovevano stendere schemi e

 progetti di ricostruzione del reale, di dominio sul proletariato come << cosa in sé >> inconoscibile, progetti giustificati

non dalla certezza del risultato ma dalla necessità etica del conoscere e del lavoro. Al teorico borghese rivoluzionario il

mondo si mostrava infatti come immediatamente scisso. Ma l¶unità del mondo è l¶ideale della ragione. Il conoscere ha

una essenza unitaria, è dispositivo tecnico, è sapere che costruisce dominio ed esprime con ciò la natura del soggetto.

Esso si dispiega nell¶assalto all¶oggetto, sfiorandolo prima, con continui tentativi di possederlo, organizzandolo poi

entro reti di dominio produttivo. Per Kant libertà è produzione - quindi dominio dell¶oggetto, della << cosa in sé >>.

Oggi questa rete della libertà è tutta distesa. Non abbiamo mai avuto tanta libertà, tanto dominio della libertà. Kant ha

vinto: lo schematismo trascendentale della ragione si è fatto sussunzione reale del lavoro da parte del capitale.

L¶oggetto è stato posseduto, plasmato, trasfigurato. La cosa in sé tolta. Il sistema invece è posto. La norma è voluta. Lo

stato delle cose presenti è la libertà. Il lavoro è la legge. L¶apriori è il capitale, cioè il lavoro organizzato, sistematiz zato,

normativizzato. Il sapere è dunque conoscenza di questo rapporto di dominio, sua continua tessitura, memoria,

iterazione, perfezionamento. Il conoscere e il ricordare sono funzioni di questo assoluto. Viva Kant, viva Hegel, viva

Mao Tse Tung!

Ma, come dicevano i vecchi, antichissimi Horkheimer - Adorno, il trionfo dell¶illuminismo e la sua crisi. Se gratti Kant,

trovi Heidegger. Per parlare in soldoni: quando tutto il tempo della vita è tempo di lavoro, quale logica, quale conoscere

distingue più il piacere della vita dal dominio del lavoro? Quando tutto il circuito della vita è chiuso in quello dello

sfruttamento, trasposto nell¶orizzonte del sistema, il mio rifiuto dello sfruttamento e del sistema sono un¶altra vita.

* * *

La mancanza di memoria è per il proletariato metropolitano una potenza rivoluzionaria. Voglio spiegare il concetto di

sussunzione reale. Parlare di proletariato metropolitano significa infatti fare un discorso insieme molto complesso e

molto semplice. Il passaggio dal concetto generico di proletariato a quello specifico di proletariato metropolitano è un

 passaggio che prevede la determinazione reale della sussunzione del lavoro nel capitale. I processi della sussunzione si

leggono nel Capitolo VI inedito del Capitale di Marx. Su questa base, io sottolineo il fatto che sussunzione reale

significa l¶estinzione della divisione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo [improdutivo] e integrazione dei

circuiti della produzione e della riproduzione (circolazione) - in parallelo l¶emergere del concetto di lavoro sociale

 produttivo e quindi la localizzazione metropolitana dell¶operaio sociale.

La sussunzione reale determina un dislocamento qualitativo dell¶essenza proletaria (della forma dello sfruttamento e

della cooperazione, dei bisogni e dei desideri): nulla che abbia a vedere con il vecchio ritmo delle ricomposizioni e delle

ristrutturazioni. Tanto è vero che in Marx il passaggio alla sussunzione reale del lavoro nel capitale è immediatamente il

 passaggio dal socialismo al comunismo. E¶ un errore di Marx. Ma ci serve per chiarire il nostro punto di vista. Di fatt o

la sussunzione reale si verifica senza mettere in gioco la transizione. E¶ un passaggio capitalistico.

Ma questo passaggio capitalistico è radicale. L¶antagonismo che sorge all¶interno della sussunzione reale è

assolutamente radicale, anch¶esso. Il problema della transizione non si pone in nome del passaggio capitalistico della

sussunzione, ma si pone nel momento nel quale all¶interno della sussunzione si chiarisce il nuovo antagonismo. Vale a

dire che la sussunzione reale non elimina (come in Marx) l¶antagonismo, ma lo disloca radicalmente (siamo nell¶oltre

Marx).

Ma cos¶è allora l¶antagonismo nella sussunzione reale? E¶ l¶emergere del proletariato come nuova essenza collettiva,

separata, non dialettizzabile [dialetizzabile ?]. L¶emergenza dell¶antagonismo come istituzionalità.

* * *

Ben vengano le ricostruzioni (tipo rinvio a giudizio del 7 aprile) degli anni più belli della nostra vita: il loro distrugger e

la memoria ci fa gioco. Il loro falsificare il passato esalta il nuovo. La continuità soprattutto nelle sue figure

terroristiche, è tutta loro. Giacobino di destra e giacobino di sinistra giacciono sotto la stessa coperta. Si coniugano. In

questo mondo sussunto dal capitale l¶unica memoria è quella del padrone.

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Solo la negazione della memoria ci rende l¶orizzonte della vita. La sussunzione reale del lavoro da parte del capitale

distrugge ogni soggetto produttivo separato, assume la società intera nella produzione. Ma la sussunzione ha il suo

antagonismo specifico: dove tutto il tempo della vita è tempo di produzione, l¶antagonismo è determinato dalla diversa

qualità della vita. Il tempo capitalistico misura e sfrutta la totalità sociale della produzione, - la vita quindi si oppone al

tempo misura. Conquista una nuova qualità del tempo. Così procedendo, dunque, il capitale ci restituisce l¶essenza

collettiva del soggetto che si rifiuta allo sfruttamento, insistendo su una qualità della vita completamente separata e su

un modello di vita alternativo.

La sussunzione capitalistica del lavoro ci rende la soggettività sociale e ce la rende nel senso di un completo

dislocamento. Se v¶è dislocamento non c¶è memoria. Nel momento nel quale il capitale si sente tutto ed è tutto,

l¶antagonismo spiazza la sua propria collocazione. Gli schemi della memoria, e quindi la memoria del funzionamento

della legge del valore (perché null¶altro può essere la memoria proletaria), scompaiono nella catastrofe di una

dislocazione radicale, nel buio di uno spazio interstellare. Il sapere proletario non comprende più la legge sul valor e,

neppure come sofferenza passata, come volgare coscienza del nesso servo-padrone. I miei figli non sono il mio passato.

La dialettica si sfuma. La mancanza di dialettica, ha mancanza di memoria è ricchezza.

Alla caduta della memoria corrisponde l¶apparire storico, la consistenza dell¶istituzionalità proletaria. Non insistiamo

tanto sulla separatezza: essa è indice e codice dello spessore materiale dell¶istituzionalità proletaria, del suo processo

evolutivo. Ma non la mistica della separatezza, bensì la logica dell¶istituzionalità segnala la mancanza di memoria.

Mancanza di memoria è libertà: non solo da un passato, ma da un futuro che non sia autonomamente determinato.

Transizione comunista è mancanza di memoria.

* * *

La teoria della conoscenza proletaria è la stessa cosa della sua istituzionalità, separata. Ma la separazione della memoria

del rapporto dialettico e dello sfruttamento. Istituzionalità separata è pieno sviluppo del lavoro negativo, del lavoro che

distrugge il criterio del profitto e pone quello della felicità. Conoscenza ed istituzionalità proletarie: posseggono un

fondamento, un metodo, uno sviluppo.

Il fondamento è la vita, il suo rispetto, la sua felicità. Questa convenzione è fondamentale. E¶ convenzione che esclude

il principio hobbesiano del ricatto della paura a fondamento della convivenza umana e toglie quindi anche il principio

della pace - quando la pace venga intesa come risultato del ricatto del più forte, come valore che sovradetermina quello

della vita. (Stato e BR in perfetta s intonia). La struttura conoscitiva di questo principio è fenomenologica: essa insegue

il rapporto bisogni, desideri, realtà. Sono i mille aspetti della vita che vengono positivamente proposti al desiderio

collettivo. Ragione e paura non si pongono in nessun senso sullo stesso terreno. Divengono del tutto asimmetriche.

Hobbes è un lurido reazionario. Spinoza è il piacere della vita, la sua materialità creativa sono il fondamento. E¶ la

 paura, in quanto collegata alla ragione che pone il formalismo della ragione. La vita, il desiderio, in quanto incarnano la

ragione, pongono il materialismo della conoscenza.

Il metodo e quello della molteplicità. Non v¶è << norma >>, nella conoscenza della comunità proletaria, ma solo <<

 patto >>, solo accordo e convenienza pratica. Non c¶è obbligatorietà ma solo conversione collettiva sugli obiettivi della

ragione. Tutta la scienza del capitale, tutta la scienza del tempio e della reggia, hanno sempre puntato sul concetto di

 potere e di norma, di potere come esercizio della normativa, come autoselezione di ceto dirigente. Tutto questo è finito.

La norma è solo spettro di un comando che vuol farsi reale incutendo paura. Se la logica capitalistica è sempre un

tentativo di dominare la << cosa in sé >>, unificandola nel sistema, la cosa è ora fuori dalla sua possibilità logica. Il

metodo proletario è invece consustanziale [consostanziale?] il progetto di costituzione pattizia per la felicità. Non c¶è

dittatura se non in questo senso: nel senso di impedire ogni sopraffazione dell¶unità sulla molteplicità, di affermare la

continua catastrofe della norma a fronte delle procedure pattizie, di distruggere ogni sovradeterminazione fosse purequella semplicemente formale del richiamo all¶unità o addirittura il formale della crisi.

Infine lo sviluppo dell¶istituzionalità proletaria. Essa si dà sull¶intero arco della vita. Non esistono pubblico e privato,

sociale e politico, - esiste solamente, come oggetto, l¶estensione della giornata lavorativa sociale che va interamente

liberata. La conoscenza qui diventa prefigurazione. La critica del progetto, di cui il riformismo oggi si nutre, è solofunzione interna al potere ed alla sua riproduzione, - analisi dei modi in cui si possono perfezionare le pratiche di delega

e di rappresentanza, dunque nuovamente presunzione della volontà generale. Ma perciò stesso anche riconoscimento

della sua ineffettualità. Il progetto del potere ha fallito. Proprio qui la prefigurazione proletaria incastra la sua libertà .

La vita e la felicità costituiscono fondamento, il materialismo della gestione dualistica del molteplice costituisce il

metodo: bene, qui la struttura del sapere proletario si fa immediatamente pratica.

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* * *

Possiamo rovesciare lo schema kantiano del conoscere. Il rovesciamento consiste in ciò: che il nuovo illuminismo

 proletario è istituzionale, non considera la realtà come oggetto di dominio, bensì come terreno di liberazione. Di

kantiano resta l¶istituzionalità indipendente dell¶approccio conoscitivo della realtà. Ma il suo senso è appunto

completamente rovesciato. Il proletario, la << cosa in sé >> sviluppata, dislocata, è il soggetto del conoscere.

All¶inverso il capitale è ora << cosa in sé >> irraggiungibile e lontana. Ah, ah, se lo tengano il loro bel capitale postmoderno! Tempo e spazio costituiscono per il proletariato, per il soggetto rivoluzionario forme a priori che nulla

hanno più a che fare con la istituzionalità capitalistica. Certo, la << cosa in sé >> capitalistica permane: permarrà per 

chissà quanto tempo ancora. Ma il limite non toglie l¶egemonia del punto di vista proletario. In ogni caso, oggi non il

dominio del capitale ma il lavoro negativo della liberazione costituisce l¶ideale della ragione.

La mancanza di memoria è costitutiva di un nuovo orizzonte del sapere.

* * *

Vi è chi insiste sul fatto che bisognerebbe produrre una memoria interna al movimento, una memoria di questi ultimi

anni. E¶ ridicolo. Certo, potremmo ricorrere alle malizie rinascimentali dell¶arte della memoria: con un po¶ di kabbala

questa storia può ben essere ricostruita. Ma perché togliere questi piaceri ai giudici della Repubblica che di kabbala se

ne intendono? Una coscienza che, come quella proletaria, si vuole istituzionale non ha bisogno di una memoria che è

solo memoria della propria estraneità, della propria passata estraneazione. Quello che l¶istituzionalità proletaria deve

ricordare lo trattiene come base della propria esistenza, lo ha come sostanza della sua pratica materiale. E¶ iscritto nella

sua esistenza. Non hanno bisogno di memoria i giovani di Zurigo, i proletari napoletani e gli operai di Danzica: hanno

solo bisogno di quella speranza che costruiscono. Giustamente in Kant, su quello snodo di transizione della filosofia

della rivoluzione borghese, non c¶è una compiuta teoria della memoria. In Lenin e in tutta la fase socialista della

rivoluzione proletaria la memoria è portata solo sulla sofferenza o sugli errori proletari, è arma - un po¶ piagnona e

sordida ma sempre un arma - e come tale la memoria è legittimata. Ma ora, nel mezzo della trans izione comunista, a che

diavolo serve la memoria? Non c¶è spazio per essa. Come, e a rovescio che in Kant, la memoria è nella forma stessa a

 priori del conoscere proletario, nel meccanismo della sua espansione materiale. La memoria si legge solo nel futuro .

Di conseguenza: il processo 7 aprile non va impostato come rivendicazione di un passato, ma va concepito come

 presagio e dimostrazione di una nuova istituzionalità proletaria, nella sua realtà. Al processo 7 aprile si va a considerarela chiusura di un¶epoca e il dislocamento in avanti della lotta di liberazione. La memoria sarà solo forma della nostra -

indipendente separata creativa - esistenza di comunità comunista. Nelle grandi dimensioni sociali della sussunzione

reale e dell¶antagonismo nuovo che l¶attualità della storia di classe mostra.

* * *

E¶ evidente che ci sono anche tanti altri orizzonti della memoria. E che alcuni vanno percorsi proprio per costruire

l¶istituzionalità proletaria. Qui il mio problema (qui e nel processo 7 aprile) è; sol o quello di rovesciare in positivo

quella spaventosa violenza che la memoria del potere produce per quello che riguarda il decennio che comincia con il

µ68, ovvero il decennio più bello della nostra vita. Se memoria diviene memoria del potere, memoria del funzionamento

della legge del valore, memoria della sussunzione reale, di per ciò stesso la violenza annulla la nostra memoria. Questa

violenza va comunque presa in positivo: rovesciata, assunta sul terreno dell¶antagonismo, scarnificata, - se la memoria èla violenza, la nostra vita è la negazione della memoria: ma non basta! Poi ricominceremo a ricostruire gli orizzonti

alternativi del ricordo. Per noi non c¶è la possibilità di accostare senza violenza il passato: il nemico ce lo ha reso tale.

Ma esiste, probabilmente, una memoria dell¶altro soggetto. Di noi come soggetto.

E c¶è da dire che la coincidenza della distruzione capitalistica della memoria con il risoluto ingresso del capitale nella

fase della sussunzione reale, mette in sintonia - dal punto di vista proletario - e senza alcuno scandalo, la riscoperta

dell¶essenza collettiva, della prefigurazione necessaria, della possibilità di ricostruzione del mondo e, d¶altro canto, la

caduta di ogni residua illusione di continuità.

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2. Nota introduttiva alla ristampa di << Classe operaia >>. La potenza sociale del lavoro. 

Perché ristampare << Classe operaia >>? La decisione non è stata mia: alcuni compagni ritengono utile intraprendere

questa iniziativa e mi chiedono [chiudono?] di fare una introduzione. Debbo comunque rispondere alla proposta, in

maniera affermativa o negativa. Tanto vale dunque fare l¶introduzione. Ma solo per argomentare: che cosa?

Il mio consenso o il mio dissenso. Sfoglio le pagine della rivista: mi ci ritrovo, il mio ricordo ci si ritro va. Quante

riunioni, quante amicizie fatte e disfatte, quante giornate di tipografia (sí, perché eravamo io e Manfredo Massironi aimpaginarla e a farla in tipografia per un paio d¶anni). Quante emozioni. Dunque << Classe operaia >> va ripubblicata;

 per quale ragione? Perché è la dimostrazione di una nobile ascendenza delle posizioni politiche che gran parte del

movimento svilupperà negli anni successivi? Perché è, con i << Quaderni Rossi >>, la solida pietra sulla quale una

nuova corrente del pensiero politico italiano, marxista e proletaria, è venuta costruendosi? E non solo in Italia? Perché

dunque ha una particolare importanza scientifica e le persone che hanno collaborato alla sua fattura, fanno - in una

maniera o nell¶altra - parte della storia del movimento proletario chez nous?

 Non mi soddisfano queste ragioni. Che << Classe operaia >> sia un pezzo di storia, va bene: ma allora ne va verificata

 politicamente la sua attualità, o meno, direttamente, senza soffermarsi sul feticcio << rivista >> degli << anni Sessanta

>>: feticcio favoloso quanto per certi versi fuorviante. Quanto all¶importanza scientifica di << Classe operaia >> va

notato che coloro che vi hanno collaborato sono andati avanti, su da quella esperienza: e hanno fatto i loro libri nei quali

con maggiore ampiezza e con maggior rigore hanno sviluppato il loro pensiero politico. Studiamo dunque i loro libri,

direttamente. E allora perché, di nuovo, ristampare << Classe operaia >>?

Debbo sinceramente riconoscere di non saper dare una risposta, dal punto di vista di uno degli autori di quell¶impresa.

Rivediamo allora la questione dal punto di vista dell¶utenza. << Classe operaia >> va ristampata perché i militanti

 politici di oggi possano avere a disposizione un testo al quale confrontarsi e sul q uale misurarsi. Ma direi che questa

ragione non giustifica affatto la ristampa. Infatti i militanti del proletariato, oggi, son persone fortemente diverse da que l

ceto politico che allora esprimeva una rivista come << Classe operaia >>. Il discorso << operaista >>, in senso stretto,

della rivista non corrisponde neppure lontanamente a quelle che oggi sono le concezioni della lotta di classe che il

militante medio, autonomo, l¶operaio sociale degli anni µ70 e µ80 posseggono: all¶orizzonte che si sono costrui ti con

tante lotte e con una riflessione critica così profonda. Già negli anni scorsi, quando feci vedere a militanti tedeschi e

americani, la mia collezione di << Classe operaia >> (oggi questa collezione, rubatami da qualche poliziotto, giace nella

 polvere di un archivio giudiziario), le reazioni erano già affascinate ma distaccate. Per i nuovi strati di militanti, <<

Classe operaia >> è in realtà una reliquia. Come tutte le reliquie può avere effetti di rassicurazione sulle anime belle,

certo - e perché negare l¶utilità della rassicurazione teorica, in tempi così atroci? Ma, dal punto di vista della lotta

 politica, questa rassicurazione rischia persino di essere mistificante. Dove sono più infatti le categoire stesse sulle quali

il lavoro di << Classe operaia >> si fondava? Dove i rapporti, ambigui e sotterranei, con il movimento operaio ufficiale

che << Classe operaia >> comunque supponeva? Qual¶è più oggi il modo di leggere le ambiguità delle quali << Classe

operaia >> ridondava? Quel bell¶operaio massa, che a tutto tondo veniva fuori dalle pagine della rivista, era

indubbiamente allora, nel panorama della pubblicistica della sinistra rivoluzionaria, una figura nuova: ma oggi dov¶è più. Oggi l¶attenzione critica e trasformatrice si basa su ben altri, corposi e nuovi soggetti: anche noi, uomini e proletari

di oggi, abbiamo il nostro carico di ambiguità nei confronti del nuovo soggetto, ma sono ambiguità esse stesse non

riferibili a quella realtà degli anni Sessanta. Non c¶è omologia possibile fra << quella >> figura dell¶operaio massa e

l¶attuale vivacità del soggetto sociale proletario.

A guardar bene, poi, quella figura a tutto tondo dell¶operaio massa che emergeva dalle pagine di << Classe operaia >>

era già una figura vecchia. Noi, di << Classe operaia > >, eravamo un po¶ delle nottole di Minerva che apparivano

all¶imbrunire: scoprivamo la novità della figura dell¶operaio massa quando questa figura si era già storicamente

consolidata (da almeno trent¶anni), era già del tutto matura, era - e questo è quello che più conta - già in corso di

superamento. In realtà non scoprivamo una categoria della lotta di classe ma solo denunciavamo il ritardo storico del

movimento operaio ufficiale nell¶identificare una strategia fondata sulla centralità dell¶operaio massa. Di qui una serie

ulteriore di ambiguità: quest¶operaio massa che venivamo tirando fuori dai dimenticatoi del movimento operaioufficiale, quest¶operaio massa che intagliavamo come figura distinta dall¶operaio professionale, in realtà poi lodipingevamo con vecchi colori. Il nostro operaio massa puzzava di officina Putilov in maniera indecente. Non che nel

discorso di << Classe operaia >> non esistessero momenti di superamento di questa ambiguità, non sto dicendo questo.

Risulterebbe comunque molto difficile oggi riconoscere se era più forte l¶ambiguità o il suo superamento. Solo il dopo,

solo la vicenda storica che comincia appunto quando l¶esperienza di << Classe operaia >> termina, solo questo può dare

una risposta.

Ma sicuramente in << Classe operaia >> manca un gusto per lo stato nascente della soggettività proletaria. C¶è il gusto

teorico della analisi soggettiva proletaria. C¶è il gusto teorico della analisi oggettiva, della identificazione della crisi:

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l¶operaio massa che forza, colto nella sua piena maturità, lo sviluppo capitalistico fino a rovinarne proporzioni e

compatibilità. Ma quello che manca è il senso delle relazioni complesse che costruiscono, nella crisi, nuova energia

soggettiva, nuovi bisogni, nuovi comportamenti. Certo, la form a della lo tta a << gatto selvaggio >> è colta ed esaltata:

ma riportata a che cosa? Era progettata sul vuoto, non innestata dentro un meccanismo costitutivo di soggettività nuova.

I discorsi sull¶organizzazione furono, in << Classe operaia >>, prima fumosi, poi unil ateralmente rivolti a riscoprire una

chiave dialettica nei confronti del movimento operaio ufficiale. Quando, fra il µ66 e il µ67, << Classe operaia >> chiude

definitivamente i battenti, essa aveva sicuramente previsto l¶addensarsi della crisi nell¶immediata fase successiva. Ma la

forma della soggettività della crisi, la rivolta degli studenti, l¶impatto del terzomondismo, l¶apparizione della povertà proletaria, l¶emarginazione, insomma tutte le componenti dell¶operaio sociale, tutto questo le sfuggiva, venivameccanicamente ed immediatamente ricondotto alla guida dell¶operaio massa. E ciò proprio nel momento in cui tutto si

stava rovesciando: era infatti la soggettività sociale del proletariato che conquistava la centralità politica del processo,

ed aggrediva la fabbrica stessa ed il lavoro produttivo, prima dall¶esterno, poi dall¶interno modificando la natura stessa

del lavoro produttivo ed imponendo, nella fabbrica capitalistica, dentro di essa, l¶egemonia dei comportamenti nuovi

dell¶operaio sociale. << Classe operaia >> aveva registrato la maturità della figura dell¶operaio massa, non ne aveva

inteso la vera natura però: l¶operaio massa non era altro che un termine del passaggio all¶operaio sociale, un primo

 prodotto della dissoluzione capitalistica del mercato del lavoro e un primo agente della trasformazione dell¶interesse

operaio e del suo trasferirsi dal terreno della produzione a quello della riproduzione. Molti di noi, d¶istinto però e non

tanto dal punto di vista di una riflessione matura, intendemmo questo: molti anni ancora erano tuttavia necessari perché

l¶intuizione raggiungesse un¶adeguata figura teorica.

Proprio la forza dell¶esperienza teorica di << Classe operaia >>, direi la consistenza soggettiva ed intellettuale dei

collaboratori della rivista, costituì un freno, pesantissimo, allo sviluppo dei germi di analisi nuova che andavano al di làdell¶esaltazione (storicamente postuma) dell¶operaio massa. << Classe operaia >> è da questo punto di vista

un¶operazione coscientemente, consapevolmente incompiuta. Volutamente incompiuta, in se: assomiglia all¶Ulisse.

Ma appunto come l¶Ulisse rischia di castrare, per il paradosso della sua interna compiutezza, ogni ulteriore tentativo

dell¶avanguardia letteraria, così << Classe operaia >> blocca lo sviluppo dei temi nuovi che pure comprende. Quali

sono questi nuovi temi? Sono essenzialmente quelli che vengono fuori dalla fenomenologia delle lotte, sono quelli che

fissano i meccanismi del << superamento >> dell¶operaio massa, che determinano l¶oscillazione delle dinamiche di lotta

fuori dal tessuto dello scontro sul salario e cominciano a considerare il rapporto fra produzione e riproduzione. Sono insecondo luogo quei motivi che vengono fuori dalla paradossale inversione della parola d¶ordine operaista. << Operai

senza alleati >>: vale a dire che se la fabbrica sociale esiste, in essa non si dà semplice estensione. Il comportamento

dell¶operaio della singola fabbrica bensì si dà una nuova figura sociale, un salto dalla quantità alla qualità. Nei

comportamenti sovversivi che sono quelli che vengono fuori dall¶approfondimento implacabile della critica del lavoro

capitalistico, dall¶enfasi sul tema del << rifiuto del lavoro >>: tema, questo, che non può essere limitato alla casistica

sociologica della analisi dei comportamenti, di fabbrica e sociali, ma deve svolgersi in progettazione alternativa della produzione, deve incarnarsi nella tematica della transizione comunista, deve immediatamente trovare un rapporto con lo

sviluppo di comportamenti di massa autovalorizzati. Certo, a volerle leggere oggi, queste cose sono tutte in << Classe

operaia >>, in seme, con aurorale potenza: ma non è un caso che non emergano [emergono?], che non diventino

[diventano?] da subito elementi fondamentali. E¶ l¶organizzazione complessiva del discorso del giornale che lo vieta, è

il suo storico ritardo sulla complessità dei movimenti che registra e che << Classe operaia >> in effetti riconduce allasola critica dell¶operaio professionale, all¶identificazione dell¶inadeguatezza del sind acato professionale nei confronti

dell¶operaio massa. Qui il nuovo si autolimita. La ricerca si sbarazza solo a metà dell¶ideologia. Di qui l¶impotenza

 pratica. Perché l¶intervento, che pure - come già nei << Quaderni Rossi >> - il corpo redazionale della rivista svolge,

attorno alle fabbriche, non riesce a trovare una continuità organizzativa. Non riesce a trovare continuità organizzativa

 perché l¶intervento è puramente definito su scadenze oggettive e non sulla continuità di processi soggettivi. Si

stabiliscono scadenze di fabbrica, scadenze di settore, scadenze politiche generali: lo scheletro delle interdipendenze

dell¶economia dello sfruttamento è evidentemente chiarissimo a << Classe operaia >>, meno evidenti sono i passaggi

soggettivi, di organizzazione, il peso dell¶intervento come iniziativa continuata, come progetto sul quale non si scarica

solo l¶intelligenza strategica ma soprattutto la tattica, la partecipazione, la microiniziativa quotidiana. Come le pagine di<< Classe operaia >> documentano (cfr. in particolare le pagine di documentazione del n.3 del 1965) l¶intervento è

molto ampio: ma non residua un solo livello organizzativo (salvo alcune eccezioni). L¶operaismo si collega ad un

atteggiamento illuministico che non ha in realtà alcuna speranza di mordere il reale. Dentro queste difficoltà la polemicadella rivista, e quella condotta nel corso dell¶intervento, si limitano sempre di più alle sole tematiche sindacali. Con

comportamento classico della vecchia sinistra terzinternazionalista, l¶attacco al sindacato è accompagnato dalla mano

tesa nei confronti del partito. E questo proprio quando il fondamentale punto di partenza, sia nei << Quaderni Rossi >>

che nella nuova rivista, era stato il riconoscimento dell¶identità del contenuto dell¶azione sindacale e dell¶azione politica

nella società fabbrica della pianificazione capitalistica. Le contraddizioni presto si ritrovano tra i compagni stessi

 promotori dell¶iniziativa non era infatti possibile diluire la radicalità del progetto senza determinare delle conseguenze

 pratiche che sarebbero immediatamente ricomparse sul livello teorico. L¶impotenza pratica diviene ragione sufficiente

di scissioni teoriche.

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Alla fine del µ64, un anno appena dal suo inizio, la rivista è in crisi. Le ambiguità si accumul ano soprattutto sul

 passaggio << intervento - sviluppo generale del discorso politico - sue varianti tattiche >> per la mancanza di una teoria

dell¶organizzazione qualsiasi. Nel 1965, anno secondo della rivista, la polemica si apre ferocemente nel la redazione.

 Non sono tanto gli insuccessi pratici dell¶intervento a determinarla quanto la riflessione sempre più pesante, che solo

una teoria dell¶organizzazione poteva permettere di andare avanti. Ma non solo una teoria dell¶organizzazione non c¶è:

non la si vuole. Una parte consistente della redazione comincia infatti a considerare l¶intervento operaio e politico come

un puro e semplice strumento di pressione sui livello politico: sul PCI.

Si teorizza l¶ << entrismo di tipo nuovo >>. Non più quell¶entrismo miserabile che è tradizione dei gruppi minoritari

della III Internazionale, non più la critica e la pressione politica che si sviluppano sugli snodi dell¶organizzazione

formale del partito: una pressione ed una critica che si vogliono di massa, invece, nella convinzione che il partito, il

 partito comunista italiano nella fattispecie, sarà costretto a recepire questa critica e a modificare la sua politica di

conseguenza. Il giudizio portato sul sindacato è drastico: nulla può venire dal sindacato, esso è, rimane, ed è bene che

rimanga, una pura cinghia di trasmissione del partito. L¶intero sforzo del nuovo entrismo va dunque rovesciato sulla

lotta politica di partito. Questo è dunque quello che sostiene una parte della redazione della rivista. Sulla base di ques to

 progetto essa si espone sempre più coerentemente in un lavoro di trattativa e di infiltrazione nel sindacato e soprattutto

nel partito. Un giudizio molto ottimistico sulla base operaia del PCI tende ad elidere ogni considerazione circa il

funzionamento del centralismo democratico rozzamente si considera il rapporto di forza all¶interno del partito come

omologabile al rapporto di lotta di classe! Lo spessore dell¶ideologia di partito, la forza materiale della centralizzazione

 burocratica, la violenza distruttiva dell¶ideologia del lavoro vengono permanentemente sottovalutate. L¶entrismo di

massa, dentro questo gioco che tende a divenire sempre più e solamente intellettuale, si trasforma presto in entrismo

individuale di vecchio tipo. Alla fine del 1965, dopo che la crisi interna alla rivista aveva già durante l¶anno bloccato ilsuo lavoro, la scissione della redazione è praticamente data. I numeri del µ66 sono già interni all¶operazione entrista ed

impegnano solo una parte di compagni.

Di contro all¶entrismo ed alla sua storia, dentro al gruppo redazionale di << Classe operaia >> se ne apre tuttavia

un¶altra. E¶ la storia dell¶operaismo militante, della lotta contro il revisionismo della lunga marcia per l¶organizzazione

dell¶autonomia operaia e proletaria. Questa storia è ormai molto nota e non val forse la pena di sottolinearla, di tornarci

ancora sopra, qui. Chi sostiene questo indirizzo sono i compagni direttamente impegnati nel lavoro politico e di

agitazione attorno alle grandi fabbriche del Nord. La geografia operaia degli anni µ68/69 si stabilisce a questo punto.Fiat, Pirelli, Alfa, Porto Marghera: questo adagio di milioni di volantini comincia a costituire l¶ipostruttura della

coscienza del militante. Ora, già durante l¶ultimo anno di redazione di << Classe operaia >>, la vicenda di questi

compagni si autonomizza. Formidabili quadri operai prendono la direzione del movimento di contestazione già a partire

dal µ6 5/66.

Ogni compromesso diviene quindi impossibile. Ma non è appunto questa storia che va qui rinarrata. Si deve piuttostoinsistere su un fatto, negativo e residuo, che anche l¶esperienza ed il discorso di questi compagni contengono. Ed è

l¶incapacità di proporre, per un lungo tempo, di nuovo trovandosi prigionieri delle ambiguità essenziali de l discorso

teorico di << Classe operaia >>, una tematica dell¶organizzazione. Le caratteristiche del gruppo di compagni redattori di

<< Classe operaia >> che rifiutarono l¶opzione entrista (entrismo di vecchio e di nuovo tipo), sono tali che, mentre da

un lato l¶enfasi sulla forza teorica della prassi è massima, dall¶altro la riflessione specifica in proposito è minima. Certo,

si punta tutto sull¶organizzazione di base ma senza intendere la complessità dei rapporti dialettici che a questa si

 presentavano.

L¶organizzazione di base poteva costituire la rifondazione del movimento comunista solo nella misura in cui fosse in

grado di dominare la complessità dei rapporti che si stendevano dinanzi. Dentro la lotta continua, dentro la mancanza o

la carenza di un¶iniziativa adeguata di ristrutturazione del dominio da parte dell¶avversario di classe, era possibile

immaginare un meccanismo organizzativo che sviluppasse potenzialità complessive, nel senso appunto della continuità.

Ma la lotta di classe non è un continuo. La sua discontinuità poneva inevitabilmente il problema della centralizzazione,

della direzione. Questi problemi vengono posti, ma con estrema prudenza solo con il µ68 entreranno al centro della

tematica di massa Ma troppo tardi. E d¶altra parte, nel µ68, paradossalmente (anche) troppo presto: perché infatti, con la

ristrutturazione, con la formidabile lotta di resistenza che si apre nei primi anni µ70, con il trasformarsi della figura

operaia egemone, lo stesso problema dell¶organizzazione comincia a porsi in maniera diversa, - comincia cioè a porsi

come problema di una massiccia e compatta forza operaia che sviluppa la sua autonomia mediando al suo interno

azione di avanguardia e azione di massa in termini del tutto nuovi ed originali, in termini di autovalorizzazione.Torniamo a noi, torniamo a quegli anni µ65/67, anni immediatamente precedenti il più grande sommovimento di classe

che mai le nostre generazioni abbiano conosciuto Bene, eravamo allora completamente coinvolti in una problematica

insolubile: da un lato ci indicavano come via d¶uscita realistica quella dell¶opportunismo, dell¶entrismo, della ripresa di

contatto con il movimento operaio ufficiale; ci chiedevano insomma la dichiarazione dell¶impossibilità d i ogni

alternativa organizzativa per la classe operaia e proletaria. D¶altro lato c¶era il rifiuto di tutto questo ma anche

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l¶impossibilità di dare una risposta che coprisse i problemi reali che avevamo davanti. Si scelse l¶attesa attiva ed

operante, si scelse il contatto di classe, la vita interna del movimento, - nel µ65/66/67 nulla sembrava mutato rispetto

alla grande crisi del movimento operaio che ci perseguitava dal 1956/58, nulla << sembrava >> essersi modificato. E

invece, l¶attesa, quali che fossero i suoi limiti attuali, quali (e certamente ingiustificabili) che fossero i limiti di discorso

e di approfondimento che comportava, pure si rivelò non utile ma eccezionalmente feconda.

D¶altra parte, perché farsi prendere dall¶impazienza proprio allora, attorno alla fine del 1965? Un decennio era appena

trascorso da quando la << grande crisi >> s¶era aperta nel movimento comunista. 1956/1958: attorno alla crisiungherese, attorno alla prima rivolta operaia contro il regime del socialismo realizzato. Nel 1 953 erano stati gli edili di

Berlino a muoversi ma l¶odio antitedesco non aveva permesso di cogliere la pesantezza della cosa. Nel µ56 non c¶erano

invece possibilità di confondersi.

In Ungheria la classe operaia in armi non contestava altro che il tradimen to e la propria miseria. In Italia siamo al centro

della crisi del movimento nella sua forma postresistenziale. Dalla sconfitta del 1953 (alla Fiat) al µ56 il movimento

aveva faticosamente tentato di riprendere una figura politica: la lotta operaia ungherese ci ridà fiato e speranza. Esiste

ancora un comunismo per il quale lottare. La formazione dei << Quaderni Rossi >>, alla fine degli anni µ50, è il primo

coagulo di una speranza comunista che comincia a rivivere, articolandosi con nuove tecniche di ricerca e nuove

 prospettive di critica radicale. Tutto doveva muoversi: tutto si muove. Genova: 1960. Piazza Statuto: 1962. Il

movimento operaio ufficiale e il ceto capitalistico stesso corrono ai ripari: ormai il movimento si è dato gambe per 

muoversi, occorre quindi stabilire nuovi schemi, nuove linee dentro le quali inglobarlo.

I primi tentativi di riammodernamento capitalistico e riformistico sono però fin dall¶inizio inseguiti da una coscienzacritica, articolata alle lotte, che costituirà nei successivi decenni la grande dignità del movimento operaio rivoluzionario

in Italia.

Gli anni µ60 sono un grande laboratorio nel quale la sintesi di un nuovo ceto politico rivoluzionario e del movimento

reale della lotta operaia cominciano a funzionare assieme. La << grande crisi >> comincia a dare i suoi frutti. Certo,

malgrado molte faticose iniziative, malgrado l¶altissimo livello del dibattito, il movimento operaio tradizionale resta

impermeabile. Vi sono piccoli momenti di crisi, deviazioni, ma la centralità burocra tica resiste impavida. Eppure lo

sconvolgimento è fondamentale e marcia anche quando non lo si vuol vedere. Personalmente odio tutte le concezioni

teoriche che vedono la rivoluzione uscire matura dal cervello di Giove, e cioè dalla casalità [causalità?]. C he la

rivoluzione sia un¶arte non significa che sia irrazionale, che il suo ritmo sia discontinuo non significa che la sua

formazione non abbia le caratteristiche di continuità di tutti i processi materiali. La crisi della fine degli anni µ60

risponde alla crisi politica del µ56/58: chi l¶aveva subita, i vecchi militanti comunisti, gli intellettuali del dissenso

ungherese ne sono probabilmente fuori, spiazzati; la dirigenza del movimento operaio tradizionale sembra presentarsi

compatta. Ma che cosa è avvenuto di nuovo?

E¶ avvenuto che è stato distrutto il patrimonio ideologico del movimento operaio tradizionale, che il rapporto con la

lotta è inventato daccapo, che nuove generazioni si presentano alla lotta non preventivamente mistificate da

un¶educazione politica arcaica. I << Quaderni Rossi >> sono il frutto rivoluzionario della crisi politica del µ56/58.

Inventano un nuovo metodo di approccio alla realtà delle lotte. Un metodo insufficiente? Certo. Ma è un terreno sul

quale la pratica rivoluzionaria diventa possibile, sul quale l¶invenzione politica, la fantasia divengono obbligatori. I

limiti di quest¶approccio sono immediatamente visibili. Opportunismo nei confronti dell¶azione sindacale, oggettivismo

ed economicismo estremi, confusione sui fini della lotta rivoluzionaria, socialismo latente. Ma la modificazione avvienenella pratica: << Quaderni Rossi >> portano la rottura - effettuata, stabilizzata - con la linea del movimento operaio

ufficiale nell¶educazione politica delle nuove generazioni. Le << magliette a striscie >> del µ60, i nuovi emigrati

cominciano ad avere un cervello.

I limiti di quel movimento non erano superabili all¶interno del discorso di << Classe operaia >>. Si sono fatte infiniteesercitazioni letterarie per andare ad identificare le d istinzioni, le differenze, le contraddizioni fra il movimento dei <<

Quaderni Rossi >> e quello di << Classe operaia >>: esercitazioni letterarie, appunto! Tutto si riduce ad alcune

incompatibilità e, soprattutto, ad un meccanismo di selezione di gruppo dirigente. Con << Classe operaia >> i <<

Quaderni Rossi >> continuano: continuano sulla strada della radicalità, ma continuano anche sulla via del limiti e delle

 passività che a qualsiasi attività minoritaria non potevano che derivare dal movimento reale. Continuano girando attorno

al problema che era stato, per così dire, solamente annusato: quello dell¶impatto sociale dell¶operaio massa, quello della

socializzazione della sua figura e della sua lotta. Il paradosso ed il blocco del discorso sono lì , tutti l ì: ed oggi,

guardandoli a distanza, sembra quasi impossibile che si siano dati in quella forma. Ora, da un lato la critica

dell¶economia politica conduceva alla definizione della società fabbrica; dall¶altro l¶attenzione politica si confinava su

una retorica dell¶operaio di fabbrica che, prima di tutto, a questo faceva torto. Da un lato la potenza dello sviluppo

capitalistico mostrava la sua forza di espansione mondiale; dall¶altro la fantasia politica non sapeva vedere il cumularsi

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delle lotte dell¶operaio metropolitano e del proletariato del << terzo mondo >>. L¶identificazione teorica della centralità

della fabbrica si rovesciava in una concezione del lavoro produttivo (del lavoro sfruttato per il plusvalore) che quasi

riconquistava toni populistici di esaltazione del lavoro manuale. In << Classe operaia >> la retorica operaista diviene

sempre più forte quanto più diminuisce la capacità di progettazione del gruppo. Su queste incredibili contraddizioni il

dibattito ristagna. Eppure bastava andare avanti insistendo sulle premesse, scavandone il presupposto. << Classe operaia

>> non ci riesce. Ci riescono tuttavia i compagni del movimento. Il << buon senso >> proletario non s¶arresta ai sofismi

della teoria. Quando il movimento scoppia e si diffonde in forma massificata tutti questi problemi vengono fusi

nell¶iniziativa unitaria. La verginità del credo operaista è subito fottuta. << Classe operaia >> giustamente archiviata. Isuoi incredibili limiti non potevano essere superati che da un movimento di massa che dislocasse praticamente il quadrodel discorso cui eravamo stati condannati dalle caratteristiche della crisi degli anni µ50: di quella crisi di cui eravamo

figli. Ma ora il quadro muta. Ora, con il µ68, una formidabile possibilità di espansione teorica e pratica si dà: prima

 pratica, poi teorica. Ma dalla pratica è necessario ricavare il massimo: malgrado gli errori precedenti, malgrado tutti i

limiti, la maggior parte di noi riesce a ricollegarsi a questa realtà.

Ricollegarsi alla realtà attraverso la pratica significa essere presto in grado di rinnovare anche il livello della teoria.

Abbiamo già segnalato alcuni paradossi di cui il discorso di << Classe operaia >> era ricco. Fondamentale è ovviamente

quello che si distente fra concezione della società-fabbrica, dell¶espansione ristrutturante dell¶iniziativa capitalistica (da

un lato) e (dall¶altro) la definizione della composizione di classe. Abbiamo già sottolineato come la seconda fosse,

inspiegabilmente, arretrata rispetto alla prima: l¶unica giustificazione c¶è sembrato poterla ritrovare nel fatto che i

 problemi di << Classe operaia >> non era no in realtà ancora stati dislocati rispetto alla tematica della crisi del

movimento degli anni µ50. Vi sono però degli elementi nel discorso della rivista che possono, più di altri, sostenere il

 passaggio al superamento delle contraddizioni. Quando il ricollegamento alla pratica, quando il salto che la lottaimpone, sono dati, allora questi elementi più di altri contribuiscono allo sviluppo della teoria, - e nella fattispecie allo

sviluppo della teoria della composizione di classe. Ora, tutti questi elementi progressivi ed espansivi si collegano

 proprio al concetto della << centralità operaia >>. Perché questo concetto non è inteso in maniera empirica e burocratica(così come ricorre spesso, a tutt¶oggi, nel dibattito) ma in maniera scientifica: vale a dire che la concezione del lavoro

 produttivo operaio era data, in << Classe operaia >>, come idea di un¶attività soggettiva, come una realtà insieme

intensiva ed espansiva. Intensiva perché appunto il lavoro è la base di tutto il valore possibile ed immaginabile,

estensiva perché questa concezione del lavoro riconquistava la continuità del ciclo espansivo sociale della riproduzione

operaia e proletaria. La pregnanza del concetto di salario nella tematica di << Classe operaia >> non consiste solamente

nell¶insistenza della sua variabilità indipendente a fronte della rigidità del comando pianificato, ma anche nella sua

 potenza collettiva su tutte le articolazioni dell¶organizzazione pianificata della società. << Centralità operaia >> eguale

<< potenza sociale del lavoro produttivo >>, eguale << espansività della soggettività operaia >>. E¶ ben vero, dunque,

che questi elementi restano a lungo nascosti, nella loro potenza, all¶interno di un décalage storico e teorico: ma non

appena i comportamenti operai riprendono il luogo che debbono avere nella teoria, non appena la lotta operaia riprende

 per mano e guida il pensiero rivoluzionario, di nuovo, direttamente, questi elementi subito trovano modo dirappresentarsi teoricamente in tutta chiarezza. La forbice che, in << Classe operaia >>, si dava fra concezione

oggettivistica della società-fabbrica e soggettività mal sviluppata della composizione si chiude: la soggettività operaia si

eleva al livello, e ben oltre, la capacità capitalistica di controllo sociale. Di conseguenza un altro elemento confuso ma

fecondo della problematica di << Classe operaia >> viene, per così dire, alla luce: si libera cioè delle ambiguità che lo

contraddistinguono.

Ed è la concezione dinamica del rapporto di capitale. Si era detto che lo sviluppo capitalistico era frutto delle lotte

operaie: questa affermazione era rimasta a lungo incapace di produrre teoria, poteva di contro indurre effetti estatici o

addirittura mitologie tecnocratiche. Bene, dentro la pratica delle lotte e non appena la pratica rivela la soggettività di

classe operaia ed il suo grado di espansione sociale, allora si intende che non solo lo sviluppo ma soprattutto la crisi

dello sviluppo, e a pari titolo, è frutto della lotta operaia. Di fatto il rapporto di capitale doveva man mano dimettere la

sua forma dialettica, per assumere figura antagonistica, solo ed interamente antagonistica, fra due opposte polarità

soggettive: classe e capitale. E qui s¶intende infine che solo uno sviluppo tematico di questo genere, così imposto dalle

lotte, poteva spazzar via l¶illusione di riproporre il problema dell¶organizzazione operaia nei termini nei qualil¶avevamo ereditato dalla tradizione terzinternazionalista e dalla crisi stessa degli anni µ50. Ma con questi problemi

siamo ormai ai nostri giorni, al tessuto della riflessione quotidiana del movimento: le contraddizioni di un vecchio

dibattito non risuonano più con intensità.

Vale allora la pena di ristampare << Classe operaia >>? Chiediamocelo infine di nuovo. Mi sono riletto quanto ho

scritto fin qui e, forse con contraddizione (ma certo perdonabile), mi sembra di poter dire: sí pubblichiamola. Ma se lo

facciamo, avvertiamo tutti di leggere quell¶antica rivista dall¶altezza dell¶esperienza fin qui fatta, a partire dagli anni`68-`69 fino a tutte le lotte degli anni `70. Avvertiamo i compagni che solo in questa prospettiva << Classe operaia >>

ridiventa un testo importante da leggere: poiché costituisce una pietra di quell¶edificio dell¶organizzazione autonoma

del proletariato che stiamo costruendo. Ma una pietra sola, ed essa stessa, per essere utilizzata nella continuità della

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nostra esperienza di lotta, ha dovuto essere tolta dalla vecchia calce che l¶imbrattava, ripulita, scalpellata, ed infine

ricollocata nelle fondamenta dell¶edificio, con un nuovo cemento.

3. Per un nuovo schematismo della ragione. Risposta a Petitot. 

Per chi abbia subito il dibattito sul pensiero di Thom da una situazione marginale come è stata, a questo proposito e in

questi anni, quella italiana, la lettera del saggio di Jean Petitot << à propos de Logos et théorie des catastrophes >>

(apparso nel numero 2/3 di Babylone) è tonificante. E lo è soprattutto nella sua impostaz ione, laddove, a fronte delsenso della Krisis che percorre la filosofia contemporanea (ed istericamente totalizza quella italiana), viene

immediatamente rivendicata la funzione costitutiva del nesso epistemologia-ontologia. Il senso forte del paradigma

teorico innovativo << alla Kuhn >> è qui richiamato: la riflessione sul pensiero di Thom, infatti, lungi dall¶esaltare

funzioni unilaterali e tecniche di un¶epistemologia strumentale, apre spazi e può permettere di muoversi sul terreno

della costituzione, ontologicamente determinante, di << regioni del senso >> - obiettivi, semiotiche, comunicative.

Questo è quello che inizialmente ci dice Petitot. E¶ il processo razionale dell¶obiettivazione che è qui possibile

riconquistare alla filosofia, dopo la lunga fase di predominio del pensiero della Krisis ed è di là dell¶angosciosa fatica

della sua verificazione. E¶ una nuova << estetica trascendentale della ragione >> ad essere qui possibile, - sostiene

Petitot, - una estetica trascendentale modificata e completata, sulla quale direttamente si fondino le determinazioni

oggettive e costitutive dello schematismo, giovandosi dello sviluppo delle matematiche e dell¶epistemologia, ben oltre illivello della loro elaborazione in periodo kantiano. Il razionalismo classico, di cui Kant è l¶ultima espressione e del

quale le filosofie della Krisis sperimentano l¶estinzione, basato com¶era sulla disgiunzione fra l¶essere fisico e razionale

e, d¶altro canto e di contro, l¶apparire fenomenico, - viene dunque superato dall¶impostazione di Thom, il cui

fondamentale merito consiste nell¶integrazione del fenomeni critici nella descrizione razionale, nella riconciliazione

dell¶essere fisico e dell¶apparire morfologico.

Petitot cerca di dimostrare il suo assunto attraverso un discorso che con molta efficacia intercala considerazioni di

metodologia scientifica e suggestioni storico-filosofiche.

Per quanto riguarda le seconde, egli traccia un cammino denso di referenze. Rivedendo inizialmente la problematica

kantiana dello schematismo trascendentale della ragione, così come essa è stata sviluppata e condotta a crisi

nell¶elaborazione husserliana, egli nota come Husserl abbia correttamente inteso l¶irresolubilità del problema posto in

quelle forme da Kant. Il passaggio kantiano dall¶estetica all¶analitica allo schematismo disgiunge in maniera definitiva igiudizi determinanti (a portata ontologica) da quelli riflettenti (a portata ipotetico -metafisica). Su questo passaggio il

criticismo non riesce a concludere il suo progetto, anzi esso ci la scia un mondo scisso, ontologicamente irraggiungibile

Ma la correttezza della comprensione del fallimento kantiano nella soluzione del problema della conoscenza, non porta

Husserl ad una corretta soluzione del medesimo problema, aggiunge Petitot. Anzi, la ricerca dell¶obiettività viene a

questo punto, in Husserl, affidata non più all¶intuizione pura bensì all¶intenzionalità, non all¶approfondimento

dell¶estetica bensì allo sviluppo dell¶analitica. L¶assiomatica intuitiva della scienza è dispersa nel formali smo

fenomenologico della coscienza e mistificata nella trascendenza dell¶intenzionalità. Su questo terreno, quando la

temporalità originaria della coscienza si oppone alla teoria nazionale dell¶obiettività, Heidegger potrà trarre da Husserl

conseguenze estreme e legittimare la condizione di Krisis del pensiero europeo. Certo, Kant ha reso possibile questaconseguenza del suo pensiero: ma anche altre, sostiene Petitot. Ora, ci si deve chiedere: contro Husserl e Heidegger,

non è possibile identificare, fra le possibilità della ragion pura, una diversa via di sviluppo della teoria della conoscenza,

fra estetica e schematismo trascendentale?

Le matematiche moderne, incalza Petitot, possono offrirsi [offrirci ?] questa nuova via di soluzione per il problemalasciato irrisolto fra Kant e Husserl. Secondo Petitot, sulla base dell¶insegnamento di Thom, la scissione insuperabile fra

schematismo e costruzione, fra categorie ed intuizioni pure, fra esposizione metafisica ed esposizione trascendentale

dell¶estetica, può essere sciolta. Caratteristica fondamentale delle matematiche moderne è infatti quella di elaborare

concetti matematici strutturali a contenuto categoriale, - certo, non << immediatamente >> ritrovati nell¶intuizione pura

ma << mediatamente >> costruiti nella geometria della spazio-tempo. Nello sviluppo delle matematiche, nella loro

storia concreta, i concetti e i giudizi riflettenti possono man mano divenire concetti e giudizi determinanti, essere cioè

 portati ad intensità ontologica. Riferendosi al lavoro di Lautman, Petitot giunge a questa formulazione: << la dialectique

du concept immanente à l¶histoire des théories mathématiques et à leur mouvement vers l¶unité doit être conçue, en

rapport avec l¶éxpérience possible. Comme le principe d¶un schématisme généralisé susceptible de constituer les

ontologies régionales d¶objectivités alternatives >>.

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Dire questo è come dire che finalmente la scienza matematica ci permette di cogliere gli << stati reali delle cose >>, di

 penetrare ed affermare la loro oggettività razionale; è come dire che sulla base della scienza contemporanea << giudizi

analitici a posteriori >> sono formulabili. Si compie in questo modo la vendetta dell¶estetica sull¶analitica - quando cioè

lo schematismo trascendentale della ragione risulta essere prolungamento e verificazione della prima e non - come in

tutto il neokantismo - fondamento del formalismo delle ipotesi analitiche. Un anti -neokantismo radicale vorrebbe

dunque essere qui fondato attraverso il combinato disposto dell¶analisi della Krisis del pensiero filosofico (bloccato

sulla denuncia e sull¶impossibilità di superare le perduranze del razionalismo classico) e della nuova costruttività del

 pensiero matematico contemporaneo.

* * *

 Non posso non essere d¶accordo con questo sviluppo e con questo progetto contenuti nel saggio di Petitot. Con due

riserve, su motivi espressi dall¶autore, che mi sembrano minare l¶efficacia della sua proposta e rappresentare degli

ostacoli che vanno in ogni modo evitati, affinché la proposta non rovini su se stessa. Il primo di questi ostacoli mi

sembra consistere nella ripetuta dichiarazione di fedeltà all¶impostazione strutturalista, il secondo ostacolo mi sembra

consistere nella troppo riduzionistica concezione della Umwelt fenomenologica - e quindi nella sottovalutazione

dell¶intensità ontologico-regionale del << problema del senso >>. A proposito del primo ostacolo, vorrei solamente

notare che il richiamo allo strutturalismo come alla prospettiva che prevede l¶unità razionale del senso e della forma e

sotto la quale la nuova formulazione epistemologica può essere restaurata, risulta contraddittorio con l¶elemento più

innovativo dell¶opera di Thom e dell¶apprezzamento che Petitot ne fa. Voglio dire che lo strutturalismo, comunque

inteso, è contraddittorio con lo schematismo; che lo strutturalismo, rigorosamente inteso, non permette quel positivo

squilibrio fra << Sachverhalten >> e costruttività razionale entro il quale la scienza considera i fenomeni critici del realee si adegua alla loro autonomia. Non a caso Petitot è costretto, per risolvere questo problema, ad assumere nella lettura

della metodologia di Thom la centralità di un << tiers terme >> fra oggetto e soggettività empirica: terzo termine che

non è semplicemente un elemento costruttivo della prospettiva scientifica (e dunque, come tale, indefinitivamente ed

operativamente plasmabile) - è bensì una legge d¶essenza regionale, un elemento eidetico costitutivo, una

modellizzazione matematica a priori. Ora, questa assunzione, se è indubbiamente coerente con una lettura

strutturalistica del mondo, è profondamente contraddittoria con lo spirito dello schematismo. Essa mi sembra ripetere

elementi non irrilevanti del formalismo husserliano.

E¶ noto come venga formandosi, storicamente e problematicamente, il formalismo husserliano. Esso si pone alla

confluenza di due fondamentali sviluppi della filosofia posthegeliana e della critica delle concezioni dialettiche nel

tardo ottocento tedesco. Da un lato esso riprende l¶esigenza della scuola di Martburg di svilu ppare il kantismo come

eidetica e simbolismo della ragione; dall¶altro esso riprende la tendenza, viva in Dilthey e nella sua scuola, come nelle prime impostazioni gestaltistiche, di fissare i criteri strutturali (regionali) di una metodologia genetica e d escrittiva. In

entrambi questi filoni, e a partire dalla sintesi pur innovativa che Husserl opera nelle Logische Untersuchungen, siformano indirizzi di pensiero tipologici, gestaltistici, simbolici e formalisti. Ora, che cosa ha a che fare questo

comportamento di descrizione eidetica con lo schematismo costitutivo precedentemente descritto? In tal modo non si

ritorna piuttosto a santificare il formalismo, scarnificato quanto si vuole, eppure presente, in qualcuna delle sue

molteplici figure? Non ritorna l¶ analitica trascendentale a schiacciare la capacità dell¶estetica del senso di esprimere

autonomamente la propria tensione schematica? Sorge qui il dubbio che la stessa prescrizione, precedentemente offerta

allo sviluppo della metodologia della ricerca, di identificare concetti strutturali a contenuto categoriale, costruendoli

attraverso un << processo di mediazione >> fra i dati dell¶esperienza, possa risultare ambigua. Che cosa infatti significa

 più << mediazione >> a questo punto? E¶ di nuovo forse << mediazione >> di essenze analitiche e contenuti concreti?

E¶ addirittura ripetizione di un processo di << deduzione >> trascendentale? Non sembrava, inizialmente, che le cose

stessero in questi termini; sembrava invece che << mediazione >> fosse sinonimo di << costruzione >> - e che l¶esteticadella sensibilità producesse essa stessa il proprio schema di sviluppo. In questo caso l¶analisi si sviluppa (e l¶analitico s i

forma) non deduttivamente, bensì dentro l¶aposteriori stesso.

A proposito di questo primo ostacolo che sorge sulla via che Petitot percorre, mi sembra dunque che si debbascrupolosamente tener distinta la nuova lettura dello schematismo costruttivo che dobbiamo a Thom (e la suarielaborazione nello stesso Petitot) dalla tentazione di ricondurla dentro la tradizione dello strutturalismo. Il ritorno allo

strutturalismo rappresenterebbe infatti non la riscoperta della funzione costitutiva del nesso epistemologia-ontologia,

 bensì una riconferma del formalismo e dei trucchi deduttivistici di un¶analitic a disincarnata.

Ma v¶è anche un secondo ostacolo che si presenta nel corso della lettura che Petitot fa del pensiero di Thom. Intendo parlare di un certo << riduzionismo >> nella definizione del << problema del senso >>. Ora, in questo saggio di Petitot,

siamo dinanzi alla compresenza di un¶impostazione di carattere generale (che ha come compito la rilettura dello

schematismo trascendentale della ragione) e di un¶applicazione di carattere particolare (la rilettura della teoria delle

catastrofi in Thom e l¶impatto dell¶impostazione geometrico-matematica sull¶insieme teorico dell¶epistemologia). Si

tratta ora di chiedersi Se, non episodicamente né casualmente, il senso generale dell¶impostazione non sia tradito

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dall¶esemplificazione, dalla dimostrazione particolare. Meglio, se nel corso dell¶applicazione, Petitot non sia indotto a

ridurre in maniera sostanziale il campo di intervento, piegando e stringendo il discorso sullo schematismo dentro quello

sulla modellizzazione matematica. Io non penso che le cose vadano in questo senso, penso invece che il discorso di

Petitot sia sostanzialmente lineare nella direzione di un ritrovamento degli elementi dello schematismo della ragione - a

valenza universale. Ho tuttavia l¶impressione che, ciò malgrado, sia in lui prevalente la tendenza modellistica sopra e

contro il progetto ontologico dello schematismo, e che in generale questo prevalere di tendenze modellistiche possa

rappresentare un potenziale ostacolo ad un nuovo progetto di schematismo della ragione. Vale dunque esplorare la

 possibilità di questo errore.

Ora, Krisis è crisi del razionalismo classico. Il razionalismo classico, nella sua conclusione, relega l¶ontologia al di fuor i

della logica e fa di quest¶ultima la sola scienza costitutiva, analitica in senso propr io. Ma Krisis è anche crisi del

razionalismo dialettico. La dialettica impone le leggi di una logica (rinnovata) all¶ontologia. In primo luogo si tratta

dunque di chiedersi: quando la modellizzazione matematica viene assunta come traccia dello schematismo della ragione

nella sua funzione costitutiva del mondo, non si rischia una << riduzione >> del campo ontologico che inevitabilmente

<< lascia spazio >> almeno a feticci dialettici - se non al razionalismo classico? Ma il problema è più generale e supera

di gran lunga il pericolo di veder rivivere una discreditata dialettica. Il problema consiste piuttosto nel chiedersi quale

sia il nuovo globale significato, e le forme e le dimensioni, dello schematismo trascendentale rispetto all¶età kantiana ed

allo svilppo [sic] del razionalismo classico, dialettico o critico. Il problema non è da poco. Nell¶ultima parte del suo

saggio, riprendendo alcune fondamentali intuizioni di Habermas, Petitot riconosce che lo sviluppo contemporaneo delle

scienze e delle tecnologie si costituisce in un¶opacità storica che somiglia all¶opacità dell¶evoluzione naturale. Una <<

seconda natura >>, la cui inerzia ed insensatezza ripetono la dialettica oscura della << prima natura >>. Che cosa

dunque significa << senso >> in questo quadro? E¶ davvero possibile afferrare la pregnanza e l¶estensione di questarealtà a partire dalla modellistica matematica? Quale può essere la << presa >> di modelli matematici, anche rinnovati,

a questo livello di sussunzione, e di indifferenza, del mondo nell ¶orizzonte della scienza e delle tecnologie? Di contro:

qual¶è la << differenza >> che lo sviluppo dello schematismo deve imporre in questa nuova Umwelt naturalistica? Noiconosciamo l¶analitica trascendentale di quest¶universo e l¶enorme prigione di insensatezza che essa produce: ma non

sappiamo che cosa significa oggi, nella totalità del suo senso, un¶estetica trascendentale. Come risolvere questo

 problema? La sociologia è chiaro, si presenta come regione naturalistica essa stessa: il senso di un¶ontologia non è

dunque in nessun caso riducibile a quello di una regione sociologica - ed ha ragione Petitot a criticare quest¶illusione in

Habermas. Ma se questa << via brevis >> non è data, resta comunque il problema di chiarire che cosa possa essere un

ontologia che si ponga a livello della grande trasformazione del senso dell¶esperienza - quale è quella che stiamo

vivendo. Che interpreti, ad esempio, la pregnanza dell¶indistinzione del Sachverhalten (quali il descriveva l¶ultimo

Wittgenstein); che rompa la circolarità delle fenomenologie funzionalistiche, ecc. ecc..

La risposta a questi interrogativi, credo debba costituire il compito del lavoro filosofico nei prossimi anni. Per ora

l¶unica preoccupazione dovrebbe essere quella di non racchiudere nuovi modelli di costituzione critica del reale sottovecchi paradigmi di razionalità. Da questo punto di vista il richiamo di Petitot (richiamo fuggevole) alla rilettura che

Deleuze ha fatto dell¶estetica trascendentale, sembra particolarmente opportuno.

4. Sull¶orlo dell¶essere. 

A proposito di Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo del negativo, Torino, Einaudi, 1982;di << Vingt ans de pensée allemande >>, numero speciale di Critique 413, ottobre 1981, Paris, t. XXXVII, con articoli

di H. Gadamer, K.O. Apel, R. Bubner, J. Habermas, D. Henrich, N. Luhmann, O. Marquard, E. Tugendhat, R. Wiehl,

W. Iser, H.R. Jauss, G. Kortian; di Vincent Descombes La même et l¶autre, Quarante -cinq ans de philosophie française

(1933-1978), Paris, Les éd. de Minuit, 1979.

Il pensiero della Krisis ha rappresentato, per una non più breve stagione, il punto di riferimento della crisi del marxismo

in Italia. Lo sfaldamento della teoria marxiana del valore e l¶impossibilità di riportarla ad uno schema razionale di

 pianificazione e delle formule politiche che ad essa si erano richiamate - determinano la necessità, tipicamente italiana

(e cioè imposta dall¶alto livello di lotte e di politicizzazione comunque esistente lungo gli anni settanta), di salvare la

 politica comunista oltre la crisi della teoria comunista. Il pensiero della Krisis sembra svolgersi in questo quadro.

Sulla crisi della teoria del valore, e cioè del fondamento della razionalità complessiva del sapere rivoluzionario, si pone

lo sforzo di rifondazione del progetto. Un prometeismo della politica in assenza di una scienza, anzi, in presenza della

crisi radicale del suo fondamento. La scienza è perciò del progetto, nella misura stessa nella quale non può più essere

scienza del fondamento. Una sorta di acuta schizofrenia coglie così la teoria di una parte consistente del comunismo

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italiano: quanto più la scepsi si approfondisce e va indietro alle origini stesse del pensiero filosofico e politico

dell¶occidente moderno, tanto più viene svolgendosi una specie di scienza pura della politica.

Il fondamento sprofonda nella mistica ad indicare l¶assenza di ogni validazione per quella razionalità tecnica cui si

accede tuttavia nel disincantato della politica - nel cinismo si rappresenta il fantasma della weberiana Beruf politica

(talora non si evitano moralistiche inflessioni tratte da quell¶antica socratica scuola - come quelle, absit iniuria,

rilevabili nel famoso discorso dell¶Eliseo). Il pessimismo della ragione e l¶ottimismo della volontà raggiungevano un

 paradossale apogeo. C¶è da aggiungere che queste traiettorie filosofiche-politiche negarono con insistenza, oriconobbero con estrema difficoltà, la matrice tecnica che autenticamente le sosteneva. Non se ne intende la ragione:

non per la prima volta infatti la teoria socialista dell¶autonomia relativa del politico, dello Stato e del diritto avrebbe

esplicitamente assunto una dimensione tecnicistica -come ad esempio avvenne a pensatori della statura di Lundstedt, in

fecondo contatto con l¶irrazionalismo etico della scuola di Uppsala negli anni trenta. In mancanza di questo

riconoscimento a funzione del << pensiero negativo >> rischia chez nous di risultare mistificatoria - e la mistificazione

 può godere di disprezzo e oblio.

Il libro di Agamben ha un primo merito storico-critico: ed è quello di afferrare il pensiero della Krisis per i capelli e di

sganciarlo dalla mistificazione politica che lo animava. Da questo punto di vista reintroduce il pensiero negativo nella

discussione filosofica del nostro tempo, riconsegnandogli la dignità di passaggio critico.

Rispetto a che cosa? Rispetto appunto al problema della definizione del fondamento. Ed è qui anche il secondo merito

del libro di Agamben: il fatto di attaccare con grande determinazione a posizione stessa del problema del fondamento, e

di consegnare la soluzione non all¶ipostasi della Krisis ma alla riscoperta di un n esso dell¶essere e della pratica.

Agamben muove dalla convinzione che il luogo di nascita della filosofia occidentale, la sua ricerca del fondamento

ontologico, articolandosi necessariamente alla definizione del linguaggio che lo esprime, sia luogo essenzialmente

mistico - la ricerca del fondamento ontologico si aggira infatti fatalmente attorno alla definizione di un dicibile che

null¶altro può essere se non la ripetizione dell¶essere detto.

La fondazione si riduce al mezzo di espressione: la fondazione può esserci solo in quanto è detta, ma l¶esser [l¶essere ?]

detto non ha così fondazione, è pura voce. L¶escamotage del pensiero della Krisis e quello di ammettere la crisi del

fondamento e di accertare il suo affondare nel pensiero mistico, ma di assumere nel contempo, simultaneamente, la

voce e la logica di espressione come intenzioni autonome ed indipendenti dal misticismo del fondamento: sicché la

logica del progetto non solo si vuole senza un fondamento ma - astuzia degli dei - lo è davvero. Il pensiero del progetto

risulta, su queste basi, ineffettuale - esso vive dell¶illusione di riprendere la potenza logica di un problema insoluto.

Potenza logica, quindi, insussistente.

Ricostruendo storicamente lo sviluppo del problema del fondamento, ovvero del rapporto fra fondamento ontologico evoce che lo esprime, Agamben taglia due nodi principali: Hegel e Heidegger. In Hegel l¶identificazione del problema

del fondamento e della dimensione logica della sua espressione è totale.

Ma è proprio questa assunzione radicale del problema del fondamento nella dimensione della logica a far esplodere il

 problema. La circolarità indefinita della soluzione è da Hegel assunta a fondamento. Il cattivo infinito che si vorrebbeevitare diviene il principio. Il fondamento diviene, e non può che essere nella logica, l¶infondato. L¶insignificanza della

voce pretende a fondamento dell¶essere - ma la voce è solo una modalità dell¶essere e non lo fonda. Il circolo

ontologico-linguistico non si chiude.

Heidegger mostra come questo circolo non si chiude in nessun caso. E a ragione: egli spinge l¶intenzionalità husserlianafino all¶identificazione nel tempo dell¶essere, e qui il senso (significato) dell¶essere può concludere solo alla

vanificazione [verificazione ?] di ogni senso (direzione) dell¶essere, alla dichiarazione della completa inessenzialitàdell¶esistente. Quindi, ad uno statuto ontologico completamente negativo anche per la voce che esprime l¶essere.

Il tentativo di considerare l¶essere, in Hegel, come relazione di tutte le rela zioni è vanificato [venificato ?] nelriconoscimento che ogni relazione è infondata - il senso della metafisica è dunque il cogliere questa nullità delle

relazioni.

Heidegger porta paradossalmente a termine, nel nihilismo, il più antico programma sistematico dell¶idealismo tedesco,

che era consistito nel disegno di riportare il negativo, attraverso a dialettica, nel processo della totalità - comedichiarazione dell¶essere e probabilmente, data la connessione fra senso della totalità e senso etico della vita, come idea

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di autocostituzione etica del mondo. La rete logica che stringe questo progetto è per Heidegger dissolta - e l¶eticità

ridotta a logica è essa stessa tratta dentro questo processo non di autofondazione ma di autodissoluzione.

Invero, sottolinea Agamben, quest¶autodissoluzione nihilista dell¶essere lascia libera la voce - ma un¶altra voce, una

voce assoluta, assolta dalla negatività di cui si è fatta porta trice, effettivamente piesis ora, in quanto essa permane come

unica potenza di quest¶universo dissolto. La voce si libera dalla genealogia della negatività - prima di una disperata

solitudine, poi tentando di riorganizzarsi nel rapporto linguistico, e quindi di riassumere l¶esistente nel rapporto etico. E¶ possibile dunque un¶assoluzione della voce che la proponga come base di una umana metafisica? E¶ possibile nella

misura nella quale la voce non si presenti come logica, a riassumere in sé la metafisica, b ensì si presenti come etica e da

questa dipani le ragioni dell¶essere: solo in questo modo il valore del nihilismo può essere colto.

E rovesciato? La voce, dopo essere stata la chiave della logicizzazione dell¶essere ed aver quindi costituito il terreno

della dissoluzione del suo stesso senso, nella costituzione dell¶infondatezza del dire il fondamento, - può dunque ora

costituirsi in orizzonte di senso? E verso dove?

La voce pone comunque il problema dell¶etica. Non sono certo di interpretare correttamente Agamben, a questo punto.

A me sembra che qui intervenga un terzo autore, mai citato ma presente. Si tratta di Marx. Di un Marx strappato su, fino

al livello della sussunzione reale e cioè all¶orizzonte di una completa riduzione dell¶essere alla voce, dell a catena dei

rapporti produttivi alla comunità delle relazioni linguistiche.

Qui si potrebbe presentare una teoria della voce come voce della coniazione dell¶essere. Ma coniare l¶essere ha senso

solo se a voce è assunta in termini etici: una coniazione logica dell¶essere sarebbe semplicemente riproposizione del

 problema del fondamento e quindi riproposizione della Krisis, della circolarità insensata del fondamento logico

dell¶essere. Ne risulta che la voce, in quanto voce collettiva, eticamente sensata, produttiva e costitutiva, rappresenta la

sola base di una filosofia che possa riconquistare l¶essere.

Da Hegel a Heidegger si scioglie la tradizione della metafisica occidentale. Il suo compimento e la sua fine. Fine dei

tempi, come Kojève ha visto in Hegel - ma fine dei tempi è apertura di un nuovo tempo, dominato dalla voce etica.

Marx ne ha intuito il significato, e il pensiero negativo non sostituisce Marx, non mette la politica al posto della teoria,

ma è semplicemente l¶introduzione ad una rilettura di Marx nella sussunzione reale. Quindi ad una rifondazione della

teoria.

Ma rivediamo questo passaggio. E¶ su di esso infatti che, nella filosofia italiana, si compiono operazioni analogamente

tentate, in questi anni, dal pensiero francese e da quello tedesco. Un primo episodio va identificato nella filosofiatedesca (Habermas, Apel, Tugendhat, ecc.). Qui il riconoscimento della Krisis è avvenuto nel comune esaurirsi delle

 prospettive realistiche e delle ultime espressioni della tradizione del criticismo. Ment re le prime concezionicontinuamente si scontrano con l¶impossibile soluzione del problema del fondamento - << ma i Topici non concludono

>> -, la seconda impostazione crolla nell¶inconclusività della trafila << avalutatività-decisionismo-razionalismo critico

>>. L¶unica via d¶uscita è il trascendentalismo. Donde un singolare ritorno a Kant - non tanto allo scopo di riaffermare

l¶orizzonte critico come tale, quanto nel tentativo di dare sostrato ontologico al trascendentalismo. Ma quale può essere

questo sostrato? Può solo essere un terreno di interazione comunicativa. Si badi bene: non è la critica sociologica ma

soprattutto la scuola ermeneutica a spingere in questo senso, e non la densità dei suoi strumenti. L¶estetica

trascendentale, attraversando il terreno della voce, della comunicazione collettiva, tende alla rifondazione di un progetto

etico. Il tema etico è tema di strategie comunicative.

La critica della ragione strumentale, sottolinea Habermas, non è riuscita ad avere sostanza comunicativa, deve quindi

nuovamente svilupparsi in teoria dell¶agire comunicativo. Ed Apel insiste sulla necessaria coniugazione di coscienza ed

intersoggettività, sulla necessaria implicazione istituzionale di evidenza e di validità; e Tugendhat dipana l¶unitàtrascendentale del soggetto in una serie di contigue e/o alternative decisioni consensuali.

Che tutto questo possa non rappresentare altro¶ che una nuova defatigante e moderata filosofia della mediazione, è vero;

che l¶illuminismo di questi autori sia eclettico e fastid ioso - Garve e non Kant - è pur evidente. Eppure non va

sottovalutato il terreno sul quale il discorso filosofico è costretto: il mondo è la voce, l¶interazione linguistica, l¶esser e

del pratico. La recezione del mondo in termini di linguaggio (o di intera zione comunicativa) resta tuttavia in modo

indifferenziata. L¶estetica trascendentale, pur caratterizzata da un soggetto qual¶è quello dell¶etica (ermeneutica del

soggetto) e della politica (ermeneutica della comunicazione), non riesce a descriversi altrimenti che come promozione

di un qualche eventuate schematismo della ragione. E il riconoscimento di sé come essenza etica si svolge di nuovo

nella dialettica che va dalla solitudine al terrore o in quella senza fine del riformismo. La primarietà della sferacomunicativa è comunque l¶irreversibile risultato fissato dalla filosofia tedesca contemporanea. La violenza

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dell¶immediata appercezione etica del mondo sta invece alla base della filosofia francese contemporanea. Qui la fine dei

tempi, il senso della produzione dell¶essere, l¶apprensione della categoria etica, assumono in primo luogo

l¶immediatezza di questo passaggio costitutivo, lo danno come assoluta datità. In ciò consiste indubbiamente la

superiorità della filosofia francese su quella tedesca.

Attraverso il bagno purificatore dello strutturalismo, nelle sue varie tendenze epistemologiche, nihiliste, empiristiche,

surrealistiche, alla Bataille, alla Derrida, alla Deleuze, il problema della produzione si situa sull¶orizzonte dell¶essere

equivoco, dato, irresolubile. La distruzione della metafisica avviene sulla dimensione della metafisica. L¶essere è percepito senza negatività e trascendenza, perché negatività e trascendenza sono insignificanti, irriducibili alla datità.

Ma, in secondo luogo, la distruzione della metafisica diviene un¶operazione. Il soggetto si sa soggetto etico in quanto

operatore della distruzione della metafisica, il soggetto e immediatamente positivo in quanto - pur schiacciato sulla

dimensione della distruzione della metafisica - coglie l¶essere come orizzonte da percorrere, assolutamente aperto.

 Nel primo programma sistematico dell¶idealismo tedesco, per stare ad una continua sollecitazione di Agamben, la

totalità dell¶etico è un risultato, è la polis da ricostruire. Nella filosofia francese la totalità dell¶etico è il presupposto,

l¶unico presupposto, formato dal linguaggio, dalla produzione, dalle differenze. Se l¶essere appare nelle dimensioni

heideggeriane, su queste dimensioni esso va ripercorso - sapendo tuttavia che l¶univocità dell¶essere heideggeriano si è

dissoluta in equivocità. Perciò ripercorrere l¶essere non significa dominarlo: significa assumerlo per quel che è,

destrutturarlo, e mostrarlo come figura della voce collettiva e sua continua dislocazione sul ritmo delle voc i.

Io non so bene se Agamben possa accettare questo terreno del filosofare, e questa definizione della metafisica. La cosa

certa è che egli giunge su quest¶orlo - con un lavoro che innova e riassume tendenze della critica francese e della

costruzione postfrancofortese dei teorici tedeschi. Io sento che ora siamo obbligati ad accettare questo comune terreno

di proposta filosofica. Il discorso di Agamben ha per certi versi un andamento humeano: disarticola la complessità della

tradizione, forse solo per distruggerne i presupposti, - ma con ciò afferma una rinnovata prospettiva di lavoro, come

 presupposto problematico. Questo morto materiale può dunque essere usato come fertilizzante di nuova vita. Non

occorre sapere che cosa sia il mondo perché l¶esser - ci produca - se solo amiamo questa frontiera dell¶essere come

disutopia totale e sola nostra speranza possibile. La filosofia non anticipa il reale, può solo accettarlo e procedere

sincronicamente con esso. Una metafisica dell¶assolutamente positivo è rappresentata dalla possibilità di propor - si su

quest¶orlo dell¶essere - armati di un¶intera disillusione del reale. Il massimo di ottimismo della ragione, unito al

massimo di pessimismo della volontà, - rovesciando in tal modo lo stolto stereotipo paleocomunista che ci voleva

incapaci di speranza (pessimismo della ragione) e fanatici nell¶azione (ottimismo della volontà), perciò preda del

terrorismo della filosofia del fondamento.

 Noi invece il fondamento lo poniamo nel futuro, nel razionalismo assoluto di un¶etica positiva. Il passaggio che ora si

deve compiere è compreso nell¶arco dei problemi che la critica ha proposto: esso consiste cioè nell¶articolazione della

voce. La determinazione collettiva, produttiva, ontologicamente costitutiva della voce umana va posta a soluzione del

contesto etico. Etica significa comunicazione e l¶essere della comunicazione è sensato.

In realtà, alle origini dell¶idealismo trascendentale, il Sistema dell¶eticità di Hegel aveva sviluppato questa

consapevolezza in un quadro avvertito della complessità etica - ma questa complessità lo spinge verso la rassicurazione,

e il mondo etico va quindi risotto nella forza della mediazione e della logica. Di contro, la filosofia contemporanea

moltiplica il terrore trascendentale della complessità etica ma nel contempo pone l¶impossibilità che la logica

rappresenti la chiusura del reale. Heidegger svolge il problema fino a ridurre all¶insignificanza il compito eroico che

l¶ascetismo logico di Husserl gli aveva affidato. Wittgenstein vanifica ed esalta in godimento mistico la completa

circolarità di questo compito metafisico: la disillusione si fa gioco, il décir è liberty. Oltre ascetica e mistica, oltre la

tragedia di due guerre e la crisi del socialismo reale, la filosofia deve ritrovare un terren o di fondazione: ed è quello sul

quale ristà la vita dell¶uomo, un orlo di un essere che non è ancora. Un¶etica assoluta senza valore e senza futuro.Eppure il fondamento è nel futuro. Ma fondamento e parola vana.

Riusciamo dunque a sbrogliare la matassa delle speranze, razionalmente, senza affidarci [affidarsi?] ad alcun ottimismo

della volontà? Riusciamo a cogliere la voce che rappresenta la nostra umana essenza non come sostitutivo dell¶essere

ma come costituente il essere? Ho l¶impressione che la filosofia contemporanea ci abbia portato su questo limite. Ho

l¶impressione che la disperazione dell¶esistente ci spinga oltre.

Staccata dalle funzioni politiche che le sono state impropriamente affidate e dalla mistificazione che con ciò le giungeva

ad esprimere, la filosofia della Krisis può così rappresentare una possibile introduzione al pensiero positivo, alla

filosofia del futuro. Un terreno etico è costituito. Il problema ora è di scavarlo e di coltivarlo, questo terreno. Senza far sicogliere da ulteriori moti di resipiscenza e tentare nuovi e surrettizi recuperi del negativo. Il concetto di possibilità non

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introduce il negativo, la speranza razionale non implica il negativo - il fisico non chiama negativo il fatto che la natura

conosca dei limiti, che la vita conosca la morte. E¶ così - il non essere non è. Questo vuoto può solo essere riempito di

umana operosità.

5. L¶istituzione logica del collettivo e le fatiche dell¶estetica.

(A proposito del libro su Frege di Roberta De Monticelli). 

E¶ noto come il linguaggio - in quanto insieme di proposizioni ma anche, semplicemente, insieme sensato di

 proposizioni - possa essere considerato un orizzonte intrascendibile. Quando l¶orizzonte linguistico venga presentatosecondo queste determinazioni, diciamo che il linguaggio costituisce un orizzonte ontologico - è il mondo e non ce n¶è

altri. Oppure ce ne possono essere altri, ma altrettanto esclusivi: se vi siano chiavi per trascorrere dall¶uno all¶altro è

 problema che inizialmente non ci tocca. Se l¶orizzonte linguistico è ontologia, è mondo, allora il problema della verità

 può essere posto solo al suo interno: la corrispondenza al reale della proposizione andrà epistemologicamente verificata

nel suo valore logico in quanto questo sia ritrovato nella circolarità del l¶orizzonte medesimo. L¶epistemologia in senso

 proprio (come teoria della verificabilità della popolazione nella sua corrispondenza con il reale) è finita. Meglio: è

riassunta nell¶ontologia. Un¶ontologia che, nel mondo linguistico, può solo essere formale, non può cioè promuovere la

sua forza di verifica che dall¶interno di una correlazione indipendente. Intrascendibile, appunto. Se ci chiediamo quale

sia il significato di una proposizione, entro quest¶intrascendibile universo linguistico, non potremo far altro che

ricercarlo seguendo i tratti formali del senso della proposizione - non certo ricorrendo a funzioni semantiche diinterpretazione che presupporrebbero il linguaggio e il mondo come indipendentemente caratterizzabili. La verità si

mostra al pensiero, dentro al pensiero - essa non è l¶obiettivo della logica ma l¶oggetto e la sostanza del pensiero. Nelle

scienze naturali si cerca la verità, nella logica la si mostra. L¶interferenza logica è solo un movimento - non una

 produzione - di verità. Secondo Frege, nella lettura dei suoi maggiori interpreti ed ora di Roberta De Monticelli

(Dottrine dell¶intelligenza. Saggio su Frege e Wittgenstein, De Donato, Bari 1982), << il Sinn di un¶espressione è il

modo di determinazione, o anche il modo di datità o di p resentazione della Bedeutung di quell¶espressione >>. Il senso

è dunque l¶istituzione di uno spazio logico - istituzione dell¶ordine esclusivo delle possibilità logiche che l¶espressione

 presenta.

Inoltre, Frege aggiunge: << lo sostengo che il concetto precede logicamente la propria estensione e considero erroneo il

tentativo di far dipendere l¶estensione del concetto come classe non dal concetto ma dagli individui >>. Il valore

semantico dei segni linguistici è dunque il loro potenziale di discriminazione ontologica: il Sinn crea la Bedeutung,

l¶insieme delle proposizioni è il mondo. Michael Dummett (nel suo Frege del 1973) non ha esitato a considerare di

importanza Cartesian la svolta linguistica della filosofia imposta appunto da Frege.

Roberta De Monticelli, il cui volume merita un¶approfondita discussione, non ha dubbi nel trarre decisamente verso un

orizzonte linguistico, qualificato in termini di intrascendibilità, anzi senz¶altro Wittgenstein, la teoria del pensiero - ed

in genere la logica di Frege. Quest¶operazione viene condotta nei primi otto capitoli che costituiscono la prima parte del

suo volume. Le critiche che si possono opporre a questa prima operazione di geometrica proiezione di Frege su

Wittgenstein (operazione che potrebbe essere ritenuta di appiattimento) sono parecchie. Meglio di tutti, e con molta

attenzione filologica, le eleva Michael Dummet [sic one or two t¶s? ] nella sua prefazione al volume. Il peso indubbio di

queste critiche non toglie il fatto che l¶operazione della De Monticelli, nel suo libro, sia molto robusta e stimolante.

Ma vediamo lo obiezioni di Dummet. a) L¶autrice esagera il carattere aprioristico del pensiero di Frege - il resoconto a

 priori del linguaggio che Wittgenstein elabora nel Tractatus, non è invece nel programma di Frege. b) La negazione

dell¶epistemologia non è in Frege presupposizione di una metafisica realistica - come invece avviene in Wittgenstein. InFrege v¶è al massimo un orientamento in tal senso. c) Il rapporto fra realismo ed oggettività dei pensi eri e del loro valori

di verità non esclude, come invece avviene nel Tractatus, i problemi dell¶apprensione, della nostra capacità di

riconoscere le condizioni di vera. d) Troppo facile è la riduzione della Bedeutung al Sinn - in realtà, in questi termini, il

linguaggio viene ridotto a concetto astratto. Ma storicamente non è avvenuto così. La svolta linguistica della filosofia

non ha tralasciato la considerazione del rapporto reale e il Sinn, come in genere il rapporto logico, è stato inizialmente

interpretato come veicolo del reale. e) E¶ davvero il pensiero di Frege tanto coerente quanto la De Monticelli

(poggiando sul tardo scritto Der Gedanke - 1918) ritiene? Come distinguere e come ridurre ad unità e continuità tesi

diverse, se non contraddittorie [contradditorie ?], sostenute in opere diverse? f) E infine: l¶autrice non tiene presente

altri elementi che caratterizzano - fuori ed indipendentemente dal Sinn - gli enunciati: in particolare la << forza >> della

Bedeutung, ovvero una relazione di verità immediatamente evidente, in funzione comunicativa. La comunicazione è

dunque, nello stesso Frege, elemento dell¶intelligenza.

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Come ho già detto, credo che queste obiezioni, più che inficiare lo schema della ricerca della De Monticelli, ne

mostrino a robustezza dell¶impianto. Poiché, a mio avviso, quanto è filologicamente avventuroso - il sospetto

appiattimento di Frege su Wittgenstein - è filosoficamente legittimo e vale a porre un problema per noi fondamentale.

Poco importa se sia un problema nuovo. A me sembra infatti che, attraverso la sua interpretazione nella svolta

linguistica della filosofia, la De Monticelli esplichi un paradosso teorico - che può essere così formulato: l¶ontologia

formale dell¶orizzonte linguistico del Tractatus interpreta correttamente le istanze realistiche e l¶apertura alle esigenze

della comunicazione che sono proprie della filosofia fregeana. Fra Frege e Wittgenstein non cambia il desiderio di realtà

- è cambiata, effettualmente, la realtà. Il mondo ci è dato nella forma dell¶ontol ogia linguistica - la genesi fregeana diquest¶ontologia non è contraddittoria con il risultato - malgrado il carattere paradossale del processo. Il mondolinguistico sussume i problemi del realismo. (E¶ chiaro allora che a M. Dummet, che dagli anni µ50 va sviluppando una

concezione antirealistica ed intuizionistica del linguaggio, queste premesse della De Monticelli sembrino fortemente

criticabili. Diverso sarà l¶atteggiamento di M. Dummett a fronte delle conclusioni dell¶autrice - ma di questo più tardi).

<< Nella seconda parte del suo libro, la De Monticelli fa un audace tentativo di costruire un¶epistemologia sul

fondamento della filosofia del pensiero esposta nella parte prima >> (M. Dummett). Vale a dire che la De Monticelli,

memore del debito con il realismo fregeano, dopo aver descritto la sussunzione del mondo nel linguaggio, cerca di dare

caratteristiche materiali all¶ontologia costituita, di riarticolare l¶universo - fin qui solo formalmente descritto. Deve

appunto mostrare la genesi del risultato.

Deve riaprire la dialettica dell¶epistemologia a livello di una metafisica realistica. Che questo - della riarticolazionerealistica dell¶orizzonte formale della comunicazione - sia un problema attuale, che la riproposizione di un compito

epistemologico (in senso proprio) costituisca un passaggio centrale, nessuno, credo, potrà negarlo. E che questo

cammino debba svilupparsi secondo figura capaci di esprimere, a livello di questo mondo sussunto, la materialità della

vita, sembra addirittura ovvio.

La De Monticelli risponde solo parzialmente alla questione che si è proposta. Definito correttamente il terreno della

ricerca, se ne ritrae infatti precipitosamente, scegliendo una consueta quanto perniciosa scorciatoia nello svolgimento

del compito: una via kantiana. Nei capitoli IX (<< La µvita¶ e il µmondo¶ >>), X (<< Frege e la teoria kantiana

dell¶intelligenza >>), XI (<< Esperienza e giudizio >>), che aprono la seconda parte del suo volume, la De Monticelli

tenta dunque di sviluppare, su base fregeana, una dottrina complessiva dell¶intelligenza. I tre capitoli costituiscono,

nell¶allargamento tematico che presentano, un¶analisi degli elementi di avvicinamento di Frege a Kant, nella teoria della

 percezione, nella teoria dell¶lo e dell¶autocoscienza, nella teoria del concetto. E¶ chiaro che, in questo campo, ogni passo verso Kant è un passo di allontanamento da Wittgenstein. Ma l¶argomentazione si fa appunto teoretica. E si

svolge: a) attraverso la ridefinizione di una teoria della percezione cognitiva, in senso kantiano, e cioè di una teoria che prevede la coincidenza di elementi percettivi e di elementi intelligenti come condizione dei primi. Il segno kantiano è

allegato alla teoria delle condizioni dell¶essere conoscitivo; b) la ridefinizione di una teoria tr ascendentale dell¶orizzonte

linguistico, ovvero del passaggio - mediato dall¶io cosciente - dalla percezione degli oggetti alla definizione dei

concetti. Questo kantiano passaggio contiene la refutazione dell¶idealismo soggettivo; c) terzo punto è l¶elaborazione

della teoria del concetto come sintesi di esperienza ed intelligenza nel linguaggio. Su questo terreno la De Monticelli

sviluppa con coerenza la teoria del concetto verso l¶articolazione di funzioni logiche (ad esempio, con riferimento al

 problema dell¶individuazione) e la rifonda nella prospettiva costitutiva dello schematismo trascendentale. La relazione

Sinn Bedeutung è oggi completamente risolta dentro questo rapporto.

Ci ritroviamo qui su uno snodo fondamentale. A me sembra che questo uso del kantismo rappresenti un¶éscamotage che

annulla la determinazione globale dell¶orizzonte linguistico. Il problema dell¶articolazione raggiunta, viene disarticolato

nel linguaggio kantiano. Lo schematismo è chiave della teoria del giudizio e dell¶estetica. Evita la produzione.

Insomma, è una recessione nella questa che la De Monticelli propone.

 Nei capitoli successivi XII-XV, l¶avvicinamento a Kant viene ulteriormente spinto e specificato - nel senso che, sulla

 base della dottrina fregeana dell¶<< afferrare >> (posta a contrasto, a differenza del << giudicare >> kantiano), tutto il

 processo viene per così dire centralizzato, appesantito, << empiriocriticizzato >>. Si badi bene: non è che l¶orizzonte

kantiano sia superato, la verità non viene tolta alla sua real tà trascendentale-critica (e si rifiuta radicalmente la teoria

della verità-verificabilità) - l¶orizzonte kantiano viene << più >> empiricamente connotato. Così ad esempio, si insistesul ruolo delle << espressioni indicali >>, degli << stati modali >>, su l << colore >> delle proposizioni. Per concludere:

<< la valenza epistemologica del concetto di senso (ritenuto il vecchio concetto di epistemologia come rapporto fra

verità e verificabilità) fa della posizione di Frege un realismo forte, ma non un realism o puro >>. Un realismo <<

 poetico >>, soggiunge la De Monticelli. Annotazioni analoghe si possono fare quando l¶autrice passa, dalla dottrina del

Sinn, alla considerazione della teoria della Bedeutung. La funzione riferimento, con le sue due caratteristich e di

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immediatezza percettiva e persistenza concettuale, viene riportata all¶orizzonte del realismo << impuro >>

dell¶intenzionalità, à la Brentano. Il processo dell¶individuazione ha solo degli aspetti delle componenti epistemologiche

- di verificabilità. << Vie d¶accesso alle cose >> - che non si concludono, sentieri interrotti. I processi d¶individuazione

hanno componenti epistemologiche ma solo la teoria del Sinn determina la completezza del progetto. La sensibilità è

infatti coinvolta nelle procedure di individuazione ma non nella procedura di giustificazione dell¶oggetto. La

comunicazione, le funzioni-riferimento sono intenzionali. Il processo di verifica non è altro che un processo, un

ondeggiare fra apparenza e realtà, fra soggettivo ed oggettivo, una descrizione fenomenologica del processo stesso.

L¶idea di distinguibilità fra essere ed apparenza è costitutiva della percezione - ma solo, appunto, come idea e dinamica. Nel cap. XV la tesi viene ulteriormente ribadita e sviluppata, sulla base dello sche matismo kantiano della percezione e

del concetto - con una nuova forzatura in termini estetici [estatici?] e poetici della tematica.

Quest¶innesto, sull¶albero della filosofia linguistica, di apporti kantiani e fenomenologici, pur essendo tipicamente

scolastico (nell¶accademia Italiana), coglie tuttavia la polarità fondamentale del pensiero filosofico contemporaneo che

si confronta con la sovradeterminazione ontologica del mondo linguistico - fra Husserl e Wittgenstein. Originale è nella

De Monticelli il sentimento della necessità della disarticolazione interna dell¶ascettivismo husserliano e del misticismo

wittgenstiano - e la sua tendenza a riconquistare il senso della realtà della totalità linguistica, inverandone la genesi, ad

esperire con coraggio l¶istituzionalità complessiva dello spazio logico e la sua potenziale elasticità. All¶originalità della

strategia si contrappone [sic] l¶infelicità della mossa kantiana.

Commentando la seconda parte del volume della De Monticelli, M. Dummet - come aveva criticato la trazione di Frege

verso Wittgenstein operata nella prima parte - critica ora la torsione kantiana qui operata. In sostanza Dummett nega la possibilità filologica di questa torsione - sia a proposito della teoria dell¶lo, sia della teoria del senso e

dell¶intenzionalità, sia in genere su tutti quei punti di vista nei quali si valuta [voluta?] e si ristabilisce il rapporto f ra

teoria del pensiero e teoria della conoscenza. Di nuovo queste annotazioni filologiche di Dummett vanno accettate.

Senonché esse sfiorano solamente la critica - ed il problema della De Monticelli. se infatti come il problema teorico

fondamentale,. qui proposto, dovremo - piuttosto che ribattere filologicamente alle conclusioni della ricerca - riprendere

il suo filo. E rifiutare dunque non tanto la trazione verso Wittgenstein del realismo fregeano quanto la specifica torsione

kantiana nell¶interpretazione della sovradeterminazione ontologico-linguistica. La De Monticelli è convinta che il

mondo conquistato rappresenti la fine dell¶universo del Logos. Difficile sarebbe sollevare in proposito obiezioni.Quanto all¶uso di Kant, su questo tornante ed alto scopo di sottolineare la possibilità che la Krisis offre - esso è, almeno

a partire da Schopenhauer, consueto. Ma d¶altro canto, non ci sembra che la De Monticelli sia disponibile a trarre dalla

crisi del Logos conclusioni irrazionalistiche. Sicché, tra i divergenti rifiuti, essa sceglie una via intermedia, tentando la

riarticolazione del mondo della Krisis attraverso un¶ambigua sfera della percezione: fantasmi che schematicamente

adempiono a funzioni trascendentali. Un realismo impuro? (oppure, nella qualificazione leniniana

dell¶empiriocriticismo, un idealismo impuro?). Una teoria dell¶immaginazione? Di fatto, come s¶è già visto, negli ultimicapitoli del suo appassionato libro, la De Monticelli spiega la ricostruzione di una prospettiva kantiana nel senso di una

sorta di realismo poetico - impuro. Realismo - perché l¶immersione nel mondo è senz¶altro fondante e le qualificazioni

di verità e falsità costituiscono le condizioni stesse del linguaggio (<< Nella sostantivazione del predicato µvero¶ si cela

(si mostra) l¶essenziale identità di categorie ontologiche (stati di cose, fatto e dunque classe e cosa) e categoria logica

delle sue espressioni >>). Ma realismo impuro: poiché la possibilità di discorrere dell¶essere è fondata sullo scarto - esoggettivamente sullo scontro - fra ciò che logicamente comprendiamo e ciò che la logica mostra. Il pensiero

dell¶essere, il realismo diventano misura dell¶imperfezione logica - ed i filosofi, nel momento stesso nel quale si

riconoscono nell¶universo linguistico, debbono provarsi nella trasformazione del << rumore >> in significato e

nell¶adeguare le forme linguistiche alle funzioni. Qui, su questo passaggio, la questione del linguaggio non verbale

diviene centrale. L¶impurita del realismo logico non è solo un limite - è anche una produzione di sensi diversi. La Krisis

del Logos è la possibilità di nuovi significati reali e di nuovi sensi linguistici. Il realismo impuro è realismo poetico.

Ma ricostruire un orizzonte articolato e realistico, nella crisi del logos, dentro la svolta linguistica, è forse compito che

 possa essere affidato alla poetica? E¶ con estremo disagio che mi propongo questo interrogativo perché, se da un latosento la suggestione della proposta e la forza e il colore e la costruttività del progetto (non nuovo tuttavia, è già nello

Steinhof, attorno ai medesimi problemi, prospettato), pure non riesco a considerare la poesia come altern ativa alla crisi

del logos. Certo, è il pregiudizio di una millenaria cultura che in ciò mi blocca: ma, en philosophie, è anche la

convinzione che la conoscenza estetica non innovi rispetto alla logica, che sia rinchiusa nello stesso orizzonte.

Che, confusamente, essa aspiri alla potenza della tautologia. Per la filosofia del linguaggio come per l¶estetica,

all¶interno della sovradeterminazione linguistica, la verificabilità è tolta. La crisi del Logos consiste nel suo deficit

realistico. L¶ontologia dell¶universo linguistico è raggomitolata nella formalità. L¶intrascendibilità è mistica. Il

 problema è dunque quello di ridare spessore realistico a questo mondo del linguaggio e della comunicazione. Perché

mai l¶estetica dovrebbe avere la capacità di compensare a crisi del Logos? Non ne è invece la semplice trascrizione? O,

semmai, addirittura lo sviluppo in termini fantastici, idealistici? La funzione dello schematismo trascendentale si

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stempera man mano in funzione riflettente, nel giudizio estetico e l¶lo tr ascendentale, nell¶idealismo classico, stravolge

a questa stregua la stessa confutazione kantiana dell¶idealismo soggettivo. Perché dunque vestire il pensiero nudo, così

faticosamente riconquistato, come rappresentante di una nuda vita - perché fargli indossare le vesti di Arlecchino -

 poetiche ma pagliaccesche?

Se ci fermassimo a questo punto non intenderemmo tuttavia appieno l¶importanza del libro della De Monticelli. Vale

invece ricordare, proprio quando essa arriva a queste conclusioni, che da ben altro si era mossa e ricostringerla a Frege ea Wittgenstein. Chiediamoci dunque di nuovo: perché Frege? Perché Wittgenstein? Perché è tanto importante riprendere

l¶analisi a partire da questi autori?

Ora, il problema è la Krisis del Logos. Crisi esasperata da lla conclusione wittgensteiniana della logica nel Tractatus,

dalla sovradeterminazione mistica che la sussunzione logico-linguistica del mondo riceve. La De Monticelli attacca la

sussunzione ripercorrendone la genesi: Frege. La domanda è quindi: evitando ogni éscamotage kantiano, può Frege

indicarci, assieme alla via verso la sussunzione logica, una chiave di articolazione - che è come dire, di riappropriazione

logica del mondo? Secondo me è possibile rispondere affermativamente alla questione - pur trattenendo il gioco

filosofico fra questi due autori. Purché la potenza del pensiero logico di Frege sia assunta fino in fondo e la dialettica fr a

la genesi fregeana della sussunzione logistica del mondo e la sovradeterminazione mistica che ne fa Wittgenstein si ano

considerate in tutte le loro articolazioni. Ora, Wittgenstein raccoglie e mistifica il procedimento fregeano. Poiché Frege

costruisce un mondo di oggetti in cui la tensione al passaggio, al dislocamento verso l¶orizzonte della generalità non

toglie in nessun caso la referenza ontologica. La generalità astratta è reale Frege scopre lo scheletro del mondo come

comunicazione, come informazione. Se in Kant la contaminazione dell¶orizzonte analitico e di quello empirico spingesu verso l¶io trascendentale e il giudizio sintetico a priori, in Frege e nella logica rivoluzionaria la tensione dell¶analisi è

inversa, rivolta verso la produttività dell¶essere, è costitutiva di oggetti sul terreno delle astrazioni reali che li

compongono. Il giudizio vuole essere analitico a posteriori. In Frege l¶autonomia relativa dell¶orizzonte del Sinn è

sempre piegato alla referenza ontologica della Bedeutung. Di contro, Wittgenstein, assumendo la tensione fregeana alla

sussunzione logistica del mondo, la fonda come logicismo, come regno della tautologia. La tensione ontologica della

logica cade - il reale è sospeso. Di conseguenza interviene il misticismo come conclusione adeguata all¶impossibilità di

risolvere la differenza del Sinn e della Bedeutung - il sentimento dei limiti del dicibile e del pensabile prende il luogo

del processo di produzione della logica del mondo. In Wittgenstein la composizione conclusiva del Logos è perciò lasua crisi. Ma non è possibile riproporre la produttività della logica a livello di dislocamento ? Leggere Wittgestein [sic]

attraverso la genesi del logicismo, piegandone le conclusioni alla dinamica materiale attraverso la quale si produce

questo stesso suo mondo? Se il problema della De Monticelli è questo, come crediamo, è altresì vero che nella s ua

soluzione essa non ne ha rispettato le condizioni. Che sono invece ciò che a noi più interessa. Le condizioni fregeane

del dislocamento verso la sussunzione logica sono infatti tali da introdurre - contemporaneamente - l¶unità e la

molteplicità, l¶intensità e l¶estensione, e soprattutto da porre le regole del dinamismo di questo mondo astratto - dellesue relazioni e della sua dualistica asimmetricità. L¶istituzione dello spazio logico in Frege è la definizione della

 possibilità del suo movimento. Wittgenstein è invero il Berkeley, il mistico vescovo dello sviluppo del realismo logico

contemporaneo lo scopritore di una paradossale e paralizzante riduzione del mondo reale nell¶identità tautologica. Frege

è lo Hume del realismo logico, colui che ci dà le ch iavi attraverso cui entriamo in quel mondo dell¶astrazione reale che

è nostro, ed ivi identifichiamo gli oggetti nuovi e propri, classi ed insiemi, individui di nuova specie. Dualismi,equinumericità, asimmetrie. Certo, stando a Frege, lo scontro fra logica ed ontologia non si chiude mai: ma a che

formidabile livello è stata traslocata la figura di questo scontro! L¶astrazione del mondo, l¶intelletto generale è l¶ambito

dello scontro - la comunicazione non assume ipotetici fondamenti alla sua origine, svolge piuttosto insieme

identificazione e scontro dei soggetti come vicenda di elementi continuamente emergenti sull¶orizzonte

dell¶informazione. Frege non raggiunge l¶astrazione reale, l¶assoluta intrascendibilità del mondo di Wittgenstein - ma

quest¶ultima è un immobile paradosso. Frege pone il problema di rompere il paradosso produttivamente, definendo il

nuovo quadro di articolazioni nel mentre cerca di mostrarne la tendenza di sviluppo. Tendenza che non si concluderà

mai perché lo scontro è la sua chiave dinamica. In Wittgenstein la logica intensionale del Sinn conduce ad un¶ontologia

a valore zero e, conseguentemente, la logica estensionale della Bedeutung riconosce l¶annullamento della sua stessa possibilità. In Frege la logica intensionale ha un contenuto relazionale e quindi esalta la logica estensionale in un

orizzonte plurimo, in un¶ontologia aperta.

A me non importa molto che la De Monticelli non abbia sviluppato il suo discorso in questo senso. Ritengo

 particolarmente infelice il tentato éscamotage kantiano (che, oltre tutto, come riconosce lo stesso Dummett ha ben

 poche ragioni sul piano filologico). Ma ritengo che i problemi posti dalla De Monticelli siano fondamentali. Andiamo

oltre la Krisis del Logos cercando di attraversarne l¶intera intensità: questo ci sembra dire, in maniera irrefutabile, la DeMonticelli. Ed è questo orizzonte della sussunzione, dell¶astratto generale, questa Krisis che riformulano gli oggetti e

riqualificano le dinamiche e gli ambiti. E¶ qui dentro che il mondo - questo incredibile ma vero astratto mondo - si fa

ora vita e produzione.

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Di qui in avanti la De Monticelli non ci aiuta più. Crede infatti di poter scegliere una via estetica per la soluzione di

quello che chiamiamo il << problema Frege (Hume) >>. Già Hamann e i primiromantici lo pensarono: il Belief 

diveniva alternativamente Gnade oppure costruzione estetica. Ma l¶estetico non è che la proiezione depotenziata del

logico mondo dell¶individualismo. Né Kant può aiutarci ad uscire da queste nebbie. Mentre l¶altro presupposto

fregeano, che è in questo caso completamente dimenticato, deve essere soprattutto ripreso: ed è il postulato (adeguato

alla sussunzione logica del mondo) dell¶annullamento dell¶individuo. L¶istituzione dello spazio logico è istituzione del

collettivo. Nella logica contemporanea il problema humeano del Belief si presenta come problema degli aggregati diclasse: da Russell a Moore fino alla logica rabbinica di Kripke, tutti debbono ripetere l¶adagio fregeano: la classe è prima degli individui. Si potrebbe definire la stessa Krisis nel Tractatus come paralisi indotta dalla meraviglia di questa

scoperta. Ed è questa la vera svolta impressa dalla filosofia linguistica: la definizione dell¶orizzonte mondano come

comunicazione collettiva. Questa scoperta non è poi così strana se si pensa che essa avviene all¶interno dello sviluppo

capitalistico, e nella maturità di questo. Se il Belief humeano gioca un ruolo fondamentale nella fondazione della

market-society dell¶individualismo, nella smithiana paternità del capitalismo - come agisce il Belief della

comunicazione collettiva? Nell¶ulteriore vicenda della logica contemporanea, dopo Wittgenstein, il problema della

comunicazione diviene fondamentale. Il realismo ritorna ad opporsi con forza a quell¶empirismo mistico che il

Tractatus aveva generato, a quell¶empirismo alla Carnap di cui sono state giustamente criticate la prodigalità nel

dispendio del patrimonio logico e l¶estrema avarizia nella produzione di espressioni descrittive. Scetticismo nei

confronti delle tautologie, giusta impazienza dinnanzi all¶incontinenza logicista, si riaprono così ai problemi del

rapporto fra senso e significato, alle ricerche strutturali sulla forma (comunità e/o discontinuità, varianza e/o invarianza)del rapporto fra logica ed ontologia. Quali siano le molte figure di queste problematiche, fra Quine e Kuhn, fra Putnam

e Kripke, quel che è certo è che la tensione realistica di Frege ha trionfato contro la rigidità cadaverica cui conclude lawittgenstiana descrizione del mondo. La nuova logica è oggi problema della comunicazione. Come dunque agisce il

Belief della comunicazione collettiva? Sono personalmente convinto che su questo snodo i giochi siano tutti da farsi.

Ma contemporaneamente sono certo che la filosofia del Logos, in quanto filosofia profondamente determinata da una

concezione della razionalità individuale, non ha su questo terreno la minima possibilità di sviluppo, neppure nella sua

estrema sofisticazione estetica - Andy Warhol come interprete di Wittgenstein - e che conseguentemente la teoria logica

va riproposta sulla base dell¶ermeneutica della comunicazione collettiva.

E¶ interessante notare, a questo punto, come i concetti base di certa tradizione della logica, di cui sembra non si riesca a

liberarsi, siano invece non solo in crisi ma, per così dire, cancellati dalle acquisizioni rivoluzionarie della logica

 postfregeana - ed in particolare dinanzi alle determinazioni produttive del giudizio analitico a posteriori (dove la

 presupposizione della classe dell¶individuo non è semplicemente descrittiva) ed alla conseguente dissoluzione della

tradizionale divisione fra enunciati descrittivi ed enunciati valutativi. Qui la logica postfregeana si coniuga con

l¶epistemologia postbachelardiana.

Poiché la comunicazione è un fenomeno etico-politico e presenta l¶essere come un orizzonte di praticabilità, come un

cantiere di formazioni linguistiche, solo un¶antropologia del movimento collettivo può allora chiarirla. La scienza della

 produzione - o della distruzione - la potenza ed il potere si presentano su quest¶orlo dell¶essere, dentro la totalità

dell¶intelletto generale e le dimensioni della sussunzione, come esclusivi elementi critici. E¶ ben vero che l¶immagine -

come vuole la De Monticelli - veste ora il cosiddetto pensiero nudo, ma lo riveste dentro quelle dimensioni pubbliche,collettive, produttive che il pensiero, fuori da qualsiasi robinsoniana nudità, ha assunto. E noi abbiamo bisogno di una

logica a questo livello, che abbandoni ogni nostalgia del fondamento, che assuma interamente il commercio umano e la

multitudo come dimensione propria. Probabilmente la determinazione etica del mondo è il solo orizzonte che la

rivoluzione logica ci consegna come possibilità di scienza. Il problema del mondo e quello della vita ritornano ad essere

uno solo.

6. A proposito dell¶aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >> e della ragionevoleopportunità di rovesciarlo. Note di lettura su testi di Luhmann, Baudrillard, Lyotard, Habermas ecc.

1. Aforisma e cinismo.

L¶aforisma rappresenta una delle forme nelle quali la << ragion cinica >> si organizza nella società nella quale viviamo.

Sorge il problema di comprendere se quest¶antinomia, in questa formulazione, non sia apparente e nasconda invece una

 più profonda scissione: fra soggettività etiche diversamente orientate.

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Sono sempre stato stupito dalla frequenza con la quale negli ambienti politici ho sentito e sento ripetere l¶aforisma <<

 pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>. Dopo Gramsci (1). La ripetizione è di gramsciani e non, di

 progressisti e reazionari, di carcerati e carcerieri, di amici e nemici, di comunisti e liberali, di giovani e vecchi. Il ton o

argomentativo che accompagna l¶esclamazione è più o meno questo: razionalmente non c¶è nulla, o c¶è poco, da fare -

 proviamo comunque. Se la ragione attesta un blocco, un limite - solo una sobria resistenza, una convinta insistenza

 potranno permetterci un orientamento positivo. Poco m¶interessa l¶ipocrisia spesso celata dall¶aforisma: qui non

dobbiamo fare né satira né moralismo. Assumo piuttosto l¶aforisma come segno di una contraddizione, immediatamente

rivelata, nell¶etico e nel politico. E poiché il politico è, o dovrebbe essere, la scienza del possibile e quindi della volon tà(ed è comunque interpretato in questo senso dai ripetitori dell¶aforisma) - mentre l¶etica è scienza del desiderabile equindi della ragione, assumo l¶aforisma come indicazione di un¶eventuale contraddizione fra l¶etico e il politico, fra la

ragione e la volontà. Per cominciare.

Sembra accertato che, all¶inizio dell¶età moderna, nella rinascenza, la contraddizione fra l¶etico e il politico sia

storicamente generata dalla necessità di rendere autonomo il politico dalla morale. In effetti, l¶assorbimento della

morale nella teologia non lasciava altra via d¶uscita a chi volesse emanciparsi [emanciparci?] da forme tradizionali di

dominio. Il cosiddetto conflitto di morale e di politica è quindi, originariamente, rappresentazione di un atto di libertà.

Esso perciò non riproduce un << eterno >> conflitto fra diverse categorie metafisiche (come il pensiero reazionario ha

sempre ripetuto) quanto invece propone la fondazione di un nuovo orizzonte etico, meglio, di un nuovo orizzonte

metafisico, - nel quale morale e politica potessero collocarsi in una diversa figura e la politica conquistare l¶egemonia

del rapporto. Su questo snodo la politica borghese, il << buon governo >>, l¶amministrazione legittima, sembrano a

lungo impersonare anche l¶istanza morale. La scienza della politica, si presenti essa come esecuzione del governo

giuridico o come pratica del governo economico, tende - in questa prospettiva - ad elidere ogni conflitto. Nel diritto, esoprattutto nel formalismo giuridico, sostanzializzato dalla gestione inflessibile dello Stato di dir itto, si ricostruiva così

un ambito unificato di morale e di politica, sulla base di nuovi valori (2).

Senonché un ostacolo, per così dire, ontologico presto si rivela. Ed è che, comunque motivata, la politica come scienza

del possibile, rivela l¶impossibile e la pratica del governo scontra nuovi limiti strutturali. E¶ attorno alla consapevolezza

del limite che l¶ipotesi del conflitto fra morale e politica si ripropone. Nella vicenda dello Stato moderno, la concezione

gerarchica del rapporto di morale e politica (o di politica e di morale) fa così luogo ad una concezione orizzontale, di

reciproca autonomia ed esclusione, fra morale e politica. L¶autonomia del politico, come pratica e come scienza, sidistingue dall¶autonomia della morale. Morale e politica istituiscono spazi separati. Il volto demoniaco del potere

diviene consueto, quanto quello angelico della morale. Se la prima separazione (umanistica) del politico dalla morale è

un atto di libertà e un momento di costituzione egemonica del politico (soprat tutto nella sofisticata immagine dello Stato

di diritto), - la seconda separazione, tipica della nostra epoca, è un atto di riflessione critica, di limitazione dell¶energia

costitutiva. Ed è qui che si riafferma l¶aforisma << pessimismo della ragione, otti mismo della volontà >>: come

registrazione dell¶impossibilità di costruire la totalità e come esplicazione dell¶urgenza di afferrarla comunque (3).

Su questa congiuntura precipitano motivazioni quanto mai diverse. Così, in primo luogo, qui convergono le concezioni

del << determinismo scientifico >>. Quando la saldezza dell¶orizzonte scientifico non riesce ad adeguarsi alla

temporalità determinata dell¶agire, allora lo jato che si apre è solo controllabile attraverso l¶appello alla più alla

moralità. << Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me >>. Il determinismo si accompagna al

volontarismo etico, la certezza conoscitiva è (per contrasto) santificata dal libero << Sollen >> della volontà. La storia

del dualismo kantiano, ma soprattutto quella del neokantismo ottocentesco, in tutte le sue versioni, è dimostrazione di

questo sviluppo (4).

In secondo luogo, e rafforzandola, la concezione del limite razionale della politica è affermata da quel corpo di dottrine

che chiamiamo del << relativismo etico >>. Avalutatività (razionale) e decisionismo (pratico) sono le forme nelle quali

si presentano qui i concetti di validità e di valore, le figure centrali di scienza politica e di etica - e quindi di una

dialettica di autolimitazione che, riconoscendosi come tale, esige comunque di essere efficace, di fondarsi quindi sulla

necessità razionale di un << salto mortale >>. Tanto più avalutativo è il giudizio, tanto più decisionistica è la proposta(5).

In terzo luogo conduce ad una similare concezione del limite razionale della politica il << realismo sociologico >> -

quando, agitandosi fra omogenee contingenze, fra equipollenti potenze, è indotto ad una serie di dilemmi che solo un

certo ottimismo della volontà, una certa sovradeterminazione pratica possono risolvere. Il realismo sociologico non sa

distinguere né cogliere le singolarità, - se non attraverso riferimenti esterni, trascendenti il suo orizzonte linguistico. Lasovradeterminazione della volontà a fronte della relativa impotenza della ragione è, in ciascuno di questi casi, l¶unica

soluzione.

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Si potrebbe continuare nella casistica. L¶antinomia fra ragionevole e limitata scienza della politica e decisione etica è

segno caratteristico del nostro tempo. Questa situazione critica si è, per così dir e, normalizzata, fino a manifestarsi

regolarmente nel linguaggio comune - talora in termini caricaturali. Che solo gli enunciati descrittivi creino certezza

mentre gli enunciati valutativi sono fortuiti, che i giudizi etici sono quindi azzardati, ecc. - bene, questi sono ormai

ritornelli di un sapere comune che mostra le difficoltà dell¶agire come momenti antinomici, razionalmente insolubili. Su

questa base, le stesse forme della politica, le più gelosamente custodite quali indici di valore comunque legitti manti (e

nella democrazia questo è necessario), rivelano dimensioni antinomiche e sviluppano matrici non risolubili. si consideri

ad esempio il meccanismo della rappresentanza democratica o gli scenari dell¶amministrazione. Essi dovrebberoconsistere in strutture descrittive, regni della trasparenza, - divengono invece, sulla base dell¶antinomia assunta, matricidi valutazione fortuita, luoghi di mediazione azzardata, semplice decisione. Un elemento di innovazione inserisce alla

struttura del politico - ma è elemento irrazionale (6). Ottimismo della volontà, appunto, sopra il pessimismo della

ragione - di questa ragione che non potrà mai comprendere il reale.

Cinismo, allora? Valutazione solo irrazionale, violenta, immediata della realtà? Com¶è altrimenti po ssibile rispondere

alle esigenze della pratica? Il politico è un mondo limitato, non riesce a comprendere il resto, il differente - ma il resto,

il differente debbono essere condotti al limite, essere compresi nel limite. Cinismo è questa riduzione della t otalità al

limitato, - è la frustrazione dell¶etico assunta a fondamento del politico. Il conflitto fra il politico e l¶etico non è

considerato come un terreno sul quale si svolga una lotta di valori - bensì come scenario di soluzioni obbligate secondo

le norme di un potere che, sentendosi parziale e limitato, pure deve raggiungere un risultato. La razionalità è regola di

emergenza, di eccezionalità. Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà, di una ragione impotente e limitata e di

una volontà potente e cinica (7).

Con ciò la confusione è completa. E¶ indubbio infatti che questa concezione del politico è essa stessa un¶etica,

depotenziata ma non perciò meno efficace. Una sorta di divinità terrestre, rovesciata e maligna. Ma, se è così, il

conflitto cui assistiamo non è fra etica e politica, bensì è antagonismo fra corpi diversi - un corpo etico-politico e, di

contro, un altro corpo etico-politico, e così di seguito. Il conflitto è fra diverse divinità. Chi riordinerà queste potenti

contingenze? Max Weber, uno dei più lucidi studiosi della politica del secolo XX, ha appunto chiarito come dal

monoteismo si dovesse trascorrere al politeismo nella definizione dell¶orizzonte di valore che costituisce la politica.

Egli chiede a ciascuno di prendere posizione, di radicare eticamente la sua << Beruf >> politica, di entrare nella

mischia. Sapere la relatività, egli sostiene, fosse pure l¶unicità del punto di vista, non toglie la radicalità dell¶approccio.Toglie solo la possibilità di un confronto razionalmente irresolubile. L¶aforisma da noi considerato sembra allora ben

registrare questa situazione - e non dunque attenere al generico conflitto fra etica e politica ma piuttosto all¶antagonismo

fra diverse etiche e politiche, fra differenti orizzonti valutativi, fra parti separate e soggetti diversi.

2. La riforma del modello. 

 Nel sistemismo tedesco (Luhmann) lµottimismo della volontà si fa tecnica di riduzione della complessità sociale.

Quest¶operazione consiste nell¶astrarre le antinomie a base ontologica, nel collocarle in un progetto di simulazione,

insomma, nel riqualificarle in uno scenario sostitutivo della realtà. Il processo di simulazione (nel postmoderno) come

 processo di sostituzione del reale.

 Nella crisi del pensiero etico, giuridico e politico del nostro tempo si introduce dunque, in primo luogo e

 prepotentemente, la necessità, se non di risolvere questi problemi, almeno di dar conto di questi fenomeni. E¶ stato

notato che l¶esistenza dell¶ordine sociale è ormai inverosimile, - vale a dire che non è spiegabile la sua normalità. Manmano che la complessità sociale aumenta, la contingenza di tutti gli eventi tende a divenire assoluta. Il pessimismo della

ragione aumenta così a dismisura, fino a produrre risultanze scettiche. Occorre però salvarsi dal l¶invadenza distruttiva

della contingenza, dalla sua onnilaterale possibilità mai riducibile alla necessità razionale. Se, per dirlo nei termini dell a

filosofia classica, l¶essere è equivoco, dentro quest¶equivocità occorre comunque orientarsi [orientarci ?] - tanto più

 poiché l¶essere sociale è condizione di esistenza. Se queste contingenze, ad esempio, fossero armate - ed il raffinamentodegli arsenali è continuo - chi si salverà? Qual¶è il limite nella relazione fra contingenza e ragione di sopravvivenza?

Qui, l¶ottimismo della volontà assume allora una veste finalistica, strumentale e tecnica. Ci si chiede di accettare

soluzioni tecniche che sono anche risposte alle questioni di una sorta di morale provvisoria, - un sistema di convenzioni

atte a ridurre la complessità delle contingenze, a permetterne la selezione, l¶ordinamento, in vista della sopravvivenza.

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Quella cui qui voglio riferirmi con qualche accenno è la costruzione dell¶immagine del mondo sociale propostaci dal

sistemismo tedesco, ed in particolare da Niklas Luhmann. Quest¶autore è probabilmente il miglior riformulatore di

un¶ipotesi di ottimismo della volontà nel nostro mondo (8).

Ora, l¶immagine del mondo sociale qui presentata è, a prima vista, del tutto paradossale. Essa si vuole infatti

completamente oggettiva - ed infatti lo è, in quanto la comprensione dell¶essere sociale è affatto strumentale, tecnica -

ma nel contempo è un immagine pan-etica. Il sistema è infatti autoreferenziale: quindi la sua oggettività implica la

soggettività dell¶autoreferenza. Ogni segno dell¶esistenza viene compreso e ridotto dentro la complessità sociale el¶operazione di riduzione proposta è interna ai segni dell¶esperienza, e della totalità dell¶orizzonte sociale interpretato

dal soggetto. Di conseguenza, la questione che si pone e che va risolta, è la seguente: quali sono i parametri che rendono

verosimile la selezione della complessità? Che cosa può rendere meno equivoco - se non univoco - l¶essere sociale? E

come può la volontà dibattersi nel caos delle contingenze e dare qualche verisimiglianza alla generosità della sua

 pretesa, all¶esigenza di efficacia della ragione strumentale? Il problema è decisivo perché, essendo il referente sociale

considerato in termini omogenei, esclusivi, il fine perseguito non è semplicemente tecnico. Ma che cos¶è una tecnica

della morale, una tecnica costretta ad investire l¶intero mondo etico, - una tecnica quindi, non solo del comando bensì

del consenso, una morale, dunque, si provvisoria, ma coestensiva all¶intera politicità?

L¶ottimismo della volontà dà a questa serie di problemi una risposta quanto mai ingegnosa - l¶operazione di riduzione

della complessità sociale è tradotta in operazione di sostituzione della realtà. Ma, oltre ad essere ingegnosa, questa

risposta è coerente - non potrebbe essere diversa. La morale provvisoria si presenta infatti nella forma del sistema. Il

sistema viene costituendosi attraverso un processo di riduzione della complessità. Questo processo di riduzione e

 produzione di un¶immagine oggettiva, dotata di sistematicità interna, autoreferenziale, che seleziona continuamente glielementi che sono coerenti ± l¶ambiente e la storia possono solo essere recuperati dentro un meccanismo di riduzione-

selezione che l¶ottimismo della volontà guida a sostituire la realtà.

L¶inversione del rapporto fra ontologia e logica, e la primalità di quest¶ultima - sicché è il senso degli enunciati e delle

funzioni a produrre il significato - è cosa consueta nella filosofia contemporanea, a partire da quella che è stata chiamata

la svolta linguistica (9). Ma non è pacifica - tanto più quando quest¶inversione avviene nel campo dell¶etica e investe le

 burrascose condizioni di esistenza del sociale. Ma di ciò più avanti. Qui interessa ancora scrivere come l¶ottimismo

della volontà possa presumere di organizzarsi in logica costitutiva del sociale. Questo può avvenire ad alcune

condizioni, tutte proposte da un processo teorico di depotenziamento del reale, di svuotamento ontologico del mondo.

Mentre nelle forme più ingenue dell¶ottimismo della volontà il mondo non è negato ma semplicemente assunto come

condizione tragica ed irresolubile, in queste più sofisticate versioni la volontà si fa rappresentazione. Il mondo è

orizzonte di comunicazione, come tale si organizza in sistema autoreferenziale - ma questa produzione di significati èinevitabilmente tautologica - e solo la creatio continua, la continua parousia della volontà permette la determinazione di

elementi selettivi, la riduzione della sfera del caso, la posizione di proposte in novative. Datosi come sostituzione delreale, il sistema del mondo trova solo l¶ottimismo della volontà come attività che ne allarga la presa nell¶orizzonte della

vita. E quest¶ottimismo della volontà è, per così dire, reso metafisico - perché è metafisica la progressione del reale

come autoastrazione, come dinamica di strutture e di sistemi dentro i quali ogni attività soggettiva si oggettivizza e

appunto con ciò definisce nuove possibilità di riduzione-produzione (10).

Che Schopenhauer sia fra le letture di Wittgenstein, è noto -che ne sia anche il prodotto, quando la filosofia ritorna sul

sociale, è interessante. Se in Wittgenstein il rapporto verisimiglianza -normalità, per quanto pittoricamente depotenziato,

è comunque dato, - nello schopenhauerismo degli epigoni tale rapporto è radicalizzato: la normalità è e resta

inverosimile. La volontà interviene a far si che il contenuto della comunicazione intersistemica sia eguale a zero. Ché

infatti solo in tal modo le condizioni di tenuta del sistema - è del suo equilibrio - sono soddisfatte. Non quelle della

verisimiglianza ma la riproduzione della normalità inverosimile. A tal fine e in tale quadro, la dinamica del sistema non

 può essere letta che come creazione continua di emergenze determinate, compensative degli squilibri, - atto di volontà.

L¶ottimismo della volontà è eroicamente irrazionale. Il sociale è astratto sul ritmo creazionistico della volontà: produce

sostituzione astratta di/per una realtà ridotta. Un romanticismo forte costituisce pallide formazi oni logistiche. Ilmisticismo è totale. Mentre il pessimistico realismo dei primi ripetitori dell¶aforisma considerato poteva dirsi cinico - edil cinismo può anche essere forte nel comportamento beffardo e sprezzante della realtà che talora mostra - qui il sistema

è illusionistico, eine Schwärmerei.

(E se invece, di contro, il processo di astrazione della realtà fosse un processo reale e razionale? Ma di questo più tardi).

Qui affermare è togliere. L¶ottimismo della volontà diviene qui una formalistica aut oproduzione, un¶equivoca hegeliana

Aufhebung - esasperazione irrazionalistica e volgare del salto in avanti come salto mortale. La diafana figura del

sistemismo non ha più neppure la curiosa concretezza del gioco e del divertimento, dell¶astuzia e del compiacimento

estetico. L¶astrazione è simulazione, è sostituzione della realtà. L¶autoastrazione è autocostituzione, ma illogica, vuota.

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Asylum ignorantiae. Mai la volontà ha tanto disperatamente opposto la propria pretesa di rappresentazione, il proprio

frenetico bisogno di spostamento, di annullamento e/o di sostituzione del reale - alla prassi concreta, collettiva e

costitutiva, razionale. In questa riforma del modello aforistico del pessimismo della ragione e dell¶ottimismo della

volontà precipitano tutti i motivi irrazionalistici della crisi contemporanea. La linea Schopenhauer -Wittgenstein si

conclude nel sistemismo. E questo precipitato raccoglie tutte le espressioni teoriche dell¶ottimismo della volontà cieca

(11). Come un impluvio dai mille canali. Si sa tuttavia quanto gli equilibri ecologici siano corrotti. Vuol forse dire

questo che nell¶impluvio sistemico, talora divenuto latrina di periferia, specchi il suo faccione anche la continua

tentazione fascista e autoritaria? E¶ comunque certo che nell¶attuale crisi della democrazia l¶ottimismo della volontànutre un¶autonomia del politico che è tensione di progetto totalitario. Il

Politico ha come obiettivo la riproduzione di se stesso in fondo completamente indipendente - esso assorbe tutta la

realtà, per sostituirla a sua immagine e somiglianza. Per tenerla nell¶inverosimiglianza e nell¶assurdità della sua

normalità.

3. Astrazione, tautologia, costituzione. 

La realtà esiste. E¶ anzi possibile considerare il processo di astrazione del reale come un pro cesso (reale) di nuova

costituzione del mondo. Contro le teorie sistemiche, le teorie linguistiche rappresentano un tramite per afferrare la

sostanza ontologica del mondo astratto nel quale siamo costituiti.

L¶autoastrazione del reale è un processo reale. Proprio perché esso è reale non conclude alla tautologia - in nessun caso.

 Noi possiamo trasformare in tensione reale la tensione teorica propria dell¶analisi sistemica a confronto con l¶ambiente

e con la storia. Quella tensione che nel sistemismo è contin uamente frustrata nel fittizio dualismo di teoria e realtà, di

sistema autoreferenziale e pratica di sostituzione - noi possiamo coglierla in termini reali. Di qui l¶effettivo progresso

conoscitivo che una mistificazione epistemologica (quale la sistemica) può comportare. Ora, possiamo dunque

registrare alcune novità conoscitive che non l¶ottimismo della volontà ma la forza della ragione dovranno verificare.

Il primo punto consiste nella definizione dello stesso processo di autoastrazione del reale, e cioè della realtà sociale.

Poco ci interessa qui strappare la maschera idealistica imposta al processo: è utile e sufficiente sottolineare alcuni

caratteri formali del processo stesso (per intenderci che ritroviamo fondati nell¶analisi del processo di sussunzio necapitalistica della società produttiva e nella trasformazione della qualità del lavoro produttivo) (12). Ora, nel processo di

autoastrazione del reale la distinzione fra soggetto ed oggetto viene meno. Conseguentemente, il rapporto fra logica edontologia si appiattisce, si ristruttura su un orizzonte di reciproche funzioni. L¶articolazione interna della realtà astratta è

 posta nella circolazione di ipotesi logiche e di costituzioni ontologiche - formalmente funzionali. In secondo luogo, date

queste fondamentali qualificazioni dell¶astrazione sociale, ne viene che ogni problema epistemologico riguardante lo

statuto di corrispondenza fra il pensiero ed il reale, fra il dover essere e l¶essere, è tolto. La distinzione fra giudizi

descrittivi e giudizi valutativi, capo delle tempeste di ogni epistemologia etica e di ogni deontologia politica, è

anch¶essa tolta. Il problema epistemologico è sostituito dall¶analisi formale della circolazione sistemica. I soggetti si

 presentano fuori da ogni possibilità di collocazione sistemica che non sia puramente connotativa - onde, per 

esemplificare, l¶approccio sistemico non si ritiene contraddittorio con quello dialogico-mutualistico. In terzo luogo,

quindi, le esigenze delle teorie della comunicazione e delle teorie dell¶ interazione comunicativa sono accolte e rese

rigorose dall¶appiattimento ontologico di ogni pretesa trascendentale sul terreno logico e funzionale (13).

Ora, se nel paragrafo precedente ho sottolineato come l¶orizzontalità e l¶equipollenza di ogni dimensione del quadrosistematico non possano essere vivificate se non da un rozzo procedimento volontaristico, da un decisionismo solo

sofisticato da una lettura creazionista, continuata, - e quindi come la mistificazione consista nella volontà di nascondere

le contraddizioni reali, gli antagonismi della prassi, addirittura nella volontà di distruggere la prassi per esaltare la pura

determinazione irrazionale del dominio - qui va detta la ragione per la quale questa sortita reazionaria nella teoria

 politica è comunque interessante e portatrice di novità conoscitive. Va detto perché essa ponga un problema del tutto

reale.

Il fatto innovativo, e problematico, consiste in ciò che l¶autoastrazione della realtà sociale non è una tendenza ideale ma

un processo reale - un atto costitutivo dell¶ontologia sociale. Da questo punto di vista è forse interessante notare che

alcune conquiste fatte, in forma estremamente più matura, estremamente più forte, dalla logica contemporanea nel suosviluppo, possono valere come referente analogico nel chiarimento del problema registrato dal sistemismo. Alludo al

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fatto che, nella vicenda della logica contemporanea ed all¶interno della sua svolta linguistica, abbiamo sia l¶integrale

riduzione del mondo ad un orizzonte comunicativo, sia la perfetta identificazione dell¶ordine delle relazioni semantiche

(indicatrici di realtà) e dell¶ordine delle relazioni costitutive (costruttive di senso). Questa è una trascrizione ottimale del

 processo di autoastrazione della realtà sociale - nella misura stessa in cui questo processo si offre all¶intera estensività e

all¶interna elasticità del rapporto fra senso e significato, trasferendolo sull¶orizzonte della comunicazione collettiva, di

soggetti collettivi, di classi d¶individui. E quella linguistica è an che un¶ottimale definizione dei nuovi orizzonti della

 pratica, dove non gerarchie ma solo antagonismi lineari possono presentarsi. Sicché l¶autoastrazione del reale non

eguaglia il mondo se non come orizzonte, nel mentre, su questo stesso orizzonte, apre la possibilità della paritariaespressione delle potenze reali. Gli universali si presentano fra 1 mondo e la vita a dimostrare la possibilità di una loro

realizzazione.

Ma perché questo avvenga è necessario che il rapporto fra astrazione e tautologia sia sciolto. E lo è soltanto nella misura

nella quale l¶astrazione della realtà sociale non subisce la violenza di una formalizzazione depotenziata e depotenziante,

del misticismo della forma - prodromo del volontarismo, dell¶ottimismo della volontà, della stoltezza del decisionismo.

La logica linguistica prefigura le avventure del formalismo e del funzionalismo sistemici - mostrando essa stessa, come

quest¶ultimo fa, la potenza dell¶astrazione sociale - ma nello stesso tempo indica la diversione pratico-ideologica e la

distorsione dell¶astrazione quand¶essa acceda alla prospettiva formalistica. La logica linguistica riesce a dimostrare

queste distorsioni non certo perché sia immune alle urgenze della pratica, quanto perché essa, nella sua storia, ha subito

le tentazioni del misticismo della forma, e se ne è liberata, sentendone l¶intera impotenza - ed avvertendo che

l¶ottimismo della volontà sta alla radice di quest¶impotenza ed è estraneo e nemico al pensiero. Negli sviluppi

 postwittgensteiani della filosofia linguistica non assistiamo dunque ad una rifondazione del Logos, sulla cui crisi si

instaurano egualmente il misticismo teoretico (pessimismo della ragione) e il volontarismo ascetico (ottimismo dellavolontà) - assistiamo bensì ad una dislocazione universale del pensiero e del sapere, del soggetto e della comunicazione,

della ragione e della volontà. Nell¶intrecciarsi con il significato il senso si fa potenza - e il mondo si avvia a

riconquistare la vita (14).

 Nella sistemica etico-politica l¶astrazione del mondo si fa invece tautologia della vita - scienza del potere e negazione

 pratica della vita. Che, astraendosi, la vita divenga più potente del mondo, l¶ottimismo della volontà non lo vuole. Che il

sapere sia costitutivo, che la sua potenza sia autodeterminazione esclusiva del potere, l¶ottimismo della volontà non può

accettare - sarebbe una contradictio in adjecto poiché l¶ottimismo della volontà è in sé sovradeterminazione. Che ilconcetto di volontà debba essere inteso come variante della ragione collettiva, produttiva, costitutiva - l¶ottimismo della

volontà non può soffrirne perché le dimensioni scettiche della sua fondazione si son fatte pratica di cinismo, lotta contro

la vita, condizione di separazione.

 Nel processo di autoastrazione della società il mondo si è fatto invece mondo etico, l¶essere si è rivelato come essere

etico - e comunicazione ed antagonismo si rivelano a loro volta come potenze orientate al fine di identificare,qualificare, svolgere le dimensioni collettive della riproduzione dell¶essere. La logica contemporanea ci ha condotto su

quello stesso bordo della determinazione etica che l¶autoastrazione del sociale ha costituito. L¶ottimismo della volontà

tenta di combattere questo salto dell¶essere, di negarlo non nella sua effettualità ma nel suo significato - di imbalsamarlo

come tautologia, astrazione vuota, impotenza (15).

4. Sul bordo trascendentale delle strategie etiche. 

La teoria critica, che rinasce a fronte della crisi delle teorie sistemiche, cerca di costituirsi in orizzonte trascendentale.

Ma l¶orizzonte trascendentale, così come ogni altro orizzonte di mediazione, rivela un deficit critico: esso non riesce acogliere quel reale che si è costituito in potenza etica, poiché alla potenza oppone la mediazione e all¶etica il

formalismo. Il criticismo non va al di là del postmoderno.

Tutte le condizioni a che l¶orizzonte << avalutatività-decisionismo >>, << pessimismo della ragione-ottimismo della

volontà >> sia distrutto e rovesciato, sembrano a questo punto date.

Ma distruzione e rovesciamento non si danno. La filosofia contemporanea è come ipnotizzata dal vuoto della <<

sussunzione reale >>. Sia sufficiente, in proposito, guardare ad uno dei tentativi più interessanti che - presupponendo

l¶eclissi della ragione su questo livello di astrazione del reale - è stato proposto: il tentativo neocritico di Habermas (16).Ora, la ricostruzione di un orizzonte unitario, qualificato in termini linguistici e comunicativi, non va oltre (nella

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maggioranza dei casi) la proposta di una dinamica trascendentale che si ponga fra referenza, universale ma vuota, del

quadro globale ed iniziativa, razionale ed etica, dei soggetti. Questa dinamica è centrale nelle configurazioni teoriche à

la Habermas (17): è un intreccio di strategie soggettive che, ne lla loro complessità intercomunicativa ed istituzionale,

insieme alludono e formano un quadro trascendentale. Il trascendentalismo è qui connotazione delle condizioni

attraverso le quali le strategie comunicano, formano cioè quel tessuto di consenso, di un iversalità che è - appunto - lo

sfondo necessario della comprensione interumana ed intrasistematica. V¶è di più: il trascendentalismo cerca fondamento

ontologico, o almeno uno spessore ontologico. E¶ dentro questa tensione verso i livelli ontologici, verso i soggetti

agenti, che le condizioni trascendentali del sapere e della volontà si attualizzano e che i valori si pongono - come sintesidi comunicazione e come prammatica funzionale. Al funzionalismo obiettivo delle teorie sistemiche viene così oppostala forzatura critica di un funzionalismo soggettivo che intende dare all¶orizzonte sistemico consistenza trascendentale e

ricondurre la validità al valore. Il bordo trascendentale del sistemismo è portato su un limite cui tende la molteplicità

delle azioni individuali, su un centro cui si imputa il significato delle azioni dei soggetti. L¶ottimismo della volontà

sembra quindi voler uscire dalla frustrazione di una mancanza di referente trascendentale e liberarsi dal cinismo cui tale

mancanza lo condanna.

Ma questo volere è ontologicamente debole e in definitiva impotente. Può il criticismo rappresentare i processi di

autoastrazione della realtà sociale? Se la variante sistemica del formalismo si chiude in una dichiarazione di impotenza

e nell¶incapacità di produrre innovazione, la variante criticistica è non meno bloccata: il limite fra prammatica

soggettiva e orizzonte trascendentale ha le stimmate di tutti i cattivi infiniti del pensiero filosofico. Sicché il criticismo

del nostro tempo vaga continuamente fra la presupposizione fenomenologica e preriflessiva della legittimazione del

valore (e solo in tal modo la comunicazione diviene possibile) e la determinazione quasi dialettica dell¶implicazione

istituzionale di evidenza e di validità, di coscienza e di int ersoggettività (e solo in tal modo senso e consenso si presentano come verità). Ma queste relazioni non sono mai chiuse. La << cosa in sé >>, oggi presentata come << altro

>> mondo << in sé >>, resta irraggiungibile. Ogni tensione verso il livello ontologico resta << tensione >>, <<

intenzione >>, << tendenza >>. Il criticismo non può cogliere il reale - dal reale astratto che è venuto costituendosi

davanti a noi esso resta solo confuso.

Quando si trascorre dal terreno della riflessione epistemologica a quello della riflessione etico-politica, il dilemma è

altrettanto insolubile, ed il pensiero risulta inabile a districarsi dal cattivo infinito, e lo spazio fra potere e comunità, fra

legittimità e legittimazione è tanto confuso quanto indistinto. Il deficit del criticismo consiste nella fatica di fissare unrapporto sempre aperto alla ridefinizione dei referenti, delle polarità: un orizzonte trascendentale che tuttavia, quando

assume consistenza, riduce i soggetti a pure utenze, - un orizzonte dei soggetti che quando si sostanzia in strategie

adeguate, perde ogni punto di orientamento. Qui, allora, l¶ottimismo della volontà (che non è voluto) è subito, è una

costrizione cui il fallimento della mediazione induce.

Ma non è questo il destino di ogni filosofia del la mediazione? E che senso ha più porre il problema della mediazione afronte dei dislocamenti che la realtà sociale ha determinato nel suo processo di autoastrazione? L¶autoastrazione sociale

comprende la mediazione, la subordina, la sostanzializza come caratteristica della crisi del valore umano di ogni sintesi

sociale, come risultato dello sviluppo della ragione strumentale (18). A che pro reintrodurre la mediazione quando è

dalla conclusione tragica dei suoi processi che l¶ottimismo della volontà è stat o costretto a dare irragionevole prova di

sé? A che scopo accedere a questo depotenziamento ontologico, che il criticismo e il trascendentalismo dimostrano,

quando la mediazione (nella finezza kantiana, nella forzatura hegeliana) ha mostrato l¶incapacità di afferrare l¶essere - e

con ciò ha indotto irrazionalismo e crisi? (19).

Il criticismo contemporaneo, ridotto sul limite del significato umano dell¶agire, sul fronte del quale la legittimazione

non può più essere data attraverso la tecnica, tenta di riconquistare un orizzonte di mediazione trascendentale attraverso

la comunicazione. Ma la comunicazione non può essere metacritica, non può essere fondativa. Essa è il terreno su cui

esercitare la critica. E¶ il risultato dell¶autoastrazione del reale, è tessu to ontologico. Le parole sono enti. Il mondo è

l¶essere parlato e riprodotto nella comunicazione. La vita è la lotta che si sviluppa in questo ambito, ed è crisi e

trasformazione. Sul terreno della comunicazione si mostrano le potenze dell¶essere, in tutta la freschezza e la violenzache le caratterizza - strategie, traiettorie, direzioni. Il rapporto critico << avalutatività-decisionismo >> non può perciòessere aggredito sul piano di una nuova teoria della mediazione, che inevitabilmente introduce una metacritica. Una

teoria del fondamento - sotto il profilo della volontà e del suo ottimismo, della sostituzione della ragione con qualche

depotenziato simulacro. Simulazione di fondamento. Ma a che scopo cercare fondamento? Fondamento di che cosa? Il

<< trilemma di Münchausen >> è effettivamente insoubile: ogni filosofia della fondazione ultima cade o nella

regressione infinita o nel circolo logico o nell¶arresto del processo di fondazione (20). Ma se il dilemma altro non fosse

che la descrizione della nostra realtà? Perché è scetticismo accettare che questa realtà linguistica e comunicativa fissi la

sua verità non nel fondamento ma nella sua mancanza? Sulla apertura delle infinite strategie che sul bordo dell¶essere

s¶affacciano nel tentativo di costruire la vita? Lo scetticismo è un dato certo - è l¶universo mondano che viviamo. Di qui

comincia la filosofia - il pensiero comprende le proprie condizioni come struttura dalle infinite aperture e queste

condizioni sono ontologicamente varie ed instabili - descrivibili in termini tradizionali riferibili allo scetticismo. Ma

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 perché mai questa condizione dovrebbe fissare il pensiero dell¶impotenza? Perché mai contingenza dovrebbe essere

negazione della ragione? (21) Di contro, sul suo bordo trascendentale, la strategia etica, come interazione comunicativa,

trova ed accetta e lavora sulla crisi di ogni orizzonte trascendentale. La trascendentalità, l¶universalità è compresa in una

istituzionalità che è precostituita - condizione pregressa di costituzione. In un¶istituzionalità che non è altro che

immersione nel mondo della vita da parte dei soggetti, corrispondenza del mondo del pensiero con il mondo della vita e

tensione verso la costituzione di altri spazi di vita e di pensiero (22).

Il funzionalismo soggettivo, le filosofie dell¶interazione comunicativa non sono dunque altro che soluzioni oblique econtraddittorie rispetto ai problemi ed alla descrizione del mondo che il funzionalismo oggettivo, il sistemismo (nella

grande svolta linguistica della filosofia contemporanea) ci consegnano, mistificandoli. Anche le filosofie

dell¶interazione comunicativa colgono brani di questa problematica - rivendicando il ruolo della soggettività. Ma che

soggetto è questo che ci consegnano? Un soggetto che va ancora a cercare mediazioni critiche, trascendentali,

indeterminate, indefinite... No! Di contro, il soggetto nasce già dentro un nuovo assoluto livello di autoastrazione della

realtà. Non abbiamo bisogno dell¶ottimismo della volontà - perché siamo finalmente a contatto di un nuovo orizzonte

ontologico.

5. Comunicazione, antagonismo, soggetto. 

L¶equivalenza del termini dell¶universo della comunicazione è indifferenza. L¶indifferenza può essere rotta solo

dall¶antagonismo soggettivo che attraversa quest¶universo. La stessa definizione del soggetti è derivatadall¶antagonismo. L¶antagonismo è creativo della soggettività ma, contemporaneamente, è costituzione dell¶etico.

Ottimismo della ragione e, forse, pessimismo della volontà.

Se tuttavia pensiamo in termini di autoastrazione e consideriamo il soggetto come iscritto nel solito mondo della

comunicazione linguistica, di nuovo paradossalmente possiamo trovarci dinanzi all¶opportunità di utilizzare comestrumento di orientamento etico i comportamenti prescritti dall¶aforisma sul pessimismo della ragione e sull¶ottimismo

della volontà. Essere investiti dalla totalità dell¶autoastrazione significa infatti sentirsi parte della totalità del mondo

della comunicazione, articolazione della mano immateriale che lo regge, organismo di questo mare profondo. Dentro la

serie infinita delle relazioni che si stendono attorno a qualsiasi punto di questo universo, dentro i rapporti checostituiscono i poteri, solo una limitazione - si argomenta -della pretesa razionale può permettere al soggetto di

orientarsi. La pretesa alla percezione della totalità dei nessi sarebbe impensabile, comunque impraticabile.

L¶orientamento è possibile a partire dalla razionalità limitata, dalla attenta discriminazione di ogni effetto perverso che

si può comunque produrre, dall¶investimento strategico delle contingenze. Occorre epistemologicamente arrangiarsi:

 pessimismo della ragione (23). Ma su questo orizzonte contingente la volontà può muoversi con moderato coraggio e

 prudente consapevolezza. Non si dà morale - non c¶è una morale di principi - c¶è però una morale casistica, non

teleologica, interamente riassorbita nell¶orizzonte della probabilità. La totalità del quadro relativistico non si presentaqui come chiave di sovradeterminazione, non produce la sensazione che la totalità possa inquinare e contaminare il

mondo, - che quindi si tratti di sottile ma efficace mistificazione e della dimostrazione di un¶interiorizzazione inerte del

totalitarismo nei soggetti. Quel che è proposto è un attivo senso morale, scettico e insieme fiducioso. Alla Montaigne

(24).

Questa conclusione non sembra tuttavia sufficiente ad escludere qualche surrettizia forma di ottimismo della volontà né

a garantire che nuovamente non si imponga il coestensivo sofisma del relativismo e del totalit arismo. E¶ unametodologia di prudenza ontologica quella che qui è proposta - piuttosto che una esatta percezione dell¶impatto

dell¶essere astratto.

D¶altra parte - lo ripetiamo - rifiutare l¶impatto dell¶autoastrazione della realtà sociale è impossibile. Non è possibile

dimenticarne o trascurarne le dimensioni oggettive, presenti. E allora tanto vale affrontare di petto, direttamente, con

forza, questo mondo. Ed accettare di muoversi su questa superficie della totalità. Accettare la sfida ontologica.

Percorrere questi spazi in termini non formati significherà allora accedere ad una serie di atti di discriminazione, di

rottura, di separazione. Di antagonismo - quindi di individuazione, dal di dentro, di quel tessuto astratto nel quale solo

esistiamo. Intendo dire che il processo di individuazione, di autoidentificazione dei soggetti collettivi si offre solo

attraverso una riflessione di separazione, di autodefinizione corporale, di autodeterminazione materiale (25). L¶atto di

autoriconoscimento non è quindi rivolto alla totalità dell¶autoastrazione - certo, si scontra con la mistificazione

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ideologica di questa e mostra a totalità come tessuto nel quale siamo e nel quale dobbiamo separarci [separarsi ?] per 

esistere - ma è l¶intensità della separazione, la forza di riconoscimento dell¶antagonismo che ci costruiscono come

singolarità - come soggetti.

Ora, se operiamo una sezione sincronica del tessuto dell¶autoastrazione reale, o di un suo tratto (per essere più realisti),

noi scorgiamo punti di autoimputazione, potenze di autovalorizzazione, dimensioni di libertà. Se operiamo la sezione su

un tratto diacronico noi scorgiamo percorsi di conflitto da parte dei soggetti che si sono liberati da ogni relazione

dialettica con la totalità - che della totalità esigono tuttavia di essere coestensivi perché il loro sviluppo è etico e politicoassieme. Queste strategie ontologiche soggettive sono collettive - presuppongono l¶autoastrazione come ambito di

 produzione, riproduzione, circolazione e in essa fondano eticamente il loro riconoscimento politico e il loro costituire

nuovi margini, nuovi spazi dell¶essere. Su quella superficie dell¶essere che l¶autoastrazione ha determinato - ivi si

scontrano soggetti che hanno una corporeità determinata. Il conflitto non è di valori - il conflitto è di soggetti. Solo

l¶ideologia e la mistificazione continuano (e, se lo possono, forzosamente) a imporre conflitti di valori, - l¶etico e il

morale, il morale e il politico, scene di fantasmi - e, a fronte del continuo riemergere di corposi soggetti e di forze

collettive, a rotolarsi nel sudiciume della privatezza e nei residui del foro interno, - nei patemi del privato e

dell¶individualistico.

Una sola osservazione, in aggiunta a quanto fin qui detto. Noi siamo abituati ad una serie di contraddizioni che

qualificano la nostra esistenza nell¶immediato: coercizione e libertà, comando e obbligazione, capitale e lavoro, ecc.

Ora ci troviamo nuovamente davanti a queste contraddizioni (che nessuna rivoluzione è riuscita a strappare alla realtà) -

ma esse sono profondamente mutate - perché sono state dislocate sul terreno astratto dell¶essere sociale. Come appaiono

dunque? Esse appaiono solo quando la soggettività le ha riqualificate a questo livello. Queste contraddizioni non sonosuperate ma solo dislocate. Trasformate, - in una dislocazione che rischia di farle divenire ambigue ed insensate -

 postmoderne? No, qui la soggettività (essa stessa dislocata) le recupera al significato dell¶esistenza, al senso dell¶essere,

all¶etico (26). L¶etico - hegelianamente il morale e insieme il politico - è vivere nella totalità del mondo e conoscerlo, è

vivere conoscitivamente gli antagonismi fra soggetti che qui si pongono. Vi sono tante etiche e tante politiche quante

sono le emergenze soggettive - attraverso l¶esperienza del quotidiano scontro fra questi soggetti la realtà si costituisce e

nuova realtà viene creata. Il pessimismo della ragione non ha più senso - a questo punto - poiché questo emergere di

realtà soggettive è costituito di essere - un essere che cresce. L¶ottimismo della volontà è altrettanto insensato perché la

volontà non può costituire essere, cogliendo se stessa come elemento di compensazione della mancanza di razionalità.Al contrario, la ragione piantata nell¶essere dei soggetti collettivi è c hiamata ad esprimere valori assoluti nel conflitto. Il

conflitto è fra valori assoluti, collettivi, produttivi, e che pretendono di essere forze costitutive - (se ci è qualche

 pessimismo possibile, questo può essere attribuito solo alla volontà, poiché essa scontra l¶assolutezza del conflitto e

conosce l¶ampiezza, la trasversalità e l¶asprezza del conflitto e dei percorsi del conflitto). Vince chi ha più contenuti di

razionalità sui quali formare la comunicazione, - l¶antagonismo si prova su assi che mostrano (poiché l¶autoastrazione è

determinata) la più alla concretezza corporea. Il rifiuto della totalità ideologica, della fluidità delle posizioni, dellemediazioni, giunge così a rappresentarsi l¶assunzione della comunicazione come unico orizzonte reale. E solo la verità

 può dominare, sovradeterminare la comunicazione.

Ma ogni affermazione di verità è un conflitto ed ogni conflitto è un crescere dell¶essere, un suo nuovo, ulteriore

costituirsi. Sapere aude! Ottimismo della ragione quindi in quanto costruzione continua dell¶essere; pessimismo della

volontà, perché questo costituirsi - attraverso la molteplicità etica - filtra antagonismo e deve sempre riplasmarsi sulla

continua e diversa multiforme emergenza del mondo e del soggetti. Prodotto e produzione, produzione e riproduzione e

circolazione. Ogni cinismo è tolto. La forza della ragione è tanto più luminosa quanto più si dà altezza nel conflitto. La

ragione è reale perché attraverso. Il conflitto dei soggetti costruisce realtà. L¶errore, la falsità sono e lementi della

volontà, debolezza e falsi percorsi. Il realismo della ragione attraversa discontinuità e dialogo: nessuno potrà maisubordinare la qualità della verità alle modalità delle sue espressioni. Realistica è la ragione quando costituisce essere -

in quanto attraversa la posizione di nuova vera, allarga la dimensione della comunicazione e del conflitto. E disloca

continuamente in avanti l¶intelletto collettivo. Non semplicemente a scoprire l¶esistente ma a creare nuovi spazi di

esistenza. Nuova materia, nuova realtà comunicativa, comunità razionale. Così la ragione procede.

 Non vale certo la pena di parlare di illuminismo o di neoilluminismo - poiché la forza che si muove non trascende il

mondo come illuminazione - il mondo non è trascendibile - il mondo è creazione continua dell¶intelligenza collettiva,

attraverso gli antagonismi dei soggetti che dell¶intelligenza collettiva sono i portatori. Né questo processo ha

caratteristiche teleologiche - solo casualità materiali, produttive - e l¶assolutezza della ragione non viene meno né muta

nello scambiare l¶obiettivo o finalità. Perché la ragione e l¶essere sono lì - e l¶essere è razionale solo nella misura nella

quale la ragione lo costituisce - i soggetti, l¶antagonismo, la comunicazione: questo mondo è quello che possediamo e

con infinita pazienza e con infinito realismo continuiamo nazionalmente ottimisti a trasformarlo, a costruirlo (27).

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6. Ottimismo della potenza. 

Il rovesciamento del paradigma aforistico fin qui considerato non ci introduce in un mondo ideale né sfiora l¶utopia. Al

contrario, ci inserisce realisticamente nel territorio etico dell¶assoluta contingenza. L¶uomo ha costruito la possibilità

della distruzione dell¶essere, la potenza umana si è ingigantita fino a confrontarsi assolutamente con il non essere: come

 porre il problema etico, quello politico e quello della produzione su questo orizzonte?

Il conflitto si presenta dunque, nel mondo della comunicazione, come conflitto fra diversi soggetti etico politici. E si presenta laddove, nel ricostruire in ogni momento il mondo, pratiche determinate oppongono l¶un l¶altra scenari di

valore - le pratiche oppongono assolutezza e richiedono essere. Verità, valorizzazione, legittimazione si danno

nell¶esperienza che è prodotta dai soggetti collettivi. Se il passato ha il segno della necessità perché l¶azione dei soggetti

si è compiuta, l¶avvenire ha il segno della potenza. Diverse dimensioni, paradigmi globali del sapere e della vita si

oppongono su questa scena - e si dislocano e continuamente ridefiniscono orizzonti di totalità. Ma questa totalità

null¶altro è che l¶universale della comunicazione, la sua possibilità in atto (28).

Cerchiamo di vedere qua li siano i punti attorno ai quali i soggetti collettivi, in questa fase dell¶astrazione dell¶es sere

sociale, su questo bordo dell¶essere determinato, soprattutto si scontrano. Punti fondamentali, cifre, scadenze

dell¶essere. Ora, a me sembra che - nella compatta sfera della comunicazione, laddove il mondo per acquistare senso si

svolge nella vita - si presenti un enorme contesto di tendenze e di antagonismi, un tempestoso orizzonte di forze

costitutive. Noi possiamo solo indicare, come se si trattasse di descrivere uno spettro ottico, le fasce fondamentali di

opposizione - quando le fonti luminose che dai molti soggetti collettivi promanano, si incrociano nella sfera della

comunicazione. Nell¶ordine logico, che dalla parzialità del mio punto di vista riesco a determinare, mi sembra cheattorno a tre punti, fondamentalmente, valga la pena di soffermarsi - il conflitto sul terreno della sopravvivenza del

genere umano, il conflitto sul terreno della convivenza dei soggetti, e infine il conflitto che investe le forme della

 produzione e della riproduzione del mondo.

Ognuno di questi conflitti è determinato dalle potenze dell¶essere esistente, su un piano di radicale innovazione della

 problematica filosofica. Il dislocamento, l¶autoastrazione del mondo non è un processo di essenze ideali ma una

determinazione di potenze materiali. La distruzione del mondo è solo oggi divenuta possibile: è fuori di dubbio quindi

che la soppressione del mondo e della vita, l¶attualità dell¶essere stesso, rappresentano un problema qualificato in

termini specifici da quella possibilità. Il problema della convivenza dei soggetti e delle norme costituzionali del loro

rapporto è - in secondo luogo - completamente innovato dalle condizioni astratte nelle quali il rapporto formalmente si

costituisce e dalla caduta di ogni possibilità di gerarchia e subordinazione che ripeta la tradizion e del dominio.

E¶ necessario allora identificare una nuova sovradeterminazione globale? E¶ cosa possibile? E, se no, come tutto induce

a ritenere, qual¶è la forma della libertà e della comunità fuori da ogni orizzonte e determinazione dell¶obbligazione? < <

Legitimation durch Verfahren >> - in queste condizioni irreversibili di eguaglianza, o di equipollenza, di trasversalità,

di potenza dei soggetti collettivi che cos¶è? (29) E infine in terzo luogo, il terreno della produzione e della riproduzione

materiali - delle libertà soggettive e dei nuovi diritti soggettivi che competono ai soggetti a questo livello di astrazione

 produttiva e di composizione materiale (30). Questo ordine di problemi è proprio della ragione: in essa le alternative si

 presentano nettamente e i diversi sensi delle opzioni, fra distruzione e desiderio di sopravvivenza, fra desiderio di

sopravvivenza e creatività sociale e collettiva, fra creatività collettiva e norme di comunità - e fra quest¶ultime e la

formazione e la riproduzione dei soggetti - trovano chiarezza e le trafile delle opzioni coerenza. Qui il soggettocollettivo assume l¶assoluto come presupposto - in ciò consiste l¶ottimismo della ragione. Il mondo è attraversato da

molte di queste potenze ed il problema della ragione è quello di investirle e di misurare la propria potenza e quella

altrui. Di avvicinare il proprio corpo all¶altrui.

Di contro, qui la volontà riconquistata, in questo ruolo di servizio alla ragione ed alla sua universalità, un luogospecifico. Che è quello di esprimere la moderata violenza dell¶assoluto nella costituzione dell¶universo umano.

Cupiditas, dolcezza della trasformazione è quindi pessimismo della volontà. Ovvero l¶assoluto va controllato sull¶arco

dei desisderi che si stendono fra assolutezze. Questo controllo la volontà lo esercita dal di dentro dei soggetti collettivi, -

finalmente l¶autoastrazione del reale ha appiattito l¶orizzonte della società, rendendolo disponibile solo a matrici di

comunicazione lineare. L¶astrazione reale toglie la possibilità di astrazioni funzionali, simboliche, rappresentative,

amministrative. Il terribile imbroglio della volontà generale è demistificato. L¶astrazione reale toglie la possibilità della

mediazione. E, assieme alla mediazione, toglie la possibilità del comando, che solo la mediazione può costruire. Se si dà

comando, esso è solo usurpazione - non alienazione, in senso tradizionale (poiché alienazione è comunque rapporto

dialettico), bensì violenza e ferocia, perché l¶alienazione non è più possibile a fronte d i questi soggetti collettivi e

l¶ultima possibilità della mediazione è con ciò caduta. Il pessimismo della volontà è prudenza e realismo - ma non come

ultima variante dell¶arte del comando (sicché alla scienza segue il maquillage estetico della << volontà astuta >>) -

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 bensì lettura scientifica delle potenze dei soggetti e ricerca continua delle compatibilità delle assolutezze. Il pessimismo

della volontà è distruzione di ogni robinsonata neocontrattualista. Esso dice: not contract but compact - non affidamento

o trasferimento di sovranità, bensì insistenza istituzionale su corpi collettivi e accordo solo a partire dall¶irriducibilità

strutturale dei soggetti (31).

La scienza politica si svolge così fra un polo ontologico ed un polo cognitivo - e dunque come semiotica del sociale e

identificazione ontologica dei soggetti politici, da un lato, nella dimensione globale del mondo della comunicazione,

dentro l¶astratta materialità di cui è composto ciascun soggetto e la concreta dinamica della sua autovalorizzazione - equesto è il polo ontologico. D¶altro lato la scienza politica è una pratica della volontà, una conoscenza che, a tastoni,

cammina sul tessuto delle interferenze, delle interdipendenze, delle interruzioni, delle asimmetrie aperte fra i soggetti.

La razionalità è dei soggetti. Alla scienza politica sfugge, quando voglia porsi fra i soggetti, ogni possibilità di

fondazione - e con tanta maggior ragione ad essa sfugge anche ogni capacità di comprensione, perché la scienza non si

dà, essa stessa, come punto di vista che non sia soggettivo. Solo i soggetti producono attività ed essere. La crisi delle

scienze umane - dalla scienza dello Stato alla scienza economica - nel nostro tempo è rappresentativa della assoluta

estraneità, della vanità della posizione nella quale esse si collocano nei confronti dei soggetti. Solo la teologia, in

gloriosi periodi di innovazione scientifica, conobbe altrettanti momenti di sterilità (e di conseguente ferocia). Le scienze

umane sono a questo punto pure e semplici ideologie - ideologie tratte a piena insignificanza dal fatto di instaurarsi

come mediazione folle, non radicata e non radicabile, come tradizione particolare, in un ambito di generale astrazione

nel quale la consistenza e la forza dell¶astrazione dei soggetti (e l¶i mpermeabilità del rapporto fra soggetti) è totale. Solo

la ragione, questa corporea potenza di ciascun soggetto che trasforma l¶interesse in identificazione, l¶identità in

 produzione, la produzione in autovalorizzazione e in autodeterminazione - solo la ragione, dunque, si presenta al

mondo come potenza scientifico-pratica. Il campo di influenza e l¶interferenza che si stende fra vari soggetti è solo unterreno lasciato all¶opportunità ed alla moderazione dell¶intervento trasformativo - conoscitivamente solo l¶inchiesta vi

si pone come registrazione del reale (32).

Ecco dunque perché a me sembra che l¶aforisma tradizionale << pessimismo della ragione-ottimismo della volontà >>

vada semplicemente rovesciato (33).

 NOTE

1) Cfr. Paolo Spriano, Pessimismo dell¶intelligenza, ottimismo della volontà. Come quella << massima >> arrivò fino a

Gramsci, in: << Il Corriere della Sera >>. lu nedì 29 ottobre 1984, p.3.

2) Cfr. Antonio Negri, Alle origini del formalismo giuridico, Studio sul problema della forma in Kant e nei giuristi

kantiani fra il 1789 e il 1802, Padova, CEDAM, 1962.

3) cfr. Antonio Negri, Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke, Feltrinelli, Milano, 1959.

4) Se la relazione fra determinismo e volontarismo etico si sia mostrata sotto il segno della generosità o sotto quello del

cinismo, solo il giudizio dei posteri potrà dirci: certamente, tuttavia, la sofferenza degli uomini non è riuscita a

distinguere fra utopia e fanatismo! E se nessuno potrà mai filologicamente indurre ascendenze kantiane dello stalinismo

o di altre pratiche liberticide, troppo hanno vissuto la tragedia dell¶ambiguo rapporto determinismo-volontarismo Di

nuovo, sugli effetti teorici del dualismo kantiano e della tradizione neo -kantiana. cfr Antonio Negri La filosofia tedesca

del Novecento, in: << Storia della filosofia >>, diretta da Mario Dal Prà, vol. << La filosofia contemporanea: II

 Novecento >>, Vallardi, Milano, 1978.

5) Per quanto riguarda la scuola weberiana, e la sua decisiva importanza nel definire questi parametri del giudizio

filosofico-politico, cfr Antonio Negri, Studi su Max Weber (1956-1966), in: << Annuario bibliografico della filosofia

del diritto >>, Giuffrè, Milano, 1967, - ma, soprattutto, Antonio Negri. La forma Stato. Per una critica dell¶economia

 politica della costituzione, Feltrinelli, Milano, 1977.

6) Nella discussione sviluppatasi nell¶ambito delle correnti neo-marxiste italiane soprattutto negli anni `70, l¶insistenza

sull¶irriducibilità del politico all¶analisi delle lotte sociali è stata spesso c osì importante da trasformare quest¶insistenza

in apologia dell¶irrazionalittà e dell¶autonomia del politico. Contro la conclusione irrazionalista si veda, oltre al mio La

forma Stato, gli scritti contenuti in Operai e Stato, Feltrinelli, Milano, 1972; Cri si e organizzazione operaia, Feltrinelli,Milano, 1974; dove si sono raggruppati. con l¶autore di questo scritto. tutti coloro che hanno rifiutato la tesi

dell¶autonomia e dell¶irrazionalittà del politico. Vede inoltre gli articoli raccolti in Scienze poli tiche 1 (Stato e politica),

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<< Enciclopedia Feltrinelli Fischer >>, n. 27, a cura di Antonio Negri. Feltrinelli, Milano 1970, e Dizionario critico del

diritto, a cura di Cesare Donati, Savelli ed., Roma 1980.

7) Cfr. Peter Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt am Mein, 1983.

8) N. Luhmann, Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissensoziologie der moderner Gesellschaft, 2 voll.,

Suhrkamp, Frankfurt 1980-1981: cito questo volume come punto di riferimento della crit ica. Per quanto riguarda la

 bibliografia di Luhmann, basti ricordare che in Italia tredici suo volumi (o raccolte di articoli) sono stati editi.

9) Con ovvio riferimento allo sviluppo della filosofia linguistica fra Frege e Wittgenstein. Su questo sviluppo confronta

Michael Dummett, Frege, Oxford, 1973 e Roberta De Monticelli. Dottrine dell¶intelligenza. Saggio su Frege e

Wittgenstein, Bari, De Donato, 1981.

10) Mi riferisco qui essenzialmente alla critica sviluppata dal prof. Gustavo Gozzi, che ha seguito lungamente ed

attentamente lo sviluppo del pensiero di Luhmann nella rivista italiana Aut aut. Ma si veda ancora: R. De Giorgi,Scienza del diritto e legittimazione, De Donato, Bari, 1979 e soprattutto Jürgen Habermas, Legitimationsprobleme im

Spätkapitalismus, Suhrkamp. Frankfurt, 1973.

11) Paradossale è, ad esempio, l¶utilizzo che del pensiero di Luhmann si è fatto e si fà nell¶ambito del dibattito interno

al Partito comunista italiano. Cfr. in particolare gli scritti di Massimo Cacciari, e fra questi so prattutto Krisis. Saggiosulla crisi del pensiero negativo, Feltrinelli, Milano, 1975. In proposito cfr. comunque il mio Macchina tempo,

Rompicapi costituzione liberazione, Milano, Feltrinelli, 1982.

12) Per lo sviluppo del concetto di << sussunzione capitalistica della società >> cfr, Antonio Negri, Marx oltre Marx,

Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Milano, Feltrinelli, 1980.

13) Tutto ciò è completamente sviluppato ne La condition postmoderne di Lyotard.

14) Cfr, Antonio Negri. L¶istituzione logica del collettivo e le fatiche dell¶estetica, in Aut aut, 197 -198, settembre

dicembre 1983. Firenze. la Nuova Italia ed., pp. 133 -142.

15) Tale è il senso dell¶apologia del postmoderno, dello scambio simbolico e dell¶indifferenza in Baudrillard.

16) Di Jürgen Habermas, oltre al già citato Legitimationsprobleme, cfr, il recente Theorie des kommunikativen

Handelns.

17) Vedi in proposito i contributi della scuola habermassiana che sono stati pubblicati nel numero speciale di Critique,

<< Vingt ans de pensée allemande >>, 413, octobre 1981, Paris. In particolare sono interessantissimi gli interventi di

K.O. Apel (di cui vanno inoltre visti i due volumi Transformation der Philosophie) e di E. Tugendhat (di cui è da vedere

anche Selbstbewusstsein und Selbstbestimmung).

18) Da questo punto di vista l¶insegnamento di Theodor Wiesegrund Adorno e di Max Horkheimer resta fondamentale,

soprattutto nell¶opera comune Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente.

19) George Lukacs, Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau Verlag, Berlin, 1953.

20) Il cosiddetto << trilemma di Münchausen >> è stato formulato da K. O. Apel.

21) Com¶è noto, al rovesciamento di quest¶affermazione è completamente dedicato lo sviluppo del pensiero di Gilles

Deleuze.

22) I Mille Plateaux di Deleuze-Guattari vanno a questo proposito tenuti n massima considerazione. Il processo di

 pensiero che nell¶opera citata è sviluppato va nel senso della mia considerazione della crisis e del suo possibile

superamento.

23) Un simile atteggiamento è soprattutto presente in quello che si chiama << contrattualismo >>

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o << neo-contrattualismo >> nelle teorie etiche e del diritto. Il testo fondamentale è naturalmente John Rawls, A Theory

of Justice, Oxford, 1972. Ma sulle recenti fortune di questo rinnovo tematico cfr, Phili p Pettit, Judging Justice. An

Introduction to Contemporary Political Philosophy, Routledge & Kegan. London, 1980. In Italia questa linea ha avuto

 particolare fortuna nel lavoro di alcuni filosofi legati al PCI, come Veca, ecc. In generale si tratta, nel di battito Italiano,

di definire una prospettiva di risposta liberate all¶impatto del sistemismo tedesco.

24) In parallelo alle teorie neocontrattualistiche si sviluppa in Italia quella che dal titolo della recente fortunatacollezione di saggi a cura di Rovatti e Vattimo si chiama corrente del Pensiero debole (Feltrinelli, Milano, 1984).

25) Ho sostenuto questa definizione della soggettività nei saggi politici degli anni µ70: cfr, in particolare Crisi dello

Stato-piano (1974), Proletari e Stato (1976), Il dominio e il sabotaggio (1978), tutti pubblicati nella collezione <<

Opuscoli marxisti >> dell¶ed Feltrinelli, Milano.

26) Ho sviluppato questa posizione nel saggio Il comunismo e la guerra, Milano, Feltrinelli, 1980, oltre che nel già

citato La macchina tempo.

27) E¶ evidente che su questo snodo il mio lavoro teorico si incrocia con quello di storico della filosofia: cfr Antonio

 Negri. L¶anomalia selvaggia. Potenza e potere nella filosofia politica di Spinoza, Milano, Feltrinelli, 1981.

28) In questo capitolo seguo l¶ordine del ragionamenti e dei problemi sviluppati ne La Macchina tempo, cit., esoprattutto nel saggio di apertura di questo volume (<< Prassi e paradigma >>) e in quello di chiusura (<< La

costituzione del tempo Prolegomeni >>).

29) La questione è posta essenzialmente da Luhmann. Ma il problema di una teoria della legittimazione che attraversi e

si provi nell¶esperienza è ormai assolutamente generale: si potrebbe dire che nel conflitto tradizionale fra teorienormative e teorie processuali del diritto, solo queste ultime hanno ormai diritto di cittadinanza. D¶altro lato è proprio a

questa paradossale conclusione che giunge il più coerente del normativisti, Hans Kelsen, nel suo ultimo, postumo,

formidabile lavoro Allgemeine Theorie der Normen, Wien, 1979.

30) Che la libertà mantenga un riferimento materiale, che sia impossibile definirla sul terreno dello stretto diritto, cheessa competa alla vita intera dell¶uomo, ed alla sua fisicità, - bon, questo mi sembra il presupposto di quest¶approccio e

quindi di una polemica continua ed irriducibile contro qualsiasi filosofia idealistica.

31) Altrove ho cercato di sviluppare una concezione del diritto anticontrattuale ed istituzionale. In ciò sono stato moltoinfluenzato dalle teorie del federalismo, ed in particolare dal pensiero di Calhoun. Con quanta antipatia io concepisca latradizione rousseauiana (con il suo antecedente hobbesiano e il suo conseguente hegeliano) non starò qui a ripeterlo. Di

molto mi ero comunque avvicinato ad una concezione antagonista del processo costituzionale, oltre che nel mio la

Forma stato, che in parte raccoglie saggi degli anni µ60, - in La fabbrica della strategia. 33 lezioni su Lenin, Area,

Milano, 1976 (ma si tratta di scritti degli anni `60).

32) In Habermas tutto ciò è chiarissimo. Spesso in lui il trascendentale si diluisce

in questa forza de << fare inchiesta >>, del fare << scoperta di verità >>: la << scuola critica >> in proposito èfondamentale. Il mio riferimento ad essa, ad Adorno, ad Horkheimer, e soprattutto ai più giovani autori, da Hans Jürgen

Krahl, a Offe, è stato continuo.

33) Intendo dire che il cogito Cartesian deve accompagnarsi alla pietas spinoziana. Cfr. In proposito A. Negri, Descartes

 politico, o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano, 1970; e << Reliqua desiderantur >> Congettura per la

definizione del concetto di democrazia nell¶ultimo Spinoza, in: << Studia spinozana >>, à paraitre.

7. Lenin a New York. Progetto di lavoro.  

La lettera zero da Montreal contiene due indiscutibili affermazioni: il vecchio operaismo era completamente inadatto a

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cogliere i meccanismi dello sfruttamento capitalistico del Terzo Mondo; in secondo luogo, esso era incapace di dare

ragione del lo sfruttamento familiare - di quello della donna in particolare. Si potrebbe forse attenuare il tono della

 polemica, ricordando che talora si ebbero momenti di più acuta riflessione sulla vicenda del Terzo Mondo, soprattutto

fra il 1971 e il 1974 in riferimento alla prima crisi del dollaro e del petrolio: in quel caso la fun zione non solo

destabilizzatrice bensì destrutturante del movimenti di liberazione del Terzo Mondo fu adeguatamente descritta sul

livello teorico. Parimenti, si potrebbe ricordare che, oltre la contribuzione teorica del << movimento per il salario al

lavoro domestico >>, si ebbero (nell¶ambito dell¶operaismo autonomo negli ultimi anni `70) importanti analisi sulla

funzione del lavoro femminile di riproduzione nell¶accumulazione capitalistica e nella costruzione del valore socialemedio. Ma attenuare il tono della polemica non significa mettere in dubbio la sua sostanziale correttezza per quanto

riguarda questi argomenti.

Diversa mi sembra la situazione quando la lettera zero affronta, per liquidarlo definitivamente sia pure ambiguamente, il

discorso sul rapporto fra lavoro e comando. A me sembra che l¶analisi della crisi della legge del valore (e di quella della

relazione fra valore e comando) debba condurre non ad un¶eliminazione bensì ad una riqualificazione del rapporto di

valore fra lavoro e comando. Le ragioni per cui non accetto l¶eliminazione pura e semplice della problematica allusa

dalla legge del valore sono molteplici. Per dire subito quelle di carattere politico, eccole. In primo luogo mi sembra che,

dal punto di vista capitalistico, la scienza economica (e quella della gestione) siano attentissime al pieno utilizzo della

legge del valore nelle sue più tradizionali funzioni. Questo significa che il vecchio materialismo economico continua a

funzionare come scienza settoriale dello sfruttamento. E¶ quindi altamente probabile che la critica di questo

comportamento capitalistico continui ad essere politicamente rilevante. In secondo luogo, quando, dal punto di vista

operaio, si scarta la presunzione classica di conoscenza del mondo di lavoro e, con l¶acqua sporca (legge del valore), si

getta anche il bambino (e cioè il tessuto problematico del rapporto fra lavoro e comando), si conclude normalmente a posizioni politicamente inaccettabili: di << autonomia del politico >>, e ciò significa di tradimento soci aldemocratico

sul lato destro oppure di estremismo terroristico sul lato sinistro dello schieramento di classe.

Bisogna, di contro, mantenere la centralità dell¶analisi del rapporto fra lavoro e comando. E¶ certo che la legge del

valore è limitata: essa definisce e fissa la forma del rapporto fra lavoro e comando unicamente per il periodo di

egemonia del lavoro industriale di fabbrica. Storicamente, la validità della legge del valore si afferma, con difficoltà

crescente, nella serie dei cicli dello sfruttamento che conduce dai primordi della produzione capitalistica al modo di

 produzione << grande industria >>. I meccanismi della << sussunzione formale >> della società nel capitale permettono, nel medesimo periodo, il funzionamento della legge per l¶intera società. Oggi, invece, come già - nota bene

- nel periodo dell¶accumulazione primitiva, la legge del valore non funziona come legge generale. Può, come abbiamo

accennato, costituire una scienza settoriale dello sfruttamento ma, come già nel periodo dell¶accumulazione primitiva,

essa non spiega il modo di produzione né la forma egemonica dello sfruttamento. La dimensione sociale dello

sfruttamento nell¶epoca della << sussunzione reale >> della società al capitale (così come la qualificazione sociale delle

condizioni della accumulazione primitiva) sfuggono infatti alla legge del valore. Ora, se il fatto che la legge del valorenon funziona nel periodo dell¶accumulazione primitiva non ci ha in alcun modo impedito di andare a vedere come e con

quale quantità di terrore e di sangue, l¶originario soggetto capitalistico abbia costruito un nuovo modo di produzione,

abbia cioè stabilito un rapporto fra lavoro e comando che stravolgeva l¶antico nesso, esaltando una straordinaria nuova

capacità di estrarre valore, - così oggi, il fatto che la legge del valore non funzioni a fronte della << sussunzione reale

>> non significa dimenticare che al centro dell¶analisi deve restare il rapporto fra valore e comando, cioè il modo in cui,

attraverso sfruttamento, si estrae valore, quail che siano le sue attuali dimensioni.

E¶ chiaro che le questioni da porre sono oggi molto diverse da quelle di un tempo. Eccone alcune: qual¶è la dimensione

<< americana > o << postmoderna >> dello sfruttamento? Qual¶è la dimensione << americana >> o << antimperialista

>> della liberazione? Che senso ha parlare di << rifiuto del lavoro >> nella << sussunzione reale >>? Ecc, ecc. Maqueste domande, pur spostando completamente l¶analisi al di fuori dell¶improduttivo formalismo del valore, implicano

tuttavia che il rapporto fra lavoro e comando sia mantenuto come tema centrale. Siamo probabilmente maturi per 

sostituire al vecchio disegno di << Lenin in Inghilterra >> (disegno rivelatosi utile per seguire dall¶interno l¶epocale

trasformazione che ci ha qui condotti) un nuovo progetto di ricerca e di pratica sociali << Lenin a New York >>.

 Nell¶affrontare queste tematiche noi partiamo dal possesso di un ricchissimo materiale grezzo che riguarda entrambi i

 poli del rapporto di sfruttamento, sia cioè il lavoro che il comando. Questi materiali sono grezzi, - ed è bene che restino

grezzi, almeno fino a quando non avremo costruito un¶idea direttiva forte per la loro ricomposizione. Ma il fatto che

siano grezzi, non toglie la possibilità, meglio l¶opportunità di un iniziale lavoro di riordino. Così, ad esempio, i temi (a)

spaziali della mobilità della forza lavoro, (b) temporali della flessibilità della giornata lavorativa, (c) qualitativi, e ci oè

della natura del lavoro (per esempio, problemi, di definizione della f orza invenzione, << general intellect >>, qualità

dell¶astrazione, del bisogno, del piacere, ecc.) - tutti questi temi possono divenire centrali nella definizione strutturale

del << rifiuto del lavoro >> a livello di << sussunzione reale >>. Sia sul piano interno che sul piano internazionale, sia

ad alto che a basso livello dello sviluppo capitalistico, e nell¶integrazione e nella trasversalità di questi piani e livelli .

Dicevamo: definizione << strutturale >> e non soluzione << soggettiva >>, perché non siamo in grado di proporre

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quest¶ultima, - se fossimo capaci di questo, di riproporre cioè la tematica del soggetto sulle dimensioni oggi richieste

dai processi di << sussunzione reale >>, significherebbe che il problema della rivoluzione è ridiventato attuale - il che

non è vero. Eppure, il dirompersi spaziale e temporale del lavoro e del rifiuto del lavoro, l¶esaltazione astratta della loro

natura, aprono enormi possibilità e vie di improvvisa maturazione.

Seguiamole, queste possibilità. E nel seguirle, ad esempio, affrontiamo il problema anche da altri punti di vista. Nella

fattispecie, cominciando a guardare con attenzione pienamente dispiegata, non più intimidita dal feticismo della

fabbrica, la forma capitalistica della costituzione sociale della produzione, oggi. Temi come (d) la natura del capitalefisso sociale, oggi, ovvero la composizione organica sociale di capitale; come (e) il nuovo rapporto (e le sue nuove

tecnologie) fra produzione, riproduzione, circolazione, ecc. ecc. - bene, temi del genere non sono per nulla scontati.

Anzi: ed è con tutta probabilità proprio a partire dalle risposte a questi problemi che si tratta infine di percorrere (f) la

fenomenologia di quel vuoto di conoscenza e di valore che, nel mondo produttivo, si accompagna oggi ad un pieno di

controllo, di repressione e di minaccia di distruzione - sicché il cervello capitalistico rappresenta oggi

emblematicamente (nel diritto, nella gestione dell¶orizzonte monetario, nella continua riaffermazione dell¶autonomia

del comando, nel caos dei processi amministrativi, bancari, ecc.) la crisi di tutte le relazioni fra lavoro e comando,

insomma, di nuovo la crisi della legge del valore, il realizzarsi critico della tendenza negativa della produzione

capitalistica...

Con ciò torniamo alla premessa, e cioè a definire il rapporto fra capitale e lavoro, fra comando e forza lavoro, in quanto

stabilito al di là di ogni relazione possibile. E si comprende ora perché abbiamo chiesto di non concedere nulla

immediatamente alla teoria della crisi: non vogliamo infatti dimenticare la figura strutturale della crisi, le dimensioni

materiali dei soggetti e delle funzioni che in essa si muovono, perché soltanto questa mediazione conoscitiva ci permette di assumere l¶intera originalità della situazione. Questo è infatti momento di rivendicazione della logica - nel

senso che la crisi non cancella la logica - cancella le vecchie relazioni che la logica recepiva e santificava. La crisi

cancella quella legge del valore che conoscevamo, non cancella i termini materiali dello sfruttamento. C¶è ancora chi

comanda e chi è comandato, chi soffre il lavoro e chi di quel lavoro gode e si arricchisce. Dunque, fermi i termini logici

del problema, l¶originalità della crisi attuale consiste nel mostrare l¶impossibilità di comprenderla comunque in termini

dialettici. La dialettica implica una fenomenologia di rapporti strutturali e simmetrici, qui i rapporti sono in ogni caso

asimmetrici, quando non siano catastrofici. Il sistema dei rapporti di produzione e quello dei rapporti di potere non si

ricoprono positivamente - quanto a ricoprirsi in << ultima istanza >>, questo può darsi solo nella figura del ricalconegativo. La negazione dialettica implica un criterio di omogeneità nel costituire l¶opposizione, qui l¶opposizione è

alternativa. Il processo dialettico è lineare, qui ogni processo è per definizione discontinuo. Ecc. ecc. Detto questo,

avendo doe nuovamente insistito sulla qualità ontologica di ogni definizione, possiamo ora concludere che se la crisi

appare come distruzione di ogni relazione, la teoria quindi si presenta come possibilità di andar oltre ogni dialettica e

come necessità di distruggere anche gli ultimi residui di un linguaggio mistificato che s¶insinuava nel nostro desiderio e

nel nostro pensiero.

 Nel vecchio operaismo c¶era un¶idea centrale: quella della composizione tecnica e politica della classe operaia - e in

genere in tutte le classi. V¶era poi un¶idea forte, che coronava la funzione dell¶idea centrale: ed era quella della <<

libertà >> di funzionamento della forza-lavoro globale, della classe, e della sua forza di anticipazione dello sviluppo

capitalistico. Lo sviluppo capitalistico andava letto attraverso l¶anticipazione operaia. << La macchina corre dove

scoppia lo sciopero >>. Le lotte operaie erano il disegno dello sviluppo capitalistico e nello stesso tempo erano, di

questo, il martello distruttivo. Ora, quest¶idea di composizione e di anticipazione è, nella crisi, pretérita. La crisi rompe

ogni relazione. L¶idea di composizione e un¶idea ancora dialettica. Bisogna quindi andar oltre l¶idea di composizione.

Bisogna rompere la cattiva dialettica dell¶anticipazione (operaia) e dello sviluppo (capitalistico). Bisogna rompere

questa cattiva dialettica stando dentro l¶ontologia dello sviluppo. Quello che è venuto meno è il rapporto, meglio, uncerto rapporto fra lavoro e comando - non i termini che costituiscono questo rapporto. I termini si ritrovano, reali,

indipendenti da qualsiasi relazione dialettica. Contro ogni dialettica resiste il dolore dell¶umani tà. E¶ su questi termini

che si tratta quindi di lavorare, anzi, su uno solo di essi, sul termine lavoro, forza lavoro, rifiuto del lavoro, - perché

questo è il solo che possa essere concepito razionalmente. La scienza capitalistica, infatti, non essendo per sé produttivama solo dialettica e sistematica, non può essere razionale. Come la crisi dimostra in figura eccezionale.

Andar oltre ogni dialettica e porre il concetto di costituzione. Vale a dire che se i concetti di composizione e di

anticipazione

erano ancora dialettici, quello di costituzione non lo è più: esso è posto contro la dialettica e la sua fondazione è

alternativa. La costituzione è un processo di composizione e ricomposizione soggettiva, lotto ad ogni relazione

dialettica con l¶insieme delle condizioni oggettive della produzione. Questo non significa negare ogni relazione - ma è

evidente che la separazione del concetto è radicale - e che la separazione è condizione di ogni costituzione. L¶idea della

costituzione è quindi l¶idea di una pratica sociale alternativa che ricompone soggettivamente gli sfruttati. Non solo in

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quanto tali ma soprattutto in quanto ricostruiscono valori, vita, potere, - separatamente, indipendentemente,

alternativamente.

Per cominciare a chiarire, diciamo subito che l¶ idea di costituzione non è idea etica né utopica. E¶ invece idea

scientifica. Lo è perché presuppone uno specifico meccanismo conoscitivo che possiamo così indicare: oggi è

impossibile spiegare non solo lo sviluppo capitalistico (che spesso non c¶è) ma nemmeno la semplice riproduzione della

ricchezza sociale, senza ricorrere al concetto di pratica sociale. Vale a dire che, senza la pratica sociale, senza l¶enorme

quantità di lavoro gratuito, di lavoro libero che la società capitalistica raccoglie ed utilizz a a glorificazione del suo proprio comando, la società capitalistica non esisterebbe. La società capitalistica, la società della << sussunzione reale

>>, vive del dono gratuito di lavoro che i cittadini lavoratori le fanno. Che tutti i lavoratori, da tutti i settori, le fanno.

L¶enorme capitale fisso socialmente accumulato è da tutti curato, ma solo per pochi tutto ciò, quest¶enorme quota di

lavoro sociale, risulta fonte di profitto - e di comando. Se si assumono e si analizzano le quantità di lavoro estorto nel

meccanismo << normale >> dello sfruttamento industriale e le quantità che invece sono regalate, dentro informali o

semplicemente consuetudinarie regole di organizzazione, alla società capitalistica ed alla riproduzione del capitale fisso

che l¶organizza, - ben, si può vedere di quanto le seconde quantità siano maggiori delle prime. Per il capitale esse sono

semplice << rendita sociale >>. Per tutti i cittadini sono un surplus di sfruttamento. Questo specifico processo di

sfruttamento si allarga tanto più quanto più i meccanismi della produzione vengono informatizzati e la forza-invenzione

intellettuale diviene << energia >> per lo sviluppo della produzione.

Da questo punto di vista, e tenendo conto delle quantità che sono in gioco, si può quindi concludere che oggi il lavoro

sociale, le pratiche sociali costitutive, ed anche tutto il lavoro che non è immediatamente soggetto al comando,rappresentano una norma valorifica produttiva, una norma per la produzione di valore, che ha, nella società della <<

sussunzione reale >>, il significato di << legge di valore >>. Assistiamo quindi ad una non irrilevante trasfigurazione

della legge, che comporta molte conseguenze. Ad esempio, si potrebbe parlare, sempre sul terreno generale, di <<

sussunzione formale >> sotto questa dimensione per le altre forme di valorizzazione, comunque persistenti nella nostra

società. E¶ chiaro, nella fattispecie, che il lavoro industriale è << formalmente >> sussunto nel lavoro sociale - esso

mantiene infatti le sue caratteristiche ma non avrebbe valore se non fosse anticipatamente predeterminato entro

condizioni sociali adeguate - e non pagate (grado di istruzione e di astrazione della forza lavoro, condizioni spazio-

temporali della riproduzione, livello sociale di informatizzazione, ecc.), - quindi, è la pratica sociale costitutiva che oggi

valorizza anche il lavoro della << grande industria >>.

Ma il concetto di costituzione non conclude la sua azione sul terreno conoscitivo, fissando cioè solamente la norma

fondatrice di una nuova figura del valore (e della sua legge). Se così fosse ci troveremmo [troveremo ?] ancora dentro laconfusione dialettica nell¶epistemologia della liberazione. No, non è così: i l concetto di costituzione è altro - vale a dire

che esso è fondamentalmente pratico, insieme concetto di egemonia e di alternativa. Chiediamoci allora: quali sono lecondizioni di una pratica alternativa sociale come forma rivoluzionaria nella quale la nuova legge del valore possa

esprimersi nella fase della sussunzione reale della società sotto il capitale? Ovvero: se il concetto di costituzione è

quello di una pratica sociale, ontologicamente fondata, che costituisce le condizioni di conoscenza dell¶attuale

meccanismo dello sfruttamento, - come può esso istituire la possibilità di una soggettività alternativa e rivoluzionaria?

Vi sono almeno tre linee di ricerca da seguire per dare risposta a questi interrogativi. Molte di queste ricerche, occorre

ricordarlo, sono ad un grado avanzato di elaborazione - il periodo della repressione non ha impedito il lavoro di analisi

di molti compagni - si tratta ora di raccogliere, centralizzare e comunicare i risultati.

Dunque: la prima linea di ricerca (A) riguarda i temi che sempre sono stati propri della lotta di classe: ossia i temi del

salario, della divisione della ricchezza sociale, e soprattutto oggi dell¶organizzazione temporale della giornata lavorativa

- insomma, i temi dell¶appropriazione. Quale sia, soprattutto nei periodi di crisi economica, di aumento del dispotismo,

di mistificazione e di tradimento da parte delle organizzazioni ex-proletarie, la storia clandestina dell¶appropriazione

operaia e proletaria, - ecco, per esempio, un tema di enorme interesse. Esso apre alla seconda dimensione della ricerca

(B): ricerca sull¶alternativa organizzativa in senso proprio, sulla << pratica >> della pratica sociale, sulla << coscienza

sociale >> dell¶alternativa. Un più forte grado ontologico caratterizza questa dimensione di vita collettiva proletaria, che

è forse decisiva per definire una pratica sociale completamente emancipata dalla dialettica capitalistica. La << pratica

>> della pratica sociale prende in conto una diversa mobilità della forza lavoro, la flessibilità completa della giornata

lavorativa, la modificazione della natura e della qualità del lavoro - le prende in conto come materiali di un progettoalternativo di costituzione sociale. Non so se il comunismo sia attuale - certo vive nella coscienza, nei desideri e

nell¶azione di tanta gente. Un soggetto rivoluzionario postmoderno non è poi così lontano da una soglia di definizione.

Terza linea di ricerca (C): gli strumenti della rottura politica dell¶irrazio nale, dell¶unità capitalistica del sociale, cioè

della società capitalistica postmoderna. E¶ chiaro che qualsiasi momento di rottura è, in questa linea, immaginabile solo

come momento di destrutturazione profonda del potere del nemico, come riappropriazione continua di spazi propri, di

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ricchezza e di lotta, come approfondimento sistematico delle asimmetrie della produzione e del potere capitalistici - un

uso cosciente e continuo della crisi. E¶ evidente anche che della semplice destabilizzazione del nemico non occorre

 parlare - essa è nei fatti, ma proprio per questo essa è anche controllabile, riassumibile nelle tecniche di

sistematizzazione che il nemico ha messo in atto per la riproduzione dell¶irrazionalità del proprio dominio.

<< Lenin a New York >> non è l¶attualità della rivoluzione. Paradossalmente si dovrebbe dire che la rivoluzione c¶è già

stata perché movimenti di lotta degli anni `60 e `70 hanno tolto al capitale ogni capacità innovativa, nel produrre la

ricchezza sociale, e lo hanno condannato all¶irrazionalità. La fine dell¶Impero è cominciata. Al di là del paradossodiciamo che la rivoluzione oggi consiste nel radicare ontologicamente, a livello di massa, egemonicamente un

contropotere che sia alternativa di vita. Non è vero che il possesso del potere sia indifferente rispetto a questo fine: ma

non vi può essere presa del potere se non sulla base di una destrutturazione profondissima dell¶organizzazione sociale

del nemico, di una riappropriazione di massa di spazi e di costituzione alternativa di valori. Non è d¶altra parte vero che

il potere lo si possa distruggere solo possedendolo: è vero piuttosto che per possederlo bisogna cominciare a

distruggerlo. Quanto alla rivoluzione, come esercizio del tutto dispiegato di una << pratica della pratica s ociale >>, essa

è più vicina di quanto si possa pensare. Nessuno di noi ha certezze in proposito - ma è ben vero che l¶ubriacatura

reaganiana ha mostrato a tutti quanto puzzi il potere reazionario e che l¶accumulo spontaneo e profondo del momenti di

rottura dell¶ordine capitalistico si è nuovamente avviato - almeno nelle coscienze. E¶ al terreno della rivoluzione che ci

richiama direttamente l¶analisi del funzionamento dello sfruttamento e della sua crisi nel Terzo mondo, - un¶analisi

fondamentale anche per l¶identificazione dei temi della nostra ricerca sulle forme della lotta di liberazione. Su questo

terreno (D) è essenziale una concentrazione ed un approfondimento specifico della ricerca.

Il politico oggi precostituisce il sociale. Lo slogan capitalistico << meno Stato >> è un idiota << flatus vocis >>, tanto più mistificato quanto più progressivamente la società è sussunta nel capitale e nel suo Stato. Un¶orrenda falsificazione

è, d¶altro lato, il concetto di << autonomia del politico >> - questa quasi nazionalsocialista autodifesa di ceti reazionari

o storicamente sconfitti e superati. Di contro, oggi il politico raggiunge l¶apogeo della sua significatività precostituendo

il sociale. Il politico è una dimensione produttiva, una potenza ontologica. Noi vi siamo dentro, la possediamo e di

questa potenza siamo tuttavia alienati. Dobbiamo forzare la situazione. Dobbiamo considerare il politico come arma

adeguata, dobbiamo costruirlo come contropotere, per liberare la società. La rivoluzione dei soggetti postmoderni è

certo inattuale - come lo è la primavera nei mesi invernali.

Propongo a me stesso e agli altri amid di lavorare congiunta mente sui temi (a, b, c, d, e, f) e sui progetti (A, B, C, D).

Molto del lavoro qui indicato è stato iniziato, ed ha raggiunto un certo grado di formalizzazione, nell¶ambito della

discussione e delle analisi politiche dei Grünen tedeschi, - e di alcuni dei più attivi ed intelligenti gruppi ecologisti.