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UNIVERSITADEGLI STUDI DI ROMA TOR VERGATAFacoltà di Medicina e Chirurgia Sede I.R.C.C.S. Fondazione Santa Lucia LAUREA IN LOGOPEDIA PRESIDENTE: Prof. Giovanni Carlesimo TITOLO TESI Comunicazione Aumentativa Alternativa e autismo: un progetto a supporto della comunicazione e dell’interazione sociale. RELATORE: CANDIDATO: Laura Totonelli Claudia Fiacco CORRELATORE: Mariella Olla ANNO ACCADEMICO 2016/2017

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA

“TOR VERGATA”

Facoltà di Medicina e Chirurgia

Sede I.R.C.C.S. Fondazione Santa Lucia

LAUREA IN LOGOPEDIA

PRESIDENTE: Prof. Giovanni Carlesimo

TITOLO TESI

Comunicazione Aumentativa Alternativa e autismo: un progetto a supporto della comunicazione e dell’interazione sociale.

RELATORE: CANDIDATO: Laura Totonelli Claudia Fiacco

CORRELATORE: Mariella Olla

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

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“Essere autistici non significa non essere umani, ma essere diversi. Quello che è normale per

altre persone non è normale per me e quello che ritengo normale non lo è per gli altri. In un

certo senso sono mal “equipaggiato” per sopravvivere in questo mondo, come un

extraterrestre che si sia perso senza un manuale per sapere come orientarsi. Ma la mia personalità è rimasta intatta. La mia individualità non è danneggiata. Ritrovo un

grande valore e significato nella vita e non ho desiderio di essere guarito da me stesso.

Concedetemi la dignità di ritrovare me stesso nei modi che desidero; riconoscete che siamo

diversi l’uno dall’altro, che il mio modo di essere non è soltanto una versione guasta del vostro.

Interrogatevi sulle vostre convinzioni, definite le vostre posizioni.

Lavorate con me per costruire ponti tra noi.”

( Jim Sinclair, 1998)

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A Nonna, per avermi insegnato che “ci vuole così poco a farsi voler bene”.

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ABSTRACT

Questo lavoro è stato incentrato su un progetto di CAA che potesse supportare la

comunicazione e l’interazione sociale in un bambino con diagnosi di autismo. È stato quindi

avviato un intervento con l’obiettivo, in assenza di linguaggio verbale e con grandi carenze del

linguaggio simbolico, di fornire una modalità comunicativa funzionale al bambino (costituita

dapprima da un quaderno cartaceo di comunicazione e in seguito da strumenti Hi-tech),

focalizzando l’attenzione sugli aspetti psicosociali della comunicazione e intervenendo

soprattutto sugli ambienti di vita del bambino. Per una migliore programmazione è stato

somministrato il Social Networks in fase iniziale come strumento di valutazione globale di CAA

e successivamente per verificare gli obiettivi raggiunti. Ad un lavoro a casa, è stato affiancato

un intervento a scuola, dove l’organizzazione di laboratori ha permesso al bambino di

partecipare ad attività di condivisione di esperienze ed emozioni tramite l’utilizzo di strumenti

di comunicazione aumentativa alternativa.

This work has been focused on a AAC project in order to support communication and social

interaction in a young boy diagnosed with autism. The aim was to provide the kid with an

alternative as well as functional way to communicate (based on a notebook first, then on Hi-

tech devices); always taking into account either psychological and social aspects of

communication, and operating on his environment.

To better organize the therapy, a Social Networks was given firstly as general evaluation tool

and then to prove the goals.

Furthermore, the work has been supported by school laboratories that allowed the subject to

share experiences and emotions by using AAC tools.

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RINGRAZIAMENTI

Ho esitato molto prima di decidere di scrivere i Ringraziamenti. Poi un giorno una mia

amica e collega mi ha detto in confidenza “Se potessi ringrazierei solo me stessa per

avercela fatta, nonostante le difficoltà!”. Ripensando alle sue parole, ho capito che

avevo così tanto per cui ringraziare e che erano così tante le persone con cui avevo

condiviso questo percorso e questi anni, che non avrei potuto farne a meno.

Sento di dover ringraziare prima di tutto la Prof.ssa Totonelli, mia relatrice, per avermi

dato la possibilità di realizzare questo lavoro finale su ciò che più di tutto mi

affascinava: l’autismo. Ringrazio di cuore Mariella, per la pazienza e la dedizione che

ha messo in questo progetto e per avermi avvicinata al mondo della CAA.

Grazie alla mia mamma e al mio papà. Da loro ho appreso la lezione più grande: mi

hanno insegnato a cadere. Sì, proprio a cadere. Bisogna sapere come atterrare quando le

cose non vanno come ci saremmo aspettati. Loro mi hanno vista prendere la strada

sbagliata e hanno lasciato che capissi da sola dove andare, senza sentirsi delusi mai.

A mia sorella Flavia, la persona più coraggiosa che io conosca, per aver prestato un po'

di quel coraggio anche a me.

A Guido, mio complice, grande amore e migliore amico, grazie perché fa paura

crescere, ma farlo insieme è stata una meravigliosa avventura.

A Silvana e Giorgia, perché so che sempre, ovunque saremo, nel mondo, ci sarà

qualcuno in cui ritrovarmi quando mi sento persa.

A Giulia e Alessia, per la meravigliosa famiglia che siamo diventate.

A tutti i miei amici per aver riempito questi anni di vino e risate.

Ai miei colleghi, alla nostra “combriccola”, a loro devo un grazie speciale: nessuna

lezione o esperienza fatta in questi tre anni mi ha arricchita e cambiata quanto invece

hanno fatto loro. Mi hanno fatto scoprire un'amicizia vera e sincera, che non conosce

invidia né rancore, un'amicizia di cui sono capaci, forse, solo i bambini.

Infine il grazie più grande: ad Ale, per tutte le volte che è arrivato correndo ad aprirmi la

porta. Grazie per avermi fatta entrare, in punta di piedi, nel suo mondo.

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Indice

INTRODUZIONE ......................................................................................................................... 1

I. AUTISMO: UN QUADRO GENERALE .............................................................................. 4

1.1 Cenni storici .................................................................................................................. 5

1.2 Classificazione e criteri diagnostici ............................................................................... 9

1.3 Eziologia ..................................................................................................................... 12

1.4 Epidemiologia ............................................................................................................. 14

1.5 Modelli neuropsicologici ............................................................................................. 16

1.5.1 Teoria della mente ............................................................................................... 17

1.5.2 Deficit del controllo esecutivo ............................................................................ 21

1.5.3 Deficit di coerenza centrale ................................................................................. 23

II. LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE NELL’AUTISMO ................................................ 25

Linguaggio e comunicazione nello sviluppo neurotipico ............................................ 25 2.1

Caratteristiche della comunicazione e del linguaggio nell’autismo ............................ 38 2.2

Difficoltà nella comunicazione e interazione sociale .................................................. 41 2.3

2.3.1 Lo sviluppo delle abilità sociali nell’autismo ...................................................... 41

2.3.2 Comunicazione non verbale ................................................................................ 42

2.3.3 Le emozioni ......................................................................................................... 44

2.3.4 L’empatia ............................................................................................................ 46

III. LA COMUNICAZIONE AUMENTATIVA ALTERNATIVA NELLE DIFFICOLTÀ COMUNICATIVE ............................................................................................................... 48

3.1 La Comunicazione Aumentativa Alternativa .............................................................. 48

3.1.1 Strumenti e strategie di CAA .............................................................................. 50

3.2 Autismo e CAA ........................................................................................................... 55

3.2.1 Ricerche su Autismo e CAA ............................................................................... 57

3.2.2 Ricerche sulla comunicazione recettiva .............................................................. 57

3.2.3 Ricerche sulla comunicazione espressiva ............................................................ 59

3.3 Interventi a supporto della competenza sociale e linguistica ...................................... 60

3.3.1 CAA per la comunicazione recettiva nell’autismo .............................................. 63

3.3.2 CAA per la comunicazione espressiva nell’autismo ........................................... 66

3.3.3 Tecnologie assistive per lo sviluppo e l’utilizzo della comunicazione nell’autismo ......................................................................................................................... 67

3.4 CAA per il controllo dei comportamenti problema ..................................................... 69

IV. INTERVENTO DI CAA IN UN SOGGETTO CON DIAGNOSI DI AUTISMO .............. 72

4.1 Presentazione del progetto .......................................................................................... 72

4.2 Descrizione del caso clinico ........................................................................................ 72

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4.3 Valutazione della condizione iniziale.......................................................................... 76

4.3.1 Osservazione e colloqui iniziali .......................................................................... 76

4.3.2 Raccolta strutturata di dati: il Social Network ..................................................... 78

4.4 Selezione degli obiettivi .............................................................................................. 88

4.5 Creazione dei materiali ................................................................................................ 90

4.6 Intervento pratico sugli obiettivi individuati ............................................................... 96

4.7 Valutazione finale ....................................................................................................... 99

4.7.1 Risomministrazione del Social Network ............................................................. 99

4.7.2 Analisi qualitativa dei risultati .......................................................................... 101

4.8 Criticità ...................................................................................................................... 102

CONCLUSIONI ........................................................................................................................ 104

Bibliografia ................................................................................................................................. 21

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INTRODUZIONE

La comunicazione, dal latino communicare, “mettere in comune”, è il mezzo tramite il

quale è possibile portare noi stessi e il nostro mondo interiore a conoscenza dell’altro.

L'uomo attraverso modalità verbali e non verbali trasmette un flusso d'informazioni

attraverso un codice e un' intenzionalità condivisa. In situazioni di disabilità la capacità

di comunicare può essere compromessa limitando le attività e di conseguenza

restringendo la partecipazione sociale. Numerose patologie possono provocare

impedimenti nell'uso del linguaggio orale ma in questo lavoro abbiamo indagato in

particolare come affrontare il disturbo comunicativo e relazionale nella patologia della

Sindrome Autistica.

L’Autismo, o meglio definito Disturbo dello Spettro Autistico, è un disturbo del

neurosviluppo che ha esordio nei primi tre anni di vita e può essere accompagnato da

ritardo mentale lieve, medio o grave. La diagnosi di disturbo dello spettro autistico

viene fatta con riferimento alla classificazione internazionale dei disturbi mentali

attraverso il DSM, il Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che ad oggi è

alla sua quinta versione. (vedi se mettere una nota con qualche info in più sul dsm)

La triade sintomatologica dell’autismo è rappresentata da un'alterazione qualitativa nelle

aree dell'interazione sociale, della comunicazione e del comportamento.

Le persone con autismo possono avere difficolta nel linguaggio espressivo, nella

comprensione o nel recupero delle parole e trovano difficoltà nella comunicazione

interpersonale. L'uso del linguaggio come canale prevalente di comunicazione può in

molti casi rendere difficile l'interazione con la persona con autismo e disorientarlo; al

contrario, supportando il linguaggio con la gestualità e con modalità visive è possibile

costruire una migliore relazione. Nell'autismo il raggiungimento da obiettivi generali,

quali l'indipendenza personale e la responsabilità sociale, richiedono l'attivazione di

interventi volti a sviluppare le diverse aree del comportamento adattivo: la

comunicazione, le abilità quotidiane e la socializzazione (Sparrow, Ballla e Cicchetti,

1984; Balboni e Pedrabissi, 2003). Ciò implica attività di promozione delle abilità

sociali. del gioco, della comunicazione (espressiva e ricettiva), delle autonomie

personali e domestiche, oltre ai compiti di potenziamento cognitivo e lo sviluppo di

competenze scolastiche.

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2

Le caratteristiche della Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) e le necessità di

apprendimento dei bambini con DSA combaciano in molti aspetti. La maggior parte di

costoro ha una buona capacità di elaborazione visiva e la CAA si basa per la maggior

parte su stimoli visivi: immagini, parole scritte, fotografie sono più permanenti e di più

facile rielaborazione.

Questa metodica, in passato, è stata a lungo trascurata per supportare le persone con

autismo nel raggiungimento delle autonomie nei vari contesti di vita. Oggi permette di

aumentare, chiarire e migliorare le modalità di comunicazione attraverso qualsiasi

strumento, dispositivo, immagine, parola, simbolo o gesto.

Ma come approcciarsi all’utilizzo della CAA in modo specifico per l’Autismo? Con

questo progetto, nel tentativo di approfondire questa tematica, si siamo preposti di

programmare e attuare un intervento di CAA che potesse supportare la comunicazione e

l’interazione sociale in un bambino con diagnosi di autismo.

È stato quindi intrapreso l’intervento con l’obiettivo, in assenza di linguaggio verbale e

con grandi carenze del linguaggio simbolico, di fornire una modalità comunicativa

funzionale al bambino, focalizzando l’attenzione sugli aspetti psicosociali della

comunicazione, sull’importanza della famiglia nei processi decisionali e considerando il

ruolo delle barriere, dei supporti sociali e dei facilitatori (intervenendo soprattutto sugli

ambienti di vita del bambino).

Il primo capitolo della presente tesi rappresenta un ”quadro generale” , che a partire dai

primi studi sull’autismo arriva fino all’analisi e comparazione dei nuovi criteri

diagnostici presentati nella nuova edizione del DSM V, riassume i dati epidemiologici

più recenti, ne ripercorre brevemente le principali ipotesi eziologiche e descrive i

modelli neuropsicologici frequentemente associati all’autismo.

Nel secondo capitolo, partendo da quello che è l’uso e lo sviluppo tipico del linguaggio,

abbiamo approfondito le caratteristiche della comunicazione e del linguaggio

nell’autismo, con particolare attenzione agli aspetti socio-relazionali.

Il terzo capitolo, dopo un’iniziale definizione di CAA e dopo una breve panoramica

riguardo i principali strumenti e strategie, affronta un’analisi delle ricerche che hanno

indagato il potenziale supporto della CAA alla comprensione e all’espressione e le

principali tecniche aided per lo sviluppo e l’utilizzo della comunicazione nell’autismo;

infine ci siamo focalizzati sulle caratteristiche degli interventi di comunicazione rispetto

ai comportamenti problema.

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Il quarto capitolo riguarda nello specifico la realizzazione dell'intervento: nella prima

parte del capitolo sono esposte le caratteristiche generali del progetto e del caso clinico;

nei paragrafi seguenti sono descritte le fasi di valutazione del bambino e del suo

ambiente di vita, attraverso colloqui, osservazioni e somministrazione del questionario

“Social Nework”, e la successiva fase di definizione degli obiettivi; viene poi illustrato

l’intervento pratico sugli obiettivi individuati, in tutti gli ambienti di vita del bambino, e

il materiale appositamente creato.

Nella parte finale del capitolo vengono esposte le fasi della valutazione finale, in

particolare la risomministrazione del questionario e l’analisi qualitativa dei risultati

ottenuti, in cui sono descritti l’impatto che l’intervento ha avuto nella quotidianità del

bambino e i cambiamenti riscontrati nei diversi contesti di vita; sono riportate infine le

criticità dell’intervento.

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Capitolo I

AUTISMO: UN QUADRO GENERALE

L’autismo e i disturbi pervasivi dello sviluppo (DPS) sono disordini del neurosviluppo

con esordio nei primi anni di vita, caratterizzati clinicamente da: compromissione

qualitativa delle interazioni sociali; compromissioni qualitative della comunicazione;

repertorio limitato, stereotipato, ripetitivo di interessi e di attività [APA 2000; OMS

1992].

Il disturbo autistico (o autismo infantile) è incluso nel gruppo dei Disturbi Pervasivi

dello Sviluppo (DPS) insieme ad altre patologie quali: la Sindrome di Rett, un raro

(1/20.000) disturbo su base genetica associato a grave ritardo mentale; il Disturbo

Disintegrativo Infantile o Sindrome di Heller, estremamente raro (1,7/100.000) e

caratterizzato da un (iniziale) normale sviluppo fino ai 2 anni di età, seguito da un grave

deterioramento con decorso prototipicamente autistico; il Disturbo di Asperger, a

riconoscimento più tardivo, in genere caratterizzato dalla presenza di normali

competenze cognitive e linguistiche ma grave compromissione del funzionamento

sociale; infine, il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (DPS-

NAS), nel quale rientrano i casi che, per età di esordio o per assenza di alcuni sintomi

chiave, o anche per minore gravità clinica, non rientrano nelle precedenti categorie

diagnostiche.

Attualmente Autismo, sindrome di Asperger e DPS-NAS (disturbo pervasivo dello

sviluppo non altrimenti specificato) sono anche indicati come Disturbi dello Spettro

Autistico (Autism Spectrum Disorders, ASD).

Oltre alle tre caratteristiche principali (note come “triade sintomatologica”) esistono

altri aspetti riconosciuti come peculiari dei disturbi dello spettro autistico: l’esordio nei

primi anni di vita; il ritardo e/o l’atipia nello sviluppo di varie funzioni psicologiche;

l’eziologia multifattoriale in cui fattori genetici, ancora poco conosciuti, interagiscono

tra loro e con fattori ambientali; il cambiamento e la frequente attenuazione

sintomatologica durante lo sviluppo; un decorso cronico con una significativa

persistenza della disabilità nel tempo.

I disturbi dello spettro autistico rappresentano una condizione clinica estremamente

eterogenea. Il livello di funzionamento cognitivo e le abilità linguistiche sono i fattori

che maggiormente determinano la diversità clinica insieme ad altri fattori relativi all’età,

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alla gravità delle tre caratteristiche cliniche principali, alle condizioni mediche associate

(come l’epilessia) e alla comorbidità psichiatrica.

Relativamente frequenti questi disturbi colpiscono circa 1 bambino ogni 150 in tutti i

gruppi etnici e sociali, con una prevalenza maggiore nei maschi rispetto alle femmine in

un rapporto di 4:1.

Negli ultimi decenni sono stati compiuti notevoli progressi nell’interpretazione

dell’autismo e dei disturbi pervasivi dello sviluppo. I dati della letteratura più recente

suggeriscono che il Disturbo Autistico ha origine da fattori organici che interferiscono

nella fase dello sviluppo del Sistema Nervoso (SNC). Anomalie funzionali e strutturali

del SNC, indotte sia da processi statici persistenti che iniziano dallo sviluppo in utero,

sia da processi dinamici che si modificano nel tempo e continuano nel periodo di vita

postnatale, sembrano essere alla base delle complesse manifestazioni comportamentali e

cognitive di questi disturbi.

1.1 Cenni storici

Fino alla metà del secolo scorso il concetto di autismo e di pensiero autistico rimase

soprattutto un aspetto sintomatologico secondario o peculiare della schizofrenia,

prevalentemente legato al paziente adulto.

Il termine autismo deriva dal greco autòs , che significa sé, e fu inizialmente introdotto

dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler1 nel 1911 per indicare un sintomo

comportamentale della schizofrenia, ovvero un estremo restringimento delle relazioni

con le persone e con il mondo, fino alla totale chiusura in sé stessi.

Sia Kanner che Asperger osservarono gruppi di bambini che presentavano delle

caratteristiche comportamentali analoghe a quelle degli schizofrenici. Si comportavano

in maniera anomala e non riuscivano a instaurare con i coetanei delle normali relazioni

affettive, ma, diversamente dalla schizofrenia, questi comportamenti si presentavano fin

dalla nascita e non erano esclusivamente tipici di una patologia dell’età adulta.

Diversamente da quanto riscontrato nella schizofrenia, tale disturbo non era

caratterizzato da un deterioramento progressivo anzi, si sono potuti osservare dei

miglioramenti attraverso lo sviluppo e l’apprendimento (Frith, 1989).

Le etichette utilizzate prima di questi studi, come “autismo infantile precoce” o

“autismo infantile” non vengono più utilizzate in quanto l’aggettivo “infantile” ha 1 E. Bleuler, Lehrbuch der Psychiatrie, prima ed.tedesca 1916 (trad. it. Manuale di psichiatria, Feltrinelli, Milano 1967).

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generato una forte ambiguità della nozione, dando l’errata impressione che sia una

condizione limitata all’infanzia e che crescendo si possa guarire (Barale & Ucelli,

2006).

È solo nel 1943, con la pubblicazione degli studi di Leo Kanner, che si ha una prima

definizione di autismo come sindrome con qualità e caratteristiche proprie,

separatamente quindi dal grande gruppo delle schizofrenie.

Kanner, neuropsichiatra infantile austriaco, nell’articolo dal titolo Autistic disturbances

of affective contact riporta 11 casi di bambini, di età compresa tra i 2 e gli 8 anni, che

condividevano uno specifico, e precedentemente mai descritto, pattern di

comportamenti.

Fu lui quindi il primo ad ipotizzare l’esistenza della sindrome autistica e a descriverne le

caratteristiche sempre presenti e visibili, identificabili in un isolamento dalla realtà (non

fisico ma mentale), in un desiderio della ripetitività e nella presenza di particolari

‘isolotti di capacità’.

Kanner suggerì che si trattasse di un ‘disturbo del contatto’ a un livello profondo degli

affetti e dell’istinto, identificando in particolare come primi criteri diagnostici:

“l’isolamento autistico” e l’ossessiva insistenza alla ripetitività.

Egli aveva l’impressione che l’autistico avesse un’incapacità di base, una difficoltà

emotiva innata ad intrattenere contatti con le persone. Su queste basi concluse che

“dobbiamo accettare che questi bambini sono venuti al mondo con un’incapacità

congenita ad avere rapporti affettivi con le persone, capacità che è biologicamente

determinata”2.

Sulla base di questo errore di Kanner era stata sviluppata l'iniziale ipotesi che il

bambino affetto da autismo fosse neurologicamente sano, e che la causa dell'autismo

fosse individuabile solo in un ipotetico "rapporto inadeguato" con la madre. Per circa un

ventennio questa ipotesi, oggi ritenuta scorretta, ha dominato la scena clinica

internazionale, indirizzando spesso bambini e nuclei familiari esclusivamente verso

trattamenti di dubbia utilità terapeutica.

Hans Asperger, quasi contemporaneamente a Kanner, ma indipendentemente da lui,

utilizzò il termine autistichen psychopathen (Asperger, 1944) per definire un disturbo

che interessava una determinata popolazione infantile con sintomatologia in gran parte

2 Kanner, L., (1943), Autistic disturbances of affective contact, in “Nervous Child” n.2/1943, p.250.

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simile a quella descritta da Kanner per i suoi soggetti, ma con capacità cognitive

nettamente superiori.

I soggetti di Asperger erano caratterizzati da una forma di pensiero concreto,

dall’ossessione per alcuni argomenti, dall’eccellente memoria e spesso da modalità

comportamentali e relazionali eccentriche.

Asperger individuò però tre importanti aree nelle quali i suoi soggetti differivano da

quelli di Kanner:

1. linguaggio: i soggetti di Asperger avevano un eloquio scorrevole. Nei soggetti di

Kanner, invece, non si aveva linguaggio o esso non era usato in maniera

"comunicativa";

2. motricità: nella opinione di Kanner i bambini risultavano "impacciati" solo

rispetto a compiti di motricità complessa; secondo Asperger essi lo erano in

entrambi, motricità complessa e fine;

3. capacità di apprendere: Kanner pensava che i bambini mostrassero prestazioni

più elevate quando apprendevano in maniera meccanica, quasi automatica;

Asperger li descriveva invece come "pensatori astratti".

Nell'idea di Asperger e di Kanner ci si trovava, fin dalla nascita, di fronte a un disturbo

importante che implicava problemi estremamente caratteristici.

Nel ventennio successivo alle osservazioni di Kanner, anche grazie all'impostazione

teorica di quest'ultimo, furono le teorie psicodinamiche il principale punto di

riferimento nello studio dell'autismo.

Gli studi che confluiscono nell’approccio psicodinamico tendono ad individuare la

nascita dell’autismo infantile in una alterazione della relazione madre-figlio in una fase

molto precoce dello sviluppo. La teoria psicogenetica venne sostenuta con fermezza

dagli psicoanalisti, primo fra tutti Bettelheim (1967), secondo cui l’autismo, la cui

prima manifestazione è data da un’ interruzione della comunicazione con gli altri, è in

larga parte dovuto alla personalità dei genitori.

Fu lui a coniare il termine di ‘madri frigorifero’, di cui si servì per indicare quelle madri

il cui atteggiamento distante e freddo avrebbe costretto i figli a fuggire dal mondo

circostante e ad erigere una “fortezza difensiva”.

A partire dagli anni '60 però le critiche al modello psicodinamico, accusato di

colpevolizzare ingiustamente i genitori, si fanno sempre più forti.

La conferma che si stessero prendendo le distanze dalla tesi psicosi/schizofrenia fu

evidente alla fine degli anni '70, quando la principale rivista scientifica del settore

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cambiò il proprio titolo da Journal of Autism and Childhood Schizophrenia in Journal

of Autism and Developmental Disorders.

Molti ricercatori iniziarono a proporre definizioni più esplicitamente categoriali

dell’autismo e si giunse a un consenso circa la validità dell’autismo come categoria

diagnostica. In parallelo, in ambito psichiatrico, si stavano attuando molteplici tentativi

per fornire migliori definizioni dei disturbi psichiatrici a scopi di ricerca. In entrambi gli

ambiti si enfatizzò ulteriormente l’importanza di un approccio diagnostico multiassiale

o multidimensionale (Cohen, 1997).

Molti di questi sviluppi nelle definizioni sono stati incorporati nel DSM-III (APA,

1980), che rappresentò una vera inversione di tendenza nell’approccio alla

categorizzazione dei disturbi di origine psicologica. Il tentativo fu quello di “de-

psicopatologizzare” la nosografia, cercando di fondarla sempre meno sull’intuizione

delle essenze psicopatologiche e sempre più su criteri oggettivi, operazionali ed

epidemiologici. Il cambiamento fondamentale nel DSM-III (1980) è rappresentato

proprio dalla definitiva distinzione degli ambiti dell’autismo e della schizofrenia,

dall’introduzione concettuale dei disturbi generalizzati dello sviluppo (che

implicitamente segna una discontinuità anche con la tradizione psicogenetista delle

psicosi), e da una definizione criteriale dell’autismo infantile fortemente influenzata dai

lavori di Rutter (1974; 1978) che formalizza, riprende e sostanzialmente conferma

l’originaria descrizione di Kanner. Il passaggio fondamentale dal DSM-III al DSM-III-

R (1987) fu costituito invece dalla focalizzazione sulla prospettiva evolutiva.

Scomparve infatti l’aggettivo ‘infantile’ e l’‘autismo infantile’ diventò ‘disturbo

autistico’, tipicamente long life; scomparve l’equivoca nozione di autismo ‘residuo’ che,

alludendo all’ipotesi largamente illusoria di una ‘guarigione’ dall’autismo, mal

rappresentava i cambiamenti possibili nel corso dell’evoluzione; furono inoltre ridefiniti

(e allargati) i criteri di inclusione diagnostica che vennero incentrati sulla “triade di

Wing e Gould” (1979).

In Inghilterra, Wing e Gould (1979) enuclearono un insieme di caratteristiche oggi note

come la Triade dei sintomi autistici (disturbo qualitativo delle capacità di interazione

sociale; disturbo qualitativo delle capacità comunicative, linguistiche e non linguistiche

e delle capacità immaginative; repertorio ristretto e ripetitivo di interessi e attività) a cui

corrispondono tre diverse tipologie di persone affette da autismo:

a) Aloof (riservato)

b) Passive (passivo)

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c) Active but Odd (bizzarro)

I tre domini potevano variamente combinarsi, nei singoli casi, per gravità e peso dei

fenomeni clinici riferibili a ciascun dominio. Questa molteplicità di combinazioni

determina le variazioni, anche importanti, di un continuum (lo spettro dei disturbi

autistici più o meno ‘tipici’ e più o meno ‘puri’). Da allora la “triade di Wing e Gould”

definì i principali criteri diagnostici per il disturbo autistico e per le sue varianti.

1.2 Classificazione e criteri diagnostici

Come precedentemente accennato, nelle prime due versioni del DSM, il Manuale

Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, pubblicate nel 1952 e nel 1968, l’autismo

era classificato come un tipo infantile di schizofrenia.

Con il DSM-III (APA, 1980) è stata proposta l’espressione Pervasive Developmental

Disorders (PDD), per descrivere i disturbi caratterizzati da atipie nello sviluppo di

molteplici funzioni psichiche di base, che sono implicate nello sviluppo delle

competenze sociali e comunicativo linguistiche, come l’attenzione, la percezione e la

programmazione motoria.

L’aggettivo pervasive è stato scelto per sottolineare che, in questo disturbo, molte aree

di base dello sviluppo psicologico sono contemporaneamente alterate.

L’espressione Pervasive Developmental Disorders è stata tradotta in italiano come

disturbi generalizzati dello sviluppo (DGS) nel DSM-III, nel DSM-III-R (1987) e nel

DSM-IV (1994), e come disturbi pervasivi dello sviluppo (DPS) nel DSM-IV-TR

(2000); nell’ICD-10 (1992) come sindromi da alterazione globale dello sviluppo

psicologico.

Il DSM-IV-TR racchiudeva nei disturbi pervasivi dello sviluppo:

- Disturbo autistico

- Disturbo di Rett

- Disturbo disintegrativo dell’infanzia

- Disturbo di Asperger

- Disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato

Molto simile è la classificazione ICD-10 per le sindromi da alterazione globale dello

sviluppo psicologico, che include i seguenti sottotipi:

- Autismo infantile

- Autismo atipico

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- Sindrome di Rett

- Sindrome disintegrativa dell’infanzia

- Sindrome di Asperger

Nel 2013 è uscito il nuovo manuale diagnostico DSM-V che apporta numerosi

cambiamenti e nuovi criteri di diagnosi. I sottotipi presenti nel DSM-IV sono stati

racchiusi tutti in un’unica categoria chiamata Disturbi dello Spettro Autistico (ASD –

Autism Spectrum Disorders), ad eccezione della Sindrome di Rett posta tra i disturbi

neurologici.

I nuovi criteri proposti per la diagnosi del Disturbo dello Spettro Autistico (DSM-V)

sono (deve soddisfare criteri A, B, C e D):

A. Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell´interazione sociale in

diversi contesti, non spiegabile attraverso un ritardo generalizzato dello

sviluppo, e manifestato da tutti e 3 i seguenti punti:

1. Deficit nella reciprocità socio-emotiva: un approccio sociale anormale e

fallimento nella normale conversazione (in avanti ed indietro) e/o un ridotto interesse

nella condivisione di interessi, emozioni, affetto e risposta e/o una mancanza di

iniziativa nell´interazione sociale.

2. Deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati per l´interazione

sociale che vanno da una povera integrazione della comunicazione verbale e non

verbale, attraverso anormalità nel contatto oculare e nel linguaggio del corpo, o deficit

nella comprensione e nell´uso della comunicazione non verbale, fino alla totale

mancanza di espressività facciale e gestualità.

3. Deficit nello sviluppare e nel mantenimento di relazioni appropriate al livello di

sviluppo (non comprese quelle con i genitori e caregiver): difficoltà nel regolare il

comportamento rispetto ai diversi contesti sociali e/o difficoltà nella condivisione del

gioco immaginativo e nel fare amicizie e/o apparente mancanza di interesse nelle

persone.

B. Comportamenti e/o interessi e/o attività ristrette e ripetitive come manifestato da

almeno 2 dei seguenti punti:

1. Linguaggio e/o movimenti motori e/o uso di oggetti stereotipato e/o ripetitivo:

come semplici stereotipie motorie, ecolalia, uso ripetitivo di oggetti, frasi

idiosincratiche.

2. Eccessiva aderenza alla routine, comportamenti verbali o non verbali riutilizzati

e/o eccessiva resistenza ai cambiamenti: rituali motori, insistenza nel fare la stessa

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strada o mangiare lo stesso cibo, domande o discussioni incessanti o estremo stress a

seguito di piccoli cambiamenti.

3. Fissazione in interessi altamente ristretti con intensità o attenzione anormale:

forte attaccamento o preoccupazione per oggetti inusuali, interessi eccessivamente

perseveranti o circostanziati.

4. Iper-reattività e/o Ipo-reattività agli stimoli sensoriali o interessi inusuali rispetto

a certi aspetti dell´ambiente: apparente indifferenza al caldo/freddo/dolore, risposta

avversa a suoni o tessuti specifici, eccessivo odorare o toccare gli oggetti, fascinazione

verso luci o oggetti roteanti.

C. I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia (ma possono non diventare

completamente manifesti finché la domanda sociale non eccede il limite delle

capacità).

D. L´insieme dei sintomi deve compromettere il funzionamento quotidiano.

I principali cambiamenti rispetto le precedenti classificazioni sono relativi innanzitutto

alla nuova denominazione della categoria diagnostica: ASD, che include il Disturbo

Autistico, il Disturbo di Asperger, e il DGS-NAS.

Le motivazioni di tale scelta sono date dalla buona attendibilità e validità della

differenziazione tra ASD, sviluppo tipico e altri disturbi dello sviluppo mentre la

distinzione tra i sottotipi dei DGS è risultata essere spesso inconsistente nel tempo e

variabile nei differenti centri clinici. Più di frequente, infatti, la si è associata alla gravità

sintomatologica, al livello linguistico e a quello intellettivo piuttosto che alle

caratteristiche clinico-diagnostiche specifiche dei differenti disturbi.

Poiché l’autismo è definito tramite una comune gamma di comportamenti, è sembrata

una scelta più idonea rappresentarlo come una categoria diagnostica singola

(dimensionale), che va adattata alla presentazione clinica individuale attraverso

l’inclusione di specificatori clinici (es. gravità, abilità verbali, ecc.) e caratteristiche

associate (es. disturbi genetici, epilessia, disabilità intellettiva, ecc.). Un disturbo

rappresentato come uno “spettro” (dimensionale) sembra essere una migliore

rappresentazione dello stato attuale della conoscenza degli ASD, sia sul piano

eziopatogenetico sia su quello della presentazione clinica.

Altro aspetto significativo della nuova categoria diagnostica è che i tre domini

sintomatologici diventano due: 1) deficit socio-comunicativi; e 2) interessi stereotipati e

comportamenti ripetitivi.

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I deficit nella comunicazione e nelle interazioni sociali sono considerati inseparabili,

costituendo un singolo set di sintomi con specificatori contestuali. Il ritardo del

linguaggio non è né unico né universale negli ASD e si preferisce considerarlo un

fattore che influenza la sintomatologia clinica. Infine la richiesta di almeno due sintomi

del dominio interessi stereotipati e comportamenti ripetitivi, migliora la specificità

diagnostica senza comprometterne la sensibilità.

1.3 Eziologia

Ad oggi, la causa dell'autismo non è stata ancora individuata con certezza ma è

condivisa l'idea che le basi del disturbo possano essere multifattoriali.

Soltanto nel 10-15% circa dei casi il disturbo è associato a malattie di natura genetica

note (e piuttosto rare): l'autismo si riscontra, ad esempio, nel contesto della sindrome del

cromosoma X fragile, della sclerosi tuberosa e della sindrome di Rett.

L'esatta eziologia resta sconosciuta nella maggior parte dei casi, anche se forti evidenze

scientifiche supportano l'azione sinergica di un substrato neurologico, una componente

genetica e di vari fattori ambientali.

Fattori genetici

Attualmente non è ancora stato individuato un marker biologico che permetta di

diagnosticare l’autismo ma risultati di varie ricerche hanno evidenziato un ruolo

centrale dei fattori genetici (Rutter, 2005). Questa certezza è stata dimostrata

principalmente dagli studi condotti su gemelli monozigoti e dizigoti (Bailey et al.,

1995). Da quanto emerso dagli studi di Bailey et al. (1995) , nei gemelli monozigoti vi è

circa il 69% di concordanza nelle manifestazione della patologia, a confronto del 5% dei

casi di gemelli dizigoti. Invece, il rischio di insorgenza nel resto della popolazione, è di

circa lo 0.6%. Confrontando i due dati si nota che la probabilità di insorgenza è più alta

nei gemelli monozigoti di circa 5-10 volte rispetto al resto della popolazione (Bailey,

1995). I geni forniscono un’alta predisposizione a sviluppare il disturbo ma che poi

viene influenzata da altri fattori ancora non del tutto compresi (Surian, 2005).

Alcuni risultati sui fattori genetici provengono anche da ricerche condotte sui genitori

dei soggetti autistici. Piven (2001) in una sua ricerca afferma che i genitori di più

bambini con autismo tendono ad avere delle caratteristiche tipiche dell’autismo come

deficit comunicativi, tendenza all’isolamento e la mancanza di amicizie strette ed

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intime. La somiglianza di comportamenti nei genitori e nei figli suggerisce una comune

base genetica anche se è difficile verificare se queste caratteristiche sono sempre state

presenti, o se, e in che misura, sono una conseguenza del fatto di avere un bambino

autistico (Frith, 1989,2003).

Questi studi hanno aperto le porte a successivi studi volti alla localizzazione dei geni

potenzialmente determinanti. Al momento sono stati individuati circa 25 differenti loci

che comporterebbero una predisposizione al disturbo (Bill, Geschwind, 2009). Non si è

giunti a risultati certi nelle ricerche probabilmente a causa della grande eterogeneità

genetica dei soggetti diagnosticati con autismo (Venuti, 2012).

Fattori ambientali

Qualsiasi fattore di rischio ambientale che può causare danni cerebrali precoci è da

considerarsi come potenziale causa non genetica dell’autismo, come ad esempio le

condizioni prenatali e le complicazioni alla nascita. Dal momento che una nascita

difficile può provocare problemi di ogni tipo, non solo l’autismo, non è annoverabile tra

le prime cause del disturbo in questione (Frith, 1989,2003). Tuttavia è certo che agenti

chimici presenti nell’ambiente intrauterino influenzino l’insorgenza dell’autismo

(Surian, 2005).

Le infezioni virali prenatali sono state identificate come possibili cause dell’autismo. I

disturbi virali attaccano il sistema immunitario della madre che a sua volta può infettare

il sistema nervoso centrale del feto causando un danno cerebrale permanente (Dalton,

P., et al. 2003). In particolare l’incidenza di autismo aumenta se la madre contrae un

virus durante i primi mesi di vita. I virus che sono stati individuati come fonte di rischio

sono il citomegalovirus e la rosolia, quest’ultima considerata la più rischiosa (Patterson,

2008).

In ogni caso, il solo fatto che una malattia preceda la comparsa di sintomi non prova che

essa sia la causa dell’autismo, per averne una prova dovrebbe essere necessario

considerare il meccanismo attraverso cui il virus entra nel cervello e provoca un danno

selettivo (Frith, 1989,2003).

Vi sono molte altre teorie e studi che cercano di individuare la causa o le cause

dell’autismo, ma per adesso non si è ancora arrivati ad una risposta certa.

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1.4 Epidemiologia

Negli ultimi anni si è assistito a un incremento delle stime di prevalenza dei disturbi

pervasivi dello sviluppo, così marcato da aver fatto parlare di una sorta di “epidemia di

autismo”. La questione è in realtà molto complessa, e nell’accostarsi a questo tema è

necessario considerare alcuni punti.

In primo luogo, è improprio parlare semplicemente di “autismo”, in quanto nell’ambito

dei DPS sono incluse patologie alquanto diverse: il Disturbo Autistico, la Sindrome di

Rett, il Disturbo Disintegrativo Infantile, il Disturbo di Asperger e il Disturbo Pervasivo

dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (DPS-NAS).

Un secondo punto importante da tenere presente nell’accostarsi agli studi

epidemiologici sui DPS è che in questi disturbi, di complessa valutazione clinica e

anamnestica, le diagnosi cliniche formulate in condizioni di routine possono avere bassa

affidabilità e validità. Solo nel 1988 ha iniziato a essere disponibile uno strumento

standardizzato di valutazione con accettabile attendibilità, la Childhood Autism Rating

Scale (CARS), e solo nel 1994 e nel 2000 sono rispettivamente state rese disponibili

delle interviste diagnostiche standardizzate con alta attendibilità e validità, la Autism

Diagnostic Interview-Revised (ADI-R) e la Autism Diagnostic Observation Schedule

(ADOS).

Sulla base delle precedenti considerazioni, si comprende come gli studi epidemiologici

di prevalenza possano fornire stime molto diverse. Per esempio, una revisione di 21

studi condotti in 13 nazioni nel periodo 1987-2000 ha riscontrato tassi di prevalenza

estremamente variabili per il Disturbo Autistico, compresi tra 2,5/10.000 e

30,8/10.0003.

Un ruolo importante nel determinare tale variabilità è giocato da vari fattori

metodologici, quali differenze nel metodo di individuazione dei casi e nel

campionamento della popolazione, nella grandezza del campione studiato e dunque

nella precisione della stima, nella categoria diagnostica considerata, nelle fasce di età

esaminate, e nelle procedure diagnostiche adottate. Discrepanze tra studi possono essere

anche da ascrivere a cambiamenti dei criteri e degli strumenti diagnostici, spostamento

delle diagnosi (in particolare da ritardo mentale o disturbi specifici dell’apprendimento

3 Fombonne E. Epidemiology of pervasive developmental disorders. Trends in Evidence-Based Neuropsychiatry 2003;5:29-36.

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a DPS), anticipazione delle diagnosi, modificazioni di fattori socio-economici (p.es.

maggiore disponibilità dei servizi, più sensibilità sociale e individuale al problema).

L’andamento in crescita delle stime di prevalenza sembra in parte anche legato a

cambiamenti nella nosografia e nelle politiche sociali. Nelle ultime due decadi, in

corrispondenza a cambiamenti nosografici significativi si sono potute osservare

fluttuazioni nelle stime di prevalenza piuttosto consistenti: ad esempio, è stato stimato

che le modificazioni nelle pratiche diagnostiche rendano conto del 26% dell’aumento

delle diagnosi di Disturbo Autistico in California tra il 1992 e il 20054. Anche le

politiche sociali e i conseguenti cambiamenti legislativi in materia di disabilità possono

determinare variazioni nelle stime di prevalenza, soprattutto quelle non derivate da

campioni di popolazione generale. Va osservato che, sebbene differenze nella

metodologia degli studi, cambiamenti nosografici e fattori socio-economici possano

spiegare in misura significativa le discrepanze nelle stime di prevalenza, resta tuttavia

aperta l’ipotesi che, almeno in parte, le differenze nel rischio di ricevere una diagnosi di

DPS per bambini di coorti di nascita o aree geografiche diverse possano essere dovute a

differenze nella frequenza o nell’effetto di specifici fattori di rischio per l’autismo.

Una recentissima revisione sistematica5 mostra che, in Europa, gli studi che hanno

stimato la prevalenza del Disturbo Autistico hanno osservato tassi compresi

nell’intervallo 1,9-72,6/10.000, con un valore mediano pari a 10/10.000, sulla base di

campioni di popolazione compresi tra 826 e 490.000 soggetti. Il valore mediano sale a

18,8/10.000, con un intervallo di variazione da 7 a 39/10.000, se si considerano solo gli

studi relativamente più recenti, pubblicati a partire dal 2000. Stime comparabili sono

state osservate negli studi effettuati a partire dal 2000 sia in America, sia nell’area

asiatica del Pacifico Occidentale. Il tasso mediano di prevalenza osservato in America è

pari a 22/10.000, con un intervallo di variazione da 11 a 40/10.000, e nel Pacifico

Occidentale è pari a 12/10.000, con un intervallo di variazione da 2,8 a 94/10.000. Per

quanto concerne i DPS nell’insieme gli studi sono stati tutti pubblicati a partire dal

2000. Gli studi effettuati in Europa sono stati condotti su campioni di dimensioni molto

variabili, comprese tra 2.536 e 134.661 partecipanti. In tali studi i tassi di prevalenza

hanno mostrato una variabilità meno drammatica, anche se sempre rilevante, da 30 fino

4 King M, Bearman P. Diagnostic change and the increased prevalence of autism. Int J Epidemiol 2009;38:1224-1234. 5 Elsabbagh M, Divan G, Koh YJ, Kim YS, Kauchali S, Marcín C, Montiel-Nava C, Patel V, Paula CS, Wang C, Yasamy MT, Fombonne E. Global prevalence of autism and other pervasive developmental disorders. Autism Res 2012;5:160-179.

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a 116,1/10.000, con una prevalenza mediana di 61,9/10.000. Negli studi condotti in

America, la prevalenza mediana dei DPS è risultata del 65/10.000, con un intervallo di

variazione da 13 a 110/10.000. Non vi è dunque evidenza di variazioni di rilievo nella

prevalenza dei DPS per area geografica, né gli studi hanno documentato un forte

impatto di fattori etnici, culturali, o socioeconomici.

Per quanto riguarda l’Italia, le stime di prevalenza sono basate sulle rilevazioni dei casi

trattati dal SSN con diagnosi di DPS (F84 secondo la classificazione ICD-10). Tali dati

sono disponibili nelle regioni dell’Emilia-Romagna e del Piemonte. Le stime più recenti

indicano una prevalenza totale nella popolazione fino a 18 anni del 2,3/1000 in Emilia-

Romagna (anno 2011) e del 2,9/1000 in Piemonte (anno 2010), con stime che salgono

rispettivamente a 2,8/1000 e al 4,2/1000 nell’età della scuola primaria (6-10 anni). In

conclusione, l’epidemiologia costituisce una disciplina fondamentale per lo studio dei

DSA, in quanto consente di stimare la prevalenza e l’incidenza di tali disturbi,

descrivere le variazioni della loro distribuzione nel tempo e nello spazio, e di indagarne

l’eziopatogenesi, nonché il ruolo di singoli fattori di rischio genetici o ambientali e di

loro eventuali interazioni.

1.5 Modelli neuropsicologici

Gli ultimi decenni di ricerca hanno chiarito che all’origine dell’Autismo vi è un

disordine, di varia natura, della organizzazione del Sistema Nervoso, che ha effetti a

cascata sull’evoluzione del soggetto e sulla costruzione del suo mondo interpersonale.

Negli scorsi anni sono stati elaborati alcuni modelli esplicativi dell’autismo, nel

tentativo di individuarne i disturbi fondamentali e specifici, i loro fondamenti biologici

e la natura della profonda disabilità sociale e comunicativa che lo caratterizza.

Particolare successo in questo campo hanno riscosso le seguenti teorie:

1. Le diverse versioni relative al deficit della teoria della mente (ad es.: Leslie

1986; Baron- Cohen 1989; Perner 2001; Surian 2004) che ipotizzano una

disfunzione a qualche stadio dell’acquisizione di una “teoria della mente”, vale a

dire la capacità di orientarsi nel mondo interpersonale attraverso l’automatica

attribuzione di stati mentali, intenzioni e punti di vista agli interlocutori

interumani.

2. Le ipotesi di un deficit delle funzioni esecutive programmatorie, di monitoraggio

dell’azione e delle sue conseguenze, che avvicina l’autismo alle sindromi del

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lobo frontale (Ozonoff 1992, 2000; Russell 1997, 1998; Pennington 1997; Zalla

2003). In questo modello il disturbo neuropsicologico di base (dal quale anche il

deficit di teoria della mente) secondariamente deriverebbe) intralcerebbe

l’organizzazione e la percezione dell’esperienza interumana come insieme

strutturato e coerente di comportamenti orientati ad uno scopo.

3. L’ipotesi di un deficit di coerenza centrale (Frith, 1989; Happé, 2001) che

ipotizza una difficoltà nelle operazioni di “sintesi” e integrazione

dell’informazione e delle sue componenti cognitive ed affettive, “pre-requisito”

anch’esso dello sviluppo di capacità di teoria della mente. Il sistema cognitivo

normale possiede una naturale propensione a formare una coerenza interna, a

cui è riconducibile il maggior numero di stimoli possibile e ad identificare

elementi comuni nei vari contesti. Le percezioni e le rappresentazioni di base

devono integrarsi al livello più alto del pensiero centrale che è il livello di

metarappresentazione. Nell'autismo questa capacità di tendere ad una coerenza

interna sarebbe carente, così come sembra deficitaria anche quella che può

essere considerata la disposizione interpretativa di coesione per eccellenza, ossia

la capacità di mentalizzare, cioè "la capacità che spinge un'informazione

complessa, che deriva da fonti del tutto disparate, a integrarsi in un insieme che

abbia significato"(Frith, 1989).

Ognuno di questi modelli (e delle numerose varianti di ciascun modello) integra un

corpus di evidenze sperimentali e di dati provenienti dalla clinica, dalla psicologia, dalla

neuropatologia e così via. Ciascuno ha un certo potere esplicativo della complessa

sindrome autistica, stabilisce gerarchie e coerenze tra sintomi diversi, ma ognuno di essi

presenta anche delle difficoltà e lascia non spiegati molti aspetti.

1.5.1 Teoria della mente

Le ricerche sulla teoria della mente hanno preso lo spunto da un lavoro di Premack e

Woodruff (1978) sulla capacità degli scimpanzé di attribuire stati mentali all'uomo e di

prevederne il comportamento sulla base di tali stati.

Wimmer e Perner (1983) hanno elaborato un paradigma, denominato "compito della

falsa credenza", che ha rappresentato la base per l'elaborazione di numerosi studi

sperimentali. In tale compito viene presentata ai bambini una scenetta con due

personaggi che giocano con un oggetto. Il primo personaggio colloca l'oggetto in un

contenitore ed esce. In sua assenza il secondo personaggio sposta l'oggetto dal

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contenitore dove era stato sistemato ad un altro presente nella stanza. Successivamente

il primo personaggio rientra dichiarando che andrà a prendere l'oggetto. A questo punto

si chiede al bambino sottoposto al compito della falsa credenza di prevedere dove il

personaggio andrà a cercare il proprio oggetto. La risposta corretta, ovvero che lo

cercherà dove l'aveva collocato, rappresenta il riconoscimento della falsa credenza, in

quanto il bambino dovrebbe rendersi conto che il protagonista della storia possiede una

rappresentazione della realtà diversa dalla situazione effettiva e prevedere che il suo

comportamento sarà guidato dalla sua credenza, piuttosto che dallo stato di cose (in altre

parole, dovrebbe prevedere che cercherà l'oggetto dove crede che sia e non dove si trova

attualmente).

I bambini di tre anni falliscono in questo compito, che viene solitamente risolto in

maniera brillante dai bambini di quattro anni. La grande maggioranza dei bambini

autistici, non riesce a risolvere il compito della falsa credenza, anche se possiede un'età

mentale di sette anni o superiore (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985).

Da questi risultati sembrerebbe normalmente nei bambini la teoria della mente cominci

a svilupparsi intorno ai quattro anni: su tale posizione non tutti i ricercatori concordano.

Alcuni studiosi6 fanno osservare che fra i due e tre anni i bambini possiedono già una

considerevole conoscenza degli stati mentali e sono capaci di manipolare

rappresentazioni che differiscono dalla realtà, come comprendere il gioco di finzione,

creare nell'altro una falsa credenza per ingannarlo, riconoscere la differenza fra oggetti

reali e immagini mentali di oggetti, prevedere il comportamento di altre persone sulla

base di ciò che esse desiderano. I bambini sono in grado, pertanto, di attribuire agli altri

pensieri, desideri e fantasie e questo li porta a poterne prevedere il comportamento.

Tuttavia, a questa età, ancora non sono capaci di riconoscere l'esistenza di false

credenze e dunque di risolvere le situazioni di conflitto in cui le conoscenze proprie ed

altrui risultano discrepanti, in quanto forniscono rappresentazioni diverse della

medesima realtà.

Da questi studi, quindi, sembra evidenziarsi un progressivo sviluppo ed affinamento

della capacità di rappresentazione e di meta-rappresentazione. In particolare

quest'ultima capacità, che rappresenta l'essenza stessa della teoria della mente, consente

al sistema cognitivo di costruire descrizioni di eventi ipotetici, come le descrizioni di

6 per una rassegna si veda Camaioni, 1998, 2001.

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oggetti di finzione, di pensieri, di sogni, i quali, piuttosto che riferirsi alla realtà esterna,

si rifanno ad altre rappresentazioni.

Evidenziare, comunque, un processo di sviluppo della teoria della mente nel bambino,

porta alla necessità di analizzare quei particolari comportamenti che possono essere

considerati dei precursori della teoria della mente.

Fra questi, i più precoci nello sviluppo sembrano essere l'attenzione condivisa (Baron-

Cohen, 1989) e la comunicazione intenzionale di tipo proto-dichiarativo (Camaioni,

1993).

L'attenzione condivisa consiste nel comportamento che i bambini cominciano a

manifestare verso i nove mesi circa, quando mostrano interesse per le cose osservate

dall'adulto, focalizzando lo sguardo in maniera alternata verso un oggetto fissato

dall'adulto e verso l'adulto stesso.

La sequenza comunicativa di tipo proto-dichiarativo rappresenta un comportamento

dello stesso tipo, attivato dal bambino con finalità comunicative. Si evidenzia quando

questi indica un oggetto all'adulto alternando il proprio sguardo tra l'oggetto ed il volto

dell'adulto, finchè anche quest'ultimo guarda nella stessa direzione. In queste sequenze

(l'attenzione condivisa e la comunicazione intenzionale di tipo proto-dichiarativo) il

bambino non intende semplicemente influenzare il comportamento dell'altro per

ottenere un obiettivo materiale (come quando indica un oggetto che desidera avere);

egli intende piuttosto influenzare lo stato interno dell'altro relativamente ad un aspetto

della realtà esterna, in particolare il provare interesse per qualcosa o il condividere

un'esperienza (Camaioni,1998).

Un altro fondamentale comportamento precursore dello strutturarsi di una teoria della

mente è rappresentato dal gioco di finzione. Nel momento in cui il bambino mette in atto

dei giochi simbolici, solitamente fra i 18 ed 24 mesi, la sua capacità di meta-

rappresentazione si evidenzia molto nettamente. Far finta che una banana sia un

telefono, infatti, non porta il bambino a ritenere che la banana ed il telefono siano la

stessa cosa. Egli è consapevole della differenza, in quanto gioca a rappresentare delle

rappresentazioni. Rappresenta contemporaneamente, in altre parole, una situazione che

include una banana nel mondo percettivo e una situazione che contiene un telefono nel

mondo della finzione.

Il bambino autistico presenta carenze molto consistenti nei processi di attenzione

condivisa e di comunicazione proto-referenziale, nel gioco di finzione e,

conseguentemente, non riesce a sviluppare adeguatamente una teoria della mente.

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Per quanto riguarda l'attenzione condivisa e la comunicazione proto-referenziale, essi

tendono a non seguire la linea dello sguardo dell'adulto e a non guardare

alternativamente l'adulto ed un oggetto interessante (Loveland e Landry, 1986). Inoltre,

sia in condizioni osservative che sperimentali, questi bambini si mostrano capaci di

produrre e comprendere il gesto di indicare con funzione richiestiva, mentre raramente

utilizzano lo stesso gesto con funzione dichiarativa, cercando cioè di convogliare

l'attenzione dell'adulto sullo stesso (Mundy, Sigman, Ungerer e Sherman, 1986; Baron-

Cohen, 1989, 1998). E' molto significativo che i pochi bambini che si dimostrano capaci

di produrre indicatori dichiarativi, sono anche capaci di utilizzare in modo consistente

comportamenti di attenzione condivisa (Camaioni,1989).

L'effettiva capacità di elaborare una teoria della mente è indagabile con il compito delle

false credenze descritto in precedenza. Come sostiene Dennet (1978) infatti, solo la

comprensione e la previsione di un comportamento sulla base delle false credenze dei

personaggi di una storia può definitivamente mostrare la presenza di una teoria della

mente: diversamente, se questa non è presente, si può dare una spiegazione dello stato

effettivo della situazione (le convinzioni personali del soggetto) senza la necessità di

postulare nessuno stato mentale.

Si possono evidenziare due posizioni principali: una che fa riferimento a problematiche

di tipo cognitivo (a livello di un particolare modulo della teoria della mente) sostenute

soprattutto dal gruppo di Londra (Baron-Cohen, et al., 1985; Leslie, 1987; Leslie, 1989,

Baron-Cohen, Tager-Flusberg e Cohen, 1994; Baron-Cohen, 1995) e già prese in

considerazione in precedenza, mentre l'altra, sostenuta da Hobson (1989, 1990). chiama

in causa fattori di tipo socio-affettivo.

Sia l'interpretazione di Leslie, che quella di Hobson rappresentano modalità

estremamente interessanti di interpretare i deficit del bambino autistico a livello di

teoria della mente.

L'ipotesi di base sostenuta da Baron-Cohen et al. (1985) è che nei bambini autistici non

si sviluppi in modo normale la capacità di concepire che le altre persone conoscono,

vogliono, sentono e credono qualcosa e che questo deficit metarappresentivo dia luogo a

vere e proprie anomalie comunicative e di comportamento sociale.

Ora si tratta di verificare se questo deficit di base sia in grado di spiegare il particolare

quadro clinico del bambino autistico.

Happè e Frith (1995) ritengono che la teoria della "cecità della mente" nell'autismo

possa spiegare non solo gli handicap manifesti, ma anche il fatto che alcune funzioni

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siano preservate. Tale teoria, infatti, prevede che ogni abilità che coinvolge solo

rappresentazioni primarie rimanga inalterata, giustificando così alcune isolette di abilità

che si possono riscontrare nelle persone autistiche, quali una buona memoria meccanica,

particolari capacità visuo-spaziali, ecc..

Come ammettono anche Happè e Frith (1995), ci sono una minoranza di bambini

autistici che superano le prove delle false credenze e comunque presentano il

caratteristico quadro clinico dell'autismo. Le spiegazioni proposte di fronte a questi

riscontri sperimentali fanno riferimento alla possibile esistenza di ritardi

nell'acquisizione e nello sviluppo di strategie compensatorie.

1.5.2 Deficit del controllo esecutivo

Fra i tentativi di individuare il deficit primario dell'autismo, cioè l'aspetto deteriorato a

partire dal quale si determina il particolare quadro clinico, un ruolo significativo spetta

anche all'interpretazione secondo la quale sarebbe un disturbo a livello delle funzioni

esecutive ad essere alla base dei molti sintomi dell'autismo (Ozonoff, Pennington e

Rogers, 1991; Harris, 1993; Ozonoff, 1995, 1998; Russel, 1997).

Come afferma la Ozonoff (1995), alcuni aspetti dell'autismo ricordano i deficit della

funzione esecutiva che seguono un danno frontale. Il comportamento delle persone

autistiche, infatti, appare spesso rigido ed inflessibile: molti bambini autistici sono

angosciati ad ogni modificazione dell'ambiente e insistono a seguire la loro routine in

maniera ossessiva (Turner, 1998); tendono a concentrare l'attenzione su aspetti minimali

e a dar vita a comportamenti stereotipati; possono essere impulsivi e avere difficoltà a

ritardare o inibire le risposte. Alcuni individui autistici possiedono ampia memoria

meccanica, ma non accennano ad utilizzare in maniera funzionale questa capacità.

Sembrano esistere, quindi, una serie di analogie a livello comportamentale fra deficit

prefrontali e autismo.

Questa ipotesi è stata testata in varie sperimentazioni nelle quali sono stati sottoposti

soggetti autistici alle due prove classiche della funzione esecutiva: il Wisconsin Card

Sorting Test (WCST) e la Torre di Hanoi.

Nel WCST ai soggetti vengono presentati una serie di cartoncini su cui vi sono delle

configurazioni che variano per colore, dimensione e contorni. Il compito consiste nel

raggruppare i cartoncini in mazzetti sulla base di una certa regola (ad esempio: secondo

il colore). Quando la regola è acquisita, viene improvvisamente cambiata e quando

anche questa nuova regola viene a sua volta appresa viene cambiata di nuovo e così via

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fino a dividere i cartoncini in base a sei regole diverse. I soggetti normali possono

imparare ad eseguire questo compito abbastanza agevolmente, mentre quelli con

disturbi delle funzioni esecutive (con danni prefrontali) imparano di solito la prima

regola, ma non sono capaci di sfuggirle e la maggior parte dei loro errori sono

perseverazioni basate su di essa.

Nella prova denominata Torre di Hanoi i soggetti si trovano di fronte a tre aste verticali

nelle quali sono collocati vari dischi circolari di dimensione diverse. I soggetti sono

invitati a riprodurre la configurazione che viene loro mostrata, spostando i dischi con il

minor numero di mosse possibile.

Il compito richiede l'abilità di pianificare prima le conseguenze che si verranno a

determinare ad ogni spostamento dei dischi.

L'utilizzo di questi compiti con soggetti autistici con buone capacità (ad "alta

funzionalità) ha dato riscontri univoci. In tutte le situazioni, sia in studi con adulti

(Rumsey, 1985; Rumsey e Hamburger, 1988, 1990; Ciesielski e Harris, 1997), che con

adolescenti e bambini (Prior e Hoffman, 1990; Ozonoff et al., 1991; Ozonoff e Mc

Envoy, 1994; Turner, 1997; Ozonoff, 1988), i soggetti autistici hanno mostrato costanti

carenze a livello di funzioni esecutive. Ozonoff et al. (1991) e Ozonoff e McEvoy

(1994), in particolare, hanno confrontato due gruppi di soggetti (un gruppo composto da

soggetti autistici adolescenti senza ritardo mentale e l'altro da soggetti con deficit

diversi, comunque appaiabili al gruppo di autistici per QI verbale, età, sesso e stato

socioeconomico) somministrando un ampio numero di prove in grado di indagare le

funzioni esecutive, la teoria della mente, la percezione delle emozioni, la memoria

verbale e le abilità spaziali. I deficit delle funzioni esecutive si sono dimostrati il

disturbo più diffuso tra il campione di soggetti autistici, mentre i deficit della teoria

della mente si sono rivelati solo in soggetti con età mentale di tipo verbale inferiore.

Hughes; Leboyer e Bouvard (1997) hanno trovato difficoltà superiori a livello di

funzioni esecutive anche nei genitori di soggetti autistici, in confronto ad un gruppo di

controllo composto da genitori di soggetti normodotati.

In sintesi, da diversi studi sembrerebbe emergere una possibile spiegazione dell'autismo

facendo riferimento ad una disfunzione a livello prefrontale, in grado di intaccare in

maniera consistente le funzioni esecutive. Tale ipotesi esplicativa, di grande interesse

scientifico ed operativo, necessita sicuramente di altre prove a sostegno. Come

sottolinea la stessa Ozonoff (1995), ci sarebbero dei limiti di spessore assolutamente

non trascurabile che dovranno essere affrontati e chiariti con ulteriori sforzi di ricerca.

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La prima riserva riguarda il fatto che la maggior parte dei bambini con lesioni

prefrontali precoci non risulta affetta anche da autismo. Inoltre, alcune abilità che nei

bambini autistici non risultano danneggiate, dovrebbero invece esserlo pensando

rigidamente ad una lesione prefrontale. Infine, va fatto rilevare che le disfunzioni

cognitive del lobo frontale non sono specifiche dell'autismo, ma riguardano anche altre

sindromi. La Ozonoff (1995; 1977, 1998) ipotizza due possibili spiegazioni di queste

evidenze. La prima è che la lesione frontale possa essere considerata una condizione

importante, ma non sufficiente, per lo sviluppo dell'autismo: forse perché la sindrome si

manifesti è necessaria la presenza di altri deficit cognitivi o disfunzioni neurologiche.

La seconda spiegazione fa riferimento al concetto stesso di funzione esecutiva. Nella

sua definizione, infatti, vengono compresi numerosi comportamenti di controllo:

pianificare, organizzare, sostenere l'attenzione, auto-controllarsi, avere flessibilità

cognitiva, ecc. e "non è irragionevole pensare che nell'autismo solo un sottogruppo di

queste abilità sia carente" (Ozonoff, 1995, p. 215).

1.5.3 Deficit di coerenza centrale

Si deve soprattutto a Uta Frith (1989) il tentativo di spiegare le disfunzioni sociali

nell’autismo ipotizzando un danno specifico della capacità di integrare l’informazione a

differenti livelli. Una caratteristica del normale processo di elaborazione delle

informazioni evidenzia la tendenza di riunire insieme le diverse informazioni per

costruire sempre più alti livelli di contesto del significato; questa caratteristica

universalmente condivisa del processo di elaborazione dell’informazione è disturbata

nella sindrome autistica e una carenza a livello di coerenza centrale potrebbe spiegare,

almeno in parte, i deficit che si riscontrano. Infatti, la debole spinta verso una coerenza

interna sarebbe, sempre secondo gli autori che si rifanno a questa interpretazione, in

grado di spiegare la triade di sintomi dell'autismo (a livello comunicativo, di interazione

sociale e di comportamento).

Il normale processo di coerenza centrale presuppone la necessità di dare priorità alla

comprensione del significato. La capacità di mentalizzare può essere considerata come

la disposizione interpretativa di coesione per eccellenza; essa compone insieme le

informazioni complesse, provenienti da fonti totalmente diverse, in configurazioni che

abbiano significato. Questa capacità nell’ambito dei processi centrali, definita come

spinta verso la coerenza centrale, è una caratteristica naturale del sistema cognitivo e si

ipotizza che sia fortemente carente nelle persone con autismo.

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Questo deficit è in grado di spiegare, secondo Frith e Happè, 1994) sia le carenze che si

rilevano, che le isole di abilità a volte sorprendenti. Queste ultime, infatti, sarebbero

raggiunte dai soggetti attraverso processi relativamente atipici: a causa del fallimento

dei processi centrali di pensiero, i soggetti autistici esprimono le sensazioni come

percezioni frammentarie, come pure in forma frammentaria pianificano ed eseguono le

azioni. I successi che si evidenziano nella percezioni di parti di configurazioni più

generali (“vedere l’albero anziché la foresta”) può essere attribuito a questa loro

specifica abilità di individuare in modo preferenziale le singole parti di un oggetto

piuttosto che una totalità.

Dato che è emerso come nell’autismo risulti estremamente limitata la capacità di

raggiungere una coerenza centrale o un significato, allora il distacco o la

frammentazione in attività senza senso diventano conseguenze inevitabili e questo

potrebbe essere anche la causa del deficit sociale.

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Capitolo II

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE NELL’AUTISMO

Linguaggio e comunicazione nello sviluppo neurotipico 2.1

Fin dalla sua prima descrizione sull’autismo, Kanner (1943, 1946) riconobbe che i

disturbi del linguaggio e della comunicazione erano sintomi cruciali di tale patologia.

Egli incluse esempi di molti di questi deficit nelle sue originarie descrizioni della

sindrome, e tali deficit sono stati ritenuti fondamentali per una diagnosi di autismo nei

vari sistemi di classificazione che sono stati sviluppati da allora fino ad oggi. I deficit

includono difficoltà nell’imparare e nell’usare il linguaggio verbale ma in realtà le

difficoltà vanno ben oltre l’uso del linguaggio. Sia i deficit cognitivi che quelli sociali

limitano l’abilità di una persona autistica a comunicare e a comprendere i tentativi di

comunicazione delle altre persone.

La comunicazione è il risultato di un complesso processo interazionale che consente a

individui diversi di trasmettersi reciprocamente informazioni di variabile complessità

grazie all’uso integrato di numerose competenze. Tali competenze possono essere

implicite, quindi utilizzate in modo automatico (es. capacità umana di fonare), o

esplicite, (es. competenza metafonologica, acquisita in modo implicito ma usata in

modo consapevole).

La comunicazione umana utilizza competenze comunicative sia verbali che non verbali.

Le competenze comunicative non verbali permettono di veicolare informazioni non

usando il canale acustico: competenza cinesica (sfrutta i movimenti del corpo, le

contrazioni muscolari del volto, i movimenti oculari, ecc.); competenza prossemica

(utilizza la modulazione della distanza a fini comunicativi); competenza atipica (fa largo

uso della modulazione del contatto interpersonale per veicolare informazioni di varia

natura); competenza socio-culturale (impiega le conoscenze relative alle convenzioni

sociali che determinano la scelta di specifici registri linguistici e comportamentali, ecc.).

Un ruolo fondamentale nella nostra società è rivestito dalle competenze comunicative

verbali, che veicolano le informazioni attraverso il canale acustico-fonatorio;

distinguiamo la competenza comunicativa verbale paralinguistica e linguistica: la prima

permette di modulare il ritmo, l’intonazione, l’enfasi degli enunciati, mentre la seconda

consente di elaborare le informazioni utilizzando il linguaggio, la complessa abilità

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comune a tutti gli esseri di produrre e comprendere informazioni usando un codice

simbolico articolato, digitale e semanticamente onnipotente (Marini, 2001).

Per comprendere meglio quali siano gli aspetti dell’uso del linguaggio nell’autismo che

si discostano dalla norma, è necessario comprendere i tratti essenziali di uso e sviluppo

del linguaggio normale.

Lo sviluppo della competenza fonologica

Dalla nascita fino ai due mesi di vita, oltre al pianto e ai primi tentativi vocalici (vagiti)

si registrano principalmente suoni vegetativi ed involontari che riflettono lo stato fisico

del bambino. La varietà dei suoni è molto limitata per via della struttura ancora

immatura del tratto vocale. Fra il secondo e il quinto mese il bambino inizia ad

esercitare un controllo su alcuni elementi della produzione vocalica (in particolare per

quanto riguarda durata e intensità), cosa che permette ai genitori di distinguere se il

pianto indica fame, capriccio o altro.

A partire dalla sesta settimana iniziano a comparire vocalizzazioni prodotte nella parte

posteriore della bocca e note nella letteratura angloamericana come cooing/gooing: un

maggiore controllo del tratto vocale permette al bambino di integrare i precedenti tipi di

vocalizzazione (il meccanismo vocalico del pianto e il meccanismo consonantico dei

suoni vegetativi) nella prima struttura con una configurazione che comprende

consonanti velari e vocali posteriori (coo/goo). Secondo la maggior parte degli studiosi

questi primi tentativi di dittonghi non sarebbero né intenzionali né simbolici e avrebbero

essenzialmente una funzione emotiva.

A partire dai quattro mesi il repertorio delle vocalizzazioni inizia a farsi più vario:

iniziano a comparire bisbigli, urla e suoni molto bassi, simili a grugniti. Tra il quarto e il

settimo mese il miglioramento nella coordinazione orofaringea permette il babbling o

lallazione (dal tedesco lallen, balbettio), ovvero la ripetizione aritmica di sillabe

rudimentali (consonante + vocale). Per quanto queste sillabe ricordino vagamente le

parole degli adulti e per quanto si possa essere indotti a pensare che il bambino stia

cercando di pronunciare determinate parole, secondo la maggior parte dei ricercatori

non c'è motivo di pensare che queste vocalizzazioni siano un riflesso di capacità di

simbolizzazione e siano collegate a specifici referenti.

Alcuni autori (es. Jakobson, 1941/1968) caratterizzano questo stadio come un periodo di

sperimentazione, da parte del bambino, delle proprie corde vocali. Lo sviluppo

articolatorio prevede un raffinamento della coordinazione neuromuscolare-cordale

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necessaria ad attivazioni dinamiche quali la deglutizione, la masticazione, la suzione e

l'attivazione necessaria per l'articolazione di parole. L'idea è che esercitando posture

articolari diverse e costruendo sequenze di movimenti articolatori durante la lallazione il

bambino arrivi a sviluppare il controllo motorio necessario alla produzione dei suoni

linguistici.

Gli studiosi sono inclini ad interpretare la lallazione come attività multimodale, che

coinvolge sia l'esperienza auditoria sia quella propriocettiva (Vihman et al., 2002,

2009). La capacità di discriminare un suono e quella di produrre lo stesso sono

strettamente interconnesse: lo sviluppo articolatorio richiede non solo della necessaria

coordinazione neuromuscolare-cordale, ma anche la maturazione della percezione

uditiva (Vihman et al., 2009). Durante questa fase per il bambino diventa sempre più

importante un feedback interno: ascoltare le proprie vocalizzazioni e capire come queste

di discostano da quelle degli adulti sarebbe fondamentale per imparare il sistema

fonologico della lingua (Vihman et al., 2002).

Durante la fase del cosiddetto canonical babbling (grosso modo dai 6 ai 12 mesi) si

assiste ad una progressiva estensione della varietà delle sillabe consonante-vocale

prodotte dal bambino. Lo schema sembra simile nelle varie lingue e le consonanti

esplosive e nasali continuano a dominare (Vihman, 1996). Gli enunciati multisillabici

del bambino vengono classificati come reduplicated babbles se contengono stringhe di

sillabe identiche (es. bababa) e variegated babbles se contengono diverse consonanti e

vocali (es. bagidabu). Se i reduplicated babbles sono inizialmente più frequenti, dai 12-

13 mesi in avanti iniziano a dominare i variegated babbles. Intorno ai nove-dieci mesi

inizia un secondo tipo di lallazione complessa, definita come lallazione modulata

(modulated babble) e jargon. Gli autori parlano di lallazione comunicativa

(conversational babble) per riferirsi al fatto che il bambino sembra capire la natura

sociale della conversazione (Vihman, 1996).

Queste forme più complesse di lallazione, caratterizzate da stringhe di suoni e sillabe

pronunciate con una varietà di accenti e schemi metrici, vanno a sovrapporsi

temporalmente alle prime parole dotate di significato e sembrano in alcuni casi

assumere valore segnico. Per essere interpretate come parole, le forme fonetiche del

bambino devono essere collegate sistematicamente al contesto. In molti casi alcune

vocalizzazioni del bambino, che possono essere teoricamente interpretate come parole

(mappatura stabile suono-significato), non sembrano basate sulle forme dell'adulto.

Sembra, al contrario, che il bambino inventi delle forme di parole a cui attribuisce un

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significato preciso. Questo tipo di vocalizzazioni vengono chiamate proto-parole (proto-

words) da alcuni ricercatori (Stoel-Gammon, 2011).

Ci sarebbe, tra balbettio e prime parole, continuità per quanto riguarda proprietà

fonetiche e soprasegmentali specifiche della lingua (Vihman et al., 2009). Sebbene

senza significato, le vocalizzazioni prelinguistiche possono essere identiche da un punto

di vista fonetico alle prime parole del bambino (Stoel-Gammon, 2011). Così, ad

esempio, il balbettio [mama] a 0;7 diventa [mama] a 0;10 (Stoel-Gammon, 2011).

Similmente a quanto avviene nella lallazione, nelle prime parole del bambino dominano

le sillabe consonante-vocale, le nasali e le esplosive; le parole con consonanti finali

sono infrequenti e le parole con fricative e liquide molto rare (Stoel-Gammon, 2011);

secondo Stoel-Gammon (2011) non è un caso che parole come mommy, daddy e

byebye compaiano presto nel vocabolario ricettivo, perché si conformano con gli

schemi del balbettio.

La pronuncia del bambino è molto diversa da quella dell'adulto. Sebbene lo schema

sonoro generale venga preservato (Macken, 1979; Menyuk e Menn, 1979) e sebbene le

parole del bambino possano sembrare simili a quelle dell'adulto, se ne discostano in

modo sistematico. L'acquisizione della pronuncia corretta è un processo lento: la

pronuncia del bambino continua ad essere ancora molto diversa da quella dell'adulto

fino ai cinque-sei anni (Lust, 2006; Ambridge e Lieven, 2011).

I gesti del bambino

Di solito il bambino inizia a produrre i primi simboli linguistici convenzionali intorno ai

dodici mesi (Fenson et al., 1994). Le parole non rappresentano, in ogni caso, i primi

tentativi di comunicazione da parte del bambino. Questo infatti, ha di solito già iniziato

a comunicare nei mesi precedenti usando gesti e vocalizzazioni non convenzionali

spesso nella stessa istanza di comunicazione (Bates et al., 1979). Gesti e vocalizzazioni

vengono prodotti sia per richiedere sia per informare, ovvero per indirizzare l'attenzione

dell'adulto su qualcosa (Tomasello, 2003).

La natura della relazione tra sviluppo gestuale e linguaggio durante la prima fase

dell'acquisizione è controversa. Non è chiaro se lo sviluppo gestuale sia precedente alla

lingua, indipendente dalla stessa, oppure se le relazioni tra gesti e lingua varino a

seconda delle componenti di quest'ultima che vengono prese in considerazione (Bates et

al., 1989). Per quanto la natura del collegamento tra lingua e gesti non sia del tutto

chiara, Bates et al. (1979) e più recentemente Brooks e Meltzoff (2008) riportano una

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forte correlazione tra la produzione di gesti ed il successivo sviluppo del vocabolario

espressivo. Analogamente Rowe e Goldin-Meadow (2009) hanno dimostrato che i gesti

usati dal bambino a 18 mesi predicono le dimensioni del vocabolario e la comprensione

delle frasi a 42 mesi. Secondo Tomasello (2003) i primi gesti del bambino permettono

di riconoscerne le abilità linguistiche dal momento che sia la lingua che i gesti hanno in

comune processi cognitivi quali la capacità di rappresentare ed influenzare gli stati

attenzionali degli altri.

Alcuni autori hanno ipotizzato che il comportamento della madre possa essere un

mediatore fondamentale tra la produzione di gesti e lo sviluppo lessicale del bambino:

Brooks e Meltzoff (2008) hanno ad esempio proposto che indicando gli oggetti, il

bambino induce la madre a denominare i referenti nel contesto di attenzione congiunta

(joint-attention), in cui è stato dimostrato che l'apprendimento risulta facilitato

(Cleveland, Schug e Striano, 2007).

Tomasello (2003) distingue tre tipi di gesti tipici della fase pre-linguistica: i gesti

risultanti da un processo di ritualizzazione, i gesti deittici ed i gesti simbolici.

Nella prima categoria rientrano tutti quei gesti comunicativi che sono stati acquisiti

attraverso un processo di ritualizzazione nel senso che sono dovuti ad un progressivo

accumularsi di situazioni in cui il bambino ha usato con successo un determinato

comportamento (originariamente non comunicativo) per ottenere un dato risultato. Un

esempio di gesti di questo tipo è l'estensione del braccio con la mano aperta (Olson e

Masur, 2011), oppure il gesto di alzare le braccia verso l'alto che fa il bambino quando

vuole essere sollevato (Tomasello, 2003). Non si tratta, evidentemente, di un atto

simbolico: il bambino cerca di fare qualcosa, l'adulto capisce l'intento ed agisce di

conseguenza; in seguito al bambino è sufficiente, per essere sollevato, iniziare il

movimento: nel corso del tempo ed a furia di ripetizioni, il gesto viene ritualizzato

(Tomasello, 2003). A differenza degli altri tipi di gesti, questi sono pertanto forme pre-

simboliche che fanno parte di un'attività e non di simboli che indicano qualcos'altro

(Bates, 1979).

I gesti deittici sono tra i primi segni di comunicazione intenzionale e sono intesi a

dirigere l'attenzione degli adulti ad entità esterne (McNeill, 1992). Il gesto deittico per

antonomasia è l'indicare (pointing) ovvero puntare il dito indice verso qualcosa. I

bambini indicano non solo per richiedere, ma anche per motivi dichiarativi. Un altro

esempio di gesto deittico, indicato come "estensione di oggetti" (object extending), è

quello in cui il bambino muove il braccio in direzione della madre mentre tiene in mano

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un oggetto (questo gesto viene usato per richiedere o "commentare"; Olson e Masur,

2011).

L'ultima categoria è rappresentata dai gesti simbolici/referenziali. In questo caso si tratta

di atti comunicativi associati metonicamente o iconicamente ad un referente che

vengono verosimilmente appresi per imitazione (Tomasello, 2003). Se i gesti deittici

iniziano a comparire prima delle parole convenzionali, quelli iconici compaiono molti

mesi dopo (Stanfield, Williamson e Őzçalıkan, 2013).

In seguito il bambino passa da singoli gesti a combinazioni di gesti grazie alle quali

riesce a descrivere/raffigurare mimicamente un avvenimento senza l'uso delle parole.

Sebbene il ricorso al gesto e in genere alla gestualità sia destinato a diventare

progressivamente meno frequente, il bambino continua a servirsene anche dopo

l'acquisizione delle prime parole. Fino ai tre anni il bambino usa abitualmente una

combinazione di gesti di indicazione + parola per veicolare significati che non è ancora

in grado di esprimere usando soltanto la lingua (Stanfield, Williamson e Őzçalıkan,

2013). Per esempio, indica un biscotto dicendo "mangiare" (il gesto indica l'oggetto

dell'azione), oppure indica un libro dicendo "mamma" (il gesto indica la persona che

deve compiere l'azione).

Nelle combinazioni gesto + parola l'oggetto è quasi sempre indicato da un gesto deittico

(Őzçalıkan e Goldin-Meadow, 2005; in Stanfield, Williamson e zçalıkan, 2013); le

combinazioni di parole con gesti iconici (che veicolano informazioni non contenute nel

parlato) compaiono molto dopo, intorno ai tre anni; i risulati dello studio di Stanfield,

Williamson e Őzçalıkan (2013) confermano la tesi secondo cui la comprensione delle

combinazioni parole + gesti iconici emergerebbe nello stesso tempo in cui vengono

prodotte le prime combinazioni.

Dalle vocalizzazioni alle prime espressioni linguistiche convenzionali

Per quanto le sequenze sonore prodotte inizialmente dal bambino non abbiano un

significato linguistico, sono comunque importanti dal punto di vista della

comunicazione perché esprimono, mediante modulazioni ritmiche e melodiche, stati

emotivi complessi (gioia, sofferenza, rabbia).

La lallazione prende spesso la forma di interazione comunicativa genitore-bambino

motivo di gioco vocale reciproco quando, ad esempio, gli adulti imitano i suoni emessi

dal bambino cercando di sollecitarlo a produrne di nuovi. Le routine sociali e

l'elementare "conversazione" tra madre e bambino, in cui la prima arricchisce e amplia i

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tentativi minimi del figlio dando loro un'interpretazione, verosimilmente arricchiscono

la competenza comunicativa del bambino.

Le vocalizzazioni pre-linguistiche forniscono un punto di partenza per le interazioni

socio-comunicative tra bambino e madre già a 3 mesi rappresentando verosimilmente la

base per l'acquisizione del concetto di turno comunicativo. Queste "proto-

conversazioni", infatti, sono caratterizzate dall'alternanza parlare-ascoltare scandita da

pause appropriate; se inizialmente la madre accetta qualsiasi vocalizzazione (anche i

suoni vegetativi) come "turno" del bambino, in seguito diventa progressivamente più

selettiva (Stoel-Gammon, 2011). Nelle interazioni faccia a faccia il bambino inizia

inoltre a distinguere tra tono della voce che esprime approvazione e tono che esprime

divieto. Gli scambi comunicativi (conversational bouts; Golinkoff, 1983) praticati

durante il periodo pre-linguistico sembrano pertanto fondamentali per il successivo

sviluppo di schemi conversazionali.

Verso la fine del primo anno le produzioni vocali del bambino diventano sempre più

intenzionali e significative.

Una parte sostanziale del repertorio vocale del bambino tra undici e diciannove mesi è

rappresentato da vocalizzazioni non linguistiche a cui è stato dato il nome di "grugniti"

(grunt; Roug-Hellichius, 1998). Inizialmente i grunt accompagnano i gesti

comunicativi, quindi iniziano a comparire da soli. Roug-Hellichius (1998) riporta che

alcuni di questi grunt hanno un valore comunicativo (communicative grunt) e vengono

usati dal bambino per esprimere le proprie intenzioni e concetti per cui non ha ancora

appreso le relative forme linguistiche convenzionali.

Durante il passaggio dalla fase pre-lessicale a quella più propriamente linguistica sono

molto frequenti sequenze di suoni simili a parole alle quali, tuttavia, non è sempre

possibile dare un significato preciso o il cui significato sembra relativamente stabile ma

non fisso. Alcuni ricercatori parlano in tal senso di proto-parole. In questa fase si

possono ascoltare dei veri e propri discorsi con melodie e suoni chiaramente articolati,

magari prodotti più volte nel corso della stessa giornata con significato leggermente

diverso.

Le prime espressioni linguistiche convenzionali (ovvero le prime parole con significato

stabile) compaiono di norma tra 12 e 15 mesi. Inizialmente la funzione di richiedere e

quella di informare non sono ben distinte tra loro. In molti casi, infatti, non è chiaro se

si tratti di un imperativo o di una domanda. In questo periodo le parole hanno spesso il

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valore di frasi (si parla di "periodo della parola-frase") e possono assumere significati

diversi in funzione del contesto e dell'intonazione.

Dal momento che esprimono un intento comunicativo olistico relativamente coerente ed

indifferenziato, i primi enunciati del bambino vengono definiti "olofrasi". Tomasello ha

caratterizzato le olofrasi come "pacchetti semantico-pragmatici" (semantic-pragmatic

packages; Tomasello, 2003:39). Le olofrasi si riferiscono ad eventi particolarmente

salienti per il bambino e secondo Ninio (1992) di norma rispecchiano l'intento

comunicativo che aveva l'adulto da cui sono state apprese. Vengono usate per vari

scopi: richiedere oggetti ed indicare l'esistenza degli stessi (es. il bambino nomina gli

oggetti con un'intonazione neutrale o imperativa); richiedere o descrivere oggetti/eventi

(es. "di più", "ancora", "un altro"); richiedere o descrivere eventi dinamici che

riguardano oggetti (es. " su", "giù", "aperto", "chiuso", "dai", "mostra", "fermo");

richiedere o descrivere le azioni di persone; fare commenti relativamente alla posizione

di oggetti e persone; attribuire proprietà ad oggetti; usare performativi per eventi e

situazioni (es. "ciao", "grazie", "no").

Le prime cinquanta parole del bambino comprendono un'ampia varietà di classi

grammaticali. Nomi e interiezioni costituiscono insieme circa il 50/60% del repertorio

di un bambino di 18 mesi. Questa proporzione decresce progressivamente e con il

passare dell'età le altre classi (pronomi, verbi, aggettivi, congiunzioni e preposizioni)

iniziano ad essere sempre più rappresentate. Nonostante le differenze nell'ambiente,

sono state riscontrate molte somiglianze per quanto riguarda il vocabolario produttivo

ed espressivo iniziale dei bambini. Vihman e colleghi (2009) ritengono in tal senso che

uno dei fattori principali che determinano il vocabolario produttivo dei bambini è la

composizione fonologica delle parole, nel senso che quelle più facili da pronunciare

entrano prima nel vocabolario produttivo.

Le prime parole tendono ad essere utilizzate insieme all'azione ed in presenza di un

riferimento concreto; in un secondo momento il bambino inizia a servirsi delle parole

anche decontestualizzandole per anticipare o evocare un'azione. Nel periodo tra 12 e 20

mesi il bambino inizia a toccare gli oggetti denominandoli, a chiedere aiuto con dei

gesti, a chiamare per attirare l'attenzione, a salutare con la mano quando va via

pronunciando la parola ciao, a rispondere in maniera elementare alle domande che gli

vengono poste e a ripetere quello che sente dire. In questa fase i ricercatori parlano di

elaborazione delocotoria: il bambino parla in terza persona, esprime giudizi elementari,

ricorda nomi e cose anche quando le stesse non sono presenti.

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Lo sviluppo della competenza lessicale

La ricerca sul primo sviluppo lessicale nei bambini con sviluppo tipico ha evidenziato

due fasi distinte. All’inizio del linguaggio i bambini apprendono nuovi termini lessicali

abbastanza lentamente (Michnick Golinkoff & Hirsh-Pasek, 2001). In questo periodo

imparano parole solo per gli oggetti e le persone con cui il bambino si relaziona

(Nelson, 1973). Intorno ai 18 mesi, il vocabolario espressivo raggiunge una media di

parole dalle 50 alle 100 (Fenson et al., 1994, Nelson, 1973). A questo punto i bambini

hanno raggiunto quello che si definisce “esplosione del vocabolario”, cioè quando il

ritmo dello sviluppo lessicale comincia ad aumentare in maniera esponenziale (Dromi,

1987; Fenson et al., 1994). In questa fase il ritmo di espansione è di 5 o più nuove

parole (fino anche a 40) per settimana, cosicché alla fine del periodo in questione il

vocabolario complessivo si attesta mediamente sulle 300 parole, ma può raggiungere

anche le 600.

Dopo l’inizio dello scatto del vocabolario, molte nuove parole vengono apprese

quotidianamente con poco sforzo (Michnick Golinkoff & Hirsh-Pasek, 2001). Questa

fase, inoltre, è estremamente importante in quanto segna una fase di transizione; i

bambini non acquisiscono più tramite associazione ma cominciano a capire la natura

referenziale delle parole (Nazzi & Bertoninci, 2003). Le parole nuove quindi vengono

acquisite anche dopo una singola esposizione e vengono poi generalizzate a nuovi

stimoli (Tager-Flusberg, Rhea & Lord, C., 2005).

L'evoluzione del significato delle parole

Gli studiosi concordano sul fatto che il bambino associ al significato di una parola

aspetti della realtà diversi da quelli che vi associa l'adulto. Si riscontrano così nel primo

lessico infantile errori che segnalano le difficoltà che il bambino incontra

nell'identificare a cosa si riferiscono i nomi nel loro uso standard. Gli errori possono

essere di sovraestensione (cane per qualsiasi animale a quattro zampe) più frequenti

nelle fasi iniziali; sottoestensione (bambola solo per la sua bambola preferita) e

sovrapposizione (aprire anche per l'azione di accendere).

Esistono diverse teorie per definire a quale tipo di somiglianze facciano riferimento i

bambini nell'identificare categorie di oggetti. Secondo alcuni (Clark, 1973) il bambino

costruisce il significato delle parole sulla base delle somiglianze percettive tra gli

oggetti o eventi, secondo altri (Nelson, 1974) vengono categorizzate prima le

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somiglianze funzionali. Secondo questa ipotesi del nucleo funzionale, l'oggetto all'inizio

viene conosciuto attraverso l'azione che compie o l'azione che si compie su di esso.

Grazie a interazioni ripetute con i medesimi oggetti, il bambino aggiunge al nucleo

funzionale la conoscenza degli attributi percettivi, che consentono di riconoscere

immediatamente un oggetto come esemplare di un dato concetto.

Nel costruire il significato delle parole, i bambini utilizzano entrambe le modalità di

categorizzazione percettiva e funzionale e in genere si osserva un passaggio da criteri di

tipo funzionali a quelli di tipo percettivo-formale.

Barret (1989) sostiene che il bambino segua strade diverse nell'acquisire il significato

delle parole: alcune nascono legate al contesto e agli eventi; altre nascono

decontestualizzate e vengono prodotte in modo flessibile in contesti diversi. L'idea è che

queste parole siano associate inizialmente con un concetto prototipico piuttosto che con

uno schema.

Il sistema semantico che il bambino padroneggia quando produce le prime parole non è

ancora un sistema convenzionale ma tende verso la progressiva convenzionalizzazione

nell'uso delle categorie concettuali dei nomi.

Tra i sei e gli otto anni il bambino diventa sempre più capace di utilizzare, nel definire

le parole, il termine sovraordinato. In questa fase le definizioni date dai bambini

diventano complesse, cioè possono citare caratteristiche sia percettive che funzionali

oppure aggiungere delle specificazioni al termine sovraordinato.

Lo sviluppo della competenza morfologica e sintattica

Nello sviluppo della grammatica si individuano due componenti: la morfologia e la

sintassi. Con il termine morfologia ci riferiamo all'acquisizione di quei suffissi e prefissi

che servono a formare il singolare-plurale oppure il maschile-femminile di nomi,

aggettivi e pronomi, a coniugare i verbi, a derivare un nome da un altro nome, un nome

da un aggettivo o un nome da un verbo. Ci riferiamo anche all'acquisizione di particelle

come gli articoli, i pronomi e i verbi ausiliari che svolgono una funzione esclusivamente

grammaticale. Con il termine sintassi ci riferiamo alla capacità del bambino di costruire

combinazioni di parole che rispecchiano le regole della propria lingua materna.

Lo sviluppo della grammatica nelle sue componenti morfologiche sintattiche inizia

precocemente, alla fine del secondo anno di vita, ma prosegue nell'età prescolare e

scolare. I bambini in media producono le prime combinazioni di parole a 20 mesi, anche

se alcuni le producono già a 14 mesi e altri dopo i 24 mesi. La comparsa delle prime

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combinazioni correla con l'ampiezza del vocabolario più che con l'età cronologica,

infatti la combinazione di due-tre parole avviene quando il vocabolario complessivo del

bambino supera le 50 parole (Camaioni et al. 1991).

Analizzando la produzione linguistica di bambini nel secondo e terzo anno di vita è

possibile distinguere due stadi di sviluppo: lo stadio della struttura nucleare e lo stadio

delle strutture facoltative (Antinucci e Parisi 1973). Nel primo stadio i bambini

producono espressioni di due o più parole costruite tutte da un predicato verbale con i

suoi argomenti e l'intenzione con cui si pronuncia la frase (fare una richiesta,

commentare, porre una domanda).

Nel secondo stadio invece la struttura nucleare si amplia così da includere strutture

facoltative come gli avverbi, che modificano il significato del verbo e le frasi inserite,

che complementano il verbo della principale.

Tra i 2 e i 3 anni di età, compaiono in rapida successione anche diversi meccanismi

morfosintattici. Il bambino acquisirà per primi quegli aspetti della morfosintassi che

nella propria lingua appaiono percettivamente chiari, salienti e informativi.

I bambini italiani utilizzano l'accordo soggetto-verbo entro i tre anni di età e

acquisiscono anche buona parte della morfologia verbale. Le forme plurali dei verbi

compaiono dopo quelle singolari e a tre anni non sono ancora ben padroneggiate, la più

lenta a comparire è la seconda persona plurale.

Se passiamo dalla produzione alla comprensione delle frasi semplici, il quadro cambia

radicalmente. I bambini cominciano ad utilizzare l'accordo soggetto-verbo come

informazione rilevante per individuare chi compie l'azione espressa dal verbo soltanto

verso i sette anni e si uniformano completamente alla strategia adottata dagli adulti

verso i nove anni. Soltanto tra i cinque e i sette anni scoprono l'importanza dell'ordine

delle parole nella frase.

Questo ritardo nell'utilizzare delle informazioni morfologiche che il bambino già

possiede nel produrre le frasi, può essere spiegato considerando che riconoscere

l'accordo fra nome e verbo richiede di ricorrere alla memoria di lavoro e comporta un

notevole carico cognitivo: occorre infatti ricordare e confrontare con il verbo ciascun

nome presente nella frase prima di prendere una decisione.

Parlando di morfologia nominale, le forme del genere e del numero relative ai nomi

sono padroneggiate intorno ai tre anni di età, mentre il sistema degli articoli risulta

ancora incompleto. In particolare, l'articolo maschile il e il corrispondente plurale gli

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compaiono piuttosto tardi, anche perché le parole che richiedono questo tipo di articoli

sono poco frequenti nel vocabolario dei bambini di questa età.

Considerando la morfologia pronominale, i bambini imparano intorno ai 3-4 anni ad

utilizzare in modo efficace pronomi personali negli scambi dialogici. I primi a

comparire sono i pronomi soggetto e oggetto di prima e seconda persona singolare, più

tardiva è la comparsa degli altri pronomi.

La completa acquisizione della morfosintassi della lingua italiana è un processo lento e

graduale. Soltanto a 6-7 anni i bambini padroneggiano aspetti morfologici che

richiedono di ricorrere alla memoria di lavoro per capire il significato delle frasi, cioè

accordi a lunga distanza che operano sull'intera frase piuttosto che sui suoi elementi. Si

ritiene che tra i 4 e i 6 anni si verifichi una riorganizzazione del sistema linguistico con

il passaggio da una grammatica "intrafrasale" ha una grammatica "interfrasale". I

bambini imparano ad usare le regole grammaticali in precedenza applicate all'interno

della frase per ottenere la coesione del discorso. L'ingresso nella scuola può favorire

questo passaggio dalla grammatica della frase alla grammatica del discorso, in quanto

fornisce al bambino una più ampia esperienza di discorsi e argomentazioni in forma sia

orale che scritta.

L'uso del linguaggio

Per diventare parlanti e ascoltatori competenti, i bambini devono non soltanto scoprire

le regole sintattiche e le relazioni semantiche caratteristiche della propria lingua, ma

imparare anche ad utilizzarla appropriatamente nel contesto sociale e con diversi

interlocutori. Questa è definita “competenza pragmatica”, che include due aspetti: la

capacità di conversare e la capacità di tener conto del punto di vista dell'ascoltatore e dei

suoi bisogni comunicativi.

L’individuo sin dalla nascita è immerso nelle relazioni interpersonali e pertanto

necessita immediatamente di dotarsi di strumenti di comunicazione. In quest’ottica, la

padronanza del linguaggio è fondata sull’uso che viene fatto di quel linguaggio

(Wittgenstein, 1953; Searle, 1955; 1969; Tomasello, 2003): conoscere un significato

vuol dire sapere utilizzare quel significato e agire in accordo con tale conoscenza.

Oggi sappiamo che l’infante, il bambino piccolo (dalla nascita a circa 18 mesi), ha una

forte motivazione a comunicare e questo determina che lo sviluppo della pragmatica

inizi molto presto nell’ontogenesi (Bates, Camaioni, Volterra 1975; Bruner 1975; Bates

1976).

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Poiché la pragmatica si occupa della capacità di utilizzare il linguaggio e la

comunicazione non verbale, viene da sé che lo sviluppo di questa competenza nei primi

mesi di vita procede di pari passo con le acquisizioni evolutive che il bambino compie.

Nel corso dei primi mesi il bambino impara ad utilizzare pianto e sorriso in maniera

comunicativa, veicolando dei messaggi e adeguandosi alle esigenze esterne ed interne

percepite al momento (Sroufe e Waters, 1976; 1977).

Nelle prime forme comunicative (Trevarthen, 1979; Trevarthen e Aitken, 2001) è

l’adulto che per primo agisce da gestore dei contenuti pragmatici, per quanto molto

rapidamente il bambino impari a prendere il turno e guidare l’interazione (Reddy,2008;

Trevarthen, 2010). In queste prime fasi dello sviluppo il bambino costruisce, con la

figura di riferimento, delle “sequenze ordinate di azioni dirette ad uno scopo”, delle

mappe pragmatiche per orientare la propria attività nell’ambiente in cui vive.7

Tali scambi, con cui i partner arrivano a scambiarsi informazioni seguendo delle precise

regole (Trevarthen, 1979, 1993), hanno la funzione fondamentale di garantire una

graduale interiorizzazione delle capacità di autoregolazione emotiva (Schore, 2003;

Sroufe, 1995) e favoriscono lo sviluppo della capacità umana di affermare la propria

posizione nell’ambiente, non attraverso rapporti di forza ma attraverso competenze di

negoziazione pragmatica (Rochat, 2005).

Mentre procedono lo sviluppo motorio e quello cognitivo, il bambino comincia a

mettere in atto comportamenti che denotano una sempre maggiore comprensione della

pragmatica. Ne sono un esempio i due paradigmi fondamentali dello still face (Cohn e

Tronick, 1989; Giamino e Tronick, 1988; Mayes e Carter, 1990;Muir e Hains, 1993;

Toda e Fogel, 1993)8 e del riferimento sociale9 (Campos e Sternberg, 1981), fenomeni

relativi a competenze che emergono nell’arco di pochi mesi nella seconda parte del

primo anno di vita.

7 Si veda in proposito il concetto di script, originariamente proposto da Shank e Abelson (1975) e ripreso successivamente dalla Nelson (1986) e da Waters e Waters (2006) per un’applicazione allo sviluppo socio-comunicativo del bambino. 8 I risultati che derivano dal paradigma dello still-face mostrano che il bambino (già nei primi sei mesi di vita) aumenta i propri livelli di arousal e di stress quando la madre smette di interagire con lui; mette inizialmente in atto delle strategie tese a recuperare il rapporto con la madre: aumenta le vocalizzazioni, indica, muove le braccia per catturare l’attenzione. 9 verso i 9 / 10 mesi il bambino non si limita più a guardare solamente lo stimolo nuovo ma cercherà attivamente dei suggerimenti da parte delle figure a lui famigliari che lo guidino su come comportarsi in questa nuova situazione. Ciò che metterà quindi in pratica è determinato sia dalla propria personale percezione dello stimolo alla quale si aggiunge la reazione degli altri; è proprio quest’ultimo punto ad essere definito dagli psicologi: ricerca del riferimento sociale.

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Sin da prestissimo i bambini costruiscono con le persone del contesto un “terreno

comune”. Nella comunicazione (prima non verbale, poi verbale e non verbale insieme) i

due interlocutori possono basarsi sulla condivisione di una certa parte di conoscenza che

porta ad un’economia nella trasmissione delle informazioni (Clark,1996) fondamentale

per imparare a “disambiguare” i contenuti della comunicazione grazie alle inferenze

implicite permesse da tale condivisione.

Con l’acquisizione della deambulazione autonoma e l’uso dei gesti deittici e

referenziali, si assiste alla comparsa delle prime modalità cooperative rispetto alla

capacità di immedesimarsi nell’altro e di condividere un obiettivo comune.

La tendenza pragmatica del bambino – mediata dalla comunicazione non verbale e in

particolare dalla produzione del pointing10 –permette l’espansione del vocabolario e

questa stessa innesca la possibilità di avviare scambi dialogici più complessi. Nel corso

dei mesi successivi si assiste allo sviluppo della modalità simbolica e delle competenze

solitamente racchiuse nell’espressione “teoria della mente”, ovvero le capacità di

comprendere gli stati mentali proprio, altrui e le reciproche connessioni (Camaioni,

1995).

Solo dopo tutte queste fasi il bambino giunge ad una maturazione delle competenze

narrative; ad una maggiore capacità di comprendere il linguaggio non letterale –

figurato, di adattare i contenuti al partner della conversazione e di riparare eventuali

incomprensioni con l’interlocutore. Emergono quindi le competenze pragmatiche nel

senso più formale, che sottendono la capacità di utilizzare un terreno comune ai fini

linguistici; competenze che compaiono solo tra i 7 e i 9 anni di età (Di Sano et.al, 2003;

2005) e che saranno fondamentali per tutta la costruzione sociale della realtà (Searle,

1955; 1998).

Caratteristiche della comunicazione e del linguaggio nell’autismo 2.2

I ritardi e le anomalie nello sviluppo del linguaggio sono tra i sintomi principali dei

disturbi dello spettro autistico e sono proprio questi a spingere solitamente i genitori a

ricevere un parere medico. La compromissione del linguaggio può essere più o meno

profonda e i ritardi più o meno significativi. La variabilità inter-individuale è in tal

senso molto ampia: in alcuni casi il bambino non acquisisce il linguaggio. Studi

epidemiologici indicano che circa la metà della popolazione autistica rimane non

10 uso dell'indice per indicare un oggetto.

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verbale; tuttavia recenti studi longitudinali, di bambini sospettati di autismo, hanno

suggerito che la proporzione di bambini che non utilizzano parole è più bassa, meno del

20% (Lord et al., 2004).

Come indica Marini (2008), i deficit nello sviluppo del linguaggio sono in genere

associati ad una mancanza di strategie comunicative alternative, cosa che suggerisce che

il problema non sia tanto di natura prettamente linguistica, quanto dovuto alla mancanza

del desiderio di comunicare e all'incapacità di integrare le informazioni contestuali per

pianificare un'intenzione comunicativa. Anche i bambini autistici che acquisiscono il

linguaggio dimostrano un desiderio pressoché nullo di avviare o continuare una

conservazione.

La produzione linguistica dei bambini autistici è anomala da un punto di vista prosodico

(es. intonazione inadeguata), lessicale (es. uso di vocaboli inconsueti o rari), pragmatico

(es. incapacità di capire espressioni non letterarie e le esigenze dell'interlocutore) e

discorsivo (abbondano i discorsi non pertinenti e tangenziali, probabilmente dovuti

all'incapacità di formulare modelli mentali adeguati; Marini, 2008).

Se si esaminano più da vicino le varie componenti della lingua, si può notare come lo

sviluppo fonologico nel bambino autistico, per quanto rallentato, segua più o meno la

stessa traiettoria dei bambini con sviluppo tipico, a parte il fatto che si registra un

numero maggiore di errori fonologici (soprattutto parafasie fonologiche) rispetto ai

bambini con normale sviluppo e ai bambini con ritardo mentale (Marini, 2008).

L'aspetto maggiormente compromesso nell'autismo è la prosodia, sia per quanto

riguarda la comprensione sia per quanto riguarda la produzione: l'eloquio dei bambini

autistici tende ad essere monotono e cantilenante ed è caratterizzato da un andamento

melodico che spesso non è in linea con il significato del messaggio: nel senso che un

evento tragico può essere descritto con tono gioioso o viceversa (Marini, 2008). Alcuni

autori sono comunque inclini a pensare che i problemi prosodici non siano tanto indice

della presenza di uno specifico disturbo fonetico/fonologico, quanto un riflesso di

problemi di natura pragmatica (Marini, 2008).

La competenza morfologica e quella sintattica risultano nel complesso meno

compromesse. Sebbene possano registrarsi dei ritardi nello sviluppo della competenza

morfologica e sintattica, questi non sono di norma particolarmente significativi (Tager-

Flusberg, 2004). Per quanto gli enunciati dei bambini autistici tendano ad essere più

brevi rispetto a quelli dei coetanei, non si notano particolari problemi nella

strutturazione frasale (Marini, 2008).

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Per quanto riguarda lo sviluppo lessicale, sembra che il bambino autistico non abbia

difficoltà ad imparare il significato delle parole in quei casi in cui sono sufficienti

capacità di deduzione logica e non è necessario integrare informazioni pragmatiche

(Preissler e Carey, 2005). Quando è invece fondamentale integrare il contesto

pragmatico ed interazionale i bambini autistici hanno difficoltà, dovute probabilmente

all'incapacità di usare in modo adeguato le informazioni pragmatiche per dedurre le

intenzioni comunicative degli interlocutori (Baron-Cohen, Baldwin e Crowson, 1997).

La componente della lingua verosimilmente più compromessa nell'autismo è quella

pragmatica: il bambino autistico nel complesso non riesce ad usare il linguaggio in

maniera adeguata al contesto. Oltre ad avere seri problemi per quanto riguarda il rispetto

dei turni comunicativi, il bambino autistico non capisce espressioni non letterali,

sarcasmo, ironia, metafore e umorismo (questo è verosimilmente dovuto all'incapacità

di capire l'intento comunicativo degli altri; Tomasello, 2001). Il bambino autistico tende

inoltre ad usare espressioni strane ed apparentemente non collegate al contesto che nel

complesso risultano in un linguaggio altamente idiosincratico: l'eloquio è bizzarro ed

anomalo sia dal punto di vista informativo (con informazioni irrilevanti al contesto) sia

dal punto di vista della coerenza concettuale (Marini, 2008).

Uno dei problemi più noti e curiosi da un punto di vista linguistico è l'uso anomalo dei

pronomi personali e l'inversione pronominale, ovvero la tendenza a invertire i referenti

dei pronomi: per riferirsi a se stesso il bambino tende ad usare il pronome di

seconda/terza persona, mentre per riferirsi ad un interlocutore tende ad usare quello di

prima persona. Sono state avanzate varie ipotesi sul rovesciamento dei pronomi.

Secondo alcuni il fenomeno dell'inversione pronominale sarebbe dovuto a una più

generale tendenza a ripetere meccanicamente i pronomi uditi e a un'incapacità di

contestualizzarli in relazione ai loro referenti (Marini, 2008); secondo la tesi "sè e

altro"11, questi errori sarebbero dovuti ad un concetto del sé immaturo, nel senso che il

bambino non capisce né l'alternanza parlante-interlocutore, né che il pronome è relativo

alla persona; secondo la tesi "prospettiva spaziale"12 l'uso erroneo dei pronomi personali

sarebbe dovuto all'incapacità di riconoscere le differenti prospettive spaziali delle varie

persone.

Un altro fenomeno caratteristico dell'autismo, già notato da Kanner, è quello

dell'ecolalia, ovvero la ripetizione, con intonazione simile, di parole o frasi dette da

11 self and other hypotesis 12 spatial perspective hypotesis

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qualcun altro. A seconda dell'intervallo che intercorre tra la frase originale e la

ripetizione, nella letteratura si è soliti distinguere tra ecolalia immediata e differita. Nei

casi di ecolalia immediata il bambino ripete quanto ha appena sentito con parole e

intonazione dell'interlocutore, mentre nell'ecolalia differita riproduce parole o frasi udite

ore, giorni o perfino anni prima. Bisogna ricordare a questo proposito che l'ecolalia è

riscontrabile in molti bambini ma tende a scomparire spontaneamente intorno ai 4-5

anni quando verosimilmente maturano le strutture frontali che inibiscono

comportamenti comunicativamente inadeguati (Marini, 2008).

Sebbene l'ecolalia sia stata in passato interpretata come fenomeno disfunzionale dovuto

a ossessione, rigidità e preoccupazioni di natura non sociale (ovvero senza alcun intento

comunicativo), recentemente Sterponi e Shankey (2013) hanno proposto

un'interpretazione diversa del fenomeno, partendo dai risultati di alcuni studi13 che

analizzano posizione sequenziale, contorno intonativo e latenza. Gli autori sono nel

complesso del parere che il bambino configuri le ripetizioni in vari modi usando tratti

segmentali e soprasegmentali che le marcano come alterazioni delle frasi modello,

facendo riecheggiare l'enunciato altrui in vario modo per ottenere determinati obiettivi

internazionali. Se le cose stanno così, le ripetizioni non devono essere interpretate come

riflesso di una volontà di dissociarsi dalla situazione presente ma al contrario come

espressione del contributo (per quanto insolito) del bambino alla situazione

interazionale.

Quando si registra un miglioramento delle abilità linguistiche tendenzialmente l’ecolalia

diminuisce sia nello sviluppo normale del linguaggio, sia nel caso dell’autismo (Frith,

1989, 2003).

Difficoltà nella comunicazione e interazione sociale 2.3

2.3.1 Lo sviluppo delle abilità sociali nell’autismo

Sappiamo ancora poco riguardo le capacità di risposta sociale dei bambini che in

seguito ricevono la diagnosi di autismo. Il deficit sociale non è evidente all’inizio; ma

da un’analisi retrospettiva emerge che questi bambini mostrano un minor numero di

13 Prizant (citato in Sterponi e Shankey, 2013) ha identificato almeno sei funzioni per le ripetizioni immediate e quattordici per quelle differrite. Tra queste ci sono funzioni con chiaro intento comunicativo (es. richiesta, protesta) e funzioni non strettamente comunicative ma importanti da un punto di vista cognitivo (es. istruzioni impartite dal bambino a se stesso per compiere determinate azioni, reharsal etc).

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contatti oculari e sorrisi sociali e rispondono in maniera molto minore rispetto ai

coetanei quando vengono chiamati per nome.

Alcuni di loro nel primo anno di vita manifestano un’interazione sociale pressoché

normale, sorridono e ciangottano come gli altri bambini e dimostrano di essere contenti

quando vedono i loro genitori.

Tra i 6 e i 18 mesi iniziano a manifestare grandi cambiamenti nel comportamento

sociale, che raggiungono il loro culmine probabilmente fra i 3 e i 5 anni, quando la

comparsa dilazionata e l’assenza di linguaggio costituisce un forte impedimento per i

tentativi di socializzazione. Un’altra difficoltà riportata dai genitori è quella di applicare

con i loro bambini l’approvazione o la disapprovazione sociale: questi bambini non

sono in grado infatti di valutare le intenzioni che stanno dietro a questi comuni controlli

del comportamento14. Per esempio possono rattristarsi per un piccolo rimprovero («Hai

le dita appiccicose») ignorarne uno importante («Vieni via dalla strada»).

Dopo i 5 anni si registra spesso un netto miglioramento delle abilità sociali e

dell’adattamento in generale. In realtà questi bambini mostrano un notevole aumento

della socializzazione durante tutto il loro sviluppo; tuttavia la capacità di attribuire stati

mentali agli altri, capacità appresa in modo implicito negli altri bambini, è assente nei

bambini autistici e l’apprendimento di come ci si comporta in modo appropriato con gli

altri avviene lentamente.

2.3.2 Comunicazione non verbale

È importante ricordare che il linguaggio è solo il canale più ovvio, ma non il solo,

attraverso cui i messaggi sociali vengono inviati. Il volto umano, gli occhi e le mani,

mandano segnali che sono vitali per la nostra vita sociale.

A tal proposito, è stato dimostrato15 che la capacità, implicita per la maggior parte degli

esseri umani, di ricordare centinaia di volti, non è altrettanto sviluppata nelle persone

14 Questa incapacità di riflettere sul contenuto della propria mente e su quello degli altri è anche definita cecità mentale. 15 «When viewing naturalistic social situations, individuals with autism demonstrate abnormal patterns of social visual pursuit consistent with reduced salience of eyes and increased salience of mouths, bodies, and objects. Fixation times on mouths and objects but not on eyes are strong predictors of degree of social competence.» Robert Schultz, Visual Fixation Patterns During Viewing of Naturalistic Social Situations as Predictors of Social Competence in Individuals With Autism ( 2002).

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con autismo; questa “cecità alle persone” sarebbe attribuibile secondo alcuni studi alla

mancanza di una specializzazione cerebrale per il riconoscimento dei volti.16

Nel volto sono gli occhi che forniscono gli indizi sociali più importanti. Chiaramente

senza la capacità intuitiva di attribuire stati mentali agli altri, il linguaggio degli sguardi

sarebbe privo di senso. È infatti quello che succede negli individui autistici, per i quali

l’uso e l’interpretazione degli sguardi non risultano così semplici e automatici.17

Emerge quindi come lo sguardo sia un indicatore migliore della capacità di mentalizzare

di quanto non lo sia la risposta verbale standard e può essere un elemento ancora più

utile per discernere i casi di autismo.18

Se i bambini autistici non possono decodificare automaticamente il significato degli

sguardi, allora i messaggi silenziosi dei coetanei e dei caregivers verranno più

facilmente ignorati o

equivocati.

Quasi sempre nelle descrizioni

dell’autismo infantile si

possono ritrovare riferimenti

all’uso che questi bambini

fanno delle mani come

strumento: possono portare un

adulto verso l’oggetto che

desiderano e porre la sua mano

sull’oggetto.

Molti studi hanno preso in

esame la gestualità dei bambini

autistici. Nella sua tesi di

dottorato Tony Attwood ha scoperto che il bambino autistico riesce a gestire con grande

abilità determinati gesti, detti strumentali, gesti finalizzati a far sì che qualcun altro

faccia qualcosa (Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.).19

16 R.J.R. Blair, U.Frith, N.Smith, F. Abell, L. Cipollotti, Fractionation of visual memory: agency detection and its impairment in autism, in Neuropsychologia 40 (2002) 108–118. 17 Baron-Cohen, Mindblindness: An Essay on Autism and Theory of Mind, The MITT Press, Cambridge 1995. 18 T.Ruffman, W.Garnham, P.Rideout, Social Understanding in Autism: Eye Gaze as a Measure of Core Insights, 2001. 19 Anthony Attwood, Uta Frith, Beate Hermelin, The understanding and use of interpersonal gestures by autistic and Down's syndrome children, 1988.

Figura 1- Gesti strumentali

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Questi gesti sono impiegati in un tipo di comunicazione che potremmo chiamare

“comunicazione neutra”, i cui messaggi sono assimilabili alla pressione su un pulsante,

completamente diversa dalla comunicazione abituale (o intenzionale). Di fronte ad un

messaggio “neutro” si può solo obbedire o rifiutare la richiesta nei termini in cui è stata

formulata (es. «vattene via!»). Nelle varie sfumature dei messaggi intenzionali c’è

invece spazio per il compromesso: si può cercare di capire l’intenzione che c’è dietro un

messaggio come «Non farti vedere mai più!», e, una volta dedotte le ragioni di tale

messaggio, si può scegliere come rispondere.

Nella comunicazione ordinaria

esiste anche un’altra tipologia

di gesti usata per trasmettere gli

stati della mente, i sentimenti

che si provano riguardo

qualcosa: questi gesti sono detti

espressivi (Errore. L'origine

riferimento non è stata

trovata.) e nessun bambino

autistico dello studio di

Attwood ha mostrato questo

tipo di gesto nel periodo di

osservazione.

2.3.3 Le emozioni

Alcuni danno per certo che nei bambini autistici manchino il legame precoce e la

formazione dell’attaccamento, e che questa mancanza sia la più pura manifestazione dei

sintomi profondi di questa patologia. Il paradigma della reazione all’estraneo20

20 Il protocollo, oggi noto come “Infant Strange Situation” (Ainsworth et al., 1978) è una procedura che è stata successivamente applicata moltissime volte da ricercatori di tutto il mondo ottenendo ottimi valori di attendibilità e validità. In questo tipo di osservazione, nel corso di un periodo di venti minuti, il bambino veniva posto in una stanza in presenza, alternativamente, della madre, della madre e di un estraneo o unicamente dell’estraneo, per essere infine lasciato del tutto solo per circa tre minuti. L’assunto di base era che in un bambino di un anno, la separazione dal genitore in un ambiente a lui sconosciuto, avrebbe determinato l’attivazione di meccanismi di attaccamento, consentendo

Figura 2- Gesti espressivi

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applicato a bambini autistici e a bambini con disturbi d’apprendimento, tra i 2 e 5 anni,

ha dimostrato però il contrario21: tutti i bambini hanno mostrato un significativo

aumento della risposte sociali rivolte alla madre al momento del ricongiungimento.

Questi esperimenti hanno provato che, poiché per il comportamento di attaccamento

non è necessaria la consapevolezza degli stati mentali, è possibile riscontrare risposte

sociali positive anche in bambini autistici molto piccoli.

Lo studio delle emozioni è stato lento e confuso. Il primo a suggerire che ai bambini

autistici potesse mancare la capacità di base di interpretare le emozioni, è stato lo

psichiatra inglese Hobson. In uno studio che coinvolgeva adolescenti autistici, con

un’età mentale media di 10 anni ad un test di abilità non verbale, circa due terzi di essi

hanno ottenuto una prestazione scarsa nella prova che richiedeva di accoppiare le

emozioni.22

C’è dunque nell’autismo un disturbo primario nell’elaborazione delle emozioni? È

possibile e potrebbe essere secondario alla cecità mentale. È possibile infatti che i

bambini autistici non siano consapevoli del fatto che un’emozione particolare può

essere espressa e messa in atto in modi diversi. Inoltre la cecità mentale può portare una

concezione inadeguata degli altri stati mentali, come le credenze.

Cosa sappiamo invece sull’ espressione delle emozioni?

Le emozioni fondamentali, ovvero le reazioni istintive al dolore o al piacere vengono

sicuramente espresse dai bambini autistici. A tutte le età sono stati osservati stati

estremi dell’umore, con gioia, dolore, frustrazione, ira o panico.

Diversamente accade con emozioni “speciali”, come orgoglio, imbarazzo, sdegno e

modestia: emozioni che abbondano nella comunicazione sociale e che presuppongono

una comprensione degli stati mentali altrui. Le persone autistiche trovano generalmente

enigmatiche queste emozioni e hanno bisogno che qualcuno le spieghi loro in modo

dettagliato. Possono quindi essere loro insegnate esplicitamente ma l’apprendimento è

lento e difficile.23

all’esaminatore di valutare le sue reazioni non solo all’allontanamento, ma soprattutto al ritorno della figura di attaccamento. 21 Proximity and Sociable Behaviours in Autism: Evidence for Attachment, Cheryl Dissanayake, Stella A. Crossley, 1996. 22 R.P.Hobson, Autism and the Development of Mind, Lawrence Erlbaum, Hove 1993. 23 A proposito, interessante è lo studio di Connie Kasari, Marian D. Sigman, Pat Baumgartner, Deborah J. Stipek , Pride and Mastery in Children with Autism, (1993), che illustra le differenze tra questi due tipi di emozione nell’autismo.

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2.3.4 L’empatia

Un’altra questione riguarda l’empatia: gli autistici sono incapaci di empatia? L’empatia

richiede le capacità di attribuire stati mentali?

Innanzitutto, cos’è l’empatia? Con il termine empatia si intende la capacità di

immedesimarsi con gli stati d’animo e con i pensieri delle altre persone, sulla base della

comprensione dei loro segnali emozionali, dell’assunzione della loro prospettiva

soggettiva e della condivisione dei loro sentimenti (Bonino, 1994). A livello

neurobiologico, la comprensione della mente e dei vissuti dell’altro è sostenuta da una

particolare classe di neuroni, definiti neuroni specchio: partecipare come testimoni ad

azioni, sensazioni ed emozioni di altri individui attiva le stesse aree cerebrali di norma

coinvolte nello svolgimento in prima persona delle stesse azioni e nella percezione delle

stesse sensazioni ed emozioni (Gallese, 2005).

Dell’empatia Choi-Kain e Gunderson riportano tre aspetti che accomunano le varie

definizioni e concezioni:

- una reazione affettiva che comporta la condivisione di uno stato emotivo con

l’altro;

- la capacità cognitiva di immaginare la prospettiva altrui;

- una capacità di mantenere in modo stabile una distinzione sé-altro.

L’empatia è stata oggetto di diverse modalità di studi, da quelli più neuroscientifici di

neuroimmaging fino a misure self-report. Le sovrapposizioni e differenze col costrutto

di mentalizzazione toccano diversi aspetti. In primo luogo entrambi implicano

l’apprezzare gli stati mentali altrui, a cui però l’empatia aggiunge la condivisione e la

preoccupazione. Inoltre, l’orientamento dell’empatia è rivolto più verso gli altri e nella

mentalizzazione invece è equamente distribuito. Entrambe operano sia a livello

implicito che esplicito ma l’empatia viene considerata specie nella sua modalità più

implicita. Infine, il contenuto dell’empatia, come per la mentalizzazione, comporta l’uso

di abilità cognitive ma è focalizzato soprattutto sugli affetti.

Le persone autistiche hanno minore empatia cognitiva che è l’abilità di predire i

pensieri e le intenzioni degli altri, compresa l’abilità di leggere tra le righe e prendere la

prospettiva altrui.

Ma hanno molta empatia affettiva (simpatia), l’abilità di percepire i sentimenti di

un’altra persona, e compassione, ovvero il desiderio di aiutare gli altri (anche se spesso

non sanno come fare).

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Quando non si è in grado di attribuire stati mentali, è possibile comprendere e dare la

risposta giusta, anche se in realtà non si prova dispiacere per la disgrazia dell’altro.

D’altra parte se non si è in grado di attribuire stati mentali agli altri, può risultare

difficile rispondere in modo adeguato, pur provando simpatia per quella persona.

Un autistico ignora le differenze tra la propria mente e quella degli altri ma nulla gli

impedisce di provare ad esempio angoscia all’idea della sofferenza o di mostrare

legittima indignazione.

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Capitolo III

LA COMUNICAZIONE AUMENTATIVA ALTERNATIVA NELLE

DIFFICOLTÀ COMUNICATIVE

3.1 La Comunicazione Aumentativa Alternativa

La comunicazione sottintende a qualcosa che non riguarda solo il linguaggio: è

incontro, relazione, che per esserci ha bisogno di due persone che condividano un

codice comune che consenta loro di tradurre dei segni in significati a cui dare una

risposta.

In situazioni di normalità la comunicazione avviene attraverso le parole, i gesti e la

scrittura; in molti casi di disabilità intellettiva, sensoriale o motoria chi ne è affetto non

può affidare la sua comunicazione al corpo, all’espressione del viso, alla voce. Succede

allora che queste persone si trovino a vivere una delle condizioni più difficili che un

individuo possa sperimentare: il silenzio forzato. L’assenza di un linguaggio verbale,

infatti, porta ad escludere automaticamente la comunicazione, annullando la possibilità

di esprimersi della persona.

La Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA) è definita “ogni comunicazione

che sostituisce o aumenta il linguaggio verbale” ed è “un'area della pratica clinica che

cerca di compensare la disabilità temporanea o permanente d’ individui con bisogni

comunicativi complessi.”24.

La CAA cerca di ridurre, contenere, compensare la disabilità temporanea e permanente

di persone che presentano un grave disturbo della comunicazione sia sul versante

espressivo sia sul versante ricettivo, attraverso il potenziamento delle abilità presenti, la

valorizzazione delle modalità naturali e l’uso di modalità speciali.

Non si tratta quindi di una tecnica, ma di un intervento e, come tale, si può servire di

diverse tecniche che hanno lo scopo di sostenere e aumentare le competenze

comunicative delle persone con bisogni comunicativi complessi (BCC), ovvero tutti i

bisogni che riguardano l’espressione e la ricezione del messaggio.

L’aggettivo “Aumentativa” indica tutte le modalità che hanno lo scopo di accrescere e

migliorare la comunicazione naturale già presente includendo le vocalizzazioni, il

linguaggio verbale residuo, i gesti, i segni e la comunicazione mediante ausili.

24 ASHA - American Speech Language Hearing Association, 2005.

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L'aggettivo “Alternativa” viene utilizzato sempre meno poiché sono molto rare le

situazioni in cui l’intervento è sostitutivo del linguaggio verbale (ormai soltanto le

malattie neurologiche progressive), ed in quanto non fornisce un’adeguata

rappresentazione del sistema di comunicazione che si pone in maniera integrativa,

piuttosto che alternativa.

L’obiettivo dell’intervento non è, infatti, quello di sostituire il linguaggio, ma sostenere

l’espansione delle capacità comunicative tramite tutte le modalità e i canali a

disposizione del soggetto, proponendosi come supporto alla relazione, alla

comprensione e allo sviluppo cognitivo25.

L’utilizzo delle prime forme di CAA è avvenuto intorno agli anni ‘70 in Canada e negli

Stati Uniti, all’inizio soprattutto nell’ambito delle paralisi cerebrali infantili o dei

disturbi con una prevalente difficoltà espressiva, più tardi espandendosi

progressivamente a bisogni comunicativi più complessi che presentano difficoltà anche

nella comprensione di quello che altri vogliono comunicare sul piano linguistico,

cognitivo e comunicativo.

Negli anni ’70, il grande progresso scientifico nel campo medico e riabilitativo

determinò un aumento del numero di neonati sopravvissuti a parti prematuri e di adulti

ancora in vita dopo ictus o traumi cranici che si trovarono ad avere gravi disabilità

motorie o difficoltà comunicative, portando in primo piano la necessità d’intervenire per

consentire a questi soggetti di comunicare efficacemente.

Iniziarono a diffondersi le prime forme di CAA e, grazie al progresso tecnologico, fu

inventato il primo ausilio tecnologico POSSUM (Patient Operated Selection

Mechanism) accessibile, però, solo a coloro che avevano appreso il codice alfabetico e

che, inoltre, non si dimostrava agevole per l'utilizzo quotidiano.

Nel 1971 iniziò in Canada un progetto di ricerca che utilizzava un linguaggio iconico

attraverso simboli, chiamati Blissymbolics, che potevano essere compresi da chiunque:

questo sistema ebbe un immediato successo, diffondendosi rapidamente in molti paesi e

prendendo il nome di Blissymbolics Communication International (BCI).

La nascita e la diffusione dei sistemi elettronici portò un ulteriore contributo alla

comunicazione con la costruzione di ausili con uscita di voce sintetica o in stampa

sempre più piccoli e maneggevoli.

25 A. Rivarola, Comunicazione Aumentativa Alternativa, Milano, Centro Benedetta D'Intino Onlus, 2009.

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Nel 1983, ad opera di 25 Paesi del mondo, nacque l'International Society for

Augmentative and Alternative Communication (ISAAC), associazione di professionisti,

utenti e familiari attraverso la quale la CAA iniziò a diffondersi in tutto il mondo.

In Italia, nel 1989, fu costituito il Gruppo Italiano per lo Studio della Comunicazione

Aumentativa e Alternativa (GISCAA), e nel 1996 fu fondata la prima e unica scuola

annuale di formazione in CAA a Milano, presso il Centro Benedetta D'Intino ONLUS.

Nel 2002 venne creata una sezione di ISAAC in Italia, Chapter Italy, con lo scopo, oltre

che di portare avanti gli obiettivi prestabiliti da ISAAC International, di promuovere e

diffondere il campo interdisciplinare della CAA e facilitare l'accesso alle informazioni e

alle conoscenze esatte della cultura della CAA.

3.1.1 Strumenti e strategie di CAA

La CAA rappresenta un approccio che descrive “l’insieme di conoscenze, tecniche,

strategie e tecnologie che facilitano e aumentano la comunicazione in persone che

hanno difficoltà ad usare i più comuni canali comunicativi”26, in una visione olistica

che tiene insieme tutte le dimensioni della persona.

Si distingue una comunicazione non assistita ed una comunicazione assistita.

I sistemi di CAA non assistiti richiedono soltanto il corpo e nessun sistema o dispositivo

esterno; comprendono le modalità di comunicazione non verbale (o analogica) tra cui

l’espressione del volto, i movimenti, i gesti, i vocalizzi, che affiancano la parola o la

sostituiscono quando questa non è presente.

I sistemi di CAA assistiti (o aided) si suddividono in ausili aided non elettronici

realizzati con i materiali definiti “poveri” che non hanno bisogno di batteria, come i

sistemi di simboli, le tabelle di comunicazione; ausili elettronici a bassa tecnologia

(low-tech) che prevedono l’utilizzo di dispositivi ad uscita di voce (VOCA) che

riproducono i messaggi preregistrati attivati da un comando specifico e ausili elettronici

ad alta tecnologia (high-tech) che si avvalgono del supporto di comunicatori complessi

e display dinamici.

Descrizione dei principali sistemi di simboli

La CAA aided utilizza un sistema di simboli grafici che possono essere oggetti reali,

fotografie, loghi di prodotti, parole singole, frasi ed infine set di simboli pittografici

26 Ivi, p.3

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sviluppati per essere usati in modo singolo o applicati sugli ausilii. Tra le più note

raccolte di simboli troviamo:

i Picture Communication symbols (PCS) di Mayer son (scheda Portale SIVA

n. 15461), un codice pittografico composto da 4.800 immagini che sono chiare e

facilmente riconoscibili, possono essere combinati con altre immagini e

fotografie per lo sviluppo di tabelle o sistemi di comunicazione personalizzati.

PCS è forse il più diffuso insieme di simboli in uso nel mondo, grazie

soprattutto alla trasparenza della grafica che, pur con qualche stilizzazione,

mantiene una buona riconoscibilità immediata.

Figura 3 Esempio di PCS

Widgit Literacy Symbols (WLS) è un sistema di simboli nato nel Regno Unito.

Lo stile grafico ha una maggiore adultità rispetto a PCS e la rappresentazione

simbolica ha una buona coerenza interna; i simboli di oggetti concreti

mantengono lo stesso livello di trasparenza dei PCS, mentre la presenza di

elementi per la rappresentazione delle componenti morfosintattiche della lingua

avvicina WLS a Bliss.

Figura 4 Esempio di Widgit Symbols

il sistema di comunicazione “BLISS” di Blissymbolics Institute Communi, è

costituto da simboli grafici iconici ideografici e convenzionali che richiedono

maggiori capacita di astrazione. La rappresentazione delle parole ha una sua

forte coerenza interna e utilizza come elementi primitivi un numero limitato di

26 segni grafici elementari, che possono essere combinati potenzialmente

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all’infinito per creare nuove parole ed esprimere elementi grammaticali e

morfosintattici, in modo simile a quanto avviene con i suoni del linguaggio.

Figura 5 Esempio di Blissymbols

Gli ausili per la comunicazione

I sistemi di simboli necessitano normalmente di ausili e supporti per essere esposti,

visualizzati e selezionati con modalità diretta o indiretta. La selezione diretta è fatta

dall'utente indicando il simbolo con una qualsiasi parte del corpo, compreso il

puntamento tramite sguardo. Possono anche essere usati ausili di puntamento nel pugno

o su un caschetto o altri quali un'asta in bocca o un fascio luminoso applicato ad un

caschetto.

La selezione indiretta può venire a scansione o a codifica. La modalità a scansione

prevede che la selezione avvenga scorrendo su un gruppo di simboli per riga o per

colonna. La selezione indiretta a codifica avviene attraverso l'uso di un codice: ogni

elemento è dotato di un codice di riferimento (numeri, colori, ecc.) così la scelta

sequenziale permette l'accesso a molti vocaboli.

I dispositivi non elettronici sono strumenti che non hanno bisogno di batteria o di

circuiti elettrici, includono tabelle di comunicazione e schemi visivi delle attività. I

dispositivi elettronici a bassa tecnologia includono ausili di comunicazione a uscita in

voce che riproducono singoli messaggi o messaggi in sequenza di pochi minuti. I

dispositivi elettronici ad alta tecnologia includono ausili complessi: comunicatori

simbolici multi-caselle con frontalini intercambiabili con uscita in voce, comunicatori

alfabetici e display dinamici.

Tabelle cartacee per la comunicazione

Si tratta di strumenti carta-penna che vengono usate indicando le lettere con la mano.

Questi strumenti possono essere particolarmente utile quando la comprensibilità del

parlato non è ottimale: talvolta basta indicare le prime lettere della parola che non è

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stata compresa per ripristinare il dialogo.

Tavole E-TRAN

Generalmente costituite da un pannello trasparente sul quale sono scritti o impressi

simboli, numeri o lettere selezionabili attraverso l'uso dello sguardo. Si tratta di oggetti

che non sono reperibili in commercio, ma vanno costruiti artigianalmente. Il pannello

trasparente viene posto tra il paziente e il suo interlocutore.

Comunicatori alfabetici

Esistono comunicatori alfabetici portatili dotati di una sintesi vocale di alta qualità. Il

display possiede due righe di 40 caratteri ciascuna e mentre l'utente digita i primi

caratteri di una parola nella prima riga, nella seconda vengono visualizzati alcuni

termini d'uso frequente che iniziano con la medesima radice. Inoltre, dopo la selezione

della parola, l'apparecchio mostra una serie di parole logicamente correlate adesso

consentendo di risparmiare circa il 50% delle digitazioni, velocizzando in modo

significativo gli scambi comunicativi. Il sistema permette anche di memorizzare intere

frasi d'uso frequente e di richiamarle con semplici combinazioni di tasti. È possibile

anche il controllo del comunicatore tramite scansione automatica.

SGD o VOCA

Gli Speech-Generating Device hanno generalmente l'aspetto di un tasto con il quale è

possibile registrare un messaggio. Quando l'utente attiva una determinata area, l'effetto

prodotto è l'ascolto del messaggio ad essa associato. È possibile anche registrare una

sequenza di messaggi in corrispondenza della stessa area sensibile.

Tablet

Sono dei sistemi simili al computer portatile con schermo tattile. Questi comunicatori

integrano le potenzialità del PC ad alcune caratteristiche dei VOCAs.

Sistemi di puntamento oculare

Questi apparecchi emulano il movimento del mouse sfruttando l’eye tracking, cioè il

puntamento oculare diretto tramite l’uso di una tecnologia a infrarossi. Il rilevamento

della direzione dello sguardo è binoculare, garantendo così una buona precisione e

accuratezza del sistema di puntamento. È impostabile anche il rilevamento di un unico

occhio nei casi in cui il puntamento binoculare sia compromesso. Il sistema viene

fornito già montato su tablet o PC, e dotato di un software completo personalizzabile

per la comunicazione.

Spesso le diverse tipologie di comunicazione vengono integrate tra di loro per ampliare

le possibilità d’interazione in un approccio di “comunicazione totale”.

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Lo scopo dell’intervento di CAA, infatti, è di supportare la comunicazione naturale

esistente e di fornire soluzioni che facilitino l’interazione tra la persona e il suo

ambiente di vita mettendola nelle condizioni di poter attuare scelte, rifiutare, esprimere i

suoi stati d’animo e diventare così protagonista della sue azioni.

Numerose ricerche hanno evidenziato l’importanza d’iniziare più precocemente

possibile l’intervento di CAA sia per aumentare le occasioni d’interazione e di

conoscenza della lingua sostenendo lo sviluppo cognitivo, linguistico e comunicativo

degli individui affetti da disabilità che compromettano la loro capacità espressiva e

comunicativa, sia per prevenire la comparsa di disturbi del comportamento,

particolarmente frequenti nelle persone con difficoltà della comunicazione.

La caratteristica fondamentale su cui si fonda un intervento di CAA è un approccio

mutimodale che parte dal presupposto di considerare tutte le modalità di comunicazione

dell’individuo usate a livello intenzionale e non intenzionale per mettersi in contatto con

chi lo circonda. Prima di iniziare un intervento è necessario, infatti, identificare il

sistema di comunicazione dell’individuo e, a partire dalle abilità presenti, individuare le

strategie, gli strumenti e gli ausili che possano migliorare le possibilità comunicative.

Per iniziare l’intervento non è necessario che siano presenti particolari abilità: l’unico

prerequisito per intraprendere un intervento di CAA è la presenza di reali opportunità di

comunicazione27 offerte dall’ambiente.

Qualora si decida di proporre una nuova modalità comunicativa, ad esempio tramite un

dispositivo, questa risulterà completamente inefficacie se non saranno offerte delle reali

occasioni d’interazione: se i segnali emessi dall’ individuo non ricevono risposta da

parte del contesto, ovvero si verificano dei breakdown della comunicazione, può

avvenire un disinvestimento nella comunicazione che porta il rischio dell’utilizzo di un

comportamento problematico come strategia di recupero.

In questo senso la responsabilità della comunicazione si sposta dalla persona che non

parla a quanti la circondano, focalizzando l’intervento sulle competenze ed abilità dei

partner comunicativi di riconoscere i segnali esistenti e di trasformarli in comportamenti

intenzionali.

Diventa cruciale il lavoro con e sull’ambiente facilitando l’integrazione di competenze

professionali diverse (neuropsichiatra infantile, psicologo, educatore professionale,

logopedista) in un’ottica di progressiva assunzione di competenze da parte del contesto

27 Ivi, p.3

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così che possa soddisfare nel tempo i cambiamenti dei bisogni comunicativi del

soggetto.

L’obiettivo, infatti, è costruire un sistema di apprendimento interattivo e pragmatico

inserito in situazioni comunicative naturali e realistiche, in modo che qualsiasi abilità

sia utilizzata spontaneamente in tutti i momenti e i luoghi di vita.

3.2 Autismo e CAA

Fino a dieci-vent’anni fa, la CAA si rivolgeva principalmente ai bisogni delle persone

con disabilità fisica. Purtroppo le potenziali applicazioni della CAA per le persone con

autismo sono state a lungo trascurate. Oggi però la CAA viene considerata uno

strumento di grande valore per le persone con disturbi dello spettro autistico, a casa, in

classe, al lavoro e nella comunità.

Le caratteristiche della CAA e le necessità di apprendimento dei bambini con DSA

combaciano in molti aspetti. La maggior parte di costoro ha una buona capacità di

elaborazione visiva; la CAA si basa per la maggior parte su stimoli visivi: immagini,

parole scritte, fotografie sono più permanenti e di più facile rielaborazione.

L’uso di strategie visive non è nuovo nell’intervento a favore di soggetti con autismo.

Dawson e Osterling, già nel 1997 sottolineavano come molti programmi di trattamento

dell’autismo utilizzassero strategie di comunicazione aumentativa visiva.

Parallelamente, Howlin (1997) e Quill (1997) indicavano nell’uso di istruzioni visive

una strategia efficace per rendere più comprensibile e prevedibile l’ambiente.

Lo stimolo visivo, a differenza di quello verbale, permane nel tempo: le parole, intese

come stimolo verbale, una volta pronunciate, si dissolvono e permangono, in maniera

più o meno completa, solo nella memoria dell’individuo che ascolta, mentre l’immagine

continua a essere visibile di fronte al soggetto. Considerando le frequenti difficoltà del

soggetto autistico nell’elaborazione dello stimolo verbale e la conseguente maggiore

difficoltà di memorizzazione uditiva, non stupisce che venga compreso meglio un

messaggio di tipo visivo. Inoltre, molte persone con autismo presentano specifiche

difficoltà nella pianificazione, nell’autocontrollo, nel portare avanti attività in sequenza

ed è stato anche sottolineato da diversi autori la presenza di un deficit delle funzioni

esecutive (Ozonoff, 1995). Le immagini possono essere di supporto al soggetto

nell’esecuzione di compiti che richiedono sequenze e favoriscono l’automonitoraggio

del comportamento; le immagini se opportunamente costruite e organizzate, possono

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diventare una sorta di esteriorizzazione del dialogo interno, un facilitatore in grado di

ridurre una menomazione, che rende difficile alla persona dirsi ciò che deve fare e con

quale sequenza e come deve comportarsi nei diversi contesti.

Un’ulteriore considerazione che rende spendibili in un contesto educativo e abilitativo,

le strategie visive, risiede nel fatto che possono essere costruite secondo

un’impostazione di tipo evolutivo: la strategia visiva, cioè può crescere con il bambino

passando da un livello concreto (l’oggetto) a livelli di astrazione man mano più alti, fi

no alla scrittura o ad altri sistemi simbolici complessi.

Un’altra ragione che rende la CAA particolarmente adatta nel caso dell’autismo è

l’interesse per questi bambini per gli oggetti inanimati, interesse che rende i dispositivi

e gli strumenti CAA più facili da utilizzare rispetto al linguaggio parlato. Un’altra

difficoltà che spesso si riscontra nell’autismo riguarda poi la tolleranza al cambiamento,

chiamata anche «insistenza sull’identicità»28. La CAA fa fronte a questo problema

raggruppando simboli visivi su una tavola di comunicazione o su un VOCA, che è

statico e prevedibile, come lo sono il vocabolario e la collocazione di ciascun simbolo

sulla tavola. I concetti nuovi, le parole che li rappresentano, vengono aggiunti poco alla

volta, per tollerare il cambiamento.

Le difficoltà a rielaborare stimoli complessi (es. linguaggio parlato e del corpo, stimoli

che di norma intercorrono in una interazione sociale) può rendere questi bambini

«iperselettive» rispetto ad un singolo e semplice oggetto o ad un indizio, sul quale

concentrano l’attenzione focalizzandosi su caratteristiche irrilevanti e perdendo di vista

il quadro generale; gli strumenti e dispositivi di CAA possono essere ideati e

programmati con stimoli semplici (un simbolo soltanto) resi poi più articolati (diversi

simboli) quando imparano a comprendere e utilizzare un linguaggio più complesso.

Gli stimoli multipli e complessi, che sono una parte fondamentale in ogni interazione

sociale, possono provocare ansia ai bambini con DSA; le tecniche di CAA fungono da

interfaccia tra gli interlocutori, garantendo comprensione reciproca e riducendo il

disagio, permettendo così di comunicare con facilità e senza pressione, ansia, stress. La

loro incapacità di comunicare porta alla formazione di comportamenti problematici,

28 Il termine originariamente usato da Kanner è sameness; traduzione di Joanne M. Cafiero, Comunicazione aumentativa e alternativa. Strumenti e strategie per l'autismo e i deficit di comunicazione, 2009.

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come crisi di collera e aggressività; l’AAC, se applicata precocemente, può aiutare a

ridurli.29

3.2.1 Ricerche su Autismo e CAA

Nell’analisi delle ricerche si è tenuta in considerazione la distinzione tra la

comunicazione recettiva e quella espressiva.

Per comunicazione recettiva si intende “la comprensione dei significati letterali e

impliciti dei messaggi nel linguaggio parlato, nonché i significati letterali e impliciti di

messaggi comunicati tramite gesti, simboli e disegni.30Per comunicazione espressiva si

intende la comunicazione come modo per mediare l’ottenimento di qualcosa (non

obbligatoriamente qualcosa di materiale, come un oggetto, ma anche qualcosa di

“immateriale” come attenzione, aiuto, condivisione) e influenzare il comportamento

dell’interlocutore.

Laddove il rapporto tra queste due abilità nello sviluppo tipico segue un andamento

prevedibile e codificato, nello spettro autistico possiamo assistere ad una disomogeneità

di sviluppo di queste due grandi aree di abilità, in un continuum tra ottime abilità

espressive e bassissime abilità recettive ad ottime abilità recettive e bassissime abilità

espressive. È quindi importante, in fase di valutazione e intervento delle abilità di

comunicazione, tenere entrambi gli aspetti in considerazione senza dare mai per

scontato che si equivalgano o che seguano uno sviluppo “tipico” e prevedibile.

3.2.2 Ricerche sulla comunicazione recettiva

Le difficoltà di comprensione linguistica nell’Autismo sono documentate in molti lavori

(Wetherby&Prizant, 2000; Volkmar, Rhea, Min& Cohen, 2005; Peeters e Gillberg,

1999).

I Disturbi dello Spettro Autistico(ASD), rappresentano uno degli ambiti applicativi di

maggiore consistenza per l'utilizzo dei sistemi di CAA. Sono infatti note le difficoltà di

comprensione e produzione del linguaggio dei bambini che presentano alterazioni dello

Spettro Autistico (APA, 2013): nel 40% - 50% dei casi essi non raggiungono

competenze comunicative indispensabili per il raggiungimento dell'autonomia di base.

Come affermano Shane e collaboratori (2015):

29 Cafiero JM. Comunicazione aumentativa e alternativa. Strumenti e strategie per l’autismo e i deficit di comunicazione. (4° edizione).Trento: Centro Studi Erickson, 2013. 30 vedi ICF, sezione D, Attività e Partecipazione.

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“Molti individui con ASD sperimentano notevoli difficoltà nella comprensione del

linguaggio parlato.

Le difficoltà specifiche dipendono dalle abilità differenti di ogni individuo, ma i pattern

più comuni includono:

• Comprensione relativamente efficace dei nomi, con difficoltà relative nella

comprensione di concetti linguistici più astratti, come i verbi, preposizioni, aggettivi,

avverbi e domande wh- (dove, quando, perché, chi, cosa).

• Difficoltà nella comprensione delle relazioni semantiche e delle strutture sintattiche

complesse.

Il grado di severità di queste difficoltà di comprensione può essere mascherato dal fatto

che molti individui con ASD medio-grave sono molto allenati nella conoscenza delle

routine quotidiane e di altri indizi contestuali che li aiutano a decifrare il

significato(..)Perciò un elemento principale di questo libro riguarda la facilitazione la

comprensione del linguaggio orale perché, quando questa sia ridotta o assente, la

capacità di una persona di comprendere, pensare e ragionare sul mondo è molto

ridotta. La comprensione del linguaggio, inoltre, è un prerequisito del linguaggio

espressivo”.

La comprensione verbale delle preposizioni di luogo nella popolazione autistica può

tuttavia, essere problematica, poiché sono ben documentati deficit nella comprensione

del linguaggio verbale (Tager-Flusberg, 1981) e variano dal comprendere solo alcune

parti degli indizi verbali (Striefel, Bryan, &Aikins, 1974) a una totale assenza della

comprensione (von Tetzchner et al., 2004).

Difficoltà nella comprensione del linguaggio parlato possono produrre una più alta

percentuale di errori che, in definitiva, possono contribuire a comportamenti

problematici o diminuire la motivazione del bambino. Per di più, l’input verbale è

transitorio e alcuni bambini con Autismo possono trovare difficile seguire tali indizi.

Questi elementi di svantaggio possono rendere l’uso dell’input vocale controproducente

e provocare barriere ai bambini autistici che tentano di seguire istruzioni negli ambienti

educativi e familiari domestici, dove il linguaggio verbale tende ad essere la modalità

predominante della comunicazione.

In un lavoro del 2013 Schlosser e collaboratori hanno indagato l’abilità di eseguire

istruzioni verbali, senza e con input aumentativi.

La ricerca, ha indagato il potenziale della CAA per supportare la comprensione; in un

gruppo di 9 bambini autistici, di età tra 3,9 e 22 anni, con media di 8,7 anni (quindi

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fascia di età prevalente proprio 6 – 11). Per tutti era stata accertata una difficoltà nella

comprensione di stimoli linguistici verbali.

I materiali includevano frasi direttive, preparate e somministrate in 3 modalità: (a) solo

verbale, (b) indizi visivi dinamici e (c) indizi visivi statici. Materiali aggiuntivi

includevano immagini/figurine, oggetti vari, e un Ipad per la presentazione degli indizi

visivi dinamici.

Lo scopo di questo studio era di confrontare l’input verbale con due modalità di input

aumentato (cioè indizi come scene visive statiche e dinamiche), in termini di abilità dei

bambini a eseguire direttive che includevano relazioni spaziali (preposizioni spaziali).I

dati indicano chiaramente che gli indizi visivi statici e quelli dinamici sono più efficaci

di quelli verbali .

I dati supportano l’idea dei problemi correlati all’uso degli indizi verbali come modalità

primaria o, peggio, unica di fornire direttive ai bambini con Autismo (Hall et al., 1995).

I bambini con Autismo sono maggiormente in grado di seguire direttive se l’input è

fornito con modalità aumentative, visive e uditive, in contrasto alla sola modalità

parlata-uditiva. Dato che entrambi gli indizi visivi erano ugualmente efficaci, clinici ed

educatori possono scegliere in modo flessibile scene visive statiche o dinamiche, come

pure avvantaggiarsi della tecnologia che permette, con facilità, di presentare entrambe le

modalità.

3.2.3 Ricerche sulla comunicazione espressiva

Esiste una serie di approcci per la stimolazione del linguaggio nel ASD, che

considerano sia la comprensione linguistica (verbale e simbolica) sia la produzione. Si

tratta del Visual Immersione Program (VIP) (H. Shane e Coll), del Aided Language

Stimulation (ALS) e del Pragmatic Organization Dynamic Display (PODD).

Nella ALS, il facilitatore indica il simbolo sul display di comunicazione e al tempo

stesso vocalizza le parole chiave. Ad esempio il facilitatore potrebbe dire «Costruiamo

una grande casa» e contemporaneamente indicare i simboli «costruire», «grande»,

«casa» su una tabella di comunicazione, su un SGD o su un display per attività. Tramite

il processo di modellamento31, il simbolo viene usato in modo interattivo (Goossens’,

Crain&Elder 1992). Il principio è che la persona che usa la CAA apprende il linguaggio 31 Per quanto riguarda l’approccio tramite modellamento ne esistono diverse varianti ma tutte si basano sulla presenza di un facilitatore che: 1) indica i simboli chiave mentre parla, all’interno di attività motivanti e interattive; 2) fornisce alla persona opportunità per utilizzare i simboli durante l’attività stessa.

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attraverso un’interazione naturale in una sorta di immersione ambientale nel linguaggio

(Samuel Sennott, Linda Burkhart, Caroline Ramsey Musselwhite, Joanne Cafiero,

ATIA Orlando 2010).

Il PODD è, al tempo stesso, un metodo e uno strumento per sviluppare e usare l’input

linguistico “aumentato”. Originariamente sviluppato da G. Porter in Australia, la sua

organizzazione strutturata e l’enfasi sulla comunicazione visiva ha reso il PODD uno

strumento favorevole anche nel caso di ASD (Porter & Cafiero, 2009). Il nome si

riferisce al fatto che vi è un modo strutturato di navigare tra le pagine del libro di

comunicazione. Ogni pagina contiene il vocabolario associato in modo predittivo

all’argomento (es. con pronomi, verbi, nomi e descrittori) invece del tradizionale

metodo di organizzare il vocabolario secondo il criterio delle categorie. In questo modo

la persona si muove più agevolmente tra le pagine, dispone di alcune brevi frasi di avvio

della conversazione, può produrre più facilmente nuove frasi.

3.3 Interventi a supporto della competenza sociale e linguistica

Le ricerche attuali sulle pratiche di Comunicazione Aumentativa e Alternativa rivolte

alle persone dello spettro autistico suggeriscono ed attestano l’importanza di un impiego

sistematico di input aumentativi per sostenere e favorire la comprensione, e di un

impiego metodico di output aumentativi per permettere l’espressione.

Un utilizzo di strategie aumentative e metodologie affiancate ad una continua

esposizione al linguaggio verbale, insieme ad un impiego sistematico di strategie e

strumenti di comunicazione aumentativa può aiutare ad inserire la persona in reali

interazioni comunicative e a ridurre i problemi di comportamento.32

Il lavoro di comunicazione aumentativa rivolto a persone nello spettro autistico si fonda

sulla condivisione di significati che deve necessariamente avvenire da parte di tutte le

persone coinvolte. È necessaria una valutazione degli aspetti comunicativi della persona

ed una conoscenza specifica delle caratteristiche dell’Autismo per mettere in atto un

intervento che possa realmente considerarsi efficace. Andranno adattate al modo di

pensare della persona autistica, alle sue caratteristiche individuali e alle sue esigenze

comunicative una serie di strumenti, strategie e metodologie, al fine di incrementare le

competenze comunicative a livello espressivo e recettivo (Caretto et al. 2016).

32 Linea Guida 21 dell’Istituto Superiore di Sanità.

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Il primo passo di un intervento volto a favorire la comunicazione reciproca consisterà

pertanto nel cercare di creare un ponte tra le due modalità di attribuzione di significato

al fine di offrire una reciproca maggiore comprensione e possibilità di espressione.

Altrettanto necessario sarà l’adattamento dell’intervento di CAA per le persone nello

spettro autistico relativamente alla difficoltà di “intenzionalità comunicativa”33 che

viene attribuita alle persone autistiche.

In persone nello spettro autistico si osserva un limitato apprendimento spontaneo di ciò

che viene definito il “potere della comunicazione”34, ovvero la persona non è

predisposta, a differenza delle persone con sviluppo tipico, a sapere che può emettere un

gesto, un suono, una parola, dare o indicare un’immagine o un oggetto, al fine di

influire sull’ambiente.

La riflessione si sposterà quindi inevitabilmente, volendo offrire un intervento di

comunicazione aumentativa nello spettro autistico, da quale sia la tecnica o lo strumento

più opportuno, a quale sia il modo più adeguato per far fare esperire alla persona con

Autismo la sua efficacia comunicativa nel proprio ambiente di vita, e che tale

comunicazione può avvenire in maniera metodica e volontaria (Caretto et al, 2016).

Ciò che rende particolare e unico il lavoro di comunicazione nello spettro autistico è

infatti che la persona può essere “verbale” (ovvero può essere “parlante”) ma potrebbe

non essere in grado di usare la parola o la frase, o altro mezzo, per richiedere un oggetto

o un’informazione, per rifiutare, commentare o conversare.

Si parla in effetti di linguaggio “funzionale” relativamente a quel linguaggio usato per

veicolare informazioni utili per la persona, a differenza dell’atto motorio (ad esempio,

del pronunciare una parola, o del porgere una immagine) non necessariamente

comunicativo e funzionale.

Poiché la comunicazione è un’azione congiunta (negoziazione) tra persone con lo scopo

di stabilire significati condivisi, il lavoro volto a stabilire il potere della comunicazione

deve svolgersi necessariamente con la condivisione e la partecipazione attiva dei partner

comunicativi, e passa attraverso una comprensione generale delle caratteristiche

dell’autismo, una valutazione delle caratteristiche peculiari di quella specifica persona

con autismo e dei suoi contesti di vita, una definizione delle migliori modalità

comunicative (quelle più facili da utilizzare per la persona con autismo e da

comprendere da un numero maggiore e significativo di partner comunicativi) e un

33 Quill, 2007. 34 Watson et al, 1998.

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lavoro effettivo con la persona con autismo e i partner comunicativi nei contesti di vita

reale.

Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è che il modo di pensare della persona

autistica, generalmente molto attenta ai dettagli delle singole situazioni, rende difficile

alla persona quel processo di generalizzazione proprio delle persone tipiche che consiste

nell’ignorare alcune differenze, che permette di estendere gli apprendimenti a più

contesti riconoscendoli come simili (Cohen &Volkmar, 2004).

È necessario tenere sempre in considerazione che sarà essenziale affiancare ad ogni

insegnamento un lavoro sulla generalizzazione che non avrebbe modo in maniera

automatica di verificarsi da sola (Caretto e Coll, 2011).

Un lavoro fondamentale per sostenere l’interazione sociale, riguarda l’esporre la

persona ad effettivi scambi sociali, secondo il Modello di Partecipazione (Beaukelman-

Mirenda, 2013) che sottolinea come le persone autistiche necessitino di opportunità di

scambi comunicativi sociali per progredire verso un tipo di comunicazione funzionale.

Questa considerazione ha importanti risvolti nella pratica delle attività di terapia del

linguaggio, che dovrebbe necessariamente essere “aperta” ad ambiti di vita reale.

L’obiettivo della CAA è quello di migliorare la qualità della vita delle persone a cui è

rivolta, potenziando le risorse comunicative presenti e contribuendo alla costruzione di

una competenza comunicativa che possa promuovere l’inclusione e la partecipazione

delle persone con bisogni comunicativi complessi all’interno di contesti sociali.

Fondamentale è il ruolo dell’ambiente nella determinazione delle condizioni utili a

favorire un buon livello di adattamento complessivo della persona in termini di

opportunità che possano promuovere occasioni di comunicazione, rapporti e relazioni

personali e vita di comunità.

La stessa valutazione come riportato da Valeri G., Marotta L. (2014) non è sufficiente

svolgerla in una singola sessione di valutazione ma in più contesti ed in situazioni non

strutturate (SINPIA, 2005).

Nell’ erogazione di servizi in classe, a casa, in comunità, i terapisti possono fornire

servizi finalizzati a organizzare e mantenere sistemi aumentativi e/o altri supporti visivi,

adattare materiali curricolari e collaborare a formare partner comunicativi significativi

per supportare la comunicazione in tutti gli ambienti (ASHA 2006;2014).

Come sottolineato in tutte le linee guida, centrale è il ruolo della famiglia, sia nella fase

di valutazione sia nel trattamento, ed in particolare negli interventi precoci per fare da

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subito sperimentare le strategie interattive e permettere al bambino l’acquisizione delle

abilità nelle varie aree funzionali (Xaix e Micheli, 2001).

Le strategie di CAA sono condivise con tutte le persone che interagiscono con il

bambino, sono pensate su misura per quel soggetto ed inserite nel progetto globale che

riguarda lo sviluppo e la crescita in senso più ampio.

Le Linee Guida Nazionali della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile (SINPIA)

sottolineano la necessità di definire contenuti dell’intervento (attività individualizzate

costruite sulla base della valutazione del bambino) e le modalità di strutturazione

dell’ambiente. La collaborazione da parte del bambino e la sua possibilità di apprendere

dipende in modo sostanziale da come le attività, il tempo e lo spazio vengono strutturate

visivamente.

3.3.1 CAA per la comunicazione recettiva nell’autismo

Nel pianificare e mettere in atto un intervento sulla comunicazione recettiva, un primo

sforzo di condivisione di “significati” consiste nel rendersi conto che l’ambiente di per

sé è comunicativo, se questo è vero in linea generale per tutte la popolazione, per la

popolazione autistica è maggiormente importante perché con maggiore facilità gli

aspetti informativi forniti dal contesto saranno preponderanti rispetto alle comunicazioni

fornite dalle persone (dal linguaggio verbale o da altre forme di comunicazione non

verbale, come lo sguardo).

Sarà quindi consigliata la differenziazione degli ambienti per caratteristiche: attività di

apprendimento alla scrivania; di riposo in un angolo preposto al relax; i pasti sul tavolo

della cucina ecc. Questo permetterà alla persona di comprendere dai segnali ambientali

a che tipo di richiesta dovrà rispondere, anche mediante un’anticipazione visualizzata.

Anche oggetti presenti in una stanza rappresentano ed anticipano cosa accadrà, per cui

sarà sempre necessario riflettere su cosa sia necessario togliere o cosa aggiungere

all’interno di ogni ambiente. Così come sarà necessario svolgere un lavoro di flessibilità

rispetto agli ambienti e agli oggetti in esso presenti: un buon modo per iniziare a

condividere significati è predisporre ambienti comunicativi, che “comunichino” alla

persona cosa aspettarsi.

Altrettanto importante sarà il modo in cui parliamo alla persona con Autismo: questo

andrà adattato sia rispetto ai contenuti (è consigliabile parlare alla persona di cosa

conosce bene, di cosa ha visto o sta vedendo in un dato momento), sia rispetto alla

lunghezza delle frasi (da adattare a seconda delle abilità di comprensione del soggetto),

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che rispetto alla forma della frase (preferire frasi chiare e significativa al posto di frasi

più lunghe e complesse).

È inoltre da evitare l’uso di metafore, modi di dire e linguaggio idiomatico, che

necessiteranno uno specifico lavoro di comprensione. Va inoltre sempre considerato che

il linguaggio umano è pieno di parti non spiegate, come avviene in semplici frasi che

pronunciamo tutti i giorni: ad esempio, nella frase “lo facciamo dopo” non si specifica

né cosa faremo, né quando. Questo mette le persone con Autismo in una costante

condizione di stress e andrebbe evitato.

Il lavoro in comunicazione aumentativa con la persona con Autismo a livello recettivo è

incentrato sul fornire anticipazioni rispetto a tutto ciò che sta per accadere o rispetto a

ciò che accadrà in un arco di tempo più lungo se la persona è in grado di gestirlo e

comprenderlo cognitivamente. Per fare questo si suggerisce di “anticipare” gli eventi

visualizzandoli a livello comunicativo, ad esempio facendo vedere i pennelli al soggetto

contemporaneamente alla richiesta “andiamo a dipingere”. Questa anticipazione, molto

rassicurante per la persona con Autismo, permette alla persona una prevedibilità, e nello

stesso tempo una migliore acquisizione di abilità più complesse di comprensione del

linguaggio. Quando l’abilità della persona lo permette, può essere estesa a forme più

complesse come schemi di durata maggiore che anticipino maggiori attività che

avverranno in successione.

La caratteristica di questi schemi, o “agende”, è quella di essere costituiti di oggetti o

immagini simboliche o scritte a rappresentare diverse attività, che offrono una concreta

visualizzazione del tempo, mostrando le attività che stanno per susseguirsi, ed allo

stesso tempo consentono di anticipare variazioni o imprevisti.

Visualizzare il tempo vuol dire inoltre render chiaro l’inizio e la fine di una determinata

attività.

Lo schema delle attività ha il vantaggio di aumentare inoltre la collaborazione, in quanto

la persona avrà la possibilità di visualizzare ad esempio che un’attività meno gradita è

seguita da attività più piacevoli, o che può terminare un’attività motivante con la

garanzia di potervi a avere nuovamente accesso in un momento successivo. Accanto a

questo, quando il livello cognitivo della persona lo permette, è possibile utilizzare

schemi settimanali o delle vere e proprie agende o calendari. Tutto questo oltre ad

essere estremamente rassicurante per la persona con Autismo, in quanto risponde ad una

sua necessità, previene numerosi comportamenti problematici legati alla mancanza di

chiarezza e prevedibilità.

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Anche a livelli di partenza differenti e di fronte a differenti caratteristiche individuali

della persona con Autismo, inizialmente lo schema visivo verrà proposto con una

scansione del tempo decisa dall’esterno, mentre progressivamente la persona acquisterà

indipendenza nel programmare autonomamente il proprio tempo o parte di esso,

elevando la propria partecipazione.

La forma simbolica con cui anticipare le informazioni deve essere quindi scelta in base

al livello di astrazione del soggetto. Per alcuni può essere adeguata una foto, per altri un

disegno, per altri una scritta, un oggetto concreto che rappresenti l’attività o un oggetto

che sia effettivamente poi usato dalla persona stessa nell’attività. La scelta fra l’una o

l’altra forma non può essere arbitraria, ma deve fare seguito alla valutazione (vedi

sopra) e alla considerazione degli aspetti ecologici (ovvero pratici, di comprensibilità

sociale e di costi) della forma scelta.

Con la visualizzazione è possibile inoltre chiarificare le regole, costruendo supporti

visivi che permettano alla persona di capire cosa è e cosa non è possibile fare all’interno

di un determinato ambiente (Hodgdon, 2004). Spesso, infatti, la persona con Autismo

può non seguire una regola finché non gli è chiaro cosa ci aspettiamo da lui. È

fondamentale quindi visualizzare cosa ci aspettiamo che il soggetto non faccia, e

soprattutto suggerire cosa ci aspettiamo che invece faccia, non dando mai per contato

che indicando cosa la persona non deve fare, questa sia in grado di capire cosa invece

può fare.

Una forma più complessa di visualizzazione delle regole sono le “storie sociali “(Gray,

2004) che visualizzano, con immagini vignette o frasi scritte, regole sociali anche

complesse. Così come la visualizzazione delle regole, anche le storie sociali vanno

individualizzate sulle esperienze e sulle necessità del soggetto.

La comunicazione aumentativa e alternativanello spettro autistico è utilizzata inoltre per

l’insegnamento di abilità di autonomia: l’uso delle immagini o di procedure scritte,

elaborate attraverso l’analisi del compito, permette alla persona di sopperire a difficoltà

nella memoria procedurale e velocizzare l’apprendimento di procedure semplici e

complesse.

La comunicazione aumentativa e alternativa viene inoltre utilizzata nello spettro

autistico sotto forma di storie e favole visualizzate, ponendo particolare attenzione

all’uso dei simboli e alla complessità e astrazione della storia stessa.

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3.3.2 CAA per la comunicazione espressiva nell’autismo

Come già sottolineato precedentemente, alle persone nello spettro autistico, prima

ancora di fornire strumenti comunicativi, è essenziale chiarire il “potere” della

comunicazione, ovvero la consapevolezza che alla produzione di una propria azione

(comunicazione) possa corrispondere una risposta da parte di altri.

Sarà importante insegnare e supportare la generalizzazione, ovvero insegnare come, ad

esempio, allungando una mano o il dito indice verso un oggetto desiderato sia possibile

ottenere quel dato oggetto, o eseguendo un gesto sia possibile fare una richiesta o un

commento, o consegnando un oggetto o un’immagine simbolica si possa avere ciò che

nell’immagine è rappresentato, o si possa allontanare un oggetto per rifiutare.

Nell’insegnare tutto questo è necessario effettuare numerose ripetizioni e soprattutto

condividere il “significato” di quello che si sta facendo: entrambi gli interlocutori

dovranno avere ben chiara quale azione (o approssimazione di azione) è necessaria per

attivare uno specifico comportamento da parte dell’interlocutore.

In molti casi, quando viene utilizzato del materiale come ausilio di comunicazione

espressiva è possibile raggrupparli in “contenitori” o in “quaderni della comunicazione”

che dovranno sempre essere portati dal soggetto con sé in tutti gli ambienti, proprio

come se fossero la sua voce.

Tali strumenti dovranno quindi essere agevoli e facili da manipolare. Gli aspetti di

manipolazione dovranno anche questi essere basati sulle capacità individuali: se ad

esempio la persona non sa girare le pagine o togliere una immagine da un supporto in

cui è stata collocata, o se il tempo per fare queste operazioni è superiore al suo span di

memoria procedurale, è meglio optare per sistemi più agili.

Nell’insegnare abilità di comunicazione espressiva è fondamentale, come già detto,

usare oggetti o azioni che per il soggetto siano motivanti. È altresì importante

sottolineare che può essere, in alcuni casi, necessario iniziare un lavoro di

comunicazione aumentativa espressiva alla presenza di due figure educative, di cui uno

sarà l’interlocutore, quindi la persona che si limita a ricevere la comunicazione e a dare

conseguenza alla richiesta, mentre l’altro fornirà un aiuto “nascosto”, aiuterà ovvero ad

effettuare l’azione comunicativa, spesso da dietro o di lato rispetto alla persona che si

affida alla CAA, aiutandola a consegnare l’immagine simbolica all’interlocutore (o, se

la persona può pronunciare parole o frasi, aiutandola ad accompagnare la

comunicazione visualizzata con la componente verbale, suggerendola).

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Obiettivo della seconda figura educativa è quello di “sfumare” il proprio aiuto

rendendosi completamente inutile, dando cioè autonomia alla persona che emette la

comunicazione.

Se l’interlocutore e la figura che presta aiuto coincidessero, la procedura risulterebbe

confusiva per la persona con Autismo, che potrebbe focalizzare l’attenzione su dettagli

diversi da quelli puramente comunicativi e consolidare delle sequenze di comunicazione

più complesse a discapito di autonomia e indipendenza.

La comunicazione aumentativa è infine utile per la persona con Autismo al fine di

comprendere ed effettuare delle scelte, abilità che spesso necessita di insegnamento

diretto ed esplicito. Visualizzare differenti opzioni, può essere il modo migliore per

permettere alla persona di fare una scelta utilizzando le proprie modalità e tempi.

Attraverso la scelta, oltre a permettere all’adulto di strutturare le opzioni disponibili, la

persona con Autismo: è più propensa a prestare attenzione; è supportata nell’instaurare

una relazione; è incoraggiata alla partecipazione attiva (anche in soggetti meno abili); è

altamente motivata alla comunicazione, offrendo un rinforzo immediato; diminuisce i

comportamenti problematici legati all’impotenza e alla frustrazione comunicativa

(Hodgdon, 2004).

Anche in soggetti “verbali” nello spettro autistico, è importante che il lavoro sulla

comunicazione espressiva da una parte si rivolga ad abilità più specificatamente

linguistiche (dall’olofrase, alla frase nucleare espansa, alla comunicazione verbale

avanzata, con l’uso di copioni conversazionali, con il potenziamento di abilità di

conversazione e di dialogo interno...) dall’altra sia mirata allo sviluppo o potenziamento

degli aspetti pragmatici della comunicazione (indirizzare il proprio linguaggio agli altri,

migliorare la comprensibilità della gestualità e della mimica, variare la prosodia, ma

anche migliorare la comprensione dei modi di dire, dell’ironia, dei doppi sensi, ecc.).

Con le persone verbali, l’intervento sulla comunicazione dovrà essere pertanto allargato

a quello sulle abilità sociali (Caretto et al., 2011).

3.3.3 Tecnologie assistive per lo sviluppo e l’utilizzo della comunicazione

nell’autismo

L’ ASHA (American Speech Language Hearing Association) afferma: “Un programma

di CAA non inizia e non termina con la prescrizione di un ausilio per la comunicazione.

La CAA coinvolge, piuttosto, un programma continuo decisionale che prende in

considerazione le persone, i loro modi di comunicare, l’efficacia di quella

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comunicazione con una serie di interlocutori, come pure variabili ambientali che

favoriscono oppure ostacolano la comunicazione. I metodi aided o non aided della

comunicazione sono una parte del dominio della CAA, che si compone di 4 componenti

primarie: simboli, ausili, strategie e tecniche”.

D.McNaughton e J. Light, (2013) suggeriscono alcuni principi fondamentali di

intervento, applicabili anche nell’utilizzo dell’IPad o altre tecnologie “mobile”:

a. Interventi efficaci di CAA richiedono attenta valutazione, da parte di un team

competente, dei bisogni e delle abilità come pure dei supporti e delle barriere di

opportunità nell’ambiente;

b. I sistemi di CAA devono essere selezionati in base ai bisogni e alle capacità

delle persone e personalizzati;

c. Il solo dare accesso ad App per la comunicazione non assicura una

comunicazione efficace, piuttosto, occorre un intervento programmato per

costruire le capacità linguistiche, operazionali, sociali e strategiche per lo

sviluppo delle competenze comunicative;

d. allo scopo di essere efficace al massimo, l’intervento deve essere esteso ai

partner della comunicazione, per assicurarsi che abbiano le conoscenze e le

abilità richieste per supportare adeguatamente la persona che richiede un

intervento di CAA.

Partendo dal presupposto che non bisogna chiedersi “cosa può fare lo strumento?” ma

“cosa può fare questa persona con questo strumento?”, è opportuno dotarsi di un

metodo di valutazione per la scelta.

Il primo è un modello generale, il Modello della Partecipazione (Beukelman, Mirenda,

2015), all’interno del quale si parla di “interventi con sistemi/ausili di CAA”, cioè

dell’identificazione di un sistema di ausili individualizzato all’interno di un preciso

percorso valutativo multifattoriale.

Altri due modelli sono più specifici:

Il primo è il Feature matching, di Shane and Costello (1994).

Il metodo di selezione, in questo caso, è basato sulla conoscenza delle abilità, dei punti

di forza, dei bisogni della persona e sulla selezione di un sistema di CAA che si associa

bene con queste caratteristiche della persona (Gosnell, Costello, & Shane, 2011).

L’altro Modello è il SETT (Student, Environment, Task, Tools) di Joy Zabala, con il

quale si cerca di “associare” le caratteristiche della persona, dell’ambiente, dei compiti e

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dell’ausilio/i (o App se tecnologia mobile) che deve/devono aiutare a risolvere quel/i

compito/i.

L’uscita in voce Un certo numero di studi ha dimostrato che gli SGD e le altre tecnologie con uscita in

voce possono essere usati efficacemente per insegnare a persone con ASD abilità

comunicative (Schlosser, 2003d; Schlosser, Sigafoos e Koul, 2009).

I potenziali vantaggi degli SGD per le persone con ASD includono:

1. il fatto che l’uscita in voce combina la richiesta di attenzione con l’atto

comunicativo stesso;

2. un’uscita in voce di alta qualità può costituire un facile e comprensibile «ponte

sociale» verso partner comunicativi familiari e non familiari (Trottier, Kamp e

Mirenda, 2011);

3. è possibile programmare sugli SGD interni messaggi oltre a singole parole o

frasi, incrementando così l’efficienza comunicativa e riducendo potenziali

cadute della comunicazione.

3.4 CAA per il controllo dei comportamenti problema

Negli anni sono state riconosciute forti interrelazioni fra le difficoltà nella

comunicazione e i comportamenti difficili, collegamento spesso trascurato. Molti dei

comportamenti difficili, anomali possono avere funzioni comunicative a livello

preintenzionale o semi-intenzionale (Schuler et al., 2005). Per esempio,

l’autolesionismo, i capricci, le routine ecolaliche stereotipate, possono essere gli unici

mezzi disponibili delle persone autistiche per creare un impatto sull’ambiente, o

perlomeno fare delle previsioni e metterle alla prova (Schuler & Prizant, 1985; Carr et

al., 1994).

Se tali mezzi comunicativi non desiderati vengono sostituiti con forme di

comunicazione più accettabili, convenzionali dal punto di vista sociale, sicuramente la

competenza comunicativa migliorerebbe (Schuler et al., 2005). Questo significa che gli

sforzi per la gestione del comportamento e il miglioramento della abilità comunicative

devono essere interdipendenti e integrati tra loro (Durand, 1990).

Tre importanti principi sono comuni agli interventi di comunicazione non simbolica e

simbolica, rispetto ai comportamenti problema. Il primo è il principio dell’equivalenza

funzionale: spesso l’intervento più appropriato consiste nell’insegnare alla persona un

comportamento alternativo che abbia la stessa funzione del comportamento problema.

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Questo significa che chi gestisce l’intervento deve eseguire un’approfondita valutazione

funzionale del comportamento (FBA, Functional Behavior Assessment) per riconoscere

la funzione del comportamento in oggetto, così che si possano progettare e insegnare

alternative appropriate.

Il secondo principio, chiamato principio dell’efficienza e dell’efficacia della risposta,

stabilisce che le persone comunicano in maniera più efficiente e più efficace possibile a

loro disposizione, in un determinato momento. Questo significa che il comportamento

alternativo deve essere prodotto tanto facilmente quanto il comportamento problema e

deve essere altrettanto efficace nell’ottenere il risultato desiderato, altrimenti il vecchio

comportamento tenderà a persistere.

Infine, il terzo principio è quello del buon adattamento, secondo cui la risposta più

appropriata al comportamento problema è creare un miglior adattamento tra il soggetto

e l’ambiente, spesso attraverso una sostanziale modifica del contesto, basata sui risultati

della FBA.

A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, è stata proposta, in risposta a questi

comportamenti, una tecnica conosciuta come training di comunicazione funzionale

(FCT, Functional Communication Training). L’FCT è costituito da una set di procedure

che hanno lo scopo di ridurre i comportamenti problema, insegnando abilità

comunicative funzionalmente equivalenti.

Alcuni interventi di FCT sono stati rivolti a persone che si affidano alla CAA con lo

scopo di insegnare comportamenti alternativi per attirare l’attenzione; in particolare

sono stati proposti comportamenti comunicativi non simbolici quali battere leggermente

le mani o alzare un braccio (Lalli et al., 1993; Sigafoos e Meikle, 1996; Kennedy et al.,

2000), attivare un ausilio a un messaggio con la registrazione «Per favore vieni qui»

(Northup et al., 1994; Peck et al., 1996) o «Mi aiuti a fare questa cosa?» (Durand,

1993).

Sono state usate sistematicamente strategie di insegnamento, con suggerimenti (prompt)

e riduzione graduale degli stessi (fading), per introdurre nuovi comportamenti di

richiamo d’attenzione nei contesti naturali, dando come risposta, in tutti i casi,

un’adeguata attenzione.

È frequente che persone con ASD utilizzino comportamenti gestuali socialmente non

accettabili, quali ad esempio comportamenti stereotipato (rigirare oggetti, dondolarsi,

ecc.) o comportamenti aggressivi (eccessi d’ira, atteggiamenti di autolesionismo, ecc.),

per esprimere rifiuto o con funzione di fuga (Durand e Carr, 1987;1991; Kennedy et

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al.,2000); altre persone possono battere le mani, urlare ripetutamente o diventare

aggressive quando sono felici ed eccitate, per inviare messaggi di accettazione. Come

per le forme inadeguate di richiamo d’attenzione, l’FCT può essere utilizzato per

insegnare segnali alternativi di accettazione, rifiuto o d’interazione sociale.

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Capitolo IV

INTERVENTO DI CAA IN UN SOGGETTO CON DIAGNOSI DI

AUTISMO

4.1 Presentazione del progetto

Il nostro lavoro, svolto nell’arco di circa dieci mesi, si compone di una fase di

osservazione e valutazione del soggetto e del suo ambiente di vita, di una successiva

fase di intervento e di una fase finale di verifica dei risultati.

Per una migliore programmazione dell’intervento che tenesse conto dei diversi partner

comunicativi e dei diversi ambienti di vita del bambino, è stato somministrato il

questionario Social Networks (Blackstone,2003) alla logopedista e alla madre, sia in

fase iniziale come strumento di valutazione globale di CAA che successivamente per

verificare gli obiettivi raggiunti.

È stato quindi intrapreso un percorso di CAA con l’obiettivo, in assenza di linguaggio

verbale e con grandi carenze del linguaggio simbolico, di fornire una modalità

comunicativa funzionale al bambino, dapprima costituita da un quaderno cartaceo di

CAA che il bambino potesse utilizzare con interlocutori abituali, per passare in seguito

all’introduzione di strumenti Hi-tech che hanno reso possibile la comunicazione anche

con interlocutori non abituali. Si sono effettuati colloqui anche con le insegnanti al fine

di esportare un’unica modalità comunicativa condivisa in tutti gli ambienti di vita. Ad

un lavoro a casa, è stato affiancato un intervento a scuola, dove l’organizzazione di

laboratori ha permesso al bambino di partecipare ad attività di condivisione di

esperienze ed emozioni tramite l’utilizzo di strumenti di comunicazione aumentativa

alternativa.

4.2 Descrizione del caso clinico

Il soggetto del nostro lavoro è un bambino di 8,5 anni (nel momento in cui viene

intrapreso il trattamento) con una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico.

Al momento dell’inizio del nostro progetto, Alessandro frequenta la seconda

elementare, con sostegno e AEC; è seguito da due logopediste due volte a settimana, per

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un totale di tre ore settimanali, ed effettua trattamento psico-educativo (cognitivo-

comportamentale) domiciliare tre volte a settimana, per un totale di cinque ore.

Nel mese di aprile si è aggiunta alle figure professionali che seguono il bambino la

terapista della neuro-psico-motricità TPNEE, con cui Alessandro ha intrapreso un

percorso di trattamento basato sul modello DIR.35

Dall’anamnesi fisiopatologica risultano una gravidanza normodecorsa e un parto

eutocico alla 40° settimana. Peso alla nascita 3650 grammi. Nessun problema

perinatale. Allattamento materno per 10 mesi.

Lo sviluppo di Alessandro procede normalmente fino all’età di 2 anni, quando i genitori

notano una regressione e un’interruzione delle acquisizioni. All’età di 3 anni viene posta

diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico.

Nella valutazione effettuata durante un ricovero nel mese di Marzo 2016 presso il

reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù il bambino

è descritto vigile e parzialmente collaborante, con atipie della relazione e poca

modulazione del contatto oculare; sono state osservate inoltre stereotipie delle mani e

alcuni interessi sensoriali.

Per la valutazione del profilo cognitivo è stata somministrata ad Alessandro la scala non

verbale d’intelligenza Leiter-R (Roid e Miller,2002), da cui è emerso un QI breve pari a

76.

Per la valutazione del linguaggio, è stata osservata, nel corso della stessa valutazione,

una buona intenzione comunicativa non verbale e interesse per le attività presentate.

Per la valutazione strutturata del linguaggio sono state invece proposti il subtest di

comprensione lessicale del test TFL (Marotta, Luci, Romani, Vicari, 2008), e le Prove

di Valutazione della Comprensione Linguistica (Rustioni ,1994), ma i punteggi non

sono risultati valutabili per le difficoltà del bambino ad esplorare e ad indicare

l’immagine richiesta.

Per la diagnosi di Autismo è stata utilizzata la seconda versione dell’Autism Diagnostic

Observation Schedule, ADOS 2 (C.Lord, M. Rutter, P. C. DiLavore, S. Risi, R. J.

35 Il modello DIR/Floortime è un modello che è stato sviluppato da Stanley Greenspan e da Serena Wieder. Questo modello include sei livelli dello sviluppo emotivo e sociale, che costituiscono la base per lo sviluppo globale del bambino. Il modello DIR è un approccio olistico che valuta il profilo individuale del bambino ed in particolare il suo funzionamento sensoriale, gli aspetti relativi alla pianificazione motoria, al controllo posturale, gli aspetti visuo-spaziali, cognitivi, comunicativi. Le caratteristiche uniche del bambino vengono valutate all’interno della cornice relazionale in cui è inserito.

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Luyster, K. Gotham, S. L. Bishop, W. Guthrie )36. Il test consiste in un’osservazione

standardizzata e semi-strutturata della comunicazione, dell’interazione sociale, del gioco

e dell’uso immaginativo di materiali. La Ados 2 è strutturata in cinque moduli distinti,

ciascuno con uno specifico materiale di lavoro e protocollo di notazione. Per la

valutazione di Alessandro è stato somministrato il Modulo 1, ideato per bambini dai 31

mesi che non hanno sviluppato il linguaggio fluente.

Viene riportato un punteggio pari a 10 nell’Area Affetto Sociale, che valuta linguaggio,

comunicazione e interazione sociale reciproca, e un punteggio di 6 all’interno del

Comportamento ristretto e ripetitivo, con un punteggio totale di 16 (Classificazione

ADOS-2: autismo) e un punteggio di comparazione di 6/10.

I risultati dell’osservazione evidenziano che Alessandro produce vocalizzazioni che

dirige al genitore e all’esaminatore nei contesti di richiesta. Si osserva la presenza del

gesto indicativo per richiedere e utilizza alcuni gesti convenzionali ma non si osserva

l’uso spontaneo di gesti descrittivi. Non si osserva l'utilizzo del corpo dell'altro per

comunicare. A livello dell’interazione sociale reciproca Alessandro presenta un uso non

modulato del contatto oculare per regolare l’interazione sociale e dirige alcune

espressioni facciali verso gli altri. Sorride in risposta ad una richiesta specifica. Utilizza

contatto oculare e vocalizzazione per comunicare le intenzioni sociali. Mostra piacere

nell’interazione con l’esaminatore durante le attività di gioco: si gira immediatamente

quando viene chiamato dopo la prima sollecitazione. Utilizza contatto oculare e le

vocalizzazioni o gesti per richiedere la ripetizione di una routine con oggetti, consegna

oggetti all’esaminatore allo scopo di chiedere aiuto ma non li mostra. Per quanto

riguarda l'inizio spontaneo di attenzione vi è un riferimento all’oggetto fuori dalla sua

portata, mentre rispetto alla risposta all’attenzione condivisa è presente una risposta al

pointing dell’esaminatore guardando in direzione del bersaglio. Si rileva una qualità

inusuale delle aperture sociali, poiché limitata ai suoi interessi personali. È presente

gioco spontaneo funzionale con oggetti di tipo causa effetto e si osserva un iniziale

imitazione del gioco di finzione.

Nel corso della valutazione sono stati osservati interessi sensoriali insoliti verso alcuni

materiali di gioco. Si osservano manierismi delle mani e presenza di interessi ristretti.

36 L’edizione italiana della Ados 2 è del 2013 ed è stata curata da C. Colombi, R. Tancredi, A. Persico e R. Faggioli.

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A distanza di un anno il bambino è stato rivalutato sempre presso il reparto di

Neuropsichiatria Infantile dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù: dalla valutazione è

emerso un Q.I. non verbale nella norma (Q.I. = 85 alla scala cognitiva Leiter-337); dalla

somministrazione della scala ABAS II (Adaptive behavior assessment system – Second

Edition versione 5-21 anni Genitori, adattamento italiano a cura di Ferri R., Orsini A.e

Rea M., 2014) 38 abilità adattive al di sotto delle attese previste per l’età cronologica

(Indice Adattivo Generale Composito (GAC): somma punteggi ponderati 14; punteggio

composito 45, <0.1° centile).

È stato somministrato, come nella precedente valutazione, il TEST ADOS-2 –Modulo

1: viene riportato un punteggio pari a 11 nell’Area Affetto Sociale, un punteggio pari a 1

nell’Area dell’immaginazione e un punteggio di 5 all’interno del Comportamento

ristretto e ripetitivo, con un punteggio totale di 16 (Classificazione ADOS-2: autismo) e

un punteggio di comparazione di 6/10.

La valutazione logopedica riporta che il bambino accetta di separarsi con tranquillità dai

genitori e che durante la somministrazione delle prove strutturate non si mostra

interessato al materiale proposto. Più volte si alza andando verso la porta. Il contatto

oculare risulta scarsamente modulato. Tuttavia lo coordina compiendo richieste con il

suo quaderno di CAA in modo funzionale: richiede un video, di uscire, «basta» e

«ancora». Dimostra di comprendere singole parole e ordini semplici.

Ancora non valutabile è risultata la comprensione lessicale tramite somministrazione del

test TFL, a causa di un’elevata frustrabilità. Sono state effettuate prove per la

valutazione del vocabolario tratte dal test Parole in gioco –PinG (Caselli et al.,2010): il

bambino ottiene un punteggio inferiore alla norma per l’età (pg. 11/20) per il

vocabolario recettivo di Nomi, mentre è risultato non valutabile il vocabolario in

produzione.

Nel corso di questa valutazione sono stati inoltri proposti due questionari

autosomministrati rivolti ai genitori: l’SCQ (Social Communication Questionnaire) che

mira ad evidenziare la sintomatologia associata ai disturbi dello spettro autistico, il cui

punteggio ottenuto risulta di 12 (cut off per lo spettro autistico= 15), e l’SRS (Social

37 Cornoldi et al., 2016 38 ABAS-II è una scala di valutazione del comportamento che misura le abilità di vita quotidiana riconducibili a 3 domini: concettuale, sociale e pratico. Utile per effettuare in contesti diversi (scuola, casa e lavoro) un assessment completo delle competenze di adattamento in tutto il ciclo di vita di soggetti che presentano disturbi pervasivi dello sviluppo, ritardo mentale, problemi neuropsicologici, demenze e difficoltà di apprendimento.

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Responsiveness Scale), che mira a valutare la sintomatologia correlata alla

compromissione sociale, dal cui punteggio emerge un Profilo Moderato (punteggio

Totale= 70).

4.3 Valutazione della condizione iniziale

4.3.1 Osservazione e colloqui iniziali

All’osservazione, il bambino mostra gravi carenze sia sul piano linguistico che

comunicativo. Non avvalendosi di un metodo di comunicazione simbolica e in assenza

di un valido uso dei segnali si/no, il bambino utilizza solo il linguaggio del corpo per

esprimere accettazione o rifiuto.

Risultano assenti anche forme di sostegno alla comunicazione, nessun modellamento di

immagini per il supporto alla comprensione e scarsa risposta ai tentativi di

comunicazione che avvengono con modalità naturali, quindi senza l’uso del

comunicatore.

Durante le numerose terapie effettuate da diversi professionisti (psicologi e logopedisti),

Alessandro ha lavorato molto sul linguaggio ricettivo ma in modo astratto e

decontestualizzato. È stato svolto principalmente un lavoro di etichettamento verbale,

utilizzando oggetti del tutto estrapolati dal loro contesto di utilizzo (ad esempio in

ambiente di terapia venivano mostrati al bambino lo spazzolino e il pettine e gli era

richiesto il riconoscimento) e cercando di ridurre le facilitazioni (uso dello sguardo e di

gesti), al fine di lavorare sulla sola semantica della parola.

Un lavoro di questo tipo non permette al bambino di comprendere la finalità

comunicativa del linguaggio che di conseguenza non è in grado di generalizzare quanto

appreso in terapia nei normali contesti di vita. Inoltre i compiti proposti non

rispecchiano le reali esigenze comunicative del bambino, portando al suo totale

disinteresse e provocando in lui una forte frustrazione.

Il linguaggio espressivo è limitato a poche vocalizzazioni e alla sola espressione /va/

utilizzata per richiedere la reiterazione di un’azione.

Prima dell’inizio del progetto, Alessandro è stato esposto all’utilizzo di alcune

immagini fotografiche, raccolte su un quaderno con modalità attacca/stacca, utilizzato

spontaneamente esclusivamente per richiedere pizza o acqua e privo di verbi e aggettivi.

Il quaderno di immagini, utilizzato principalmente in ambiente di terapia strutturato e

non modellato in ambiente di vita reale, ha portato il bambino ad associare lo strumento

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allo svolgimento di compiti e prestazioni per lui frustranti e a rifiutarne, di conseguenza,

l’utilizzo. In relazione al vocabolario di CAA, l’approccio utilizzato prima del nostro

intervento, prevedeva di non inserire immagini delle quali non fosse stato possibile

identificare con certezza il riconoscimento da parte del bambino. Non avvenendo, però,

un corretto modellamento in contesti di vita reali, il numero di vocaboli riconosciuti era

molto basso.

Da una prima osservazione in ambiente familiare, soprattutto nell’interazione con la

madre, principale partner di comunicazione, emerge una strutturazione della

comunicazione che ha impoverito lo scambio comunicativo spontaneo in favore di

eccessive richieste di tipo prestazionale.

Alessandro ricerca stimolazioni sensoriali molto intense: predilige attività come

arrampicarsi, saltare sul trampolino posizionato nella sua cameretta ed essere toccato dai

genitori. Inoltre, ha una particolare predilezione per la musica, attività che si procura

autonomamente accedendo a numerosi libri musicali posti in diverse parti della casa.

Quando svolge un gioco o un’attività come ascoltare la musica o guardare la tv, fa

contemporaneamente uso di diversi oggetti in modo non funzionale, tenendoli in mano e

portandoli continuamente alla bocca.

Nelle situazioni stressanti, Alessandro ricerca gli stimoli tattili (si tocca i capelli) oppure

gli stimoli visivi (guarda fuori dalla finestra). Da quanto emerso sia dal colloquio con i

genitori che da quello con le insegnanti, questi comportamenti si verificano soprattutto

quando Alessandro non riesce a comunicare quello che desidera o quando non riesce ad

organizzarsi autonomamente un’attività.

In entrambi gli ambienti, sia a casa che a scuola, viene riportata la difficoltà di

Alessandro nell’elaborare stati emotivi negativi, come la frustrazione: in queste

situazioni tende ad arrabbiarsi e ad esprimere questi sentimenti attraverso le urla o il

pianto, ed ha difficoltà ad utilizzare l’altro per regolarsi. Tali comportamenti

problematici venivano ignorati sia a scuola che a casa: in questo modo il bambino, non

conoscendo una modalità alternativa e più funzionale per esprimere il suo disappunto e

non supportato nella comprensione degli effetti dei suoi comportamenti, tende ad

isolarsi, in uno stato di grande frustrazione.

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4.3.2 Raccolta strutturata di dati: il Social Network

In seguito all’osservazione, è stata effettuata anche una raccolta strutturata dei dati

somministrando il questionario “Social Network”39 alla madre e alla logopedista che

segue l’aspetto comunicativo.

Caratteristiche del questionario

Il “Social Network” è un nuovo strumento di valutazione creato per aiutare i

professionisti a collaborare con le persone che hanno complessi bisogni comunicativi e

le loro famiglie, per stabilire realistici obbiettivi di comunicazione, pianificare specifici

interventi e registrare i progressi nel tempo. Può inoltre aiutare i ricercatori a rispondere

a specifiche domande sull’impatto degli interventi di CAA sulle persone con severe

disabilità comunicative.

Questo strumento, utilizza interviste strutturate per valutare i vari fattori coinvolti nella

comunicazione che possono portare ad interventi che rendono possibile una più efficace

comunicazione per le persone con complessi bisogni comunicativi, attraverso le

modalità più adatte a loro e ai loro partner comunicativi principali, raccogliendo ed

organizzando informazioni importanti dai membri della famiglia, dai professionisti che

lavorano a pagamento e dalle stesse persone con complessi bisogni comunicativi.

Il Social Network non è un test standardizzato: le informazioni sono raccolte durante

interviste che sono condotte in accordo a specifiche istruzioni contenute nel Manuale.

Può aiutare le équipe di CAA nelle loro valutazioni e nei processi di pianificazione degli

interventi e può aiutare a misurare i progressi nel tempo. Evidenziando il ruolo della

famiglia in un intervento di comunicazione che abbia successo, il Social Network aiuta

a focalizzare l’attenzione dei professionisti sugli specifici bisogni, priorità e preferenze

delle persone che sono gli “utenti finali” delle strategie di CAA e dei loro familiari.

Altro fattore importante, aiuta a chiarire le differenze tra i vari partner comunicativi

della persona e tra le particolari strategie utilizzate per comunicare con ognuno di loro.

Coglie inoltre la natura multimodale della comunicazione, consentendo ai clinici di

raccogliere informazioni sulle varie modalità di comunicazione a seconda dei vari

contesti, attività e partners. Basandosi sui concetti di “competenza comunicativa” di J.

Light e sul “modello di partecipazione” di Beukelman e Mirenda, il Social Network

aiuta i clinici ad individuare aree specifiche ed abilità da sostenere e ad identificare

39 Blackstone, 2003 edizioni Omega

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barriere ed opportunità all’interno delle reti dei rapporti sociali della persona. Può

giocare anche un ruolo fondamentale nel mettere a fuoco differenti contesti socio-

culturali. Come strumento di pianificazione, centrato sulla persona, lega la valutazione

ed i processi di pianificazione agli obbiettivi individuati dalle persone con complessi

bisogni comunicativi e dalle loro famiglie.

Il modello dei "Cerchi dei Partner Comunicativi" (CCP)

Nel 1991, Blackstone ha proposto di adattare il modello del Cerchio degli Amici

(sviluppato da Forest, Snow e altri)40 all'area della C.A.A., per aiutare a metter a fuoco

il ruolo che i partners comunicativi giocano nel processo di intervento in CAA. Il

Modello risultante, i Cerchi dei Partners Comunicativi (CCP), indica i più importanti

interlocutori, identifica i cerchi di comunicazione più deboli e più forti, mostra i

partners che possono beneficiare di formazione, facilita una pianificazione basata su un

approccio centrato sulla persona ed altro ancora.

Il Modello dei Cerchi dei Partners Comunicativi (CCP), consiste in cinque cerchi

concentrici, con la persona con complessi bisogni comunicativi al centro.

Il primo cerchio comprende i partners comunicativi che accompagnano la vita di una

persona, quindi i componenti della famiglia ed altri con i quali una persona risiede o è in

relazione. Per quanto riguarda i bambini di solito sono i genitori, i fratelli e le sorelle.

Per gli adulti, "famiglia" può stare a significare un genitore, il coniuge e/o dei bambini,

così come un domestico o dei residenti in una casa famiglia.

Il secondo cerchio include amici più cari e parenti. Questo cerchio rappresenta le

persone con le quali la persona trascorre il tempo libero, condivide interessi reciproci,

gioca e ha confidenza. Ad esempio, il secondo cerchio per i bambini spesso comprende

gli amici del vicinato, i compagni di scuola e i parenti che vivono vicino a loro. Per gli

adulti, il secondo cerchio comprende sia i parenti, sia le persone con le quali attualmente

si preferisce trascorrere il tempo, che i “vecchi” amici del passato.

Il terzo cerchio è il cerchio dei conoscenti e comprende le persone con le quali una

persona ha un rapporto di conoscenza ma con cui non socializza regolarmente. Esempi

di conoscenti sono i vicini di casa, i compagni di scuola, i colleghi, i conducenti

dell'autobus, i negozianti, i colleghi di lavoro e gli assistenti della comunità.

40 I Cerchi degli Amici consistevano in 4 cerchi concentrici: il Cerchio 1 rappresenta i membri della famiglia, il Cerchio 2, gli amici, il Cerchio 3, i conoscenti/ vicini e il Cerchio 4, i professionisti pagati.

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Nel quarto cerchio contiene i lavoratori pagati ovvero le persone che generalmente

vengono pagate nei periodi di tempo in cui interagiscono con la persona. Essi possono

comprendere terapisti, medici, insegnanti, assistenti tecnici, assistenti personali,

babysitter, tutors sul posto di lavoro, e così via. Anche se alcuni lavoratori a pagamento

possono diventare degli amici, fintanto che vengono pagati si trovano nell'elenco di

questo cerchio.

Il quinto cerchio comprende i partners non familiari. Nel riempire questo cerchio, gli

intervistati non identificano delle persone in particolare, piuttosto, essi sono portati a

pensare a categorie di persone come potenziali interlocutori. Gli esempi comprendono

negozianti, camerieri, lavoratori del trasporto pubblico, persone presenti in un bar

locale, persone appartenenti ad un gruppo di ascolto, personale del college della

comunità, assistenti della comunità e così via.

Il Modello dei CCP, è un costrutto dinamico: con il passare del tempo e lungo tutto il

corso della vita di una persona, i CCP della persona cambiano e i partners comunicativi

possono cambiare cerchio. Dal momento che i cerchi nella vita di una persona si

evolvono, così si evolveranno i loro bisogni comunicativi ed i sistemi di CAA richiesti .

Figura 6 Cerchi dei Partners Comunicativi

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I tipi di comunicatori

Nel tentativo di descrivere la gamma delle persone che possono trarre beneficio

dall’intervento di CAA, Dowden (1999; Dowden e Cook, 2002) ha differenziato tre

gruppi di comunicatori. I raggruppamenti sono basati sui comportamenti espressivi di

comunicazione che si possono osservare, non sulle abilità nel linguaggio ricettivo, né

sulle abilità cognitive o sui bisogni comunicativi, sia presunti che conosciuti. I

raggruppamenti non sono separati ma anzi costituiscono un continuum. Il continuum

parte da (1) coloro che non hanno ancora alcuna modalità di espressione simbolica, a

coloro che (2) non possono, senza assistenza, comunicare molti messaggi, in vari

contesti, a vari partners, fino a coloro che (3) hanno l’abilità di comunicare qualsiasi

messaggio, a qualsiasi partner, in ogni contesto.

1. Gruppo “Comunicazione Emergente”: le persone che non hanno a

disposizione valide modalità di espressione simbolica, utilizzano strategie

iniziali di comunicazione (espressioni del viso, linguaggio del corpo, sguardo,

gesti, vocalizzi o altre modalità di comunicazione non simbolica). L’intervento

di CAA per questo gruppo di solito è mirato a stabilire una prima modalità

affidabile di espressione simbolica, aumentare le opportunità per interagire con

diversi partners e espandere la comunicazione oltre argomenti sul “qui ed ora”.

L’intervento può aiutare la persona fornendo sia le modalità che le opportunità

di comunicare in g maniera più efficace con un crescente numero di partners

comunicativi e di utilizzare strategie di comunicazione simbolica in maniera più

consistente ed affidabile.

2. Gruppo “Comunicazione Contesto-dipendente”. Una larga percentuale delle

persone che ricevono interventi di CAA si trovano in questo gruppo. Le loro

competenze ed abilità possono variare ampiamente. Alcune persone sono in

grado di comunicare solo in alcuni contesti con un numero ridotto di partners

molto familiari. Altre sono in grado di comunicare efficacemente in vari contesti

con differenti partners: tuttavia per essere capite o per accedere ad un

vocabolario appropriato, tutti questi comunicatori contesto-dipendenti si devono

affidare al supporto di partners familiari. Le persone che hanno una attendibile

comunicazione simbolica possono limitarne l’uso a specifici contesti e partners

poiché si affidano ad espressioni vocali gravemente incomprensibili o a strategie

di comunicazione personalizzate, che richiedono familiarità con il partner; non

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hanno accesso ad un sufficiente e/o appropriato vocabolario; mancano di abilità

di letto/scrittura o di linguaggio necessarie a generare nuovi messaggi;

dipendono dagli altri per selezionare e pre-programmare il loro vocabolario; non

hanno accesso a tecnologie appropriate. L’intervento per le persone la cui

comunicazione è contesto- dipendente ha l’obiettivo di aumentare il vocabolario

disponibile, incrementare le abilità con le quali sono utilizzate le strategie di

CAA, sviluppare il linguaggio e le abilità di literacy per ottimizzare

l'indipendenza comunicativa, fornire tecnologie di CAA ed istruzioni sul loro

utilizzo, formare i partners comunicativi. Inoltre gli obiettivi possono

focalizzarsi sull'aumento della partecipazione nei vari cerchi e/o sull’aumento

del numero di partners all'interno di specifici cerchi, sull'espansione della

gamma di argomenti di cui parlare e sull’incrementare l’abilità della persona di

assumersi la responsabilità delle interruzioni della comunicazione e di addestrare

i partners. I comunicatori contesto-dipendenti possono trarre beneficio

dall’imparare ad integrare tutte le modalità di comunicazione, simboliche e non

simboliche e ad espandere le loro competenze strategiche operative, linguistiche

e sociali. Per tutto il tempo in cui le persone sono contesto dipendenti, queste

possono avere bisogno del supporto di partners abili, almeno in alcune

situazioni. Alcune persone acquisiscono nel tempo una indipendenza

comunicativa Altre non l’acquisiscono, per varie ragioni. Ad esempio, alcune

persone non hanno sufficienti abilità linguistiche e di literacy per generare un

linguaggio in modo indipendente. Altre invece possono scegliere di non

adoperare la tecnologia e di rimanere dipendenti dagli altri, ecc.

3. Gruppo “Comunicazione Indipendente”. Le persone in questo gruppo

possono interagire sia con i partners familiari sia con quelli non abituali su

qualsiasi argomento, in qualsiasi contesto. Queste persone sono di solito in

grado di leggere e scrivere e hanno l'abilità di comunicare messaggi in modo

indipendente. Gli obiettivi dell'intervento si possono focalizzare sull’utilizzo di

tecnologie di CAA per migliorare le competenze operative, linguistiche e

strategiche, provvedere al rafforzamento del livello delle strategie, ampliare le

possibilità comunicative (p.e e-mail, accesso a Internet, ecc.), affinare le abilità

pragmatiche e di interazione sociale, aumentare l'accesso a più persone in

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specifici cerchi e sostenere la partecipazione alle attività legate al lavoro,

all'educazione e alla vita nella comunità.41

La struttura del questionario

Il Social Network può essere somministrato interamente o in parte, in una o più

sessioni, come parte di una complessiva valutazione globale. Il clinico o il ricercatore

può cambiare l’ordine nel quale le varie sezioni sono somministrate o anche omettere

una sezione, quando chiaramente ciò abbia senso. La somministrazione dell’intero

strumento prende circa un’ora per ogni persona intervistata. Ci vuole più tempo se è

somministrato a persona che usa la CAA.

Le interviste sono condotte con:

1. Qualcuno che faccia parte del primo cerchio della persona (vale a dire un

componente della famiglia che passa la maggior parte del tempo con la persona,

p.e. un genitore, il coniuge).

2. Qualcuno che faccia parte del quarto cerchio della persona (p.e. un

professionista pagato, preferibilmente qualcuno che può rispondere alle

domande sulle capacità linguistiche della persona, come un logopedista o un

insegnante).

3. La persona che usa la CAA, qualora sia possibile. Ciò rafforza fortemente la

validità dei risultati e in alcuni casi, può eliminare la necessità di intervistare

altri possibili informatori. È particolarmente importante trovare i modi per

ottenere informazioni sui Cerchi dei Partners Comunicativi (CCP) della persona,

sulle modalità di espressione e sugli argomenti di conversazione (Sezioni III, IV,

e VIII), anche se altre sezioni sono omesse.

Il SN è composto da dieci sezioni:

I. Informazioni identificative. L'intervistatore provvede a rilevare le informazioni

di base sulla persona, sull’intervistato e sulla situazione dell’Intervista.

II. Comportamenti ed abilità della persona. L'intervistatore chiede

all’intervistato di valutare i livelli di abilità della persona nelle diverse aree

funzionali come indicate sotto, in base ad una scala: Adeguato all’età /nel range

di normalità; Invalidità di grado lieve; Invalidità di grado medio; Invalidità di

41 ACN - Augmentative Communication News,2003,Vol.15,N°2, pp.1-16

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grado severo. Sono previste domande su l’emissione della parola, il linguaggio

(ricettivo ed espressivo, scrittura e lettura), vista, udito e abilità motorie, capacità

cognitive, comportamenti adattivi e utilizzo della Assistive Technology.

L’intervistatore chiede inoltre all’intervistato se sono stati utilizzati test formali,

misure informali, reports scritti di valutazione, osservazioni strutturate o “ipotesi

basate sull’esperienza”, per stimare le abilità e capacità della persona in ogni

area.

III. Cerchi dei Partners Comunicativi. L'intervistatore presenta all’intervistato lo

schema dei Cerchi dei Partners Comunicativi (CCP) e chiede all’intervistato di

identificare le persone in ogni cerchio. Quindi l’intervistato identifica (a) il

partner comunicativo primario della persona , (b) il partner più abile (c) il

partner con cui la persona passa la maggior parte del tempo, (d) il partner

comunicativo preferito, (e) il partner più disponibile ad imparare nuovi

comportamenti e (f) il partner che più è in grado di insegnare alle altre persone

come comunicare efficacemente con la persona.

IV. Modalità di espressione. L'intervistatore concentra la sua attenzione sull'uso

corrente delle differenti modalità di espressione da parte della persona. Le

modalità includono espressioni del viso/linguaggio del corpo, gesti / sguardo,

vocalizzazioni, segni manuali, parole, scrittura/disegno, tabelle/libri di

comunicazione non elettronici, ausili di comunicazione semplici o complessi,

software speciali di comunicazione, telefono ed e-mail. L’intervistatore fa

inoltre domande sulla frequenza, efficienza, efficacia ed intelligibilità di ogni

modalità. Per le modalità simboliche (parola, segni, scrittura, disegno,

tabelle/libri di comunicazione, ausili di comunicazione),sono evidenziate

ulteriori informazioni sulla grandezza del vocabolario. Infine l’intervistatore

chiede con quali modalità la persona comunica abitualmente in ogni cerchio.

V. Strategie Rappresentative. Questa sezione approfondisce se la persona utilizza

correntemente oggetti, fotografie, set e sistemi pittografici, sistemi basati

sull’ortografia, segni manuali, strategie uditive e/o altre strategie per esprimere il

linguaggio. Dopo aver identificato le specifiche strategie rappresentative,

l’intervistatore interroga l’intervistato sull’efficacia, efficienza ed intelligibilità

di ogni strategia che la persona usa.

VI. Tecniche di selezione. L’intervistatore chiede all’intervistato di identificare le

tecniche di selezione che sono utilizzate correntemente e di valutare la loro

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efficacia. Sono incluse la selezione diretta, la selezione a codice basata su icone ,

i codici alfanumerici , la scansione non elettronica ed elettronica.

VII. Strategie di supporto all’interazione. Scopo di questa sezione è identificare le

specifiche strategie che le persone ed i loro partners utilizzano correntemente per

sostenere l’efficacia della espressione e/o la comprensione da parte della persona

delle comunicazioni quotidiane. Sono forniti alcuni esempi (p.e. vocabolari dei

gesti, input aumentativi, calendari, routines sociali, ecc); l’intervistatore

comunque cerca di conoscere anche gli approcci informali su cui ci si basa.

L’intervistato valuta anche se la strategia è efficace “per la maggior parte del

tempo”, “qualche volta”, “raramente” o “mai”.

VIII. Argomenti di conversazione. L’intervistatore chiede all’intervistato di

identificare gli argomenti di conversazione di cui la persona parla con il partner

principale in ogni cerchio. Quindi si chiede all’intervistato quali sarebbero gli

argomenti di cui la persona vorrebbe parlare se avesse i mezzi per farlo.

IX. Tipi di comunicazione. Nell’ultima sezione, l’intervistatore chiede

all’intervistato se può descrivere la persona come comunicatore emergente,

comunicatore contesto-dipendente o comunicatore indipendente.

X. Riassumere le informazioni del SN. Dopo ogni intervista le informazioni

possono essere organizzate per renderle più comprensibili ed utili.

Le Schede Riassuntive possono permettere all’intervistatore ed alla équipe di:

1. Avere un quadro di tutti i partners comunicativi ed identificare i partners chiave

in un'unica pagina.

2. Identificare tutte le modalità utilizzate e la loro efficacia. Chiarire quale è la

modalità principale in ogni cerchio.

3. Riassumere le informazioni che si riferiscono alle capacità ed abilità della

persona e all’utilizzo delle strategie rappresentative, delle tecniche di selezione,

delle strategie di interazione e degli argomenti preferiti in un’unica pagina.

4. Sviluppare obbiettivi funzionali di comunicazione che vadano incontro ai

bisogni e alle priorità della persona in ogni cerchio dei partners comunicativi.

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Somministrazione del Social Network

Il questionario, somministrato in fase iniziale alla mamma e alla logopedista

(rispettivamente appartenenti al I e al IV Cerchio dei Partners Comunicativi), ci ha

permesso di raccogliere in modo strutturato dati sulle modalità comunicative del

bambino, nei diversi contesti e con i differenti partners di comunicazione.

Per quanto riguarda le capacità e le abilità della persona nell'area del linguaggio

(sezione n°2 del fascicolo di rilevazione dei dati), emerge da test formali, informali e

osservazioni strutturate un danno moderato del linguaggio ricettivo; si evidenzia un

danno severo del linguaggio parlato e del linguaggio espressivo (valutati solo attraverso

osservazioni strutturate). Nelle aree correlate al linguaggio emerge un danno severo nei

comportamenti adattivi, attestato da relazione scritta di valutazione; vista, udito e

motricità si collocano invece all'interno di un range normale (come riportato da

valutazioni scritte).

Non è riportato l’uso di ausili se non una tabella con poche foto che entrambe le persone

intervistate definiscono “non utile”.

Dalla compilazione della scheda riguardante i cerchi dei partner comunicativi, emerge

che il bambino ha due partner appartenenti al primo cerchio (i genitori); nel secondo

cerchio sono stati collocati: i nonni, gli zii e i due vicini e amici di famiglia; nel terzo

cerchio sono stati inseriti: i compagni di scuola, le maestre e gli assistenti educativi

culturali; nel quarto cerchio sono stati inseriti: la baby-sitter che vive a tempo pieno in

casa con la mamma ed il bambino, le psicologhe, le logopediste, l’istruttrice di

equitazione e il neuropsichiatra; nel quinto cerchio sono stati inseriti il portiere e il

personale del pub dove settimanalmente Alessandro mangia con la madre.

Successivamente è stato individuato il partner principale, il partner preferito, il partner

con più capacità, i quali coincidono tutti con la madre del bambino; i partner con cui la

persona trascorre la maggior parte del tempo sono invece la madre, il padre e la baby-

sitter; i partner più disponibile all’apprendimento di nuovi comportamenti sono risultati

essere la madre e la logopedista, mentre la terapista di CAA è il partner disposto ad

insegnare ad altri come comunicare con il bambino.

A questo punto abbiamo indagato le modalità di espressione del bambino, e in generale

possiamo affermare che il bambino utilizza principalmente espressioni del viso,

linguaggio del corpo e vocalizzi per comunicare con i partner di tutti i cerchi ma

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raramente sono efficaci e di rado riconoscibili dai partner. La tabella di comunicazione

non elettronica, usata solo dalla madre (1° Cerchio) e da pochi mesi, contiene meno di

20 items; solo qualche volta il bambino, utilizzando la tabella, ottiene l’effetto

desiderato (efficacia) e raramente risulta efficiente.

Le strategie rappresentative utilizzate dal bambino sono basate su oggetti e fotografie, in

entrambi i casi comprese principalmente dalla madre (1° cerchio).

Per quanto riguarda la modalità di selezione, il bambino utilizza la selezione diretta

usando il dito. In particolare in situazione di necessità (p.e. sete) veniva posto il

quaderno davanti e si attendeva che il bambino toccasse la foto (p.e. della bottiglia).

Tra le strategie che supportano l’espressione i partner del primo cerchio tendono a

consegnare al bambino il quaderno con le foto o a stimolare la produzione verbale. Non

vi è nessun supporto all’espressione dai partner degli altri cerchi, a eccezione delle

terapiste (4° cerchio) che frequentemente incoraggiano (talvolta in modo richiestivo) la

produzione verbale.

Completamenti assenti sono invece le strategie a supporto della comprensione.

Riferendosi agli argomenti di conversazione, il bambino comunica soprattutto i suoi

bisogni (fame e sete), con modalità principalmente non verbali (vocalizzi, linguaggio

del corpo e espressioni del viso) o raramente e solo con il partner principale attraverso

la tabella.

La categoria che meglio descrive la comunicazione della persona nel momento in cui è

stato somministrato un questionario è la categoria emergente: non vi è infatti nessun

valido uso né di parole né di segni o simboli, ma il bambino comunica principalmente

attraverso linguaggio del corpo e vocalizzi, comprensibili quasi esclusivamente dal

partner principale (la madre, 1° cerchio).

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Tabella 1-Somministrazione iniziale del "Social Network"

*Espressioni del viso, linguaggio del corpo, vocalizzi.

4.4 Selezione degli obiettivi

La compilazione del Social Network ci ha permesso di avere un quadro più chiaro delle

reali competenze comunicative del bambino e di definire gli obiettivi terapeutici per

ogni cerchio e la formulazione di un’ipotesi d’intervento rivolto ai vari contesti di vita

del bambino.

Da quanto emerso dall’osservazione, dai colloqui e dalla somministrazione del

questionario, è risultata evidente prima di tutto la necessità di fornire una modalità di

output valida per i vari cerchi. Le uniche modalità espressive utilizzate dal bambino

erano infatti modalità non assistite di comunicazione, come il linguaggio del corpo, i

vocalizzi e le espressioni del viso: la scarsa risposta ai tentativi di comunicazione che

avvenivano con modalità naturali ha portato a ridurre l’intenzionalità comunicativa di

Alessandro ha impoverito lo scambio comunicativo spontaneo. Il quaderno, con poche

foto di oggetti, veniva fornita al bambino unicamente dalla madre e solo una volta di

fronte ad una evidente necessità (fame/sete). L’assenza di una affidabile strategia

comunicativa simbolica ha ridotto gli argomenti e le occasioni di comunicazione,

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principalmente riconducibili ai soli bisogni primari del bambino, e ha limitato il numero

di partners comunicativi per i quali le sue modalità espressive fossero riconoscibili

(quasi esclusivamente appartenenti al primo e al quarto cerchio).

L’obiettivo del nostro intervento è stato innanzitutto quello di stabilire una prima

modalità affidabile di espressione simbolica e una modalità di output aumentativo

valida, che permettesse ad Alessandro non solo di esprimere i propri bisogni ma anche

di poter modificare le situazioni e di agire sul proprio ambiente di vita, esprimendo

accettazione o rifiuto ad esempio per una determinata attività o comunicando il

desiderio di sottrarsi ad una situazione ansiogena o anche manifestando una condizione

di malessere.

Un'altra criticità emersa dalla valutazione iniziale è stata la totale assenza di strategie a

supporto della comprensione. Ci si è preposti l’obiettivo di migliorare l’input verbale e

simbolico tramite modellamento in tutti gli ambienti di vita del bambino. È risultato

fondamentale che il modellamento non avvenisse in contesti strutturati ma soprattutto in

situazioni di vita reali e che si riferisse alle reali esigenze comunicative del bambino.

Supportare la comprensione del linguaggio verbale e del contesto attraverso l’uso di

input aumentativi, incrementa la capacità del bambino di capire le situazioni e le

relazioni di causa-effetto rispetto a determinati comportamenti, permette

un’organizzazione più chiara e prevedibile della quotidianità e consente di anticipare i

cambiamenti.

La difficoltà nel comprendere il contesto e di anticipare i cambiamenti, insieme alla

incapacità di comunicare quello che desiderava, portava Alessandro a manifestare il suo

disappunto e la sua frustrazione attraverso comportamenti inadeguati e socialmente non

accettati (urla, isolamento, ricerca di stimoli tattili e visivi): con lo scopo prevenire tali

comportamenti “problema” sono state inserite regole visive e mappe contingenti con cui

insegnare al bambino abilità comunicative funzionali come alternative.

Un altro aspetto su cui il nostro lavoro si è focalizzato riguarda gli aspetti

sociolinguistici della comunicazione, quindi la capacità di dare inizio, far durare e

terminare le interazioni. È risultato necessario insegnare al bambino ad esprimere

necessità e desideri, a socializzare e a scambiare informazioni, ad esprimere se stesso, e

a fare scelte per il raggiungimento di un’interazione più funzionale.

Il progetto, proprio al fine di migliorare la comunicazione e l’interazione con i coetanei,

ha coinvolto la famiglia e la scuola, fornendo un’unica modalità comunicativa condivisa

in tutti gli ambienti di vita del bambino, creando degli strumenti su misura delle

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esigenze del bambino, istruendo i principali partners di comunicazione sul loro utilizzo

e aumentando in questo modo le occasioni comunicative.

Sulla base delle difficoltà emerse durante il trattamento e in accordo con la Terapista

della Neuro-psico-motricità TNPEE, è stato intrapreso un lavoro più specifico sul

riconoscimento e l’elaborazione delle emozioni: in tal senso è stato importante non solo

modellare in ogni momento il simbolo corrispondente a quella determinata emozione

ma anche associarvi l’espressione del viso e il tono di voce, per utilizzare più canali

possibili e facilitarne in questo modo la comprensione.

4.5 Creazione dei materiali

Il quaderno di comunicazione

Come già anticipato nei precedenti paragrafi, il bambino prima dell’inizio del progetto

non era in possesso di utili ausili di comunicazione, ma solo di un quaderno contenente

alcune foto di oggetti concreti. È stato ricreato un quaderno ad anelli con pagine

plastificate, utilizzando simboli PCS e foto. Ogni simbolo è stato inserito all’interno di

un riquadro di dimensione 3,5 x 3,5 cm. La dimensione dei simboli è stata stabilita

tenendo in considerazione le capacità visuo-percettive del soggetto e la disponibilità di

spazio per pagina, la quale a sua volta è dipesa dalla spaziatura tra i simboli e dal

numero di simboli per pagina, anche questi ultimi stabiliti in base alle capacità del

soggetto. All’interno del riquadro, oltre al simbolo, è stato inserito il testo scritto. Per

facilitare l’input aumentativo, sono stati scelti colori diversi per lo sfondo di simboli che

rappresentano verbi (verde), complementi (bianco) e descrittori (azzurro).

Su ogni pagina sinistra sono stati inseriti i verbi e i complementi su quella destra, al fine

di poter modellare le frasi verbali; sono inoltre stati inseriti elementi astratti come il

concetto “basta” e “ancora” e diversi simboli grafici, che Alessandro ha dimostrato di

riconoscere e utilizzare dopo un brevissimo modellamento. Sono stati aggiunti poi

alcuni simboli per lavorare sull’elaborazione ed espressione delle emozioni, come “mi

piace/non mi piace”, “buono/cattivo” o il simbolo “aspetta” per la regolazione del

comportamento e l’alternanza dei turni conversazionali (Figura 40 in appendice).

Sono state create delle tabelle a tema da inserire nel quaderno, che riguardassero

specifiche attività, come il cibo, il gioco o la scuola; ciascuna tabella è stata strutturata

in modo da modellare più facilmente le frasi verbali, posizionando in alto soggetto e

verbo (“Alessandro”, “vuole”, “mangiare”), al centro i complementi (“pizza bianca”,

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“lasagna”, “carne”) e in fondo alla tabella alcuni descrittori che il bambino potesse

utilizzare in relazione a quel determinato contesto (“buono”, “cattivo”, “ancora”,

“basta”).

Regole visive e mappe contingenti

Sempre con l’obiettivo di prevenire l’insorgenza di comportamenti problema e limitare

quelli presenti sono state utilizzate regole visive e mappe contingenti.

Nel primo caso sono state create tabelle plastificate contenenti i simboli PCS

corrispondenti ai comportamenti da evitare “non dondolare la sedia”, “non urlare”, “non

colpire gli altri”, e nella parte inferiore della tabella sono state inserite le indicazioni di

comportamento corretto (“parla piano”, “stai seduto”, “stai tranquillo”) così da fornire

al bambino una alternativa al comportamento problema (Figure 36-37 in appendice).

Alcuni simboli sono stati creati ex novo, come “non mettere in bocca” o “non colpire la

TV” (le modifiche sono state apportate attraverso il programma Paint di Windows).

Al fine di aiutare il bambino a comprendere le conseguenze di determinati

comportamenti è stata creata una mappa contingente a due vie: prendendo la “strada”

dei comportamenti problema (freccia rossa), quelli socialmente non adeguati, come

urlare, colpire gli altri, lanciare le cose, resterà di conseguenza da solo. Al contrario, se

parla piano, non colpisce gli altri, sta seduto, intraprende quindi la “strada” dei

comportamenti corretti (freccia verde) potrà stare con gli altri.

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Tabella tematica

In accordo anche con quanto emerso dai colloqui con la TNPEE, del bambino è stato

avviato un lavoro sull’elaborazione ed espressione delle emozioni: per questo motivo è

stata creata una tabella a tema, plastificata, contenente simboli PCS con significati quali

“arrabbiato”, “triste”, “felice”, “stanco”, “spaventato” e “ho dolore”, che Alessandro

potesse portare sempre con sé e che i suoi principali partners comunicativi (la madre, il

padre, la baby-sitter) potessero modellargli in base al contesto e nelle situazioni di vita

reali (Figura 39 in appendice).

I libri adattati

Per favorire l’accesso alla funzione di lettura, supportare lo sviluppo morfosintattico e la

comprensione linguistica, abbiamo scelto di introdurre anche la lettura di un libro in

CAA. Nello scegliere l’argomento siamo partiti dagli interessi e da ciò che piace al

bambino, chiedendo alla madre un argomento che potesse essere d’aggancio: per questo

abbiamo scelto di modificare un libro già esistente in commercio, Pinocchio (Disney

Libri ,28 ottobre 2015; Collana: I librottini).

All’interno di ogni pagina è stata inserita un’immagine, scegliendo tra le immagini del

film d’animazione quelle più semplici: nitide, ad alto contrasto, non troppo ricche di

elementi, con figure dai contorni ben definiti, per attirare l’attenzione del bambino e

facilitare la sua comprensione.

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Il testo del libro selezionato utilizzava già un linguaggio adatto a bambini di età uguale

o superiore ai tre anni, con un vocabolario sufficientemente semplice. Sono state

tuttavia necessarie ulteriori semplificazioni della struttura frasale. È stata ridotta la

lunghezza delle frasi e ne è stata semplificata la struttura sintattica. Le frasi,

originariamente lunghe, sono state divise in più frasi di lunghezza inferiore. Le frasi

sono state ricostruite secondo una struttura SVO, ma in alcuni casi la frase ha raggiunto

i quattro elementi (SVOC). I verbi sono stati tutti coniugati al tempo presente

dell’indicativo ed è stata preferita la forma attiva, solo in alcuni casi sono stati utilizzati

verbi riflessivi. È stato completamente evitato l’uso di frasi subordinate mentre, in

qualche occasione, sono state impiegate frasi coordinate. Per ogni pagina sono state

previste un massimo di tre frasi, nella maggior parte dei casi due frasi per pagina.

Per la traduzione dei libri sono stati impiegati i simboli PCS 42(Picture Communication

Symbols). Il testo, disposto in alto, su una singola riga, comprende la parola cui il

simbolo si riferisce, accompagnata dagli elementi morfologici, sia morfemi liberi

(articoli, preposizioni, congiunzioni, pronomi), sia morfemi legati (flessioni dei verbi,

dei nomi e degli aggettivi); questa scelta consente l’esposizione della bambina alla

morfologia e allo stesso tempo facilita il lettore.

Alcuni simboli sono stati creati ex novo perché inesistenti nella collezione, come i

simboli per rappresentare i personaggi (“Pinocchio”, “Geppetto”, “la fatina”, “il grillo

parlante”, “Mangiafuoco”) o i luoghi (“il paese dei balocchi”).

Per facilitare la comprensione e favorire la partecipazione del bambino alla

rappresentazione scolastica, seguendo gli stessi criteri utilizzati per la realizzazione del

libro adattato di Pinocchio, è stato realizzato l’adattamento in CAA del libro “Storia di

una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” di Luis Sepulveda, utilizzando

42 Si tratta del set di simboli grafici più utilizzato nel mondo grazie al suo aspetto grafico che, nonostante la stilizzazione, mantiene una notevole aderenza all'immagine concreta degli oggetti rappresentati. I simboli PCS sono appropriati in persone che utilizzano un livello semplice di comunicazione. Ciò comporta un vocabolario limitato ed una morfosintassi non elaborata.

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alcune immagini tratte dal film d’animazione e i disegni realizzati dalle insegnanti del

bambino.

Tabelle su sistema Hi-Tech

Per supportare ulteriormente la comprensione morfosintattica e per favorire

l’integrazione, è stato proposto l’inserimento di un software per Ipad con uscita in voce

che permette la realizzazione della frase attraverso una modalità a grappolo (Niki Talk).

Niki Talk è un'app disponibile per iPad, iPhone o Android, per aiutare i bambini

autistici o con bisogni comunicativi complessi a comunicare. L'applicazione è stata

progettata da Alessandro La Rocca, papà di una bambina autistica e non verbale, in

collaborazione con una terapista specializzata in Comunicazione Aumentativa

Alternativa e tecnologie assistive. Attraverso questo strumento è possibile creare degli

album personali online, creare tabelle ed illimitate sottotabelle, caricare le proprie

immagini preferite ed inserire il suono attraverso la sintesi vocale (31 lingue, 70 voci).

Data la buona competenza operativa di Alessandro nell’uso del quaderno di

comunicazione, è stato possibile ricreare un’organizzazione simile attraverso l’App di

Niki Talk. Nella schermata iniziale sono stati inserite quindi diverse sezioni: attraverso

il simbolo “ciao” Alessandro può accedere ad altri simboli che gli permettono di fare

nuove conoscenze (“mi chiamo Alessandro”, “come ti chiami?”, “giochiamo

insieme?”); nella sezione “voglio” può scegliere di “mangiare”, “giocare”, “guardare la

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tv” e, secondo un’organizzazione a grappolo selezionare cosa mangiare, con cosa

giocare e quale film guardare; è stato inserita sempre nella schermata iniziale la sezione

“devi” al fine di modellare anche le richieste che vengono fatte al bambino (“andare in

bagno”, “dormire”, “fare i compiti”) e alcuni simboli usati per regolare il

comportamento (“fare silenzio”, “aspettare”, ”mettere a posto”); tramite la sezione “ti

racconto” può condividere delle esperienze, cosa ha mangiato, con cosa ha giocato,

dove è andato, cosa ha fatto a scuola, etc.; altre cartelle inserite nella schermata iniziale

sono “a scuola”, “voglio dirti” e “mi sento” (con cui condividere le sue emozioni o

comunicare se una determinata attività gli piace o non gli piace), la sezione con cui

accedere alle foto dei principali partners comunicativi (“persone”), la cartella “quando”

contenente i simboli che rappresentano indicatori temporali (“prima”, “dopo”, “ieri”,

“domani”), le specifiche (basta e ancora) e la sezione “non devi” con i simboli

corrispondenti ai comportamenti da evitare.

Racconto del campo scuola

Perché anche Alessandro, una volta tornati dal campo scuola, potesse partecipare al

racconto e alla condivisione di quell’esperienza, come i suoi compagni,è stato creata

una presentazione in Power Point con uscita in voce: ogni slide della presentazione

conteneva la foto e la frase descrittiva, in simboli PCS, di quel momento. Alla comparsa

di ogni slide, era possibile ascoltare la frase in CAA letta da una voce precedentemente

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registrata.

4.6 Intervento pratico sugli obiettivi individuati

Una volta individuati gli obiettivi e terminata la preparazione del materiale, si è potuto

procedere con l’intervento, svolto in una seduta domiciliare di due ore a settimana.

Dopo aver “ricreato” il quaderno di comunicazione e dopo averlo mostrato al bambino,

ai genitori e alla babysitter, sono state illustrate loro le principali sezioni e la struttura, in

modo che potessero familiarizzare con l’utilizzo dello strumento.

Come già riportato nei paragrafi precedenti, il bambino al momento dell’intervento

associava il quaderno di comunicazione con le immagini fotografiche ad attività per lui

frustranti e poco motivanti, svolte quasi esclusivamente all’interno del setting di terapia

e che di rado incontrava le sue reali esigenze comunicative.

In questa fase iniziale, l’intervento è stato quindi incentrato soprattutto sul guidare i

principali partners di comunicazione ad incoraggiare ogni intenzionalità comunicativa

del bambino e a creare opportunità di comunicazione a partire dagli interessi e dalle

attività preferite da Alessandro.

La prima fase di inserimento degli ausili si è svolta attraverso il modellamento in

entrata, utilizzando sia il canale visivo che uditivo. Il linguaggio verbale veniva sempre

accompagnato toccando il simbolo corrispondente alla parola pronunciata o

componendo i gesti; in questo modo il bambino sperimenta i simboli in uso ricettivo,

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rinforza l’associazione del simbolo al referente, condivide con un’altra persona la sua

modalità di comunicazione, e, se la comunicazione avviene con il supporto della tabella,

consolida la memorizzazione e la collocazione del simbolo. Sono state scelte

inizialmente attività facenti parte della quotidianità del bambino come guardare un

cartone una volta tornato a casa, o il momento della merenda, o anche il gioco con la

babysitter per agganciare l’interesse di Alessandro e introdurre l’uso del nuovo ausilio

per attività che fossero per lui motivanti e rinforzanti.

Prima di iniziare un’attività si forniva al bambino la tabella all’interno della quale erano

stati inserite le foto e i simboli PCS di tutti i giochi preferiti dal bambino.

Una volta selezionata, utilizzando l’indicazione del simbolo come modalità di selezione,

l’attività veniva immediatamente iniziata, al fine di insegnare al bambino ad effettuare

autonomamente le richieste. Allo stesso modo è stato modellato l’utilizzo dei simboli

“basta” per interrompere un’attività e “ancora” per reiterarla, in modo che Alessandro

potesse compiere delle scelte e allo stesso tempo sperimentare le conseguenze delle

scelte fatte.

Per favorire, parallelamente allo sviluppo del vocabolario, lo sviluppo morfosintattico,

una volta selezionato il tipo di gioco venivano proposti dei modelli in entrata per la

realizzazione della frase: veniva quindi indicato (utilizzando sempre

contemporaneamente il canale uditivo) la foto del soggetto (“Alessandro”), i simboli in

alto del verbo (“vuole”, “guardare”) e poi il complemento al centro della tabella

(“Aristogatti”).

Data la buona capacità operativa mostrata dal bambino rispetto all’utilizzo del quaderno

di comunicazione e il rapido sviluppo della competenza morfosintattica, considerati

anche l’interesse naturale di Alessandro per i dispositivi elettronici e per gli stimoli

sonori, è stato proposto ai caregivers di predisporre per il bambino un iPad sul quale

installare un software di comunicazione con uscita in voce da affiancare al quaderno di

comunicazione: il Niki Talk (si veda par. 4.5).

L’introduzione di questo ausilio è stata complicata dall’uso che il bambino faceva

dell’uscita in voce: la continua ricerca dell’uscita in voce come stimolazione sensoriale

ci ha portati a rimuoverla in fase iniziale per poi rintrodurla solo in seguito.

Durante la terapia è stato mostrata la collocazione nelle varie sezioni dei simboli PCS e

foto già presenti nel quaderno di comunicazione, ed è stata modellata la realizzazione di

frasi che Alessandro poteva comporre e mostrare a schermata intera.

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Il Niki Talk ha rappresentato una grande spinta motivazionale per il bambino, che ha

mostrato di saper utilizzare il nuovo strumento in tempi molto brevi e in modo più

intuitivo rispetto al quaderno di comunicazione.

È stata aggiunta al Niki Talk, non presente nel quaderno di comunicazione, la sezione

“ti racconto” al fine di espandere la comunicazione oltre argomenti sul “qui ed ora”,

consentendo così ai genitori una maggiore partecipazione alla vita del bambino e

incoraggiando il bambino alla condivisione, attraverso l’uso di output aumentativi con

uscita in voce. L’utilizzo di questa nuova sezione è stato modellato in entrata chiedendo

al bambino ad esempio “cosa hai fatto oggi a scuola? Raccontami!” e associando

sempre a domande di questo il simbolo di “ti racconto”.

In una fase successiva, in collaborazione con la TNPEE, il nostro lavoro è stato mirato a

sostenere la condivisione emotiva, focalizzando l’attenzione su quello che poteva essere

il vissuto di Alessandro nelle esperienze a cui è esposto e fornendo strumenti che

facilitassero l’elaborazione emotiva degli eventi. Per questo motivo il nostro intervento

si è focalizzato sul modellamento in entrata di simboli che potessero supportare il

riconoscimento e l’elaborazione delle emozioni: se il bambino si mostrava divertito da

un gioco si modellava il simbolo “divertente" o se un personaggio del cartone che stava

guardando cominciava a piangere, si indicava il simbolo “triste”.

Con lo scopo di rendere il modellamento di questi simboli più costante e perché

avvenisse da parte di tutti i principali partner di comunicazione e in tutti i contesti, è

stata creata una tabella delle emozioni plastificata che Alessandro potesse portare

sempre con sé.

Al fine di esportare un’unica modalità comunicativa condivisa in tutti gli ambienti di

vita del bambino sono stati effettuati colloqui anche con le insegnanti e all’intervento in

ambiente domestico è stato affiancato un intervento a scuola.

Sono state quindi formate le maestre sull’utilizzo del quaderno di comunicazione e in

seguito sul Niki Talk. All’inizio del nostro intervento, per rendere più comprensibili e

prevedibili per il bambino le attività svolte a scuola, le maestre avevano provveduto alla

creazione di una sorta di agenda visiva, costituita da una striscia organizzata in verticale

dove erano rappresentate tutte le attività scolastiche del bambino; nell’arco della

giornata le maestre, insieme al bambino, rimuovevano di volta in volta le foto delle

attività già svolte.

Dai colloqui con le maestre, così come da quelli con i genitori, è emersa la difficoltà

nell’arginare i comportamenti problema di Alessandro che, nel caso di attività per lui

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noiose o compiti/situazioni frustranti, tendeva ad urlare, lanciare oggetti, dondolarsi e,

molto spesso, isolarsi ricercando stimolazioni sensoriali uditive e visive, come ad

esempio guardare a lungo fuori dalla finestra.

Al fine di contenere tali comportamenti sono state create regole visive e mappe

contingenti con simboli in PCS, plastificate, che sono state fornite sia alle insegnanti

che ai genitori. Affiancando alla spiegazione verbale delle conseguenze di determinati

comportamenti l’input aumentativo, è stato possibile aiutare il bambino a comprendere

quali fossero i comportamenti da evitare per poter stare con gli altri.

Un momento significativo del nostro progetto è stato sicuramente il racconto del campo

scuola. Come già successo negli anni precedenti, al ritorno dalla gita scolastica, i

bambini avrebbero realizzato dei lavoretti sulla loro esperienza del campo scuola, con

lettere e disegni. Perché anche Alessandro potesse partecipare a questa attività abbiamo

realizzato un Power Point con uscita in voce (si veda par.4.5) e chiesto alle maestre di

organizzare un momento di racconto durante il quale ciascun bambino avesse

l’occasione di raccontare quelli che per lui erano stati i momenti più belli del campo

scuola. È stata creata così un’occasione in cui tutti i bambini, non solo Alessandro,

disposti in cerchio, uno per volta raccontato gli episodi più significativi e allo stesso

tempo hanno condiviso con gli altri le emozioni provate, come la paura sulla barca o

l’entusiasmo di costruire un rifugio da soli. Arrivato il momento per Alessandro di

raccontare, il bambino ha potuto mostrare il powerpoint realizzato, scorrendo le slide in

modo del tutto autonomo, mentre la voce precedente registrata leggeva le frasi in CAA

riportate sotto ciascuna foto, partecipando in modo attivo e coinvolgendo allo stesso

tempo i suoi compagni. In un secondo momento i bambini si sono divisi in gruppi e

ciascuno ha letto agli altri del proprio gruppo quello che aveva scritto sul proprio

disegno. I bambini si sono mostrati molto interessati alla presentazione, tanto da

chiedere che Alessandro passasse tra i gruppi per far vedere a tutti la sua presentazione.

4.7 Valutazione finale

4.7.1 Risomministrazione del Social Network

Al termine del trattamento specifico per gli obiettivi, abbiamo organizzato un colloquio

con la madre e risomministrato il questionario “Social Network”, al fine di valutare gli

effetti dell’intervento sulla comunicazione del bambino e i cambiamenti ottenuti rispetto

alla situazione iniziale.

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I cambiamenti a nostro avviso più rilevanti riguardano le principali modalità

comunicative utilizzate dal bambino e le strategie utilizzate dai partner dei vari cerchi

per supportare l’interazione.

Tabella 2- Somministrazione finale del "Social Network"

Sia nel primo cerchio che nel secondo all’inizio del nostro intervento era emerso uno

scarso supporto all’espressione, caratterizzata principalmente da modalità di

comunicazione naturali per tutti i cerchi comunicativi, e dell’uso talvolta di immagini

per supportare la richiesta del bambino di “bere” e “mangiare”. Completamenti assenti

erano invece le strategie a supporto della comprensione.

In particolare, per quanto riguarda il primo cerchio l’introduzione dell’ausilio semplice

e del Niki Talk ha permesso di arricchire notevolmente lo scambio comunicativo tra

Alessandro e i suoi genitori, ampliando gli argomenti di conversazione, che sono passati

dai soli bisogni primari del bambino alle attività che vuole fare, i posti dove desidera

andare, le persone che vuole vedere. La sezione “ti racconto” del Niki Talk ha

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consentito la condivisione, in particolare con i genitori, di attività svolte a scuola o in

compagnia della babysitter, non limitando più la conversazione al contesto presente e a

situazioni immediate.

Per quanto riguarda il terzo cerchio, in seguito all’introduzione di nuovi ausili, utilizzati

in modo adeguato sia dai compagni di scuola che dalle maestre, si è verificato il

passaggio da un completamente assente supporto all’interazione, alla richiesta e

indicazione degli ausili: sia le maestre che i coetanei infatti invitano Alessandro a

comunicargli ciò che vuole fare proponendogli di usare il supporto. In particolare il

software con uscita in voce ha consentito una maggiore inclusione nelle attività con i

coetanei; questo perché la produzione dell’output è sicuramente più veloce ed

immediata rispetto al quaderno di comunicazione, non è necessaria l’interpretazione dei

simboli, permette di inviare messaggi senza aver prima ottenuto l’attenzione del partner

e permette la comunicazione a distanza. Queste caratteristiche lo hanno reso adatto alla

comunicazione con i “piccoli” partners del terzo cerchio, che si sono mostrati interessati

e incuriositi dall’uso del Niki Talk.

Le nuove modalità comunicative hanno consentito ad Alessandro di esprimersi anche

con interlocutori non abituali. La semplicità dei simboli e la specifica del loro

significato scritta nella parte superiore, consente di comprendere l’indicazione del

bambino a chiunque, senza la necessità di una formazione specifica, come spesso

accade per altre forme di comunicazione alternativa.

I nuovi ausili hanno contribuito a rendere Alessandro più autonomo nell’esprimere i

suoi bisogni e desideri: viene riportato dalla madre che il bambino, utilizzando il tablet

(Niki Talk), ha potuto ordinare da solo il suo piatto nel pub in cui vanno a mangiare

ogni settimana, selezionandolo direttamente tramite indicazione.

Rivalutando la modalità comunicativa, al termine del nostro intervento, il bambino può

essere considerato un comunicatore contesto-dipendente: è in grado infatti di

comunicare con i partners di tutti i cerchi, abituali e non abituali (come ad esempio il

cameriere del pub), ma necessita ancora del supporto di partners familiari.

4.7.2 Analisi qualitativa dei risultati

Al termine del nostro progetto il bambino possiede valide modalità di espressione, aided

e non aided, che gli consentono non solo di esprimere i suoi bisogni (fame/sete) ma

anche di fare richieste (cosa vuole guardare in TV o dove vuole andare), esprimere

accettazione o rifiuto (tramite i simboli “basta” e “ancora” o l’espressione /va/),

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raccontare dove è stato o cosa ha fatto a scuola (tramite la sezione ti “racconto” del Niki

Talk) e manifestare una situazione di disagio (attraverso la sezione “mi sento” del Niki

Talk oppure ricorrendo alla tabella delle emozioni).

Per quanto riguarda il lessico, in poco tempo il suo vocabolario si è notevolmente

ampliato, passando da un numero inferiore a 10 vocaboli compresi ed utilizzati in CAA,

ad un vocabolario che supera i 50 items.

Dal punto di vista morfosintattico, il bambino è in grado di costruire frasi

morfosintatticamente corrette, costituite da un numero di due o tre elementi

(“voglio””giocare””trampolino”) avvalendosi del Niki Talk.

Supportando la comprensione del linguaggio verbale e del contesto attraverso l’uso di

input aumentativi, è stato possibile limitare le situazioni frustranti per il bambino e di

conseguenza prevenire l’insorgenza dei comportamenti problema.

Dal colloquio con la madre è emerso inoltre il ruolo decisivo che le regole visive e le

mappe contingenti hanno avuto, fornendo un supporto alla comprensione verbale, nel

regolare il comportamento e migliorare la qualità dell’interazione con i coetanei.

L’introduzione degli ausili ed in particolare del comunicatore con uscita in voce, ha

permesso una maggiore inclusione e partecipazione scolastica, fornendogli una modalità

di comunicazione immediata e di facile applicazione, ideale per i bambini della sua età.

L’utilizzo di questo tipo di ausilio ha permesso ad Alessandro di prendere parte ad

attività scolastiche che prevedevano il ricorso ad abilità di letto-scrittura (non ancora

acquisite dal bambino).

Il lavoro sul riconoscimento delle emozioni, avviato in collaborazione con la

neuropsicomotricista e svolto parallelamente dalle diverse figure professionali e dai

caregivers, è stato impostato anche e soprattutto attraverso l’impiego di input

aumentativi, quali simboli PCS, espressioni del viso, gesti e intonazione, i quali

consentono di svolgere il modellamento in entrata approfittando di tutte quelle attività

significative dal punto di vista emozionale per il bambino, a partire dal gioco, passando

per il cartone animato, fino alla gara di nuoto.

4.8 Criticità

Un limite importante per il nostro studio risiede nell’impossibilità di oggettivare i

risultati ottenuti, attraverso l’impiego di test standardizzati. Tale difficoltà è attribuibile

in parte alle caratteristiche del soggetto che rendono difficoltosa la valutazione delle

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abilità indagate attraverso l’impiego di test standardizzati e portano ad una marcata

discrepanza tra la prestazione ottenuta in compiti strutturati ed il comportamento

comunicativo spontaneo. Questo progetto si era preposto, tra gli obiettivi, di intervenire

direttamente su tutti gli ambienti di vita del bambino, per poter migliorare dal punto di

vista qualitativo la sua comunicazione, rendendola più funzionale possibile, prevenendo

l’insorgenza di problemi comportamentali conseguenti proprio alle grandi difficoltà

comunicative e favorendo in questo modo l’inclusione tra i coetanei. Questi aspetti,

legati alla qualità dell’interazione e comunicazione del bambino con i suoi partners, non

possono essere misurati in maniera strutturata e standardizzata.

Tali limiti sono imposti inoltre dalla mancanza di strumenti standardizzati di

valutazione in CAA, tradotti e validati in lingua italiana.

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CONCLUSIONI

Le motivazioni personali che hanno portato alla realizzazione di questo progetto e alla

stesura della presente tesi derivano dalla convinzione che via sia la necessità di

approcciarsi alle difficoltà comunicative dell’autismo in modo nuovo e diverso.

Per pianificare un intervento di CAA per un bambino che presenti diagnosi di autismo

ci sembra prima di tutto fondamentale ricordare che l’autismo è un disturbo a spettro e

ciò significa che le persone autistiche hanno una grande varietà di punti di forza e di

debolezze, di abilità isolate e di stili di apprendimento diverse. Non ci sono due persone

con autismo che presentino la stessa combinazione o lo stesso grado di abilità e

difficoltà: per questo non è possibile adottare un approccio standard ma è invece

necessario considerare in che modo il bambino si relaziona agli altri e come si rapporta

al mondo che lo circonda. Questi motivi ci hanno portato a considerare il bambino

globalmente e a pianificare un intervento che non si limitasse a valutare le singole

abilità/competenze, ma che, partendo dall’osservazione del bambino nell’interazione

con i partners abituali e non abituali, nei diversi contesti di vita, potesse incontrare le

sue reali esigenze comunicative.

Risulta importante che l’intervento di CAA, in particolare quando l’intervento si rivolge

a bambini con autismo, sia incentrato sull’instaurare una relazione tra partner e bambino

basata su due fattori fondamentali: la creazione di situazioni motivanti e l’uso di un

codice condiviso di comunicazione.

In un approccio di questo tipo l’uso di supporti alla comunicazione (che siano essi

immagini, simboli grafici o gesti), avviene in contesti naturali e con l’obiettivo di

favorire le relazioni sociali. Nel rapporto della National Academy of Sciences,

Educating children with autism43, è espressamente dichiarato che un obiettivo prioritario

dei programmi educativi per bambini con autismo dovrebbe essere lo sviluppo della

comunicazione funzionale, quindi utile, considerata accettabile dagli altri e rivolta ad

ottenere un obiettivo specifico, e spontanea, ovvero in relazione ad un bisogno interno

personale o a uno stimolo naturale presente nell’ambiente. Questo tipo di

comunicazione permette al bambino di accedere ad un numero maggiore di esperienze,

che favoriscono a loro volta una maggiore crescita sociale e cognitiva.

Quando una persona con DSA ha accesso ad un sistema di comunicazione funzionale

tramite CAA, acquisisce un maggior controllo sul suo ambiente e non deve più ricorrere

43 National Research Council,1999

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a comportamenti problematici. Inoltre fornire una modalità espressiva a chi non ne ha

facilita le relazioni con famigliari e coetanei e migliora le abilità sociali.

Ne consegue l’importanza del coinvolgimento della famiglia: bisogna infatti indirizzare

all’uso delle immagini e degli ausili di comunicazione non solo il bambino ma anche il

partner comunicativo adulto, che affianchi sempre al linguaggio l’indicazione del

simbolo corrispondente, al fine di «aumentare» la sua comunicazione e renderla più

comprensibile per il bambino.

Il nostro intervento ha cercato di rispettare questi aspetti agendo in tutti gli ambienti di

vita del soggetto, compreso quello scolastico.

Le persone con DSA hanno un estremo bisogno di vivere le esperienze e gli scambi

comunicativi che derivano da una comunicazione interattiva; la comunicazione

interattiva rappresenta una componente essenziale del comportamento umano ed ogni

persona ha diritto a usare gli strumenti, gli adattamenti e i dispositivi necessari per

comunicare in modo funzionale.

Un intervento di Comunicazione Aumentativa e Alternativa rappresenta per una persona

affetta da DSA che possiede un linguaggio limitato o, come nel nostro caso clinico,

assente, la possibilità di comunicare, diventando così in grado di affermare sé stessa e di

instaurare scambi comunicativi significativi, migliorando la qualità delle proprie

relazioni sociali.

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1

APPENDICE

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2

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3

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4

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Figure 1-18 Versione inbook di Pinocchio

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Figure 19 -35 Versione inbook di Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare

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Figure 36-37 Regole visive

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19

Figura 38- Mappa contingente

Figura 39- Tabella delle emozioni

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Figura 40- Il quaderno di comunicazione

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