6 x 11 - Felix Hotels

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6 x 11 POLIEDRO 6 artisti interpretano la vita e l’opera di 11 donne esemplari della Sardegna Testi Cecilia Mariani • Foto Nelly Dietzel

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6 x 1 1POLIEDRO

6 artisti interpretano la vita e l’operadi 11 donne esemplari della Sardegna

Testi Cecilia Mariani • Foto Nelly Dietzel

5 Dedica di un libro

7 Magnifiche presenze.Di donne, artiste e cose sarde secondo il collettivo SEUNA LABCecilia Mariani

10 H 501. Anna Marongiu

14 H 502. Olimpia Melis Peralta

18 H 503. Edina Altara

24 H 504. Verdina Pensé

30 H 505. Maria Lai

34 H 506. Francesca Devoto

40 H 507. Marisa Sannia

44 H 508. Maria Carta

48 H 509. Grazia Deledda

56 H 510. Luisa Fancello

62 H 601. Coroneo

74 Gli artisti

76 Le autrici

Indice

Ideazione progetto e coordinamentoAntonello Cuccu

Allestimento 11 ambienti Residence Hotelrealizzazione supporti opere: Artigianato&Design su disegno di Antonello Cuccufornitura plexiglass: Neon Europa, Tecnoplast montaggio: Artigianato&Designprespaziati, forex e PVC: Photoservice

RealizzazioneTutte le opere del presente progetto sono stateappositamente realizzate da 6 artisti del collettivo artistico di Nuoro, SEUNA LAB, nel corso del 2014

Catalogopresentazione: Agostino Cicalòtesti storico-critici e apparati: Cecilia Marianifotografie: Nelly Dietzelgrafica: Antonio Foisediting: Anna Pau, Franca Fois, Nicoletta Magnabosco

RingraziamentiUn sentito grazie è rivolto a tutti coloro che a qualsiasi titolo hanno collaborato alla migliore riuscita dell’iniziativa, in modo particolare a Pietro Cicalò, responsabile di sede.

Stampa: Longo Spa

© Copyright giugno 2015POLIEDRO, Nuoro

ISBN 978-88-86741-5

Il Residence Grandi Magazzini nasce nel 2011, occupando i piani superiori di quel-lo che fu, a partire dal 1962, il primo Grande Magazzino a Nuoro realizzato da Pie-

trino Cicalò. Nel 2014 la struttura si amplia con 11 nuove unità inserite nell’Albergo Residen-ziale ed è in questo momento che una mostra al TRIBU ci ha fatto conoscere 6 ar-tisti di SEUNA LAB: spazio di creazione artistica totale, nel cuore di uno degli storicirioni di Nuoro. Le nuove 11 stanze attendevano di essere compiute con qualcosa che non fosse dimero arredo complementare. Ai SEUNA LAB, che subito hanno accettato la sfida, èstato proposto di realizzare liberamente un certo numero di opere (36 ne risultanoinfine) cucite sull’ipotesi di disegnare un percorso unitario per ambienti diversificati:6 giovani artisti avrebbero interpretato la vita e l’opera di 11 donne esemplari dellaSardegna. E in questa loro avventura, segnata prima di tutto da uno studio documen-tale, sono stati affiancati – oltre che dall’ideatore del canovaccio progettuale AntonelloCuccu – dalla fotografa Nelly Dietzel e dalla storica/critica dell’arte Cecilia Mariani, af-finché fosse restituito il senso del lavoro tramite l’oggettività fotografica e uno scrittoche avesse carattere divulgativo.L’idea primigenia di immettere in questa recente ala del Residence il lessico dell’espres-sione visiva più contemporanea – eco di altro lavoro svolto in precedenza, lavoro didonne, di figure profondamente inserite nel sociale così come lo sono adesso gli artistichiamati a interpretarle – è subito piaciuta. Soprattutto la proposta di porre un’artepiù matura a contatto diretto dell’utente che, entrando e vivendo nelle camere, in-staurasse un rapporto semplice e quotidiano con tali opere, motivate e non casuali,qui riservate ai clienti perché fruitori delle camere del Residence. Inter-attori di un av-vicinamento insolito, un dialogo privato, emotivamente diverso sia per le opere checondizionano ciascuna stanza, sia per le modulazioni differenti dei caratteri architet-tonici e del mobilio di servizio. Spazi e mobili interamente bianchi: fogli nei quali leopere visive sono frasi fatte di segno e di materia.In un viaggio che stimola l’immaginazione, ai visitatori è data l’opportunità di cono-scere 11 donne di Sardegna che hanno contribuito, con l’operato e la loro passioneper la vita, a esaltare la nostra storia e il peculiare carattere isolano.

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Dedica di un libro

La riconversione di uno storico spazio commerciale nuorese come i Grandi Magaz-zini Ruju Cicalò – siti al numero 1 della centrale via Dalmazia, fondati nel 1962 dal-

l’imprenditore Pietrino Cicalò – in una struttura alberghiera con ventisei mini-appar-tamenti, di cui undici ora dedicati ad altrettante artiste sarde, riesce a riunire in sé lecaratteristiche del progetto tanto ambizioso dal punto di vista aziendale e architet-tonico quanto esteticamente e concettualmente coerente. Non solo l’edificio, ribat-tezzato dal 2011 Residence Grandi Magazzini, è stato modificato in base alle nuovenecessità e finalità d’uso, secondo una formula che vuole coniugare le bellezze natu-rali e l’offerta culturale del capoluogo barbaricino con una proposta residenziale atutti gli effetti contemporanea, all’avanguardia nelle soluzioni tecnologiche e nel de-sign degli interni. Ora, con l’inaugurazione della nuova ala del complesso alberghiero,è la stessa idea di pernottamento e di soggiorno che è stata sottratta alla dimensionemeramente ordinaria della sosta a pagamento, per essere coniugata con una pecu-liare esperienza di incontro con alcune tra le maggiori esponenti del Novecento sardo,in ambito letterario e musicale oltre che nel campo delle arti visive e applicate.Vale già la pena notare, di passaggio, come sia curioso e significativo che questa de-dica abbia come sua ambientazione proprio i locali di un ex-Grande Magazzino, valea dire l’emblema occidentale e borghese di quella modernità economica e commer-ciale nata nel solco tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo e arrivata a Nuoro solonel secondo dopoguerra. Perché è proprio in questa sede bifronte del benessere edel peccato che la donna – a partire dalla donna mondana per eccellenza, quella fran-cese, l’iconica parisiènne – sarebbe sempre stata il principale soggetto (attivo) e og-getto (passivo) dei meccanismi del mercato: voyeuse, buyer e merce al tempo stesso.Qui, invece, in un’ala del Residence totalmente rinnovata, undici donne non comuni,alcune delle quali tra le principali protagoniste del Novecento isolano, si identificanonon con l’idea domestica e implicitamente segregante di casa o, peggio, con l’areasemantica della compravendita, bensì con il senso più ampio di un’accoglienza calo-rosa ma mai servile nei confronti dell’ospite: per riceverlo, raccontargli una storia – lapropria, quella di un’Isola – e, allo stesso tempo, interrogarlo.Undici ambienti per undici donne, undici nomi familiari sia a un pubblico locale e re-gionale sia, spesso, anche italiano e internazionale. Sono: la scrittrice e Premio Nobel

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Magnifiche presenze.Di donne, artiste e cose sarde secondo il collettivo SEUNA LABCecilia Mariani

E questo è anche il piccolo contributo al progetto del Distretto Culturale del Nuoreseche mette insieme la Cultura all’Economia del territorio. Un segno tangibile di quanto scriveva nel 1894 Grazia Deledda (Premio Nobel per laLetteratura, 1926) in Tradizioni popolari di Nuoro:«Nuoro è chiamata scherzosamente, dai giovani artisti sardi, l’Atene della Sardegna.Infatti, relativamente, è il paese più colto e battagliero dell’isola. Abbiamo artisti e poe-ti, scrittori ed eruditi, giovani forti e gentili, taluni dei quali fanno onore alla Sardegnae sono avviati anche verso una relativa celebrità».

A Maria Fois, nostra mamma, che pazientemente ci sostiene nei progetti.

Antonio, Angela, Agostino, Gianfranco, Luciana Cicalò

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Grazia Deledda (Nuoro, 1871-Roma, 1936); la pittrice Francesca Devoto (Nuoro, 1912-1989); l’illustratrice, decoratrice, designer e stilista Edina Altara (Sassari, 1898-Lanusei,1983); le sorelle Coroneo, ovvero le artiste, illustratrici e artigiane Giuseppina (Cagliari,1896-1978) e Albina (Cagliari, 1898-1994); la pittrice e designer di gioielli Verdina Pensé(Alghero, 1913-1984); l’imprenditrice Olimpia Melis Peralta (Bosa, 1887-1975); la rica-matrice Luisa Fancello (Dorgali, 1910-1982); l’illustratrice e autrice di incisioni AnnaMarongiu (Cagliari, 1907-Roma, 1941); l’artista Maria Lai (Ulassai, 1919-Cardedu, 2013);le cantanti e cantautrici Marisa Sannia (Iglesias, 1947-Cagliari, 2008) e Maria Carta (Si-ligo, 1934-Roma, 1994).Ad evocarne le “magnifiche presenze”, il collettivo SEUNA LAB, gruppo di artisti nuoresiattivo dal 2006, caratterizzato da un radicamento corale alla realtà del capoluogo e dauna polifonia espressiva che anche in questa occasione (con l’eccezione di alcuni esitiinsoliti e sperimentali) si è esplicitata nelle diverse soluzioni tecniche e stilistiche adot-tate di preferenza dai suoi componenti: incisione per Pasquale Bassu (1979), pitturaper Gianni Casagrande (1963), installazione, stampa e scultura per Vincenzo Grosso(1977), scultura per Sergio Fronteddu (1982), installazione, pittura e collage per StefanoMarongiu (1977) e Vincenzo Pattusi (1978). Chiamati a confrontarsi con le figure fem-minili in questione – in un dialogo che ha voluto tenerne presenti sia le vicende bio-grafiche, sia le rispettive e peculiari eredità più propriamente estetiche, approcciate inmodo diretto o mediate dall’attuale stato degli studi – i sei artisti hanno instaurato conqueste matres potenzialmente ingombranti “una corrispondenza di amorosi intelletti”(più che di “sensi”) andata oltre il mero e prevedibile omaggio, come invece ci si sarebbepotuti aspettare da parte di ricerche più giovani: sia rispetto ad alcune tra le più grandie note interpreti della scena culturale isolana del secolo passato (come Grazia Deleddae Maria Lai), sia nei confronti di quelle figure, per così dire, minori, che meglio ebberomodo di esprimersi in una dimesione sostanzialmente privata o squisitamente popo-lare (come nel caso di Luisa Fancello). Così, ogni ambiente risulta, sì, abitato dalla pre-senza della figura femminile cui esso è dedicato, ma al tempo stesso indelebilmentepermeato dalla lettura personale datane dalle riconoscibili sensibilità poetiche e stili-stiche di Bassu e Casagrande, Grosso e Fronteddu, Marongiu e Pattusi.Primo pregio del suggestivo risultato, che concede in verità assai poco al timore re-verenziale, è il suo non ricorrere al semplicistico stereotipo, il suo non rifugiarsi nel-l’ancora più scontato encomio; al contrario, in questi “ritratti”, non mancano di affiorare– come fiumi carsici di inchiostro, pittura e colla – i fiotti sommersi delle aporie, delleincongruenze e delle inquietudini che accompagnarono le artiste nei rispettivi per-corsi esistenziali ed estetici, quando non nelle loro eredità post mortem. Al visitatoreil compito di decifrarne il gioco di specchi e di sguardi, limpidi e insieme obliqui, e diaccoglierne l’invito a un viaggio del pensiero che, nella temporanea permanenza inqueste nuove stanze, vuole avere solo la sua prima tappa.

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quasi in stile reportage, nasconde però uno sguardocaldo da parte del suo osservatore: mostrando unesempio di attuale degrado urbano, l’artista nonsembra interessato a denunciarlo, ma piuttosto aportargli affetto, nel dispiacere per l’evidente condi-zione di declino. Il breve tratto di salita, sul quale siaffaccia il cadente stabile d’epoca, appare così comeil ritratto – umoristico e pirandelliano – di una damaprecocemente invecchiata, che ancora ami esibireai passanti le prove di un lindore appena trascorso.Di tutt’altro segno è invece il dialogo instaurato conAnna Marongiu da Vincenzo Grosso, che prende lemosse da una rielaborazione della tecnica predilettadall’artista – quella dell’incisione – e da una riletturacritica del toposdel paesaggio, sempre caro al suo im-maginario. Grosso realizza così due stampe dal sog-getto singolare, declinando il procedimento al fine diesprimere le attuali criticità del rapporto tra uomo ecittà e tra uomo e natura. In Tombino a Seuna la stam-pa nera su carta raffigurante la superficie di un tom-bino di scolo del quartiere nuorese in cui Grosso è na-to e cresciuto – Seuna, appunto, sede stessa dellostudio del collettivo – sottende un tentativo di inte-razione con le vedute paesaggistiche con cui AnnaMarongiu aveva omaggiato la propria città d’origine.Grosso sceglie di fare lo stesso con una Nuoro che di-viene però archetipo dello spazio urbano nella suagenericità, e accantonando l’idea dello sguardo con-templativo d’insieme per prediligere un dettaglio noncasuale del contesto cittadino, carico di significati al-lusivi: per l’appunto, un tombino fognario. Sulla stam-pa, realizzata inchiostrando lo stesso oggetto usatocome matrice, si riesce a decifrare, in senso contrarioa quello dell’andamento di lettura, la Fonderia di pro-venienza, quella cagliaritana di Dino Pusceddu; manon è che un rimando casuale e capzioso, tanto piùche l’atteggiamento dell’artista nei confronti del sog-getto ritratto non potrebbe essere più diverso rispettoa quello di Anna Marongiu. L’impronta in scala 1:1,

dall’aspetto macabro e perturbante, suggerisce difattiun atteggiamento critico e poco lusinghiero da partedell’autore non tanto nei confronti del capoluogobarbaricino, quanto rispetto alla società contempora-nea nel suo complesso, che nel suo stato di apatia eperenne distrazione si accontenta di vedere poichéincapace di osservare. Il tombino fognario, in questosenso, è quell’elemento di presunta civiltà sul qualeGrosso riporta provocatoriamente l’attenzione, eleg-gendolo a simbolo dell’oblio, dell’abbandono, dell’in-differenza verso il flusso indesiderato di cascami chela vita implica nel suo accadere. La stessa visione si ri-trova in Abused, stampa a carbone su tela realizzatautilizzando come matrice una trave di legno in sezio-ne longitudinale. La trave, ritrovata da Grosso nel 2011in un quartiere sud di Londra, era parte di un edificorisalente alla metà del Settecento; scovata tra i detriticonseguenti un’operazione di restauro, ma ancoraperfettamente integra e adatta a compiere la sua fun-zione edilizia, l’artista ha deciso di sottrarla al maceroe all’oblio, trafugandola a mo’ di reliquia e trasferen-dola in Sardegna per garantirle una continuità di vitae di memoria; cosparsa di carbone e poggiata sullatela, essa ha rilasciato la sua impronta, oggi esposta.Tanta cura nei confronti dell’oggetto si spiega con l’at-tribuzione ad esso di un significato universale, e conl’identificazione – nel senso auspicato di una riconci-liazione – tra il legno (inteso in senso sineddotico peril creato nella sua totalità) e l’essere umano. Additandoe risolvendo in questo modo una delle conflittualitàpiù tipiche dell’Occidente – quella tra cultura e natura,tra ordine e caos, tra artificialità e spontaneità – Abu-sed suggerisce il senso di un paesaggio offeso, sfrut-tato, seviziato e nel contempo incarnato dall’uomocontemporaneo: la trave, la cui pressione va a marcareorganicamente il quadro trasformandolo in una sortadi evocativa Sindone, si fa così metafora e simbolodella vitalità universale, di un unico ciocco fragile eprezioso al tempo stesso.

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Anna Marongiu (Cagliari, 1907-Roma, 1941). Diploma-ta ragioniera per volontà familiare ma attratta da

sempre dalle arti visive, si distinse precocemente, da auto-didatta, nei campi del disegno, dell’illustrazione e della ca-ricatura. Alla fine degli anni Venti, appena maggiorennema assolutamente certa della sua vocazione d’artista,partì alla volta di Roma, dove studiò presso l’AccademiaBritannica e frequentò gli studi del pittore Umberto Coro-maldi e del cugino architetto Giuseppe Capponi. Il suo for-tunato esordio, nel 1929 a Cagliari, la vedrà presente nellesale della mostra Primavera sarda accanto a colleghi af-fermati come Giuseppe Biasi e Mario Delitala, e questa oc-casione segnerà per lei l’inizio di un lungo e acclamatopercorso espositivo. Con tavole acquerellate e disegni apenna, Anna Marongiu illustrerà i testi di Manzoni, Dic-kens e Shakespeare, prima di scoprire, all’alba degli anniTrenta, un’eccellente inclinazione naturale per la tecnicadell’acquaforte, appresa a Roma sotto la guida di CarloAlberto Petrucci e approfondita nello studio della grandetradizione secentesca e nella frequentazione degli incisoriitaliani contemporanei, non ultimo il conterraneo FeliceMelis Marini (Cagliari, 1871-1953). Proprio il maestro del-l’incisione sarda gli ispirerà la svolta verso le vedute pae-saggistiche, sebbene l’artista, ormai affermata acquafor-tista, si distinguerà sempre dai conterranei colleghi incisori

per una sostanziale indifferenza tematica nei confronti delfolklore e della vita popolare. Anna Marongiu portò sem-pre avanti una ricerca personalissima e originale scevrada ogni obbligato regionalismo, dimostrandosi più attrat-ta dalle ambientazioni urbane e da ispirazioni eterogenee,spaziando dalla tematica circense a quella del sacro. Tor-nata a Cagliari allo scoppio della seconda guerra mon-diale, l’artista realizzò tra il 1936 e il 1941 la serie chel’avrebbe resa più famosa: le quindici acqueforti dedicatealle Vedute di Cagliari sono il ritratto allegro e minuziosodi una città ricordata per le architetture e i monumenti piùsuggestivi, gli stessi che a lungo costituirono il vanto delcapoluogo prima che i bombardamenti ne mutasserotragicamente e improvvisamente l’aspetto.1

E proprio alle vedute urbane dedicate da Anna Ma-rongiu alla sua Cagliari si ispira la linoleografia in cuiPasquale Bassu ritrae uno scorcio della nuorese ViaMajore. Della strada, che è l’attuale Corso Garibaldi,e in cui si trova uno dei caffè simbolo del salotto cit-tadino – l’omonimo Bar Majore-Caffè Tettamanzi, ce-lebrato da Salvatore Satta nel romanzo Il giorno delgiudizio – Bassu inquadra però una curva poco mon-dana, soffermandosi a descrivere un vecchio edificioabbandonato. Il taglio fotografico dell’immagine,

H 501. ANNA MARONGIU

1. Su Anna Marongiu cfr. W. SHAKESPEARE, Il sogno di una notted’estate, pubblicazione speciale in occasione della mostra retro-spettiva dell’artista (Cagliari, Cittadella dei Musei, 23-28 febbraio2002), Cagliari, Soroptimist International Club, 2002; G. ALTEA, M.MAGNANI, Pittura e scultura dal 1930 al 1960, Nuoro, Ilisso, 2000,pp. 64, 67-69, 74, 86, 102, 104, 157, 163, 264; G. ALTEA, M. MAGNANI,Pittura e scultura del primo ’900, Nuoro, Ilisso, 1995, p. 287; A. MA-RONGIU PERNIS, Tavole per «I Promessi sposi», a cura di M. Crespellani

e L. Rogier, Cagliari, Edizioni della Torre, 1999; G. ALTEA, M. MA-GNANI, Le matite di un popolo barbaro. Grafici e illustratori sardi1905-1935, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 1990, pp. 148,179; L. PILONI,Cagliari nelle sue stampe, Cagliari, Edizioni della Tor-re, 1988, p. 303; Quarant’anni di incisione artistica in Sardegna:1930-1970, catalogo della mostra a cura di S. Naitza e M.G. Scano(Quartu Sant’Elena, 15-29 marzo 1986), Quartu Sant’Elena, Il da-do, 1986. Si veda anche il sito dedicato: www.marongiu.org.

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PASQUALE BASSU,Via Majore, 2014matrice inlinoleum

VINCENZO GROSSO,Tombino a Seuna,2014, stampa a inchiostro su carta

VINCENZO GROSSO,Abused, 2014stampa a carbonesu tela

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2. Su Olimpia Melis Peralta cfr. G. ALTEA, M. MAGNANI, Pittura e scul-tura dal 1930 al 1960, Nuoro, Ilisso, 2000, p. 254; G. ALTEA, M. MA-GNANI, Pittura e scultura del primo ’900, Nuoro, Ilisso, 1995, pp. 199,209; C’era un fiume e nel fiume il mare. I fratelli Melis: una famigliadi artisti in una fiaba moderna interpretata da giovani illustratori

d’oggi, catalogo della mostra a cura di A.M. Montaldo e A. Cuccu(Cagliari, ExMà. Centro d’Arte e Cultura, 28 maggio-8 settembre1996), Cagliari, Stampacolor, 1996. Sui fratelli Melis cfr. A. CUCCU,A. FAETI, Pino Melis, Nuoro, Ilisso, 2007; A. CUCCU, Melkiorre Melis,Nuoro, Ilisso, 2004.

Olimpia Melis Peralta (Bosa, 1887-1975). Sorella delpittore Melkiorre (Bosa, 1889-Roma, 1982), del ce-

ramista Federico (Bosa, 1891-Urbania, 1969) e dell’illu-stratore Pino (Bosa, 1902-Roma, 1985), Olimpia è laquarta eccellenza creativa di una famiglia bosana ca-pace di lasciare un’impronta significativa nella storiadelle arti visive e applicate dell’Isola. A partire dagli anniDieci del Novecento, dimostrando uno spirito impren-ditoriale insolito per una donna del tempo, Olimpia al-lestì infatti nel paese natale una vera e propria industriadel filet, che si distinse per originalità e ottima fattura,arrivando ad esportare e vendere i propri lavori nella Pe-nisola, in Europa e negli Stati Uniti. Donna coraggiosae intraprendente, Olimpia non ridusse però mai l’arteantica dell’ordito a una mera produzione seriale che silimitasse a replicare in modo sterile i manufatti dellatradizione: sensibile alle suggestioni dell’Art Deco, Olim-pia rielaborò i motivi caratteristici del passato per ade-guarli alle nuove richieste in fatto di arredo, corredo ebiancheria per la casa, innovando le stesse finalità d’usodelle decorazioni e applicandole in modo inedito suitessuti. Il suo percorso esistenziale e creativo la pone didiritto nel novero degli artisti a lei contemporanei – inprimis i fratelli – che riuscirono a instaurare un dialogofelice tra le direttive estetiche del passato e le nuove ri-

chieste del presente, in una rilettura dell’eredità artigia-nale sarda capace di proiettarla e farle vivere una nuo-va vita nel futuro, in patria come all’estero.2

Fa pensare alle pagine celebri di una rivista storicacome Mani di fata o ai fotogrammi di un video tuto-rial pubblicato on line l’opera (Senza titolo) che a leidedica Vincenzo Pattusi: diciotto riquadri disposti insei file orizzontali da tre, diciotto istantanee dedicatea illustrare i numerosi passaggi individuali necessariper ottenere appena il punto iniziale per la lavorazio-ne del filet. Scomponendo il gesto sicuro e veloce didue mani di donna, Pattusi dilata nel tempo (anchegrazie alla moltiplicazione data dallo specchio) l’atti-mo di questo arché artigiano, conferendo a mossealtrimenti automatiche l’andamento solenne datodall’effetto ralenti cinematografico. L’alternanza rego-lare dei fermo immagine sfocia così in ritmo visivo,mentre le singole figure, disposte secondo lo schemarazionale della griglia, rimano tra loro nello spezzarsie ricongiungersi delle linee – quelle rette degli unci-netti e dei fili tesi; quelle ricurve delle dita e dei filisciolti – e nell’eleganza uniforme del bianco e nero.A sua volta, il polittico di Stefano Marongiu (Senza ti-tolo) si pone come triplice tappa futura di un imma-

H 502. OLIMPIA MELIS PERALTA

ginato lavorio. I tre pannelli verticali mirano difatti a ri-produrre altrettanti telai – di cui uno dotato di cornice– con reticoli di fili tesi e abbozzi di decorazioni. A do-nare un potere particolarmente evocativo alle super-fici rettangolari contribuisce la tecnica street utilizzataper ricavare i reticoli – lo stencil – che grazie alle con-centrazioni irregolari della vernice nera vaporizzata suisupporti di forex dona loro un aspetto appena con-fuso, fumoso, quasi di radiogramma. È come se le li-nee bianche dei motivi ornamentali riaffiorassero dal-le nebbie di un passato dimenticato, per imprimersicon la forza di incisioni nette e bianco-gesso sulle su-perfici ad effetto lavagna: nell’evanescenza dei fondalineri si stagliano i punti e i tratti di un alfabeto Morseche può essere ancora lingua comune, codice binariocome il battere e il levare di un andamento musicale,sbordature geometriche di pura astrazione o di me-moria naturale, monti e valli. E casette stilizzate, ancoraabitate dalla memoria e dalla sapienza artigiana.

VINCENZO PATTUSI,Senza titolo, 2014

polittico – matita sucarta – specchio

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STEFANO MARONGIU,Senza titolo, 2014trittico – stencil eincisione su forex

Edina Altara (Sassari, 1898-Lanusei, 1983). Attratta findall’infanzia dall’arte del disegno e del collage, inizia

la sua ricerca da giovanissima autodidatta, venendo pre-sto apprezzata da illustri colleghi e lodata dai critici piùimportanti del momento. Animo poliedrico, sensibile efantasioso, dopo le nozze nel 1924 con Vittorio Accornerode Testa – artista noto con lo pseudonimo di Victor MaxNinon – lavorerà con lui a Milano come illustratrice Deco.Dopo la fine del matrimonio (1935), Edina continuerà asperimentare in modo autonomo e con esiti brillanti neicampi della grafica (libri di racconti per ragazzi, riviste,periodici, pubblicità), della moda (aprirà un raffinato ate-lier nella propria casa di Milano), della ceramica e delladecorazione tout court. Nel 1942 inizierà il suo fortunatosodalizio con il celebre architetto Gio Ponti: Altara realiz-zerà copertine e figurini per la rivista femminile Bellezza,e poi, dal 1946, pubblicherà progetti d’arredo e designsulle prestigiose pagine di Stile e Domus. Agli anni dellacollaborazione con Ponti risalgono le sue decorazioni dinumerosi oggetti ideati dal designer, e la progettazionedegli arredi per varie navi transatlantiche – il Conte Bian-camano, il Conte Bianco, l’Andrea Doria. Come per fa-talità, l’esistenza dorata dell’artista conoscerà una finequasi da romanzo d’appendice: dopo la scomparsa delledue sorelle Iride e Lavinia – artiste a propria volta, e spessosue collaboratrici – Edina morirà priva di lucidità mentalein una casa di cura per disturbi psichiatrici nel paese di

Lanusei, contrappasso infelice di una vita trascorsa nellaricerca della bellezza in ogni sua forma – non ultima,quella materiale.3

Con le sculturine di L’altra faccia dell’Isola Stefano Ma-rongiu sceglie di riferirsi al primo periodo delle ricerchedi Altara, riportando la memoria dell’osservatore allesue prove d’esordio. Il pensiero va ai piccoli pupazzi dicarta costruiti tra gli anni Dieci e gli anni Venti, che tan-to piacquero a un estimatore della prima ora dell’operadi Edina quale fu Giuseppe Biasi, ma andati distrutti odispersi, e visibili ora solo tramite foto d’epoca. Comein una teoria di scatole cinesi, Marongiu inserisce nuovielementi di gioco in oggetti dall’anima già natural-mente ludica, riproponendo in una chiave critica per-sonale le figurine degli abitanti dell’Isola nei coloraticostumi popolari. L’artista ne semplifica ulteriormentele forme e le linee, ne riduce la gamma cromatica aquella dei colori primari e secondari, e ne contaminal’esito finale con citazioni della cultura visiva contem-poranea e dell’immaginario legato al mondo dei man-ga e degli animegiapponesi. Nel sottrarre una dimen-sione agli oggetti, Marongiu inserisce poi un elementodi firma, poiché le sagome sono ottenute assemblan-do ritagli di un materiale di recupero ricorrente in nu-merosi suoi lavori: comuni sottobicchieri di carta,stampati in nero con dettagli di riprese ambientali

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H 503. EDINA ALTARA

3. Su Edina Altara cfr. G. ALTEA, Edina Altara, Nuoro, Ilisso, 2005; G.ALTEA, M. MAGNANI, Pittura e scultura dal 1930 al 1960, Nuoro, Ilisso,2000, pp. 69, 251, 260-261, 266, 268; G. ALTEA, M. MAGNANI, Pittura

e scultura del primo ’900, Nuoro, Ilisso, 1995, pp. 134, 150, 166-171, 176, 192, 199, 210-213.

aeree e di carte geografiche. Divenute abbigliamentodelle silhouettes in miniatura, le sezioni di cartoncinosostituiscono così stralci indefiniti di paesaggio aglielementi decorativi a carattere geometrico o florealedegli abiti tradizionali femminili, quasi a suggerire unnuovo, ibrido, senso di appartenenza, un’intersezionenecessaria e inevitabile di culture e orizzonti, local eglobal nel contempo. Le cinque figurine ben rimanotra loro, in un’armonia riuscita di posture, geometrie ecolori: l’unità modulare del quadrato, che coincide, ap-punto, con la forma di partenza del sottobicchiere, siripete, a cadenza fissa e ruotata di 45°, per divenire ba-se d’appoggio/sottana delle donnine in posa, ma l’ar-tista la sfrutta anche nella sua funzione originaria nelmomento in cui vi adagia un elemento apparente-mente fuori contesto come un cubo di Rubik. In vestedi ready made ludico per antonomasia, l’iconico rom-picapo è, insieme, un dettaglio straniante, semiserio eperfettamente camaleontico: se la forma regolare e ri-petuta del quadrato e la ripresa della palette cromaticadelle sagome contribuiscono a una sua mimetizzazio-ne ideale, è proprio la sua superficie, stampata a pro-pria volta con le impronte nere di un territorio non ri-conoscibile, a suggerire il senso ancora frustrante diun’instabilità identitaria e di un equilibrio precario, unrebus geografico dall’esito mobile e sempre alterabilee rinegoziabile. Alla lettera: manipolabile.Alla stagione più matura della ricerca artistica e dellavita di Altara si ispira invece Gianni Casagrande, chenel dittico À la guerre comme à l’amour e nel politticoPerduta! sembra sbilanciarsi nel restituire un ritrattopoco lusinghiero – e per certi aspetti vanaglorioso eaddirittura inetto – dell’artista sassarese. Come in sce-nette di commedia alto-borghese, Edina appare ridot-ta a recitare la parte della bella dama gioviale, sedutaa conversare in un salotto-bene (Cattive notizie) o investe di commensale in un ristorante di lusso (Una se-rata perfetta). A cariare ulteriormente la dolcezza degliintrattenimenti sociali di cui l’artista era evidentemen-

te una habitué, Casagrande inserisce in entrambe lerappresentazioni pericolosi elementi fuori contesto,dettagli stranianti, che guastano il placido benesseredelle due occasioni mondane conferendo loro un’at-mosfera surreale e grottesca. L’appartamento in cuiEdina si ritrova per chiacchierare con un’altra donnadenuncia subito, nella tappezzeria a rigoni verdi ebianchi, lo status altolocato dei padroni di casa. Maecco che a turbare gli equilibri dell’ensamble il pittorefa spuntare dalle pareti – in vece dei caratteristici trofeidi caccia – le impossibili teste magnificate di una lo-custa e di una mosca Tzé-Tzé, mentre un’enorme far-falla brasiliana apre le sue ali blu cobalto in un granderiquadro bianco. Le Cattive notizie a cui fa riferimentoil titolo, e che forse Edina apprende dal carteggio chetiene tra le mani, leggendolo col sorriso truccato,sembrerebbero ridursi proprio a questo: al finto peri-colo di un “Oriente” lontano, quasi da film dei TelefoniBianchi, talmente inoffensivo da essere addirittura so-gnato con struggimento esotizzante; nient’altro, in-somma, che una fantasticheria posticcia, da bourge-oisie annoiata e incapace di darsi con coraggio oltre ilrecinto dorato del proprio privilegio. Ancora più sub-dole, poi, appaiono le allusioni sottese a Una serataperfetta, in cui l’artista è ritratta perfettamente a pro-prio agio mentre divide il tavolo con un militare di altogrado: disinvolta nella sua tenuta da cena elegante,in un contesto glamour quasi da crociera, Edina fa tin-tinnare senza remore il proprio calice con quello delconvitato, incurante però dell’uncino che egli sfoggiain vece della mano destra e della placca metallica chene ricostruisce la parte sinistra del volto evidentemen-te deturpato. Il rischio di una possibile resa a una mo-ralità tanto frivola quanto equivoca sembra fare da co-mune denominatore al piccolo dittico di Casagrande,che con cura espressionistica e miniaturistica rimarcain punta di pennello una sgradevolezza da perennemascherata sociale, dotando di significati nascosti esimbolici i vari elementi di scena. Come se Altara e il

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suo mondo, nella visione del pittore, si ritrovassero afare “la guerra” così come avrebbero fatto “l’amore”: inmodo altrettanto cinico e insincero. Nulla è lasciato alcaso: la fedeltà entomologica con cui sono rese le te-ste d’insetto va di pari passo con la cura di dettagli ap-parentemente insignificanti eppure massimamenteconnotativi di uno status privilegiato, quali i libri op-portunamente chiusi sul coffee table del soggiornino,la sigaretta accesa tra le dita dal mefistofelico com-mensale, il vino tenuto in fresco nella boule d’acciaioda un cameriere in livrea. Traducendo in immagini ilpossibile risvolto in negativo di una compromissionecon le “alte sfere” (della società, della cultura, degli af-fari), il pittore getta così un’ombra dubitativa che fini-sce col rendere poca giustizia a un’artista che più diqualunque altra tra le conterranee seppe vivere, allamaniera del più lecito dandy, una vita sempre esteti-camente ambiziosa, sia nel pubblico che nel privato.

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E se appena più benevolo appare lo sguardo di Ca-sagrande nel trittico Perduta!, l’impressione corre ilrischio di essere presto smentita dall’esito del pere-grinare – in tre tappe e senza meta – di un’Edina fuo-riuscita dal suo habitat d’elezione, quello domesticoe urbano. Sullo sfondo di una vegetazione sempre-verde, con indosso una veste che è candida come ilcielo vuoto oltre il prato e i cespugli, l’esile silhouettevaga e si dispera, priva di punti di riferimento e inca-pace di trovare una direzione. L’unico esito immagi-nabile per questa figurina sonnambula gettata nellaselva del mondo è quello, ancora una volta, di unaresa docile alla bellezza: per ritrovare l’orientamento,a Edina non resta che abbandonarsi alla natura, e qui,accasciata tra le frasche, trascorrere le ore annusandoi fiori selvatici. Come un’eroina da melodramma, cheattenda paziente l’arrivo del verme perfido e insiemesalvifico della follia.

GIANNICASAGRANDE,À la guerre commeà l’amour(Una serataperfetta, Cattivenotizie), 2014dittico – acrilicosu tela

GIANNICASAGRANDE,

Perduta!, 2014trittico – acrilico

su tela

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STEFANO MARONGIU,L’altra facciadell’Isola, 2014collage con readymade modificato,acrilico

Verdina Pensé (Alghero, 1913-1984). La sua notorietàè legata a doppio filo a quella di Alghero, sua città

natale che a partire dagli anni Cinquanta, grazie ai corsidi formazione promossi dall’ENAPI (Ente Nazionale perl’Artigianato e le Piccole Industrie, dal 1951) e alla conse-guente attività espositiva incentivata dall’ISOLA (IstitutoSardo Organizzazione Lavoro Artigiano, dal 1957, con acapo Eugenio Tavolara e Ubaldo Badas), conobbe una ri-nascita legata alla valorizzazione dell’oreficeria e della la-vorazione del corallo, da sempre presente nelle acque del-la costa sarda nord-occidentale. Dopo avere frequentatol’Istituto d’Arte di Sassari, dove studiò sotto la guida del-l’allora direttore Filippo Figari, Pensé si cimentò dapprimanella pittura, ma la abbandonò presto per assecondarela propria vocazione per la manifattura e la creazione digioielli. Decisa a valorizzare le eccellenze del territorio, Ver-dina riuscì a coronare il sogno di fondare (1952) e dirigere(fino al 1959) proprio nella città catalana una Scuola delCorallo, dapprima sede staccata del complesso scolasticoturritano e divenuta in seguito, a propria volta, Istituto Sta-tale d’Arte. Attiva anche in privato con una sua bottega,Pensé si distinse sempre per lo stile primitivista e ingenuo(näif ) dei suoi gioielli, realizzati con tecniche poco elabo-rate mirate ad esaltare le forme grezze e le cromie naturalidelle materie prime utilizzate, in linea con le più aggior-

nate tendenze nell’ambito della creazione di gioielli nellaseconda metà del Novecento.4

La Toeletta ideata per lei da Stefano Marongiu è un’in-stallazione ibrida, che intreccia insieme le linee delready made e dell’objet trouvé, elementi di collage e dipittura. A una prima osservazione frettolosa sembre-rebbe solo un semplice treppiede in legno, con soprauna specchiera da tavolo e un altro specchietto a ma-no; nient’altro che una ricostruzione scenografica diun dettaglio di boudoir di inizio secolo, ma anche unangolo di stanza da letto o da bagno arredato in stileretrò da un’assente padrona di casa, che però propriolì di fronte ami sostare per provare preziosi e belletti.Se l’ensambledi oggetti spicca innanzitutto per il fortecontrasto con gli arredi del Residence, dal design con-temporaneo lineare e pulito, il lavoro di Marongiu, aben grattare sotto la rassicurante patina vintage, si ri-vela però variamente allusivo nella sua complessità.La vecchia toeletta ritrovata in cantina, qui rimessa anuovo con una mano di vernice bordeaux, porta consé il carico affettivo dato dalla familiarità, in quanto ap-partenuta alla nonna dell’artista, plausibile coetaneadell’artigiana algherese; a sua volta, la specchiera ba-sculante, dalla pesante cornice dorata di ascendenza

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H 504. VERDINA PENSÉ

4. Su Verdina Pensé cfr. G. ALTEA, “Tradizione e innovazione nelgioiello contemporaneo. Dal designer per l’oreficeria all’artigia-no-artista”, in Gioielli. Storia, linguaggio, religiosità dell’ornamentoin Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2004, pp. 382-386; G. ALTEA, M. MAGNANI,Pittura e scultura dal 1930 al 1960, Nuoro, Ilisso, 2000, pp. 269, 280.

Sui gioielli e gli ornamenti preziosi in Sardegna cfr. Gioielli. Storia,linguaggio, religiosità dell’ornamento in Sardegna, Nuoro, Ilisso,2004; Gli ornamenti preziosi dei sardi, Sassari, Delfino Editore, 1999;G. ALTEA, I gioielli d’arte in Sardegna, Sassari, Delfino Editore, 1995.

barocca, denuncia una provenienza romantica damarché au puces nello spesso strato ossidato del suocontorno, che si contrappone ulteriormente all’aspet-to kitsch e tarocco, da vero e proprio giocattolo infan-tile, del più piccolo specchietto a mano in materialeplastico. Ma l’elemento più insolito della compositapostazione di bellezza è proprio la sua inefficienza inquanto tale, poiché nessuna vera superficie riflettentesi offre all’uso dell’osservatore. Negli spazi predispostiper gli specchi Marongiu ha infatti applicato, con unaresa letterale e insieme straniante del concetto di“specchio d’acqua”, dei disegni raffiguranti la battigia;e a contemplare le onde che si infrangono spumosesulla riva, ecco comparire – al posto di una figurinafemminile in miniatura a fare le prevedibili veci dellastessa Pensé – il dettaglio “impossibile” e caro all’im-maginario dell’artista di un indicatore di posizione damappa geografica digitale. Rosso, non a caso, comeil corallo; e, come il corallo, appuntito e stondato nelcontempo. Nel negarne la funzione di restitutori di lu-ci, forme e colori, Marongiu trasforma gli specchi inveri e propri quadri, in schermi bloccati nella proiezio-ne di un significativo fermo immagine – la ricerca el’attesa legate alla pesca e alla lavorazione del corallo,alla creazione artigianale di un “bello” che sia da indos-sare – ma anche in possibili finestre spazio-temporali,onirici stargateda camera attraverso i quali approdarein una dimensione inesplorata, che fonda insieme i ri-cordi di un mestiere antico e le tracce di quella realtàvirtuale in cui la contemporaneità sembra voler an-negare i suoi vivi. Così, la giustapposizione affatto ca-suale degli elementi “pronti” e “modificati” e la creazio-ne ex novo delle parti grafiche confluiscono inun’evocazione di Pensé in una chiave originalissima:spiritico-sentimentale da una parte, e fantascientifi-co-digitale dall’altra.In una dimensione di pura surrealtà sottomarina im-merge a propria volta il polittico Coralli, dipinto daGianni Casagrande. Di fronte all’osservatore, come

dentro un acquario in quattro tempi, figurine umanesolitarie o in coppia esplorano assorte un fondale cheappare però privo di pesci e dei preziosi rossori. Ladonna con bambina (Un pensiero per la nipotina), lavecchina con borsetta (Il regalo della madrina) e i duegiovani innamorati (L’anello di fidanzamento) scrutanocon cura le rocce vestite di alghe, muschi e mucilla-gini, complici inconsapevoli di un’avvenuta scompar-sa, semplici acquirenti di una merce ormai rara. Senzamute subacquee, maschere e bombole d’ossigeno, ipersonaggi vagano in borghese negli abissi, mentrealtri si tuffano o risalgono in superficie a scelta com-piuta. A queste immagini sognanti, all’apparenza gio-cose e rassicuranti come in una fantasticheria di MarcChagall, alla mollezza elastica dei flutti accoglienti chenon annegano gli avventori per renderli complici diun “delitto”, Casagrande affida quella che appare la cri-tica a posteriori di una compravendita divenuta veroe proprio business: se la lavorazione del corallo ha rap-presentato a lungo una delle specialità dell’artigianatoisolano, con una scuola dedicata e una produzionemanifatturiera d’eccellenza, il contrappasso ha peròportato a sacrificare l’equilibrio di un ecosistema sul-l’altare di un abbellimento sempre più chiassoso e dirapina. Per questo, forse, i vari e numerosi pesci, abi-tanti legittimi del mare, possono ritornare solo dopo,quando la calma è stata finalmente ristabilita: ai ba-gliori madreperlacei delle loro squame il pittore sem-bra consegnare ciò che resta del saccheggio, la con-templazione muta dell’esito di una pesca spintatroppo oltre (Acqua). Eppure, le figure umane che Ca-sagrande ritrae nel compimento di una recherche su-bacquea tanto spontanea quanto frustrante pongo-no l’osservatore anche di fronte a un innegabilecontraltare poetico nel momento in cui il loro atto silibera dei condizionamenti materiali per assumeresfumature storiche e simboliche. Come in una tradu-zione per immagini delle pagine scritte da NereideRudas – L’isola dei coralli (1997) – anche i personaggi

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ritratti dal pittore setacciano palmo a palmo i fondalie le grotte ombrose alla ricerca del prezioso rubrum(nascosto, assente o per sempre perduto) nel tentati-vo di trovare se stessi, la propria identità inabissata eramificata: come se a oggi questa potesse ancora ave-re un suo equivalente nel mistero biologico di unacreatura di riviera appartenente ai tre mondi (mine-rale, vegetale, animale), la quale oltrepassi presto l’ere-dità di una nascita molle per volgere se stessa versole forme fisse e aguzze di una morte frastagliata, sin-golarmente screziata di rosso.5

5. N. RUDAS, L’isola dei coralli. Itinerari dell’identità, Roma, CarocciEditore, 2004 (prima ed. Roma, N.I.S., 1997).

GIANNI CASAGRANDE,Coralli (Il regalo della madrina, L’anello di fidanzamento, Un pensiero per lanipotina, Acqua), 2014polittico – acrilico su tela

STEFANO MARONGIU,Toeletta, 2014ready made, acrilicosu masonite

Auspica a un contatto e a un dialogo – conl’artista e con se stessi – il Filo conduttore tesoe intrecciato da Vincenzo Grosso. L’ensamble,di aspetto quasi totemico, è una scultura com-posita, che ricorda, nei materiali prescelti, la le-zione dell’Arte Povera italiana e di un artistacontroverso come Joseph Beuys. La strutturadell’opera gravita intorno a un vecchio filo me-tallico, nella speranza che nel suo srotolarsi inverticale, abbracciando oggetti di varia naturae provenienza, esso possa ancora farsi valerein quanto veicolo di energia. A trent’anni dallapotente operazione simbolica compiuta daLai con Legarsi alla montagna, Grosso usa oradel ferro rugginoso in vece della fettuccia dijeans, e con esso da forma a quello che gli pa-re il vero nodus del presente: ormai, il legamecon la montagna – inteso sia come ruralità to-ponomastica sia anche, nell’accezione poeticae simbolica del lavoro del 1981, come naturae come arte – sembra vivere la stessa situazio-ne di precarietà e pericolo già denunciatatempo addietro dall’artista di Ulassai. Al vec-chio cavo elettrico Grosso affida il compito ditenere insieme gli elementi superstiti e relit-tuali della vita di paese di qualche decenniofa, nel tentativo speranzoso che ne possa sca-turire un rinnovato vigore, o perlomeno lascintilla aurorale di un nuovo fiat: come il na-stro celeste creava nodi e avvolgeva pani fra-granti lungo le vie del piccolo centro ogliastri-no, così ora il filo ossidato tiene insieme infissie serrature scardinate, un ciocco di legno dicorbezzolo e un frammento di granito. Il pe-sante gruppo scultoreo, che nella sua impostaverticalità non manca tuttavia di trasmettere

un desiderio di leggerezza, interroga lo spet-tatore nell’esibizione franca dei materiali pre-levati dal contesto urbano e rurale: non sonoforse questi gli scarti superstiti dell’odiernamontagna, di un passato perduto e forse irre-cuperabile? Se il legno di corbezzolo alimentale fornaci (oggi anche quelle per i cibi d’aspor-to) e il granito non è che una scheggia mortafuoriuscita dalla cava, è forse possibile che lafine ultima di ogni cosa non vada a implicareuna resa al suo inevitabile tradimento? Neldubbio o nell’assenza di risposte, solo il cavosembra resistere, robusto e fedele a se stesso,alla propria funzione di trasportatore di senso:per questo, proprio con la sua tenace energiail fruitore è invitato a connettersi e dialogare,nel ritrovamento auspicato di un “filo condut-tore” con un passato e un sistema di valoritroppo presto messi via.Sergio Fronteddu sembra invece riportare lafigura stessa di Maria Lai a una dimensioneoriginaria e naturale, in una lettura scultorea(Senza titolo) tuttavia non priva di sottintesiintellettuali e critici. Il groviglio di spire rappre-se di colla a caldo, raccolte su se stesse in fasciirregolari, richiama subito la fisionomia ma-gnificata – perché sovradimensionata – di unbaco da seta intento ad avvolgere i suoi pre-ziosi filamenti, o di una crisalide che abbia ap-pena liberato la farfalla contenuta in potenza.Come se l’artista di Ulassai, forte di una tessi-tura tenace portata avanti nel suo percorsoartistico ed esistenziale, e appena fuoriuscitadalla sua parentesi terrena e mortale, potessein qualche modo identificarsi con il cursusbiologico di entrambi gli insetti: da una parte,predisposta quasi ontologicamente alla vo-cazione di un lavorio eseguito con lentezza epazienza; dall’altra, finalmente ab soluta,

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Maria Lai (Ulassai, 1919-Cardedu, 2013). Artista tra lepiù prolifiche e significative del Novecento sardo,

ugualmente nota a livello nazionale e internazionale, nel1939 lasciò il piccolo e amatissimo paese ogliastrino diUlassai per iscriversi al Liceo Artistico di Roma (dove studiòcon Marino Mazzacurati) e frequentare, unica donna, ilcorso di scultura all’Accademia di Belle Arti di Venezia(1943-45) sotto la guida del maestro Arturo Martini. Il suopersonalissimo linguaggio artistico, maturato nel corsodei decenni dopo alcune prove pittoriche, la vede cimen-tarsi, dagli anni Cinquanta, in una ricerca scultorea ani-mata dalla sperimentazione di tecniche e materiali origi-nali, che la porta a codificare un linguaggio divenutopresto iconico; negli anni della piena maturità espressiva,Lai si volge infine verso soluzioni d’avanguardia, con in-terventi installativi e performativi di tipo ambientale e re-lazionale. Filo conduttore del suo lavoro è sempre il lega-me con la tradizione sarda, alla quale fa costanteriferimento senza mai scadere nella celebrazione auto-et-nografica, bensì rivisitando la cultura materiale e artigia-nale dell’Isola con particolare attenzione alle attività quo-tidiane principalmente svolte dalle donne in seno allecomunità agro-pastorali – dalla lavorazione della cera-mica alla panificazione, dalla tessitura al ricamo e al cu-cito – nelle quali rintraccia l’esistenza di un mondo ulte-riore di significati. Tra le numerose frequentazioni spiccano

quelle con i conterranei amici scrittori, Salvatore Cambosu(che fu suo professore di italiano al liceo) e Giuseppe Dessì,dalle quali origineranno le suggestioni di alcuni tra i lavoripiù noti dell’artista: le serie di Terrecotte, Telai, Libri eGeo-grafie scaturiscono infatti dal recupero di fiabe, raccontipopolari della tradizione orale, storie di vita quotidianarielaborata e sublimata nella ricerca estetica, e proprioquesti grandi e importanti cicli si confermano a tutt’oggitra gli esiti di maggiore pathos e impatto visivo della suaintera produzione. Tra gli interventi recenti legati alla fasepiù avanguardistica del suo percorso, spicca l’azione em-blematica del 1981 Legarsi alla montagna: rivisitando eattualizzando una leggenda locale, l’artista ha volutoriannodare le case e le alture del paese natale di Ulassaitramite un lungo nastro celeste, lungo oltre venti chilome-tri e realizzato dai cittadini a partire da un’unica pezza ori-ginaria, simbolo del potere aggregante e salvifico dell’artee auspicio di una nuova comunione tra gli uomini e degliuomini con la natura e il paesaggio. A conferma del lega-me di Maria Lai con il paese d’origine – dove l’artista neglianni Novanta realizza numerosi interventi site-specificcome La strada del rito (1992), Le capre cucite (1992),La scarpata (1993) – proprio Ulassai ne custodisce oggicentocinquanta opere, da lei stessa donate al Museo Sta-zione dell’Arte, sorto nel 2006 nell’abbandonata sede dellaferrovia locale, e a lei, ovviamente, intitolato.6

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H 505. MARIA LAI

6. Su Maria Lai cfr. Maria Lai. Ricucire il mondo, catalogo della mo-stra a cura di B. Casavecchia, L. Giusti, A.M. Montaldo (Cagliari,Musei Civici; Nuoro, Museo MAN; Ulassai, Stazione dell’Arte, 10luglio-2 novembre 2014), Milano, Silvana Editoriale, 2015; M.D.PICCIAU, La ricerca della forma assoluta. Itinerari dell’esperienza arti-stica di Maria Lai, Cagliari, Condaghes, 2014; M. LAI, Ansia d’infinito,

a cura di C. Di Giovanni, con doppio dvd, Cagliari, Condaghes,2013; M. LAI, F. MENNA, S. TAGLIAGAMBE, Ulassai. Da Legarsi alla mon-tagna alla Stazione dell’arte, Cagliari, AD-Arte Duchamp, 2006; S.CAMBOSU, Miele amaro: racconti dettati a Maria Lai, Cagliari, AD-Arte Duchamp, 2001. Si veda anche il sito dedicato all’artista eal Museo Stazione dell’Arte: www.stazionedellarte.it.

VINCENZO GROSSO, Filo conduttore, 2014assemblaggio polimaterico

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“sciolta”, lib(e)rata in un volo estremo, il più privato einsieme il più maestoso. Nel tentativo non semplice didialogare con l’artista contemporanea che più di tutte,tra quelle dell’Isola, ha goduto di una fama di respironazionale ed internazionale, e la cui storicizzazione siconfronta ora con la sua recentissima scomparsa,Fronteddu prova a restituire alla persona di Maria Laila concretezza di un’immagine fedele, rifuggendo lafacilità della ricostruzione mitizzante e ricorrendo – inquello che appare quasi come un simbolico ritrattopost mortem – alla similitudine entomologica. Perquesto, a ben guardare, il taglio che attraversa longi-tudinalmente l’involucro del baco non allude tantoad una traccia di abuso o ad una ferita: la linea rettaincisa dallo scultore si pone piuttosto come testimo-

nianza esposta di un passaggio, traccia di un’avvenutafuoriuscita. Approdo finale di questo attraversamento,che di fronte agli occhi dell’osservatore lascia un eso-scheletro candido, scarto residuale di un trapasso, èlo spazio aereo di un volo ormai distante, in cui l’artistapossa sgranchirsi leggera, donna-bambina-insetto fi-nalmente senza corpo, al riparo dai possibili tradimen-ti e fraintendimenti del futuro.

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SERGIO FRONTEDDU,Senza titolo, 2014

scultura con colla a caldo

bambola” protetta dalle minacce del mondo esternosembra reggere il confronto con l’evidenza di uno sta-tus ipocrita, insostenibile, se anche il titolo scelto dal-l’autore va a musicare con note sinistre la possibile car-tolina d’epoca, opportunamente virata in seppia:perché l’atmosfera ovattata e surreale può, sì, sembraredi fiaba, ma la città in cui la Nuoro natale va a traslarele sue apparenze può essere qui solo la Hamelin del-l’ambiguo racconto tedesco, città ingrata e per questoprivata dei suoi bambini senza colpa, anime innocentisedotte altrove dalle lusinghe di pifferai perenni.La scelta di declinare in chiave personale i topospiù ca-ratteristici del repertorio visivo di Francesca Devoto èfatta propria anche da Pasquale Bassu, che con le lino-leografie Angolo di riflessionee Dove entra la gente rivisitai “luoghi comuni” della scena ambientata in interni edella descrizione dello studio della pittrice. Ma alla cal-ma rassicurante e alla indiscutibile patina borghese ditele famose come Tina nello studio di Via Cavour (1936),Ciccio nello studio di Via Cavour (1938) o Tina al piano-forte (1936), Bassu risponde da parte sua descrivendocon dovizia di particolari due scorci dichiaratamentecaotici del vecchio e abbandonato edificio nuorese diSeuna riportato a nuova vita nella condivisione con glialtri membri del collettivo. In Angolo di riflessione losguardo analitico che va a poggiarsi sugli oggetti va-riamente accatastati restituisce loro il calore affettivoderivato dall’utilizzo quotidiano: la vaschetta in cuisciacquare via la pittura dai pennelli ha la stessa dignitàdello sturalavandini, mentre le bottiglie vuote di birra– traccia indiscussa di una pausa conviviale – aspettanodi essere smaltite insieme ai sacchi neri colmi di spaz-zatura. Lo stesso accade in Dove entra la gente: il puntodi passaggio è ingombro di manufatti e opere finite ap-

pese alle pareti, ma anche degli strumenti di lavoro deisingoli artisti, a testimonianza di una marcatura indivi-duale del territorio nell’ambito di una convivenza chefonde esperienze creative e di vita, una zona franca incui la paletta per raccogliere lo sporco – e dunque farepulizia, fare ordine – deve convivere con una carriolada muratore provvisoriamente parcheggiata nella bus-sola, di fianco alla porta. All’affettazione talvolta traditadalle rappresentazioni di interni della pittrice, in lineacon i dettami della moda del tempo in fatto di arreda-mento, Bassu risponde accogliendo lo spettatore nelcerchio intimo e privato dello studio/laboratorio senzasottoporne la descrizione a belletti stilistici o formali: laporzione di stanza da bagno e il corridoio d’ingresso –quest’ultimo, soprattutto, inteso nella sua accezione dispazio di rappresentanza – non appaiono depurati perl’occasione dalle scorie dell’usura, ma si offrono al visi-tatore nella loro bruta materialità, in un esibizionismonon censurato. E tuttavia, pur nella diversità di generi,contesti e vicende personali, le linee che l’artista va adincidere conducono pur sempre l’osservatore al boz-zolo Deco in cui la pittrice amava trascorrere il suo tem-po, al cerchio dorato che, nella sua condizione di artistadonna e indipendente, si configurava per lei come spa-zio prezioso di una ricercata libertà.La composizione Il silenzio della bambola di SergioFronteddu cela invece una natura sibillina dietro l’ap-parente riconoscibilità delle parti in causa: nel grup-po scultoreo-fotografico, una fruttiera realizzata concolla a caldo (Natura morta) è guardata con muto magoloso interesse da una rielaborazione digitale delRitratto di bambina di un altro artista nuorese, l’“intru-so” pittore autodidatta Francesco Congiu Pes (Nuo -ro, 1861-Sassari, 1932).8 Al repertorio dei soggetti di

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Francesca Devoto (Nuoro, 1912-1989). Erede di una trale famiglie benestanti più in vista di Nuoro, ebbe il pri-

vilegio – raro per le donne del suo tempo – di studiare inContinente, in Toscana. Al suo ritorno nell’Isola, grazie allefavorevoli condizioni economiche, aprì un proprio studioe riuscì, ancora molto giovane, a inserirsi nell’ambiente ar-tistico locale prevalentemente maschile: partecipò consuccesso alla VI Mostra Sindacale di Nuoro (1935) e allestìuna personale con sessanta lavori alla Galleria Palladinodi Cagliari (1936). Devoto si rivelò meno attratta, rispettoai colleghi, dalle correnti regionaliste e dalle suggestionidel folklore isolano; una differenza, questa, che, unita-mente alla sua condizione eccezionale di artista, ne hafatto considerare gli esiti pittorici (a lungo, e a torto) comemera espressione di un’estetica del bello limitata e super-ficiale, quando non compiaciuta e autoreferenziale. Alcontrario, la scelta di rappresentare scene di vita legate al-la propria quotidianità borghese è animata, per Devoto,da una concezione dell’arte come sguardo personale sulmondo e come meditazione profonda sull’esistenza; unariflessione che scelse di compiere privilegiando la ritratti-stica, le vedute d’interni e le nature morte. Tra le ambien-tazioni preferite della sua pittura vi era, difatti, il suo stessostudio, arredato in stile Deco e moderno, che nella curataresa fotografica dei quadri non manca di testimoniare inogni dettaglio lo status della proprietaria e gli oggetti egli intrattenimenti da lei più amati.7

Con un’operazione di sottrazione radicale Gianni Ca-sagrande porta al grado zero la quiete delle stanze pri-vate della bourgeoisie care all’immaginario dell’artistanuorese. Nel dipinto di piccolo formato – Hamelin –non c’è traccia di umori vitali: nel salottino intonso,anonimo pur nei suoi arredi di design all’avanguardia,la figura umana è come cancellata, o ha rimosso i segnidel suo passaggio. Solo una poltrona e un divano sifronteggiano muti, paghi della proiezione delle pro-prie lunghe ombre sul pavimento sgombro: un dialo-go non avverabile e, nel contempo, l’unico possibile,in un ambiente in cui nemmeno la prospettiva natu-rale, oltre i finestroni a strapiombo sul nulla, offre allosguardo il conforto della vita sensibile, dei colori di unfuori lontano ma evidentemente tenuto a distanza. Trale pesanti tende appena scostate, oltre le ampie paretivetrate tipiche del Modernismo architettonico, c’è soloil vuoto, la dissolvenza dei corpi vivi nella luce polve-rosa di gesso. L’appartamento, che Casagrande vira neitoni spenti e sabbiosi tipici di Devoto, risulta come so-speso nello spazio e nel tempo, tunnel sopraelevato eappena ammobiliato, a simboleggiare carenze e disagisempre attuali. Come nello still frame di un film di An-tonioni, il set per la commedia umana è moderno eaggiornato: a difettare è però la parola, suicidata nel si-lenzio, in un fallimento gridato senza suono alcuno.Nemmeno il rimando alle suggestioni di una “casa di

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H 506. FRANCESCA DEVOTO

7. Su Francesca Devoto cfr. G. ALTEA, M. MAGNANI, Pittura e sculturadal 1930 al 1960, Nuoro, Ilisso, 2000, pp. 69-71, 108-109, 126, 142,155, 157, 161; M.L. FRONGIA, “Un percorso dell’arte in Sardegnanel XX secolo”, in MAN. Catalogo della collezione, Nuoro, MAN,

1998, pp. 107-111; Francesca Devoto, catalogo della mostra(Nuoro, Galleria Comunale d’Arte, 1-24 marzo 1996), Nuoro, Ei-kon, 1996. Ringrazio Giuseppina Cuccu per la consultazione delsuo testo Una calma luce diffusa di prossima pubblicazione.

8. L’intervento di Fronteddu ripropone in parte quello effettuatopresso il Museo MAN di Nuoro nell’ambito del secondo appun-tamento del progetto espositivo DNA. Caratteri ereditari e mu-tazioni genetiche (1 giugno-8 luglio 2012): in quella occasione,nel tentativo di instaurare un dialogo tra opere della collezione

permanente del museo e la propria personale ricerca artistica,lo scultore aveva posto Senza titolo come trait d’union tra Ritrat-to di bambina di Congiu Pes e una tela di Devoto modernissimacome quella raffigurante il pupazzo del noto cartoon Topolino(anni Trenta).

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genere spesso al centro delle tele di Devoto, Fron-teddu replica qui con un manufatto tridimensionale,“glassando” con una patina di colla a caldo una mela,un’arancia, una banana, una pera (con tanto di mor-so) e il relativo piatto di supporto. La transitorietà ela caducità dell’esistenza sono posti così a portatadi sguardo per lo spettatore, come nella letteraliz-zazione di una still life di memoria seicentesca: lafrutta, nel tempo, si è lentamente decomposta, re-cando traccia di sé nelle macchie scure e appiccico-se ancora presenti sul piatto ondulato, e lasciandoin suo ricordo delle forme vuote ma perfette, inter-namente ricoperte da una polvere scura. Non ca-sualmente, è negli stessi toni anneriti che è virata lastampa di Congiu Pes, con un’unica luminosa con-cessione ai colori originali del quadro che va a ri-guardare, evidenziandolo con la potenza di un iriscinematografico, il ditino che la bimba si preme sul-le labbra, in una posa leziosa ed enigmatica nel con-tempo. Firmando il lavoro con il titolo Il silenzio dellabambola Fronteddu getta così un’ombra di indeci-frabilità sulla grazia appena stucchevole del ritrattoinfantile, al punto che non è possibile dire con cer-tezza se il gesto bloccato della piccola voglia sem-plicemente suggerire un’indecisione di gola al co-spetto dei frutti maturi o non sia piuttosto un invitoalla memoria, al silenzio e alla meditazione nei con-fronti della vita e dell’arte, in quella che appare quasicome una citazione in borghese dei ricorrenti put-tini alati di tanta pittura e scultura medievale e ba-rocca. La lettura dello scultore trasforma i pomi fra-granti poggiati sul piccolo vassoio in tante buccevuote, opache, raggrinzite, nell’esito ultimo di una cu-riosa muta vegetale, chiusa e sigillata, intrappolata inuna perfezione chimica e organica, artificiale e natu-rale e ancora in divenire. Un sic transit gloria mundiche tutto ha trascinato – e ancora trascinerà – nell’in-differenza della polvere.

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SERGIO FRONTEDDU, Il silenzio della bambola,stampa fotografica; Natura morta, scultura in colla a caldo, 2014

GIANNI CASAGRANDE,Hamelin, 2014acrilico su tela

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PASQUALE BASSU, Angolodi riflessione, 2014matrice in linoleum

PASQUALE BASSU, Doveentra la gente, 2014matrice in linoleum

Marisa Sannia (Iglesias, 1947-Cagliari, 2008). Notaal grande pubblico soprattutto per alcune hit di

successo commerciale negli anni Sessanta e Settanta –Tutto o niente, Lo sappiamo noi due, Una cartolina,Sarai fiero di me, La compagnia –, è stata un’apprez-zata cantante e attrice prima di inaugurare una perso-nale ricerca che la portò a declinare in chiave originalela musica d’autore in lingua sarda. Dapprima atleta epoi speaker radiofonica, Sannia si esibisce con gruppimusicali amatoriali e partecipa a competizioni canore,ed è proprio la vincita di un concorso nazionale Rai pervoci nuove che le permette di ottenere un contratto di-scografico quadriennale con l’etichetta Fonit Cetra e diessere notata da Luis Enriquez Bacalov e da Sergio En-drigo. Con entrambi, che scriveranno per lei numerosibrani (insieme, tra gli altri, a Lucio Dalla, Roberto Vec-chioni e Francesco De Gregori) instaurerà uno specialerapporto, destinato a durare per tutta la vita. Negli anni,Sannia partecipa a trasmissioni popolari come Sette-voci,Canzonissima e il Festivalbar, e nel 1968, cantandoCasa bianca in coppia con Ornella Vanoni, si classificaseconda al Festival di Sanremo; incide brani di colonnasonora per i film di Pietro Germi e Dino Risi; è protagoni-sta di musical e recital teatrali, affiancata dagli attori edai complessi più importanti e noti del periodo. Alla lin-gua sarda e alla Sardegna, che in lei vede un’incarnazio-

ne e un simbolo positivo del processo di crescita e am-modernamento iniziato nel secondo dopoguerra, lacantante ritornerà negli anni Novanta, dopo un periododi successi alternato a un provvisorio abbandono dellescene. Nel 1997, in collaborazione con lo scrittore Fran-cesco Masala, inciderà Melagranàda, una raccolta dibrani tratta dall’opera Poesias in duas limbas; nel 2003uscirà la raccolta Nanas e janas, con testi originali e mu-siche inedite. Questa nuova e ricca stagione di ricercavenne interrotta tragicamente solo dalla morte inattesadella cantante, stroncata nella primavera del 2008 da unmale improvviso. La stessa estate, l’Isola la omaggeràconferendole il riconoscimento del premio “Maria Carta”,a sua volta insignito in memoria della grande collegascomparsa quattordici anni prima, e che in passato(1995) proprio Marisa Sannia aveva avuto il privilegio disostituire nello spettacoloMemorie di Adriano. Ritrattodi una voce, interpretato da Giorgio Albertazzi.9

L’ascesa musicale di Marisa Sannia rivelò presto algrande pubblico anche la bellezza della cantante, chedivenne una presenza frequente sulle riviste e sui te-leschermi dell’epoca, e apparve in numerose pubbli-cità come testimonial e fotomodella. Il dettaglio piùiconico del suo aspetto, così poco corrispondente aicanoni della bellezza mediterranea e di quella sarda

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H 507. MARISA SANNIA

9. Su Marisa Sannia cfr. M. SANNIA, Melagranàda/ Marisa Sannia,testi di M. Sannia e F. Masala; kit con cd e opuscolo (M. LAI, Sultelaio delle janas. Le muse operose come api dell’universo, Cagliari,AD-Arte Duchamp, 1997), Milano, NAR, 1997; M. SANNIA, Sa oghe

de su entu e de su mare, testi di A. Casula (Montanaru) rielaboratida M. Sannia e F. Masala; kit con cd e cofanetto (cartoncino te-lato a opera di Maria Lai, Nuoro, Ilisso, 1993), Sassari, Teknore-cord, 1993.

nello specifico, era certamente quello della sua ac-conciatura: un caschetto liscio color biondo cenere,bombato nel volume ma lineare e quasi grafico neltaglio, completato da una frangetta sbarazzina. Que-sta maniera di portare i capelli, molto in voga soprat-tutto negli anni Sessanta e Settanta (si pensi ai celebri“caschi d’oro” di altre artiste del periodo: da Mina a Ca-terina Caselli, da Raffaella Carrà a Rita Pavone), contri-buì a fare di lei un’icona popolare a livello nazionale,e allo stesso tempo un’incarnazione inedita e frescadella femminilità sarda. Sarebbe però troppo sempliceleggere in questo senso, e cioè in una chiave mera-mente descrittiva, il Casco non omologato che a lei de-dica Vincenzo Grosso, quando, su fondo bianco, ac-costa filamenti di pittura acrilica dorata fino adisegnare una sorta di parrucca bionda sospesa nelvuoto. Pur senza sottovalutare i valori e i messaggi dasempre sottesi e veicolati dalle scelte di immagine edi stile, il rimando alla “trasgressione” di Maria Sanniava oltre il dettaglio della sua capigliatura, oltre unascelta estetica che, anzi, potrebbe rischiare di venirefraintesa e di apparire, al contrario, come l’adozionespersonalizzante di un diktat di costume. La Sannia“non-omologata” a cui Grosso fa riferimento nel suolavoro non è tanto quella che si spoglia di riconoscibiliorpelli folkloristici e identitari per vestire i panni nuoviimposti dal costume moderno e dal mondo dellospettacolo, bensì l’artista intesa a tutto tondo nella suacoraggiosa versatilità, nella sua vena intrinsecamentesperimentale, capace di spaziare al punto da interpre-tare con la stessa professionalità i brani di colonna so-nora tratti dai film di Walt Disney (nell’album del 1973dal titolo Marisa nel paese delle meraviglie) e i versi diFederico García Lorca (nell’opera postuma Rosa de pa-pel ); ed è soprattutto la Marisa Sannia che con corag-gio, dopo una lunga pausa dalle scene, deciderà diriappropriarsi in modo inedito delle sue radici isolane,scegliendo di dare musica e voce alla poesia sarda delNovecento.

Spirito poliedrico e sensibile all’idea della commistio-ne tra le arti, Marisa Sannia era inoltre legata alla con-terranea Maria Lai da un rapporto di sincera amicizia.Se nel settembre del 2009, a poco più di un anno dallasua prematura scomparsa, l’artista ogliastrina ha de-dicato lei uno speciale evento commemorativo pres-so il piazzale della Stazione dell’Arte a Ulassai, le dueavevano già collaborato in vista del ritorno sulle scenedella cantante all’inizio degli anni Novanta. Nel 1993,per inaugurare la nuova stagione del suo percorso ar-tistico, Sannia aveva inciso il suo primo disco in linguasarda dal titolo Sa oghe de su entu e de su mare, nelquale cantava i versi di Antioco Casula, il poeta logu-dorese del primo Novecento noto come Montanaru.Il lavoro, che nel 1994 vinse il Premio Silanus, aveva da-to vita a un felice connubio di musica e materia, di no-te invisibili e trame tangibili, dal momento che MariaLai aveva contribuito a confezionarne il cofanetto incartone telato: non la solita copertina di carta patina-ta, dunque, bensì un manufatto di cellulosa e tessutoconcepito come multiplo d’artista, in cui i versi delpoeta erano scritti a mano e decorati con fili cuciti.Come in ricordo di questa collaborazione, è proprioal codice visivo di Lai che si ispira l’opera Non Vedo maSento – Sonata Sorda, realizzata in coppia da VincenzoGrosso e Gianni Casagrande in omaggio alla cantantedi Iglesias. I vari elementi del ready made modificatosono assemblati per dare voce alla sinestesia di unamusica apparentemente impossibile, che nasce daldialogo forzato tra la scrittura in rilievo di alcune pa-gine per non vedenti – a tutti gli effetti mute per i dueartisti – e il nero alfabeto musicale impresso su spartitida piano di tradizione tedesca – melodia altrettantosilente per i ciechi o i profani dello strumento. Esito diquesta sovrapposizione è una fitta teoria di chiodi,che – con la stessa carica emotiva degli aghi di ferrolasciati a vista da Lai sui Libri cuciti – va a conficcarsidolorosamente nelle sillabe scandite dal braille, la-sciando dei vuoti in corrispondenza delle note nere,

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ormai spanciate, stampate sui pentagrammi. In quellache appare come una variatio in metallo e carta spe-ciale dell’immaginario visivo dell’artista di Ulassai,Grosso e Casagrande danno vita a una sorta di frain-tendimento intenzionale di codici espressivi e mes-saggi affinché ne scaturisca una musica nuova, pos-sibilmente inventata dall’osservatore e da chiunqueignori le melodie di Marisa Sannia: per ricordarla oggiavvicinandosi a lei tramite il codice familiare di un’ar-tista che le fu amica, e tramite un’opera composta – esuonata, nel pensiero – a quattro e più mani.

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GIANNI CASAGRANDE, VINCENZO GROSSO, Non Vedo ma Sento – Sonata Sorda,2014, carta stampata in braille, spartitimusicali d’epoca, chiodi

VINCENZO GROSSO,Casco non

omologato, 2014acrilico su carta

quello che ne era lo status ideale e che, a oggi, si con-ferma ancora il più familiare per i posteri: vale a dire,nel contatto diretto con il suo uditorio. Maria Carta,posta al centro del riquadro quasi a separare le ali difolla con la ieraticità sacra dell’icona, mostra le spalleall’osservatore, e gli si offre nella sineddoche dei lun-ghi e lisci capelli neri, sciolti e fluttuanti. Proprio al suobel volto espressivo Pattusi nega la prevedibilità delfacile ritratto psicologico, preferendo indugiare conparticolare cura sugli spettatori dell’ideale concerto:un pubblico composito e di ogni fascia d’età, dall’ariaentusiasta e rapita – forse un rimando visivo alla me-morabile riunione che mobilitò l’intero paese di Siligonel 1993, quando un anno prima della morte dell’ar-tista l’Amministrazione Comunale del piccolo centrodel Meilogu la invitò ufficialmente per rendere omag-gio al suo eccezionale ruolo di ambasciatrice cultura-le. Spiace, certo, che l’apparecchio sia e resti muto. Mala retroilluminazione dell’opera, che quasi trasformal’impronta vuota dell’elettrodomestico in un bloccodi ghiaccio, congela il calore della bella immagine nelbianco e nero di un’istantanea d’epoca i cui colori sia-no volutamente tutti da immaginare, nella fantasia enel ricordo. Ancora sulla fama internazionale di MariaCarta legata alla potenza del mezzo televisivo e poidel cinema insiste Pattusi con la scultura (Senza titolo)ricavata innestando su un mobile in legno da rigattierealtri oggetti e materiali di recupero. Stavolta, però, ilfrontale ready madedi un apparecchio TV a manopolemarezzato di cumuli di pigmento secco suggeriscel’avvenuto passaggio al technicolor, mentre il salto ver-so la modernità fa andare il pensiero alle interpretazio-ni attoriali di Maria Carta: amica di Pasolini, la cantantesarà amata anche dall’industria cinematografica, e re-citerà per Zeffirelli e Tornatore, per Coppola e Rosi, perParodi e Cabiddu, paladina di un progresso e diun’apertura degli orizzonti isolani che proietteranno iriflettori internazionali dello spettacolo su una Sarde-gna in pieno boom economico.

Resta, a fare da trait d’union tra i due apparecchi, la cu-stodia di un vinile che l’artista incise nel 1978, Umbras,interamente dedicato a canzoni e filastrocche popo-lari. Nella copertina dell’album, opera del famoso illu-stratore Mario Convertino, una bambola bionda siedesopra un’altissima seggiola, mentre la leziosità dei ric-cioli biondi e della camiciola rosa candy non riesce anascondere una nota di inquieta malinconia, accen-tuata dalla solitudine del pupazzo antropomorfo edalla lunga ombra proiettata dalla seduta. L’oggetto,nella sua natura di ready made puro, riporta così lacantante alle sue origini, e nel restituirle di rimandouna dimensione infantile e giocosa, di canto libero eimmediato, Pattusi sembra quasi volerla sottrarre aldestino della scomparsa prematura, immortalandolaper sempre bambina, interprete prodigio di un’Isolae di una cultura non solo musicale.

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Maria Carta (Siligo, 1934-Roma, 1994). Nasce percantare. Da bambina di origini più che modeste e

presto orfana di padre, allevia la fatica del lavoro neicampi scandendo i gesti quotidiani al ritmo di filastroc-che e canzoncine e impara la messa in latino e le melodiesacre per accompagnare le funzioni della chiesa parroc-chiale del paese natale di Siligo. Maria cresce e scopre ilpubblico delle piazze, esibendosi con i cantadores nellefeste popolari. Il suo desiderio di riscatto esistenziale tra-mite la musica, nel sogno più grande di un’Isola final-mente risarcita e vendicata dall’arte, e di un mondo incui le donne possano essere artefici del proprio destino,si avvera per lei nel 1957, quando a 23 anni, grazie al ti-tolo di Miss Sardegna, la sua bellezza le spalanca le portedella notorietà e del successo. L’anno dopo parte per Ro-ma, e, nel 1960, sposa lo sceneggiatore Salvatore Laurani,da cui avrà l’unico figlio, David. Nella capitale, dove si sta-bilisce definitivamente, incide numerosi dischi di succes-so, sempre in lingua sarda, alternando momenti di ricer-ca presso l’Accademia di Santa Cecilia a frequentisoggiorni nell’amata Sardegna, dove raccoglie le testi-monianze dirette degli abitanti più anziani sulle melodiepopolari. Cantare è per lei un imperativo morale, una ve-ra e propria missione politica di cui non farà mai mistero,e sarà per questo che, nonostante il frequente coinvolgi-mento in progetti cinematografici prestigiosi, la musica

rimarrà per lei l’unico vero campo d’elezione. Osannatain tutto il mondo, paragonata da più parti a cantautriciiconiche e impegnate come l’americana Joan Baez e laportoghese Amalia Rodriguez (con le quali peraltro duet-ta), Maria Carta non conoscerà battute d’arresto nem-meno quando nel 1989 le verrà diagnosticato un maleincurabile (che non esiterà a rendere pubblico), conti-nuando con la stessa passione a esibirsi e a insegnare di-scipline antropologiche nelle Università di Bologna e diSassari, grata e nel contempo intimidita dal crescenteprestigio e dai continui premi e riconoscimenti istituzio-nali, come la nomina a Commendatore della RepubblicaItaliana conferitole nel 1991 dall’allora Presidente Fran-cesco Cossiga. Quando la morte la coglierà a Roma, nel1994, Maria Carta avrà espresso già da tempo la volontàdi essere sepolta a Siligo, nella tomba di famiglia nel pic-colo cimitero del paese, perfetta ultima dimora di una di-va grandiosa e modesta, orgogliosa delle proprie radici.10

È sulla dimensione mediatica e pubblica di Maria Car-ta, sull’amore dimostratole negli anni da un pubblicosempre grato e ammirato, che Pattusi e Fronteddudecidono di mettere l’accento con l’opera TV.11 Sulloschermo di un vecchio apparecchio televisivo a tubocatodico, realizzato da Fronteddu tramite un calco dicolla a caldo, Pattusi rappresenta l’artista di Siligo in

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H 508. MARIA CARTA

10. Su Maria Carta cfr. E. GARAU, Maria Carta, Cagliari, Edizioni del-la Torre, 1998. Si veda anche il sito dedicato: www.fondazione-mariacarta.it.

11. Fronteddu e Pattusi hanno esposto una serie di opere nate

dalla collaborazione e commistione delle reciproche tecnichenella mostra True Lies, prima tappa del progetto espositivo FaceOff, presso il Museo MURATS (Museo Unico Regionale dell’ArteTessile Sarda) di Samugheo (18 gennaio-2 marzo 2014).

VINCENZO PATTUSI,Senza titolo, 2014

ready made

VINCENZO PATTUSI,Senza titolo, 2014assemblaggiocon legno, readymade, pigmentoacrilico elampadina

SERGIO FRONTEDDU,VINCENZO PATTUSI,

TV, 2014scultura con collaa caldo, disegno a

penna biro ecarboncino

risolve le complessità di questa dinamica dando corpoall’immagine di un’uccelliera abitata in modo impro-prio da paginette letteralmente volanti. L’oggetto, chenella sua delicatezza tradisce l’egoismo sotteso a ogniaddomesticamento coatto, diventa così immaginesimbolica dell’Isola, scandalo del suo contraddirsi, delsuo essere ancora, per chi vi nasce a decenni di distan-za dal suo Premio Nobel tardivamente acclamato, pri-gione e fortezza nel contempo, trampolino di partenzenecessarie e calamita di ritorni obbligati, stimolo allacreazione e pulsione alla (auto)censura. La fragile ap-parenza del manufatto, dall’anima duttile e sottile difilo di ferro, non nasconde, del resto, tracce di violenzae conflitto interiore: le pagine scurite, strappate con at-to “sacrilego” da una vecchia copia di Cenere– romanzoche Deledda scrisse nel 1904, summa letteraria di pes-simismo esistenziale –, recano i segni delle lacerazionisui margini interni, e finiscono accartocciate una sul-l’altra, come un capitale ereditario di parole espostepronte a incendiarsi e a divenire polvere a propria vol-ta. Eppure, sotteso al gesto liberatorio della profana-zione del testo e dell’oggetto-libro, sembra albergareun desiderio fortissimo di pacificazione con una vul-gata troppo nota – quella dell’inettitudine e della resaa una condizione – e la volontà di inizio di una scritturanuova, emancipata dalla necessità del rifugio. Un de-siderio, pare quasi di intendere, di auto-espugnazione.In continuità con l’opera, e tuttavia di diverso segno,appare invece Finestra temporale, in cui Bassu prova aricreare un talismano di spago, tela e cenere con cuiproiettare l’osservatore in una dimensione remota:quella antichissima e sempiterna del passaggio dellestagioni, l’alternarsi ottuso della vita e della morte. Ap-plicando il meccanismo della citazione letterale, conun atteggiamento simile a quello del trovarobe tea-trale che appronti un arredo di scena, l’artista rifabbri-ca l’oggetto che Olì, protagonista del già citato Cenere,lascia in eredità al figlio Anania, raccomandandogli diaprire il sacchetto solo dopo il compimento della sua

morte. Il piccolo involucro, col suo oscuro contenutoancora chiuso nella juta – nient’altro che polvere fu-ligginosa – è presentato dall’artista nella sua semplicematerialità, esposto dentro un’apposita scatoletta dicartoncino, quasi un attimo prima che Anania possaaprirlo e ricordare a se stesso e al lettore come sottola cenere grassa di un passato ormai arso e indifferen-te possano covare le braci di un domani finalmentepacificato. La custodia, aperta come un libro, spalan-cata come uno scuretto, è per ora un invito misteriosoallo sguardo dello spettatore: complemento sceno-grafico, memento mori letterario e speranza in nuce,sintesi visiva di una poetica – quella deleddiana – an-cora tenacemente “ignifuga”.Con L’altra parte Bassu torna infine alla sua tecnicaespressiva d’elezione, ritraendo in una linoleografia lafacciata della vecchia chiesa di Nostra Signora delleGrazie, un’immagine seicentesca cara ai nuoresi diSeuna e certamente amata anche dalla scrittrice Pre-mio Nobel, nonostante la sua tomba alberghi ora inun’altra chiesa importante per la storia e l’identità cit-tadina – quella della Solitudine, ai piedi del monte Or-tobene. Situata in un punto distante poche decine dimetri dallo stesso studio del collettivo, la chiesa delleGrazie “vecchie” cadde in disuso negli anni Cinquanta,sostituita dal più imponente complesso religioso delleGrazie “nuove”, nel punto di inizio del corso Garibaldi.Da tempo oggetto di restauri, la chiesetta di Seunaviene oggi aperta regolarmente per ospitare le cele-brazioni dei credenti di fede cristiana ortodossa all’ar-rivo mensile in città del ministro del culto di riferimen-to, il Pope. Proprio a questo simbolo oggi ibridato delcentro storico nuorese, Bassu dedica un’opera graficadall’espressività marcata: con un punto di vista diascendenza cinematografica, ribassato e angolato dasinistra, l’artista delinea con pochi tratti essenziali lasommità dell’edificio, il semplice profilo curvilineo del-la navata centrale e quello squadrato della torre cam-panaria, senza dimenticare i dettagli identificativi della

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Grazia Deledda (Nuoro, 1871-Roma, 1936). Scrittriceautodidatta, prolifica e di fama internazionale, resta

a oggi l’unica donna italiana a cui sia stato conferito ilPremio Nobel per la letteratura (1926). Dopo l’infanzia ela giovinezza trascorse nell’Isola, durante le quali perfe-zionò gli studi con un maestro privato e pubblicò i primiinterventi e racconti su riviste locali e nazionali, sposò ilfunzionario statale Palmiro Madesani (1900) – da cui eb-be i due figli Sardus e Franz – e si trasferì a Roma. Restòperò sempre fortemente legata alla terra d’origine, cometestimonia la sua ricchissima produzione in prosa e per ilteatro: da Elias Portolu (1903) a L’edera (1908), da Cenere(1904) a Colombi e sparvieri (1912), da Canne al vento(1913) a L’incendio nell’oliveto (1918). Una Sardegna in-trisa di folklore sarà sempre il contesto prediletto in cui lascrittrice, traendo spunto da cronache locali e da anticheleggende, farà scontrare vicendevolmente le pulsioni piùprimitive degli esseri umani, in un eterno e inesausto con-flitto – tra il bene e il male, il peccato e l’espiazione, la colpae il destino – reso attraverso uno stile aggiornato e capacedi fondere accenti veristi e decadenti nel contempo.12

La prima delle tre opere che Pasquale Bassu dedica al-l’autrice pone l’osservatore di fronte a un paradosso ea un quesito: che cosa rende, difatti, una finta volieradi filo di ferro, colma fino a metà di pagine ingiallite e

accartocciate, strappate da un vecchio libro stampato,un oggetto Espugnabile? Che cosa porta ad applicarequesto termine di barbara ascendenza militare a unmanufatto così esile, penetrabile e indifeso pur nellasua natura costrittiva di gabbia? Vero è che ogni spazioo edificio che si definisca tale cela – ma in evidenza –una o più fragilità: nei secoli, la storiografia e le crona-che hanno abituato i loro lettori a narrazioni cicliche difortezze, città, regioni e intere compagini statali arresealla forza di nemici conquistatori e usurpatori, alla coa-zione sempre insoddisfatta delle lotte per il possesso;la letteratura, traslando il concetto, ha dimostrato co-me le stesse dinamiche possano riguardare anche iluoghi dell’anima, e dunque le vicende di personaggid’invenzione; la vita dimostra, altrettanto inesausta, co-me espugnabili siano le persone tutte, noi stessi.Bassu sembra partire proprio da questa ammissione,e da una riflessione sulle conseguenze esistenziali e ar-tistiche del connubio tra identità individuale e identitàsarda. L’artista prende spunto dalle vicende biografi-che della scrittrice, esule per scelta nella “città promes-sa” di Roma – preferita alla natìa Nuoro per la stimo-lante vivacità dell’ambiente culturale e intellettuale –ma rimasta sempre legata alla sua terra d’origine da unrapporto tenace di amore e odio. Bassu, che eleggel’esperienza deleddiana a paradigma ancora attuale,

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H 509. GRAZIA DELEDDA

12. Tutti i romanzi, i racconti e gli interventi saggistici di GraziaDeledda sono stati recentemente ripubblicati dalle case editriciIlisso (Nuoro) e Il Maestrale (Nuoro). Vasta è la bibliografia sul-l’autrice. Cfr. almeno alcuni tra i più recenti contributi storico-critici e accademici: D.D. LABAŠ, Grazia Deledda e la “piccola avan-guardia romana”, Roma, Carocci Editore, 2011; Chi ha paura diGrazia Deledda? Traduzione, ricezione, comparazione, a cura di M.

Farnetti, Atti del Convegno nazionale di studi (Facoltà di Linguee Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Sassari, 24-26 ottobre 2007), Roma, Iacobelli Editore, 2010; Grazia Deleddae la solitudine del segreto, a cura di M. Manotta e A.M. Morace,Atti del Convegno nazionale di studi (Facoltà di Lettere e Filo-sofia dell’Università degli Studi di Sassari, 10-12 ottobre 2007),Nuoro, ISRE, 2010.

piccola croce e del rosone frontale in trachite. La stam-pa con inchiostratura in nero è impressa su un telobianco di recupero, forse una tenda o una tovaglia,che svela il dettaglio decorativo e femminile – qui an-cora più prezioso perché inatteso – di un ricamo flo-reale tono su tono. Proprio gli stacchi netti di coloresembrano ricoprire di un belletto maestoso e primiti-vo il volto fiero di una costruzione spesso guardata ericordata quasi con tenerezza: la facciata, che con ilsuo candore di luce mediterranea si staglia contro uncielo scuro – possibile simbolo sinistro del destino, edi una (mala) sorte sempre incombente, come da me-moria letteraria – risponde dall’alto allo sguardo del-l’osservatore, con i lineamenti placidi e distesi di unsoggetto familiare o di una Sfinge che osservi le sortidegli umani nel riparo del suo enigma, quasi fosse “l’al-tra parte” di un edificio tra il sacro e l’urbano che qui,al pari di un’intera tradizione, appare da riscoprire, de-cifrare e interpretare.Fa capo a suo modo a una matrice ambientale ancheil trittico (Senza titolo) dedicato alla scrittrice da Vincen-zo Pattusi. Mettendo da parte i nuclei tematici più cupidelle narrazioni deleddiane, l’artista sceglie di prenderespunto dalle altrettanto celebri descrizioni dei paesag-gi, felici momenti in cui la prosa idilliaca e trasognatadell’autrice allude spesso a un desiderio di riscatto esi-stenziale dall’incombenza del male, a uno slancio versoil polo positivo di una vita finalmente libera dall’ansiadella colpa e della perdizione. È la Deledda più maturaquella che Pattusi ha in mente, quella che progressi-vamente tempera in pietas cristiana le asprezze rigo-rose e i dualismi esclusivi di ascendenza veterotesta-mentaria tipici degli esordi, e che stilisticamente arrivaa pacificare il contrasto tra verismo e lirismo restituen-do in parole le suggestioni di un’atmosfera spazio-tem-porale favoleggiante, in cui le vicende umane si fon-dono e si rispecchiano con quelle della natura.Facendo propria questa visione animata e antropo-morfizzata del paesaggio, Pattusi riporta sulla tela una

fantasticheria in cui aria e terra trasfigurano l’una nel-l’altra, in una continua metamorfosi di forme e coloridi cui il pittore blocca i momenti visivamente più com-piuti. Così, stagliata contro un cielo che degrada dai to-ni scuri della notte a quelli chiari del giorno, dal profilomorbido delle nuvole rosa dell’alba e del tramontopuò sorgere un’intera selva, probabile rifugio di crea-turine da racconto popolare; mentre non è dato sape-re se la propaggine ondulata che verdeggia contro ilnero opaco, sbucando dall’angolo basso di una telapiù piccola, appartenga alla fronda muschiata di un al-bero o di un cespuglio, alla chioma di un personaggionascosto tra le frasche, o non sia piuttosto l’aspettoprovvisorio e smeraldino di qualche vapore ancora infieri. Non appare tuttavia come un caso che Pattusielegga proprio l’elemento mobile e leggero delle nubia soggetto del dipinto principale del polittico: qui, qua-si con un effetto cinematografico di soggettiva non sa-turata o di proiezione di personaggio, il biancore tra-sformista appena raggelato in una visione boschivasembra rimandare nel contempo a una Deledda ap-pena ragazza, che dalla finestra della sua casa natalenel quartiere di San Pietro (attuale Museo deleddiano)osservi un orizzonte – esistenziale e naturale – ancoralontano, ma già interiormente trasfigurato e capace diassorbire e riecheggiare stati d’animo privatissimi, fu-ture voci di dentro di eroi ed eroine di carta. Forse, pro-prio in virtù di ciò, il senso più profondo di questo viag-gio immaginativo è tutto concentrato dal pittorenell’elemento più astratto dell’intero trittico: qui, nellegamme brune che degradano l’una nell’altra a strisceorizzontali, l’osservatore ritroverà la libertà immagina-tiva ed espressiva tipica della pittura a “campo di colo-re”; oppure, sbalzato narrativamente oltre come da unapanoramica a schiaffo che tutto accelera e confondeper trasportare lo spettatore più avanti nella storia opiù addentro alle psicologie dei personaggi, approderàcon lo sguardo nella contemplazione personale dinuovi paesaggi, nuove scene e nuove narrazioni.

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PASQUALE BASSU,Espugnabile, 2014gabbia in filo diferro, paginestampate

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Nella doppiapagina seguente:

VINCENZO PATTUSI,Senza titolo, 2014trittico – acrilico

su tela

PASQUALE BASSU,Finestratemporale, 2014scatola in cartone,tela, spago,cenere

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PASQUALE BASSU,L’altra parte, 2014

linoleografia sutela ricamata

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Luisa Fancello (Dorgali, 1910-1982). Figlia di una nu-merosa famiglia di Dorgali e rimasta presto orfana

di entrambi i genitori, imparò per necessità l’arte pazien-te del ricamo. Sorella del più noto Salvatore (Dorgali,1916-Bregu Rapit, 1941), scultore e ceramista molto ap-prezzato, sposerà poi Simone Lai (Dorgali, 1907-Cagliari,1984), fondatore, negli anni Trenta, della “Lai Cerami-che”; dal loro matrimonio nasceranno un figlio (mortoin tenera età) e due figlie, di cui una, Caterina (Dorgali,1945), sarà a sua volta artista e ceramista, oltre che in-segnante. Dotata di grande intelligenza e di un carattereindipendente, Luisa Fancello dedicò la sua vita al ricamonella consapevolezza che i frutti del suo operato leavrebbero potuto garantire un’autonomia non solo enon tanto economica, quanto anche e soprattutto in-dividuale. Negli anni, la decorazione delle camicie per lefamiglie più benestanti del paese lasciò il posto ai nu-merosissimi scialli ricamati con motivi floreali per tuttele donne di Dorgali, che all’artigiana si rivolgevano constima e fiducia e che lei amò sempre accontentare, sen-za tradire mai la sua passione per il lavoro con la resanei confronti delle nascenti dinamiche commerciali diuna produzione svelta e a buon mercato. Da sempre le-gatissima al fratello Salvatore – con il quale, pur daanalfabeta, tenne negli anni una fitta corrispondenza

ricorrendo all’aiuto dello scrivano del paese – quandoquesti morirà prematuramente sul fronte albanese, il 12marzo 1941, Luisa non si arrenderà alla sua anonima elontana sepoltura; il 31 marzo 1954, a tredici anni daldecesso, richiederà al Ministero competente che la sal-ma venga recuperata e rimpatriata a Dorgali. L’urna dizinco contenente le spoglie sarebbe arrivata nel paesenatale solo otto anni dopo, ma il 3 aprile 1962 tutto ilpaese avrebbe assistito in coro alla tumulazione del gio-vanissimo artista, in un’atmosfera generale di profondae partecipata commozione.13

Con una felice giustapposizione (Senza titolo) di varielementi – cinque disegni in bianco e nero, una stam-pa d’epoca, una tela dipinta, una passamaneria a fiorie un contenitore di legno con rocchetti di filo – Vin-cenzo Pattusi omaggia l’arte del ricamo di Luisa Fan-cello attingendo alla familiarità delle forme e dei coloridell’abbigliamento tradizionale sardo, e a ricordi discene di vita quotidiana e artigiana divenute ormaiarchetipiche. Così, la figura femminile senza volto, macon veste e acconciatura inconfondibili, è l’immaginefelice di una qualunque futura sposa d’altri tempi chesi prepari alle nozze con la decorazione benaugurantedella biancheria per la casa e del proprio vestiario; ma

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H 510. LUISA FANCELLO

13. Sull’arte del ricamo in Sardegna cfr. I fiori nel tessuto e nel rica-mo sardo, Sassari, Delfino Editore, 1992. Sull’abbigliamento tra-dizionale in Sardegna cfr. Costumi. Storia, linguaggio e prospettivedel vestire in Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2003. Sulla ceramica sardacfr. Ceramiche. Storia, linguaggio e prospettive in Sardegna, Nuoro,

Ilisso, 2007; 100 anni di ceramica. Le ricerche degli artisti, degli arti-giani, delle piccole industrie nella Sardegna del XX secolo, a cura diA. Cuccu, Nuoro, Ilisso, 2000. Su Salvatore Fancello, fratello di Lui-sa, cfr. A. CRESPI, Salvatore Fancello, Nuoro, Ilisso, 2005; S. NAITZA, I.DELOGU, Salvatore Fancello, Nuoro, Ilisso, 1988.

è anche quella, più meditativa, della stessa Fancelloin un ritratto senza lineamenti, intenta a ricamare ipanni altrui per ingannare l’attesa della lettera di unfratello partito lontano per studiare, se non il ritornodella sua salma già freddamente sepolta in un cimi-tero di guerra. Allo stesso modo, le sagome isolate deidue scialli sospesi nel bianco, simili a insetti esposti inuna teca, tradiscono il ricordo di una percezione scul-torea e plastica degli indumenti nel momento in cuile curve e le tensioni della stoffa testimoniano l’esi-stenza di figurine invisibili chiamate ad indossarli: por-tato fino a coprire il capo, il triangolo di panno si apre,mostrando un retro intonso, come per suggerire undesiderio di volo; oppure si abbozzola su se stesso, ri-cade diritto per la pesantezza delle molte frange,mentre il dettaglio di una manina che ne raggomitolaun lembo fa capolino oltre la curva di tessuto. L’ispi-razione naturale dei motivi decorativi ritorna nel dise-gno floreale e nello scampolo di passamaneria, testi-monianza di un prodotto artigianale finito, festonesensuale di rose rosse e spighe dorate. Perfino la stam-pa d’epoca a soggetto botanico, raffigurante unesemplare di Medicago Helix, partecipa della stessa vo-cazione decorativa: perché le chioccioline spinose, ti-pico prodotto della piantina spontanea, naturalmentedestinate a fare presa sui tessuti, finiranno col dise-gnare a propria volta casuali motivi a tre dimensioni.Allo strumentario essenziale dell’artigiana ricamatricePattusi allude poi direttamente ricorrendo all’imme-diatezza del ready made, allineando rocchetti coloratiin una piccola teca a parete che per estensione diven-ta tavolozza cromatica e arriva a inglobare il dettaglionumerico-decorativo di un “8”, simbolo rovesciato diinfinita fantasia; e ancora altri colori, come in uno spet-trogramma, si espandono e degradano l’uno nell’altronell’unica piccola tela dell’ensamble. A dominare sututto, sulla cima dello schema compositivo, l’artistacolloca infine il disegno a sgraffio di un ditale, arma-tura protettiva di ogni fiat del ricamo: la sagoma, qui

ingrandita, esibisce a propria volta una superficie fo-rata e sbalzata, altrettanto ricca di decori complessi,mentre l’alterazione in maiore delle dimensioni con-ferisce all’oggetto quasi una maestosità architettonica,che lo avvicina a un nuraghe, o a una Babele ordinatadi motivi fantastici.Il senso dei Fiori di maiolica che Pasquale Bassu coglieda parte sua per Luisa Fancello sboccia invece in ungioco di rimandi di natura sia biografica sia esteticaall’esperienza dell’artigiana dorgalese. Due triangoli distoffa, che riprendono la forma del fazzoletto del co-stume tradizionale femminile, recano impresse le trac-ce nere di più formelle squadrate, decorate con motividi ascendenza naturale e astratta, disposte a gruppicompatti o secondo le linee di taglio del tessuto. Lelinoleografie rimandano, nel contempo, alla sapienzatessile di Luisa in prima persona, e a quella nel campodella ceramica e della scultura del marito Simone, del-la figlia Caterina, ma soprattutto dell’amato fratelloSalvatore. Come in un ossimoro visivo, i Fiori di maio-lica di Bassu hanno, sì, l’aspetto di mattonelline deco-rate, ma a differenza del prodotto finito, caratteristica-mente cotto e poi ricoperto con uno smaltotrasparente – resistente, lucidante e impermeabiliz-zante – denunciano la loro porosa fragilità di disegnisu tela. Anche le linee del decoro, a uno sguardo at-tento, rivelano un’evoluzione atipica del disegno, unprogresso che dalle forme familiari di petali e foglievira verso gemmazioni fantastiche. Ma il vero elemen-to straniante del lavoro non consiste tanto nella rivi-sitazione linoleografica di tecniche, materiali e motiviappartenenti a diversi ambiti delle arti applicate,quanto nel fatto che la tipologia di piastrelle alla qualealludono le sue formelle stampate sulla stoffa risultadel tutto estranea alla tradizione artigianale sarda,avendo invece nella Campania e nella Sicilia le sueprincipali aree geografiche d’origine. Bassu finisce cosìcol tessere un dialogo immaginario tra eccellenze ar-tigianali di varia estrazione topografica, innestando

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riferimenti a tradizioni extra-regionali in un discorsoda principio isolano, e piegando la propria tecnicad’elezione (la linoleografia) ai fini di una visione per-sonale e stilizzata di un concetto post-moderno di na-tura: il risultato è quasi un audace ritratto di famiglia,in cui gli esiti creativi di più generazioni e tradizionimateriali a confronto rivivono – fecondamente ibri-dati – in linee, forme e tecniche contemporanee.

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PASQUALE BASSU, Fiori di maiolica, 2014linoleografia su tela

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VINCENZO PATTUSI,Senza titolo, 2014

matita su carta,acrilico su tela,

ready made

Le sorelle Coroneo: Giuseppina (Cagliari, 1896-1978) eAlbina (Cagliari, 1898-1994). Figlie di un commer-

ciante cagliaritano, tradussero le suggestioni creative delnegozio paterno di mercerie e antiquariato realizzandocollage colorati di filo, passamanerie e panno lenci edando vita a pupazzi assemblati con materiali di recu-pero (cartapesta, legno, filo di ferro, paglia, scampoli ditessuto), che ebbero tra gli estimatori più convinti l’ar-chitetto Gio Ponti, Eugenio Tavolara e Ubaldo Badas –duo promotore, quest’ultimo, del rilancio dell’artigiana-to sardo nella seconda metà del Novecento, nel generaleclima di riscoperta e riabilitazione dell’arte popolare. To-talmente autodidatte, le sorelle Coroneo vissero peròsempre ai margini dell’allora nascente “sistema dell’arte”,preferendo creare in piena autonomia, assecondandouna libertà espressiva scevra dai condizionamenti dellamoda e del mercato. Le raffinate illustrazioni Deco a fir-ma soprattutto di Albina, pubblicate sulle riviste perbambini e per signora; i quadretti con le figure stilizzatedi donnine in costume; i fantocci al limite dell’espressio-nistico modellati prevalentemente da Giuseppina: tuttoconfluisce in un corpus di opere “pure”, create nella so-stanziale indifferenza della popolarità, gelosamente cu-stodite o regalate a proprietari che potessero compren-derne e apprezzarne il significato di intimo e accoratoumanesimo.14

Nella visione di Vincenzo Pattusi (Senza titolo) le sorelleCoroneo ritornano bambine, restituite alla dimensionespensierata dell’infanzia e alla libera inconsapevolezzadegli esperimenti creativi degli esordi. Adagiate su unamacchina da cucire di fine Ottocento – ready madedal pesante corpo meccanico, ingentilito appenadall’affiorare sbiadito di motivi decorativi floreali – lesagome di Albina e Giuseppina si materializzano pren-dendo le forme familiari del ricamo su panno lenci edel collage di spago, papiers colorati e carte da parati.Pattusi sceglie la via dell’installazione composita e gio-cosamente retorica, dando vita a un patchwork di al-lusioni metaforiche, sineddochi e sinestesie visive. Conin mente il cosiddetto “ospedale delle bambole” – unastanzetta della casa natale delle due, in cui il padre At-tilio si dilettava a “curare” vecchi pupazzi malconci –l’artista le rende bambole a propria volta, immaginan-do per entrambe piccoli corpi bidimensionali fatti diritagli o delineati sinteticamente nei contorni con trattidi filo bianco su stoffa rossa. A proprio agio tra gliscampoli di passamanerie floreali dei costumi tradi-zionali dell’Isola, che Pattusi adagia a mo’ di inventariosullo strumento per il cucito, le Coroneo in versionepoupées sorridono serene e ignare, a ciglia chiuse, per-fettamente calate nella dimensione rassicurante di unfumetto d’epoca che non lascia intenzionalmente

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H 601. CORONEO

14. Sulle sorelle Coroneo cfr. V. SGARBI, M. PERI, Coroneo. L’opera didue sorelle artiste-artigiane, Nuoro, Ilisso, 2009; G. ALTEA, M. MAGNANI,Pittura e scultura dal 1930 al 1960, Nuoro, Ilisso, 2000, pp. 266, 271.

presagire nulla dei drammatici sviluppi futuri conse-guenti lo scoppio del secondo conflitto mondiale, chetanta parte avrebbero avuto nell’evoluzione della loroattività. Tutto resta sospeso nella quiete innocente diun passato ulteriormente ingentilito dal ricordo: cosìche anche all’ago, che spunta dallo scampolo scarlattodopo avere imbastito i chiari contorni e i lineamentidelle artiste artigiane, sembra quasi negata la possibi-lità di pungere.Anche Stefano Marongiu, con l’opera triplice Proviamocosí, replica nello stile e nei materiali i primi manufattidelle due sorelle, pur rifacendosi nel titolo e nelle in-tenzioni a un lavoro più tardo della sola Giuseppina –un pupazzo a se stante, dal piglio surreale e carneva-lesco, risalente ai primi anni Settanta, in cui un uomo,dopo averla sostituita con un’anguria, tiene la sua te-sta sottobraccio. Mixando insieme scampoli di pannolenci colorato e ritagli di sottobicchieri in cartoncino,Marongiu smembra un quadretto-tipo della primamaniera Coroneo, isolandone gli ideali elementi co-stitutivi in tre telaietti circolari da ricamo: in uno riportail soggetto di un collage molto noto e ricorrente, ilProfilo femminile con cuffietta di Desulo (anni Venti-Trenta); in un altro, più piccolo, isola – rendendoloprotagonista – il vasetto con piantina spinosa tenutoin mano dall’ancora più celebre Fanciulla con fico d’In-dia (anni Trenta); in un terzo, infine, esalta quello cheper lui si conferma, anche qui, elemento costruttore,forma modulare di recupero, pixel cartaceo: il sotto-bicchiere stampato. Prendendo alla lettera l’azionecompiuta dal più tardo pupazzo ideato da Giuseppina– che si cambia di capo e di volto per sostituire i con-notati malconci e abbrutiti del vecchio con i colori vi-vaci e il largo sorriso di un cocomero inciso a mezza-luna come una zucca – l’artista sostituisce all’incarnatoroseo della donnina una mappa geografica da ripresasatellitare, a suggerire ancora una volta il senso diun’identità territoriale e culturale instabile e incerta.Si spinge oltre nel tempo, invece, Gianni Casagrande,

che con Volo strumentale fa scorrere le dita propriosulle cicatrici lasciate dalla guerra sul percorso biogra-fico e professionale delle Coroneo: la piccola sculturain carta si configura difatti come soglia metaforica at-traverso la quale gettare la sonda nei vuoti materialie psicologici creati dalla cesura del secondo conflittomondiale, per verificare la possibilità di una sopravvi-venza umana e artistica dopo la perdita di ogni coor-dinata di pace. Ripiegando in vario modo più fogli dacartamodello – rimando esplicito alla matrice esteticatessile di Albina e Giuseppina – Casagrande dà formaa un manufatto geometrico dall’aspetto architettoni-co; quasi un teatrino sfondato a cui manchi il palco-scenico, o una casetta divelta, sventrata dalla cadutadelle bombe, a cui siano crollati muri, pavimenti e fon-damenta. L’origami poligonale, che reggendosi solosu tre lati denuncia un’assenza strutturale, porta peròimpressi su di sé i presagi simbolici di una possibile ri-costruzione futura, che vanno a coincidere con le li-nee continue e tratteggiate dello schema per il tagliae cuci: con piccoli interventi pittorici, l’artista trasformale frecce direzionali stampate sul cartamodello neibecchi neri di altrettante rondini, a suggerire l’even-tualità di nuovi voli e nuovi primavere, esistenziali eartistiche. Come il pilota, sia in pace sia in guerra, nonpuò sollevarsi dal suolo in assenza degli strumenti au-siliari alla sua navigazione, così anche l’arte – sembrasuggerire Casagrande – ha bisogno di condizioniideali per potersi librare oltre la breve misura. Non èdato sapere, tuttavia, la natura dell’humus ad essa piùfavorevole: sta all’osservatore decidere se le rondininon aspettino altro che volare via oltre il sottile soffitto,o se proprio nel caos direzionale e in assenza di coor-dinate sicure non abbiano ritrovato la propria metaideale, le correnti più propizie a uno sbattere d’ali per-petuamente migratorio.Con Guardaroba per figura a riposo Vincenzo Grossosceglie invece di riportare in scala 1:1 la realtà minia-turistica dei pupazzi realizzati nel dopoguerra dalla sola

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se innocente o colpevole della fine del rapporto; seadatto o inetto al difficile ruolo di genitore – si pro-tende in avanti in uno slancio che, unico tra i suoi si-mili, sembra tradire sincera partecipazione. A farglicompagnia, nella comune condizione di fragilità, ilconforto insufficiente di un gatto e di un cane, surro-gati addomesticati di ben altre mancanze.Il pathos delle figure che Giuseppina Coroneo sce-glieva di cogliere nel pieno di una solitudine tantomateriale quanto esistenziale appare addizional-mente accresciuto nei vari esempi di scene di cop-pia o negli ensamble corali. Il ritrovo di reietti alcoliz-zati di un gruppo come La bettola non fa cheamplificare, nella somma delle disperazioni indivi-duali, il disagio di figure altrettanto marginali dalpunto di vista sociale come l’infermo mentale – chein L’idiota è ormai abbandonato ai suoi fantasmi – ela prostituta – che La peccatrice ripropone in una ver-sione tanto sfiorita quanto tardivamente pentita. An-cora più cariche di umana pietà, in questo senso, ap-paiono le rappresentazioni di sposi e innamorati, chenon cessano ancora oggi di impressionare l’osserva-tore per la loro poetica crudezza: da quella attempatadi Arrivo in due e quella più giovane di Figure. E pro-prio a quest’ultima coppia, nel fiore degli anni eppuregià malconcia e segnata dagli avvenimenti bellici,Sergio Fronteddu dedica una piccola opera soave,uno Scrigno pieno di denari e di potenziali “cose bel-le”, le stesse tanto care alle Coroneo degli esordi: l’ar-tista immagina di poterle donare idealmente ai dueindividui, a propria volta rievocati dalla traccia neradi vernice lasciata sulla parete tramite uno stencil chene riproduce le linee dell’abbraccio. Per questa figuradoppia e antica, quasi archetipica, tenuta insieme daun sentimento immortale, Fronteddu prepara unpiccolo forziere traboccante di monetine, simile intutto a quelli tramandati dall’immaginario dei rac-conti fiabeschi e pirateschi ma realizzato con la tec-nica povera e di riciclo della cartapesta, in omaggio

al materiale prediletto da Giuseppina per tutti i pu-pazzi della maniera più recente. Poggiato su una ba-se di legno – che sembra ricordare l’anatomica for-ma di un cuore – e ad essa legato tramite una patinadi colla a caldo – cemento traslucido del buon au-gurio – il piccolo tesoro-giocattolo sta a sé comel’auspicio prezioso di un connubio futuro tra amoree benessere; i due innamorati, stretti l’uno all’altra,sembrano guardare da lontano a tanta fortuna,mentre il contrasto tra l’aspetto artigianale del bau-letto in miniatura e quello più street e contempora-neo delle sagome a parete – proiezioni appena sgra-nate e sgocciolanti nei contorni, quasi ologrammipronti a svanire nel nulla – riporta inevitabilmente ildiscorso alla più coeva e urbana attualità.

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Giuseppina, sostituendo alla rappresentazione della“fauna antropomorfa” di una Cagliari dal volto irrico-noscibile una commemorazione insieme sineddoticae in absentiadella classe operaia della Nuoro degli annidella ricostruzione. Appesi in un angolo fanno bellamostra di sé un paio di calzoni sfondati, una giaccaconsunta, un vecchissimo maglione slabbrato e tarla-to, un berretto floscio con visiera e una lisa cintura dipelle: pochi capi essenziali, evidentemente gli ultimiappartenuti al personaggio qui evocato, membro diuna working class urbana che mai ha dimenticato diportare cure alle campagne circostanti. Abiti civili e dalavoro nel contempo, nella scelta di non avere altra di-visa. Il lavoratore stanco smette gli indumenti sporchicome farebbe un comune avventore, ospite a propriavolta degli spazi del Residence, come se Grosso voles-se offrire a questa figura il conforto di un pernottamen-to comodo e inatteso. E perché gli stessi ospiti realinon dimentichino i drammi di un passato solo appa-rentemente remoto e il coraggio obbligato di chi do-vette affrontarli, l’artista inserisce un elemento – unoscopino di erica riposto con cura di fianco al vestiario– che nell’immediato rievoca Lo spazzino, il personag-gio che Giuseppina elesse come paradigmatico delproprio tempo realizzando svariati pupazzi in omaggioa questo lavoratore utile e dignitoso, eppure relegatoai margini della società. Proprio come l’artigiana, chepreferiva coglierlo nelle pause, riverso a terra e abbrac-ciato stretto alla scopa come ad un’amante, ancheGrosso ne sottolinea un momento di inattività e meri-tato riposo. Qui, il logoro ready made a grandezza na-turale, tanto suggestivo quanto spettrale, riesce a ca-ricarsi di significati strettamente attuali nel momentoin cui i panni dello spazzino di ieri cedono idealmenteil posto non solo a quelli del netturbino di oggi – ruolo,anzi, nobilitato dal presunto progresso civile della rac-colta differenziata – ma a quelli del minatore, dell’ope-raio o del laureato, figure costrette spesso a una “sosta”forzata da una società in crisi da sovrapproduzione, e

costretta a fare i conti con lo smaltimento di ingom-branti rifiuti di ben altro tenore.Si ispira a propria volta ai pupazzi di Giuseppina Co-roneo l’insieme di piccole silhouettes in filo di ferro escampoli di stoffa realizzate da Pasquale Bassu. Il grup-po La famiglia si pone difatti, fin dal titolo, come illu-strazione polemica ma accorata della comédie humai-ne contemporanea. Ai nobili decaduti, ai borghesiinvolgariti, ai reduci di guerra e ai poveri ulteriormenteimmiseriti dalla tragedia, l’artista risponde con pochefigurine esemplari, simboleggianti l’autentico dram-ma del presente; vale a dire la ricerca di un benesseremateriale scompensato dalla perdita progressiva deivalori della convivenza sentimentale e sociale. Il grup-po familiare di Bassu, a dispetto del nome, non vantainfatti nessun legame solido e stabile: è un’umanitàsparpagliata, sospesa, fluttuante e sensibile al più leg-gero soffio, posticcia nelle sue maschere e facilmenteplagiabile nelle anime aggrovigliate di filo di ferro.Nessun pupazzo è, per questo, facilmente inquadra-bile in un ruolo riconoscibile, ma sembra addobbatocon capi d’abbigliamento scoordinati. Le figure ma-schili che sostano in pose scomposte di esaltazione,provocazione o minaccia, mixano tra loro elementi di-somogenei o da mascherata, così che un comunegiubbotto di jeans convive con un cappello da cow-boy, un cinturone western e un paio di stivali campe-ros; il gilet di pelle con il foulard rosso a bandana; lagiubba da pirata con il pantalone dalla stampa psi-chedelica. Persino l’unica silhouette femminile si ador-na di un abito che appare presto fuori luogo: un sem-plice tubino nero che invece di un’eleganza leggiadrae senza tempo suggerisce piuttosto la sobria compo-stezza del lutto. E nel suo aspetto di implicita nega-zione è proprio la metà muliebre e materna che man-ca al Ragazzo padre, la figura che Bassu individuaattualmente come la più disperata: seduto con il fi-glioletto sulle ginocchia, il giovane – poco conta sedivorziato, separato, o semplicemente abbandonato;

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VINCENZO GROSSO,Guardaroba perfigura a riposo, 2014ready made convecchi abiti e scopain erica

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SERGIO FRONTEDDU,Scrigno, 2014stencil su mdf,scultura in cartapestae colla a caldo

PASQUALE BASSU,La famiglia, 2014pupazzi in filo di

ferro e stoffa

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VINCENZO PATTUSI, Senza titolo, 2014ready made, collage di carte colorate,ricamo su panno Lenci

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STEFANO MARONGIU,Proviamo così, 2014

collage polimatericoe telai da ricamo

GIANNI CASAGRANDE,Volo strumentale,

2014, china sucartamodello

sartoriale, cartonato

Vincenzo Grosso

Nasce a Nuoro nel 1977, e qui si di-ploma in Oreficeria presso l’Istituto

d’Arte. Dopo la laurea all’Accademia diBelle Arti di Firenze si abilita all’insegna-mento delle Discipline Pittoriche, e perdiversi anni affianca attività didattica ericerca artistica. Nel 2010 si trasferiscea Berlino – dove collabora con la XLABGallery e la BBK Künstlerhaus Betha-nien – e rivolge il suo interesse verso iltema dell’architettura del dopoguerra,concentrandosi sull’influenza dell’uo-mo sul paesaggio. Attualmente vive elavora tra Nuoro e Berlino, esponendoi suoi lavori in numerose mostre. Nel2011 ha vinto la terza edizione del Pre-mio MAN_Gasworks – cui ha fatto se-guito una residenza di alcuni mesi aLondra – ed è stato tra gli artisti sardichiamati a esporre al Museo Masedu diSassari nell’ambito della 54ma Biennaledi Venezia. È tra gli artisti selezionatidalla APT (Artist Pension Trust) GlobalCollection.

Stefano Marongiu

Nasce a Nuoro nel 1977, e qui si di-ploma presso l’Istituto d’Arte pri-

ma di laurearsi nel corso di Decorazio-ne all’Accademia di Belle Arti di Firenze.Tornato nell’Isola, affianca alla sua ricer-ca artistica numerose esperienze inambito scolastico, tenendo laboratorididattici sul riciclo creativo e sulla pra-tica dei murales. Il riuso dei materiali euno stile vagamente sensibile alle in-fluenze urbane della street art caratte-rizzano la sua produzione più recente,in cui la personale indagine sull’identitàdei luoghi e degli individui fa i conticon le ansie di controllo implicate dal-l’odierna società multimediale. Presen-te in mostre sul territorio nazionale, nel2007 ha lavorato alla scenografia delfilm Sonetaula, del regista sardo Salva-tore Mereu. Vive e lavora a Nuoro.

Vincenzo Pattusi

Nasce a Nuoro nel 1978. Comincia adipingere da autodidatta mentre

studia per la laurea in Storia dell’Arte aPisa, cui fa seguito un Master in Con-servazione e Restauro dei Beni Cultu-rali. Da sempre attratto dalla street art,dirige la sua ricerca visiva verso un mar-cato e suggestivo grafismo, firmando isuoi lavori con lo pseudonimo Ludo1948. Alla produzione pittorica su telaalterna opere pubbliche e site specific:tra le più recenti, l’installazione Farawayso Close per l’Aeroporto Olbia-CostaSmeralda (Olbia, 2011) e un mosaicorealizzato con 30.000 carte di creditousate per la sede del Banco di Sassari(Sassari, 2013). I suoi lavori sono statiesposti in numerose mostre in Italia eall’estero. Dal 2009 è rappresentato dal-la Galleria LEM di Sassari; nel 2011 è sta-to tra gli artisti sardi presenti al MuseoMasedu di Sassari nell’ambito della54ma Biennale di Venezia. Vive e lavoraa Nuoro.

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Pasquale Bassu

Nato a Nuoro nel 1979, dal 2006 siavvicina da autodidatta all’arte

dell’incisione e, dopo i primi esperi-menti condotti nell’Isola come mem-bro del collettivo SEUNA LAB, ne appro-fondisce lo studio formale in Germania.Tornato a Nuoro, dove attualmente vi-ve e lavora, ha proseguito la sua ricer-ca nell’ambito delle arti grafiche e del-la linoleografia, concentrandosi inparticolare sul tema della cartamonetae portando avanti una costante rifles-sione critica sul valore aggiunto deldenaro derivante dalla complessitàdelle operazioni di disegno, stampa eriproduzione seriale. I suoi lavori, sem-pre incentrati sulle problematiche po-litiche e sociali della contemporaneità,sono stati esposti in diverse mostrepersonali e collettive sul territorio re-gionale e nazionale, e fanno parte dicollezioni pubbliche e private.

Gianni Casagrande

Nasce a Nuoro, dove vive e lavora,nel 1963. Artista eclettico e total-

mente autodittata, dopo alcuni espe-rimenti nell’ambito della narrativa edella scrittura musicale e cinematogra-fica, dal 2006 si dedica soprattutto auna pittura di medio e piccolo forma-to, in cui la preziosa cura miniaturisticadel dettaglio si sposa con la resa di unaffascinante immaginario, vivido e sur-reale. Ha all’attivo numerose mostrepersonali e collettive nelle principalisedi espositive dell’Isola: Museo Mu-rats (Samugheo), Pinacoteca CarloContini (Oristano), Museo Tribu (Nuo-ro), Museo MAN (Nuoro). Nel 2011 ètra gli artisti sardi chiamati a esporre alMuseo Masedu di Sassari nell’ambitodella 54ma Biennale di Venezia.

Sergio Fronteddu

Nasce a Nuoro nel 1982, e qui si di-ploma presso l’Istituto d’Arte pri-

ma di conseguire la laurea in Sculturaall’Accademia di Belle Arti di Sassari.Nella sua ricerca ricrea forme e calchidi oggetti familiari con materiali inso-liti, quali il sapone e la colla a caldo: ilfruitore è invitato a interagire con i ma-nufatti, spesso abbandondati in con-testi non istituzionali, in un approcciosensoriale che stimoli nuove percezio-ni nei confronti del quotidiano e del-l’arte contemporanea nella sua totali-tà. Attualmente si occupa anche didesign e di riciclo creativo. Ha parteci-pato a mostre personali e collettive nelterritorio regionale e nazionale, ed èvincitore di numerosi premi e ricono-scimenti, tra i quali il Premio Total Art(COM.FUSION) (2010) e il Premio crea-tività Ponti non muri (2009). Vive e la-vora a Nuoro.

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Gli artisti

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Cecilia Mariani

Nata a Nuoro nel 1983, si è laureatain Storia e Critica del Cinema e

Letteratura Italiana a Sassari, con unelaborato vincitore del Premio Fernal-do di Giammatteo. Dopo la specializ-zazione in Filologia Moderna con unatesi in Storia del Teatro e dello Spet-tacolo, ha centrato il suo Dottorato diricerca, nell’ambito della Storia del-l’Arte Contemporanea, sulle relazionitra estetica e cibo dal 1980 a oggi. Hapartecipato all’allestimento di mostrein ambito regionale, e suoi contributicritici e storici sono stati pubblicati incataloghi, progetti editoriali collettivie sulle pagine del quotidiano Sarde-gna 24. Per Ilisso ha pubblicato il sag-gio Tavolara critico d’arte in EugenioTavolara. Il mondo magico (2012). Re-dattrice del blog culturale www.criti-caletteraria.org, è vincitrice della bor-sa di studio bandita dalla Fondazione“G.A. Sulas” per l’anno 2015. Vive e la-vora a Nuoro.

Nelly Dietzel

Lavora in Sardegna da un decennio,risiedendo a Nuoro dopo avere vis-

suto in Brasile (Jundiai, Sao Paulo), Spa-gna (Valencia) e, naturalmente, Argen-tina (Puerto Madryn) dov’è nata. Daoltre venti anni opera nel settore dellearti grafiche, specializzandosi nell’am-bito editoriale volto alla stampa. A que-sto impegno ha affiancato la professio-ne di fotografa, sottolineata da mostre(Vietri a Bitti, Laboratorio Terrapintada,2008; Moneda, “Guardarsi l’ombelico”,MAN, Nuoro 2011; Che a sa manu deDeus, Acquario, Cala Gonone 2012; Ildenaro tra rito, leggenda e quotidianità,Deutsche Bank, Nuoro 2013; Il Pesced’Oro, Teatro Civico di Cagliari, 2013) epubblicazioni con differenti editori. In-teramente a sua firma sono le immagi-ni dei volumi Piante medicinali in Sarde-gna (2009), Vino in Sardegna (2010),Dolci tradizionali in Sardegna (2011), peri tipi della Ilisso Edizioni, con la qualeha collaborato dal 2004 al 2012.

Le autrici