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MIMESIS EZIO ALBRILE ERMETE E LA STIRPE DEI DRAGHI Mutazioni di una mitologia Prefazione di Riccardo Valla

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studio su tradizione persiana

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MIMESIS

EZIO ALBRILE

ERMETEE LA STIRPE DEI DRAGHI

Mutazioni di una mitologia

Prefazione di Riccardo Valla

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INDICE

PREFAZIONE di Riccardo Valla p.

INTRODUZIONE p.

1. HERMETICA DRACONICA p.

2. LE CREAZIONI DI IALDABAŌTH p.

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RICCARDO VALLA

DUE FIGURE COMPOSITE IL VAMPIRO E IL DRAGO

Nella letteratura, la fi gura del vampiro è soprattutto un’elaborazione dell’Ottocento, anche se già in precedenza non mancano esempi letterari della bramosia del morto di possedere il vivo. Ma mentre il timore dei mor-ti è antico, come illustrato da Frazer nella Paura dei morti nelle religioni primitive, il vampiro, caratterizzato da tutta la sua complessa normativa (non poter oltrepassare l’acqua corrente, non reggere a specchi, aglio e cro-cefi ssi, dover dormire sulla sua terra natia, dormire di giorno per destarsi di notte) è un personaggio ottocentesco: la serie di norme a cui deve sottostare è una “etichetta” che agli occhi dei comuni cittadini non è dissimile – alme-no per la sua arbitrarietà – da quella che i romanzi attribuivano alla classe nobiliare (“il pesce non si taglia col coltello”, “il pane si può prendere con le mani ma gli altri cibi no”, e così via).

Che poi il personaggio abbia preso elementi dalle fonti più svariate è ac-cidentale: gli autori che hanno contribuito a delinerare l’aspetto odierno del vampiro hanno scelto gli elementi che giudicavano più consoni alla fi gura o alla narrazione e mantenuto quelli che incontravano il favore del pubbli-co, una sorta di darwinismo narrativo. Stoker ha reso fi ssa la caratteristica del vestito nero perché l’attore che impersonava Dracula potesse sparire facilmente dal palcoscenico, altri (Polidori, i Rymer e Prest di Varney the Vampire) si sono rifatti alla sete di sangue che incontriamo nei morti dei poemi classici e ancora Stoker ha mescolato la storia di Vlad Tsepes con questo spunto e con i crimini seriali della contessa Bathory, giacché nelle cronache e nei libelli che parlano del Dracula storico non si accenna al particolare del sangue.

L’aspetto esteriore del vampiro ottocentesco lo qualifi ca poi come ap-partenente all’aristocrazia e questo ha portato alcuni critici come Aldiss a suggerire un’interpretazione allegorica. Il vampiro simboleggerebbe la classe aristocratica inglese, basata sulla rendita terriera, la quale, benché “uccisa” dalla rivoluzione industriale e dalle idee liberali del Settecento, sopravvive nell’Ottocento come “non morta” e sfrutta parassitariamente la nuova classe produttiva.

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Chiaramente, con il cambiare della società, anche la visione del vampiro cambia e oggi che vanno di moda i bei vampiri adolescenti di Twilight, sembrerebbe facile enuclerare le due componenti che affascinano le pla-tee: l’immortalità (rimozione dell’idea della morte, in una società dove il pensionamento in età ancora attiva crea i nuovi adolescenti di massa, che come ogni adolescente rifi utano l’idea di dover morire) e l’individualismo che ha costretto la “società solidale” a lasciare il posto a quella edonistica, almeno nelle aspirazioni.

Quanto al legame tra il vampiro e l’ermetismo, nella letteratura non è mai stato approfondito al di là di qualche accenno alla “nascita” di Dracula da rituali alchemici incompleti, ed è una grave lacuna, perché nella misu-ra in cui la letteratura dell’immaginario è la proiezione delle concezioni dell’autore, in letteratura questo legame potrebbe contribuire al chiarimen-to della fi gura del personaggio e del suo singolare successo di pubblico. Di conseguenza è ancor più utile sottolinearne come fa Albrile i contatti con un’altra fi gura di grande successo popolare, il drago, a sua volta confl uenza di elementi distinti che si sono fi ssati nel tardo Medioevo (“fi ssati” nel sen-so in cui l’immagine latente si “fi ssa” sulla pellicola fotografi ca).

Il drago, nella versione di questa immagine oggi corrente, è un animale volante, intelligente, parlante, e con la caratteristica di soffi are fuoco. Si tratta di elementi distinti che sembrerebbero derivare da tre origini diver-se: il draco di cui si parla in questo libro, il wyrm nordico e il drago della tradizione cinese, da cui potrebbe essergli giunto l’aspetto più anomalo, che è quello di soffi are fuoco. Non è un aspetto trascurabile perché la sua permanenza ne dimostra la validità: una validità che potrebbe essere legata al fatto che un drago contenente fuoco è un atanor.

Soffermandosi brevemente sul drago cinese, questo animale composito o chimera (“baffi di coda di topo, corna di cervo, orecchie di mucca, pancia di serpente”) è una sorta di piccola divinità della pioggia. Per molti mesi dorme in qualche caverna e in estate si sveglia e prende il volo, e col volo genera le precipitazioni: il suo soffi o di fi amma è il lampo e la sua voce è il tuono.

Il particolare del fuoco, che prima della letteratura anticonorvegese era esclusiva del drago cinese, potrebbe essere dunque una contaminazione avvenuta verso l’anno Mille: infatti, prima di allora, i draghi del Nord pa-gano, i wyrm, non sono associati al fuoco. Seguendo le ricostruzioni cro-nologiche di Christopher Tolkien per l’apparato critico che accompagna un poema del padre, La leggenda di Sigurd e Gudrún, la storia del drago più famoso, Fáfnir, ucciso da Sigfrido, si sarebbe defi nita nei due secoli a cavallo all’Anno Mille. La citazione più antica a noi pervenuta è quella

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che si trova nel Beowulf, e in questo poema del IX secolo il drago non ha le ali e non soffi a ancora fuoco; nell’Edda (XII secolo) e nella successiva Volsunga Saga, corrispondenti a un tempo in cui la leggenda si è già “fi s-sata”, Fáfnir soffi a fuoco e fumo soffocante. Il termine con cui è indicato, wyrm (o una delle sue varianti locali: wurm, worm), signifi ca “serpente”, “bruco”, “verme” e in poesia “drago”; nei secoli seguenti si trova anche in italiano il termine analogo, sia nel signifi cato di “drago” (in traduzioni del termine draco dei testi sacri) sia in quello di “demonio”; il dantesco “Cer-bero il gran vermo” è dunque sia il gran drago sia il gran demonio.

Il particolare del fuoco è dunque entrato nella fi gura letteraria del drago tra il Beowulf e l’Edda, ossia verso il Mille, un’epoca in cui la Cina era tornata, dopo vari secoli, a essere un unico impero e aveva riallacciato i rapporti con le terre vicine.

Nei testi nordici il drago non compare solo in quelli epici fi nora citati, ma anche in quelli profetici. Il più noto di questi draghi è il Serpente di Midgard, Jörmungandr, che cinge il mondo e impedisce al fondo dell’oce-ano di sollevarsi. Questo serpente ha la forma dell’ouroboros, ovvero del serpente che si morde la coda, ma in questo aspetto si limita a riprendere una tradizione molto più antica. Nei giorni della fi ne del mondo, al tempo del Ragnarök, della caduta degli dèi, il serpente scioglierà la sua spira e l’oceano dilagherà sulla terra.

Il secondo drago nordico è Nídhöggr, annidato negli inferi tra le ra-dici dell’albero che regge i mondi, il frassino Yggdrasill. Nei giorni del Ragnarök volerà via da Hel (il mondo infero) portando sulle ali i morti che si recano a distruggere i vivi. La profezia è nel primo canto dell’Edda poetica e anche se le parole della Veggente non sono chiare, sembra di poter capire che nei giorni della caduta degli dèi i giganti del mondo di fuoco e del mondo di ghiaccio si muoveanno contro gli dèi, e al fi anco di questi giganti (o demoni o titani) combatteranno anche i morti del mondo sotterraneo di Hel, che la Veggente defi nisce come “i codardi, i traditori, gli spergiuri”, ossia i dannati. Le schiere dei dannati saranno portate alla gran-de battaglia sia dalla “Nave delle Ombre”, Nafl gar, sia dal drago Nídhöggr. Anche qui, nella citata Profezia della Veggente, incontriamo i morti contro i vivi; inoltre si precisa che Nídhöggr “succhia il loro sangue” e i lupi sbra-nano le loro carni.

Oltre al draco, nelle culture classiche (compresa in esse quella ebrai-ca) si incontrano altre due forme che potrebbero essere tra gli antenati del wyrm nordico: l’idra greca, che è una sorta di drago con molte teste, e i cherubini ebraici, che sono una sorta di serpente alato (con quattro o sei ali a seconda dei testi) e l’antica iconografi a della tentazione di Eva mostra

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il serpente con testa umana incoronata e con le ali, allusione all’origine di Satana come angelo ribelle o forse permanenza dell’antico mito mesopota-mico dell’albero ai cui piedi si annida il serpente che “non teme la magia” e che sarà poi vinto da Gilgamesh. Come si vede, molti degli aspetti del drago ritornano in molte culture di molti tempi, e la novità del drago nel-la sua forma compiuta, ossia il drago Fáfnir della tarda leggenda nordica e germanica, sta appunto nel soffi are/contenere fuoco, una caratteristica che potrebbe essere legata all’altra caratteristica del drago, ossia quella di accumulare l’oro. Quest’ultima caratteristica è entrata nella fi gura del drago prima dell’altra: era già presente nel Beowulf, il cui wyrm custodiva un grande tesoro; nei testi successivi il particolare del fuoco, che fa di un drago un atanor (e di conseguenza lo rende il cistode dell’oro da lui stes-so prodotto), potrebbe essere stato introdotto da qualche autore venuto a contatto con le idee dell’alchimia. Che nel IX secolo, quando comincia a fi ssarsi la fi gura defi nitiva del drago, vi fossero contatti tra la cultura clas-sica e i poeti di corte del Nord – gli autori dei canti anticonorvegesi, come dice l’Edda in prosa di Snorri Sturluson – è suggerito nello stesso Beowulf, dove il cantore del re racconta di essere stato presso “Gudhere”, ossia il re Gundicaro dei Burgundi di Worms nelle Gallie, vissuto nella prima metà del V secolo.

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INTRODUZIONE

La passione si alimenta di rotture e distruzioni, perché nasce da un’as-senza, anela a colmare un vuoto, produce illusioni brevi, ma intense. Per questo uomini e donne la cercano di continuo. Senza di essa la vita appa-re piatta, senza senso. La donna ultima è la donna impossibile: la donna del nostro desiderio, ma anche della nostra nostalgia; nostalgia di uno sta-to unico, irripetibile, confusionale; come quando eravamo bambini nelle braccia della mamma; ma anche trepida fusione continuamente rinnovata nella gamma più vasta di campionature: scampoli da approfondire al det-taglio, ricordandone i colori sgargianti. Un’esperienza unitiva che l’uomo comune ricerca continuamente e che a un livello più alto, metafi sico, di consapevolezza può dirsi «ermetica». Così com’è ermetica la lettera di un innamorato: «Caro Ezio, sai, ho rivisto Marina lunedì scorso, in un nego-zio. Era vestita di rosso vivo, secondo la natura arietina che Le compete. Anch’io avevo addosso una camicia rossa, di tipo acquariano. Perciò ho tentato un approccio, ma mi è andata male. Ha ancora dei rancori verso di me…». La lettera di un amico, un frammento di un amante respinto, che nel celebrare il suo dolore si rifà ai moduli espressivi dell’astrologia ermetica, quell’ermetismo di natura «popolare», che padre Festugière ha collocato nel caleidoscopico fenomeno religioso che è l’occultismo ellenistico.

Questa vita è il rifl ettersi dell’ideale nel racconto, ma lascia aperto un varco che ne frantuma l’immagine: si tratta, nella storia dell’operare, della fatica che vi è sottesa, della ricerca che non si placa. L’ordine dell’universo non è dato, si deve invece trovare. V’è quindi un elemento di materialità nella gnosi ermetica che non si identifi ca con la sensazione: il pensiero consta di tale elemento, inscindibile da quello formale, nella sintesi del pensare che è poiein, produrre.

Nel mio testo parlo dei legami tra ermetismo e mito di Dracula, un mito letterario, uno fra i tanti scaturiti dalla mitopoiesi misterica. Vorrei qui ac-cennarne altri.

Thomas Mann, attraverso gli esperimenti e le febbrili ricerche di Jonathan Leverkühn, proprietario terriero e scienziato auto didatta padre di Adrian,

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il protagonista del Doctor Faustus, fa qualcosa di analogo descrivendo la dimensione abissale, in un certo senso metafi sica, sfi orata dall’uomo nello studio della natura: «... ciò che gli dava da pensare era l’unità della natura animata e di quella così detta inanimata, era il pensiero che facciamo torto a quest’ultima quando tracciamo con troppo rigore il limi te fra i due territori, poiché questo in realtà è permeabile e, a guardar bene, non vi è nessuna fa-coltà elementare che sia riser vata esclusivamente agli esseri viventi e che il biologo non possa studiare anche sul modello inanimato» (T. MANN, Doctor Faustus, trad. E. Pocar, Mondadori, Milano 1996, p. 36).

Nella natura opera uno schema di organizzazione che, dal livel lo fi sico a quello biologico, presenta una continuità dal non vivente al vivente. Que-sto fatto implica una «coscienza» in relazione alle creazioni, dai cristalli o dalle rocce all’uomo. Un’idea ermetica di un cosmo vivente nella sua inte-gralità: la materia assume diversi stati, seguendo criteri energetici comuni alle strutture subatomiche e molecolari proprie dei corpi esistenti in natura, un ordine confi gurato in una logica misterica. L’universo, il cosmo costitu-isce quindi, una realtà vivente complessa e ogni singolo organismo che ne fa parte è strutturato secondo un’analoga rete di connessioni.

Samuel Taylor Coleridge, in un’opera tradotta in italiano con il titolo La teoria della vita (trad. O. Bellini, Marzorati, Settimo Milanese 1994, p. 87) propose, sulla base delle conoscenze scientifi che all’epoca più accreditate, le sue idee sull’illogicità e l’impossibilità di separare la materia inanimata da quella vivente, partecipando alla polemica, sorta nell’ambiente medi co inglese, tra i vitalisti ed i meccanicisti, relativamente all’ope ra di James Hunter. La dissertazione di Coleridge, che non a caso, come poeta, si ispi-rò frequentemente ai sogni, è interessante, in quanto la continuità tra la materia inorganica, organica e la molteplicità delle forme natu rali viene ricondotta a una vis formatrix, un principio vitale o una virtualità ermetica che, prima ancora di dar vita alle molteplici realtà del mondo, è presente in uno stato antece dente alla forma, identifi cabile con la rappresentazione cosmologica del Caos.

Nei poemi omerici le attività psichiche e le emozioni sono indicate con una pluralità di termini diversi, i quali, sul piano semantico, descrivono i fenomeni fi sici che ad esse si accompagnano. Il principio vitale fi nisce per essere identifi cato e confuso con l’in dividualità corporea: l’idea dell’anima – come sostanza distinta e autonoma rispetto al corpo, capace di infonder-gli, abitandolo, l’energia necessaria alla vita – affi ora nel concetto della psychē, entità aerea ed impalpabile che svanisce al momen to della morte.

La relazione esistente fra anima e corpo, sulla base dell’esperienza em-pirica, sottintende un’aporia, cioè l’impossibilità logica di riferirsi esclusi-

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Introduzione 15

vamente all’uno o all’altro termine, in quanto l’uomo, sia nelle condizioni normali che in quelle patologiche di vita, è insieme un corpo animato o un’anima incarnata.

La tradizione fi losofi ca classica ha accentuato la distin zione concettua-le tra la mente e il corpo, nel tentativo di spie gare il mistero della vita e della morte, al centro della specula zione metafi sica sull’essere in quanto essere, attraverso il postu lato di un principio ordinatore immateriale – sia esso il Logos o il Noûs – sottratto alle leggi della causalità fi sica. L’epilogo moderno di tale atteggiamento fi losofi co è racchiuso nel celebre dualismo cartesiano tra una res extensa e una res cogitans che determina, come è noto, la necessità di spiegare gli eventi della vita ricorrendo all’ipotesi del parallelismo psicofi si co o della corrispondenza tra i fenomeni fi sici e quelli psichici, mediata dalla progettualità fi nalistica divina. Versione secolariz-zata dei più arcaici discorsi ermetici.

L’idea del parallelismo psicofi sico è ricorrente e rappresenta l’approdo, quasi inevitabile, di ogni con fronto interdisciplinare tra la psicologia e le scienze biomediche. Il modello fi losofi co del parallelismo psicofi sico sottin-tende una visione geometrica della realtà di tipo euclideo. Le parallele sono, per defi nizione, due rette che non si incontrano mai e che limitano il loro rapporto alla corrispondenza e all’implicazione reciproca: ciascuna delle due rette – al pari dell’anima e del corpo – è sì necessaria all’altra per potersi defi nire parallela ma, proprio per questo, tende a non incontrarla mai. Nello studio dei fenomeni biologici, siano essi fi sici o psichici, è certamente rile-vante il progressivo ricorso, quale paradigma esplicativo, alla topologia, una teoria geometrica non euclidea fondata sulle leggi nascoste del Caos.

Il modello scientifi co corrispondente e opposto alla teoria del paralleli-smo psicofi sico è dato dal principio di indeterminazio ne individuato dalla fi sica quantistica, un altro àmbito nel quale riaffi ora la disciplina di Ermete. L’impossibilità di misurare, con esattezza, sia la velocità che la posizione di una particella subatomica – ciascuna grandezza è, difatti, relativa all’al-tra tanto da determinarla in un continuo processo trasfor mativo – si traduce nell’impossibilità fi losofi ca di considerare, se non come due fenomeni sin-croni i dati fi sici (equivalenti alla posizione della particella) e i dati psichici (equivalenti alla velo cità della particella). Si stabilisce quindi una relazione necessaria, benché oscura, tra due realtà ancora intese, inconsciamente, in senso sostanziale.

Entrambe le percezioni del reale confl uiscono nel paradigma leibnizia-no della continuità energetica della Monade, un succedaneo fi losofi co per affronta re la problematica della coscienza e della conoscenza, consentendo di defi nirne la natura ed i livelli qualitativi. La Monadologia, espressione

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fi nale del pensiero di Leibniz, propo ne un’ipotesi esplicativa della realtà, elaborata a partire da una teoria fi losofi ca della coscienza o della Monade. Un’unità di ermetica memoria che ha un sensibile antecedente nella metafora triadica di un neoplatonico come Proclo, in forza della quale l’Uno è in se stesso (monē) e in tutte le cose da esso derivate (próodos) e la tempo stesso tutte le cose sono in se stesse in quanto radicate nel fondamento che è l’Uno e ad esso ritornano (epistrophē). Niente di nuovo sotto il sole dunque.

Ancora, un signifi cativo riciclaggio delle tematiche ermetiche è presente in uno dei primi «cloni» su celluloide del The Da Vinci Code. Si tratta di Revelation (regia di Stuart Urban, 2003 First Look Media, 106’) esemplare momento cinematografi co in cui confl uiscono, a diversi livelli e a vario ti-tolo, una molteplicità di fascinazioni misteriche, simulacri nel compimento della profezia apocalittica. Tra tutte la principale è l’idea della clonazione di Gesù, cioè la creazione, il concepimento di un «doppio» messianico con funzioni di Anticristo. Il Cristo e l’Anticristo coincidono nella medesima persona, ma vivono in modalità di esistenza differenti; perché giunga la pienezza dei tempi è necessario che prima del Messia si riveli l’Impostore; passati mille anni, dice Apocalisse 20, 7, si compie il katéchōn e il Drago satanico verrà liberato per sedurre e annientare le nazioni. Quando il Cristo si rivela nel mondo diventa il suo opposto: l’Impostore precede il Messia perché le due fi gure coincidono spiritualmente, ma si manifestano in livelli diversi di consapevolezza. Ma nella nostra pellicola l’originario dualismo metafi sico è mutato e l’Anticristo è prodotto a partire da manipolazioni genetiche.

Altro motivo dominante la trama di Revelation è il modo in cui viene concepito il Sōtēr, il Messia futuro che dovrà contrastare l’opera dell’An-ticristo, esito della coniunctio o se vogliamo dello hieros gamos fra Venere = la Maddalena ed Hermes = Cristo. Un motivo ermetico coniugato alle usuali fandonie sulla dinastia dei Merovingi, l’«altra stirpe», nata dal coito fra Gesù-Seth e la Maddalena. Un sacro amplesso evocato liturgicamente in un ermetico «tempio di Maria Maddalena» a Rennes-le-Château, la città d’oltralpe teatro di una mitologia che è anche e soprattutto un buon richia-mo turistico per torme di visitatori apportatori di valuta pregiata.

Un mito, quello Merovingio, che si unisce alle chimere sulla Loggia Massonica P2 intesa quale residuo di un ordine templare degenerato, bla-sfemo custode della profezia apocalittica e del suo ierofante nonché gran maestro, il Papa nero. Tema originale e in controcorrente, quello dei Tem-plari non più «buoni» cavalieri succubi del potere, bensì egregori della malía cosmica, anelanti il segreto attraverso il quale controllare i destini del mondo. Il verecondo mistero – secondo il nostro lungometraggio – sa-

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Introduzione 17

rebbe racchiuso in un enigmatico cofanetto, il loculus, sacello per un arca-no legato all’ermetismo alchemico.

Un segreto custodito dall’Ouroboros, l’immemore drakōn che si autodi-vora. Esso rappresenterebbe l’insopprimibile anelito verso la palingenesia, la soglia dischiusa verso la «nuova creazione», la rigenerazione della vita. Il loculus sarebbe quindi espressione di un’antica tradizione sapienziale, una corrente sotterranea, l’alchemica «magnesia» o «magnete» (entrambi relati al maga- dei Magi persiani). Una corrente inafferabile a cui anelava già un Isacco Newton, autore di quel favoloso manoscritto che è anche all’origine del mito alchemico su Fulcanelli.

Ancora, ermetismo astrologico e un po’ «new-age», in questo fi lm al-chemico fanno da sfondo alla congiuzione astrale che determina le sorti del mondo: il transito della cometa sincronizzato secondo un rapporto tra ma-crocosmo e microcosmo, tra oscillazioni celesti e atti umani, un meccanismo di geometria sacra che fa corrispondere il pentalfa tracciato in terra con una quintuplice congiunzione planetaria. Nell’auspicio astrale, le personifi cazio-ni terrene di Cristo-Hermes e di Maddalena-Venere copulano, concepiscono il Redentore futuro congiungendosi al centro di un sigillo di Salomone. A questo sovrapporsi di temi ermetici, gnostici e mitopoietici, si aggiungano le suggestioni metapolitiche di un Milingo, il cardinale santo, immolato dalla Guardia di Finanza, espressione di una italica intelligence strumento di un potere occulto i cui orditi sono imbastiti dall’Ordine del Tempio.

Anche questo, a suo modo, è persistenza dell’ermetismo; una disciplina sapienziale non più codifi cata in astrusi scritti, ma resa palese nelle tra-me occulte del mondo dello spettacolo. Anzi, sembra che il mondo del romanzo prima, e in seguito la sua trasposizione plastica, visibile, cioè la narrazione cinematografi ca, rappresentino un’ultima e ulteriore strategia misterica per comunicare a una più vasta audience la nostalgia di un mondo anteriore, di un paradiso separato dalla materialità.

L’ermetismo è quindi invenzione, fi nzione e reinvenzione: è il caso, tutto italico, di un Giuliano Kremmerz, al secolo Ciro Formisano, eroe parteno-peo della pitagorica disciplina. Il Kremmerz è noto alle cerchie ermetiche nostrane quale taumaturgo propugnatore di una dottrina arcana e salvifi ca, al crocevia degli Orienti. Egli guariva e scriveva a fi ne Ottocento, negli anni del «boom» orientalistico, un fl uido mondo di scoperte archeologiche che andavano dall’Epopea di Gilgamesh, poema del diluvio decrittatto nel-le tavolette cuneiformi ritrovate, ai documenti manichei persiani di Turfan vergati nell’alfabeto aramaico estrangelo.

Il Kremmerz o chi lo erudiva, vivevano queste fascinazioni e mescola-vano queste attese levantine con i pilastri della sapienza ermetica e alche-

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mica. Il risultato, contrastante, è in un lungo corpus dottrinale che a sprazzi i discenti hanno reso di pubblico dominio (a volte con grande ira dei custo-di iniziali, traditi nel loro istinto monetario di conservazione e trasmissione dei documenti). Tra i primi affi oramenti di questa sapienza ermetica, quelli resi pubblici dallo stesso Kremmerz, c’è un curioso libretto tracimante sa-pienza mesopotamica, i «dodici aforismi magici di Iriz-ben Assir», sedi-cente e sommo sacerdote del periodo di Beroso (cfr. G. KREMMERZ, Intro-duzione alla scienza ermetica, a cura di M. Picchi, Roma 20002, pp. 163 ss.). Beroso, il cui nome in accadico signifi ca più o meno «Bel proteggilo», è risaputo, voleva rendere «ecumenica» la religione babilonese esportan-dola nelle contrade occidentali, fondando anche una scuola. È probabile qualche traccia, anche signifi cativa, l’abbia lasciata: è quello forse il fondo veritiero in cui ha scavato la nascente tradizione kremmerziana. Questi afo-rismi, che si caldeggia ai neofi ti di memorizzare e praticare, oscillano attor-no a un mistero, un enigma ultimo, quello dell’Uno, lo hen neoplatonico, che è Uovo, Mondo e Uomo. L’uovo è l’embrione dell’universo; in esso, nell’universo, alberga un personaggio perturbante, l’uomo, l’unico che può districarsi nel labirinto dell’esistere, cioè nella molteplicità delle esistenze. Custode di questo arcano è Ea, il signore dell’abissale e fl uidico abzu. Un mondo sotterraneo, infero, in cui Ea controlla il me (parṣū in accadico) la forza vitale, esistentiva, degli dèi. Ea tenta di comunicare all’uomo questa forza attraverso il controllo della respirazione; egli deve aspirare e respi-rare visualizzando il cosmo in forma di uovo, come in illo tempore fece Ea. Una pratica di ermetismo «yogico» che si colora di genio partenopeo, quando apprendiamo che lo «spirito» di Ea, veicolo della sua sapienza e favella, è il «gigante Egs» (5° Aforisma). Ora, molti si sono adoprati nel ricercare il fattibile nesso babilonico, l’etimologia levantina del nome Egs, trascurando la vena burlesca, canzonatoria dell’ermetismo kremmerziano: Egs altro non sembra che la parola inglese Eg(g)s «Uova», privata di una consonante, la g. Così gabbato, l’ermetista si avvia su quella strada dell’in-ganno magico, dei nomi inventati, degli asema onomata, che tanta fortuna ha riscosso nella mantica antica. Fra i molteplici sortilegi colmi di parole misteriose e impronunciabili, una ricorre con una certa periodiodicità nella mantica antica, è la cosiddetta formula magica di Orthō Baubō.

La prima parola è sicuramente riconducibile al greco orthōs «giusta-mente, correttamente»; la seconda, essenziale, menziona un personaggio cruciale del mito eleusino, Baubo (). Baubo, moglie di un certo Di-saule, abitava ad Eleusi, città cui approdò Demetra, alla disperata ricerca della fi glia rapita dal dio infero. La dea, accompagnata dal piccolo Iacco, venne accolta nella casa dei nostri coniugi. Baubo le preparò per rifocil-

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Introduzione 19

larla una minestra che Demetra rifi utò, talmente era affl itta. Allora Baubo, forse per esprimere il proprio scontento o forse per rallegrare la dea, solle-vò le vesti (l’anasyrma) rivelando le proprie intime nudità. Iacco, eccitato, si mise ad applaudire, mentre la dea, divertita, scoppiò a ridere e accettò la minestra.

Al di là dell’ironia mitologica, nel cibo offerto alla dea si deve riconoscere il pasto che sta a fondamento della liturgia eleusina, rappresentato dal kykeōn (dal verbo kykaō «mescolare»), un semolino rituale a base di acqua, farina d’orzo e di un non ben identifi cato glēchōn, sorta di menta selvatica che molti oggi riconoscono in una pianta psicoattiva dagli effetti narcotici e/o allucinogeni .

La versione della vicenda Baubo-Iacco è basata su due fonti cristiane: Clemente Alessandrino (Protrept. 2, 20, 1-21) e Arnobio (Adv. nat. 5, 25), entrambe sono alla base del frammento orfi co 52 (nell’edizione di KERN, pp. 126-128). L’interpretazione del gesto di Baubo è problematica. Si tratta certamente di un anasyrma tipico, ma non è chiaro cosa ella esibisce.

Il testo di Clemente specifi ca che si tratta della fi ca (ta aidoia). Il fra-mento orfi co nella sua integralità accenna all’esibizione non già della vulva in natura, ma di un’immagine oscena (oude preponta typon), che è forse nella regione pubica o certamente nella parte del corpo al di sotto dei seni (hypo kolpois), o nella quale la regione pubica o la vulva è stata confor-mata. Questa immagine rappresenta il fanciullo Iacco che appare ridente quando, scotendolo con la mano (cheiri te rhiptaske) lo distende. Arno-bio dettaglia minuziosamente l’operazione, su una fonte ignota, diversa da quella di Clemente: Baubo esibisce certamente la fi ca, dopo una toilette intima, e ha fatto assumere, stendendola o manipolandola (levigari), alla vulva la forma di un fanciullino. Inoltre in Arnobio l’intenzione del gesto di Baubo è dichiaratamente ludica e provocatoria di riso.

Iacco quindi non sarebbe presente in persona, ma evocato nelle pieghe del sesso muliebre, a partire da un’icona vaginale. Secondo un’ipotesi les-sicale attendibile Iacchos equivarebbe a choiros «fi ca» e, quindi, Baubo mostra soltanto la vulva che assume aspetto di volto fanciullesco ridente dopo che essa stessa ha corrugato la fessura con le mani (cfr. H. DIELS, «Ar-cana cerealia», in AA.VV., Miscellanea Salinas, Palermo 1908, pp. 10 ss.).

In un passo di Eronda (6, 19) il termine Baubōn con la terminazione di genere maschile, che è una variante in rapporto al nome femminile Baubo, designa lo olisbos, ovvero, nel lessico erotico latino, il penis coriaceus, uno strumento di forma fallica adoperato nella masturbazione femminile, l’odierno «fallo di gomma» (cfr. H. FRISK, Griechisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 1954, s.v. baubaō).

L’attribuzione di Baubo all’ambito orfi co è legata a una rielaborazione

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dei temi demetrici. Tale rielaborazione assegna a Baubo un carattere cto-nio e sembra associarla alle divinità liberatrici dell’anima o psicopompe. Incerto resta l’originario sfondo culturale dal quale gli Orfi ci hanno tratto la fi gura per inserirla nel loro patrimonio mitologico. Baubo appare, infatti, accanto a Demeter Thesmophoros, a Kore e a Zeus Eubuleus, tutti chto-nioi, in una iscrizione di Paro (IG, XII: 5, 227; E.ROHDE, Psyche, II, p. 408) datata circa il I sec. d.C., il che porterebbe a dedurre come la mitologia di Baubo sia venuta agli Orfi ci da Paro. Nell’iscrizione essa è una fi gura divina ctonia i cui caratteri sotterrranei e oltretombali, forse i più arcaici, sembrano indicati da taluni altri elementi: la presenza di un Hermes fune-rario chiamato Orthō Baubō in un papiro redatto nel IV sec. d.C. su fonti molto più antiche e poi ripreso nei nostri testi ermetici, magici e gnostici. È la citata formula magica di Orthō Baubō, un enigma indecifrabile, che associa il nome Baubo con quello di spettri notturni e gigantesci.

Il quadro cultuale e iconologico che tutto ciò presuppone è la diffusio-ne di una rappresentazione religiosa della sessualità femminile dalla quale può dipendere la Baubo demetrico-orfi ca. Essa è inoltre legata alla nota serie di statue fi ttili che furono scoperte, nella campagna di scavi del 1895-1898, nel tempio di Demetra e Kore a Priene. Le statuette, defi nite da ar-cheologi puritani «gastrocefale», raffi gurano la parte inferiore di una fi gura umana femminile deformata in modo che il bacino, il ventre, la vulva e le cosce vengano, nel loro insieme, a rappresentare una testa femminile cui sottostanno immediatamente le gambe, con assenza dell’area mediana del torace e del ventre. La testa-ventre è sormontata da un’acconciatura che si caratterizza come chioma, ma che in realtà sembra l’adattamento a forma di chioma della veste sollevata. La datazione delle statuette è riportata co-munemente al IV sec. a.C., ad un’epoca, cioè, nella quale è presumibile che il contesto demetrico-orfi co, fi ssato nel tardo testo clementino, fosse già formato. In questi monumenti avremmo una signifi cativa iconografi a dell’anasyrma, del vero e proprio «sollevamento» delle vesti per mostrare il sesso, rivelazione di una realtà ultima, poiché per paradosso è la prima, luogo di origine della vita e canale di immissione degli esseri nella tragicità dell’esistere. La stessa che la gnosi ermetica, nella frenetica e «immorale» ricerca del signifi cato ultimo, tenta di cogliere.

Ezio Albrile Novembre 2008

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IHERMETICA DRACONICA

1. Prolegomena

«Ermetismo» è un termine moderno per indicare uno stuolo di scritti di natura pseudepigrafa, vergati in epoca elleni stica e attribuiti a Ermete Trismegisto, il «Tre volte grande», un personaggio del sincretismo greco-egizio esito dell’incontro fra Hermes, il dio greco della scrittura, dell’in-terpretazione (e del furto), e l’egizio Thōth, il dio della sapienza e della scrittura, cui si attribuiva una fl orida letteratura magica1.

Da sottolineare come una tradizione riferita dagli Iudaikà di Artapano2, un autore giudaico-ellenistico, sostenga che fu il re egizio a insegnare l’arte astrologica ad Abramo. La fonte stabilisce un legame di-retto fra la trasmissione degli arcani celesti e la fi gura di Faraone. Infatti sembra essere la contrazione di , «Faraone» come tra-scritto nei Settanta, e /, l’egizio Thoth, che s’è detto corrispon-dere al greco Hermes. Non a caso, secondo una fantasiosa etimologia an-notata sempre da Artapano, la parola «Giudei» sarebbe la traduzione greca di , Hermes-Thoth. La ricerca antiquaria giudaica, sulla scia di quella greca, vuole legare le origini della civiltà ebraica al paese in cui essa era ospitata3. Secondo Artapano infatti in Egitto sarebbe rimasta una colonia ebraica dei tempi di Abramo, mentre il patriarca sarebbe ritornato nei «luoghi» di Siria4.

1 Ancora una magistrale introduzione al problema è W. KROLL, s.v. «Hermes Tri-smegistos», in PWRE, VIII/1, Stuttgart 1912, coll. 792-823.

2 Fr. 1 = Eus. Praep. Ev. IX, 18,1 (ed. K. MRAS [Berlin 19822], p. 504, 12-18); vd. anche la trad. di L. Troiani in Apocrifi dell’Antico Testamento (sotto la dir. di P. Sacchi), V: «Letteratura giudaica di lingua greca», Brescia 1997, p. 100.

3 Per questo cfr. G. GARBINI, «Abramo tra i Caldei», in Storia e ideologia nell’Isra-ele antico (Biblioteca di storia e storiografi a dei tempi biblici 3), Brescia 1986, pp. 113 ss.

4 Cfr. anche il fr. 2 = Eus. Praep. Ev. IX, 23, 1-4 (MRAS, pp. 516, 15-517, 14; TROI-ANI in Apocrifi , p. 101).

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Ermetica è, dunque, quella lettera tura vergata in greco – che certi scritti pretendono sia traduzione dalla più vetusta lingua egiziana, allo scopo di avvalorarne l’antichità – la quale si vuole rivelazione di Thōth, l’Hermes primordiale, ai suoi accoliti e discepoli.

Testimonianza cruciale nella ricostruzione della fede e dei culti (al cro-cevia fra magia e religione) che contraddistinguono il sincretismo impe-riale, questa letteratura comprende due tipi di scritti: uno ritualistico, di natura «pratica», l’altro più speculativo, di impostazione prevalentemente fi losofi ca. La prima serie di testi inerisce agli aspetti prammatici di quel caleidoscopico fenomeno religioso che è l’occultismo ellenistico, quali l’astrologia, la magia, l’alchimia5. I secondi sono invece costruiti a partire da nuclei gnomici antichi e articolati in forme dialogiche, secondo cui una divinità (Hermes o Thōth) rivelerebbe a una ristretta cerchia di discepoli, di «iniziati», il suo sapere, tramandando nozioni misteriche su Dio, il cosmo, l’uomo6.

La letteratura ermetica sopravvissuta è soltanto la minima parte di una cospicua produzione andata smarrita oppure nota solamente in fonti secon-darie (excerpta di fi losofi , lessicografi , scoliasti, Padri della Chiesa). Pro-prio il carattere frammentario, unitamente alla natura pseudoepigrafi ca e all’eterogeneità dei materiali trasmes si, rende problematico ogni tentativo sia di datazione che di collo cazione. Ancora più arduo è capire in che modo i due tipi di scritti menzionati siano in relazione fra loro.

I primi, come s’è detto, comprendono documenti tipici dell’oc cultismo ellenistico7. Così, tra i testi astrologici il più importante a noi pervenuto è il Liber Hermetis Trismegisti, traduzione latina di un trattato greco che, nella sua redazione originaria, si presume risalga all’Egitto tolemaico del III secolo precedente l’era volgare8. Alla rivelazione di Ermete Tri smegisto sono attribuite dottrine astrologiche, tra cui quella dei 36 Decani, entità

5 Cfr. A.-J. FESTUGIÈRE, La révélation d’Hermès Trismégiste, I. L’astrologie et les sciences occultes, Paris 1944, pp. 123 ss.

6 Una introduzione a questa seconda parte di scritti è H. HORNIK, «The Philosophi-cal “Hermetica”: their History and Meaning», in Atti dell’Accademia delle Scien-ze di Torino (Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche), 109 (1975), pp. 343-392.

7 Una prima silloge è in W. GUNDEL, Neue astrologische Texte des Hermes Tris-megistos. Funde und Forschungen auf dem Gebiet der antiken Astronomie und Astrologie, München 1936 (= Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Phil.-Hist. Klasse, Abt. N.F. 12 ).

8 Cfr. FESTUGIÈRE, La révélation d’Hermès Trismégiste, I, pp. 112-123; ora edito da G. BOS, Hermetis Trismegisti. Astrologica et divinatoria, Hermes Latinus Tomus IV/Pars IV (CCCM C), Turnhout 2001, pp. 77 ss.

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celesti così chiamate poiché ognuna di esse amministra gli infl ussi astrali di 10 gradi dello Zodiaco9. All’astrologia sono inoltre collegati i trattati ermeti ci di melotesia e di medicina astrologica o iatromathematika, miran-ti a stabilire il rapporto tra una parte del corpo, origine della malattia, e il corrispondente infl usso astra le10.

Quanto alla magia, i testi più signifi cativi attribuiti a Hermes sono pre-senti nel corpus dei papiri magici greci e sono all’incirca databili tra II e IV sec. d.C.: Hermes vi appare come un dio infl uente e autorevole, invocato per acquisire quel «potere» (fama, agio, beni materiali, sesso) che solo la prassi magica può recare. Quanto all’alchimia, infi ne, sviluppatasi a partire dal III-II sec. a.C. ma con un retaggio molto più antico11, il rapporto con l’ermetismo è evidente in particolare nei testi di Zosimo panopolitano, il primo alchimista dell’antichità la cui opera sia collocabile in un contesto storico12. Vissuto in Egitto agli albori del IV sec. d.C., Zosimo segna il punto di confi ne tra la manipolazione dei metalli e la percezione mistica che questa presuppone.

La cosmologia narrata da Zosimo si confi gura come l’esito di un viag-gio interiore, di un «sogno lucido» in cui le mutazioni della materia e dei corpi sono l’esito di una intima demiurgia: da tec nica di manipolazione dei metalli, l’alchimia ermetica è mutata in un processo simbolico di rigenera-zione dell’uomo interiore, dallo «spazio esterno» si è penetrati nello «spa-zio interno». L’elaborazione di valori gnoseologici e iniziatici relativi ai metalli trae infatti origine dal ferro meteoritico, che per la sua provenienza celeste è ritenuto forse più prezioso dell’oro, oltre che più raro. Un lega-me anche linguistico: in greco signifi ca sia «stella» che «ferro». Si risale così ad un’epoca anteriore alla vera e propria Età del Ferro, nata

9 Si attribuisce di conseguenza al Trismegisto anche la dottrina sui paranatellonta, gli asterismi presenti al sorgere delle costellazioni zodiacali, cfr. W. HÜBNER, «Die Paranatellontes im “Liber Hermetis”», in Zeitschrift für Wissenschaftsgeschichte, 59 (1975), pp. 387-414.

10 Cfr. W. KROLL, s.v. «Iatromathematike», in PWRE, IX, Stuttgart 1916, coll. 802-804.11 Cfr. quanto dico nella mia «Introduzione», in E. ALBRILE (cur.), Olimpiodoro.

Commentario al libro di Zosimo “Sulla forza”, alle sentenze di Ermete e de-gli altri fi losofi , Milano 2008, pp. 22 ss.; che riprende E. ALBRILE, «Le magie di Ostanes», in AA.VV., Ravenna da Capitale imperiale a Capitale esarcale, Atti del XVII Congresso Internazionale di Studio sull’Alto Medioevo (Ravenna, 6-12 giugno 2004), Spoleto – Fondazione CISAM 2005, pp. 1069-1083; ID., «I pargoli di Agatodemone», in Aries, 6 (2006), pp.180-204; ID., «Alchemica et iranica», in Bizantinistica, Ser. II, 7 (2005), pp. 63-71.

12 Cfr. A. DE JONG, s.v. «Zosimus of Panopolis», in W.J. HANEGRAAFF (ed.), Diction-ary of Gnosis & Western Esotericism, II, Leiden-Boston 2005, pp. 1183b-1186a.

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con l’invenzione e la diffusione di fornaci adatte a fondere minerali ferrosi (ematite e magnetite), manufatti che rendono possibile la produzione di rilevanti quantità di tale metallo13.

Gli scritti di Zosimo sono uno specchio del legame profondo fra er-metismo fi losofi co, speculativo e pratica ermetica. Tuttavia è impro babile che questi testi, isolati o raggruppati secondo modalità oggi ignote, rappre-sentassero una sorta di «corpo dottrinale» di un movimen to organizzato. Né i cenni sporadici a pratiche come il bacio rituale o il pasto sacro sono suffi cienti per indurre a postulare l’esistenza di vere e proprie comunità ermetiche in cui si celebrassero specifi che rituarie. Se è diffi cile capire chi fossero in realtà gli ermetisti, è altrettanto complesso ricostruire un quadro unitario del loro credo, così lontano dai canoni usuali della religiosità clas-sica ed ellenistica.

Per orientarsi nell’universo della letteratura ermetica bisogna partire da un dato di fatto: l’ermetismo è il primo esempio storicamente documentato di incontro tra fi losofi a greca e sapienza orientale nella forma di un sapere rivela to. Il sapere, la «gnosi» particolare che i testi ermetici vogliono co-municare, è una conoscenza rivelata. Da questa constatazione discendono alcune conseguenze, la prima delle quali è che l’ermetismo costituisce un tipico prodotto della cultura ellenistica, in cui paiono assimilate tradizioni orien tali e occidentali, saggezza barbara e fi losofi a greca e le cui compo-nenti, là dove anco ra individuabili, sono ormai fuse in una sincresi più o meno creativa non riducibile ad alcuno dei suoi elementi14.

L’ellenismo è un fenomeno complesso, al punto che alcuni hanno pre-ferito parlare di una molteplicità di «ellenismi», una realtà storica intricata che ha ridefi nito i modi di pensare e di credere delle singole culture in esso coinvolte. Così, agli albori dell’era cristiana, l’Egitto ellenizzato (in parti-colare la metropoli di Alessandria) è un fl orido universo culturale nel quale si incontrano tradizioni religiose autoctone e fascinazioni provenienti dal mondo greco, giudaico, nonché iranico-mesopotamico15.

L’artefi ce, o gli artefi ci, di gran parte dei trattati ermetici si può dire fos-se un egizio buon conoscitore della cultura ellenica. E se da un lato – come testimonia un trattato ermetico quale la Korē kosmou, la «Fanciulla del

13 Per questo, cfr. M. BUSSAGLI, s.v. «Alchimia. Origini», in Enciclopedia dell’Arte Medievale, I, Roma 1991, p. 324b.

14 Un tentativo di riunifi care tutti questi elementi è in A. FAIVRE, The Eternal Her-mes, Grand Rapids (Mich.) 1995.

15 Su questa tematica mi permetto di rinviare a E. ALBRILE, « Il cenacolo alchemico», in F. ZAMBON (cur.), Cenacoli. Circoli e gruppi letterari, artistici, spirituali (Viri-darium 4), Fondazione Giorgio Cini, Venezia-Milano 2007, pp. 47-72 .

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cosmo» – egli si ricolle ga a una mitologia e a una sapienza locali, dall’altro le ripensa, le reinterpreta e le riscrive con una sensibilità e un linguaggio tipicamente ellenistici. I destini misterici di Oriente e Occidente sembrano quindi fondersi in una indissolubile sincresi: lo scena rio egiziano, le sue divinità e i suoi templi, le sue tradizio ni sapienziali e mitologie, si risolvo-no nel sentire greco, nei dilemmi sull’anima, il cosmo, Dio. Né il discorso muta quando si passi a prendere in esame la presenza di altre tradizioni culturali e religiose, dall’infl usso del giudaismo, o dell’iranismo a quello del cristianesimo16. I testi er metici hanno saputo riplasmare materiali ete-rogenei desunti da tradizioni fi losofi che e religiose differenti, fornendo loro uno stile e una koinè peculiari.

2. Creazioni dimenticate dal tempo

Se il progressivo imporsi del cristianesimo relegherà l’ermetismo nella penombra di un paganesimo fortemente motivato e in dialogo con i valori della nuova religione, temi e infl ussi ermetici si ritroveranno negli scritti dei Padri della Chiesa17. Bisognerà attendere il Rinascimento per assistere a un rinato interesse verso gli scritti di Ermete Trismegisto, dipinto nelle vesti di un profeta pagano, antesignano di una arcaica sapienza i cui fram-menti riafforano nelle Scritture18.

C’è inoltre, quasi sincronicamente e in modo insospettabile, un mutato mondo sociale e culturale che recepisce i simboli e i valori dell’ermetismo antico trasfi gurandoli in qualcosa di impensato. In questo universo è nata e si è sviluppata la leggenda di Dracula il vampiro, una fi gura diabolica che è una specie di hapax mitologico fi ssato, a fi ne Ottocento, nell’elaborazione canonica del romanziere inglese Bram Stoker. Anche se tarda, l’opera di

16 Vd. in partic. M. PHILONENKO, «Une allusion de l’Asclepius au livre d’Henoch», in J. NEUSNER (ed.), Christianity, Judaism and other Greco-Roman Cults. Studies for Morton Smith at Sixty (Studies in Judaism in Late Antiquity 12), Pt.II (Early Christia-nity), Leiden 1975, pp. 161-163; ID., «Le Poimandrès et la liturgie juive», in AA.VV., Le syncrétisme dans les religions de l’antiquité. Colloque de Besançon 22-23 Oct. 1973 (EPRO 46), Leiden 1975, pp. 204-211; R.CAMPLANI, «Riferimenti biblici nella letteratura ermetica», in Annali di Storia dell’Esegesi, 10 (1993), pp. 375-425.

17 Cfr. G. SFAMENI GASPARRO, «L’ermetismo nelle testimonianze dei Padri», in Gno-stica et Hermetica. Saggi sullo gnosticismo e sull’ermetismo (Nuovi Saggi 82), Roma 1982, pp. 261-308.

18 Basti pensare al pavimento del Duomo di Siena in cui Ermete Trismegisto è dipinto, assieme alla Sibilla e altri «profeti» pagani, quale precursore della sapienza cristia-na; vd. inoltre M. BUSSAGLI, Arte e magia a Siena, Bologna 1991, pp. 72 ss.

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Stoker compendia in un insieme organico i principali motivi della leggen-da. Eccone, in breve, lo svolgimento.

Jonathan Harker, fi danzato e poi marito di Mina Murray, si reca al ca-stello del conte Dracula, un oscuro maniero che si erge in un punto sper-duto dei Carpazi al confi ne fra Transilvania, Moldavia e Bucovina. Egli deve consegnare l’atto di acquisto di un antico palazzo che il conte ha comperato in un sobborgo di Londra, in vista del suo trasferimento nella capitale britannica. Per questo motivo Harker deve anche ragguagliare il conte sulle usanze inglesi. Durante il soggiorno, che ben presto si trasforma in prigio nia, Harker scopre la vera natura demonica di Dracula, ma riesce a evadere dal castello attraverso una fi nestra, proprio nel momento in cui il conte parte alla volta dell’Inghilterra.

Trasportato in una delle cinquanta casse piene di terra natìa, Dracula appro-da alle coste inglesi a bordo della nave russa Demetra (nel testo Demeter), di cui du rante il percorso sopprime l’intero equipaggio. La nave naufraga davanti agli occhi di una folla radunata sulle scogliere di Whitby, nello Yorkshire.

Il conte raggiunge la nuova dimora londinese e comincia ad insidiare gli abitanti della città. Uccide e riduce alla condizione di «non-morta», cioè vampirizza, la bella e malinconica Lucy Westenra, un’amica di Mina, alla quale però il medico olandese Abraham Van Helsing riesce a restitui re la pace eterna. Van Helsing, insieme ai co niugi Harker e altri amici, inizia una caccia senza quartiere a Dracula, il quale tenta invano di nascondersi. Van Helsing & compagni iden tifi cano e neutralizzano tutti i nascondigli londi-nesi di Dracula, costringendolo co sì a fuggire dall’Inghilterra nell’ultima cassa di terra natìa rimastagli.

Seppur braccato, il conte insidia e tenta di vampirizzare Mina Murray. Questo tuttavia gli risulterà fatale, poiché attraverso il vincolo di sangue che si è instaurato tra di loro, Mina riesce, in stato di ipnosi, a percepire e rivelare tutte le mosse del conte durante il viaggio di ritorno.

Nel rimpatriare, Dracula predilige nuovamente la via dell’acqua alla ter-ra e si imbarca, con l’ultima cassa rimastagli, nel porto di Londra, su una nave, la Zarina Caterina (nel testo Czarina Catherine) battente anch’essa bandiera russa.

Propiziata dai venti e godendo del favore della nebbia, la nave approda silenziosa al porto di Calati, vicino alle foci del Danubio. Cassa e conte vengono poi caricati su un’imbarcazione che, percorrendo a ritroso i fi umi Siret e Bistriţa (nel testo Sereth e Bistritza), giunge sino alle soglie del ca-stello. Lì trovano ad attenderli Van Helsing & compagni che armati di croci e paletti di legno inseguono il conte, e dopo un breve ma feroce scontro lo eliminano defi nitivamente.

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Hermetica draconica 27

Questa la traccia del famoso romanzo che riprende e a suo modo «cano-nizza» il mito del più famoso vampiro transilvanico. Sulle sue gesta e sul suo nome molto si è favoleggiato19. Pochi invece sanno, come ha mostrato magi-stralmente Marinella Lőrinczi nel suo prezioso libro, che l’origine del sopran-nome Dracul (Dracula) è da collegare all’Ordine cavalleresco del Dragone20, o meglio all’«Ordine del Dragone rovesciato», fondato dall’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo, allora anche re d’Ungheria.

Nel 1431, a Norimberga, ne entrava infatti a far parte il voivoda valacco Vlad, padre dell’omonimo e più famoso principe Vlad, le cui efferatezze saranno la base del mito di Dracula il vampiro21. È idea sostenuta da un ma-nipolo di storici che il soprannome Dracula (Dracul) sia da collegare alle insegne dell’Ordine (vedi fi gura): l’attribuzione pre coce del soprannome non sarebbe quindi legato a un atto di condanna nei confronti del principe, sem pre che lo sia mai stato, ma piuttosto è la traduzione, l’adattamento in valacco (in romeno) del titolo cavalleresco.

L’Ordine del Dragone ha un ruolo apparentemente secondario nella sto-ria della cavalleria medioevale e un’esistenza limitata a qualche decennio. Qualcuno lo ritiene un affi oramento di quella moda dilagante nei secoli XIV-XV, in conformità alla quale i prìncipi o le grandi famiglie aristocra-tiche erano quasi tenute ad aver un ordine proprio22. Alle esigenze di rango si associano quelle comuni a tutti gli ordini cavallereschi di allora: la lotta a eretici e miscredenti, in prima fi la i mussulmani. La ragione particolare che spinse Sigismondo di Lussemburgo, insieme alla consorte Barbara e a una schiera di eminenti dignitari a fondare tale ordine nel 1408, fu quella di contrastare le dottrine dell’eretico boemo Jan Hus (1369-1415) e di Gi-rolamo di Praga. Essi vollero perciò rappresentare il nemico da combattere come un dragone, noto simbolo di Satana, abbattuto, cioè «rovesciato», quale emblema dell’eresia distrutta. Questa la motivazione palese.

L’ordine annoverò fra le sue fi la anche il re Alfonso V d’Aragona il Ma-gnanimo: ben presto però il sovrano iberico se ne distaccò, creandone uno

19 Si vd. in partic. i lavori di M. LŐRINCZI, Nel dedalo del drago. Introduzione a Dra-cula (Università degli Studi di Cagliari / Dipartimento di Filologie e Letterature Moderne 9), Roma 1992; R. FLORESCU-R.T. MCNALLY, Alla ricerca di Dracula, Milano 1973 (ed. or. New York 1972); M. PETRONIO, Dai vampiri al conte Dracula (Nuovo Prisma 15), Palermo 1999.

20 Cfr. LŐRINCZI, Nel dedalo del drago, pp. 40 ss.; G. NANDRIŞ, «Le thème de Dracula dans les littératures européennes», in Acta Historica, 8 (1968), p. 65; G.GIRAUDO, Drakula. Contributi alla storia delle idee politiche nell’Europa Orientale alla svolta del XV secolo, Venezia 1972, pp. 42-44.

21 LŐRINCZI, Nel dedalo del drago, pp. 31 ss.22 Vd. quanto detto in J.HUIZINGA, L’autunno del Medio Evo, Firenze 1966, pp. 85 ss.

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parallelo il cui obiettivo era la repressione della pirateria saracena. Entram-bi i rami dell’Ordine furono soppressi dopo la morte dei fondatori.

Nella bolla di fondazione del 1408 si legge che lo scopo originario dell’Ordi ne sarebbe stato la lotta ai nemici del mondo cristiano, pagani, eretici, scismatici e miscredenti in genere, effi giati nell’immagine del Dra-go sinuoso, il Drago avvolto su se stesso, eternato nell’atto di inghiottire e divorare la propria coda (signum seu effi giem Draconis incuruati per mo-dum circuii, cauda sua collum circum girantis)23. Una fi gurazione affi ne, se non speculare, al Drago o Serpente Ouroboros ( )24, eterna coniugazione di principio e fi ne, il simbolo più signifi cativo che introduce alla prassi alchemica: un indizio importante per comprendere lo sfondo iconologico dell’Ordine.

Due insegne dell'Ordine del Dragone rovesciato. La croce reca la scritta O quam misericors est deus/ justus et paciens.

23 LŐRINCZI, Nel dedalo del drago, pp. 42-43.24 Con riferimento all’opera di Olimpiodoro in ALBRILE (cur.), Olimpiodoro. Com-

mentario al libro di Zosimo, p. 66 (BERTHELOT-RUELLE, Paris 1888: II, 80, 1-2).

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Hermetica draconica 29

Esiste poi un preciso rituale connesso alla vestizione: i cavalieri erano tenuti a portare giornal mente una croce gigliata e screziata di verde; nelle occasioni solenni vestivano di scarlatto e indossavano un mantelletto di seta verde; la loro collana era a doppia maglia, tramezzata di croci patriar-cali, e aveva come pendente un Dragone rovesciato, anch’esso screziato di diversi colori, metafora dei molteplici stratagemmi e seduzioni messi in opera dall’eresia per ingannare i fedeli25.

L’insegna dell’Ordine del Drago contiene elementi tipici dell’iconografi a antiereticale. In particolar modo è antichissima l’immagine del Drago quale simbolo del prepotente, del malvagio o del male astratto, personifi cato nel seguace della religione antica (il «pagano») o dell’eretico, il cui annienta-mento è affi dato a un eroe mitologico, un guerriero o cavaliere cristiano. Gli esempi sono numerosissimi e non è qui il luogo per dilungarvisi26.

Se però prendiamo in esame anche la divisa dei cavalieri dell’Ordine del Drago, le valenze del simbolo «drago» si sdoppiano, secondo una moda-lità di coincidenza degli opposti che rappresenta l’animale mitico nel suo duplice aspetto, malefi co e benefi co. Per questa ragione il drago è esibito, in periodo medievale, sui vessilli anglonormanni e inglesi, e da allora so-pravvive più in generale come frequente stemma araldico. Nella versio-ne anglonormanna di Benedeit del Viaggio di san Brandano, al Grifone fi ammeggiante che attacca dal cielo la nave sulla quale viaggia il san to, si oppone uns draguns fl ammanz mult cler, cioè un luminoso Drago alato che esce vittorioso dal combattimento, sebbene sia più debole dell’avver-sario27. Un ulteriore esempio positivo è il drago quadrupede e alato, dal portamento fi ero ed eretto e dalla lunga co da sollevata a forma di spirale, tuttora simbolo del Galles.

La divisa dei cavalieri dell’Ordine del Drago ripropone il secondo aspetto, quello benefi co, del simbolo zoomorfo: essi infatti in dossavano un mantello verde, il colore del drago, su di un abito rosso, simbo lo del sacrifi cio28, o secondo altri un mantello di scarlatto abbinato a un mantel-

25 LŐRINCZI, Nel dedalo del drago, p. 43.26 In un’area di interferenza prossima al mondo rumeno si colloca la mitologia

bulgara, con il motivo del Drago-Zmej, un essere mutante a metà fra l’uomo e l’animale, cfr. I. GEORGIEVA, Mitologia popolare bulgara (I Pitré 2), a cura di A. Amitrano Savarese, Roma 1991, pp. 155 ss.

27 Nav.s.Brand. 1007-1030 (SHORT-MERRILEES [Manchester 1979]; trad. R.Bartoli-F.Cigni, Benedeit. Il viaggio di san Brandano [Biblioteca Medievale 32], Parma 1994, pp. 106-109).

28 Cfr. P. CHIHAIA, «Deux armoiries sculptées appartenant aux voïvodes Vlad Dracul et Neagoe Basarab», in Revue Roumaine d’Histoire de l’Art, 1 (1964), p. 154.

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letto di seta verde29. Erano e si consideravano dunque draghi essi stessi, la militia draconica Christi.

Che le cose potessero stare così ce lo conferma lo strano stemma raf-fi gurante un drago, fatto scolpire da Vlad Dracul padre intorno al 1439 per ornare una sua fondazione. Si tratta di uno scudo policromo in pietra, collocato originariamente in un punto ben visibile a Curtea de Arges, sulla torre della chiesa dedicata al Transi to della Madonna, in seguito distrutta da un terremoto, che riproduce la fi gura di un grosso felino ghermito da un drago alato e bipede, dalla lunga coda vittoriosamente sollevata. Il drago da sconfi tto è trasformato in vincente e come tale acqui sta la dignità di fi gurare su un edifi cio sacro, al fi ne di professare la durevole adesione del committente all’idea della crociata antieretica e antimussulmana30.

3. Alchemica draconica

Se da un lato il simbolo dell’Ordine è inteso quale immagine dei feno-meni ereticali da reprimere, non si può passare sotto silenzio il ventaglio di signifi cati collaterali e derivati impliciti nella fi gurazione draconica. Ma ciò che rende peculiare l’iconografi a è la sua raffi gurazione ciclica, ouro-borica, che troviamo in altre insegne dell’Ordine del Dragone rovesciato, unita ai colori indossati dai cavalieri affi liati all’Ordine.

Sembra che il signifi cato alchemico iniziale dell’Ouroboros oscillasse tra il ciclico, inesorabile fl uire dell’eternità e il limite spazio-temporale: tra ciò che gli Egizi chiamavano Nun (= il Chaos) e l’esistente31. Con una peculiare sincresi, Gnostici e Neoplatonici riprendono questa cosmologia, facendo dell’Ouroboros l’immagine del divenire ritmato in una duplice ci-clicità: lo sviluppo, il manifestarsi dell’Uno nel Tutto e il ritorno del Tutto all’Uno32.

L’identità astrale dell’Ouroboros è ribadita da un importante documen-to gnostico già noto prima della scoperta dei trattati di Nag-Hammadi, la

29 Cfr. A. PECCHIOLI, La cavalleria e gli ordini cavallereschi, Roma 1980, p.188.30 LŐRINCZI, Nel dedalo del drago, p. 45.31 Cfr. H. HORNUNG, Der Eine und die Vielen, Darmstadt 1971, pp. 172-173; B.H.

STRICKER, De Grote Zeeslang (Mededelingen en Verhandelingen N° 10 van het Vooraziatisch-Egyptisch genootschap «Ex Oriente Lux»), Leiden 1953, pp. 18 ss.; M. MERTENS (ed.), Zosime de Panopolis. Mémoires authentiques (Les Alchi-mistes Grecs, IV/pt. 1), Paris 1995, p. 178.

32 Cfr. H. LEISEGANG, La gnose, trad. franc. J. Gouillard, Paris 1951, p. 81; MERTENS, Zosime de Panopolis, p. 179.

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Hermetica draconica 31

Pistis Sophia: questo testo menziona il «Drago delle Tenebre esteriori» quale forma epifanica del male, effi giata astrologicamente dalla linea dei nodi lunari33, ovverossia dalla linea che congiunge i punti in cui l’orbita della Luna interseca il piano dell’eclittica34. Il Drago delle Tenebre esteriori è nominato diverse volte nella Pistis Sophia35, ma è solo dal Cap. 126 del terzo libro che Gesù, rivolto alla Maddalena, ne dà una descrizione detta-gliata: «Le Tenebre esteriori sono un grande Drago con la coda in bocca, sono fuori dal mondo e circondano tutto il mondo»36, egli dice, utilizzan-do la classica immagine dell’Ouroboros gnostico. È un chiaro riferimento zodiacale. Il Drago ha «dodici camere» in cui abitano dodici Arconti, e «ognuno ha un nome e cambia d’aspetto a seconda delle ore»37; si tratta dell’allusione al dōdekaōros elaborato da Teucro di Babilonia, scandito in un periodo di dodici ore in cui si susseguono dodici immagini di animali, corrispondenti ai segni zodiacali, ognuna delle quali comprende due ore.

Ad Alessandria d’Egitto la gnosi alchemica si era consolidata in una cerchia ermetica molto esclusiva già nei primi secoli della nostra era38 e aveva conosciuto la sua epoca aurea alla fi ne del III secolo. Decaduta Alessandria, la diaspora degli alchimisti toccò Bisanzio: lì l’Arte regia si trasmise anche con il beneplacito di imperatori quali Eraclio39 (610-641 d.C.). È plausibile che in una fase arcaica la manipolazione alchemica degli elementi venisse illustrata e tramandata unicamente attraverso dia-grammi e non per iscritto. Consuetudine ben nota al mondo antico, se pen-siamo alla cosmologia del Timeo platonico, strutturata in una successione di forme geometriche40. Ma di questi cosmogrammi non è rimasto quasi

33 Cfr. G. FURLANI, «Tre trattati astrologici siriaci sulle eclissi solare e lunare», in Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Classe di Scienze Morali, Stori-che e Filologiche, Ser. VIII, Vol. II, fasc. 11-12, 1947, pp. 569 ss.

34 Cfr. PS III, 131 (SCHMIDT-MACDERMOT, p. 332, 3-10).35 PS III, 102; 105; 106; 108; 119.36 PS III, 126 (SCHMIDT-MACDERMOT, p. 317, 16-21).37 PS III, 126(SCHMIDT-MACDERMOT , p. 319, 10-18).38 Cfr. G. QUISPEL, «Hermes Trismegistus and the Origins of Gnosticism», in R. VAN

DEN BROEK-C. VAN HEERTUM (eds.), From Poimandres to Jacob Böhme: Gnosis, Hermetism and the Christian Tradition (Pimander: Texts and Studies published by the Bibliotheca Philosophica Hermetica, 4), Amsterdam 2000, pp. 145 ss.; e, nello stesso volume, R. VAN DEN BROEK, «Religious Practices in the Hermetic “Lodge”: New Light from Nag Hammadi», pp. 77 ss.

39 Cfr. N. PORCU, «L’immagine della Ruota della Fortuna nei manoscritti della Con-solatio philosophiae di Boezio», in Nuovi Annali della Scuola Speciale per Ar-chivisti e Bibliotecari, 17 (2003), p. 15; J. VAN LENNEP, Art et alchimie. Étude de l’iconographie hermétique et de ses infl uences, Paris-Bruxelles 1966, p. 32.

40 Cfr. Tim. 53c ss.; F. STRUNZ (C.-M. EDSMAN), s.v. «Alchemie», in RGG, I, Tübin-

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nulla. Fa eccezione una serie limitata di fi gurazioni alchemiche dell’Ou-roboros41, immagine cruciale della prassi ermetica, nella quale l’adepto ripone attese di redenzione e timori di un possibile insuccesso, evento che lo porterebbe ad esperire il lato negativo dell’Ouroboros.

Come s’è detto, i principali testi dell’alchimia ellenistica vennero com-pulsati in periodo bizantino in grandi raccolte manoscritte. Tre di esse sono di notevole rilevanza: si tratta dei Codici Marcianus graecus 299 (X-XI sec.), appartenuto al cardinal Bessarione, Parisinus graecus 2325 (XIII sec.) e Parisinus graecus 2327 (XV sec.). Quest’ ultimo, l’unico a possedere un colofone ascritto a Theodoro Pelekanos, sembra una copia integrale del testo originario da cui è tratto il Parisinus graecus 2325. Nelle tre raccolte è compendiata la summa del sapere alchemico greco42: esse rappresentano la principale fonte a cui attingono tutti i restanti ma-noscritti43.

Il cosmogramma uroborico che ci interessa è desunto da queste sil-logi44. Esso, tratto dal Parisinus graecus 2327 (folio 196), presenta un serpente suddiviso in tre parti; si tratta di tre anelli concentrici dall’aspetto squamoso, di cui il primo, il più esterno, reca la testa sormontata da tre orecchie colorate di un rosso brillante, mentre l’occhio è bianco, con una pupilla nera. L’anello mediano è dipinto in giallo, mentre il successivo, il più interno, fornito di quattro zampe, è colorato di verde. Secondo la spiegazione che ne dà il manoscritto, le quattro zampe rappresenterebbero i quattro elementi, cioè la «tetrasomia», mentre le orecchie corrisponde-rebbero ai tre differenti sublimati (zolfo, mercurio, arsenico). Il folio 279 dello stesso manoscritto mostra un altro serpente, questa volta composto di soli due cerchi (uno rosso, l’altro verde).

Ogni autore ermetico utilizza quattro stadi di colore (nigredo, albedo, rubedo, citrinitas) all’interno di una visione cosmologica volta a mostrare come nel cuore oscuro della materia si celi l’eterno principio dell’illumi-nazione.

Il perfezionamento cromatico, allude alle possibilità di mutazione rac-chiuse nella prima materia, alla necessità di operare una separazione tra i due «composti», la nigredo e l’albedo. Il primo momento dell’Opus alche-

gen 1957, col. 220.41 Cfr. H.J. SHEPPARD, «The Ouroboros and the Unity of Matter in Alchemy: A Study

in Origins», in Ambix, 10 (1962), pp. 84 ss.42 Cfr. MERTENS, Zosime de Panopolis, pp. XXI-XLVI.43 Cfr. F. SHERWOOD TAYLOR, «A Survey of Greek Alchemy», in Journal of Hellenic

Studies, 50 (1930), pp. 111-113.44 Cfr. SHEPPARD, «The Ouroboros and the Unity of Matter in Alchemy», pp. 85-86.

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Hermetica draconica 33

mico è la nigredo o , in cui la privazione di colore rimanda allo stato oscuro e indifferenziato della prima materia, che subirà numerosi trattamenti purifi catori. La tappa iniziale di questo processo è la dissolu-zione o «uccisione» di tale amalgama confuso (versione caotica e alche-mica di ciò che per gli gnostici è il iniziale).

La seconda fase del magistero è l’albedo o , che nell’unione di tutti i colori rifl ette l’uscita dal buio primordiale e indistinto. Come in tutti gli itinerari spirituali a carattere iniziatico, anche nell’alchimia il pun-to cruciale è rappresentato da una soglia, da un limite che segna il passag-gio netto fra un prima e un dopo ontologicamente diversi. Questo limite non sta certo tra albedo e rubedo, tra bianco e rosso, ma piuttosto tra le prime due fasi dell’Opus, la nigredo e l’albedo, cioè là dove si verifi ca la trasformazione radicale della materia.

Il corpo dell’Ouroboros è il luogo in cui è celato il principio della tra-smutazione, ciò che gli alchimisti chiamano , la «sostanza liquida» virtualmente racchiusa in ogni corpo che in altri contesti magico-ermetici è omologata al «magnesio»45 o «magnete»46.

La storia del Drago ha un retaggio molto antico. S’è detto, nel caso dell’Ouroboros, quanto esso sia iconologicamente legato alle antichità egizie. Nel sincretismo ellenistico è un modo per accreditare la veridicità di una pratica o di una dottrina misterica. Nel primo trattato del Corpus Hermeticum, comunemente noto come Poimandres, la Tenebra che si estende sul mondo inferiore, «terribile e oscuro», ha sembianze urobori-che. Tenendo conto dell’integrazione al testo fatta dal Reitzenstein47, essa appare in «sinuose spirali, simile ad un drago»48: . L’ispirazione egizia del Corpus Hermeticum richiama sia il valore positivo che l’Ouroboros ha nella cultura faraonica, sia la raffi gurazione soteriologica che ne dà – in una prospettiva sincreti-stica – la Storia Fenicia di Filone di Biblo49. Rifacendosi al fenicio San-chuniathon, Filone riferisce che nell’ambiente siro-egizio, in cui si coltiva la sapienza di (l’egizio Thōth e futuro Trismegisto), si riconosce una natura divina, ignea e «pneumatica» al Serpente, poiché questi è «in-

45 Vd. anche ALBRILE (cur.), Olimpiodoro. Commentario al libro di Zosimo, pp. 88-89 (BERTHELOT-RUELLE II, p. 98, 8-10).

46 Cfr. TH. ROMMEL, s.v. «Magnet», in PWRE, XIV/1, Stuttgart 1928, coll. 483-485.47 Cfr. R. REITZENSTEIN, Poimandres. Studien zur griechisch-ägyptischen und früh-

christlichen Literatur, Leipzig 1904, p. 329.48 Corp. Herm. I, 4 (FESTUGIÈRE-NOCK I, pp. 7-8, che invece integrano con

).49 Vd. anche STRICKER, De Grote Zeeslang, p. 21.

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34 Ermete e la stirpe dei draghi

fi nito nel tempo», , eterno, rinascente e rigenerantesi a nuova vita, e «quando ha raggiunto una età prestabilita si autodivora». Il Serpente, prosegue Filone, è immortale e «si risolve in se stesso»50.

Ma ci sono altre vie culturali attraverso cui il simbolismo draconico è giunto all’Occidente tardoantico e poi medievale. Una delle predilette è quella iranica: l’interlocutore più prossimo con cui interagiva il mondo bizantino era certamente l’Iran, un universo simbolico e intellettuale che lasciò tracce indelebili nell’intera cultura occidentale51.

4. Iranica draconica

Nell’Iran partico-sassanide, un drago, un aždahā, era effi giato sui ves-silli bellici affi nché l’aspetto feroce spargesse sgomento nelle fi le nemiche. A questo genere di stendardi fa riferimento lo Šāh-nāma quando parla di aždahā-peykar52. Secondo Luciano di Samosata l’esercito partico si servi-va di un’insegna che recava l’immagine del . Una divisione di ben mille uomini seguiva questo stendardo, dipinto in maniera così verace e impressionante da portare scompiglio nelle schiere avverse53.

Nell’Iran medievale islamizzato, riemergono in forma cortese gli antichi miti che hanno fondato l’epica iranica arcaica. Uno di essi è quello del Drago tricefalo Aži Dahāka (in medio-persiano Azdahāg/Dahāg)54, che evemeriz-zato si trasforma nel malefi co tiranno Ḍaḥḥāk dello Šāh-nāma di Firdusi55. Al posto delle due teste addizionali, dalle spalle gli spuntano due serpenti, una pariglia di rettili affamata di materia cerebrale umana, che il diabolico sovrano deve nutrire quotidianamente. Un Dracula in erba il nostro Ḍaḥḥāk.

Ma Ḍaḥḥāk è anche l’usurpatore demoniaco per eccellenza; usurpatore del

50 Cfr. Euseb. Praep. ev. I, 10, 46-48 (= A.M. BAUMGARTEN, The Phoenician History of Philo of Biblos [EPRO 89], Leiden 1981, pp. 20-21 [testo]; 245-246 [trad.]).

51 Si vd. ad es. i contributi raccolti nel volume miscellaneo AA.VV., La Persia e Bi-sanzio. Convegno Internazionale (Roma 14-18 otttobe 2002) (Atti dei Convegni Lincei 201), Roma 2004 .

52 Cfr. P.O. SKJÆRVØ, s.v. «Aždahā I. In Old and Middle Iranian», in E. YARSHATER (ed.), Encyclopaedia Iranica, III, London-New York 1989, p. 193b.

53 De hist. con. 29 ( KILBURN, VI [London-Cambridge (Mass.) 1959], pp.42-43).54 Cfr. E. ALBRILE, «Le acque del Drago. Note in margine alla Passione e martirio di

Santo Stefano protomartire», in Studi sull’Oriente Cristiano, 3 (1999), pp. 41 ss. (che rinvia alle conclusioni di SKJÆRVØ, s.v. «Aždahā», cit.).

55 Vd. inoltre R. AJELLO, «Mec Tigran e il mito del combattimento col tricefalo», in AA.VV., Transcaucasica II (Quaderni del Seminario di Iranistica, Uralo-Altaistica e Caucasologia dell’Università degli Studi di Venezia 7), Venezia 1980, pp. 68-81.

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Hermetica draconica 35

trono di Jamšīd (l’avestico Yima Xšaētā)56, il sovrano che con il suo pecca-to pose fi ne al tempo paradisiaco57. Una grave maculazione, che per alcuni è l’aver sacrifi cato e mangiato carne58 e per altri l’incesto demonico con la sorel-la gemella59: una trasgressione, preludio di un inesorabile declino, culminante nell’avvento del diabolico Ḍaḥḥāk, l’oppressore che ucciderà Jamšīd segando-lo verticalmente in due con una lisca o un «osso di pesce»60.

Ma se il peccato di Jamšīd ha come conseguenza l’instaurarsi del tempo storico, segnato dall’avvicendarsi delle stagioni e dalle calamità che l’ac-compagnano (neve, piogge e inondazioni, siccità…), l’azione del tiranno, come ha notato Simone Cristoforetti, ispirato dal magister gnosticus Gian-roberto Scarcia, tende a suo modo alla restaura zione dello stato edenico, il quale si situa antecedentemente all’incontro dei sessi ed è caratterizzato da una segregazione. Nel mito infatti, Ḍaḥḥāk è il geloso custode della rossa sfera femminile emblematizzata dalla verginità e dal sangue, custode della fi ca; nell’epopea avestica Aži Dahāka rapisce e segrega nella sua inarriva-bile «magione» (maniha), edifi cata in Babilonia, le seducenti Savaŋhavāci e Arnavāci, che tradizioni tarde presentano come fi glie o sorelle di Yima61. Il Drago è contrario a qualsivoglia contatto tra il maschile e il femminile62 e tende quindi a impedire l’unione tra i due sessi63.

56 Cfr. Yasna 9, 4; Yašt 5, 25; 17, 31; Widēwdād 2, 20.57 Per quanto segue cfr. S. CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk: un esempio di psi-

cofagia luminosa», in G. SCARCIA (cur.), Bipolarità imperfette (Eurasiatica – Qua-derni del Dipartimento di Studi Eurasiatici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia 56), Venezia 1999, pp. 99 ss.

58 Vd. inoltre A. CHRISTENSEN, Les Kayanides, Köbenhavn 1932, pp. 109-117; è il più antico tema di Yima, primo uomo, primo re, ma anche primo trasgressore poiché primo sacrifi catore (Yasna 32, 8 = R.C. ZAEHNER, Zurvān. A Zoroastrian Dilemma, Oxford 1955 [repr. New York 1972], p.145), relegato in un vara sotterraneo, al quale allude probabilmente anche Erodoto (VII, 114) quando parla di , «il dio che abita sottoterra»; cfr. anche SH. SHAKED, «First Man, First King. Notes on Semitic-Iranian Syncretism and Iranian Mythological Transfor-mations», in SH. SHAKED-D.SHULMAN-G.G. STROUMSA (eds.), Gilgul. Essays on Transformation, Revolution and Permanence in the History of Religions (Studies in the History of Religions [Supp. to Numen] L), Leiden-New York-København-Köln 1987, pp. 238-245.

59 Cfr. A.KRASNOWOLSKA, Some Key Figures of Iranian Calendar Mythology (Winter and Spring), Kraków 1998, p.86.

60 CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk», p.100.61 Cfr. Yašt 5, 29-35; 15, 19-21.62 Cfr. SKJÆRVØ, s.v. «Aždahā», p. 194 a.63 CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk», p. 101.

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36 Ermete e la stirpe dei draghi

Una forte impronta omosessuale pervade dunque la biografi a di Ḍaḥḥāk e di Dracula64: se Ḍaḥḥāk è a suo modo la nemesi del peccato «contro natu-ra» di Jamšīd, l’obiettivo primordiale delle attenzioni vampiriche del conte Dracula è Jonathan Harker, l’effeminato fi danzato di Mina Murray. Anche Dracula opera la propria segregazione sessuale, cacciando le concubine vampire che attentano alla verginità del giovane ospite.

Una traccia di omosessalità maschile che si presenta quale rimedio con-correnziale all’hybris primigenia. Ovviamente la custodia della verginità annovera tra i suoi stratagemmi sia una «reazione onanistica», tipica di si-stemi gnostico-iranici come il manicheismo65, sia un’attività omosessuale. Ambedue le pratiche possono dar luogo a una «teologia» desumibile da una pratica misterica, in cui la funzione del seme maschile ha come controparte alchemica il sangue femminile66, quello che imporpora, tinge di sanguigno tutte le sedi di Ḍaḥḥāk rintracciabili nell’altipiano iranico67.

La colpa di Jamšīd si colora così dei toni di un peccato originale tutto sommato analogo a quello in cui la trasgressione sta nel mangiar mele, nell’ardimentoso dedicarsi ad attività sessuali che dànno inizio alla storia umana post-edenica.

Resta da comprendere in che modo agisca Ḍaḥḥāk durante il pro prio re-gno, al fi ne di impedire l’evento, ierogamico nell’archetipo, alla base della «routine» riproduttiva. La sua indole demoniaca lo induce a mettere in atto misure preventive: egli si nutre, facendone incetta, della sostanza luminosa che origina e costituisce lo stesso seme maschile.

64 L’omosessualità del vampiro latente già nella novella di John William Polidori (Il vampiro, trad. it. A. Brilli-A. Randazzo, Genova 1984; apparsa originariamente nel 1819, sulle pagine del New Monthly Magazine), diventa palese nelle opere della scrittrice contemporanea Ann Rice, il cui romanzo più famoso è Intervista col vam-piro (trad. it. M. Bignardi, Milano 1995 [ed. or. New York 1976]), da quest’opera si snoda una nuova mitologia vampirica, per certi versi innovativa, la cui fi gura di riferimento è il vampiro Lestat, personaggio liminale e sessualmente ambiguo.

65 Si tratta del cosiddetto motivo della «Seduzione degli Arconti»; la bibliografi a sull’argomento è vastissima, mi permetto di rinviare a E. ALBRILE, «Abēzagīh. Note di alchimia gnostico-iranica», in Studi sull’Oriente Cristiano, 9: 1 (2005), pp. 5-27, articolo in cui ho ricostruito lo sviluppo e la persistenza del mitologhema in un’area defi nita «indo-iranica-gnostica».

66 Cfr. J.JACOBSEN BUCKLEY, «Libertines or Not: Fruit, Bread, Semen and Other Body Fluids in Gnosticism», in Journal of Early Christian Studies, 2 (1994), p. 19, n. 17.

67 È il fondamento del mito sistanico studiato da G. SCARCIA, «Sulla religione di Zābul. Appunti per servire allo studio del ciclo epico sistanico», in Annali dell’Isti-tuto Orientale di Napoli, N. S. 15 (1965), pp. 119-165; e GH. GNOLI, Ricerche storiche sul S–stān antico (Report and Memoirs X), IsMEO (ora IsIAO), Roma 1967, pp. 121 ss .

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Hermetica draconica 37

Una spermatofagia ahrimanica che nella leggenda è simbolicamente sublimata: ogni giorno, il cervello di due uomini funge da indispensabi-le nutrimento per due voraci serpenti fuoriusciti dalle spalle di Ḍaḥḥāk in seguito ai baci del cuoco, cioè di Ahriman, che, sotto le spoglie di un giovane di gradevolissimo aspetto, lo inizia alla dieta proteica, carnea, per condurlo infi ne all’antropofagia. L’inganno di Ahriman in vesti di cuoco è sottile, proponendo, sulle prime, una pietanza dall’aspetto innocuo, ma ricca di signifi cato, oltreché di nutrimento, e sino ad allora sconosciuta: il tuorlo d’uovo.

La natura cerebrale del seme non desta meraviglia, è un’idea transitata nel pitagorismo e poi negli gnostici68: ogni giorno, infatti, il buon ministro del demone e tiranno libera uno dei due malcapitati destinati a venir sgoz-zati, mischiando al cervello dell’altra vittima quello di una pecora, in modo da ingannare il palato di serpenti dai gusti così sofi sticati. Il mito vuole che gli scampati ad opera del buon ministro, siano gli ante nati di un popolo nuovo, la nazione kurda69. Nel prisma distorto della leggenda iranica i Kur-di sono quindi la az-tōhmag, la «stirpe del drago»70, in quanto sopravvissuti a un’oblazione sacrifi cale destinata alle fauci di Ḍaḥḥāk.

La fuga del popolo kurdo a ovest del monte Damāvand, che è prima il regno, poi la prigione di Ḍaḥḥāk, dà inizio alla storia vera e propria. La festa invernale iranica del sada che prosegue nel saya dei Turchi, ne com-memora la liberazione. Si racconta che una notte, per ordine del buon mini-stro, gli scampati agli abominevoli banchetti abbiano acceso fuochi sui tetti delle proprie case in modo da mostrare al trionfante Ferēydūn, uccisore di Ḍaḥḥāk, che chiedeva a quel mi nistro ragione delle sue sospette mansioni al servizio del tiranno, quanta gente avesse salvato in tutti quegli anni. Di lì la pseudoetimologia del termine sada, che starebbe a signifi care il «centi-naio» (in medio e neopersiano sad), di fuochi ardenti quella notte71.

68 Con rif. al noto lavoro di R.B. ONIANS, ora in trad. italiana: Le origini del pen-siero europeo (Ramo d’oro, n. 31), Milano 1998 (ed. or. Cambridge 1951, rev. 1954), p. 142; GH. GNOLI, «Un particolare aspetto del simbolismo della luce nel Mazdeismo e nel Manicheismo», in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, N.S. 12 (1962), pp. 121 ss.; F. MICHELINI TOCCI, «Simboli di trasformazione cabalistici ed alchemici nell’Ēš mĕṣarēf con un excursus sul “libertinismo” gnostico», in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, N.S. 31 (1981), pp. 78 ss.

69 CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk», p. 102; ID., Il Natale della Luce, Milano 2002, pp. 284 ss. .

70 La locuzione, tratta dalla mitografi a iranica, è liberamente reinterpretata e volta in senso positivo, cfr. SKJÆRVØ, s.v. «Aždahā», p. 196 a.

71 Cfr. D.N. MACKENZIE, A Concise Pahlavi Dictionary, Oxford University Press, London 1971, p. 73; CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk», p.103.

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Un dettaglio rituale signifi cativo è l’uso di alimentare i fuochi della festa con noci e mandorle72. Nella documentazione neopersiana si parla infatti della consuetudine di gettare ḥubūb «noci» o «frutta secca» nel fuoco73. La frutta secca è da secoli una produzione iranica tipica, un motivo che spiega il rito, da un punto di vista puramente esteriore, secondo una logica sacrifi -cale intesa quale mera oblazione delle messi. Ma c’è molto di più.

La valenza di fecondità femminile del noce è notoria mente presente nel-la mitologia greca, secondo cui l’apollinea profetessa Caria, fi glia del re di Laconia Dione, amata da Dioniso, venne trasformata in noce (in greco ) fecondo. E in tal senso, nell’Europa set tentrionale, le noci veniva-no utilizzate per gli auspici degli innamorati: i loro gusci, opportunamente trasformati in barchette galleggianti, portavano il nome dei vari pretendenti alla mano della fanciulla, che sceglieva quello il cui nome era rimasto a galla più a lungo.

Noci bicolori (bianco/nero, bianco/rosso) comparivano spesso nelle raffi gura zioni funerarie dell’antichità classica, in stretto rapporto simboli-co con la cista, il canestro o la cassetta che appare, insieme al serpente, in molti monumenti se polcrali quale attributo delle divinità femminili.

La cista corrisponde alla natura femminea. È il simbolo per eccellenza del potere materno, della fecondazione, della seminis immissio in monetam, del concepimento, della nutrizione, della protezione del seme e di ogni gio-vane vita, come notava, già a suo tempo, un pruriginoso Bachofen74. Il suo spazio è l’oscurità della matrice tellurica, in cui il fallo maschile, escluso dalla luce, penetra. Perciò esso viene anche racchiuso nella cista mistica, così come s’introduce invisibile, quale forza fecondatrice, nella materna materia della terra e della Luna.

In molti miti, il bimbo neonato viene posto in una cassa e affi dato al mare: ritroviamo qui l’idea del nutriente e protettivo corpo materno, di cui gli antichi vedevano l’immagine anche nelle conchiglie, nelle noci, in legumi come i piselli e i fagioli. Quei legumi che san Gerolamo ritiene in-terdetti alle vergini in Cristo, alle spose del Signore, in quanto in partibus genitalibus titillationem producunt.

Frantumato il guscio, la noce rivela una scorza aspra. Le pieghe che si ritorcono ascose alludono alle circonvoluzioni cerebrali: la noce (medio-persiano čahār-maġz), è quindi immagine del cervello, e come tale è del

72 CRISTOFORETTI, Il Natale della Luce, pp. 210 ss.73 CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk», p.107.74 Cfr. J. J. BACHOFEN, Il simbolismo funerario degli antichi, cur. M. Pezzella, Napoli

1989 (ed. or. Basel 1856), p. 259.

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tutto plausibile che in Iran possa rappresentare simbolicamente il pasto, la «dieta» di Ḍaḥḥāk.

In seguito alla graduale, ma completa evoluzione in senso demoniaco delle abitudini alimentari di quel tiranno operata dal cuoco = Ahriman, che in un crescendo costante, a partire dall’uovo, inizia Ḍaḥḥāk alla nu-trizione carnea (una novità per l’umanità), per culminare infi ne nell’an-tropofagia, la noce è metafora di un unico alimento, il cervello umano. Si direbbe, questo, il corrispondente iranico di un elemento cardine delle concezioni alimentari legate alla dottrina orfi ca e dionisiaca, la «dieta» dei Titani, che, ricoperti di fango e gesso, cioè bianchi come morti, at-tirano il piccolo Dioniso con ninnoli, lo colpiscono, lo smembrano e ne consumano le carni in un oscuro rito sacrifi cale: dapprima le bollono, per ripassarle poi allo spiedo75. I Titani, tuttavia, si asterranno dal con-sumare il cuore della vittima, organo usualmente considerato parte degli , le interiora (cuore, fegato, polmoni, reni) da offrire sull’ara degli dèi76.

Zeus fulminerà i Titani, e dalle loro ceneri nasceranno la stirpe umana e le fave77. Dal cuore, cioè dall’unica parte di Dioniso che i Ti tani non hanno mangiato, risorgerà il dio78. Ora, sappiamo da una legge sacra di Rodi (I secolo d.C.) che era interdetto consumare questa parte delle inte-riora per poter entrare in un santuario, non è dato sapersi se di Asclepio o di Serapide, in stato di purità. L’interdizione accomunava al consumo del cuore i piaceri del sesso e quelle fave che, precluse sia ai pitagorici sia agli orfi ci79, dal punto di vista della simbologia sono in quale modo legate alle nostre noci.

Esiste una nota antropomorfi ca nella crudeltà dei miti di Ḍaḥḥāk e di Dioniso: il cervello e la noce, il cuore e la fava, manifestano, nella loro violenza simbolica e rituale l’essenza dell’uomo80. Ma è soprattutto la noce che in Iran trova ri scontri sul piano mitico: la noce, il cui gheriglio,

75 Sulla gastronomia sacrifi cale si vd. quanto detto in W. BURKERT, I Greci, Tomo I (Storia delle Religioni 8/1), trad. it. P. Pavanini, Milano 1984 (ed. or. Stuttgart 1977), pp. 83 ss.

76 Cfr. Hom. Il. 1, 464 ; Od. 3,9 ; 20, 252 ; Aesch. Ag. 1221.77 CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk», p.109.78 Per i rifl essi fi siologici dell’evento mitico, cfr. A. OLIVIERI, «Pneuma, cuore, cer-

vello nell’Orfi smo», in AA.VV., Studi di fi losofi a greca (Pubblicazione in onore di R. Mondolfo), Bari 1950, pp. 19-30.

79 Cfr. M. DETIENNE, Dioniso e la pantera profumata, trad. it. M. De Nonno, Roma-Bari 1987 (ed. or. Paris 1977), p. 145.

80 Su questo si è diffuso in mariera più dettagliata CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk», p. 109.

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assieme alla mandorla, è lin guisticamente connesso con il concetto di cervello, cioè con il nutrimento di Ḍaḥḥāk, si ritrova, sotto forma d’albe-ro, in più di una leggenda.

Nella ricostruzione del Tīragān, la festa di Tīr, il Mercurio iranico81, padre Giuseppe Messina notò a suo tempo analogie con le celebrazioni, nell’Adiabene del II sec. d.C., dello Šahr-āß-āγām-vad, il «giorno consa-crato alla festa delle acque della regione», nella lettura di Markwart82. Se-condo la Cro naca di Arbela, nel cerimoniale della festa, oltre alla rituaria lustrale e al lancio di frecce verso il cielo da parte dei partecipanti, trovava sanguinosa collocazione il sacrifi cio di un infante gettato nel fuoco, le cui viscere (fegato e reni) venivano appese a un albero.

Nel mito iranico collegato alla festa del Tīragān, che studi e indagini recenti sul campo vogliono tuttora vivente al pari del nowruz e del sada, vediamo all’opera il valente arciere Āreš (< avestico ƎrƏxša), il quale sa-crifi ca coscientemente se stesso nello sforzo immane di tendere un arco poderoso, al fi ne di scagliare il più lontano possibile la freccia che libererà l’Iran dal giogo dell’oppressore turanico.

Secondo una consuetudine linguistica risalente al nome sumerico mul-

KAK-SI-SA´, la «stella-freccia»83, cioè Sirio (a Canis Maioris), è defi nita in relazione al suo movimento veloce nei cieli, una singolarità che condivide con il pianeta Tīr/Mercurio84. In due passi del Tištar Yašt, l’inno avestico dedicato a Sirio, il movimento della stella è paragonato a quello del dardo lanciato da ƎrƏxša, l’arciere85 che sottrasse il territorio ai turanici scoccan-do una freccia che dal monte Airyō.šia raggiunse il monte Xvanvant86.

In questi passi la velocità del volo è associata a un tremolío, un rapido moto vibrazionale espresso dal verbo xšviw-, che designa l’intermittenza

81 Vd. A. PANAINO, Tištrya, Part II: The Iranian Myth of the Star Sirius (Serie Orien-tale Roma LXVIII, 2), IsIAO, Roma 1995 , pp. 66-67; 83-86.

82 Cfr. G.MESSINA, «La celebrazione del Tīragān in Adiabene», in AA.VV., Atti del XIX Congresso Internazionale degli Orientalisti (Roma, 23-29 settembre 1935), Roma 1938, p.241.

83 A. PANAINO, Tištrya, Part II, p. 47; ID., s.v. «Tištrya», nella versione elettronica di E. YARSHATER (ed.), Encyclopaedia Iranica:

www.iranica.com/newsite/articles/ot_grp9/ot_tistrya_20050829.html, pp. 1-3.84 PANAINO, Tištrya, Part II, p. 71.85 Cfr. AirWb, col. 349.86 Yašt 8, 6 (= A. PANAINO, Tištrya, Part I: The Avestan Hymn to Sirius [Serie Orien-

tale Roma LXVIII, 1], IsIAO, Roma 1990, p. 32, 61); A. PIRAS, «Le tre lance del giusto Wīrāz e la freccia di Abaris. Ordalia e volo estatico tra iranismo ed ellenismo», in Studi Orientali e Linguistici, 7 (2000), p. 101.

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della luce87, un improvviso, fulmineo e ripetuto movimento oscillatorio simile a un battito d’ali, un colpo di frusta, lo scoccare di una freccia o lo scalpitio di un destriero88. Il movimento di una freccia rappresenta in modo fi gurato la velocità dei corpi celesti: in una sequenza cosmologica del Bundahišn, la velocità del Sole, della Luna e delle Stelle è espressa mediante il lancio di un triplice dardo89.

Scagliata verso il leggendario monte, lontano ben mille parasanghe, la freccia si confi ccò non a caso in un grande albero di noce. Ne conseguì, secondo la tradizione, l’uso di lanciar dardi in quella ricorrenza. Affi ora netto il legame contrastivo fra il prode Āreš, smem brato nello sforzo di tendere il suo arco e il bambino sacrifi cato in Adiabene da un lato, e quello tra il noce khorasanico verso cui punta la freccia di Āreš e le viscere del bimbo immolato appese all’albero nell’Adiabene dall’altro. Ambedue le ce rimonie sembrano il rifl esso simbolico di un antico sacrifi cio cruento, il testé evocato mito di Dioniso e dei Titani. In Iran la noce sta inoltre per gli organi interni da offrire agli dèi, quale variante continentale della più mediterranea fava90.

La noce si ritrova oggidì nel folklore persiano associata, come nella fe-sta dell’Adiabene, alle acque: la «sorgente dell’ira». A Eṣṭahbānāt, piccola città del Fars, regione ricca di sorgenti e di noci91, un adagio neopersiano diffuso tra la popolazione del luogo recita: ab-i zīr-i girdū bad ast, «l’ac-qua malefi ca sgorga dall’albero di noci». Come se la memoria mitologica e rituale maculasse la sorgente, cosa del resto ovvia sullo sfondo tematico di una fecondità virtuale prima sentita come violata, poi demonizzata. Un tempo parte del raccolto di noci, forse per esorcizzare la negatività connes-sa a questo alimento, veniva distribuito tra i bambini in cambio delle loro preghiere.

Mangiare noci, in sintonia con l’interdizione pitagorica e orfi ca sul ci-barsi di fave, signifi ca mangiare gli antenati, essere come morti, entrare negli inferi. Nutrirsi del cibo dei trapassati equivale a ledere il fl uire ciclico dell’esistenza, quindi la cosa era oggetto di un divieto alimentare92: poiché

87 AirWb, col. 563.88 Cfr. J. KELLENS, «Vibration and Twinkling», in Journal of Indo-European Studies,

5 (1977), p. 198.89 W.B. HENNING, «An Astronomical Chapter of the Bundahishn», in Journal of the

Royal Asiatic Society, 1942, p. 234.90 CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk», p. 110.91 Cfr. B.M. SCARCIA AMORETTI, «Ricognizioni islamiche 1973 nell’Iran meridiona-

le», in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, N.S. 25 ( 1975), p. 353.92 CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk», pp. 108-110.

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tutte le culture umane tendono a separare i morti dai vivi, delimitandone gli ambiti d’azione e creando così un ordine, un’armonia, la noce, nonostante sia un alimento vitale, è associata alla morte nel pasto di Ḍaḥḥāk, e dunque il suo consumo regolamentato ritualmente.

Un momento abberrante del mito di Ḍaḥḥāk è l’insistere sul vincolo fra la fi gliolanza, cioè la semenza del primus homo Kayumarṯ (< medio-persia-no Gayōmard < avestico Gayō-mƏrƏtan), e l’origine delle genti kurde, cre-ate, plasmate a partire dalla materia cerebrale scampata all’ingordigia dei serpenti svettanti sulle spalle del tiranno. L’insaziabile voracità di Ḍaḥḥāk di fronte a un cibo che gli brucia le viscere, la dieta di cervello, di noci e quant’altro s’è detto, in connessione con una festa incentrata sul fuoco e sulla luce, fanno pensare a un esito ultimo, ormai deformato e cor rotto in senso fi abesco, della peculiare inclinazione «spermatica» che nell’antica cultura indo-iranica lega il fl uido seminale alla luminosità93.

Sono numerosi gli indizi presenti nell’Avestā, connessi all’idea di xvarƏnah- (> xwarrah/farrah in medio-iranico, farn in sogdiano), l’aureola splendente che circonda i dinasti iranici e ne rappresenta la «fortuna». È il sentire reli-gioso legato all’irradiarsi della luce che ne rivela il signifi cato spermatico e germinale: nell’ideologia avestica, lo xvarƏnah- è essenzialmente immaginato come un potere straordinario, è qualcosa di intangibile e di atemporale, uno «splendore», una «forza luminosa» che agisce e opera effi cacemente.

Lo xvarƏnah- risiede in gran quantità nelle acque superiori, che dalla cima del monte Hukairya, da un’altezza di mille uomini (hazaŋrāi barƏšna vīranąm), si gettano nelle acque inferiori del mare Vouru.kaša, al cui centro si erge il GaokƏrƏna (> pahlavi Gōkarn), l’Albero della Vita sorvegliato dal mitico pesce Kara (> pahlavi Kar)94. La gloria, la forza luminosa, lo splen-dore fi ammeggiante, è racchiusa nelle acque in alto e in basso95, nel macro e microcosmo: è la potenza magica che ha come veicolo l’elemento umido. Nell’acqua risiedono infatti la vita, la forza e l’eternità96.

93 GNOLI, «Un particolare aspetto del simbolismo della luce», pp. 98 ss.; G. WIDEN-GREN, Il manicheismo, trad. it. Q. Maffi -E.Luppis, Milano 1964 (ed. or. Stuttgart 1961), pp. 71 ss.; M.ELIADE, «Spirito, luce e seme», in Occultismo, stregoneria e mode culturali. Saggi di religioni comparate, trad. it. E. Franchetti, Firenze 19902 (ed. or. Chicago 1976), pp. 119 ss.

94 GNOLI, «Un particolare aspetto del simbolismo della luce», p. 102.95 Per l’epiteto Ādur-Anāhīd, «Anāhitā del Fuoco», ed i legami della dea (alla quale

è dedicato uno specifi co tempio) con il culto del fuoco, cfr. M. BOYCE, «Iconocla-sm among the Zoroastrians», in J. NEUSNER (ed.), Christianity, Judaism and other Greco-Roman Cults, Pt. IV (Studies in Judaism in Late Antiquity 12/IV), Leiden 1975, pp. 104-105.

96 Cfr. M. ELIADE, Trattato di Storia delle Religioni (Universale Scientifi ca Borin-

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Hermetica draconica 43

Protagonista di un intero scritto avestico, lo Zamyād Yašt97, lo xvarƏnah- per il posto che occupa nella cosmogonia del mazdeismo zoroastriano, è forza vivifi cante e creatrice – come hanno magistralmente dimostrato Mario Bussagli e Gherardo Gnoli98. Il valore specifi camente germinale di questo simbolismo è evidente: l’acqua è il ricettacolo di tutti i germi e come tale diviene la sostanza magica e taumaturgica per eccellenza. Il suo modello è l’Acqua di Vita, il soma celeste, l’hōm ī spēd, l’haoma bianco99 che nei testi pahlavi viene raffi gurato dentro le acque e identifi cato con il Gōkarn, l’Albero della Vita che si innalza al centro del «mare» Varkaš (< avestico Vouru.kaša). L’haoma (> pahlavi hōm)100 è quindi, secondo questi scritti, un ricettacolo dello xvarƏnah-.

Apąm Napāt, il «Nipote delle Acque», l’ahura che vive nelle profon-dità del Vouru.kaša, è padrone di ciò che è defi nito axvarƏtƏm xvarƏnō, lo «splendore senza luce»101, perché racchiuso nell’ascosità delle acque102. È lo xvarƏnah- nella quiescenza germinale, la potenza magica e vivifi cante presente nel grande mare, l’universo liquido che reca la vita all’ecume-ne mazdea quando, nel mito, lo yazata Tištrya-Sirio riesce a sgominare il daēva della siccità Apaoša (> pahlavi Apōš)103. In defi nitiva lo axvarƏtƏm xvarƏnō è la forza luminosa in uno stato di virtualità e di potenzialità em-brionale: è uno splendore non ancora manifestato, come la ermetica. Un’ulteriore conferma in questo senso proviene da una sequen-za del pahlavi Dēnkard, in cui si dice che lo xwarrah è celato nel seme dell’uomo, il gētīg tōhmag, il «seme materiale»104.

ghieri, 141/142), Torino 1976, pp. 193 ss.; in partic. pp. 199 ss.97 Vd. l’edizione di A. HINTZE, Der Zamyād-Yašt. Edition, Übersetzung, Kommentar

(Beiträge zur Iranistik, Band 15), Wiesbaden 1994.98 Cfr. GNOLI, «Un particolare aspetto del simbolismo della luce», pp. 105 ss.; e

ID., «Lichtsymbolik in Alt-Iran. Haoma-Ritus und Erlöser Mythus», in Antaios, 8 (1967), pp. 528 ss.; BUSSAGLI, L’arte del Gandhāra, pp. 111, 262; vd. inoltre l’estesa trattazione in HINTZE, Der Zamyād-Yašt, pp. 17 ss.

99 Cfr. GNOLI, «Un particolare aspetto del simbolismo della luce», p. 102; cfr. anche H.S. NYBERG, A Manual of Pahlavi, Part. II: Glossary, Wiesbaden 1974, p. 101a.

100 Vd. anche M. BOYCE, s.v. «Haoma II. The Rituals», in YARSHATER (ed.), Encyclo-paedia Iranica, XI, New York 2001, pp. 662a-667b.

101 Così nell’interpretazione di GH. GNOLI, «AxvarƏtƏm xvarƏnō», in Annali dell’Isti-tuto Orientale di Napoli, 13 (1963), p. 297; BUSSAGLI, L’arte del Gandhāra, pp. 111.

102 Vd. inoltre HINTZE, Der Zamyād-Yašt, pp. 17 ss.103 Cfr. Yašt 8, 20-26 (= A. PANAINO, Tištrya, Part I: The Avestan Hymn to Sirius [Serie

Orientale Roma LXVIII, 1], IsMEO [ora IsIAO], Roma 1990, pp. 46-52).104 Cfr. GNOLI, «Un particolare aspetto del simbolismo della luce», p. 103; ID.,

«AxvarƏtƏm xvarƏnō», p. 297; ZAEHNER, Zurvān, pp. 369-371.

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44 Ermete e la stirpe dei draghi

Lo xvarƏnah-, lo splendore, l’aura gloriae, il segno carismatico della re-galità sacra, è un elemento luminoso e irradiante che si trova dentro il seme, nascosto nelle acque che racchiudono i germi vitali ed esprimono simboli-camente lo stato di virtualità del divenire. Esso discende dall’alto, recato da queste acque generatrici, le acque del fi ume sacro alla dea ArƏdvī Sūrā Anāhitā (> pahlavi Ardvī sūr Anāhīd)105, sgorgante dalla cima dell’Hukair-ya, o ad esso assegnato dagli yazata del mondo invisibile, il mēnōg106.

Lo xvarƏnah-, il seme di natura psichica, essenza di fuoco e di luce rac-chiusa nelle acque, è dunque parte di un processo ierogamico alla base del-la cosmogonia mazdea. Il sottinteso cosmologico di tutte queste dottrine è che l’elemento più elevato e prezioso del corpo umano sia il fuoco: l’uomo in quanto microcosmo è formato, come l’universo, da quattro elementi, la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco (in ordine di importanza). L’Anima, la , è un soffi o infuocato; di conseguenza anche lo sperma, ricettacolo dello , è una sostanza ignea107. Il seme infatti non equivale sic et sim-pliciter alla Luce, non è esso stesso il principio luminoso, bensì la materia che lo contiene e ne rappresenta il veicolo. Quindi, per la corrispondenza esistente tra macrocosmo e microcosmo, il Sole, la Luna e gli astri sono anch’essi composti da una sostanza affi ne al , al fuoco: di lassù provie-ne l’identità spirituale dell’uomo e lassù ritorna108.

Evento ierogamico che nella fi siologia antica, sia iranica che greca, ve-niva interpretato come l’unione del principio igneo con quello acqueo: del secco con l’umido. Si tratta dell’incontro di contrari (acqua e fuoco), il cui emblema per eccellenza è l’Uovo cosmico, ingrediente ermetico e alche-mico indispensabile, medicina miracolosa, succedaneo dell’haoma; colle-

105 Cfr. G. MANTOVANI, «Eau magique et eau de lumière dans deux textes gnostiques», in J. RIES-J.-M. SEVRIN (eds.), Les objectifs du Colloque de Luvain-la-Neuve «Gnosticisme et monde hellénistique», Institut Orientaliste de Louvain, Louvain-la-Neuve 1980, p. 143; una suggestione, quella di Anāhitā, che non è stata ripresa negli «Atti» defi nitivi del convegno (cfr. G. MANTOVANI, «Acqua magica e acqua di luce in due testi gnostici», in J. RIES [avec la coll. de Y. Janssens et de J.-M. Sevrin], Gnosticisme et monde hellénistique, Actes du Colloque de Louvain-la Neuve [Publications de l’Institut Orientaliste de Louvain 27], Louvain-la-Neuve 1982, pp. 429 ss.); su questa dea, che Erodoto testimonia di origine straniera (cfr. GH. GNOLI, s.v «Anāhitā», in M. ELIADE [ed.], The Encyclopedia of Religion, I, New York-London 1987, p. 249), si veda l’estesa trattazione in YARSHATER (ed.), Encyclopaedia Iranica, I, London 1985, pp. 1003a-1011b (articoli di M. BOYCE, M.L. CHAUMONT e C. BIER).

106 GNOLI, «Un particolare aspetto del simbolismo della luce», p. 105.107 Cfr. WIDENGREN, Il manicheismo, pp. 72-73.108 Che lo celato nel seme abbia una natura e una provenienza celesti è affer-

mato da Aristotele in De gener. anim. II (B), 3, 736b, 34 ss .

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Hermetica draconica 45

gato a una simbolica vegetale assieme ai legumi (le fave in par ticolare) e peculiarmente alle noci, surrogati simbolici del cervello umano, il pasto del divoratore dello xvarƏnah-, il demo niaco Ḍaḥḥāk.

Seguendo il lungimirante Cristoforetti, è quindi possibile scorgere nella ricorrenza del sada la manifestazione liturgica dello xvarƏnah-, una cerimo-nia che in origine celebrava la regalità, sopravvissuta in àmbito popolare con esiti vari. In essa il mistero della nascita della vita assumeva un senso religioso, nel vincolo con la ierogamia celeste; un mitologhema presente nel mondo iranico sin da tempi remotissimi e che ha lasciato abbondante traccia di sé in ambienti religiosi diversi come quello mazdaico, zurvanita e manicheo. Un rituale di rinascita, di rigenerazione nella storia degli uomini e della natura, i cui addentellati si possono ritrovare in svariate culture.

Nel nostro caso tale rituaria iranica potrebbe essere ricondotta nell’alveo di quelli che qualcuno ha defi nito «misteri sistanici»109. È infatti Zaranj, capitale del Sīstān, il luogo prediletto e teatro per eccellenza delle «orge di Ḍaḥḥāk»110 .

Lo xvarƏnah- è il seme di luce serpeggiante nelle acque al fi ne di man-tenere e restituire periodicamente loro il vigore, è la scintilla che alimenta i fuochi del sada111. È il tortuoso Ḍaḥḥāk famelico e zigzagante, il Drago Surūwar (< avestico Aži Srvara)112 «cornuto»113 come l’Acheloo della tra-dizione ellenistica e come l’impetuoso fi ume oltretombale Ōkeanos114: la primigenia intesa quale serpente, immagine del fl uire sinuoso del li-quido spermatico115. Seme puntiforme, alba prima, bagliore, che la succes-siva incubazione porterà a compimento nello zenit meridiano e sistanico116 dell’equinozio di primavera.

109 L’espressione è mutuata da M.MOLÉ, Culte, mythe et cosmologie dans l’Iran ancien. Le problème zoroastrien et la tradition mazdéenne (Annales du Musée Guimet – Bibliothèque d’Études, LXIX), Paris 1963, p. 147 ; vd. anche GNOLI, «Un particolare aspetto del simbolismo della luce», p. 120 n.111.

110 SCARCIA, «Sulla religione di Zābul», pp. 134-135; 141-142111 CRISTOFORETTI, «La “dieta” di Ḍaḥḥāk», p.118.112 AirWb, col. 1650.113 Dādestān ī dēnīg 71; SKJÆRVØ, s.v. «Aždahā», p. 193 a.114 CRISTOFORETTI , Il Natale della Luce, p. 299.115 ONIANS, Le origini del pensiero europeo, p. 146; e cfr. pp. 142-149.116 È corrente negli studi iranici ritenere il mito sistanico il più antico mito dello

zoroastrismo, cfr. in partic. GNOLI, Ricerche storiche sul Sīstān antico, pp. 7 ss.

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5. Un ulteriore indizio iranico

La vicenda ermetica di Dracula oscilla tra l’immortalità e la dannazione, fra infi nità e tempo: la coagulazione dell’istante determinata dalla non-morte è all’origine di un dilemma che è anche è soprattutto serpentino e uroborico, fi gurazione del ciclo eterno, incessantemente risorgente dai mondi inferi in esso racchiusi.

Per questo dobbiamo rifarci al punto di innesto fra religiosità iranica e tardo ellenismo, cioè il mithraismo latino.

Mithra era un antichissimo dio, le cui origini si ritrovano nel più vetusto pantheon indo-iranico. Nella diaspora persiana seguita alla caduta dell’im-pero achemenide a causa della vittoriosa invasione di Alessandro Magno, il culto dell’iranico Mithra, trapiantato in Asia Minore, assunse i lineamenti di una religione misterica, una religione di salvezza, che prometteva un destino migliore nell’altra vita, dando all’uomo la speranza di poter ascen-dere, dopo la morte, attraverso le sfere celesti.

Questa religione, tra il I ed il III sec. d.C., si diffuse capillarmente nell’im-pero romano. Quale propaggine occidentale di un arcaico culto iranico, il mithraismo subì però una trasformazione formale, smarrendo l’originaria fi sionomia iranica per assumere i modi e gli stili tipici dell’ellenismo.

Colpisce, nell’iconografi a religiosa del mithraismo, la fi gurazione di un essere divino sicuramente estraneo al pantheon classico: un essere mostruo-so, alato, con testa di leone e il corpo avvolto nelle spire di un grande ser-pente117. Per decodifi care questa immagine, dobbiamo innanzi tutto rifarci alla classica interpretazione di Franz Cumont, il pioniere degli studi sul mithraismo118. Secondo l’insigne studioso belga, il leontocefalo era un’effi -gie del «Tempo», di o , inteso quale , ammantamento greco dell’iranico Zurwān akanārag (< avestico Zrvān akarāna), il «Tempo infi nito», una fi gura divina sulla quale molto s’è discusso119.

117 Per quanto segue vd. anche R. PETTAZZONI, «La fi gura mostruosa del tempo nella religione mitriaca», in L’Antiquité Classique, 18 (1949), pp. 265-277; riproposto nella trad. ingl. di H.J. Rose: «The Monstrous Figure of Time in Mithraism», in ID., Essays on the History of Religions (Studies in the History of Religions [Supp. to Numen] 1), Leiden 1954, pp. 180-192.

118 The Mysteries of Mithra, engl. trans. by T.J. McCormack, New York 1956 (ed. or. Bruxelles 1903), pp. 105-110; una buona sintesi delle indagini di Cumont è R.L. GORDON, «Franz Cumont and the Doctrines of Mithraism», in J. R. HINNELLS (ed.), Mithraic Studies. Proceedings of the First International Congress of Mithraic Studies, Manchester 1975, pp. 215-248.

119 Non è possibile addentrarsi nelle molteplici implicazioni storiche di questa comples-sa problematica, si può solo rinviare alla cospicua letteratura su questi argomenti. In

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Nella fi gurazione di confl uisce l’idea del Tempo che dissolve e consuma120: le ali accennavano alla rapidità del suo fl uire121; le circonvo-luzioni del serpente, la cui testa poggiava di solito sopra il capo leonino alludevano alla vicenda ciclica alla quale erano sottoposti i moti stellari, vigili implacabili nello scorrere del divenire122.

Egemone delle sfere celesti e delle immutabili leggi che governano i de-stini dei mondi, il leontocefalo è quindi il e della presente realtà. Egli stringe al petto una o due chiavi: un riferimento al Sole, che nel suo corso quotidiano apre e chiude alternativamente le due porte del cielo, a Oriente quando si leva, a Ponente quando tramonta. Altro attributo frequente è lo scettro, simbolo del dominio sul tempo, perenne-mente esercitato su ogni cosa. Le spire serpentine avvolgono il leontocefa-

termini generici si può dire che la religiosità legata a Zurwān – quali che ne siano la genesi e l’interpretazione – era portatrice di una concezione del tempo ciclico, del «Grande Anno» di 12.000 anni, suddiviso in quattro periodi di 3.000 anni ciascuno. Essa riguarda sia lo sviluppo storico del mazdeismo zoroastriano, sia l’irradiazione di alcune sue idee fondamentali al di fuori del mondo religioso iranico. Il dualismo zoroastriano, quale si presenta nei testi avestici delle Gāθā, era invece portatore di una concezione del tempo lineare in cui si compendiavano la sua soteriologia e la sua escatologia; a questo proposito è ancora fondamentale il poderoso lavoro di ZAEHNER, Zurvān; vd. inoltre H.S. NYBERG, «Questions de cosmogonie et cosmolo-gie mazdéennes», in Journal Asiatique, 214 (1929), pp. 192-310; ivi, 219 (1931), pp. 1-134 e 193-244; G. WIDENGREN, «Zervanitische Texte aus dem “Avesta” in der Pahlavi-Überlieferung. Eine Untersuchung zu Zātspram und Bundahišn», in G. WIESSNER (Hrsg.), Festschrift für Wilhem Eilers, Wiesbaden 1967, pp. 278-287; ID., «Philological Remarks on some Pahlavi Texts chiefl y concerned with Zervanite Re-ligion», in AA.VV., Sir J.J. Zarthosti Madressa Centenary Volume, Bombay 1967, pp. 84-103; GH. GNOLI, «L’évolution du dualisme iranien et le problème zurvanite», in Revue de l’Histoire des Religions, 201 (1984), pp. 115-138; e M. BOYCE, «Some Refl ections on Zurvanism», in Bulletin of the School of Oriental and African Studies, 19 (1957), pp. 404-416; ID., «Some Further Refl ections on Zurvanism», in AA.VV., Papers in Honor of Prof. Ehsan Yarshater (Acta Iranica 30), Leiden-Téhéran-Liège 1990, pp. 20-29; una revisione delle diverse ipotesi sulle origini dello zurvanismo è in S. SHAKED, «The Myth of Zurvan: Cosmogony and Eschatology», in I. GRUEN-WALD-S. SHAKED-G.G. STROUMSA (eds.), Messiah and Christos. Studies in the Jewish Origins of Christianity Presented to David Flusser (Texte und Studien zum Antike Judentum 32), Tübingen 1992, pp. 219-240.

120 Molto materiale iconografi co è raccolto da D.LEVI, «Aion», in Hesperia, 13 (1944), pp. 269-314.

121 Cfr. J. DUCHESNE-GUILLEMIN, «Aiōn et le léontocéphale, Mithras et Ahriman», in La Nouvelle Clio, 10 (1958-1960), p. 95.

122 Ci si è interrogati sui legami con l’astrolatria mesopotamica, cfr. A.D.H. BIVAR, «Mithra and Mesopotamia», in HINNELLS (ed.), Mithraic Studies, II, pp. 275-289 (pls. 7-9).

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lo come un , un’immagine ancora più eloquente se osserviamo i segni zodiacali sovente affi oranti fra una spira e l’altra. Suggello astrale che ritroviamo nella sfera cosmica sulla quale si erge il leontocefalo: due fasce avvolgono il globo, l’eclittica e l’equatore celeste, da alcuni confuso con la Via Lattea123.

La fi gura del leontocefalo può, di primo acchito e seguendo il suggeri-mento del «pagano» Celso citato da Origene124, essere interpretata come una specie di guardiano delle soglie zodiacali e planetarie attraverso cui l’anima entra ed esce dal mondo (= corpo). Si deve però ammettere che la singolare immagine non ha riscontro nel pantheon greco-romano e potreb-be essere la rielaborazione plastica di un corpus dottrinale proveniente da un nucleo originario iranico del mithraismo125.

Cumont ha anche ricostruito i legami fra un peculiare leontocefalo conservato nel famoso rilievo mithraico di Modena126 e l’orfi smo127, per il tramite di una cosmogonia orfi ca ascritta a Ieronimo ed Ellanico (fr. 54 KERN) secondo la quale dall’unione dell’acqua con la terra sarebbe scaturi-to un drago alato, leontocefalo e taurocefalo, dal doppio nome di Chronos agēraos («Tempo senza vecchiaia») ed Herakles128.

Nella fl uidità nebbiosa del chaos, Chronos agēraos concepisce un Uovo immenso, da cui fuoriesce un «dio incorporeo» – un essere ibrido con ali d’oro, teste taurine sui fi anchi e un serpente svettante sul capo129 – il cui nome è Prōtogonos, il «Primogenito». Un personaggio che, in un’ulteriore

123 Tra questi vi è H. JACKSON, «The Meaning and Function of the Leontocephaline in Ro-man Mithraism» , in Numen, 32 (1985), p. 20, autore di un pur pregevolissimo lavoro.

124 C. Cels. 6, 22.125 Una sintesi e una tassinomia sulla presenza del leontocefalo nei misteri di Mithra (da

un punto di vista iranistico) è nel lavoro di J.R. HINNELLS, «Refl ections on the Lion-Headed Figure in Mithraism», in AA.VV., Monumentum H. S. Nyberg I (Acta Iranica 4, Ser. II: Hommages et opera minora), Leiden-Téhéran-Liège 1975, pp. 333-369.

126 CIMRM, 695, fi g. 197.127 Cfr. F.CUMONT, «Mithra et l’orphisme», in Revue de l’Histoire des Religions, 109-110

(1934), pp. 63-72; un’altra congettura è che Felice, il personaggio al quale è dedicato il rilievo di Modena, in origine fosse un myste orfi co; «convertitosi» al mithraismo e raggiunto il grado di pater ridedicò il monumento a Mithra, cfr. S. WIKANDER, Études sur les mystères de Mithras, I. Introduction, Lund 1951, pp. 33-36.

128 Sulla fi gura del Chronos orfi co, cfr. K. ZIEGLER, s.v. «Orphische Dichtung», in PWRE, XVIII/1, Stuttgart 1942, coll. 1324-1326; W.H. ROSCHER, s.v. «Chronos», in W.H. ROSCHER (hrsg.), Ausführliches Lexikon der griechischen und römischen Mythologie, I/1, Leipzig 1884-1886, coll. 899-900.

129 La polimorfi a del serpente orfi co è stata notata da R. FERWERDA, «Le serpent, le nœud d’Hercule et le caducée d’Hermès. Sur un passage orphique chez Athéna-gore», in Numen, 20 (1973), pp. 104-115.

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teogonia orfi ca defi nita «comune» o «rapsodica» (fr. 85 KERN), è chiamato Phanes130; il dio ermafrodita, come lo sono gli uomini che abitano il mondo da lui creato, l’età aurea. Materiali orfi ci che confermano un caos che dopo essere cosmogonico è anche ermeneutico131.

Tra ai numerosi problemi esegetici e iconologici sollevati da queste testimonianze, uno riguarda le iscrizioni dedicatorie sovente associate al leontocefalo «aionico». In alcune di esse132 si invoca un deus Arimanios, cioè Ahriman133, personifi cazione della «tenebra» (tārīgīh) nella cosmogo-nia zoroastriana, avversario del dio Ohrmazd nel dispiegarsi della grande epopea dualistica iranica.

Plutarco, parlando della religione persiana, narra con dovizia di parti-colari come in essa si celebri un sacrifi cio ad Ahriman = e alle Tenebre134. Si cerca di placare con il culto e i sacrifi ci il diabolico Signore di questo mondo, poiché i presunti «devoti» hanno sperimentato in prima persona la terribile, abominevole forza del male. Ciò proverebbe che i se-guaci del dio Mithra, tatuati con il signum Arimanium135, erano in realtà miscredenti persiani che veneravano sopra ogni cosa il Principe della Te-nebra136.

Anche se la circostanza sembra contraddire e opporsi all’interpretazio-ne di Franz Cumont, nei testi del mazdeismo zoroastriano il legame fra il Tempo e la Tenebra è spiegato con il singolare, curioso rito che il Tempo, cioè Zurwān, compie, innalzando Ahriman al rango di

Zurwān determina le sorti dell’universo stipulando un patto con Ahri-man137 e fornendogli un supporto con cui estendere il potere demiurgico, uno «strumento» (abzār) oscuro forgiato nell’«essenza della tenebra»

130 Cfr. anche Atenagora nel fr. 57 KERN.131 Sulla molteplicità delle cosmogonie orfi che è utile M.L. WEST, I poemi orfi ci,

trad. it. cur. M. Tortorelli Ghidini ( 8), Napoli 1993, p. 57 ss., in partic. p. 62-63.

132 CIMRM, 369; 833; 834; 1773, fi g. 461; 1775.133 Nella maggioranza dei casi il nome è restituito al nominativo (così ad es. Ver-

maseren per CIMRM, 834), ma alcuni scelgono il dativo, cfr. R. MERKELBACH, «Die Kosmogonie der Mithrasmysterien», in Eranos-Jahrbuch, 34 (1965), p. 242 (Arimani[o]).

134 Cfr. De Is. et Osir. 46; E. BENVENISTE, «Un rite zervanite chez Plutarque», in Jour-nal Asiatique, 217 (1929), p. 290; ZAEHNER, Zurvān, p. 13; e le precisazioni di ID., «Postscript to Zurvān», in in Bulletin of the School of Oriental and African Studies, 17 (1955), pp. 237-243.

135 CIMRM, 222 (iscrizione dal mithraeum di Ostia).136 La problematica è riassunta da J. DUCHESNE-GUILLEMIN, «Ahriman et le dieu su-

prême dans les Mystères de Mithra», in Numen, 2 (1955), pp. 190-195. 137 Zādspram 1, 29-30 (ZAEHNER, Zurvān, pp. 340 [testo]; 342-343 [trad.]).

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(gōhr ī tārīgīh). Questo episodio è l’antecedente iranico più eloquente per comprendere il signifi cato e la funzione del leontocefalo nei Misteri di Mi-thra138.

Nell’epica iranica è tradizionale che «Daḥḥāk il serpente» consumi un cibo «rosso» e dimori su monti rossi139. Tuttavia uno dei monti su cui è prigioniero, il Kūh-e Ṭelesm, il «Monte della Teurgia», è di colore cinereo tendente al nero, il colore dello strumento ahrimanico, una peculiarità che affi ora in alcune testimonianze sul cinese A-lu-nao140, il picco iranico rece-pito nell’idioma sinico. Del resto l’antitesi tra Montagna Nera e Montagna Bianca141 ha radici ben più puntuali e precise nella tradizione iranico-meso-potamica142. Già nell’Avestā e nel Bundahin si affacciano contrapposizioni cromatiche tra montagne bianche e montagne nere143.

Sempre Cumont ritrova le spire uroboriche del leontocefalo in un testo tardo144, il Mitografo vaticano terzo, nel quale il dio Saturnus (= ) reca nella mano destra draconem… fl ammivomum qui caudare ultima de-vorat145, cioè un infuocato, fi gurazione dell’anno. Saturnus, fi -glio di Coelus, è il Tempo, nelle sembianze di un vecchio con una falce nella mano destra e l’Ouroboros nella sinistra, perché nello scorrere del tempo l’ultimo mese di ogni anno raggiunge il primo dell’anno successi-vo, proprio come si congiungono la testa e la coda del Serpente ciclico146. È il senso dell’Ouroboros quale perpetuità della forza che agisce in lui, non solo in quanto, ricurvo in cerchio, può volgersi in tondo come una

138 L’ipotesi di Cumont è seguita da G. WIDENGREN, Die Religionen Irans (Die Reli-gionen der Menschheit 14), Stuttgart 1965, pp. 230-232.

139 Cfr. G. VERCELLIN, «Leucippidi e Dioscuri in Iran. II: Zur e Arzur», in Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Ca’ Foscari, 9 (1970), (Serie Orientale, 1), p. 56.

140 Cfr. G. TUCCI, «An Image of a Devi Discovered in Swat and some Connected Problems», in East and West, N.S. 14 (1963), p. 166.

141 È un particolare da inserire nella più ampia mitologia sistanica, vd. M. BUSSAGLI, «Cusanica et serica I: La fi sionomia religiosa del dio Žun (o Shun) di Zābul», in Rivista degli Studi Orientali, 38 (1962), pp. 79-91.

142 Per questo mi permetto di rinviare a E.ALBRILE, «Il “Bianco Monte” dei Magi. La montagna paradisiaca nel sincretismo iranico-mesopotamico», in Annali dell’Isti-tuto Orientale di Napoli, 57 (1997), pp. 145-161.

143 Vd. anche i miti osseti riportati in VERCELLIN, «Leucippidi e Dioscuri», p. 56.144 Cfr. inoltre JACKSON, «The Meaning and Function of the Leontocephaline», pp.

23-24.145 TMMM 2, pp. 53-54.146 Vd. W. DEONNA, «La descendance de Saturne à l’Ouroboros de Martianus Ca-

pella», in Symbolae Osloenses, 31 (1955), pp. 170-189.

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ruota147, ma soprattutto perché si sposta con rapidità, grazie ad una com-binazione di movimenti dei fi anchi e delle placche ventrali, che si traduce in una sequenza di ondulazioni laterali e propulsive. Una forza interiore, automotrice, che spinse gli Egizi148 a ritenere l’Ouroboros un’immagine del moto circolare degli astri attorno al polo celeste e, di conseguenza, del fl uire ciclico del tempo, inteso quale successione ininterrotta di istanti. Ed è sicuramente in questa forma circolare che, secondo Plutarco, gli Egizi paragonavano il Serpente agli astri149.

Saturno è il vecchio così come lo dipingono Nonno di Panopoli150 e Claudiano151: ogni anno il suo corpo invecchia nell’inverno, e ridiventa giovane in primavera152; plasticamente egli è un essere zoomorfo in conti-nuo cangiamento con il mutare delle stagioni, il suo capo passa dalle fat-tezze di serpente (freddo), a quelle di leone (caldo), mentre nel rigore, nella furia degli elementi assume le sembianze di un cinghiale.

Il passo del Mitografo vaticano terzo ci aiuta a comprendere alcuni aspetti somatici del leontocefalo, talora effi giato con i tratti di un vecchio talora con quelli di un fanciullo. Agli albori del V sec. d.C. Marziano Ca-pella, nella sua opera enciclopedica, dipinge «il freddissimo creatore degli dèi» Saturno, cioè il ciclo annuale, come un orrido essere mutante, ora drago, ora leone, ora cinghiale153, stigma del mutare delle stagioni: l’ invecchia, rincorrendo i mesi sino a ridiventare fanciullo.

147 Serv. ad Aen. 5, 85; Horap. Hierogl. 1, 1-2.148 Cfr. Claud. De consul. Stilich. 2, 424-430 (PLATNAUER, II, [Cambridge (Mass.)-

London 1956], pp. 32-33).149 Cfr. STRICKER, De Grote Zeeslang, pp. 7-10.150 Dionys. 7, 24-25 ; 41-44 ; 41, 179-182; vd. anche F. CUMONT, «Réponse à un article

de H. J. Rose», in Revue de l’Histoire des Religions, 105 (1932), pp. 102-103.151 De consul. Stilich. 2, 433-440 (PLATNAUER , II, pp. 34-35).152 In questa dimensione simbolica non stupisce che il geronticidio, cioè l’elimina-

zione dei vecchi ultrasettantenni (quindi non produttivi e ritenuti un peso inutile), presente in una sensibile area della cultura antica (in particolare nell’antica Sarde-gna, dov’è persistita sino a tempi abbastanza recenti), venisse interpretato come oblazione rituale a Saturno, immagine sacrifi cale del rinnovamento ciclico del Tempo, di Aiōn; cfr. O.PINNA, Riti funebri in Sardegna, Sassari 1921, pp. 12 ss.

153 De nupt. 2, 197 (RAMELLI [Milano 2001], pp. 102-103) ; vd. anche Macrobio, Sat. 1, 18, 10.

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6. Intermezzo astrologico

L’identità del leontocefalo quale ha una sua logica in quella demonizzazione dello spazio celeste che affi ora in un determinato segmento della cultura greca154: l’immedesimazione fra Ahriman e Hadēs ci porta su questa via, cioè al transito dell’anima dell’adepto dagli inferni siderali ai mondi iperuranici155. Il neopitagorico Numenio di Apamea, de-fi nendo la Via Lattea come «luogo delle anime» corrispondente all’Ade156, si rifà ad una tradizione colorata in tinte misteriche le cui linee di sviluppo sono discordanti. Secondo alcuni, essa risalirebbe ad Eraclide Pontico, che riferendo le dottrine di un eracliteo di nome Empedotimo157 descrive la Via Lattea come la via delle anime che attraversano l’Ade nei cieli158.

Proclo narra anche una storia attribuita a Clearco di Soli, discepolo di Ari-stotele, sulla morte apparente di un certo Cleonimo d’Atene159. La sua anima, ormai libera dal corpo, si slancia negli spazi siderali contemplando la terra dall’alto. Lì lo raggiunge un siracusano, anch’egli estatico; entrambi, poi, osservano il giudizio delle anime punite e purifi cate nello spazio atmosferico sotto il controllo delle Erinni160. L’equazione Via Lattea = Ade, prende forma in queste cosmologie: al che è appartengono le chiavi di questo Ade sidereo, le cui porte si aprono sui due punti estremi () del ciclo cosmico, il tropico del Cancro e quello del Capricorno161.

Le due costellazioni zodiacali sono poste rispettivamente all’estremità Nord e all’estre mità Sud dell’eclittica, il percorso apparente del Sole in un anno, situato obliquamente rispetto al piano dell’equatore e lungo il quale

154 Da seguire le precisazioni di F. CUMONT, «Le mysticisme astral dans l’antiquité», in Bullettin de la Classe des Lettres et de Sc. Morale et Pol. de l’Academie Royale de Belgique, 11 (1909), pp. 256-286.

155 Su questo si è diffuso JACKSON, «The Meaning and Function of the Leontocepha-line», pp. 25-27.

156 Fr. 35 (DES PLACES, p. 86, 27-28); vd. anche Porph. De antr. nymph. XXII (SIMO-NINI [Milano 1986], p. 66, 3-14); il testo è discusso e trasposto grafi camente in F. BUFFIÈRE, Les mythes d’Homère et la pensée grecque, Paris 1956, pp. 419 ss.

157 Cfr. I.P. CULIANU, «“Démonisation du cosmos” et dualisme gnostique», in Revue de l’Histoire des Religions, 196 (1979) = Iter in silvis, p. 51; poi ripreso in ID., Esperienze dell’Estasi dall’Ellenismo al Medioevo (Biblioteca di Cultura Moder-na 926), Roma-Bari 1986, p. 46.

158 Philop. Ad Arist. Meteor. I, 8.159 Cfr. In remp. II (KROLL, pp. 113, 1 ss.).160 Cfr. J.D.P. BOLTON, Aristeas of Proconnesus, Oxford 1962, pp. 148 ss.; il passo è

magistralmente discusso da G. PUGLIESE CARRATELLI, «Chi guardi la terra dall’al-to…». Tre saggi («Prosa» n. 43), Milano 1992, pp. 14 ss.

161 Cfr. Numenio, fr. 31 (DES PLACES [Paris 1973]).

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sono disposti i segni zodiacali. Il tropico del Can cro, settentrionale, corri-sponde al solstizio d’estate, il tropico del Capricorno al solstizio d’inverno.

Il destino della salvezza individuale sarebbe racchiuso fra queste due costellazioni, inizio e fi ne della presente modalità di esistenza. In questo segmento sidereo il ciclo zodiacale diviene una metafora dei cicli cosmici e del pro cesso trasmigrativo. I due solsti zi, punti estremi del percorso solare, corrispondono ai due apici della vicenda trasmigrativa: il segno del Cancro è l’entrata, il Capricorno è l’uscita dall’esistenza umana e l’accesso agli stati superiori dell’essere, quelli degli dèi.

Osservando attentamente il segno zodiacale del Cancro162, si può rile-vare come esso esprima in sen so cosmogonico l’ambiente embrionale nel qua le sono deposti i germi del mondo manifesto, l’universo liquido da cui procede la creazione; il segno successivo, quello del Leone, è quindi il luo-go della manifestazione, il principio della . Chi lo governa è quindi a pieno diritto il «Signore di questo mondo» e le anime che nascono in esso, muoiono misticamente al mondo iperuranio da cui provengono. Ogni astro è infatti padrone del segno in cui si trovava nell’ora in cui nasceva il mondo163 (genitura mundi).

Mentre il nostro mondo perde signifi cato, l’attenzione si focalizza sul mondo del vero divenire, lo Zodiaco, il luogo in cui i fenomeni appartengono a un altro, supremo ordine di realtà, poiché i pia neti agiscono sulla volontà dell’uomo. Nella cosmologia arcaica la vera terra non era il nostro geoide, ma la sfera zodiacale con le orbite dei pianeti che la percorrono, poiché essa è compresa tra i quattro punti fondamen tali dei solstizi e degli equinozi. L’evi-denza di questa concezione è attestata dal mito del Fedone, fonte ispirativa nella descrizione porfi riana dell’antro omerico164, un testo fondamentale per comprendere una simile visione cosmologica. Lo Zodiaco è la cornice co-smica dell’an tro mithraico descritto da Porfi rio, di cui cinge la volta. Esso compare su monumenti dedicati a Pan, a Zeus, al Sole o ai defunti, ad effi gia-re l’immortalità astrale, lo Zodiaco è la via percorsa dalle Anime.

Le due porte celesti sono situate nei segni del Cancro e del Capri-corno, perché il primo rappresenta il tema natale del mondo, l’altro il

162 Cfr. A. BOUCHÉ-LECLERCQ, L’astrologie grecque, Paris 1899, pp. 152-156.163 Macrob. In somn. Scip. I, 21, 24-27; cfr. Firm. Mat. Math. 3, 1, 1.164 Hom. Od. 13, 102-112, che Porfi rio recepisce allegoricamente nel suo De antro

(vd. in partic. il prezioso commento nell’ed. SIMONINI, pp. 94 ss.); vd. inoltre G. DE SANTILLANA-H. VON DECHEND, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo (Il Ramo d’oro n. 9), trad. it. a cura di A. Passi, Milano 1983, pp. 223 ss.

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suo tramonto165: l’orientamento della caverna cosmica è la sintesi delle modalità di orienta mento polare e solare. Quando prevale il simbolismo solare – come nel De an tro nympharum –, l’asse Nord-Sud della caver-na iniziatica mantiene una corrisponden za con quello polare, in quanto il Nord e il Sud spaziali vengono rappresentati dal solstizio estivo e da quello invernale – rispettivamente il punto più a Nord e più a Sud del percorso solare –, mentre gli equinozi indicano l’Est e l’Ovest166. Questo asse solstiziale, verticale rispetto al piano degli equinozi, in cui i poli del tempo si sostituiscono ai poli dello spazio (cioè il computo cronologico si sostituisce alla percezione della distanza), è la proiezione, nel circuito solare, dell’asse polare Nord-Sud.

In corrispondenza dei due solstizi si aprono le due porte, una destinata agli uomini, attraverso la quale si entra nel mondo della generazione e della manifesta zione individuale, l’altra destinata agli esseri divini, che dà inve-ce accesso agli stati sovraindividuali. La porta è emblema del passaggio tra due stati, due realtà, tra Luce e Tenebre, tra noto e ignoto: è l’accesso lunare al mistero167.

Nel cosmogramma che se ne ricava, i segni «notturni» (dal Capricorno al Cancro) occupano la parte bassa dell’emisfero (inferiora signa) identi-fi cata con l’Ade = mondo oltretombale o «Regno di Persefone»168, dove il Sole nel suo moto rotatorio annuale attorno alla terra sembra preda di una morte apparente. Il fondo dell’inferno (cioè il nadir del thema mundi) è situato nella costellazione della Bilancia, un segno in cui taluni scorgono le chele dell’animale zodiacale vicino, lo Scorpione169; percorso siderale trac-ciato anche in un signifi cativo testo gnostico, l’Apokryphon Johannis170.

Secondo la cosmologia gnostica, il thema mundi è l’esito di una generazione irregolare da cui sorge il Demiurgo, il personaggio egemone del mondo inferio-re, del , il «vuoto»; un essere abnorme, sorta di mostruoso transessuale dalle fattezze di drago e dal volto leonino, ignaro dell’esistenza di un sopra di lui e superbo nella sua fi ttizia unicità. Nell’Apokryphon Johannis il

165 Cfr. Vett. Val. Anth. 1 (KROLL [Berlin 1908], pp. 8, 32; 11, 13; 5, 26; 10, 20).166 Per la recezione mithraica di questo motivo, cfr. R. BECK, «The Seat of Mithras

at the Equinoxes: Porphyry, De Antro Nympharum 24», in Journal of Mithraic Studies, 1 (1976), pp. 95-98.

167 Cfr. F. CUMONT, Recherches sur le symbolisme funéraire des romans, Paris 1942, pp. 177-178.

168 Cfr. Macr. Sat. 1, 21, 1.169 Cfr. Hipp. Ref. IV, 50.170 Cfr. Z. PLEŠE, Poetics of the Gnostic Universe. Narrative and Cosmology in the

Apocryphon of John (Nag Hammadi and Manichaean Studies, 52), Leiden-Boston 2006, pp. 184-185.

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suo nome è Ialdabaōth171, con due varianti, Altabaōth172 e Aldabaōth173; la più antica delle due è forse la prima, in quanto rimanda all’ebraico twbat la «dio del desiderio». Non a caso il Demiurgo è anche il seduttore di Eva174.

In termini cosmografi ci, o astronomici che dir si voglia, Ialdabaōth ripar-tisce il cerchio dell’eclittica in 12 spazi siderei e assegna a ognuno di essi un segno zodiacale. I singoli segni o costellazioni sono ulteriormente suddivisi – secondo la redazione breve dell’Apokryphon Johannis 175 – in sette parti diseguali, ognuna affi data a un angelo. Il totale di 84 egregori angelici effi -gia, rappresenta ciò che in astrologia va sotto il nome di paranatellona, cioè l’insieme delle stelle che sorgono simultaneamente ai segni zodiacali176.

Ialdabaōth prosegue l’opera demiurgica affi ancando altre tre potenze a ogni angelo177. In apparente spregio del nichilismo gnostico, il redattore dell’Apokryphon Johannis sfoggia una conoscenza della materia astrologi-ca approfondita, in perfetta sintonia con una tradizione divinatoria ben con-solidata178. Basta prendere una summa astrologica del tempo come l’opera di Firmico Materno, per capire che le ulteriori tre potenze aggiunte dal Demiurgo gnostico sono i Decani, associati ai sette pianeti179.

7. Memorie ematiche

Nella favola di Amore e Psiche trascritta da Apuleio180, la giovane Psiche dev’essere immolata su un monte a una creatura, un dio che ha fattezze di serpente e che in seguito si rivela essere Eros181, circostanza riconducibile sia all’ambiguità della fi gura serpentina, sia al valore sacrifi cale, ematico,

171 Apocr. Joh. II, 24, 12 e passim.172 Apocr. Joh. II, 19, 30.173 Apocr. Joh. II, 23, 35.174 Apocr. Joh. II, 24, 15-16; maggiori dettagli nel capitolo successivo.175 BG 39, 4-8; III, 16, 7-11.176 Una prima informazione è W. GUNDEL, s.v. «Paranatellonta», in PWRE, XVIII/2,

Stuttgart 1949, coll. 1214-1275.177 PLEŠE, Poetics of the Gnostic Universe, pp. 181-182.178 Sulla presenza dello stesso nei materiali magici, cfr. CAMPBELL BONNER, Studies

in Magical Amulets chiefl y Graeco-Egyptian, University of Michigan Press, Ann Arbor 1950, pp. 135-138; 284, pl. 9 (§ 188); ID., «An Amulet of the Ophite Gnos-tics», in AA.VV., Commemorative Studies in Honour of Theodore Leslie Shear (Hesperia Supp. 8), Athens 1949, pp. 43-46 (pl. 8,1).

179 Firm. Mat. Math. 2, 4.180 Met. IV, 28-VI, 24.181 Met. VI, 21.

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dell’erotismo. Un tratto persistente nel mito del vampiro, misto di sangui-nacci e coiti sublimati in un morso letale.

Molti si sono adoperati nel ricercare le origini del mito del vampiro. Per-sonalmente, e in conclusione, penso basti volgersi alla mitologia classica e alla peculiare concezione della , quale «ombra» che sopravvive al corpo e conduce una vita invisibile, in bilico fra gli inferi e la realtà di tutti i giorni: un fl usso parallelo di esistenza presente anche nei poemi omerici.

Nell’Iliade Achille parla con la del defunto Patroclo, in tutto e per tutto simile all’amico vivo182. Se l’uomo ha perso la vita in un modo parti-colare, la riproduce esattamente lo stato nel quale il corpo si trovava al momento del trapasso. Così Odisseo può vedere nell’oltretomba fi gure somaticamente ben defi nite, del tutto simili alla loro condizione terrena183. La somiglianza è così sorprendente che si può constatare la natura larvare, impalpabile della solo attraverso il vano tentativo di afferrarla184.

Ma l’esempio più caratteristico è la grande Nekyia omerica, in cui, prima dell’evocazione, le anime fuoriuscite dall’Ade bevono il sangue del sacrifi -cio; in seguito Achille esclama, rivolto a Odisseo: «Come hai osato scendere nell’Ade, dove albergano fantasmi privi di mente (), parvenze di uomini morti?»185. Sono gli albori del mito sui non-morti, avidi di linfa ema-tica, poi elaborato in tratti specifi ci e locali nella fi gura del vampiro: un mito ben circostanziato, inserito in un preciso quadro spaziale e temporale.

Questa sopravvivenza fantasmatica può realizzarsi in virtù di una facol-tà o strumento visionario presente nell’uomo, il l’«anima diafram-matica», come potrebbe tradurre il Detienne186: in Eumenidi 104, l’ombra di Clitennestra esorta le Erinni addormentate e dice loro: «Il di chi dorme è tutto uno splendore di occhi che vedono». Sulla localizzazione anatomica del nel diaframma c’è un sostanziale accordo, fondato so-prattutto sul fatto che nel Corpus Hippocraticum il termine è costantemen-te relato a quest’organo187. Assai signifi cativa è, tra l’altro, l’affermazione dell’autore del trattato pseudo-ippocratico Sul morbo sacro, secondo cui

182 Il. 23, 65-67.183 Od. 11, 36-41.184 Cfr. Il. 23, 72; Od. 10, 495; 11, 207. 222; 24, 14.185 Od. 11, 475-476.186 Cfr. M. DETIENNE, La Notion de Daïmôn dans le Pythagorisme Ancien (Bibliothè-

que de la Faculté de Philosophie et Lettres de l’Université de Liège, Fasc. CLXV), Paris 1963, pp. 79 ss.

187 Cfr. J. BOEHME, Die Seele und das Ich im homerischen Epos, Berlin-Leipzig 1929, p. 3 n.5; tale localizzazione è stata contestata da ONIANS, Le origini del pensiero europeo, pp. 69-70, che pensa ai polmoni più che al diaframma.

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quando l’uomo è improvvisamente sopraffatto da una grande gioia o da un grande dolore il diaframma, poiché molto sottile, ha un sussulto, un moto vibratorio188.

Il mito del vampiro ha quindi raccolto una tradizione composita, fatta di apporti «ermetici», fermo restando che con questo termine si intenda riferirisi a un universo simbolico ormai spurio, iconologico189. Il serpente o il drago alchemici mutano la loro forza fi gurativa trasformandosi in un emblema, che dal segno originario trae la propria potenza bellica, promes-sa di una sicura ecatombe. Per concludere, la possibile origine del mito vampirico si collocherebbe quindi in un momento più arcaico, all’interno di mondo rituale e fi siologico che rappresenta una parte della «vita» oltre-tombale come un proseguimento impalpabile della vita terrena.

188 De. morb. sacr. 20, 6 (JONES).189 È il caso, ad esempio, degli emblemata tardo-rinascimentali presenti in testi quali

l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, dove le originarie specifi cità di ordine prettamente mitico e rituale si sono trasformate in oggetto di pura eru-dizione antiquaria; una collisione tra due universi apparentemente inconciliabili, cfr. I.P. COULIANO, Eros e magia nel Rinascimento (La Cultura, 46), trad. it. G. Ernesti, Milano 1987 (ed. or. Paris 1984), pp. 67 ss.; 282 ss.; 345 ss.

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MIMESIS

EZIO ALBRILE

ERMETEE LA STIRPE DEI DRAGHI

Mutazioni di una mitologia

Prefazione di Riccardo Valla

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59

IILE CREAZIONI DI IALDABAŌTH

1. Demiurgie sorgive

Il fondamento cosmologico di uno dei più signifi cativi testi gnostici a noi pervenuti, l’Apokryphon Johannis1, è costituito da un racconto teogo-nico incentrato su un peculiare sviluppo del principio divino (= «Spirito invisibile»), in virtù del quale la forza vitale racchiusa nell’acqua luminosa suscita la manifestazione di una realtà androgina, nominata Barbelo, che dà vita alle successive emanazioni della «pienezza», il . L’origine del processo teogonico si confi gura quindi nei modi di un’epifania lumino-sa in cui la vita nascosta nel divino esce dalla sua segretezza per dispiegarsi come una «sorgente di acqua luminosa»2.

Secondo l’Apokryphon Johannis, lo «Spirito invisibile» riconosce la propria immagine contemplandola nell’acqua luminosa che lo circonda, e tramite la della propria mente genera Barbelo. La parola copta usata per designare il processo autogenerativo del divino è asxate, che traduce il greco , termine tecnico utilizzato nel neoplatonismo e nella gnosi ad indicare l’azione emanativa del Mondo di Luce3, secondo una rappresentazione che rinvia ad uno sfondo fi siologico4.

1 Presente in quattro copie manoscritte, tre nella biblioteca di Nag-Hammadi e una nota sin dal cosiddetto «Codice di Berlino», il testo copto dell’Apokryphon Jo-hannis è usualmente conosciuto in due recensioni (una lunga dal Codice II di Nag-Hammadi e una corta dal Codice di Berlino); un’ulteriore analisi codicolo-gica ha però evidenziato la presenza di ben tre recensioni: vd. ora la collazione dei testi in M. WALDSTEIN-F. WISSE (eds.), The Apocryphon of John: Synopsis of Nag Hammadi Codices II, 1; III, 1; and IV, 1 with BG 8502, 2 (Nag Hammadi and Manichaean Studies 33), Leiden-Köln 1995.

2 BG 26, 19-21.3 Cfr. Plot. Enn. II, 9, 11; VI, 7, 23.4 Cfr. G. MANTOVANI, «Acqua magica e acqua di luce in due testi gnostici», in J. RIES

(avec la coll. de Y. Janssens et de J.-M. Sevrin), Gnosticisme et monde hellénisti-que, Actes du Colloque de Louvain-la Neuve (Publications de l’Institut Orienta-liste de Louvain 27), Louvain-la-Neuve 1982, p. 430.

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È l’idea su cui si basa la Pistis Sophia, dove la divinità si presenta come un torrente luminoso che feconda la terra per poi far ritorno alla sorgente originaria5. In questi sistemi il primo principio è al centro di un processo di emanazione luminosa6 da cui hanno origine la creazione del mondo plero-matico e la purifi cazione del mondo inferiore. La specifi cità della teogonia – barbelognostica o sethiana che dir si voglia7 – dell’Apokryphon Johannis sta nel fatto che, diversamente dall’universo neoplatonico implicito nello sfondo emanativo, Barbelo è defi nita in rapporto alle «acque di luce», le quali han-no una funzione determinante nel caratterizzarne la fi gura divina, in senso sia mitologico che etimologico. Anche perché tra i vari signifi cati proposti per Barbelo – che nel Secondo Libro di Jeu è assimilata alla 8 recante il sigillo battesimale9 – c’è quello che fa derivare il nome dall’ebraico la [brab, «Dio in quattro»; siccome la «Vergine di Luce» si presenta al momento del battesimo, è probabile il riferimento alla manifesta-zione della divinità in forma tetradica nel corso del rito lustrale. D’altronde un’altra ipotesi etimologica, pur partendo da un toponimo, giunge a con-clusioni analoghe: essa presuppone che il nome Barbelo sia composto dalla preposizione semitica b + il nome di luogo (= Arbela), relativo alla dea Ištar e al culto tributatogli nella città di Arbela10. Secondo alcuni infatti, il nome Arbela potrebbe derivare dall’accadico ’arba ’ilu, i «quattro dèi».

Barbelo, «immagine della luce», è la prima entità a scaturire dall’essere supremo, il Padre celeste, sconosciuto e impredicabile. Da Barbelo proce-dono il «fi glio» iperuranico e, in seguito, tutte le entità luminose11, che si confi gurano in un . Il sistema, sin qui organico e piramidale, si

5 PS 65 (C. SCHMIDT-V. MACDERMOT, Pistis Sophia [Nag Hammadi Studies IX], Leiden 1978, p. 130).

6 Cfr. J. RATZINGER, s.v. «Emanation», in RAC, IV, Stuttgart 1959, coll. 1219-1228; H. DÖRRIE, «Emanation. Ein unphilosophisches Wort im spätantiken Denken», in AA.VV., Parusia. Studien zur Philosophie Platons und zurProblemgeschichte der Platonismus, Festgabe für J. Hirschberger, Frankfurt 1965, pp. 119-141 (= Platonica minora, München 1976, pp. 70-88).

7 Cfr. G. CASADIO, Vie gnostiche all’immortalità (Letteratura cristiana antica 4), Brescia 1997, pp. 19 ss.; C. GIANOTTO, «L’identità religiosa tra gli gnostici: i grup-pi “sethiani”», in Annali di Storia dell’Esegesi, 21 (2004), pp. 47-58.

8 Cfr. MANTOVANI, «Acqua magica e acqua di luce», p. 432 e nota 19.9 Vd. inoltre W. BOUSSET, Hauptprobleme der Gnosis, Göttingen 1907 (repr. 1973),

p. 14; nella sua opera, il Bousset ha ricondotto l’idea di una «Madre dei viventi» al mitologhema della Grande Madre di derivazione orientale (ivi, p. 58).

10 Cfr. A.K. HELMBOLD, «The Apokryphon of John», in Journal of Near Eastern Studies, 25 (1966), p. 268.

11 Apocr. Joh. II, 9, 20.

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Le creazioni di Ialdabaōth 61

frantuma nella hybris dell’ultima entità, la «consorella Sophia»12. È l’ori-gine di una generazione irregolare da cui sorge il personaggio egemone del mondo inferiore, del , il «vuoto»; un essere abnorme, sorta di mostruoso transessuale dalle fattezze di drago e dal volto di leone, ignaro dell’esistenza di un sopra di lui e superbo nella sua fi ttizia unici-tà. Il suo nome è Ialdabaōth13. Anche su di esso sono state avanzate diverse ipotesi14. Nell’Apokryphon Johannis ricorrono due varianti, Altabaōth15 e Aldabaōth16; la più antica delle due è forse la prima, in quanto rimanda all’ebraico twbat la, «dio del desiderio». Non a caso il Demiurgo è il se-duttore di Eva17.

La nuova forma del nome, Ialdabaōth, è probabilmente legata anch’essa all’ebraico twbat la hy, «Signore dio del desiderio». Il termine ebraico hy, «Signore», contrazione e abbreviazione del tetragramma hwhy, defi nisce la funzione egemone del Demiurgo e primo Arconte, che in BG 51,3 è chia-mato piarchōn nte peprūnikos, «Arconte del desiderio», in riferimento al fatto che il Demiurgo, prodotto abortivo di Sophia, è il frutto del suo de-siderio. Tra le altre interpretazioni, A.J. Matter è stato il primo a proporre per Ialdabaōth l’etimologia di «Figlio del Chaos»18, corretta da Scholem in «Padre del Chaos»19. Nel pionieristico lavoro del Matter, occorre sottoli-nearlo, la gnosi è descritta come l’irrompere nell’essenza del cristianesimo di tutte le speculazioni cosmologiche e teosofi che che rappresentavano la parte più considerevole delle religioni orientali e che i Neoplatonici ave-vano adattato all’Occidente. Se da un lato l’opera del Matter contribuì a conferire notorietà e dignità culturale alla dottrina gnostica, tuttavia la sua lettura era condizionata da una visione del mondo orientale molto stereoti-pata e, per così dire, fi glia del suo tempo.

L’etimologia proposta da Scholem sembra la più attendibile e vicina al signifi cato originario; si può avere una conferma in questo senso pren-dendo in esame le diverse lezioni del nome20 Ialdabaōth, fra cui troviamo

12 BG 36, 16; III, 14, 9.13 Apocr. Joh. II, 24, 12 e passim.14 HELMBOLD, «The Apokryphon of John», p. 269.15 Apocr. Joh. II, 19, 30.16 Apocr. Joh. II, 23, 35.17 Apocr. Joh. II, 24, 15-16.18 Histoire critique du Gnosticisme, II, Paris 1828, p. 198.19 Cfr. G.G. SCHOLEM, «Jaldabaoth Reconsidered», in AA.VV., Mélanges d’Histoire

des Religions offerts à H.-Ch. Puech, Paris 1974, pp. 410 ss.20 Vd. A. MASTROCINQUE, «Pregare Ialdabaoth», in G. SFAMENI GASPARRO (cur.), Modi

di comunicazione tra il divino e l’umano. Tradizioni profetiche, divinazione, astrologia e magia nel mondo mediterraneo antico, Atti del II Seminario Interna-

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62 Ermete e la stirpe dei draghi

un’uscita in -zaō. La variante Ialdazaō rimanderebbe infatti all’ebraico [wz dly, «fi glio della paura», etimologia in pieno accordo con le origini del Demiurgo gnostico, un pargolo fobico nato dall’agitazione e dalla paura di Sophia21.

Ialdabaōth è il demiurgo maldestro e omicida che, nel tentativo di imi-tare le creazioni luminose del , plasma, con l’aiuto degli Arconti, l’involucro somatico di Adamo, che non riesce però a vivifi care. Replica imperfetta di un archetipo celeste, il primo uomo giace inanimato a terra, privo del soffi o divino. Il Codice II di Nag-Hammadi trascrive in modo dettagliato la sequenza demiurgica:

auw toueie} toueie Ne3ousia au+ Noumaein Nxrai" xM ptupos N{txikwn tai" entafnau eros xrai" xN tef}2uyikh aftamio Nouxupostasis kata pine Mp<orp} Nrwme Nteleios auw pejau je marNmoute erof je adam. jekaas erepefran} na<wpe Nan Nouqom Nouoein auw auaryei Nqi Ndunamis.

«E ogni potestà aggiunse un aspetto secondo il modello () dell’imma-gine intravista nella sua psichicità (). Egli [= Ialdabaōth] creò una per-sonifi cazione () a somiglianza del primo Uomo perfetto (). Ed essi [= gli Arconti] dissero “Dài, avanti! Chiamiamolo Adamo, affi nché il suo nome divenga una forza di luce per noi.”22 E le potenze iniziarono…»23.

Segue un’intricata melotesia zodiacale, in cui una serie di entità archon-tiche è preposta ad ogni singola parte del corpo. Quel che qui c’interessa

zionale (Hierá 7), Cosenza 2005, pp. 203 ss.21 Da segnalare infi ne l’etimologia di Alfred Adam proposta al Convegno di Messina

sulle origini dello gnosticismo: secondo Adam, Ialdabaōth altro non sarebbe che la traduzione aramaica del nome di un altro demiurgo gnostico, Saklas, a sua volta legato all’iranico āšūqar, termine che nella cosmologia zurvanita (cfr. R.C. ZAEH-NER, Zurvān. A Zoroastrian Dilemma, Oxford 1955 [repr. New York 1972], p. 225) è legato alla concezione del cosmo quale aspetto «che reca la forza generativa» (A. ADAM, «Ist die Gnosis in aramäischen Weisheitsschulen entstanden?», in U. BIANCHI [cur.], Le origini dello gnosticismo. Colloquio di Messina [Numen Supp. XII], Leiden 1970, pp. 291-301; e la recensione di GILLES QUISPEL, in Journal of the American Oriental Society, 90 [1970], pp. 321b-322a); āšūqar rappresenterebbe ciò che in termini ermetici è il (cfr. Poimandres 13, 21), testimonianza di una cerchia sapienziale di area mesopotamica; il tutto tradotto in aramaico darebbe il nome di Ialdabaōth (ADAM, cit., pp. 297-298).

22 Ci si riferisce al signifi cato di Adamo quale «Uomo di sangue luminoso», men-zionato nello Scriptum sine titulo, uno scritto di Nag-Hammadi conosciuto an-che come «Trattato sull’origine del mondo», di cui parlo nel mio «Zoroastro e le rose», in Studi sull’Oriente Cristiano, 8 (2004), pp. 5-16.

23 Apocr. Joh. II, 6-14 (Synopsis, p. 39b, 4-15).

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Le creazioni di Ialdabaōth 63

però rilevare è l’uso del termine per designare l’Uomo primigenio, Adamo. La nozione si trasmette al lessico gnostico manicheo: secondo il mito, le particelle luminose liberate dalla , cioè gli elementi noetici intrappolati nella creazione, sono assemblate in un’immensa Colonna di Luce che si innalza dalla terra al cielo24. Giunto sulla Luna, questo stelo iridescente si confi gura come un’ immagine macroantropica, l’«Uomo per-fetto», , il Gesù cosmico, sintesi di tempo e di eternità25. Un simulacro che, dal punto di vista escatologico e comparativo, coincide sia con il dio iranico del Tempo Zurwān nel suo divenire scandito in passato, presente e futuro, sia con l’«ultimo Dio», istomēn-yazd, l’ultimo ς dei testi manichei copti26, l’immensa statua luminosa corrispondente al ς ς, al tan ī pasēn, il «Corpo fi nale» dell’escatologia zoro-astriana e zurvanita27, l’icona macroantropica che nel tempo fi nale s’innal-zerà fi no al cielo a guisa di una Colonna di Luce cosmica, la bām istūn dei testi manichei in medio-iranico.

Una terminologia salvifi ca che ha una lunga storia.

2. Le parole della salvezza

Al verbo , «portare a compimento» (sostantivo , «fi ne, compimento») sono legati i vocaboli originari del lessico misterico28, cioè = «iniziazione»29 e = «sacerdote» che inizia ai misteri30;

24 Ho parlato di questo in modo più approfondito nel mio lavoro «L’Anima e il Tempo. Rifl essioni sullo Zurvanismo in Eznik di Kolłb», in Studi sull’Oriente Cristiano, 5 (2000), pp. 5-36.

25 Vd. anche il mio «Zurwān sulla Luna. Aspetti della gnosi aramaico-iranica», in Rivista degli Studi Orientali, 75 (2001), pp. 27-54.

26 Cfr. C. SCHMIDT-H.J. POLOTSKY, «Ein Mani-Fund in Ägypten. Originalschriften des Mani und seiner Schüler. Mit einer Beitrag von H. Ibscher», in Sitzungsbe-richte der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Phil.-Hist. Klasse, Berlin 1933, p. 79; G.G. STROUMSA, «Aspects de l’eschatologie manichéenne», in Revue de l’Histoire des Religions, 198 (1981), pp. 176 ss.

27 Cfr. GH. GNOLI, «Un particolare aspetto del simbolismo della luce nel Mazdeismo e nel Manicheismo», in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, N.S. 12 (1962), p. 119; ZAEHNER, Zurvān, p. 133.

28 Cfr. A.D. NOCK, «Mysterion», in Harvard Studies in Classical Philology, 60 (1951), pp. 201-204.

29 Cfr. J.E. HARRISON, «The Meaning of the Word », in The Classical Re-view, 28 (1914), pp. 36a-38b.

30 Procl. In Tim. I, 51.

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64 Ermete e la stirpe dei draghi

ci sono così una Hera Teleia nei riti di iniziazione femminili31 e uno Zeus Teleios che giudica e delibera sulle anime nell’Ade32. La prassi misterica è alla base del nascente credo cristiano, se pensiamo che, secondo le parole di Luciano di Samosata (Peregr. 11), Gesù avrebbe introdotto una nuova nella società del tempo33.

In un secondo sviluppo semantico, designa gli oggetti consa-crati nel culto, ed è con questo signifi cato che lo troviamo in un papiro magico, sotto forma di (participio: )34. Entrambe le accezioni sono presenti in uno scholium ad Aristofane che narra come un certo Eudemo, sedicente medico, fi losofo e , abbia venduto un anello magico «preparato, consacrato» () per contrastare ogni tipo di malìa35. La parola è anche parte del lessico astrologico: gli astrologi predicono eventi futuri e compongono trattati cui sovente danno il nome di apotelesmatika; di conseguenza sono chiamati essi stessi apote-lesmatologoi36. Certo non potrebbero compiere predizioni se non ritenesse-ro gli astri , «che conducono ad un fi ne, produttivi»: Giove infatti è ritenuto proprio in quanto produce e conduce a effetto. L’idea è quindi che gli astri, nella loro azione a distanza, produca-no, determinino gli eventi terreni.

Lessico che ha un singolare rifl esso nella prassi teurgica della tarda an-tichità, codifi cata nei cosiddetti Oracoli caldaici.

Gli Oracoli caldaici37, silloge in cui compare la prima attestazione del

31 HARRISON, «The Meaning of the Word », 37a-b.32 Cfr. M.M. DANIEL, «A Future Life as Represented by the Greek Tragedians», in

The Classical Review, 4 (1890), p. 87a.33 Cfr. H.D. BETZ, «Lukian von Samosata und das Christentum», in Novum Testa-

mentum, 3 (1959), p. 233.34 PGM IV, 1744-1745.35 Schol. in Aristoph. Pl. 884; cfr. anche Ioh. Mal. Chron. 109.36 Iambl. Theol. Arithm. 24 (DE FALCO, Leipzig 1922).37 Essi sono citati in base all’edizione E. DES PLACES, Oracles chaldaïques: avec un

choix de commentaires anciens, Paris 19963 (i nn. 211-227 sono ritenuti fragmen-ta dubia), il cui testo critico è ripreso da R. MAJERCIK, Chaldaean Oracles: Text, Translation and Commentary (Studies in Greek and Roman Religion 5), Leiden 1989; e da F. GARCÍA BAZÁN, Oráculos caldeos: con una selección de testimonios de Proclo, Pselo y M. Itálico. Numenio de Apamea, Fragmentos y testimonios, Madrid 1991; vd. ancora H. LEWY, Chaldaean Oracles and Theurgy: Misticism, Magic and Platonism in the later Roman Empire, Le Caire 1956, Jerusalem 1960 (nouvelle édition par M. Tardieu, Études augustiniennes, Paris 1987; con i con-tributi di E.R. DODDS, «New Light on the “Chaldaean Oracles”», pp. 693-701; e di P. HADOT, «Bilan et perspectives sur les Oracles chaldaïques», pp. 703-720), che riprende, naturalmente, il numero delle pagine dell’edizione di W. KROLL, De

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termine «teurgo», sono costituiti da duecentoventisette brevi componimen-ti, quasi esclusivamente esametrici, a carattere visionario e cosmosofi co, contenenti invocazioni, rivelazioni e insegnamenti di divinità spesso ano-nime, fra le quali sembra prevalere Hekatē38, la triplice dea39 sotterranea, mutata in dea oracolare nelle visioni dei teurghi.

Per quanto riguarda il titolo della raccolta40, è probabile che esso sia apparso solo in periodo tardo ad opera di Michele Psello, che nell’XI se-colo la designò come 41. Questi oracoli infatti sono usualmente chiamati «caldaici» per la loro pretesa di risalire alla cosiddet-ta «sapienza caldaica»42 presentandosi come rivelazione sacra comunicata in origine ai sacerdoti Caldei43. Gli Oracoli caldaici si collegherebbero a una tradizione teurgica iniziatico-esoterica e sarebbero stati trascritti da Giuliano il Teurgo, fi glio di un omonimo «fi losofo caldeo»44, quindi fi glio d’arte45.

L’autore, dopo aver assimilato la sapienza esoterica caldaica tramite la partecipazione alle riunioni segrete dei teurghi, verso la fi ne del II secolo d.C. traspose in esametri omerici le rivelazioni e le visioni contemplate «alla vampa viva del fuoco»46. La tarda testimonianza del lessico Suda47 (risalente all’XI secolo) attribuiva a Giuliano padre un’opera in quattro libri «Sui demoni» e a Giuliano fi glio dei Theourgikà, Telestikà e loghia in

oraculis Chaldaicis, Breslau 1894 (repr. Hildesheim 1962).38 Cfr. S.I. JOHNSTON, Hekate Soteira. A Study of Hekate’s Roles in the Chaldaean

Oracles and Related Literature, Atlanta 1990, passim.39 Paus. II, 30, 2.40 Cfr. S. LANZI, «Oracula Chaldaica. Alcune osservazioni storico-religiose», in Stu-

di sull’Oriente Cristiano, 9 (2005), pp. 29-46.41 Cfr. C. VAN LIEFFERINGE, La Théurgie: dès Oracles Chaldaïques à Proclus, Liège

1999, p. 128.42 A. TONELLI (cur.), Oracoli caldaici. , Milano 1990, pp. 7 ss.43 Cfr. F. CUMONT, Lux perpetua, Paris 1949 (repr. New-York-London 1987), p. 361;

P. HADOT, «Bilan et perspectives», pp. 706 ss.44 Cfr. E.R. DODDS, «Theurgy and its Relationship to Neoplatonism», in Journal

of Roman Studies, 37 (1947), pp. 55-69 (repr. in The Greeks and the Irrational, Berkeley-Los Angeles 1956, tr it. I Greci e l’irrazionale. Appendice II: La Teur-gia, Firenze 1978, p. 337); vd. anche S. LILLA, s.v. «Teurgia», in A. DI BERARDINO (cur.)., Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, II, Casale Monf. (AL) 1983, coll. 3438-3439.

45 Vd. inoltre S. LANZI, «La questione dei Giuliani e gli Oracoli caldaici: alcuni problemi storico-religiosi», in . Rivista di storia delle religioni, 12 (2004-2005), pp. 145-169.

46 TONELLI, Oracoli caldaici, cit., pp. 6-7.47 Cfr. s.v. , 433-434, p. 641, 32-35 IIA.

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versi; questi inoltre, grazie alla sua , sarebbe stato l’autore del mira-colo della pioggia (da altri attribuito però al fi losofo egizio Arnouphis)48. La tradizione tende a sottolineare l’affi atamento di padre e fi glio nella con-segna della scienza esoterica49 e in particolare della sapienza teurgica, che esigeva, oltre alle doti personali, tutte le garanzie di una serissima prepa-razione.

Questo intento si rifl etterebbe nella testimonianza di Michele Psello (contenuta nella dissertazione «Sull’omerica catena aurea»)50 relativa al rito anagogico celebrato da Giuliano padre: egli avrebbe domandato per il fi glio una natura arcangelica, ottenendo per via medianica l’interessamento nientemeno che dell’anima di Platone mediante la o catena di Hermes (fr. 203). Essa, veicolo dell’infl uenza divina e intermediaria tra la divinità e l’umanità, rendeva possibili le pratiche teurgiche attraverso la simpatia universale, in grado di unire tutti i termini della catena grazie al , al «legame di fuoco intriso d’amore» (fr. 39, 2) di cui ci parla Proclo, citando gli Oracoli caldaici51.

48 Nel primo quarto del III secolo Dione Cassio (LXXI 8, 10) non menziona Giu-liano, attribuendo piuttosto il miracolo agli occulti poteri del sacerdote egiziano. Egli avrebbe invocato in suo aiuto alcuni demoni e Hermes Aerios.

49 Cfr. J. BIDEZ-F. CUMONT, Les Mages hellénisés. Zoroastre, Ostanès et Hystaspe d’après la tradition grecque, I (Introduction), Paris 1938 (repr. 1973), p. 176.

50 Cfr. J.M. DUFFY-D.J. O’ MEARA (eds.), Michaelis Pselli. Philosophica minora, I: Opuscula logica, physica, allegorica, Stuttgart-Leipzig 1992, opusc. 46, 164-168; spec. 165-166. Anche Proclo, iniziato alle pratiche teurgiche da Asclepigenia (fi -glia di Plutarco d’Atene, cfr. M.E. WAITHE, A History of Women Philosophers, I: Ancient Women Philosophers 600 B. C.-500 A.D., Dordrect 1987, pp. 201-205), tramite rivelazione fu consacrato alla «catena di Hermes»; un vincolo ieratico che, per mezzo della metempsicosi, legava i più illustri fi losofi di tutti i tempi (Marino, Vita Procl. 28): egli si riteneva infatti la reincarnazione del pitagorico Nicomaco di Gerasa. Vd. anche la tr. fr. di P. LÉVÊQUE, Aurea catena Homeri. Une étude sur l’allégorie grecque, Paris 1959, pp. 41 ss.; 56; 69; 72; 78-81; e H.D. SAFFREY, «La Théurgie comme phénomène culturel chez les Néoplatoniciens (IVe-Ve siècles)», in , 8 (1984), pp. 161-171 (ora in ID., Recherches sur le Néoplatonisme aprés Plotin, Paris 1990, pp. 52 ss.). Sull’anima arcangelica del secondo Giuliano, cfr. J. BIDEZ, Catalogue des manuscrits alchimiques grecs (CMAG), VI, Bruxelles 1928, p. 143; N. JANOWITZ, Magic in the Roman World: Pagans, Jews and Chris-tians. Religion in the First Christian Centuries, London 2001, p. 80. Negli Oracoli, sembra delinearsi la promessa, per il teurgo, di occupare un nuovo corpo, vivifi cato secondo il grado di perfezione conseguito nelle esistenze precedenti. Sull’utilizzo della catena d’oro negli Oracoli caldaici vd. anche KROLL, De oraculis Chaldaicis, p. 23: «in oraculis catenis locus non fuit; fontibus fuisse constat» e W. THEILER, Die chaldäischen Orakel und die Hymnen des Synesios, Halle 1942, p. 27 n. 4.

51 In Tim. II, 53, 18-54, 8.

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Gli Oracoli caldaici, sapiente combinazione di prassi visionarie e for-mule liturgiche, sarebbero dovuti alla sapienza teurgica di Giuliano pa-ter il Caldeo (carismatico leader spirituale di una ristretta conventicola di iniziati)52; successivamente i sarebbero stati riuniti e «registrati» dal fi glio (avente funzione di compilatore), quel Giuliano «il Teurgo» che un lungo adeptato, teorico e pratico, sotto la guida di un teurgo consumato come il padre, aveva reso pienamente adatto a tramandare per iscritto il pa-trimonio misterico. Gli Oracoli caldaici dovrebbero essere pertanto datati alla fi ne del II secolo o, tutt’al più, agli inizi del III secolo d.C.

3. Opere teurgiche

È comunque impossibile non riconoscere il ruolo fondamentale rivestito dagli Oracoli caldaici nella tradizione platonica, soprattutto nell’ambito del medioplatonismo, antesignano di Plotino, del II sec. d. C, nel quale essi si integrano perfettamente.

L’origine letteraria della silloge (gli esametri dattilici dei sono ricchi di termini e di espressioni omeriche) è legata ad una prassi intesa quale relazione privilegiata tra gli uomini e le divinità, al fi ne di congiun-gersi con esse e benefi ciare della loro potenza. A differenza della comune , di carattere soprattutto coercitivo53, la teurgia è una tecnica rive-lata dagli stessi dèi per permettere all’uomo di entrare in contatto con essi. Proprio grazie al suo benefi co aiuto, è possibile entrare in comunicazione con la divinità, la quale scende sino agli uomini per liberarli dal «gregge della fatalità» (fr. 153), che opprime il mondo terreno, e riportarli a sé54.

Per quanto il Dio degli Oracoli sia descritto come completamente sepa-rato dal mondo (frr. 3, 84) chiamato «mondo nascosto» (fr. 198) o «abisso paterno», egli, «unico fuoco» dal quale «sono scaturite tutte le cose» (fr. 10), «fonte delle fonti» (fr. 30), è comunque presente in tutto, poiché, come asserisce Proclo, «colui che è causa dell’insieme degli esseri ha seminato

52 Cfr. GARCÍA BAZÁN, Oráculos caldeos, pp. 11-17; 38.53 Cfr. le testimonianze più antiche in Plat. Symp. 203a; Resp. 584a.54 Cfr. G. REALE, Storia della fi losofi a antica, IV, Milano 19939, p. 651. Lo spazio della

teurgia è quello dell’azione umana solo nella misura in cui l’uomo si realizza rico-noscendo il proprio ruolo nel divino: cfr. A. CHARLES-SAGET, «La théurgie, nouvelle fi gure de l’ergon dans la vie philosophique», in H.J. BLUMENTHAL-E.G. CLARK (eds.), The Divine Iamblichus: Philosopher and Man of Gods, London 1993, pp. 107-115; vd. inoltre A. MASTROCINQUE, «The divinatory kit from Pergamon and Greek Magic in Late Antiquity», in Journal of Roman Archaeology, 15 (2002), pp. 174-187.

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68 Ermete e la stirpe dei draghi

in tutti gli esseri dei segni»55 o simboli della sua assoluta superiorità, una sorta di lasciapassare per gli iniziati. In questo contesto soteriologico il Primo Dio instaura, mediante i , un vasto sistema di segni, che permette di stabilire una profi cua comunicazione tra le anime e il divino; questi segni (che costituiscono dei legami «simpatetici» tra i vari livelli dell’universo e permettono di riconoscere la presenza soterica della divi-nità anche nella più bassa materia) possono essere una statua, una pietra, un animale, una pianta o qualsiasi altro elemento materiale entri nei riti dei teurgi, cui gli Oracoli tributano la massima fede.

La teurgia è una , un o un’insieme di mediante i quali viene promessa al teurgo, in possesso della rivelazione divina, la liberazio-ne dal vincolo della necessità, ossia dalla prospettiva deterministica sottesa alle comuni arti mantiche. Esse vengono esecrate in particolare nel fram-mento oracolare 107, in cui si nega l’aruspicina56 in quanto espressione di una fede nella sequela di , ed , che il teurgo non deve alimentare (fr. 103); al contrario, egli entra direttamente in contatto con le stesse divinità, che parlano attraverso i medium, inabitano le statue o si manifestano in epifanie.

Queste premesse erano necessarie per capire il mutare e l’adattarsi del nostro lessico in ambiti squisitamente ermetici e magici.

Era credenza diffusa nella tarda antichità (e poi nel Medioevo latino e bizantino) che le «immagini incantate», i o «talismani» teur-gici consacrati alla divinità che li animava, fossero in grado, con la loro presenza, occulta o ben visibile, di scongiurare sconfi tte militari e calamità naturali. Un episodio del genere è riferito nel racconto di Zosimo 4, 18, secondo il quale, nel 375 d.C., Atene fu salvata da un terremoto grazie al teurgo Nestorio, che, attenendosi a istruzioni ricevute in sogno, consacrò nel Partenone un costituito da una statua di Achille.

Giuliano il Teurgo, presunto autore degli Oracoli caldaici, avrebbe salva-

55 Theol. Plat. II, 8, p. 56, 16-19.56 «Non porre mente ai prodigiosi confi ni della terra:/ non infatti la pianta della

verità sulla terra <attecchisce>..../ E non calcolare la misura del sole ammassando tavole di misurazione:/ per eterno comando del padre egli si volge, non a causa tua./ Lascia perdere il ronzio della Luna; essa sempre si muove per opera della necessità./ Il corteo degli astri non è stato posto per te./ L’ampio remeggio delle ali degli uccelli del cielo non è mai veritiero,/ né le sezioni delle viscere sacrifi cali: tutto questo è gioco,/ e fondamenti di una frode che brama il denaro. Fuggi que-ste cose,/ se intendi schiudere il santo giardino della pietà,/ dove virtù, sapienza e armonia si radunano»; parafrasato da Luca Ragagnin, nel piccolo capolavoro poetico La balbuzie degli oracoli, Lecce 2003.

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to la campagna dacica57 di Marco Aurelio proprio grazie alla sua conoscenza della telestica58, l’arte teurgica di consacrare e animare statue per ottenerne oracoli, basata sulla universale. Ogni dio ha il proprio corrispet-tivo nel mondo animale, vegetale e minerale, e tali sostanze naturali possono essere usate come «simboli» della loro causa divina. Si tratta di una pratica mirante ad evocare la presenza degli dèi nelle immagini preparate ritualmen-te; l’utilizzo delle immagini come statue viventi, in cui gli dèi sono realmen-te presenti, e l’arte sacerdotale di animarle59 consentivano – come spiega Proclo, loro esperto conoscitore60 – l’affrancamento dell’anima dai legami sensibili che l’avviluppano e la vincolano al mondo delle forme.

L’azione rituale conferisce al teurgo carattere e natura divina, sì da farlo agire con la medesima competenza e autorità degli dèi, in una sorta di assi-

57 Cfr. G. LUCK, «Theurgy and Forms of Worship in Neoplatonism», in J. NEUSNER et al. (eds.), Religion, Science and Magic in Concert and in Confl ict, New York-Oxford 1989, pp. 185-225 (ora in G. LUCK, Ancient Pathways and Hidden Pur-suits: Religion, Morals, and Magic in the Ancient World, University of Michigan Press, Ann Arbor 2000); R.A. NORRIS, s.v. «Theurgy» in M. ELIADE (ed.), The Encyclopedia of Religion, 14, New York-London 1987, pp. 481-483.

58 Cfr. DODDS, «Theurgy and its Relationship to Neoplatonism», pp. 358-359.59 In Tim. III, 300, 13 ss.; In Remp. I, 120, 12 ss. (a proposito dell’animazione della

statua di Eracle); si vd. inoltre M. DI PASQUALE BARBANTI, Proclo tra fi losofi a e teurgia, Catania 1993, p. 149. In questo ambito va collocato l’episodio narrato da Eunapio (Vitae sophistarum VII, 2, 6-10) a proposito del teurgo Massimo, che in un tempio sotterraneo di Efeso fece sorridere la statua di Hekatē e ardere le fi accole che l’immagine della dea teneva in mano. Sulla telestica cfr. DODDS, «Theurgy and its Relationship to Neoplatonism», pp. 358-359; VAN LIEFFERINGE, La Théurgie: dès Oracles Chaldaïques à Proclus; ID.,«L’immortalisation par le feu dans la littérature grecque: du récit mythique à la pratique rituelle», in DHA, 26 (2000), pp. 99-119; S. EITREM, «La théurgie chez les néoplatoniciens et dans les papyrus magiques», in Symbolae Osloenses, 22 (1942), pp. 49-79; e O. BALLÉRIAUX, « Syrianus et la télestique», in Kernos, 2 (1989), pp. 13-25. Elemento essenziale nel tardo neoplatonismo, dove fi losofi a, teologia e teurgia sono strettamente intrecciate, la telestica è già presente in Fedro 244A-D, a lungo oggetto dell’esegesi di Siriano, volta a dimostrare la sua appartenenza non solo alla teurgia, ma anche a tutta la fi losofi a: unitamente alla poesia, all’eros e alla mantica, essa entra nel novero delle quattro follie inviate dagli dèi per permettere la risalita dell’anima alla sua vera patria celeste. Com’è noto, stando a Platone, la seconda forma di mania divina è quella «rituale-telestica di quanti, invasati dalla divinità, trovavano le preghiere e gli atti rituali necessari per liberare intere stirpi dai mali abbattutisi su di esse a causa di antiche colpe»: si vd. O. BALLÉRIAUX, «Mantique et télestique dans le Phèdre de Platon», in Kernos, 3 (1990), pp. 35-43.

60 Marino (Vita Procl. 28) parla della dimestichezza del maestro con le evocazioni rituali «caldaiche» e gli strophaloi o iynghes o rhomboi, strettamente connessi al culto di Hekatē.

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milazione alla divinità onnisciente in cui la contemplazione si confonde con la divinizzazione e con la conquista dell’immortalità o : l’arte teurgica, nel suo aspetto telestico, dimostra come anche nella materia si manifestino la potenza degli dèi e il loro decisivo infl usso sulla vita di tutti gli esseri. La telestica o «arte ieratica» (per usare la denominazione procliana), nel contesto teurgico sia arte di conferire i simboli divini che rito purifi catorio per il veicolo pneumatico dell’anima, consiste nella pie-na comprensione della catena che collega e riunisce gli esseri superiori a quelli inferiori e del senso in cui gli anelli più alti sono uniti ai più bassi e viceversa: anche la statua consacrata è in effetti un oggetto materiale61, alla quale però i teurghi infondono vita.

Collocandosi sulla soglia tra «tempo del tempo»62 () e tempo ordina-rio (), i teurghi potevano cogliere lo scorrere espressivo del Principio ancora in una condizione di fl uidità e intervenire sulla sua dislocazione nel mondo dell’apparenza sensibile; sospesi tra e , essi potevano far uscire le anime dai corpi per farvele poi rientrare; e potevano suscitare tempo-rali improvvisi con fulmini, come quello causato da Giuliano. Non a caso nel-le immagini consacrate le potenze evocate apparivano sotto forma di luce.

Stando alla testimonianza del lessico Suda, i teurghi caldei, e in parti-colare il secondo Giuliano, sembrano aver ampiamente favorito l’imporsi della telestica – già annoverata tra le quattro principali forme di posses-sione divina nel Fedro platonico –, divenuta un’importante branca delle pratiche teurgiche, imprescindibile per la storia religiosa della tarda an-tichità, in cui teurgia, fi losofi a e teologia appaiono strettamente unite. I neoplatonici, infatti, conoscono una letteratura orfi ca relativa alla consa-crazione delle statue. Eusebio di Cesarea – forse seguendo Porfi rio – ritiene che Orfeo abbia portato dall’Egitto l’arte dei sulla edifi cazione delle statue63. La Suda attribuisce ad Orfeo un poema sugli , cioè «Sull’arte di adornare le statue sacre»64, mansione portata a termine

61 Cfr. A.-J. FESTUGIÈRE, La révélation d’Hermes Trismegiste, III: Les doctrines de l’âme, Paris 1953, p. 48; si vd. i fondamentali Giamblico, De myster. V, 23 (232, 11-233, 15), Proclo (Arte ieratica 150, 36-151, 5 [ed. BIDEZ in CMAG, VI, pp. 137-151; e in Mélanges Franz Cumont, Bruxelles 1936, pp. 85-100]) = Giambli-co. I misteri degli egiziani, tr. it. di C. Moreschini, Milano 2003, p. 369; e Proclo. I Manuali, Elementi di fi sica. Elementi di teologia. I testi magico-teurgici. Marino di Neapoli. Vita di Proclo, con un saggio introduttivo di G. Reale, tr. di C. Farag-giana di Sarzana, Milano 1985, pp. 239-244.

62 Cfr. TONELLI, Oracoli caldaici, p. 12.63 Cfr. Cfr. Eus. Praep. Ev. X, 44 (test. 99a KERN).64 Cfr. P. BOYANCÉ, «Théurgie et télestique néoplatoniciennes», in Revue de l’His-

toire des Religions, 147 (1955), p. 201.

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dagli 65, il corpo sacerdotale addetto alla vestizione dei si-mulacri divini. E ancora, il lessico Suda aggiunge che questi sono , ovverossia le formule magiche che, secondo la telestica neoplatonica, consentono di animare le statue «cosmiche». La problematica si chiarisce ancora di più prendendo in considerazione un frammento di un poema orfi co trasmesso da Macrobio66 che descrive l’arte di abbigliare il simulacro di Dioniso (sacra Liberi patris), assimilato al dio Sole: il , il «corpo del dio», è adornato di buon mattino con splendide vesti che effi giano il percorso del Sole attraverso la volta celeste. La menzione delle negli va integrata con le , le «evocazioni silenziose» agli dèi planetari di cui parla un frammento oracolare di Porfi rio67. Il vaticinio «apollineo» celebra il Mago persiano Ostanes quale , «Sovrano dei sette suoni»68, intendendo riferirsi con questo all’armonia sprigionata dalle sette corde dello , fi gurazione dell’armonia delle sfe-re69. Il grande e mitico mago è quindi ierofante e psicagogo nell’ascensione attraverso le sette zone planetarie.

La prassi talismanica e telestica ha una parte centrale nell’opera soterica di un altro grande mago e teurgo dell’antichità, Apollonio di Tiana..

4. Talismani viventi

Singolare ed enigmatica fi gura all’intersecarsi di magia e fi losofi a neopi-tagorica, espressione del sincretismo religioso di età imperiale, Apollonio di Tiana è noto attraverso la biografi a di Filostrato, il protetto della seconda moglie di Settimio Severo, Giulia Domna, la 70. Una peculiarità dell’opera è la tendenza a sottrarre Apollonio all’accusa di aver praticato la magia ed a presentarlo come il modello dell’asceta pitagorico,

65 Cfr. F. CUMONT, L’Egitto degli astrologi, trad. it. a cura di G. Bezza, Milano 2003, p. 147.

66 Sat. I, 18, 21 = fr. 238 KERN (MARINONE [Torino 19872], p. 272).67 De phil. ex or. I (WOLFF [Berlin 1856], p. 138) = Eus. Praep. Ev. V, 14; BIDEZ-

CUMONT, Les Mages hellénisés, II (Les Textes), Paris 1938 (repr. 1973), p. 284.68 Cfr. il mio «Le magie di Ostanes», in AA.VV., Ravenna da Capitale imperiale

a Capitale esarcale, Atti del XVII Congresso Internazionale di Studio sull’Alto Medioevo (Ravenna, 6-12 giugno 2004), Spoleto – Fondazione CISAM 2005, pp. 1069-1083.

69 Cfr. K. PREISENDANZ, s.v. «Ostanes», in PWRE, XVIII2, Stuttgart 1942, col. 1616.70 Cfr. E.L. BOWIE, «Apollonius of Tyana: Tradition and Reality», in ANRW, II, 16.2,

Berlin-New York 1978, pp. 1652-1699.

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forse in contrapposizione a Gesù Cristo: continente, casto, vegetariano, to-talmente estraneo ed incurante delle cose del mondo, Apollonio venera il suo Dio supremo, al quale tutti gli altri dèi sono sottoposti, non con offerte o sacrifi ci, ma mentalmente. La sua fama nel mondo tardoantico doveva essere grande71, se in quel curioso miscuglio di culti praticati a Roma dai Severi72 Caracalla gli fece erigere un 73 e Alessandro Severo74 ne collocò l’effi gie all’interno del proprio Lararium, assieme a quelle di Ales-sandro Magno, Cristo, Abramo e Orfeo.

La leggenda intorno ad Apollonio si accrebbe continuamente di nuovi elementi. Tra gli apocrifi e pseudoepigrafi a lui attribuiti è notevole la men-zione di una in un incantesimo (PGM XI.a, 4-5): si tratta di una specie di paredra magica, evocata tramite un «teschio di Tifone». Ora il «teschio di Tifone» altro non è che l’equivalente semanti-co di un teschio d’Asino75, animale sacralmente dedicato al caotico dio del sincretismo egizio-ellenistico76, cioè Set-Tifone. Sulla base di questi dati, è facile identifi care la invocata con , la demonessa in sem-bianze asinine77 che tanta parte ha nella mitologia salomonica78. Un’altra signifi cativa testimonianza proviene dall’epistolario apocrifo di Apollonio, sempre trascritto da Filostrato. Si tratta di una lettera indirizzata «A Iarchas ed ai suoi saggi». In un frammento sopravvissuto nel De Styge di Porfi rio, Apollonio sostiene esplicitamente di aver conseguito l’iniziazione «attra-verso l’acqua di Tantalo»79. Questo fl uido tenebrale, omologo alla , la matrice liquida e caotica da cui, secondo la dottrina gnostico-sethiana, sorge il Redentore in fattezze di serpente80, è lo Stige ().

71 Sulla sua fi gura cfr. in particolare il lavoro di M. DZIELSKA, Apollonius of Tyana in Legend and History, transl. by P. Pienkowski (Problemi e Ricerche di Storia Antica 10), Roma 1986, pp. 85 ss. (sulla magia) e passim.

72 Cfr. J. RÉVILLE, La religion à Rome sous les Sévères, Paris 1886, pp. 210 ss.73 Dio. Cass. 77, 18.74 Lampr. Vita Alex. 29.75 Cfr. H.D. BETZ, The Greek Magical Papyri in Translation, Chicago 1985, p. 150 n. 1.76 Cfr. R. WÜNSCH, Sethianische Verfl uchungstafeln aus Rom, Leipzig 1898, pp. 16

ss. e passim; L. VISCHER, «Le prétendu “culte de l’âne” dans l’Église primitive», in Revue de l’Histoire des Religions, 139 (1951), pp. 20 ss.

77 Cfr. K. PREISENDANZ, s.v. «», in PWRE, XVIII/1, Stuttgart 1939, col. 522.78 PREISENDANZ, s.v. «», coll. 523 ss.; vd. inoltre F.A. PENNACCHIETTI,

«The Queen of Sheba, the Glass Floor and the Floating Tree-Trunk», in Henoch, 22 (2000), pp. 230 ss.

79 Ep. 78 (CONYBEARE II, pp. 474-475).80 Cfr. Hipp. Ref. V, 19, 17-21; e la mia sintesi «I Sethiani: una setta gnostica al

crocevia tra Iran e Mesopotamia», in Laurentianum, 37 (1996), pp. 373 ss.

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Con questo nome, connesso al greco , «odiare, disprezzare»81, è designato il fi ume degli inferi, avvolto in sette spire attorno al mondo dei morti82. Esso è ritenuto un ramo di Oceano, il dio liquido che circonda la terra, e precisamente quello che scaturisce dalla nona delle sue sorgenti. Dallo Stige deriva il Cocito, affl uente dell’Acheronte83. Come l’Acheronte veniva identifi cato con corsi d’acqua o paludi presso le quali si sarebbe trovato l’ingresso dell’Ade, lo stesso si favoleggiava dello Stige, che si diceva generasse il fi ume Titaresio, in Tessaglia84 e la sorgente Nonacri, in Arcadia85, sulle cui peculiarità morfologiche e tanatologiche si sofferma Pausania86. Platone riferisce inoltre che il Cocito raggiungeva sulla superfi -cie terrestre la Palude Stigia, donde ritornava al Tartaro87.

Ma la fama e la posterità – principalmente nel mondo bizantino – di Apollonio è legata alla magia talismanica, utilizzata nei modi più dispara-ti88, sì da ingenerare nei tardi cronografi arabi una confusione tra soggetto e oggetto, tra il mago e la sua opera: in essi Apollonio di Tiana diventa quindi un «Apollonio Telesmatico»89. Giovanni Malala, nel VI secolo d.C., descri-vendo i portenti del mago di Tiana90, parla di un collocato sulla porta orientale della città di Antiochia per contrastare l’algore del freddo vento di Borea (l’attuale «Bora»: )91. Il controllo dei venti è infatti una prerogativa di maghi e stregoni dell’antichità, designati quali 92.

Un altro cronografo bizantino, Niceta Coniata, descrive con elevatez-za di stile un secondo , un’aquila di bronzo eretta da Apollonio nell’Ippodromo di Bisanzio in occasione del suo ultimo passaggio nella città93. Ora, l’equivalente latino del vento di Borea era Aquilo, la fredda e

81 Cfr. F. MONTANARI, GI. Vocabolario della Lingua Greca, Torino 1995, p. 1875c.82 Cfr. Hom. Il. VIII, 369; Hes. Theog. 775-806; e inoltre F. BÖLTE, s.v. «Styx», in

PWRE, IV/A. 1, Stuttgart 1931, coll. 457-463.83 Hom. Od. X, 514.84 Hom. Il. II, 755.85 Herod. VI, 74.86 Paus. VIII, 18, 4-6.87 Fed. 113B-C.88 Per i molteplici usi dei , vd. la notizia di Atanasio Sinaita

in PG 89, 525B; cfr. anche H. SARADI-MENDELOVICI, «Christian Attitudes toward Pagan Monuments in Late Antiquity and Their Legacy in Later Byzantine Centu-ries», in Dumbarton Oaks Papers, 44 (1990), p. 57.

89 Patrologia Syriaca, p. 1368.90 DZIELSKA, Apollonius of Tyana in Legend and History, pp. 107-108.91 PG 97, coll. 400-404 = Patrologia Syriaca, I/2 (Paris 1907), p. 1366.92 Eusth. 1645, 42.93 Cfr. C. MANGO, «Antique Statuary and the Byzantine Beholder», in Dumbarton

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impetuosa tramontana che soffi a da nord94. Va da sé che in latino da Aqui-lo ad Aquila il passo è breve. Ed è altamente plausibile, se non veritiero, che la notizia di Niceta Coniata dipenda da fonti latine95, circostanza che spiega il fraintendimento tra Aquilo e . L’opera di Niceta, a partire dalla poderosa , presenta infatti una tradizione molto complessa, a causa dell’esistenza di più redazioni, frutto della progressi-va elaborazione del testo da parte dell’autore96: il talismano per placare l’impetuoso vento del nord, si trasforma quindi in un simulacro di fattezze animali, in una minacciosa Aquila da esibire alle porte del luogo deputato agli agoni dello sport nazionale di Bisanzio97. Il contro il vento di Borea è ricordato anche nella summa apocrifa del sapere magico tianeo, un «Libro della Sapienza» o 98, probabile fl orilegio bizantino di un perduto 99. Immerso nella temperie culturale bizantina, Apollonio diventa un profeta del cristianesimo100, predicendo la venuta di un dio «nato da una vergine in Betlemme». Questi distruggerà i templi degli idoli, ma lascerà intatti i talismani e il santuario di Apollonio in Tiana101.

L’unione della virtù celeste a quella terrena avrà una sua posterità me-dievale in testi apparentemente levantini come il Picatrix o il De radiis di al-Kindi. Secondo il De radiis, il cosmo è avvolto, intessuto da una invi-sibile rete di raggi, provenienti sia dalle stelle che da tutti gli oggetti della terra. Tramite le sue radiazioni, l’intero universo, dagli astri più lontani al più remoto oggetto terreno, è presente in ogni punto dello spazio ed in ogni momento del tempo. Ma c’è di più. Le affezioni psichiche, emozioni quali la voluttà, la gioia, il dolore, la speranza o la paura, si trasmetto-

Oaks Papers, 17 (1963), pp. 61-62; SARADI-MENDELOVICI, «Christian Attitudes to-ward Pagan Monuments», p. 57; D. DEL CORNO, «Introduzione» a Filostrato. Vita di Apollonio di Tiana (Biblioteca Adelphi 82), Milano 19882, p. 44.

94 Vd. anche Cass. Bass. Geopon. II, 3, 1 (BECKH [Leipzig 1895], p. 35).95 Cfr. A. CUTLER, «The De Signis of Niceta Choniates. A Reappraisal», in American

Journal of Archaeology, 72 (1968), p. 116a.96 Vd. anche A. PONTANI (cur.), Niceta Coniata. Grandezza e catastrofe di Bisanzio

(Narrazione cronologica), II: (Libri IX-XIV), Milano 1999, pp. XII-XVI.97 La cosa sfugge però al pur acribico DEL CORNO, «Introduzione», pp. 44-45.98 BOWIE, «Apollonius of Tyana: Tradition and Reality», p. 1686; DZIELSKA, Apol-

lonius of Tyana in Legend and History, p. 103; versioni di F. NAU in Patrologia Syriaca, I/2, pp. 1363 ss.; l’invocazione all’angelo del vento di Borea è a p. 1386; e di F. BOLL in CCAG, VII, Bruxelles 1908, pp. 175 ss.

99 BOWIE, «Apollonius of Tyana: Tradition and Reality», p. 1676 n. 90.100 DEL CORNO, «Introduzione», p. 45.101 Apotelesm. II, 1-8 (NAU, p. 1374; BOLL, p. 176); cfr. DZIELSKA, Apollonius of Tya-

na in Legend and History, p. 105; DEL CORNO, «Introduzione», p. 45.

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no anch’esse al mondo circostante sotto forma di radiazioni invisibili che, al pari degli effl uvi astrali, imprimono modifi cazioni nel divenire e nelle cose, secondo le loro disposizioni intrinseche102. Nell’ermetismo magico il signifi cato del talismano sta nel suo congiungimento al corpo celeste: esso esplica la propria funzione attraverso la connessione della virtù astrale con quella terrena, secondo un divenire analogo ai fenomeni della natura o alle manipolazioni e lavorazioni artigianali operate sulle cose dall’uomo.

In base a quest’ultimo signifi cato, si può dire che ogni cosa prodotta sul-la terra è, in senso lato, un talismano. L’ermetista, l’iniziato, si differenzia dall’artigiano per la conoscenza profonda del nesso tra le cose, innalzando la propria opera «demiurgica» alla sfera d’azione degli astri. Dottrina cara a leggendari prontuari magico-ermetici medievali quali il Picatrix, secon-do il quale sarebbe stata un immenso talismano anche la città fondata da Hermes nelle lande dell’Egitto orientale, città in cui la felicità, la pace e la morale erano garantite dalla sola potenza degli astri, saggiamente con-vogliata e coagulata nelle immagini intagliate che circondavano le mura: un’utopia ermetica chiamata, a seconda delle versioni del testo, Erdetent-ym, Adocentyn o al-Asmunain103; suggestiva sequenza che il Picatrix so-stiene di derivare da fonti caldee.

Le immagini astrali rappresentano quindi il mezzo per attrarre di vere e proprie essenze spirituali, dèi stellari che vanno propiziati e lambiti con pre-ghiere e sacrifi ci in specifi ci e ben determinati luoghi. Esse sono una mani-festazione materiale nella realtà soggetta allo spazio e al tempo, il supporto attraverso il quale una realtà d’ordine superiore sperimenta l’esistenza so-matica. Nel mito demiurgico dell’Apokryphon Johannis, alla plasmazione di Adamo, come s’è detto, segue una melotesia zodiacale, in cui una lunga lista di entità archontiche è preposta alla creazione delle singole parti del corpo. Ma tutto ciò non basta a vivifi care il corpo di Adamo, che giace

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«totalmente inerte () e privo di movimento per un lungo lasso di tempo»104.

Segue un vero e proprio rito di animazione della statua inerte di Adamo. Il , intuita la natura immateriale della forza luminosa che giun-ge dalla Madre celeste, intima a Ialdabaōth:

102 De rad. V, 230 (Turri [Milano 1994], p. 59); cfr. anche I.P. COULIANO, Eros e magia nel Rinascimento, Milano 1987, pp. 74 ss.

103 Picatrix IV, 3 (ARECCO-LI VIGNI-ZUFFI [Milano 1999], p. 227).104 Apocr. Joh. II, 19, 13-15 (Synopsis, p. 51, 4-5).

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«Soffi a sul suo volto un po’ del tuo e il suo corpo si solleverà in piedi»105.

Lo è la forza luminosa della Madre, che Ialdabaōth ignorava di possedere: il demiurgo (qui menzionato come Altabaōth) insuffl a così questa celeste nel

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«corpo psichico che egli creò dopo [aver visto] l’immagine di ciò che esiste sin dall’inizio. Il corpo iniziò a muoversi, acquisì forza e divenne luminoso»106.

In questo rito gnostico di iniziazione107, lo agisce, sotto il segno del Sole, sulla corrente dell’energia luminosa plasmata dal fare demiurgico e infusa quale «vita» nell’individuo Adamo: questa s’insinua in una creazione preesiten-te e occulta, cioè nel «corpo psichico»108, la corrente psichica posta sotto il se-gno della Luna. L’intera vicenda adamica si svolge dunque tra una natura greve, saturnia come il Demiurgo109, imprigionata nelle leggi della terra, e un embrione di immortalità che, attraverso il rito gnostico-teurgico di vivifi cazione, può tor-nare nell’alveo del Dio ineffabile e sconosciuto dal quale è disceso. Una vicenda mitica e rituale che ha da sempre affascinato la mente e l’inventiva dell’uomo: basti pensare alla leggenda di Don Giovanni, più volte riscritta110 a partire da Tirso de Molina, passando per Molière e Mozart, sino al più recente L’occhio del diavolo di Ingmar Bergman, dove troviamo la bianca statua spettrale del «Convitato di pietra» – demonizzazione del motivo prima teurgico e poi gnosti-co del simulacro animato – che, accettando la sfi da di Don Giovanni, interviene

105 Apocr. Joh. II, 19, 23-25 (Synopsis, p. 52, 6-7).106 Apocr. Joh. II, 19, 30-33 (Synopsis, p. 52, 13-17).107 Qui la vivifi cazione dell’involucro inerte di Adamo è sinonimo di un’iniziazione

intesa quale passaggio dalla «morte» alla «vita»: cfr. M. ELIADE, Naissances my-stiques. Essai sur quelques types d’initiation, Paris 1959, pp. 218 ss.

108 Cfr. R. VAN DEN BROEK, «The Creation of Adam’s Psychic Body in the Apocry-phon of John», in R. VAN DEN BROEK-M.J. VERMASEREN (eds.), Studies in Gnosti-cism and Hellenistic Religions presented to G. Quispel (EPRO 91), Leiden 1981, pp. 38-57.

109 Per l’identità tra Saturno e Ialdabaōth, cfr. Orig. Contr. Cels. VI, 22; vd. anche A.J. WELBURN, «The Identity of the Archons in the “Apocryphon Johannis”», in Vigiliae Christianae, 32 (1978), p. 249.

110 Vd. da ultimo L. LIPPERINI, Don Giovanni, Roma 2005, passim; e il transculturale M. NIOLA, Don Giovanni o della seduzione (Le Gomene 55), Napoli 2006.

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all’empio banchetto. Stigma della punizione divina, il bianco simulacro abbassa la fredda e pesante mano sul peccatore Don Giovanni, conducendolo con sé nei tenebrali regni della giustizia e della morte.