6. ANTROPOLOGIA PROCESSUALE E INTERPRETATIVA · antropologia culturale all’Università di ... un...
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F. Garimoldi – Dispense di storia dell’antropologia 6 – Antropolgia interpretativa
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6. ANTROPOLOGIA PROCESSUALE
E INTERPRETATIVA
Come si è visto, in Gran Bretagna l’antropologia «sociale» ebbe grande influenza sugli
etnologi, benché rispetto ad essa fossero sorte divergenze teoriche già nella prima metà del ’900,
ad esempio con il lavoro di Evans-Pritchard.
Nella seconda metà del secolo a metterla in crisi sono nuove prospettive teoriche e metodo-
logiche nate dall’esigenza di studiare culture con un’organizzazione sociale e tradizioni più
complesse rispetto a quelle che fino ad allora erano state privilegiate dalla ricerca antropologica.
LA SCUOLA DI MANCHESTER
Max GLUCKMAN
La Scuola di Manchester fu fondata da Max Gluckman (1911-1975), che ebbe la cattedra di
antropologia culturale all’Università di questa città.
Gluckman era nato in Sud Africa e prima di insegnare a Manchester aveva condotto
numerose di ricerche sul campo fra il Sud Africa e la Rhodesia, studiando realtà sociali multi-
etniche complesse o in rapida trasformazione. Da questa esperienza aveva tratto la convinzione che
l’equilibrio di una struttura sociale non sia l’esito di un semplice processo di integrazione e
adattamento degli elementi che la compongono, ma il prodotto, sempre instabile, di fenomeni
contraddittori e tendenze conflittuali. Rispetto all’impostazione struttural-funzionalista viene
messo in primo piano il contributo dei singoli individui alla costruzione e alla trasformazione della
società, dal momento che sono le loro scelte e le loro strategie d’azione a manipolare e reinter-
pretare credenze e norme condivise.
Ritenendo centrale l’analisi dei conflitti e dei meccanismi per il ristabilimento dell’ordine,
Gluckman introdusse delle precisazioni terminologiche per designare livelli diversi di opposizione:
Per i disordini di superficie della vita sociale, a seconda della loro natura, possiamo usare i termini di
competizione, disputa, controversia, lite, contesa, dicordia, rivalità, dissidio ecc. Preferisco riservare il
termine «lotta» a quegli eventi le cui origini sono più profonde e basilari, e il termine «conflitto» per
le contraddizioni nodali del sistema, ma anche in riferimento al rapporto che esiste tra quelle
discrepanze che mettono in moto dei processi che provocano alterazioni nei ruoli sociali, ma non nei
modelli di tali ruoli. Preferisco usare il termine più comune di «contraddizione» per quei rapporti tra
principi e processi discordi nella struttura sociale, rapporti che portano inevitabilmente a un
mutamento radicale del modello di struttura56.
In una dialettica di alternanza fra conflitto ed equilibrio, egli si occupò altresì dei rituali, che
riteneva compiere la doppia funzione di dare espressione ai conflitti e di ricomporli in un rinnovato
ordine sociale. Il valore «catartico», o liberatorio, svolto dai rituali deriverebbe dal loro strutturarsi
in comportamenti stereotipati, previsti e prevedibili, dunque non dannosi per la collettività. Al
tempo stesso, ciò che per i protagonisti dell’azione rituale è liberatorio assume un valore
importante anche per l’insieme della collettività, perché rendendo esplicito il conflitto, manifesta i
56 M. Gluckman, Potere, diritto e rituale nelle società tribali, Torino 1977 (ed. originale 1967), p. 141.
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principi su cui si regge l’unità della società stessa e dunque, indirettamente, contribuisce a
rafforzarla.
In definitiva, secondo Gluckman, l’attenzione dell’antropologo deve rivolgersi alle società
umane come a realtà dinamiche, frutto di processi di costruzione sociale costantemente operanti,
più che a norme e a istituzioni stabili da cui desumere i caratteri di una struttura. Oggetto di studio
sono dunque i meccanismi attraverso i quali azioni, relazioni e conflitti fra individui e gruppi si
determinano e si trasformano nel divenire quotidiano della vita sociale.
Proseguendo in questa direzione, altri antropologi della scuola di Manchester, in particolare
gli allievi di Gluckman, definirono il «metodo dell’analisi dinamica dei casi», secondo il quale lo
studioso deve compiere un’analisi dettagliata di realtà sociali determinate con lo scopo di
individuare le dinamiche sociali e politiche operanti al loro interno per ricostruire i processi stessi
del divenire sociale, cioè il rapporto fra produzione, riproduzione e cambiamento di norme e
comportamenti.
Edmund LEACH
Edmund Leach (1910-1989), pur non appartenendo alla Scuola di Manchester, presenta
numerose affinità tematiche con Max Gluckman, del quale condivide l’importanza attribuita alla
dimensione del conflitto e il ruolo centrale degli individui nella costruzione delle realtà sociali. Fu
allievo di Malinowski e compì le sue ricerche sul campo princialmente presso i Curdi dell’Iraq e
fra la popolazione Kacin della Birmania (oggi Myanmar).
In entrambi i casi si trovò di fronte a realtà culturali «anomale» rispetto a quelle studiate fino
allora dall’antropologia. Si è visto infatti che fino a quel momento i ricercatori avevano preferito lo
studio di società «primitive», in quanto ritenute «elementari» e dunque più semplici da analizzare
rispetto alle società dell’area euroasiatica. Le popolazioni incontrate da Leach si presentavano
invece come società complesse «caratterizzate da una accentuata specializzazione produttiva, dalla
scrittura, da forme marcate di stratificazione sociale, dalla presenza di organismi politici
centralizzati oltre che da religioni universalistiche e salvifiche come l’hinduismo, il buddhismo,
l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam»57. In tali contesti, le articolate dinamiche e i conflitti presenti
fra le forze interne alla società costringono l’antropologo ad abbandonare l’idea che l’equilibrio
strutturale costituisca la condizione «normale» delle società umane; esso si presenta piuttosto come
un «prodotto antropologico», una (consapevole) finzione, motivata dalle esigenze dello studioso di
descrivere, di fare ordine e di sistematizzare, ma priva di puntuali corrispondenze nella realtà
indagata. Scrive Leach:
Il mio punto di vista è che nell’antropologia sociale la teoria dell’equilibrio era un tempo giustificata
ma che ora esige una drastica modificazione. Non possiamo più accontentarci di tentare di creare una
tipologia dei sistemi fissi. Dobbiamo riconoscere che poche, per non dire nessuna delle società che
possono essere oggetto dello studio di un moderno ricercatore sul campo mostrano una spiccata
tendenza alla stabilità. (...)
Il franco riconoscimento del fatto che i sistemi sociali non sono necessariamente stabili per natura non
deve per questo costringere l’antropologo sociale di formazione strutturalistica ad abbandonare tutte
le sue tradizionali tecniche di analisi; egli, anzi, avrà tutte le buone ragioni di continuare ad usare le
sue finzioni scientifiche. Nella realtà pratica della ricerca sul campo l’antropologo deve sempre
trattare il materiale di osservazione come se fosse parte di un equilibrio globale, altrimenti ogni
descrizione diventa quasi impossibile. Tutto ciò che chiedo è un riconoscimento esplicito della natura
«fittizia» di questo equilibrio58.
57 U. Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna 2001, p. 201.
58 E. Leach, Sistemi politici birmani, Milano 1979 (ed. originale 1954), pp. 332-33.
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Fredrick BARTH
Norvegese, nato nel 1928, allievo di Leach, compì studi sul campo presso numerose società
complesse e multietniche di vari paesi del Medio Oriente, in Sudan, in Nuova Guinea e a Bali;
antropologo molto versatile, è ritenuto uno degli autori «teoricamente più stimolanti della seconda
metà del Novecento»59.
Come Leach, Barth assegna un’importanza particolare, nello
studio della realtà sociale, all’apporto dei singoli individui. Dato lo
scarto fra i comportamenti che l’antropologo osserva sul campo e la
struttura sociale, si rende necessario, secondo Barth, adottare un
modello di comprensione delle azioni sociali che contempli
l’interpretazione individuale e la variazione delle norme condivise.
In Modelli di organizzazione sociale, del 1966, Barth propone
dunque di adottare nello studio sociale un approccio da lui definito
«modello generativo», che, focalizzandosi dulla nozione di pro-
gresso, sia in grado, a partire dall’analisi di situazioni reali, di
ricostruire le dinamiche con cui i membri di una comunità fanno le
proprie scelte, interagiscono, si influenzano a vicenda e adottano
strategie di comportamento tali da influire in modo significativo
sull’organizzazione sociale.
In un’opera successiva, Gruppi e confini etnici, edita nel 1969, convinto che in ogni cultura i
processi di mutamento prevalgano sull’equilibrio e la staticità, Barth analizza la nozione di
«gruppo etnico» e ne propone una ridefinizione su basi nuove.
Secondo il significato corrente, per gruppo etnico (o etnìa) si intende un insieme di individui
che hanno in comune origini storiche e culturali, parlano la stessa lingua e risiedono su un
territorio geograficamente definito. Ora, secondo Barth, tali parametri non sono sufficienti per
identificare un gruppo etnico, in quanto trascurano l’importanza della elaborazione simbolica degli
stessi interessati, i quali – particolarmente in contesti complessi dove coesistono realtà culturali fra
loro affini – producono particolari criteri di autoidentificazione per preservare la propria unione
interna pur senza rinunciare all’interazione e allo scambio con gli altri gruppi.
La conclusione è, allora, che quando si parla di etnìe non si devono intendere realtà sociali
nettamente distinte e separate fra loro, quasi fossero mondi chiusi e privi di contatti reciproci, con
caratteri che perdurano stabilmente nel tempo, ma entità costantemente impegnate in un lavoro di
definizione identitaria indotto tanto dall’esigenza di differenziarsi dagli altri, quanto dalla libera
interpretazione degli elementi che appunto segnano questa differenza.
Questa storia [la storia degli studi delle etnie] ha prodotto un mondo di popoli separati, ciascuno con
la sua cultura e ciascuno organizzato in una società che può essere legittimamente isolata per la sua
descrizione come un’isola a sé stante. (...) E’ importante riconoscere che, sebbene le categorie etniche
tengano conto delle differenze culturali, non possiamo presumere un semplice rapporto uno-a-uno tra
unità etniche e somiglianze e differenze culturali. I tratti di cui si tiene conto non sono la somma delle
differenze «obiettive», ma solamente quelli che i soggetti stessi considerano significativi. Non
soltanto le variazioni ecologiche evidenziano ed esagerano le differenze; alcuni tratti culturali sono
usati dai soggetti come segnali ed emblemi delle differenze, altri sono ignorati, e in alcuni rapporti
differenze radicali sono minimizzate e negate60.
59 U. Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna 2001, p. 205.
60 F. Barth, I gruppi etnici e i loro confini, in V. Mahler (a cura di), Questioni di etnicità, Torino 1994, pp. 39-40.
Alcune delle popolazioni
presso cui Barth svolse le
sue ricerche.
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Ciò che importa, dunque, nella determinazione dell’identità etnica non sono tanto – o non
solo – differenze marcate evidenti anche ad un osservatore esterno, quanto piuttosto il significato
che i membri del gruppo assegnano ad alcune di tali differenze e non ad altre, secondo una logica
comprensibile solo dall’interno del sistema culturale stesso.
L’ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA
Dall’inizio degli anni Settanta del ’900 si registrò nell’ambito delle scienze umane una crisi
che coinvolse in misura differente molte discipline, dalla filosofia all’arte, dalla sociologia alla
letteratura. Tale crisi era dovuta al graduale venir meno della fiducia nei grandi sistemi
interpretativi che nei decenni precedenti si erano imposti come schemi metodologici in grado di
descrivere e spiegare ogni aspetto della vita sociale.
La teoria sociale parsoniana e il marxismo (così come, più di recente, lo strutturalismo francese)
hanno avuto tutti una grande importanza nel dopoguerra come paradigmi o quadri di riferimento
disciplinari per la ricerca nelle scienze umane. Oggi di tutto ciò restano fonti per concetti, questioni
metodologiche, procedure, ma nessuna guida autorevole per programmi di ricerca su larga scala. Essi
sono dunque diventati semplicemente delle alternative fra le altre, che possono essere utilizzate o
abbandonate a giudizio dei ricercatori, che operano con molta più indipendenza. La fase attuale, così
come in precedenza quelle degli anni Venti e Trenta, è dunque una fase d’acuta consapevolezza dei
limiti dei nostri sistemi concettuali in quanto sistemi61.
In pratica si comincia a pensare che non esista un unico metodo, un modello «scientifico»
privilegiato che consenta di giungere a generalizzazioni valide per contesti ampi e diversificati. La
consapevolezza dei limiti dei diversi paradigmi va di pari passo con l’incertezza su quali siano i
mezzi più idonei a descrivere la realtà sociale.
In antropologia sulla scorta delle prospettive critiche maturate in quegli anni sia in Francia
sia, come si è visto, in Gran Bretagna, i ricercatori si convincono che il mondo delle culture non
può più essere rappresentato come si era fatto fino ad allora. Ci si rende conto che è ingenuo
pensare ad esse come ad un mosaico di mondi separati, con caratteri determinati e fissi nel tempo,
perché, al contrario, nessuna cultura è statica, così come nessuna è separata dalle altre. Anzi, è
proprio il contatto con popoli diversi a costituire uno dei fattori propulsivi più importanti nel
determinare le trasformazioni.
Se però ogni contatto con il «diverso» è apportatore di cambiamenti in quanto implica un
rapporto e uno scambio, qualunque ne sia l’entità, allora si comprende anche come l’antropologo
non abbia più alcuna possibilità di considerarsi neutrale rispetto alla cultura osservata. Infatti, per
quanto tenti di decentrarsi e di abbandonare i pregiudizi della sua cultura di provenienza, egli è
comunque il rappresentante di un mondo «altro» rispetto a quello con cui entra in contatto, e il
fatto stesso di istituire un rapporto con alcuni membri della cultura studiata è destinato ad avere
ripercussioni su di essa, così come inevitabilmente ne ha sul suo modo di rapportarsi alla propria
cultura d’origine.
Sulla base di queste riflessioni nasce l’antropologia interpretativa, modello di pensiero oggi
fra i più seguiti, che risente delle elaborazioni teoriche prodotte in vari settori delle scienze socio-
umane: dalla fenomenologia alla sociologia di Max Weber, dalla linguistica allo strutturalismo,
dalla teoria critica della scuola di Francoforte all’ermeneutica filosofica; in ambito etnografico
61 G. Marcus e M. M. Fisher, Antropologia come critica culturale, Milano 1986.
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uno dei riferimenti fondamentali resta l’impostazione particolaristica introdotta da Boas all’inizio
del Novecento.
Clifford GEERTZ
Clifford Geertz (1926-2006) è stato il massimo rappresentante del
filone interpretativo in antropologia.
Allievo dell’antropologo Clyde Kluckhohn (1905-60) e del socio-
logo Talcott Parsons (1902-79), il suo pensiero è stato fortemente
influenzato dalla filosofia ermeneutica, in particolare dal pensiero del
francese Paul Ricoeur (1913-2005). Compì ricerche sul campo in molti
paesi, dal Nord Africa al Sud-Est asiatico, che costituirono la base di
numerosi studi a sfondo comparativo. Quella di Geertz è una
comparazione fra culture molto diversa da quella degli antropologi di fine
’800, sia nei fini – qui non si tratta di classificare le culture in base al
grado di civilizzazione raggiunto, ma di comprenderne le caratteristiche
peculiari – sia nei metodi impiegati. Seguendo l’approccio particolaristico,
già indicato da Boas, Geertz è attento ad approfondire i tratti di ciascuna cultura all’interno del
proprio contesto, salvo poi utilizzare riferimenti culturali diversi come spunto per una visione più
globale del fenomeno osservato, al fine di collocarlo entro il più ampio spettro delle soluzioni
elaborate dall’umanità in risposta a problemi specifici.
Un esempio di questo modo di procedere, concentrato sull’analisi di tematiche particolari in
culture diverse, lo troviamo nella riflessione comparata di tre modalità di intendere il concetto di
persona a Giava, a Bali e in Marocco, dove Geertz ha soggiornato per lunghi periodi a partire
dagli anni Cinquanta62.
[A Giava] le idee centrali nei termini in cui procedeva la riflessione, e che quindi definivano i suoi
confini e il senso giavanese di che cos’è una persona, si collocavano in due coppie di contrasti,
fondamentalmente religiosi, uno tra «interiore» [batin] e «esteriore» [lair] e l’altro tra «raffinato» e
«volgare». [Nella prima coppia batin si riferisce all’ambito vissuto dell’esperienza umana e consiste nel
fluire interiore di emozioni e sentimenti, mentre lair riguarda la sfera del comportamento osservabile,
consistente in azioni, posture, espressioni del linguagio parlato]. Questi due insiemi di fenomeni –
sentimenti interiori e azioni esteriori – vengono quindi considerati non come funzioni interdipendenti, ma
come ambiti indipendenti dell’essere che devono essere appropriatamente ordinati in modo indipendente.
E’ in connessione con questo «ordine appropriato» che il contrasto tra alus, la parola che significa
«puro», «educato», «pulito», «raffinato», «etereo», «sottile», «di buone maniere», «controllato», e kasar, la
parola che significa «maleducato», «rozzo», «volgare», «insensibile», «di cattive maniere», viene a giocare
un ruolo importante. L’obiettivo è quello di essere alus in entrambi gli ambiti separati del sé. Nell’ambito
interiore ciò è perseguibile attraverso la disciplina religiosa (...). Nell’ambito esterno, ciò è perseguibile
attraverso l’etichetta, le regole che qui sono non solo straordinariamente elaborate ma hanno anche quasi la
forza della legge. Attraverso la meditazione l’uomo educato raffina la propria vita emotiva fino ad una sorta
di tono di sottofondo, per mezzo dell’etichetta egli sia protegge questa vita dagli elementi distruttivi esterni
sia regolarizza il suo comportamento esterno in modo tale da farlo apparire agli altri come prevedibile, non
disturbante, elegante, un insieme di movimenti stereotipati e di forme verbali stabilite.
(...) Il risultato è una concezione del sé bipolare, metà sentimenti non manifestati, e metà compor-
tamenti manierati e non sentiti. Un modo interiore di emozioni concentrate e un mondo esteriore di
comportamenti formalizzati si confrontano l’un l’altro come due mondi decisamente distinti, essendo ogni
62 C. Geertz, «Dal punto di vista dei nativi»: sulla natura della comprensione antropologica, in Id., Antropologia
interpretativa, Bologna 1988, pp. 77 sgg. passim, intervallato da commenti di raccordo fra parentesi quadre.
Clifford Geertz.
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singolo individuo soltanto il locus temporaneo, per così dire, di questo confronto, un’espressione tempo-
ranea della loro esistenza permanente, della loro separazione permanente e del loro bisogno permanente di
essere mantenuti nel loro proprio ordine.
(...) vi è a Bali un tentativo persistente e sistematico di stilizzare
tutti gli aspetti dell’espressione personale al punto che qualsiasi cosa
idiosincratica, qualsiasi cosa caratteristica dell’individuo semplice-
mente perché egli è quello che è fisicamente, psicologicamente, o
biograficamente viene trasformata in favore di quanto viene ritenuto il
posto a lui assegnato nello spettacolo continuo e che non cambia mai
che è la vita balinese. Si tratta di dramatis personae, e non di attori,
che esistono in senso proprio. Fisicamente gli uomini vanno e
vengono, meri accidenti in una storia di eventi casuali, di nessuna
importanza reale anche per loro stessi. Ma le maschere che indossano,
il palcoscenico che occupano, le parti che recitano, e, più importante, lo spettacolo che mettono in scena,
rimangono, e costituiscono non la facciata ma la sostanza delle cose, non meno che del sé. (...) Tutto questo
è ottenuto (...) attraverso una serie di forme simboliche immediatamente osservabili: un repertorio elaborato
di titoli e designazioni. I balinesi hanno almeno mezza dozzina di nomi, ascrittivi, fissi e assoluti, che una
persona può applicare a un’altra (o, ovviamente, a se stesso) per collocarsi tra i suoi compagni. Vi sono
segni dell’ordine di nascita, titoli di casta, indicatori sessuali e così via, ciascuno dei quali non consiste di
una semplice collezione di utili contrassegni, ma di un sistema terminologico distinto e interconnesso,
internamente estremamente complesso. Quando si applica uno di questi titoli o designazioni (o, cosa più
comune, svariati contemporaneamente) a qualcuno, egli viene conseguentemente definito come un punto
determinato in un modello fisso, come l’occupante temporaneo di un particolare, atemporale, locus
culturale. (...)
Ma forse un solo esempio, il più semplice e ulteriormente semplificato, sarà sufficiente per indicare il
modello. Tutti i balinesi ricevono un nome che indica l’ordine di nascita. Ve ne sono quattro, «primo nato»,
«secondo nato», «terzo nato», «quarto nato», dopo di che si ricomincia dal primo, cosicché il quinto nato è
chiamato nuovamente «primo nato», il sesto «secondo nato», e così via. Inoltre questi nomi vengono
assegnati indipendentemente dal destino dei bambini: bambini morti, persino quelli morti prima di nascere,
contano, cosicché, di fatto, in questa società dall’alto tasso di nascita e di mortalità, i nomi non dicono
alcunché di realmente affidabile sul reale ordine di nascita di individui reali. In un gruppo di fratelli,
qualcuno chiamato «primo nato», può in realtà essere il primo, il quinto o il nono nato, e qualcuno chiamato
«secondo nato» può di fatto essere il maggiore. Il sistema di attribuire un nome secondo l’ordine di nascita
non identifica gli individui come individui, né ha questo obiettivo; ciò che fa è suggerire che per tutte le
coppie che procreano, le nascite costituiscono una successione circolare di «primi», «secondi», «terzi» e
«quarti», una replica senza fine in quattro parti di una forma immortale. Fisicamente gli uomini appaiono e
scompaiono dato che sono effimeri, ma socialmente le figure che recitano restano eternamente le stesse,
come nuovi «primi», «secondi» e così via che emergono dal mondo senza tempo delle divinità per sostituire
quelli che, morendo, si dissolvono nuovamente in esso. (...)
[Fino a che punto questa concezione del sé sia relamente radicata nel comune sentire dei balinesi è
percepibile da uno dei concetti più vicini alla loro esperienza: il lek, che indica la paura, o letteralmente il
terrore, di non corrispondere esattamente al ruolo sociale che si è chiamati a impersonare].
Quello che si teme è che la recita pubblica alla quale è vincolato l’individuo a seconda del proprio
status sociale, sia mal fatta e che la sua personalità – come noi la definiremmo ma non i balinesi dato che
non credono che essa esista – emerga dissolvendo la sua identità pubblica standardizzata. Quando ciò
capita, come talvolta avviene, l’immediatezza del momento viene sentita con fortissima intensità e gli
uomini diventano improvvisamente e contro la loro volontà inermi, bloccati nel mutuo imbarazzo come se
si fossero improvvisamente trovati nudi. E’ la paura dei passi falsi, resa semplicemente molto più probabile
dalla ritualizzazione straordinaria della vita quotidiana, che mantiene i rapporti sociali sui suoi binari
deliberatamente stretti e protegge il senso drammaturgico del sé dalla minaccia di distruzione implicita nella
immediatezza e nella spontaneità che persino la cerimoniosità più appassionata non può sradicare
completamente dagli incontri faccia-a-faccia. (...)
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[Il lavoro di Geertz in Marocco si concentra nello studio della
cittadina di Sefrou, situata a circa 40 chilometri a sud di Fes].
I marocchini, anch’essi, hanno mezzi simbolici attraverso i quali
distinguere le persone tra loro e formarsi un’idea di cosa deve essere una
persona. Il loro mezzo principale (...) è una forma linguistica particolare
che in arabo viene chiamata nisba. La parola deriva dalla radice tri-
letterale n-s-b, che significa «ascrizione», «attribuzione», «imputazione»,
«relazione», «affinità», «correlazione», «connessione», «parentela».
[La stessa parola fa riferimento anche a un processo grammaticale]
che consiste nel trasformare un nome in un aggettivo relativo ma che per
gli arabi è un nome d’altro tipo [che indica appartenenza o una qualche
forma di affinità; ad esempio Sefrou/Sefroui (Sefrou / nativo di Sefrou),
Adlun/Adluni (nome di una famiglia di Sefrou / membro di quella famiglia), Yahud/Yahudi (ebrei/ebreo),
hrar/hrari (seta / mercante in seta)].
Una volta formatosi, il nisba tende ad essere incorporato nei nomi personali – Umar Al-Buhadiwi /
Umar della tribù dei Buhadu; Muhammed Al-Sussi / Muhammed della regione di Sus – questo tipo di
classificazione attibutiva aggettivale fa pubblicamente parte dell’identità individuale. (...) I sé che si
incontrano e si urtano nelle vie di Sefrou ottengono la loro definzione dai rapporti associativi che essi sono
tenuti ad avere con la società che li circonda. Essi sono persone contestualizzate.
Ma la situazione è ancor più radicale di così; i nisba rendono gli uomini relativi ai loro contesti, ma
dato che anche i contesti sono relativi, così lo sono i nisba, e l’intera faccenda si eleva alla seconda potenza:
il relativismo al quadrato. Così, ad un livello, chiunque a Sefrou ha lo stesso nisba, almeno potenzialmente,
cioè è un Sefroui. D’altra parte all’interno di Sefrou questo nisba, proprio perché non discrimina, non sarà
mai usato come parte di una designazione di un individuo. E’ solo fuori di Sefrou che il rapporto con quel
particolare contesto diventa identificante. All’interno di Sefrou egli è un Adluni, Alawi, Meghrawi, Ngadi, e
così via. E lo stesso avviene all’interno di queste categorie: vi sono ad esempio dodici diversi nisba per
mezzo dei quali gli Alawi di Sefrou si distinguono al loro interno. (...)
Questo modello, come gli altri, è difficile da caratterizzare in modo succinto, ma sicuramente una
delle sue caratteristiche principali è il mescolamento in luoghi pubblici di uomini altrimenti attentamente
segregati nei luoghi privati (...). Questo è di fatto il cosiddetto sistema a mosaico della organizzazione
sociale, così spesso ritenuta essere caratteristica del Medio Oriente in generale: tasselli colorati in modo
diverso e di diversa forma assemblati irregolarmente per generare un disegno d’insieme intricato all’interno
del quale la loro originalità individuale rimane intatta. (...) [Questo modello] produce una situazione in cui
le persone interagiscono tra loro in termini di categorie il cui significato è quasi puramente posizionale, del
posto occupato nel mosaico generale, lasciando da parte il contenuto sostanziale delle categorie, cosa esse
significano soggettivamente come forme sperimentate di vita, come qualcosa di nascosto di proposito in
appartamenti, templi e tende. Le discriminazioni nisba possono essere più o meno specifiche, indicare più o
meno precisamente la posizione nel mosaico, e possono essere adattate a qualsiasi cambiamento. Ma non
possono portare con sé niente di più delle implicazioni più sommarie di quello che un uomo con quel nome
è generalmente. Chiamare uno Sefroui è come chiamarlo newyorkese: il nome lo classifica, ma non lo
tipicizza; lo colloca senza ritrarlo.
(...) Il tipo di categorizzazione nisba conduce, paradossalmente, ad un iperindividualismo nei rapporti
pubblici, perché fornendo solamente uno schema libero, e mutevole, di chi sono gli attori (...) lascia che
tutto il resto, cioè quasi tutto, venga determinato dal processo interattivo. Ciò che fa funzionare il mosaico è
la fiducia nel fatto che si può essere totalmente pragmatici, adattivi, oportunisti e ad hoc nei propri rapporti
con gli altri – una volpe tra le volpi, un coccodrillo tra coccodrilli – fino a che si vuole senza alcun rischio
di perdere il proprio senso di identità. L’identità non è mai in pericolo perché, al di fuori delle immediatezze
della procreazione e della preghiera, vengono espresse solamente le sue coordinate.
Questo esempio di analisi del concetto di persona, che abbiamo riferito con ampi stralci del
testo di Geertz, è interessante almeno per due aspetti. Innanzitutto perché il riferimento a culture
«altre» sottolinea, ancora una volta, la relatività della concezione occidentale, e proprio riguardo a
un concetto come quello di persona che, essendo fondamentale nella percezione del proprio essere
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al mondo, più difficilmente viene sradicato dal pregiudizio che ciò che è «naturale» per noi sia
scontato anche per altri. In secondo luogo, lo studio e la comparazione del sé presso popoli diversi
ci offre un esempio concreto del modo di procedere dell’antropologia interpretativa, simultanea-
mente impegnata ad analizzare il dettaglio e a leggerlo alla luce di categorie generali, come nota lo
stesso Geertz:
Cercando di scoprire il senso del sé giavanese, balinese e marocchino, si oscilla senza sosta tra le
minuzie esotiche (antitesi lessicali, schemi categoriali, trasformazioni morfonemiche) che rendono
anche le migliori etnografie di difficile lettura, e le grandi caratterizzazioni («quietismo»,
«teatralismo», «contestualismo») che rendono implausibili queste analisi tranne quelle più pedestri.
Passando continuamente dal tutto concepito attraverso le parti che lo rendono attivo alle parti
concepite attraverso il tutto che le motiva, noi cerchiamo di trasformarli, per mezzo di una sorta di
moto perpetuo intellettuale, in spiegazioni gli uni delle altre63.
Il testo che convenzionalmente ha dato inizio all’antropologia interpretativa è stato
Interpretazione di culture, pubblicato nel 1973. Si tratta di una raccolta di saggi in cui Geertz
riprende alcuni dei problemi tradizionali legati al mestiere di antroplogo e allo statuto epistemo-
logico della disciplina proponendoli alla luce di una sensibilità nuova, tipicamente novecentesca,
che considera un dato acquisito il tramonto di un orizzonte di verità oggettivo e unitario, per aprirsi
al relativismo delle prospettive e al problema della loro reciproca interconnessione.
Da questo punto di vista la riflessione di Geertz e degli autori che, come lui, seguono questa
impostazione si articola intorno ad alcune grandi tematiche: 1) l’incontro fra culture diverse, se e
in quali termini sia possibile; 2) la ricerca del punto di vista dei nativi; 3) i caratteri del testo
etnografico. Esaminando brevemente ciascuna di esse incontreremo altri motivi fondamentali
dell’antropologia interpretativa quali: la concezione della cultura come testo, la riflessione sul
valore dell’empatia per l’etnografo, il significato del «tradurre» da una cultura all’altra, la determi-
nazione della posizione dell’antropologia nel panorama delle discipline scientifiche.
Incontro fra culture.
Si è detto che le culture non sono isolate né statiche, ma che, anzi, dal contatto con altri
gruppi sono vitalizzate e traggono stimoli per rinnovarsi. Da questo punto di vista la cultura, che è
stata definita «sistema di simboli e significati», deve essere pensata come un insieme di idee,
valori, credenze e consuetudini che si definiscono – e continuamente ridefiniscono – nell’ambito
delle relazioni sociali che si creano sia all’interno del gruppo sia con popoli diversi. Quanto
avviene è una continua rinegoziazione di idee e valori. Ma affinché tale negoziazione possa
avvenire è necessario che i diversi attori sociali si muovano su un terreno comune, su una base di
significati più ampi condivisi, in assenza dei quali sarebbe impossibile qualunque contatto.
Questo presupposto è ovvio per le relazioni sociali che si producono fra i membri del gruppo,
appare un po’ meno scontato nei contatti fra culture vicine e non era stato per nulla evidenziato,
fino ad ora, per quanto riguarda i rapporti fra l’antropologo e i «nativi», che costituiscono il suo
oggetto di osservazione. Eppure solo in presenza di un terreno significante comune che faccia da
sfondo alle singole azioni sociali è possibile la comunicazione o, in altri termini, un vero incontro
fra culture. Ugo Fabietti illustra bene questa circostanza paragonandola al gioco degli scacchi:
Un po’ come accade in un gioco, i movimenti di un alfiere sulla scacchiera presuppongono, ad
esempio, un insieme di regole più ampio, identificabile con il gioco degli scacchi. Allo stesso modo le
63 Ibid., pp. 88-89.
F. Garimoldi – Dispense di storia dell’antropologia 6 – Antropolgia interpretativa
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pratiche [= le azioni sociali], per poter essere riconosciute come significanti, devono poter esistere
all’interno di un contesto rappresentazionale più ampio, proprio come i movimenti dell’alfiere sono
dipendenti dal complesso più ampio (della semplice mossa) delle regole del gioco degli scacchi.
Come tali, le pratiche e i significati che essi veicolano e nei quali sono calate, sono di natura
intersoggettiva, nel senso che non sono puramente riducibili agli stati psichici individuali o alle
credenze personali64.
Il punto di vista dei nativi.
Queste considerazioni ci avvicinano al secondo punto citato, cioè alla ricerca del punto di
vista dei nativi, e al tempo stesso ce lo mostrano in tutta la sua problematicità.
Si è detto infatti che perché ci sia comunicazione fra l’antropologo e i soggetti osservati
occorre il riferimento a un orizzonte condiviso di significati, che possa fungere da terreno di
negoziazione per la reciproca comprensione. Ma se le cose stanno così non solo vediamo tramon-
tare definitivamente l’illusione dei primi antropologi di poter essere osservatori oggettivi e
distaccati, di poter raccogliere dati grezzi su cui operare le prorie elaborazioni teoriche, di poter
infine usare un linguaggio neutrale per descrivere quanto osservato (tutto ciò non è evidentemente
più possibile se si assume che qualunque forma di contatto implichi uno scambio), ma ci rendiamo
conto che anche la comprensione del punto di vista dei nativi è quanto mai problematica.
Infatti: di quale punto di vista si tratta? Non certo del loro punto di vista indipendentemente
dal contatto con l’antropologo: questo è destinato a restare ignoto poiché, in base a quanto si è
detto prima, l’atto stesso del verbalizzarlo per renderlo noto a una persona estranea lo rende in
parte «altro» rispetto a prima. Ciò che in tal modo si instaura è un processo di graduale
avvicinamento fra mondi diversi in cui gli elementi della cultura osservata – credenze, idee o
semplicemente comportamenti – si presentano all’antropologo come un testo che deve essere
decifrato. Questo è quanto intende Geertz quando parla della «cultura come testo»:
Tranne che quando segue (come naturalmente deve fare) le pratiche più automatizzate della raccolta
dei dati, l’etnografo si trova di fronte a una molteplicità di strutture concettuali complesse, molte delle
quali sovrapposte o intrecciate fra di loro, che sono al tempo stesso strane, irregolari e non esplicite,
che egli deve in qualche modo riuscire prima a cogliere e poi a rendere. E questo è vero ai livelli più
bassi della sua attività di lavoro su campo: intervistare gli informatori, osservare i rituali, definire i
termini usati per la parentela, tracciare i confini delle proprietà, censire le famiglie... e scrivere il
diario. Fare etnografia è come cercare di leggere (nel senso di «costruire una lettura di») un
manoscritto – straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di
commenti tendenziosi, ma scritto non in convezionali caratteri alfabetici, bensì con fugaci esempi di
comportamento strutturato65.
Come scrive Geertz, il testo da decifrare è un testo particolare perché non è scritto «in
convenzionali caratteri alfabetici», ma anche perché non è creazione personale e soggettiva di un
singolo autore, ma il risultato di un tessuto sociale complesso che ne determina la natura pubblica.
Essa gli deriva dal fatto che i significati, come visto in precedenza, nascono da relazioni di natura
intersoggettiva, dialogica e negoziale. Ciò consente all’antropologia di mettersi al riparo da accuse
di soggettivismo, almeno per quanto riguarda il suo oggetto, mentre la questione resta per il
momento ancora aperta relativamente al testo etnografico, vale a dire al prodotto del lavoro di
«traduzione» dell’antropologo, tanto più che Geertz tiene a sottolineare l’affinità con la critica
letteraria più che con le discipline ritenute tradizionalmente scienze esatte.
64 U. Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna 2001, p. 233.
65 C. Geertz, Verso una teoria interpretativa della cultura, in Id., Interpretazione di culture, Bologna 1987, p. 17.
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«Traduzione» qui non significa semplicemente il rimaneggiamento con le nostre parole di come altri
esprimono le cose (questo è il modo in cui le cose si perdono), ma il mettere in luce la loro logica con
le nostre parole, una concezione che ci porta nuovamente molto più vicini a quello che fa il critico per
illustrare una poesia di quello che fa l’astronomo per descriverci una stella66.
Il testo etnografico.
Quali garanzie ci sono dunque per affermare che l’interpretazione non sia il frutto di un
intervento libero e interamente soggettivo da parte dello studioso? Da quale puto di vista possiamo
sostenere l’attendibilità scientifica della sua lettura della realtà osservata?
Nel suo «Dal punto di vista dei nativi»: sulla natura della comprensione antropologica, del
1974, Geertz affronta questo tema consapevole della complessità del compito.
Già Malinowski si era posto il problema quando rifletteva sulle difficoltà dell’osservazione
partecipante: per lui la questione si poneva essenzialmente in termini psicologici, era la difficoltà
dell’antropologo di entrare in un rapporto di empatia con i nativi senza tuttavia cedere a un
coinvolgimento troppo personale che avrebbe compromesso l’oggettività dal lavoro. Con Geertz il
problema si sposta all’aspetto comunicativo e a quello gnoseologico.
In breve, resoconti della soggettività di altre persone possono essere costruiti senza ricorrere a pretese
di capacità straordinarie di annullare il proprio sé o cose simili. Capacità normali sono ovviamente, in
questo rispetto, essenziali, come lo è la loro coltivazione, se si vuole che le persone tollerino le nostre
intrusioni nelle loro vite e ci accettino come persone con le quali valga la pena parlare. Non sto certo
parlando a favore dell’insensibilità, e spero di non averla dimostrata. Ma qualsiasi opinione più o
meno accurata ci si formi sui propri informatori essa non deriva dall’esperienza di come si è accettati,
che fa parte della propria biografia e non della loro. Essa deriva dall’abilità di tradurre i loro modi di
espressione, ciò che vorrei chiamare il loro sistema di simboli, che l’essere accettati dà la possibilità
di analizzare. Comprendere la forma e l’intensità della vita intima dei nativi, per usare ancora una
volta questa parola pericolosa, è più simile alla comprensione di un proverbio, di un’allusione, di uno
scherzo, – o, come ho suggerito, alla lettura di una poesia – cioè è come ottenere un senso di
comunione67.
Il compito dell’antropologo, come si vede, si definisce diversamente da come l’aveva inteso
Malinowski: non più l’immedesimazione interiore, ma lo sforzo di tradurre. Nel testo che segue
Geertz spiega cosa dobbiamo intendere per traduzione, parlando di concetti vicini e concetti
lontani dall’esperienza68.
Se, come io penso, dobbiamo rimanere fedeli all’ingiunzione di vedere le cose dal punto di vista dei
nativi, come la mettiamo qualdo non possiamo più sostenere di avere un’unica forma di vicinanza
psicologica, di identificazione transculturale con i nostri soggetti? Cosa accade al verstehen quando
l’einfühlen69 scompare? (...)
Ma forse il modo più semplice e diretto per porre il problema è nei termini di una distinzione
formulata, per altri fini, dallo psicanalista Heinz Kohut, tra ciò che definisce concetti «vicini all’eperienza»
e concetti «distanti dall’esperienza».
Un concetto vicino all’esperienza è, sommariamente, un concetto che chiunque – un paziente, un
soggetto, nel nostro caso un informatore – può utilizzare naturalmente e senza sforzo per definire ciò che
66 C. Geertz, Antropologia interpretativa, Bologna 1988, p. 14.
67 C. Geertz, «Dal punto di vista dei nativi»: sulla natura della comprensione antropologica, in Id., Antropologia
interpretativa, Bologna 1988, p. 90. 68 Ibid., pp. 72-74.
69 Verstehen e einfühlen, rispettivamente «comprendere» e «immedesimarsi», termini utilizzati dallo storicismo tedesco
per indicare la specificità del metodo delle scienze umane rispetto alle scienze naturali, che invece «spiegano» in modo
oggettivo e distaccato.
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lui e i suoi colleghi vedono, sentono, pensano, immaginano e così via, che comprenderebbe prontamente
quando utilizzato in modo simile da altri. Un analista, uno sperimentatore, un etnografo, persino un prete o
un ideologo lo utilizzano per fare avanzare i loro obiettivi scientifici, filosofici o pratici. «Amore» è un
concetto vicino all’esperienza, la «cathexis dell’oggetto» è un concetto distante dall’esperienza. «Stra-
tificazione sociale» e forse per molte persone anche «religione» (e certamente «sistema religioso») sono
concetti distanti dall’esperienza; «casta» e «nirvana» sono vicini all’esperienza, almeno per i Buddisti e gli
Induisti.
Chiaramente è una questione di gradi, non una opposizione polare – «paura» è più vicina
all’esperienza di «fobia» e quest’ultima è più vicina di «ego asintonico». E la differenza, almeno per
quanto riguarda l’antropologia (la faccenda è diversa per la fisica e la poesia) non è di tipo normativo, nel
senso che un concetto debba essere preferito ad un altro. Il limitarsi a concetti vicini all’esperienza lascia
l’etnografo immerso nelle immediatezze, e intrappolato nel linguagio comune. Il limitarsi a concetti
distanti dall’esperienza lo lascia arenato in astrazioni e soffocato dal gergo. Il vero problema è che tipo di
ruoli giocano i due tipi di concetti nell’analisi antropologica. O, più esattamente, come, in entrambi i casi,
bisogna utilizzarli per ottenere un’interpretazione di come vive una popolazione che non sia imprigionata
né nei suoi orizzonti mentali, un’etnografia della stregoneria scritta da una strega, né sistematicamente
sorda alle tonalità peculiari della sua vita, un’etnografia della stregoneria scritta da un geometra.
Ponendo il problema in questi termini – nei termini di come bisogna fare l’analisi antropologica e
come inquadrare i suoi risultati, piuttosto che nei termini della costituzione psichica che gli antropologi
devono avere – si riduce il mistero di quello che significa «vedere le cose dal punto di vista dei nativi».
Ciò, comunque, non rende la cosa più facile né diminuisce il bisogno di essere percettivo da parte dello
studioso sul campo. Cogliere concetti che, per altre popolazioni, sono vicini all’esperienza, e farlo
sufficientemente bene da collocarli in connessioni illuminanti con concetti distanti dall’esperienza che i
teorici hanno costruito per cogliere le caratteristiche generali della vita sociale, è un compito per lo meno
delicato, anche se un po’ meno magico del mettersi nella pelle di un altro. Il trucco sta nel non entrare in
una sintonia di spirito troppo stretta con il proprio informatore. Questi ultimi preferiscono, come tutti noi,
sentire come propria la loro anima, e non sono affatto inclini verso uno sforzo del genere. Il trucco sta nel
capire cosa loro pensano di stare facendo.
Da un certo punto di vista, ovviamente, nessuno lo sa meglio di loro; da qui deriva la passione per
lasciarsi trascinare dal flusso della loro esperienza, e l’illusione successiva di esserci in qualche modo
riusciti. Ma, in un altro senso, questo semplice truismo è semplicemente non vero. Le persone usano
concetti vicini all’esperienza in modo spontaneo, inconsapevole, in modo colloquiale. Esse non
riconoscono, tranne che occasionalmente e superficialmente, che vi sono implicati dei «concetti»: questo è
ciò che significa vicino all’esperienza – che le idee e le realtà che esse informano sono indissolubilmente e
naturalmente legate insieme. In quale altro modo si potrebbe chiamare un ippopotamo? Ovviamente gli dei
sono potenti, per quale altra ragione li temeremmo? L’etnografo non percepisce – e secondo me in buona
misura non può percepire – quello che percepiscono i suoi informatori. Ciò che egli percepisce, ed in modo
piuttosto incerto, è ciò che essi percepiscono «con» – o «per mezzo di» o «attraverso», o qualsiasi sia il
termine. Nel mondo dei ciechi, che sono più osservatori di quanto si pensi, l’orbo non è re, ma spettatore.
Come si vede, il compito, non facile, dell’antropologo consiste nel cercare di rendere vicini
al lettore occidentale concetti lontani in quanto provenienti da orizzonti culturali differenti,
preservandone contemporaneamente l’originalità, cioè evitando di assimilarli a schemi concettuali
ad essi estranei. Si tratta di un lavoro di traduzione in cui l’antropologo deve costantemente tenere
sotto controllo la propria posizione, consapevole dei rischi e, in definitiva, dei limiti insiti in ogni
tentativo di traslazione da una cultura all’altra. Proseguendo con la metafora del testo, potremmo
dire che egli deve avere ben chiaro che se comprendere vuol dire interpretare e se interpretare
richiede un lavoro di traduzione, allora inevitabilmente tradurre sarà sempre in parte anche tradire.
Se questo rappresenta un limite innegabile, ciò non toglie che l’antropologo abbia dalla sua
un vantaggio particolare, quello di poter collocare la realtà osservata alla luce di contesti più ampi,
e differenti, operazione che i nativi non riescono a fare in quanto la loro adesione alla propria
cultura è sì immediata e totale, ma proprio per questo in genere solo istintiva. E’ questo il senso
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della frase conclusiva di Geertz: «Nel mondo dei ciechi l’orbo non è re ma spettatore», come dire
che fra i nativi, spesso «ciechi», cioè inconsapevoli del senso profondo della realtà da loro vissuta,
l’antropologo non potrà forse comprendere tutto, è «orbo», tuttavia ha dalla sua la possibilità di
osservare con consapevolezza ciò che gli indigeni vivono in modo irriflesso e di maturare in sé una
percezione profonda della ricchezza e della singolarità delle culture umane.
In ultima analisi, poi, lo studio interpretativo della cultura rappresenta lo sforzo di affrontare la
diversità dei modi in cui gli esseri umani costruiscono le loro vite nell’atto stesso di viverle. (...)
Vedere noi stessi come ci vedono gli altri può essere rivelatore. Vedere che gli altri condividono con
noi la medesima natura è il minimo della decenza. Ma è dalla conquista assai più difficile di vedere
noi stessi tra gli altri, come un esempio locale delle forme che la vita umana ha assunto localmente,
un caso tra i casi, un mondo tra i mondi, che deriva quella apertura mentale senza la quale
l’oggettività è autoincensamento e la tolleranza mistificazione. Se l’antropologia interpretativa ha un
qualche ruolo nel mondo è quello di continuare a re-insegnare questa fuggevole verità70.
70 C. Geertz, Antropologia interpretativa, Bologna 1988, p. 22.