'A Maramacoea

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Con il patrocinio di CITTÀ DI SAN DONÀ DI PIAVE Assessorato alla Cultura REGIONE del VENETO Evento ideato e gestito da Testo elaborato e redatto da Carlo Dariol Aspetti identitari e linguistici a cura dell’associazione (con apporto di materiale edito e inedito) (ElevaMente) 3

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Contributo alla descrizione di un termine dialettale.

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Con il patrocinio di

CITTÀ DI

SAN DONÀ DI PIAVEAssessorato alla Cultura

REGIONE del VENETO

Evento ideato e gestito da

Testo elaborato e redatto da Carlo Dariol

Aspetti identitari e linguistici a cura dell’associazione

(con apporto di materiale edito e inedito)

(ElevaMente)3

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’A MARAMÀCOEAMOSTRO O MITO?

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La storia e la cultura millenaria del territorio veneto hanno conosciuto periodi bui di dimenticanza e non solo per ciò che riguarda i testi scolastici, dove spes-so mancano indicazioni relative alla storia regionale. Credo, però, che un effetto anche peggiore sia quello prodotto dall’oblio cui l’ha costretta la sua stessa gen-te, in particolare da quando, nel Novecento, l’avvio dei processi di industrializzazione nel nostro paese ha inevitabilmente condizionato la mentalità delle nuove generazioni.

In quest’ultimo decennio sono state proprio le anomalie generate dal ‘sistema della globalizzazione’ (che, in ogni caso, ha in sé anche elementi di positivi-tà) a fare in modo che ci rendessimo conto di quanto valida e preziosa fosse la nostra Identità.

Questa è la motivazione per cui in tutto il territo-rio veneto, così ricco della sua straordinaria diversità, Associazioni culturali e singole persone, appassionate della propria gente e della propria storia, continuano da tempo ad attuare ricerche riferite alle peculiarità identitarie dell’area geografica su cui insiste il loro specifico interesse e contribuiscono così a mantenere viva la storia, la cultura, il pensiero comune di quella gente, le tradizioni consolidatesi nel tempo e che altri-menti rischierebbero di perdersi.

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Ecco perché la Regione Veneto sostiene la “valoriz-zazione e tutela” dell’Identità veneta, considerandola in tutte le sue particolarità locali, nella convinzione che soltanto trasmettendo ai propri discendenti lo straordinario patrimonio di valori, accumulatisi con l’andar dei secoli, è possibile restituire un’adeguata ri-considerazione alle singole comunità. Ognuna di esse, a ragione, si identifica in uno specifico e complesso sistema di usi, costumi, tradizioni, modalità espressi-ve. Infatti, per una comunità, la piena valorizzazione di ciò che è (perché storicamente determinatasi in un certo modo) può essere raggiunta soltanto attraverso un percorso consapevole e voluto, che le consenta an-zitutto di comprendere veramente ciò che è e, quindi, di riconoscere la propria realtà e identità rispetto alle altre comunità.

Oggi, seguire questo percorso di riscoperta e va-lorizzazione richiede a tutti uno sforzo piuttosto no-tevole, perché è difficile recuperare quanto in parte è già stato perso dalla memoria collettiva delle nostre comunità; perciò va da sé che il recupero dipende in larga misura dalla capacità di ciascuna comunità di saper esprimere se stessa presentandosi con le giuste forme e in adeguati contesti a chi non la conosce.

Questo è il motivo conduttore che anima la pre-sente ricerca, riferita al recupero consapevole di un termine in uso all’interno della comunità del Basso Piave che gli ha dato i fortunati natali: la marama-coea.

Ricca di significati e di sfumature, questa voce lo-

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cale è stata associata da sempre a una delle manife-stazioni più note e più antiche di tale territorio, cioè la Fiera del Rosario di San Donà di Piave, l’appunta-mento annuale tanto atteso dagli abitanti del Basso Piave e non solo.

Il testo, che accompagna il lettore in un graduale percorso di comprensione del significato della ma-ramacoea, ci fa tornare indietro nel tempo, risentire voci antiche ed espressioni forse non capite, suscitate da quel mondo fantastico che per tutti, nel Veneto Orientale, ha sempre rappresentato “l’andare alle fie-re” a San Donà di Piave, un evento che continua a ri-petersi da lungo tempo ed è vissuto sempre dalla gente di questo territorio con un grande senso di attesa.

Mi auguro, perciò, che la presente pubblicazione consenta a tutti coloro che vi hanno partecipato, e vi partecipano ancora, di sentirsi parte attiva del proces-so di valorizzazione della comunità del Basso Piave.

Daniele StivalAssessore all’Identità Veneta

della Regione del Veneto

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Legare il passato al presente non è sempre un’ope-razione di romantica nostalgia da guardare con un sor-riso di benevolo compatimento. Può servire, talvolta, a rendere il presente meno buio e soffocante e rinsaldare i vincoli tra le generazioni, oggi così fragili e sfilacciati. E ciò è più facile che accada quando questa operazione è incardinata su quello che è lo strumento identitario per eccellenza di una comunità: la lingua.

Che è poi quello che è stato tentato, a mio parere con successo, con la pubblicazione di questo libricci-no, il cui titolo ’a maramacoea rinvia proprio a quel processo di riappropriazione delle proprie origini e delle proprie radici culturali, storiche, sociali, fondate sulla ricerca di una lingua in gran parte dimenticata, elusa e ora riportata alla sua straordinaria potenza sim-bolica ed evocativa.

Poteva la Fondazione comunitaria Terra d’acqua onlus lasciar cadere l’opportunità – offertale dal team di appassionati e di studiosi cui va il merito di questa iniziativa – di sposare questo progetto e di farsene, in qualche modo, tramite istituzionale?

Perché proprio terra d’acqua è stata per secoli que-sta nostra terra, acqua che cercava la terra e che si è fatta, infine, terra grazie alle gigantesche opere di bo-nifica che l’hanno interessata.

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Chi leggerà questo agile documento, comprenderà bene come ’a maramacoea, lungi dal volere essere a tutti i costi qualcosa, è stata l’impronta inconfondibile di una società, di una comunità anche linguisticamen-te originaria e originale, una comunità anfibia, di cui ’a maramacoea, col suo gioco onomatopeico, con la sua suggestiva e multiforme vaghezza, può ben esser-ne ritenuta il simbolo e il riconoscimento.

Paolo RizzantePresidente Fondazione Terra d’acqua onlus

San Donà di Piave

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ALLA RICERCA DELLA “MARAMÀCOEA”a cura delle tre associazioni*

Ci siamo chiesti per molto tempo quale significato avesse il termine che alcuni di noi, da bambini, udiro-no citare dai nonni. E la curiosità ci ha spinto a porta-re avanti una ricerca che ha avuto come interlocutori privilegiati gli anziani che tuttora vivono nel territorio del Basso Piave.

Chiedendo loro di chiarire il concetto di ‘ma-ramàcoea’, fondandosi sulla loro esperienza e sulle loro conoscenze in merito, abbiamo ottenuto le più svaria-te risposte.

Di fronte a una vasta gamma di indicazioni, anche discordanti, ci è sorto immediatamente un dubbio: chi aveva veramente ragione?

Da qui è cominciata la nostra avventura, svilup-pata grazie al sinergico lavoro delle tre associazioni: la sfida di conoscenza, lanciata da Passaparola nel Vene-to Orientale, è stata raccolta da ElevaMente al Cubo, che si è assunta il compito di trovare una veste teatrale adeguata per proporre, con maggiore concretezza, i ri-sultati relativi alla ricerca svolta.

Ma quale identità territoriale e culturale ha potuto produrre i vari significati della ‘maramàcoea’?

Per capirlo in profondità, con un’analisi a tutto campo su un ambito a prima vista indeterminato, è stato decisivo l’apporto dell’Associazione G.R.I.L.

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Basso Piave, che da tempo conduce ricerche appro-fondite sulla specifica identità della gente di palude del Basso Piave, lì dove ha avuto origine e si è mante-nuto il mito della maramàcoea.

Abbiamo allora cominciato, in modo collegiale, un lungo e particolare percorso di ricerca e di analisi nel-l’immaginario collettivo di quella gente. Anche in noi, come forse nelle persone di un tempo ormai lontano, il mito ha iniziato a prendere la forma di un essere strabiliante che nasceva e si nascondeva nella sinuosa struttura viaria della città che l’ospitava: San Donà di Piave.

Abbiamo così intuito che, col termine ‘mara-màcoea’, la gente cercava di dare forma concreta all’ef-fetto provocato dalla sensazione avvertita da chi, pro-venendo dalla palude, andava verso il centro cittadino in occasione della famosa Fiera; qui gli poteva capitare di provare la maramàcoea, sperimentando cioè sulla sua pelle la sensazione stupefacente che abbiamo cer-cato di descrivere.

Oggi, perso il mito e sentito come ormai lontano l’effetto che allora si provava, la ‘maramàcoea’ è scom-parsa dall’immaginario collettivo, messo a confronto con una realtà odierna che propone miti certamente più virtuali e, a parer nostro, meno accattivanti.

*Passaparola nel Veneto OrientaleElevaMente al CuboG.R.I.L. Basso Piave

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DIALOGO TRA GENERAZIONINEL BASSO PIAVE

I ATTO

Sullo sfondo un gruppo di figuranti vesti-ti “come un tempo” esegue le azioni “di un tempo”. Un gruppo di bambini, seduti sul pavimento e vestiti modernamente, attende l’ingresso del narratore: saranno loro a por-gergli le domande.

Un tempo sapevano tutti cos’era. I grandi, almeno. I piccoli no, a loro nessu-no lo spiegava. I grandi non ne parlavano. Se non ne parlavano era perché dovevano averne timore anche loro, questo pensa-vano i piccoli. Però quando qualcuno dei piccoli lo chiedeva loro, si capiva che i grandi sapevano.

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- Ma cos’era, una donna?No, non era una donna: solo quando

si persero i connotati precisi della ma-ramàcoea, si immaginò che dovesse essere qualcosa di femminile.

Qualcuno racconta che era una sor-ta di spirito che poteva passare attraverso i balconi chiusi e aveva un grande sacco nel quale infilare i bambini disubbidien-ti per portarli via due o tre giorni, finché non avessero promesso di stare buoni e di obbedire ai genitori. Solo allora li avrebbe riportati indietro. Sembrava tutto abba-stanza chiaro...

- Una sorta di befana cattiva, allora! Beh, a parte che la befana è buona, an-

che questo non è corretto. Ma come si fa a dirlo bene... Il fatto è che gli adulti un tempo rimanevano sul vago. A domande più precise, glissavano. Si vantava di sa-perlo il vecchio che passava le sue giornate seduto fuori di casa con lo stuzzicadenti

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in bocca per pulire i tre denti rimasti... che, in verità, gialli com’erano, non ave-vano gran bisogno di pulizia. Lo sapeva lo zio che si sentiva rivolgere la domanda dal nipote impertinente: «Ma ti satu cossa che ’a é ’a maramàcoea?» «Sì, e se no te tase ’a ciame...» E il bambino ovviamente stava zitto: perché c’era di che aver paura di un mostro dal nome così inquietante... Non occorre tornare alla notte dei tempi, erano popolate di mostri anche le notti di un se-colo fa, di settant’anni fa.

Gli adulti sapevano. Ma guai a chiede-re informazioni precise: si irritavano. Un tempo le cose non si spiegavano a parole, si mostravano, si facevano toccare con le mani, si facevano “sentire”. L’unico modo per sapere cos’era la maramàcoea era quel-lo di vederla, di sperimentarla...

Molti degli adulti di oggi, adulti di una certa età, vecchi diciamo pure, ricordano di averne avuto paura da piccoli... Ma poi,

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senza aver mai capito cos’era, la paura si era dissolta. La modernità e l’abitudine alle spiegazioni scientifiche avevano can-cellato tutto. Qualcuno che ci scherza so-pra c’è ancora in qualche bar. Ma al bar c’è sempre quello che ha visto tutto, provato tutto e non ha paura di niente e di nessuno e che – da solo, sempre rimanendo al bar – potrebbe sconfiggere gli Austriaci nella I Guerra Mondiale e i Tedeschi nella II.

Questo non può cancellare il fatto che i bambini di un tempo avevano tutte le loro ragioni per avere soggezione della ma-ramàcoea.

- Ma allora cos’era questa... maramà-coea?

Molti dicono che fosse una bestia. Con la coda...

- Una lucertola?Potrebbe essere.- Io, una volta, da un pescatore cui ave-

vo chiesto cosa avesse preso, mi sentii ri-

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spondere «Quatro maramàcoe...»Addirittura quattro! No, io credo che

per lui il termine avesse cambiato signifi-cato; forse i pescatori che si avvicinavano al nostro territorio modificavano l’inter-pretazione della maramàcoea e per loro diventava un pesce. A meno che con “ma-ramàcoea” egli non volesse dire “niente!”.

- Ma stai scherzando? Il pescatore che me l’ha detto è un bravissimo pescatore e lui non torna mai a casa a mani vuote. Come minimo le maramàcoe devono es-sere pesci enormi, bellissimi, pesci straor-dinari, strani pesci dalle scaglie d’oro, con la coda del colore dell’arcobaleno. I pesca-tori non raccontano mai balle, se non per descrivere la lunghezza delle loro prede.

A me una volta è capitato di far la co-noscenza di un pescatore con un braccio solo, l’altro l’aveva perso in guerra (qual-che maligno insinuava che era frutto della pesca con il carburo), ma gli era rimasta

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l’abitudine di mostrarmi quanto lunghi erano i pesci che aveva preso. Stendeva il braccio sano per tutta la sua lunghezza e mi spiegava: «Lungo così!»

Un giorno gli feci notare che con una mano sola non riuscivo a capire quanto lunghi erano effettivamente i pesci che prendeva. «Come non capisci?» mi rispose, e con l’unica mano mi diede un terribile ceffone. «Capito adesso?» Avevo capito, sì. Così si spiegavano i grandi, una volta.

In ogni caso dalle parti nostre non era un pesce.

- Che cosa intendi con “dalle parti no-stre”?

Beh, intendo il Basso Piave, cioè la vasta area un tempo paludosa posta fra la laguna di Venezia, caratterizzata dall’acqua salata, e l’ultima parte del corso del Livenza; gli altri due confini erano il mare da una parte e la pianura veneta dall’altra, quella roma-nizzata con la centuriazione. Laddove si

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potevano trovare delle terre emerse, queste erano ricoperte da una folta vegetazione e abitate da una ricca fauna. Quando arriva-rono i barbari e minacciarono prima Alti-no e poi Oderzo, una parte della popola-zione di questi luoghi riuscì a mimetizzarsi col territorio e si salvò. E si ritrovò ‘invasa’ dagli Opitergini che, per fuggire ai Longo-bardi, si nascosero nelle valli e nelle palu-di, dove trovarono ospitalità. Fu allora che nacque Eraclea, la Civitas Nova Heraclia-na, pressappoco dov’è oggi Cittanova.

- La stai prendendo alla lontana. Stavi parlando della maramàcoea…

Ti stavo spiegando dove viveva la ma-ramàcoea...

- Ma cos’era, un anfibio, dunque? Aveva qualcosa di anfibio la civiltà che

la generò. Mutata la realtà territoriale, la maramàcoea continuò a richiamare in sé le caratteristiche della civiltà di palude: infat-ti poteva vivere dentro e fuori dell’acqua;

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saliva dall’acqua e veniva sulla terra; veniva ad angustiare gli uomini e le donne. E so-prattutto i bambini che non la conosceva-no. Ma non era un animale: togli la testa, era un...

- ...male!Sì, la maramàcoea era un male. Un male

fisico. Fisico e psicologico. Che ti prende-va e, come dire, ti stringeva da dentro... come ’a fràcoea, che ’a é na s-gionfada. Era simile a na intalpinada; e qui si fa riferi-mento all’ambito animale: quando il bovi-no, la vacca, aveva il rumine, cioè il talpìn, costipato, si diceva che la bestia aveva na intalpinada.

- Il contrario della diarrea... Eppur gli assomigliava; era una sensa-

zione che ti prendeva da dentro e non ti faceva più sentire padrone del tuo corpo.

Si diceva che erano preda della mara-màcoea le pajoeane particolarmente tristi o spossate. A proposito, la pajoeana era la

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donna che aveva appena partorito e che, dovendo essere accudita nel migliore dei modi, veniva fatta riposare sul pajón de eana, non su quello duro di scartotzi. Qual-cosa si impossessava delle pajoeane, com-primeva e soffocava il loro spirito più del loro corpo. Adesso si direbbe che avevano la depressione post-partum. Ma tanti anni fa nessuno, soprattutto tra i poveri, poteva permettersi malattie così raffinate. Era la maramàcoea che prendeva le puerpere.

Neanche la cervicale esisteva una volta: comparve dopo la seconda guerra mondia-le, negli anni Cinquanta-Sessanta, quando gli italiani cominciarono a stare un poco meglio dopo la fame nera degli anni belli-ci e post-bellici e allora poterono permet-tersi, oltre al frigo e al televisore, anche la cervicale1. Chissà come si stava un tempo, quando non c’era la cervicale; quando non

1 Le donne un tempo si difendevano dalla cervicale, pro-vocata dal vento di palude, co ’l fatzoét igà da drìo ’a testa.

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c’era neanche la depressione post-partum; quando non c’erano né anoressia né buli-mia, ma si era tutti magri e basta. Quando ancora c’era la maramàcoea.

Gli anziani al giorno d’oggi faticano a definire con esattezza la maramàcoea per-ché anche a loro non era stata spiegata bene, dicono che gliel’avevano fatta capire i genitori o i nonni; e non avevano avuto difficoltà a credere alla sua esistenza: i ge-nitori, o i nonni, l’avevano provata, l’ave-vano sperimentata. E i bambini un tempo si fidavano degli adulti. I quali cercavano di spiegare i concetti più complicati, i con-cetti-sensazione, cercando di far provare ai bambini la stessa sensazione. Tu la capivi quando la provavi. Come quando il pesca-tore con un braccio solo ti spiegava quanto lunghi erano i pesci che pigliava: lo capivi quando lo provavi sulla tua pelle.

No, non voglio scherzare. A dirla così, cioè a non saperla dire, sembra che la ma-

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ramàcoea fosse solo una creatura d’inven-zione; ma ci dovette essere un periodo in cui la sua reale esistenza fu tranquilla-mente accettata. Perché, se in tanti ne tra-mandavano parola, significa che qualcuno un tempo ci aveva avuto a che fare, e che l’esperienza fu poi condivisa da altri, en-trando a far parte dell’immaginario comu-ne.

Forse accadde... al tempo in cui esistet-tero anche el matzariòl, ’e umière, ’a ùia co i sete portzeéti. Questi erano i principali fol-letti della vita contadina di palude, le stra-ne creature che si divertivano a molestare e a fare i dispetti ai cristiani, a spaventarli. Il matzariol, secondo alcuni, era, come dire... un personaggio alto alto, secondo altri uno gnomo, basso e tarchiato, tutto nero che girava con addosso un particolare rosso, una berretta, una sciarpa, un mantello, e si nascondeva di notte tra gli alberi. In mano talvolta aveva una grande mazza con la

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quale minacciava coloro che osavano, an-che inavvertitamente, passare in mezzo alle sue gambe (se era alto), ma non risultano notizie che abbia mai colpito qualcuno. In ogni caso, disorientava e faceva di tutto per impedire a chi lo incontrava di prose-guire nel suo intento (qualcuno raccontò che perfino Attila ne subì gli influssi). Lo vedevano soprattutto quelli che tornavano a casa tardi la notte, mezzo ubriachi; o i morosi che non riuscivano a tornare a casa. Nell’era scientifica delle spiegazioni era la personificazione delle esalazioni frequenti nell’ambiente sapropelitico di palude.

- Sapro...che?Il sapropel è il fango nero che si depo-

sitava sul basso fondale della palude, sotto l’acqua stagnante e povera di ossigeno. Un tempo veniva chiamato còro. Le esalazioni del còro, probabilmente, avevano l’effetto di offuscare la coscienza. Si diceva che il matzariol ce l’avesse con gli ubriachi, per-

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ché l’alcol a sua volta offuscava la coscienza degli uomini; qualcuno dice che ce l’aves-se anche con le donne la mattina presto, quando andavano a messa e si fermavano a chiacchierare e pareva che non riuscissero più a trovare la strada di casa.

La umiera, invece, era una specie di fiamma, una luce a mezz’aria che si scor-geva transitando vicino ai fossi, pieni di stoppie e di canne palustri, e che seguiva il malcapitato per tutto il suo percorso fino a casa. Per non irritarla bisognava prose-guire adagio e altrettanto adagio entrare in casa; se, presi dal panico, ci si precipitava di corsa e ci si buttava dentro l’uscio ri-chiudendolo in fretta, la fiamma era capa-ce di lasciare l’impronta delle cinque dita di fuoco sulla porta.

La scienza, noiosa, ha tolto poesia alle umiere e dice che erano i fuochi fatui do-vuti alla fermentazione delle stoppie in acqua stagnante, alla catramizzazione dei

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residui organici depositati sul fondo mel-moso del còro.

In molti casi bastava un po’ di coraggio per vincere la paura e scongiurare il dispet-to causato da questi folletti: era sufficien-te aspettarli di notte, magari andare loro incontro senza paura... e così si scopriva che si erano scambiate per umiere i riflessi della luna sull’acqua interrotti dai canneti o quelli su di un vetro incastrato sul muro della stalla.

’A ùia co i sete... Ma non siamo qui per dei banali “folletti”, noi vogliamo parlare della maramàcoea, che era qualcosa più di un aspirapolvere. No, signora, non una scopa elettrica che lava anche la moquette! La maramàcoea era qualcos’altro, un mo-stro la cui mitologia aveva radici antiche, un malessere indescrivibile, una sensazio-ne per la quale non esistevano parole, che solo col tempo era divenuta figura più tan-gibile, anche se ugualmente sfuggente.

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- Sì, ma quanto indietro bisogna anda-re nel tempo? Se i nonni di oggi citano i loro nonni, dobbiamo andare indietro almeno di un secolo e mezzo, a prima che le nostre zone venissero bonificate.

Prima forse dovremo spiegare che “bo-nifica” è parola che significa “rendere buo-no”; per coloro che fecero le bonifiche non era buono ciò che c’era prima. Ma questo è il termine usato da chi intese sfruttare a proprio vantaggio un territorio che ave-va le sue peculiarità e le sue difficoltà, nel quale una popolazione già esistente aveva trovato modo di sopravvivere, anzi, di vi-vere. Da quando? Da prima che nascesse Venezia sulle isole di Rivo Alto. C’è chi dice 3000 anni fa, altri addirittura 12000 anni fa.

Perciò il termine più corretto, forse, non è “bonifica”, ma “modifica”: la “mo-difica del Basso Piave”. Manca una storia che racconti per bene la “modifica del Bas-

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so Piave”. Che territorio era il Basso Pia-ve duecento anni fa, quattrocento anni fa, mille anni fa, duemila anni fa?

Sappiamo che era terra di palude; e di palude fu la civiltà che si sviluppò su que-ste terre-acque.

Non era civiltà fluviale, anche se era at-traversata dal Piave. Ma il Piave, ancora nel V secolo d.C., non si sa bene quale percor-so avesse, qualche storico lo confonde col Sile: il continuo cambio di letto, così come succede a certi uomini, non gli conferiva una identità sicura; insomma è probabile che il Piave fosse stato un tempo il Piavon (=il Piave di una voltóna), il Grassaga, il Bidoggia, il Piveran. In questa zona il Pia-ve, coi suoi nomi e i suoi vari letti, quasi si fermava, perché ci si stanca a passare da un letto all’altro, e si faceva palude. E la palude è terra di mimesi.

- Di... mimesi?Di mimetizzazione.

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In questo ambiente di palude gli abitan-ti impararono a fondersi nel paesaggio e col paesaggio, per resistere e sopravvivere al passaggio dei barbari che venivano dalle montagne e dalle steppe; e fin dalla notte dei tempi impararono a muoversi tra valli e barene dove le navi della civiltà costie-ra non potevano muoversi. Imprendibili a queste e a quelli, gli abitanti svilupparono una loro civiltà di palude.

Anche in altre parti d’Europa troviamo dei Veneti, gli Èneti o Heneti: sono qua-si sempre popolazioni che vivono in zone paludose o hanno a che fare con l’acqua, guarda caso.

Anfibi risultarono gli abitanti che vi-vevano tra terra e acqua, che costruirono case, anzi casoni, su palafitte, e per lunghi periodi dell’anno impararono a vivere iso-lati, uomini-palude a loro volta, in grado di sopravvivere in quest’ambiente solo aiu-tandosi reciprocamente.

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- Quand’era?Chi lo sa! Il tempo degli abitanti della

palude non aveva l’orologio che poi eb-bero i Veneziani. Ma in origine le storie coincisero.

Gli abitanti della zona di Oderzo, per sfuggire alle frequenti incursioni barbari-che, si rifugiarono all’interno dell’arcipe-lago di isole esistenti a quel tempo nella palude e, in principal modo, sull’isola di Melidissa, dove nacque Civitas Nova He-racliana. Lì si insediò il primo doge che governò il territorio.

Anche le popolazioni di Altino e di al-tre aree dell’entroterra fuggirono dalle loro zone per lo stesso motivo, e si rifugiarono su Rivo Alto, su Malamocco e su altre isole lagunari, e qui con l’andar del tempo creb-bero più in fretta.

A quel punto, al doge risultò convenien-te spostarsi dalla palude alla laguna, per una gestione più diretta del territorio. Fu

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così che il quarto doge ebbe come nuova residenza la nascente Venezia, mentre lo storico centro di Civitas Nova Heracliana pian piano decadeva, tornando ad essere la zona dove semplicemente viveva la gente di palude.

La mentalità dei Veneziani conservò inizialmente qualcosa dello spirito solida-ristico della gente di palude. Ma, in segui-to, Venezia si fece patrizia e oligarchica, diventando nel frattempo una delle più grandi potenze mercantili.

E fu così che la sua forza fu anche la sua debolezza: il commercio che le permetteva una sempre più grande ricchezza, le fece anche perdere la sua natura originaria di società solidale. Nell’immaginario degli uomini di palude era ben viva la corru-zione di atteggiamento nel modo di vivere dei veneziani. “Veneziano”, talvolta, nel linguaggio della gente di palude, assume-va il significato di ‘grullo’, ‘incapace’. “Ma

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situ venezian?” significava “sei distratto, pasticcione...” Più recente è il significato di “parassita” o “incapace di adattarsi al contesto”.

Nella palude, invece, il tempo era rima-sto quello degli antichi. E anche il calenda-rio aveva conservato i ritmi arcaici, con le sue tre stagioni propriamente riconosciu-te: la vèrta che corrisponde grosso modo alla primavera, el pièn de ’a stajón, l’estate, el seràr de ’a stajón, l’autunno.

- E l’inverno?Il tempo dell’inverno non era ‘contato’,

se non come la “non-stagione”. L’anno si chiudeva alla fine di ottobre,

al 28 ottobre, con la festa di San Simone, notte nella quale uomini e donne, rigoro-samente divisi per il resto dell’anno, pote-vano festeggiare tutti insieme: in quell’oc-casione anche le donne bevevano vino e, meno abituate a reggerlo, si ubriacavano subito: a San Simión ’e fémene ’e va tute de

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rebaltón.2

Poi ci sarebbero stati i mesi durante i quali non si sarebbe prodotto alcunché, la terra non avrebbe donato nulla e gli uo-mini si sarebbero arrangiati con quanto avevano messo da parte. L’unico dono che l’uomo poteva ancora avere era il fuoco. A metà della stajon morta, nel momento più freddo dell’anno, cioè a metà gennaio circa, si accendeva allora il panevìn, che era un grande falò di ringraziamento alla terra per i suoi doni e sul quale si bruciavano canne, sterpaglie e anche cose da buttare3. E ci si scambiava i doni: era una sorta di riequilibrio tra chi aveva conservato di più

2 L’odierna Halloween si avvicina, per molti aspetti, al-l’antica festa di San Simone, e par quasi ne abbia copiato alcune particolarità.

3 A dire il vero, non erano tutti dello stesso tipo i fuochi dell’inverno. In altri luoghi che non fossero la palude essi avevano il significato di ‘restituzione alla madre terra dei suoi doni’, nel tentativo di ingraziarsela e propiziarsene il favore perché li riconcedesse di nuovo. Avevano anche lo scopo di stornare il buio della notte, e con questa il buio dell’anima.

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e chi di meno4. Accendere il panevìn era un modo per dimostrare la propria gra-titudine alla Divinità che aveva donato il fuoco all’uomo per rendergli agevole il sostentamento; aveva anche il significato simbolico di un auspicio per il risveglio della terra, in attesa del prodigio, la vèrta; già, perché l’avvicendarsi delle stagioni e il ritorno della vèrta, la rinnovata apertura primaverile della terra alla vita, non erano così scontati, bensì una meraviglia che si rinnovava ogni anno; e perché il prodigio riaccadesse anche gli uomini dovevano metterci del loro.

Il panevìn era un palo, il simbolo ma-schile per eccellenza, simbolo di sostegno e di supporto alla continuità del ciclo na-turale della vita.

Per la tradizione romana, anch’essa coi suoi falò, la catasta e tutto l’insieme ave-

4 Dunque i doni venivano scambiati al panevìn e non a Natale.

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vano invece forma di donna, ’a vecia, un simbolo femminile e, soprattutto, negati-vo, e veniva bruciata alle idi di marzo.

In epoca cristiana tutto venne reinter-pretato: il fuoco del panevìn si confuse con quello della festa dell’Epifania e la sua festa venne anticipata di una settimana, anche se qualcuno continuò a festeggiarla pure la settimana dopo, all’ottavario; la vecia non venne più bruciata alle idi di marzo, o alla metà del periodo quaresimale, ma venne festeggiata anch’essa la vigilia dell’Epifa-nia, e fu così che diventò la Befana, una vecchia brutta e trasandata, e tuttavia figu-ra positiva, che portava i doni ai bambini.

Simboli e significati si sovrapposero l’uno all’altro e si fusero. E in questo modo si confusero molti degli aspetti originali delle tradizioni che ci vengono riportate, talora in maniera approssimativa.

Esattamente quello che accadde alla maramàcoea.

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Che, senza dubbio, è legata alle Fiere di San Donà. E proprio come le Fiere ha su-bìto una sua lenta, pacifica evoluzione.

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II ATTO

La scena è stata cambiata e sono state create delle bancarelle da fiera.

La Fiera di San Donà, vecchia di secoli, si innestava sulla vita regolare degli uomini di queste zone nel preciso momento del-l’anno in cui era opportuno pensare alle necessità della nuova stagione produttiva avendo sotto gli occhi gli esiti di quella che stava terminando: in previsione dell’inver-no si compravano crìgoe1 e carèghe; oppu-re si comprava un caretel2 (ma raramente,

1 Le crìgoe sono oggetti simili a cesti di vimini dalla ma-glia larga, che venivano posizionati capovolti sopra delle pietre: dentro veniva messa la chioccia, la quale pertanto non poteva allontanarsi; i pulcini, invece, grazie al rialzo delle pietre, avevano lo spazio sufficiente per uscire e an-dare a becchettare in giro senza allontanarsi troppo dalla chioccia.

2 Il caretèl è una botte di 50/100 litri che poteva essere trasportata appunto con un carretto.

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perché era una cosa costosa), un sot spina3, un contzét4, un candoìn o na càndoea, el tzest che si era rotto, un triveìn, el fero da tzerci, na tzapa o un faltzìn che si sareb-bero consumati durante l’anno, una forca che si era rotta... Erano accessori essenziali e necessari sia per l’ambito domestico sia per l’ambito lavorativo, tutti attrezzi che si sarebbero potuti trovare solo alla fiera.

Oppure si andava alla fiera per conosce-re quali fossero le ultime novità: el schin-tzapatate, ’a machina da poenta, el miniòt5, ’a catza a busi granda e idièra, de umìnio... Alla ricerca di queste cose spuntava la ma-ramàcoea.

3 Il sot spina è un bigoncio basso e largo, con le pareti più alte da una parte: la parte più bassa veniva infilata sotto la botte, quella più alta fermava lo zampillo che usciva dalla spina.

4 Un contzét è un contenitore di legno, stretto e alto, dove si amalgamavano gli ingredienti chimici che servivano per contzàr e travasare il mosto.

5 Il miniòt è il pentolino di alluminio.

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La maramàcoea si legava dunque all’at-tesa di comprare qualcosa che serviva per l’inverno a venire6.

Tra gli appuntamenti oggetto di aspet-tativa, nelle varie tappe della fiera, oltre ai banchi dei folpi, vi era il baraccone dove si esibivano gli acrobati: maramàcoea era anche andare a vedere i salti7.

Un poco alla volta questo spirito di ma-ramàcoea, che si poteva sperimentare (nel senso di provare, misurare, osservare per-sonalmente) alla Fiera del Rosario, la più importante del Basso Piave, l’unica, con le novità dei baracconi, divenne esso stesso manifestazione degna del baraccone: alle fiere di San Donà, in qualche baraccone, ci

6 In tempi moderni, come ha raccontato uno degli in-tervistati più giovani, anche i calzetti acquistati alla fiera erano una delle caratteristiche della maramàcoea.

7 Andare a vedere i salti era tuttavia qualcosa di diverso dall’assistere a un circo equestre: il cavallo infatti non era una novità, faceva parte dell’esperienza lavorativa quotidia-na.

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doveva essere posto per la maramàcoea... Ma non si sapeva bene che forma aves-

se. Chi l’aveva vista raccontava del suo

corpo enorme, dal collo lungo, una testa difficile da rappresentare, due occhietti e una grossa bocca, “do àe de bràtzi che ’e ’ndéa da i Sabióni a ’l tzimitero”, cioè dalla zona attuale delle scuole a dov’era il cimi-tero una volta, vicino al Don Bosco, e “na coda eónga”, anzi, “tante code che ’e rivéa da tute ’e bande”.

La maramàcoea doveva avere quindi l’aspetto di una creatura mitologica o di un animale preistorico. Enorme e tuttavia docile, che mangiava... Cosa mangiava? Nessuno ha mai saputo dire. Mangiava conigli! No, anatre; insomma, pollame in genere... Ma scherzi? Pesce! mangiava so-prattutto pesce... Mangiava quello che si trovava alla Fiera. Chi si divertiva a spa-ventare i bambini affermava che la ma-

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ramàcoea mangiava anche bambini... La maramàcoea però, più che mangiare,

beveva, anzi, pescava “so ’a Piave e ’a véa na códa eónga che ’a ndéa a sbàtar fin scuasi da el bacìno de ’l silo, dàea Calvecéta e par ndàr Noénta; insóma, ’a ghe rivéa ’a vegnér da par tut!!!”

Arrivato il tempo della Fiera di San Donà, da tutti i paesini dei dintorni i con-tadini, ma soprattutto quelli di palude, si ricordavano l’un l’altro il grande appunta-mento: «Domàn vae àea fiera... vae a vedar ’a maramàcoea!»

Chissà come era arrivata: con carri, ca-valli, barche... Negli anni più recenti, ai tempi delle ultime generazioni che ebbero la ventura di conoscere la maramàcoea, la creatura arrivava addirittura con il treno, anzi, aveva tutto un vagone o una serie di vagoni fatti apposta per lei. Alla stazione del treno il vagone veniva staccato e veniva trascinato a mano presso uno dei baracco-

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ni della fiera. Lì la maramàcoea veniva fat-ta scivolare giù dal vagone e fatta entrare nel baraccone per essere visitata e ammira-ta dai sandonatesi, che però non ricordano di averla mai vista!

- Ma le creature mitologiche non viag-giano in treno!

Forse no, ma è da quando ci si è messi a cavillare su queste inezie che la bellezza dei racconti di un tempo ha cominciato a spa-rire. Quante delle “nostre” cose ci siamo persi un poco alla volta per non aver più voluto crederci... Un tempo, quando ci si credeva, queste cose esistevano veramente.

E poi dobbiamo ricordare che i sando-natesi non sono gente credulona, non gli si può far prendere fischi per fiaschi: se an-davano a vedere la maramàcoea nel capan-none, vuol dire che la maramàcoea c’era... anche se poi non la vedevano. Ma la im-paravano sperimentandola, così come si impara “el stamp da saeàmi”, che uno non

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capisce bene com’è fatto finché non lo va a prendere almeno una volta nella vita. E mi spere che qua no ghe sia nissun che lo à provà pì de na volta...

- Perché?Perché non esiste lo stampo per i salami,

e se ci andavi anche la seconda volta vole-va dire che non era bastata a “svegliarti” la fatica che avevi dovuto sopportare per trasportare le pietre pesanti che ti avevano rifilato nel sacco...

Alle Fiere, dunque, tutti partivano e an-davano in cerca della maramàcoea... ma proprio quell’anno il vagone col misterio-so animale non era arrivato, o il capanno-ne era stato preso d’assalto e non si era riu-sciti ad entrare. Insomma, quelli che non riuscivano a vedere la maramàcoea erano la maggioranza. Ma, alla domanda se l’ave-vano vista, tutti rispondevano di sì, loro l’avevano vista, di sfuggita... Del resto, per vederla, come dicevano i vecchi per met-

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tere alla prova l’accortezza dei bambini, bastéa métarghe un gran de sal sot a coda... “Svéjate, bauc!” “Lei” era proprio com’era stata descritta. Se non aveva la coda magari gliel’avevano tagliata... O calpestata?

Chi, deluso, non l’aveva proprio vista, ma neanche da lontano, ma neanche sfio-rata, nemmeno si azzardava a chiedere co-m’era, per non rivelar che non l’aveva rico-nosciuta, ma si riprometteva in cuor suo di aspettare un altr’anno, la prossima fiera. Mica stupidi i sandonatesi! Se non sanno una cosa stanno zitti, loro, e fanno finta di saperla. E aspettano il prossimo anno8.

8 Esattamente com’è successo qualche anno fa, alla festa dei capponi il 7 agosto, durante il patto d’amistà, quando qualcuno dal palco ha spiegato al pubblico che tra Musile e San Donà ovviamente deve esserci “amistà” non un giorno solo, ma 360 giorni all’anno; ebbene, ‘i sandonatini’, per non far la figura di quelli che non sanno quali sono i cinque giorni (o sei negli anni bisestili) in cui c’è odio tra loro e i musilensi... o è più corretto ‘mussilensi’? Comunque, sono stati zitti, immobili per non dar nell’occhio, hanno fatto tutti finta di sapere quali sono i cinque giorni terribili. E an-

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- Ma allora cos’era? Una bestia in carne e ossa?

E no! Piuttosto uno spirito con la coda che si incontrava nella confusione della folla durante la fiera, una spirale che si im-padroniva dei corpi, in particolare dei cor-pi distratti dei bambini che non tenevano per mano i genitori.

Si potrebbe definire la maramàcoea come la sensazione che provoca su di noi la ressa che ci sta attorno. Ma non è abba-stanza preciso. In effetti è una sensazione difficile da comunicare. Era una di quelle cose che puoi capire solo se le provi. Pen-

ch’io, che ero presente, vedendo che tutti avevano l’aria di sapere, non volendo sembrare l’unico che non sapeva, non ho osato alzare la mano per chiedere quali erano i cinque giorni, per paura che i sandonatesi vicino a me mi guar-dassero con malocchio, come per dirmi «Ma come, brutto ignorante, non lo sai?!» E così tuttora non so quali sono i cinque giorni all’anno nei quali tra Musile e San Donà non c’è amistà, ma ogni volta che mi accorgo che sul ponte tira brutta aria, io torno indietro.

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siamo a...9 Come fai a spiegare cos’è a chi non l’ha mai provato? Come, signore, lei vorrebbe che tentassi di spiegarlo lo stesso? Qui, davanti a tutti? No, la prego, se lo faccia spiegare da quella bella signora che è seduta vicino a lei. Ma non qui, non ades-so.

Torniamo alla maramàcoea intesa come sensazione di disagio che solo chi aveva provato poteva dire di aver conosciuto. Doveva essere la sensazione di estraneità e disagio che avevano conosciuto le genera-zioni più in là nel tempo, gli uomini de el paeù, della palude, quelli che si isolavano tra le mùtere durante i mesi invernali e che nei secoli più antichi erano stati abituati a mimetizzarsi con la loro terra per sfuggi-re alle insidie che calavano da chissà dove; doveva essere la sensazione di spaesamen-to che essi provavano quando si trovavano

9 Il narratore si riferisce evidentemente all’orgasmo.

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improvvisamente in una situazione nuova e sconosciuta.

Nel caso della fiera era la sensazione di estraneità, la vicinanza di troppa gente estranea o forèsta attorno ai loro corpi, abi-tuati a vivere radi e isolati dagli “altri”. Per dare l’idea, potrebbe essere paragonabile alla sensazione di chi si trova improvvisa-mente in territorio straniero, dentro una folla di cinesi che parlano tra di loro solo la propria lingua, e premono e sgusciano da tutte le parti e non c’è possibilità di comu-nicazione con nessuno, e il colore, l’odore, l’umore di ciascun individuo, dell’intera folla – non ci sono più individui in quella folla, c’è solo la folla – risultano estranei, inquietanti...

- Ah, ma se è per questo, basta andare a Venezia, sulla Strada Nova che mena a San Marco, quand’è affollata di cinesi e giapponesi!

Ecco, la maramàcoea era procurata o

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prodotta dalla sensazione di oppressione che prendeva quelli della palude quando si trovavano catapultati in una situazione differente da quella ordinaria. Non pren-deva gli uomini nelle situazioni di folla già conosciute, nelle processioni del Ve-nerdì Santo o del Corpus Domini o della Madonna del Colera, ad esempio. No, li prendeva alla Fiera, quando venivano per mangiare folpi e s-ciosi. Cosa? Come dice, signore? Oh, ha perfettamente ragione, non s-ciosi, ma bò... a proposito, come si chiamavano un tempo, bòboi o bòvoi?

La maramàcoea era una sorta d’incan-to e di oppressione, ma non era né l’uno né l’altro: rivelava l’esistenza di un mondo e di un’umanità “densa” e mai vista, che improvvisamente ti stava addosso e, avvol-gendoti, sembrava includerti e colmarti, assorbendoti.

Di certo tra i bòboi, i folpi e quel che ’ndea drìoghe... vi lascio immaginare che ratza de

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fràcoea che se ingruméa quei che ’ndea a ’a fiera! E te pol inmaginar che fadiga che i féa a contàrla dopo... E gli altri cosa potevano capire?

Abituato all’ambiente di palude, che non prevedeva mai grossi assembramenti, allorché si trovava in un ambito urbano, e soprattutto nella ressa, l’uomo di palu-de non era intralciato soltanto nell’andare, nel movimento fisico, ma era privo di una consapevole relazione diretta con l’esterno. Lì alla fiera, la relazione che egli si trova-va a vivere era completamente diversa da quella che viveva solitamente. Usando pa-role difficili, potremmo dire che si trovava a sperimentare una ‘asimmetria nei para-metri relazionali’ con i quali si muoveva quotidianamente.

Una delle cause di questa asimmetria, al di là della ressa, era la visione della con-trattazione dei beni, il mercato. L’uomo di palude, estraneo al concetto di proprietà,

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trovava astruso il fenomeno del comprare e del vendere, perlomeno estraneo ai suoi parametri. La legge universale della gente di palude era in tutti i frangenti “el jutarse e darse na man!” Spontaneamente l’uomo di palude tendeva a mettersi al servizio della realtà umana e naturale che lo circondava.

Per tale ragione i Veneti, in particola-re i Veneziani, ma sarebbe corretto dire coloro che giungevano dall’ambito di pa-lude, sono ancora visti come “i servi”10. Eppure anticamente il loro era un servizio reso spontaneamente, non venduto. L’uo-mo di palude non si vendeva, si metteva spontaneamente al servizio non solo della comunità, ma di tutto il complesso mon-do vivente del quale si sentiva parte viva. L’uomo di palude posponeva all’esistente, alla realtà esterna, perfino la propria vita perché il suo concetto di vita non prescin-

10 Basti pensare a tutti i film neorealisti.

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deva da nulla di ciò che esisteva; la sua vita non era in antitesi ma in simbiosi con l’ambiente: era l’ambiente stesso11.

E anche il termine “morte” per l’uomo di palude non aveva lo stesso significato che hanno i termini “inanimato” o “iner-te”: la “morte” non era “il nulla”, era, se così si può dire, una fase della vita, la quale prevedeva il ritorno alla propria origine e al proprio fine.

E la “vita” non si identificava con la vita del singolo individuo, ma era qualcosa che “toccava” più generazioni.

11 È l’economia mediterranea, nella sua evoluzione poi passata nella società di tipo occidentale, e oggi estesa a livello “globale”, quella per cui, a fronte di un pagamento, ognuno può diventare proprietario di qualcosa; questo comporta anche la ‘proprietà del lavoro’: “io ti assumo, ti pago e, con questo, sono proprietario del tuo lavoro, della tua mano-dopera; la tua produzione non è più tua, ma dell’azienda o della persona giuridica che ha organizzato tale produzio-ne...” Scivolando nell’ambito religioso, possiamo notare che è proprio questo uso del denaro nella compravendita che trasforma la carne intesa come realtà sacra (soma) in carne intesa come merce-peccato (sarx).

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Attualmente una persona esiste in modo economicamente ‘attivo’ solo quando è nel pieno possesso delle sue facoltà produtti-ve: prima dei trent’anni “si prepara” e la sua inesperienza è ritenuta quasi un han-dicap per la sua assunzione; similmente, con l’avanzare dell’età le sue capacità di-minuiscono e per questo la sua prestazione lavorativa viene meno apprezzata.

Ben lontano da questo era il modo di pensare della gente di palude.

Una volta, infatti, fin da quando move-va i primi passi il bambino era considerato organismo attivo di questo mondo; appe-na aveva facoltà di ragione gli venivano assegnati semplici compiti adatti a lui o attrezzi costruiti apposta per lui; egli esiste-va dunque da subito, anzi, aveva iniziato a esistere fin da quando i nonni avevano cominciato a procreare, perché già allora essi si erano proiettati nella generazione successiva a quella dei figli. E quando il fi-

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glio del figlio finalmente era nato, tutto gli era stato messo a disposizione, egli era già qualcuno che si muoveva assieme al resto; e il territorio stesso lo avrebbe “formato”, non tanto attraverso un’istruzione codifi-cata, quanto attraverso la catena di espe-rienze date dalla vita stessa.

Crescendo a contatto coi nonni, egli im-parava e sapeva che avrebbe messo al mon-do dei figli che ancora avrebbero messo al mondo dei figli, e si proiettava a sua volta sui nipoti: a loro avrebbe fatto vivere e sen-tire ciò che i suoi nonni avevano trasmesso a lui. Questo ‘trasportarsi’ nella temporali-tà coinvolgeva quindi cinque generazioni, e spesso, come in una catena, la prima, la terza e la quinta portavano lo stesso nome e tutte e cinque i medesimi valori, nel con-tinuum rappresentato dalla stessa palude, prima che venisse “bonificata”.

La mancanza del senso della proprie-tà individuale non impediva all’uomo di

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palude di ammettere l’esistenza di un re, ovvero la supremazia di qualcuno sugli altri, ma questa supremazia non era mai data dal mercimonio, semmai dalla lotta; la prevalenza del più forte avveniva in ogni caso “per volere di Dio”: da sempre, per volere divino, il più forte comanda, si spo-sa, si riproduce; ma questa supremazia non è comperabile.

In ambito famigliare la supremazia era detenuta dal parón de casa, colui al quale era affidata la gestione dell’intera famiglia, che poi erano tre o quattro nuclei familia-ri, forse più, dei nostri attuali. Il “paron de casa” godeva di distinzione anche in ambi-to sociale: ad esempio, poteva tranquilla-mente farsi vedere al mercato dal proprie-tario dei terreni che lui coltivava, mentre il fratello suo, ad esempio, doveva stare attento a non farsi vedere troppo in giro, per non dare l’idea che la famiglia non fosse abbastanza lavoratrice o produttiva,

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perché allora significava che “el paron de casa” non era in grado di gestire la casa e la famiglia. Solo alla fiera chiunque avrebbe potuto andare tranquillamente senza che nessuno avesse nulla da ridire... purché ci andasse dopo ver varnà ’e bèstie!!!

La fiera era veramente il luogo dove confluivano anche coloro che non si muo-vevano mai da casa.

E così, dopo quest’ultima digressione, o schivanèa de bisat, ritorniamo alla ma-ramàcoea. Del resto, tutte queste schivanèe son colpa della maramàcoea stessa, che ci è stata tramandata come qualcosa di on-deggiante, fluttuante, femminile, variante, instabile e fiottante, come lo può essere un’ancheggiante, liquida e incomprensibi-le femminilità. Scusate la poesia.

«Tiènte sempre duro, ben tacà, che ’a maramàcoea no ’a te porte via!!!» diceva al bimbo la mamma, di solito più dolce del papà, che preferiva essere più chiaro: «’Ara

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che, se te te perde, dopo te ’e ciapa, te riva un stramussón che ti, àea fiera, no te vien pì». In effetti c’era da aver paura in mezzo alla fol-la: il serpentone diabolico con la sua coda a schivanèe avvolgeva i corpi, soprattutto quelli dei bambini, e li faceva smarrire.

La maramàcoea si identificava nella fol-la stessa che occupava la strada principale di San Donà e le sue traverse, con la testa rivolta verso ’a Piave – gli occhietti era-no le più importanti “visioni” che ciascu-no poteva avere, addentrandosi nelle due principali piazze piene di gente – e la coda sembrava iniziare con la fila di gente che proveniva da tutti i territori circostanti, anche dai più lontani, poteva arrivare per-fino dal mare ma, in sostanza, acquistava sempre un’identità legata all’acqua dolce di palude.

Perciò sembrava venire dall’acqua.E difatti molti dicevano che era una crea-

tura sorta dall’acqua, che veniva dal fiume

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e si distendeva tra le strade di San Donà. Un possibile mostro di Loch Ness de ’e no-stre bande. Perciò, state lontani dall’acqua, bambini, via dall’acqua infida e torbida, ché può arrivare ’a maramàcoea a portarvi via. E via dalla folla, ’a maramàcoea, che vi può invischiare.

La creatura enorme, giunta dall’acqua, da ’l paeù, che un tempo era conosciuto come “il lago della Piave”, al tempo della Fiera invadeva le strade e le traverse di San Donà; si spingeva fino al ponte. Giungeva con la gente di quelle zone, che pertanto se la portava dietro, anzi, drento: senza nem-meno saperlo, la maramàcoea era dentro di loro. La presenza degli altri, della folla, la evocava.

Cribbio, se faceva paura la maramàcoea. Soprattutto ai bambini, che andavano alla fiera con la mamma, dolce, o col papà, burbero, e si sentivano trascinare da quella e da questo e a volte finivano per sentirsi

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trascinare da parti opposte e, nel tentativo di restar legati a tutti e due, finivano per perdere il contatto con tutti e due. “Dove situ, mama? Dove situ, papà?” Niente era più terribile che perdersi. Poi il bambino riusciva a recuperare una mano o l’altra, era in salvo. «Sta tento, scólta!» Per un at-timo aveva avuto una paura verde, la ma-ramàcoea l’aveva preso. L’aveva sperimen-tata. Ed era stato terribile.

E a furia di starci attenti, anno dopo anno, bonificate le paludi e cambia-to il mondo, a furia di riconoscerla sem-pre meno di generazione in generazione, nessuno sapeva più bene che forma e che aspetto avesse la maramàcoea. Solo i vec-chi rimanevano, che l’avevano vista. I vec-chi, sempre loro... Ma chissà se davvero l’avevano vista. Forse dicevano quello che avevano raccontato i loro nonni. Alla fine tutti vantavano che un qualche avo l’aveva vista. Ma nessuno, che io conosca, l’aveva

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vista direttamente.Da sensazione a effetto che si poteva

percepire come una bestia, da bestia a fe-nomeno da baraccone, da baraccone alla stessa fiera: lo scivolamento era stato pro-gressivo.

- Perciò non era possibile catturarla.Nemmeno con le parole... Tantomeno

nei tempi recenti. A baloccar coi termini si percepisce che la maramàcoea è femmina perché finisce per -a. Ma che cosa signi-ficava esattamente? MA-RA-MA: il suono della parola, l’onomatopea si dice, rive-la lo sgusciare sinuoso (a schivanèe) della bestia, come della berebétoea: be-re-be... destra-sinistra-destra. E così maramàcoea: ma-ra-ma... La maramàcoea perciò doveva assomigliare alla berebétoea d’acqua, anzi, a qualcosa di più grosso, ché la “a” è più larga della “e”, a na saeamàndra, sfuggen-te, viscida, scivolosa come un’anguilla: ’a é cofà el bisat... Per questo, forse, qualcu-

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no l’ha confusa con la bissabòboea, famosa di là della Livenza, dove dicono che era il vortice dei fiumi e dei canali, che era una donna-anguana la quale spariva in fondo al fiume, abbandonando mariti e figli, se se ne scopriva la natura vera.12

Ma a San Donà, dove scorre la Piave, la maramàcoea non fu mai una donna, tan-to meno una bella donna ché, se lo fosse stata, più di qualche maschiaccio avrebbe fatto qualche fatica in più per andare a in-contrarla, per poi vantarsi di averla vista, e magari posseduta, descrivendone con mi-nuzia fattezze e abilità...

«Quando andavamo noi squadre di ma-schi alla Fiera di San Donà, dove c’era il circo sotto il ponte, e di lì guardavamo in su, in alto, verso il ponte...»

Si vergognano i vecchi a usare le paro-

12 Dalle nostre parti, originariamente, la bissabòboea era la tromba d’aria che proprio sul fiume Livenza, o sui canali vicini, evidenziava maggiormente la sua potenza.

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le giuste, che non hanno, ma è ben diver-tente e gustoso il ricordo della sensazione, di quando loro guardavano in su, in alto verso il ponte, attraversato dalla folla che giungeva da Musile, da Croce, da Fossalta, da Meolo, e dal basso verso l’alto cercava-no cogli occhi la maramàcoea; cercavano la bestia, l’aspettavano fare capolino da sotto le sottane, tra le gambe; sì, era un di-vertimento cercare cogli occhi quale delle donne facesse scorgere la maramàcoea tra le gambe, il mostro che di sé riempie la mitologia dell’immaginazione maschile, il mostro allungato e misterioso che assomi-glia, per forma e movimenti, alla creatura mitica che invadeva e si offriva alla città tutta.

Doveva essere eccitante la vista della maramàcoea. Simile alla sensazione che prendeva chi s’avventurava nella folla si-nuosa e sgusciante... Sensazione che un tempo aveva fatto paura e “destabilizzato i

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parametri relazionali”.E i grandi che la vedevano, tornati a

casa, potevano poi vantarsi di averla vista, ma non potevano confessare ai più giova-ni di averla cercata cogli occhi; e ai piccoli mica si poteva spiegare esattamente dove la si era vista: alla Fiera, certo...

E così ai piccoli, e ai grandi che non l’avevano vista, rimaneva la voglia e la paura di conoscerla, di affrontarla... Forse a loro sarebbe capitato l’anno successivo. E avrebbero finalmente capito.

Prima o poi capiterà pure a noi di ca-pirlo per bene, noi che forse alla fiera del prossimo anno avremo l’occasione di ve-derla, magari sotto il ponte guardando in su; quest’anno purtroppo non l’abbiamo vista. O forse non la cercheremo neanche, perché la maramàcoea non esiste più e sia-mo troppo furbi per credere ancora a que-ste cose...

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Piantina elaborata da Franco