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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI Ver. 01 CAP. 52 MATERIALI INTELLIGENTI Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633. G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 1 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale Politecnico di Milano CAPITOLO 52 52 MATERIALI INTELLIGENTI Sinossi artendo dal concetto di intelligenza in senso lato si introdurrà una particolare classe di materiali che oltre alle intrinseche caratteristiche meccaniche, fisiche, chimiche che contraddistinguono in genere ciascuna tipologia di materiale, presentino delle proprietà di carattere “funzionale”. Con il termine funzionale si intende indicare la capacità di reagire ad opportuni stimoli compiendo ben determinate azioni: ad esempio un materiale magneto-strittivo sottoposto ad un campo elettromagnetico si deforma, un piezoelettrico sottoposto a deformazione produce una differenza di potenziale, il germanio esposto alla luce ne assorbe i fotoni generando corrente elettrica, altri sono in grado di compiere più funzioni contemporaneamente. Tutti questi materiali sono stati raggruppati sotto il nome di Smart Materials. Dopo una breve e sommaria classificazione di tali materiali si parlerà poi di intelligenza connessa alle strutture. Strutture particolari che, grazie ad una architettura complessa, siano in grado di monitorare l’ambiente fisico operativo, raccoglierne ed interpretarne le informazioni per poi rispondere ai cambiamenti dello stesso in modo appropriato ovvero strutture dotate di un’intelligenza artificiale, che possano percepire, sentire, attuare e reagire, adattarsi e persino auto-ripararsi. Per assolvere questi compiti tali Smart Structures devono essere dotate di un sistema di sensori e di attuatori integrando al loro interno proprio quei materiali smart che esibiscono le proprietà funzionali opportune. Si comprende fin da subito che una questione cruciale nella progettazione di tali strutture è la scelta dei materiali. Si porrà quindi attenzione ai criteri che necessariamente devono guidare nella selezione degli attuatori e trasduttori ottimali. Non si tratta esclusivamente di operare un confronto in termini prestazionali: fondamentale importanza assumono i requisiti tecnologici laddove non si può prescindere dalla conformità strutturale delle Smart Structures nel loro complesso. 52.1 Introduzione e linee di evoluzione del settore aeronautico evidenziano il ruolo sempre più importante che va assumendo l’innovazione tecnologica come elemento di vantaggio competitivo. Gli operatori commerciali del settore tendono sempre più ad evidenziare l’importanza di alcuni fattori come il risparmio energetico, la compatibilità ambientale, l’affidabilità, la sicurezza ed il comfort del trasporto. Questi chiamano in causa in modo prioritario problematiche specifiche come la riduzione delle emissioni nocive e il contenimento dei livelli di emissione acustica rispetto alle quali sono necessari sensibili avanzamenti tecnologici ad esempio nelle aree della propulsione, dell’aerodinamica e dei materiali. D’altra parte incidono sempre più i fattori prettamente economici, da tradurre sia in riduzione dei costi di produzione sia di contenimento degli oneri di gestione e P L

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI

Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza

autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.

G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 1 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

CAPITOLO

52

52 MATERIALI INTELLIGENTI

Sinossi

artendo dal concetto di intelligenza in senso lato si

introdurrà una particolare classe di materiali che

oltre alle intrinseche caratteristiche meccaniche,

fisiche, chimiche che contraddistinguono in genere

ciascuna tipologia di materiale, presentino delle

proprietà di carattere “funzionale”. Con il termine

funzionale si intende indicare la capacità di reagire ad

opportuni stimoli compiendo ben determinate azioni:

ad esempio un materiale magneto-strittivo sottoposto

ad un campo elettromagnetico si deforma, un

piezoelettrico sottoposto a deformazione produce una

differenza di potenziale, il germanio esposto alla luce

ne assorbe i fotoni generando corrente elettrica, altri

sono in grado di compiere più funzioni

contemporaneamente. Tutti questi materiali sono stati

raggruppati sotto il nome di Smart Materials.

Dopo una breve e sommaria classificazione di tali

materiali si parlerà poi di intelligenza connessa alle

strutture. Strutture particolari che, grazie ad una

architettura complessa, siano in grado di monitorare

l’ambiente fisico operativo, raccoglierne ed

interpretarne le informazioni per poi rispondere ai

cambiamenti dello stesso in modo appropriato ovvero

strutture dotate di un’intelligenza artificiale, che

possano percepire, sentire, attuare e reagire, adattarsi e

persino auto-ripararsi. Per assolvere questi compiti tali

Smart Structures devono essere dotate di un sistema di

sensori e di attuatori integrando al loro interno proprio

quei materiali smart che esibiscono le proprietà funzionali

opportune.

Si comprende fin da subito che una questione cruciale

nella progettazione di tali strutture è la scelta dei materiali.

Si porrà quindi attenzione ai criteri che necessariamente

devono guidare nella selezione degli attuatori e trasduttori

ottimali. Non si tratta esclusivamente di operare un

confronto in termini prestazionali: fondamentale

importanza assumono i requisiti tecnologici laddove non

si può prescindere dalla conformità strutturale delle Smart

Structures nel loro complesso.

52.1 Introduzione

e linee di evoluzione del settore aeronautico

evidenziano il ruolo sempre più importante che va

assumendo l’innovazione tecnologica come elemento di

vantaggio competitivo. Gli operatori commerciali del

settore tendono sempre più ad evidenziare l’importanza di

alcuni fattori come il risparmio energetico, la

compatibilità ambientale, l’affidabilità, la sicurezza ed il

comfort del trasporto. Questi chiamano in causa in modo

prioritario problematiche specifiche come la riduzione

delle emissioni nocive e il contenimento dei livelli di

emissione acustica rispetto alle quali sono necessari

sensibili avanzamenti tecnologici ad esempio nelle aree

della propulsione, dell’aerodinamica e dei materiali.

D’altra parte incidono sempre più i fattori prettamente

economici, da tradurre sia in riduzione dei costi di

produzione sia di contenimento degli oneri di gestione e

P

L

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manutenzione corrente delle flotte, per le quali si

prospetta un incremento delle ore di volo ed una

conseguente riduzione dei tempi di sosta. Ciò

comporta sviluppi delle ricerche e delle applicazioni

orientate verso lo studio di architetture strutturali di

nuova concezione, la diffusione di metodologie di

analisi più accurate, la razionalizzazione dei metodi e

delle procedure di ispezione, l’ottimizzazione dei

processi produttivi, nonché verso l’impiego di nuovi

materiali. Sulla base di questi temi risultano

strategiche le linee di ricerca che coinvolgono i

materiali compositi e, più nello specifico, i materiali

intelligenti.

Per fronteggiare questa sfida tecnologica fondamentale

importanza assumono lo sviluppo e la messa a punto di

sistemi multifunzionali che possano consentire di

rilevare la difettologia e gli stati di

danneggiamento/degrado della struttura durante la sua

vita operativa, minimizzare gli effetti dovuti a

condizioni di carico inusuali, ridurre gli effetti della

fatica, compensare condizioni locali gravose, ridurre i

livelli di vibrazione. L’attenzione per tali

problematiche, che sono già di ampio interesse

indipendentemente dai materiali utilizzati, diventa a

maggior ragione prioritaria in materiali multistrato

come i compositi per i quali la meccanica del danno e

del cedimento è più complessa e per certi versi non

ancora completamente conosciuta.

A tal proposito la comunità scientifica sta sempre più

investigando differenti tipi di tecniche e di strumenti

capaci di effettuare il monitoraggio dello stato di salute

delle strutture (Structural Health Monitoring – SHM).

Il danneggiamento strutturale potrà essere individuato

e identificato per mezzo di dispositivi integrati nella

struttura stessa, in grado poi di trasmettere queste

informazioni ad un dispositivo esterno così da valutare

lo stato di degrado in tempo reale. Se efficientemente

implementate, queste metodologie potranno garantire

la sicurezza strutturale riducendo al minimo i tempi di

fermo del velivolo per le operazioni di ispezione.

Molti sforzi vengono profusi altresì nello studio del

comportamento vibro-acustico dei compositi, con il

duplice obbiettivo di definire sistemi in grado di

migliorare il comportamento a fatica delle strutture e

ridurre, nel contempo, i livelli di rumore acustico in

cabina, assicurando a passeggeri e membri degli

equipaggi elevati livelli di comfort. Altri studi sono

rivolti al miglioramento dell’efficienza dei velivoli

agendo direttamente sulla forma delle superfici

aerodinamiche così da poterne modificare la

distribuzione di portanza ed aumentare il controllo

della stabilità aeroelastica. Si parla in tal caso di

morphing delle strutture che potrà essere realizzato, ad

esempio, integrando micro-attuatori all’interno di

architetture strutturali di nuova concezione (chiral

honeycomb) in grado di esibire grandi spostamenti

mantenendo bassi i livelli di deformazione locale.

E’ in questo contesto che si inseriscono le attività di

ricerca sulle smart structures che, inglobando al loro

interno opportune tipologie di sensori e attuatori (smart

materials), sono in grado di monitorare l’ambiente fisico

operativo (grazie ai sensori), raccoglierne ed interpretarne

le informazioni (attraverso un centro di elaborazione dati)

per poi rispondere ai cambiamenti dello stesso in modo

appropriato (con gli attuatori). In tal modo le smart

structures cercano di emulare i sistemi biologici e si

pongono l’obbiettivo di aumentare l’efficienza strutturale

esibendo proprietà funzionali senza aggravio di peso, di

costo, senza la riduzione dei livelli di affidabilità e

mantenendo inalterate, nel contempo, le elevate

prestazioni dei materiali compositi. Rispetto ai sistemi di

trasduzione e attuazione convenzionali, esse offrono

molteplici vantaggi. Sensori e attuatori sono anzitutto

protetti dagli effetti ambientali e possono essere più

facilmente collocati negli hot spots della struttura, sia per

il monitoraggio delle zone soggette a condizioni di carico

particolarmente critiche, sia per l’attuazione ed il controllo

di superfici aerodinamiche e di componenti per cui è

difficile, se non impossibile, l’accesso dall’esterno. Altra

caratteristica peculiare è quella di poter effettuare un

monitoraggio della struttura from the cradle to the grave,

ovvero a partire dalle fasi di produzione dei laminati e

fino alla messa fuori servizio dei velivoli. Oltre ad avere

strutture sempre strumentate con una conseguente

riduzione dei tempi di ispezione, questo significa avere la

possibilità di ottimizzare i processi produttivi valutando,

ad esempio, la nascita di sforzi residui o monitorando

l’infusione della resina in tecnologie quali l’RTM (Resin

Transfer Moulding) e l’RFI (Resin Film Infusion).

52.2 L’intelligenza

n generale, il concetto di intelligenza si definisce come

la capacità mentale, dovuta alle funzioni integrative e

adattative del cervello, di fornire una risposta complessa,

finalizzata ed adeguata ad una situazione nuova ed

inaspettata. Esistono in letteratura una pluralità di

definizioni con svariate sfaccettature, ciascuna che riflette

la filosofia di pensiero dello studioso che l’ha formulata.

In tutte si riconoscono, come parametri distintivi di

intelligenza, la capacità di un sistema (biologico o non) di

raccogliere informazioni dall’ambiente in cui si trova,

interpretarle e saperne trarre decisioni che possano

permettergli di adattarsi meglio ad esso, di renderlo meno

ostile, allo scopo di prolungare e migliorare la propria

“esistenza”. Questa descrizione è estremamente

confacente alle forme biologiche in senso lato: non a caso,

anche in ambito ingegneristico, esse rappresentano dei

modelli se non da imitare quanto meno da osservare per

trarne utili indicazioni.

In Giappone, tra il luglio 1987 e il novembre 1989 il

“Council for Aeronautics, Electronics, and Other

Advanced Technologies of the Science and Technology

Agency” promosse una serie di convegni internazionali

sui materiali intelligenti con l’obiettivo primario di

I

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raggiungere una definizione e una classificazione il più

univoca possibile degli stessi. In quella sede

l’intelligenza nei materiali fu classificata in tre

categorie:

1. Intelligenza nei materiali a livelli

estremamente primitivi cui sono affidate

essenzialmente tre funzioni basilari (funzione di

sensore, funzione di attuatore, funzione di processore

(inclusa la funzione di memoria));

2. Intelligenza connessa ai materiali intesa come

proprietà unica dei materiali e dunque in tal senso

indipendente da una qualsiasi valutazione umana;

3. Intelligenza “umana” dal punto di vista delle

relazioni con l’ambiente in cui il materiale è in uso.

A seguito di questa classificazione dell’intelligenza

nella stessa sede fu data anche la seguente

classificazione di materiali intelligenti:

1. Materiali con proprietà variabili. Le proprietà

dei materiali variano in accordo con i cambiamenti

dell’ambiente a seconda delle condizioni operative che

si possono realizzare. Essi possono avere funzioni

intellettive incorporate, come l’auto-diagnosi, l’auto-

apprendimento, la previsione e la notifica, la capacità

di attendere, la capacità di riconoscere e discriminare. I

materiali con queste proprietà hanno un potenziale

futuro come materiali strutturali. Seguono alcuni

esempi:

a. materiali che variano il colore della superficie

a seconda dei carichi applicati. In questo modo è

possibile evidenziare condizioni di carico gravose e

preannunciare eventuali e conseguenti

danneggiamenti;

b. materiali che modificano il proprio aspetto

morfologico a seconda del grado di danno interno

causato da deformazioni permanenti o da fenomeni di

fatica. Anche in questo caso il vantaggio che è

possibile ottenere dal loro impiego è quello di

monitorare il degrado delle loro proprietà;

c. materiali le cui proprietà meccaniche o

elettriche variano in accordo con l’ambiente operativo

così da facilitare il progetto e la costruzione di una

struttura; questo esempio potrebbe includere un

materiale le cui caratteristiche e proprietà, come il

comportamento alla fatica meccanica, il punto di

Curie, il punto di isteresi, ecc. potrebbero modificarsi

in funzione dei cambiamenti dell’ambiente;

d. materiali le cui proprietà meccaniche e

elettriche variano in accordo con il carico applicato.

Essi possono essere utilizzati per realizzare interruttori

con contatti fissi, commutatori on-off il cui tempo di

commutazione potrebbe variare secondo il carico

applicato. Tale tipologia di materiali potrebbe essere

impiegata anche per incrementare le prestazioni dei

materiali compositi innalzandone la resistenza e/o la

rigidezza in punti opportuni della struttura.

2. Materiali con strutture/composizioni variabili.

Sono materiali che hanno in sé aspetti d’intelligenza tipici

dei materiali a proprietà variabili. Essi hanno la possibilità

di essere usati non solo come materiali strutturali, ma

anche come materiali specializzati per impianti nucleari,

aeroplani e veicoli spaziali. Questa classe include:

a. materiali la cui composizione chimica varia in

accordo con l’ambiente e le condizioni operative così da

essere in grado di decomporsi o ripristinare le proprie

caratteristiche autonomamente;

b. materiali la cui struttura varia in accordo col

grado di danno dovuto a radiazione, corrosione, tensione

di rottura, così da raggiungere una resistenza molto

elevata a tali processi nocivi;

c. materiali i cui diagrammi di fase variano in

accordo con l’ambiente affinché possano essere impiegati

in un vasto range di temperature, pressioni ecc.

3. Materiali con funzioni variabili. Le funzioni di

tali materiali possono variare in conseguenza dei

cambiamenti dell’ambiente. In questo caso, i materiali

potrebbero possedere un’intelligenza incorporata con la

capacità di auto-diagnosi, di auto-apprendimento, di

previsione e di notifica, con la capacità di attendere, di

riconoscere e discriminare. Questi materiali hanno la

possibilità di essere usati come materiali elettrici, ottici ed

elettronici. Esempi di questa categoria sono:

a. materiali la cui soglia elettrica varia in accordo

col potenziale applicato o con le condizioni di carico, così

da poter aprire e chiudere automaticamente un circuito;

b. materiali la cui soglia elettrica varia in accordo

col tipo di segnale e con la sua origine, così da

discriminare più segnali all’interno di un medesimo cavo

elettrico di trasmissione;

c. materiali la cui soglia ottica varia in accordo con

la lunghezza d’onda e con la quantità di luce incidente,

così da adattare la luce da trasmettere all’optimum del

campo visivo umano;

d. materiali la cui permeabilità a particolari gas

varia in accordo coi materiali circostanti così da ottenere

l’optimum di permeabilità del gas.

4. Materiali con funzioni sistematizzate. Sono

materiali al cui interno possono svolgersi funzioni

sistematizzate, come ad esempio un trasferimento

sistematico di informazioni. Esempi:

a. materiali circondati da sensori atti a scoprire

molte varietà di segnali contemporaneamente; i materiali

poi mandano in uscita dei segnali simili a quelli dei cinque

sensi umani;

b. materiali sensori in grado di modificare la propria

sensibilità ai cambiamenti circostanti;

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c. materiali tessili in grado di adattarsi alle

condizioni ambientali in modo da ottenere comodità

nell’abbigliamento.

5. bio-materiali con funzioni di self-healing.

Sono materiali che oltre a possedere tutte le

caratteristiche proprie della categoria di intelligenza

connessa ai materiali illustrata precedentemente

consentono di ottenere sistemi auto-riparanti. Esempi

sono:

a. biomateriali capaci di promuovere la crescita

delle ossa nel corpo umano;

b. biomateriali capaci di sostituirsi a organi del

corpo umano;

c. biomateriali capaci di funzionare come

sistemi di distribuzione di farmaci.

52.3 Smart Materials e loro classificazione

ntelligenza e materiali intelligenti possono quindi

essere suddivisi in molteplici sottocategorie ed un

processo di catalogazione come quello appena

descritto può apparire comunque limitato e

incompleto. L’evoluzione esponenziale delle

tecnologie produttive nei settori più disparati porta

inoltre alla nascita ed allo sviluppo continuo di

materiali innovativi rendendone di fatto ancor più

ardua una loro classificazione.

Pur tuttavia, partendo dalla definizione generica di

Smart Materials secondo la quale si considera smart

ogni materiale che associ ad un input un ben

determinato output, ovvero che reagisca ad uno

stimolo manifestando una specifica risposta, è

possibile effettuare una suddivisione in due soli grandi

gruppi che, pur con qualche eccezione, identificano i

due elementi essenziali di una struttura intelligente: i

sensori e gli attuatori.

Al primo di questi gruppi appartengono tutti i materiali

in grado di modificare una o più delle loro proprietà

(chimiche, termiche, meccaniche, magnetiche, ottiche,

elettriche) in risposta a variazioni delle condizioni al

contorno che possono essere sia di natura ambientale

sia direttamente introdotte da una fonte energetica. Un

esempio sono i materiali che cambiano colore in

funzione della capacità di assorbimento superficiale o

molecolare di radiazione elettromagnetica. Così i

termo-cromici dipendono dalla temperatura

superficiale, i foto-cromici cambiano colore in

funzione dell’incidenza della radiazione, gli elettro-

cromici subiscono il campo elettrico che li attraversa.

I materiali che rientrano nel secondo gruppo sono

spesso chiamati anche First Law Materials in quanto si

basano su una trasformazione energetica in accordo

con la prima legge della termodinamica. Un classico

esempio è quello dei materiali fotovoltaici che, come è

noto, trasformano l’energia solare in energia elettrica.

Essi infatti sono in grado di assorbire l’energia

fotonica delle radiazioni luminose attraverso salti

energetici degli atomi del materiale cui è associato un

flusso di elettroni. Se questi materiali si mettono a

contatto con dei semiconduttori in grado di catturare

l’energia elettrica prodotta si ottiene la cella elementare di

un comune pannello fotovoltaico. A questa categoria

appartengono anche materiali (quali i piezoelettrici,

elettrostrittivi, magnetostrittivi) che oltre ad avere la

capacità di trasformare energia da una forma ad un’altra

possiedono la particolare caratteristica di essere

bidirezionali ovvero è possibile scambiare l’input

energetico con l’output. Pensando all’utilizzo degli smart

materials come sensori e attuatori di una struttura più

complessa ciò dà l’evidente vantaggio di deputare ad un

unico dispositivo sia la funzione di trasduzione sia la

funzione di attuazione. Un caso esemplificativo è quello

dei piezoelettrici che, applicati ad una superficie, possono

monitorarne lo stato di sollecitazione trasformando

l’energia di deformazione in tensione elettrica oppure,

viceversa, sono in grado di generare una sollecitazione

meccanica quando vengono attivati elettricamente (Figura

52.1).

Figura 52.1 – Concetto di Smart Material. Esempio di

un sensore/attuatore piezoelettrico bidirezionale.

In Tabella 52.1 e Tabella 52.2 sono elencati i principali

smart materials appartenenti a questi due gruppi

limitandosi ad indicare per ciascuno le proprietà o le

forme di energia su cui è basato il loro principio di

funzionamento1.

Si può notare che sono collocati nella prima categoria

anche i materiali elettro-reologici e magneto-reologici

ovvero una particolare classe di fluidi in grado di variare

la propria viscosità (e quindi una proprietà intrinseca del

materiale) in funzione rispettivamente del campo elettrico

e magnetico a cui sono sottoposti.

1 Per una descrizione dettagliata di tutti gli Smart Materials riportati

nonché per una panoramica delle principali applicazioni industriali si rimanda all’allegato.

I

F>0

Input Output

Risposta Stimolo

Stress V

Strain V

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Tabella 52.1 – Elenco dei principali Smart Materials il

cui principio di funzionamento è basato sul

cambiamento di una delle proprietà del materiale a

seguito di una variazione delle condizioni al contorno

agenti sullo stesso.

SMART MATERIALS: tipologia 1

TIPO INPUT OUTPUT

Thermo-chromic Gradiente

termico Variaz. di colore

Photo-chromic Radiazione

(luce) Variaz.di colore

Chemo-chromic

Variaz.

concentrazione

chimica

Variaz.di colore

Electro-chromic Differenza di

potenz. elettrico Variaz.di colore

Mechano-chromic Deformazione Variaz.di colore

Liquid crystal Differenza di

potenz. elettrico Variaz.di colore

Suspended particle Differenza di

potenz. elettrico Variaz.di colore

Electro-rheological Differenza di

potenz. elettrico Variaz.di viscosità

Magneto-rheological Campo

magnetico Variaz.di viscosità

Fibers Optic Deformazione Variaz. Di segnale

ottico

Tabella 52.2 – Elenco dei principali Smart Materials il

cui principio di funzionamento è basato sulla

trasformazione di energia.

SMART MATERIALS: tipologia 2

TIPO INPUT OUTPUT

Thermo-luminescent Energia termica

(T) Emissione di luce

Photo-luminescent Radiazione

(luce) Emissione di luce

Chemo-luminescent Energia chimica Emissione di luce

Electro-luminescent Energia elettrica

(V) Emissione di luce

Light-emitting-diode Energia elettrica

(V) Emissione di luce

Photovoltaic Radiazione

(luce) Energia elettrica

Shape Memory Alloy

E. termica

(T)/E.

meccanica

Energia meccanica

(strain)

Piezoelectric* Energia elettrica

(V)

Energia meccanica

(strain)

Pyroelectric* Energia termica

(T) Energia elettrica (V)

Thermoelectric* Energia termica

(T) Energia elettrica (V)

Electro-restrictive* Energia elettrica

(V)

Energia meccanica

(strain)

Magneto-restrictive* Energia

magnetica

Energia meccanica

(strain)

*materiali che esibiscono la caratteristica di bi direzionalità.

In base al loro principio di funzionamento essi rientrano

quindi di diritto in questo gruppo benché siano

principalmente utilizzati per l’attuazione in organi

meccanici quali freni, frizioni, assorbitori e smorzatori.

D’altro canto, come pocanzi anticipato, questa è da

considerarsi una delle rare eccezioni di un gruppo di

materiali with sensing capabilities. Analogamente, i

materiali del secondo gruppo possono essere definiti

materiali with actuation capabilities.

52.4 Le strutture intelligenti

Una struttura intelligente si può definire tale qualora sia in

grado di monitorare l’ambiente fisico operativo,

raccoglierne ed interpretarne le informazioni per poi

rispondere ai cambiamenti dello stesso in modo

appropriato. Per assolvere questi compiti la struttura deve

essere dotata di un sistema di sensori, di un sistema di

acquisizione ed elaborazione dati e di un sistema di

attuazione.

Figura 52.2 – Schema di un sistema biologico.

Osservando la Figura 52.2 appare evidente l’analogia con

le strutture biologiche capaci di adattarsi in modo efficace

alle mutevoli condizioni ambientali del loro habitat grazie

alla presenza di sensori incorporati (i nervi), attuatori

interconnessi tra loro (i muscoli) ed un processore o

centro decisionale (il cervello). Esse sono in grado di

sentire o percepire, attuare, adattarsi ed inoltre auto-

ripararsi e replicarsi da sole. Nonostante sia chiaramente

impossibile replicare artificialmente organismi così

complessi le Smart Structures provano ugualmente ad

emularne il comportamento. L’obbiettivo è dunque quello

di ottenere componenti strutturali molto efficienti che,

associando proprietà di carattere funzionale (effetto della

presenza di trasduttori e attuatori) a prestazioni

meccaniche elevate siano capaci di minimizzare gli effetti

di condizioni di carico inusuali, ridurre i fenomeni di

fatica, compensare condizioni locali gravose, rilevare stati

di danneggiamento e degrado.

Centro decisionale

(cervello)

Fonte di energia

Struttura

(corpo)

Attuatori (muscoli)

Sensori

(nervi)

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Storicamente fu l’industria aerospaziale, spinta

dall’esigenza di contenere sempre di più i costi

mantenendo nel contempo alti livelli di sicurezza

operativi, a dare un forte impulso ad una soluzione

progettuale così innovativa. Si comprende facilmente

che la realizzazione di strutture più efficienti significa

riduzione di peso in favore del carico pagante ovvero

che il monitoraggio dello stato di salute del velivolo

durante la vita operativa equivale ad un risparmio di

risorse per le ispezioni delle flotte aeree. In ambito

spaziale, laddove l’intervento dell’uomo risulta

estremamente difficile, l’impiego di strutture con

capacità di auto-diagnosi, auto-manutenzione e auto-

riparazione può offrire evidentemente vantaggi

incommensurabili. L’evoluzione che stanno vivendo in

questi ultimi anni le Smart Structures è guardata ora

con sempre più interesse anche da altri settori

soprattutto quelli laddove la competizione spinge verso

architetture strutturali estreme cui si richiede

prestazioni sempre più esasperate. E’ chiaro infatti che

anche la fase di progettazione di una qualsivoglia

struttura può divenire meno complessa quando si ha la

possibilità di modificarne la rigidezza, la resistenza,

persino la geometria in funzione delle condizioni al

contorno.

La definizione di struttura intelligente pocanzi

enunciata prescinde, com’è logico che sia, dalla

modalità con cui i componenti siano connessi tra loro.

Nella sua accezione più amplia si considera smart

anche una struttura convenzionale strumentata

mediante sensori ed attuatori (ad esempio incollandoli

sulla superficie della struttura stessa). Il concetto di

laminati intelligenti si basa invece sulla possibilità di

inglobare trasduttori ed attuatori all’interno di un host

material in composito. Grazie alla sua intrinseca

eterogeneità l’utilizzo del composito consente di

effettuare l’inglobamento direttamente in fase di

laminazione2. Ciò comporta evidentemente delle

difficoltà tecnologiche aggiuntive (di cui si parlerà

ampliamente in seguito) ma consente di ottenere una

serie di benefici altrimenti irraggiungibili: si pensi alla

possibilità di avere attuazione anche in punti

inaccessibili dall’esterno; sensori ed attuatori sono in

tal modo al riparo da qualsiasi effetto ambientale che

possa alterarne il corretto funzionamento; si possono

impiegare strutture attive anche laddove vincoli

aerodinamici impediscono l’utilizzo di dispositivi

esterni; non ultimo l’inglobamento di sensori consente

di adottare tecniche from the cradle to the grave,

ovvero permette di effettuare sia il monitoraggio

tecnologico durante la produzione sia il monitoraggio

strutturale durante la vita operativa. Tramite lo stesso

set di sensori e la medesima elettronica possono così

essere rilevati sia eventuali difetti di produzione sia

danni dovuti all'utilizzo.

2 Laminazione: è la fase di deposizione delle lamine che costituiscono un laminato in composito.

Benché il ruolo delle smart structures non sia ancora tale

da prevederne a breve un impiego diffuso nelle

costruzioni, l’interesse per tali strutture è testimoniato

dalla sempre crescente produzione scientifica. In

letteratura numerose sono, ad esempio, le applicazioni di

attuatori piezoelettrici per il controllo attivo delle

vibrazioni. Un efficiente controllo della stabilità

aeroelastica ed in particolare di fenomeni di flutter può

essere ottenuto sfruttando sistemi di controllo retro-

azionati. La stessa logica si può applicare alle strutture

spaziali. Ne è un esempio il caso HYPSEO (HYPer

spectral Satellite Earth Observation): un piccolo satellite

progettato da CGSpace il cui carico pagante è costituito da

un sistema tecnologicamente avanzato per osservazioni

iperspettrali del globo terrestre. Il sistema di

movimentazione (Attitude Control System) produce,

mediante una ruota di reazione, delle vibrazioni in un

range di frequenze da 1Hz a 500Hz che si propagano in

tutta la struttura del satellite causando un jitter indotto sul

carico pagante stesso superiore ai valori limiti consentiti

dai requisiti di missione. Questo problema fu risolto

impiegando per la ruota un supporto in lega d’allumino

accoppiato a un dispositivo di smorzamento passivo ma

estensivi studi dimostrarono che una soluzione

potenzialmente migliore è la realizzazione di un

supporto/smorzatore attivo basato su attuatori

piezoelettrici in quanto capace di ridurre i disturbi su tutto

il range di frequenze. Un’altra tipica applicazione è il

controllo attivo del rumore acustico (acoustic noise

control). In ambito elicotteristico è risaputo che il rotore

introduce in cabina alti livelli di rumore a discapito del

comfort dei passeggeri. Attuatori dinamici vengono

predisposti sugli elementi di supporto del rotore per

produrre interferenza distruttiva generando onde sonore di

eguale ampiezza ma sfasata di 180 gradi rispetto a quelle

prodotte dal rotore stesso.

I velivoli ad ala rotante rappresentano per altro uno dei

principali campi di interesse delle Smart Structures. I

componenti strutturalmente più significativi (mozzo e

pale) sono infatti realizzati con i materiali compositi; nel

contempo la variabilità dell'ambiente operativo (livelli

estremi di temperatura e umidità), la tipologia dei carichi

di progetto (statici, fatica) ed accidentali (dinamica, crash,

balistica), la necessità di non alterare altre funzionalità

(aerodinamica), l'obbligo di contenere massa e volume dei

sensori e dell'elettronica di acquisizione-controllo e, non

ultimo, l'esasperata convenienza di gestire

contemporaneamente numerosi segnali (multiplexing) ben

motivano la scelta di adottare sensori ed attuatori

inglobati. E non a caso aziende leader del settore spingono

sempre più in questa direzione. Fra tutti possono essere

menzionati lo studio avviato dall’AgustaWestland per

l’Health Monitoring di pale di elicottero mediante sensori

a fibra ottica inglobati e quello di Eurocopter sull’Active

Rotor Twist Blades mediante attuatori PZT.

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI

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52.5 La scelta dei materiali: requisiti

tecnologici e funzionali

Nella progettazione di una struttura o, più

semplicemente, di un singolo componente strutturale

un passo fondamentale ed obbligato è costituito dalla

scelta dei materiali. È necessario innanzitutto

analizzare in dettaglio le condizioni al contorno, dai

carichi alle condizioni ambientali operative. La scelta

influenza ed è influenzata anche da una serie di altri

fattori quali le tecnologie produttive, le tecniche di

collegamento, i costi, l’impatto ambientale ed altro

ancora. Fattori dai quali non si può prescindere e che,

nell’insieme, costituiscono i requisiti di progetto.

Benché al livello di sviluppo attuale non sia possibile

dettare rigorosamente i requisiti di progetto di una

struttura intelligente, nel corso della presente attività di

ricerca sono emersi alcuni aspetti fondamentali di cui è

importante tener conto già a livello della scelta di

sensori, attuatori ed host materials. Partendo da questi

aspetti, che verranno affrontati in dettaglio nei capitoli

successivi, si vuole qui definire dei criteri di scelta che

possano guidare il progetto preliminare di una Smart

Structure.

52.5.1 I requisiti tecnologici

Focalizzando l’attenzione sulle Smart Structures intese

come strutture che inglobano sensori ed attuatori si

può innanzitutto osservare che la scelta dei materiali

compositi, come pocanzi accennato, appare come la

più naturale. Per di più che i laminati in fibra di

carbonio o vetro sono materiali altamente prestanti in

termini di rigidezza e resistenza specifiche, di

tolleranza al danno, di resistenza alla corrosione e di

una serie di proprietà che incontrano i requisiti delle

moderne costruzioni aeronautiche e spaziali.

Ciò detto, non va dubbio che sensori e attuatori,

comunque essi siano inglobati, introducano delle

discontinuità nel materiale (sacche di resina, variazioni

di spessore) e costituiscano essi stessi una

discontinuità che, al pari di un difetto qualsiasi, può

degradare le caratteristiche meccaniche dello stesso

finanche ad innescare l’enucleazione di un danno. Per

ridurne l’invasività, primaria importanza assumono la

forma e le dimensioni dei sensori/attuatori: è

ragionevole supporre che elementi filiformi con

diametro tale da poter essere inglobati direttamente a

livello della singola lamina siano meno invasivi di altri

per il cui inglobamento sia necessario operare un cut-

out della lamina stessa. Fermo restando quanto appena

detto il discorso sull’invasività è tuttavia ben più

complesso. Un difetto può propagare infatti

indipendentemente dalle sue dimensioni iniziali e le

cause possono essere molteplici: possono intervenire

rotture in seno al sensore/attuatore oppure

all’interfaccia con il materiale ospite; le rotture

possono essere dovute a carichi esogeni o endogeni

oppure alla combinazione di entrambi. E’ necessario

quindi che il materiale dei sensori/attuatori abbia

caratteristiche meccaniche in grado di sopportare

sollecitazioni di carico gravose e che sia tale da garantire

un’adesione della matrice del composito paragonabile a

quella che si ottiene fra le lamine dello stesso.

Quest’ultimo aspetto assume un’importanza cruciale

perché dalle prestazioni dell’interfaccia dipendono

fortemente non solo le prestazioni meccaniche della

struttura ma anche e soprattutto le sue caratteristiche

funzionali. L’accuratezza della misura dei sensori ed il

livello di autorità degli attuatori non possono prescindere

infatti dalla load transfer capability, la capacità di

trasferimento dei carichi da e verso il materiale ospite. E’

fondamentale quindi che la loro superficie sia adeguata a

promuovere un’adesione che preferibilmente non sia di

natura esclusivamente meccanica (dipendente dalla

rugosità superficiale). Un incremento delle prestazioni

dell’interfaccia può essere ottenuto laddove si riesca a

ingenerare con la matrice un vero e proprio legame

chimico durante il processo di polimerizzazione.

Non si può poi prescindere dalle tecniche di inglobamento

alle quali si richiede che non rendano ancora più critici

tutti questi aspetti. L’esigenza di isolare elettricamente i

due elettrodi di un attuatore piezoelettrico inglobato in un

materiale conduttivo (quale è il carbonio) oppure quella di

proteggere le fibre ottiche nella zona di uscita dai laminati

sono due esempi che possono aiutare a comprendere

meglio questo concetto. In entrambi i casi le tecniche di

inglobamento comportano l’adozione di un elemento

aggiuntivo, rispettivamente una patch di materiale isolante

e una guaina protettiva che vanno anch’esse inglobate. Un

tecnologo potrebbe dire che “si è introdotta una potenziale

difettosità attraverso l’introduzione di una seconda

potenziale difettosità”. Benché una simile affermazione

possa apparire esagerata non va dubbio che l’invasività di

sensori e attuatori è, e continuerà ad esserlo anche nel

prossimo futuro, un punto cruciale nello sviluppo delle

Smart Structures. Tornando a parlare della scelta dei

materiali si comprende quindi l’importanza di operare una

selezione che, in qualche modo, possa facilitare e

assecondare lo sviluppo di tecniche di inglobamento

efficaci e poco invasive.

Vi è infine la questione legata alle tecnologie produttive.

L’uso di materiali compositi con qualificazione

aeronautica o spaziale richiede cicli tecnologici ad alte

temperature (tipicamente 130÷170°C) che possono

comportare problemi di compatibilità termo-elastica fra i

sensori/attuatori ed il materiale ospite. Ciò deve

indirizzare verso componenti la cui integrità e funzionalità

non venga compromessa durante i cicli di produzione ma

che, nel contempo, abbiano temperature operative

sufficientemente basse da non danneggiare

(all’attivazione) la matrice polimerica dell’host material.

Forma, dimensioni, tecniche di inglobamento,

compatibilità con i cicli produttivi sono dunque aspetti

cruciali nella scelta dei materiali. Il completo

soddisfacimento di questi requisiti tecnologici è una

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condizione essenziale per l’ottenimento di strutture

affidabili e sicure, che possiedano caratteristiche

meccaniche elevate e che garantiscano un buon

comportamento a fatica, che siano, in sintesi,

strutturalmente conformi alle strutture convenzionali.

Tutto ciò però non basta. L’essenza delle Smart

Structures rimangono quelle proprietà funzionali che

hanno motivato e che spingono la ricerca scientifica al

loro sviluppo. Proprietà funzionali che devono sempre

essere considerate in ciascuna fase della progettazione

e che quindi giocano un ruolo importante anche nella

scelta dei materiali. Di questi requisiti funzionali si

parlerà nel paragrafo seguente.

52.5.2 I requisiti funzionali

La scelta della tipologia, della quantità e della

posizione di sensori e attuatori all’interno di una

struttura dipende innanzitutto dall’applicazione per la

quale la struttura è progettata e le soluzioni ottimali

vanno ricercate e valutate volta per volta

contestualmente alle strategie di monitoraggio e di

attuazione che si intendono adottare. E’ possibile

tuttavia fare alcune considerazioni di carattere

generale.

Lo scopo dei sensori è quello di monitorare la risposta

del sistema compatibilmente con le leggi di controllo

fornendo misurazioni utili a ricostruire lo stato del

sistema stesso. A prescindere dal tipo di grandezza che

si intende misurare, siano esse misure meccaniche

(carichi, deformazioni, vibrazioni, ecc), termiche (per

individuare i gradienti di temperatura) o misure

chimiche (per l’analisi di fenomeni quali la corrosione

e la erosione) è fondamentale effettuare sempre

un’indagine preliminare per configurare una griglia di

sensori che, opportunamente posizionata, provochi le

minori variazioni possibili alla dinamica della struttura

in esame. Un errato posizionamento può inoltre portare

alla difficoltà di lettura dei dati o alla lettura di dati

non interessanti. Le diverse tipologie di sensori

possono suddividersi in due principali categorie:

sensori locali, e sensori distribuiti. Un sensore locale

misura un particolare parametro in un punto definito

dalla sua posizione. Il valore puntuale misurato risulta

quindi attendibile quando si ritiene sufficientemente

regolare il campo di indagine. Un sensore distribuito

viceversa permette la misura del parametro di interesse

lungo la sua stessa geometria. Sensori di questo genere

sono in grado di coprire, tramite opportune griglie di

posizionamento, superfici molto ampie. Essi non sono

generalmente in grado di fornire valori puntuali. Pur

tuttavia, tramite un’analisi dei dati forniti, è possibile

ottenere un andamento qualitativo e a volte anche

quantitativo dei parametri di interesse lungo la

struttura in esame. La presenza di un elevato numero

di sensori porta inevitabilmente alla necessità di

organizzarli in un sistema multiplexing dotato della

capacità di interrogare contemporaneamente, con

modalità diverse, più sensori. I dati provenienti dal

sistema sensore devono essere interpretati ed elaborati al

fine di rappresentare lo stato in cui la struttura si trova e

fornire i comandi al sistema di controllo. Spesso i dati in

ingresso sono sovrabbondanti e complessi, il che rende

necessaria una procedura di riduzione o di selezione degli

stessi. Da ciò risulta evidente l’importanza di una scelta

oculata nel posizionamento dei sensori, collegata anche ad

una buona conoscenza preventiva delle proprietà della

struttura.

Come i sensori, gli attuatori ideali devono avere il minor

peso possibile, essere relativamente non intrusivi e avere

il minor effetto possibile sulla dinamica del sistema. Il

meccanismo di azione dell’attuatore deve essere adeguato

all’applicazione: per esempio in molte applicazioni

aerospaziali oppure nel settore automotive si richiedono

attuatori dal basso peso e con risposte su una larga banda

di frequenze mentre nella progettazione di stabilizzatori

per macchinari industriali sono richiesti attuatori in grado

di fornire grandi deformazioni senza limitazioni troppo

restrittive sulle frequenze d’attuazione. E’ inoltre

fondamentale che gli attuatori siano rapidi tanto da

rispondere con minimi ritardi di tempo per non

destabilizzare il sistema. Spesso gli attuatori sono

sottoposti ad elevati campi elettrici oppure a forti carichi

meccanici indotti dalla struttura ospite (ad esempio sforzi

di trazione elevati a causa della forza centrifuga sulle pale

di un rotore). In tali condizioni il materiale piezoelettrico,

ad esempio, mostra un comportamento fortemente non

lineare; di conseguenza, per sviluppare un efficiente

sistema strutturale con attuatori piezoceramici, è

necessario prevedere la risposta degli attuatori in termini

di ampiezza e fase della deformazione indotta; la potenza

assorbita; l’integrità degli stessi sotto differenti eccitazioni

e livelli di carico. La potenza elettrica richiesta da tutti gli

attuatori dipende dalla deformazione da indurre, dalla

frequenza alla quale deve essere sottoposta la struttura e

dalla temperatura di funzionamento. Devono essere tenute

in considerazione anche l’efficienza e la stabilità del

materiale quando esso è sottoposto a tensioni di

funzionamento polari e bipolari, oppure la sua resistenza

alla depolarizzazione.

Per offrire un’efficienza ottimale è necessario che anche le

leggi di controllo siano messe a punto in modo da

accordarsi perfettamente ai sensori e agli attuatori con cui

devono operare, tenendo conto di fattori come

discontinuità nelle rilevazioni dei sensori, non linearità del

fenomeno, fenomeni di isteresi, e altre proprietà degli

smart materials in modo da ottenere le prestazioni

desiderate.

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52.6 Principio di funzionamento di sensori

e attuatori

52.6.1 Fibre Ottiche

La fibra ottica è una particolare struttura capace di

fornire un’opportuna guida d’onda alla luce:

vincolando il segnale luminoso a seguire un

determinato percorso ne limita le perdite di potenza

consentendone la trasmissione a lunga distanza.

Generalmente costituite di materiale vetroso o

polimerico le fibre ottiche hanno una struttura

coassiale, come si può osservare in Figura 52.3.

Figura 52.3 – Struttura concentrica di una tipica fibra

ottica.

Al centro vi è un filamento a sezione circolare detto

core, del diametro tipico di 8µm per la fibra mono-

modale3 e 50÷62,5µm per quelle multi-modali

4.

Attorno ad esso vi è uno strato chiamato cladding, del

diametro esterno di 125µm. Core e cladding

costituiscono la guida d’onda vera e propria e si

differenziano per avere indice di rifrazione

leggermente diverso: il cladding deve avere un indice

di rifrazione minore (n0 = 1, 475) rispetto al core (n0

= 1, 5). Per offrire una maggiore resistenza e

protezione alla fibra, in fase di realizzazione viene

aggiunto uno strato detto buffer o coating, di spessore

variabile dai 7µm per i rivestimenti in poli-imide ai

75µm per quelli in poli-acrilato.

52.6.1.1 Principio di funzionamento

La fibra ottica si comporta come un conduttore che

confina la luce al suo interno attraverso il fenomeno

della riflessione totale, descrivibile con un modello di

3 La fibra mono-modale permette la trasmissione di un solo raggio

luminoso o modo di propagazione al suo interno, poichè grazie al

diametro ridotto del core, circa 9µm, e alla riflessione totale su di un diametro cosi ridotto si ottiene una propagazione del raggio

luminoso all’interno di fatto quasi rettilinea (mono-modo o single-

mode). Tale fibra permette di ottenere delle dispersioni cromatiche molto limitate e quindi garantisce le più elevate caratteristiche di

trasmissione. 4 Le fibre multi-modali permettono la trasmissione di centinaia di

modi di propagazione.

ottica geometrica. La riflessione è il fenomeno per cui un

fascio di luce che colpisce una superficie di separazione

tra due mezzi prosegue in parte il suo percorso,

deviandolo oltre la superficie, e in parte torna nella

direzione di provenienza. In particolare, con riferimento

alla Figura 52.4-a, detto I l’angolo di incidenza del

raggio luminoso e detto R l’angolo formato dal raggio

riflesso con la normale alla superficie, si ha che I = R.

(a)

(b)

Figura 52.4 – Rappresentazione del principio di

funzionamento della fibra ottica.

Chiamando T l’angolo formato dal raggio trasmesso o

rifratto con la normale alla superficie, secondo la legge di

Snell, si ha che

( ) ( ) (52.1)

dove n1 e n2 sono i rispettivi indici di rifrazione dei due

mezzi.

La riflessione totale avviene quando l’angolo T raggiunge

l’ampiezza di /2, cioè se non esiste più onda rifratta.

Questo fenomeno può avvenire nel passaggio da un mezzo

più denso a uno meno denso (quando n1 > n2); l’angolo T

tale per cui non esiste onda rifratta è detto angolo critico:

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(

) (52.2)

Quando crit non appare alcun raggio rifratto,

quindi la luce incidente subisce una riflessione interna

totale ad opera dell’interfaccia. Si genera un’onda di

superficie, onda evanescente (leaky wave), che decade

esponenzialmente all’interno del mezzo con indice di

rifrazione n2, il cladding, nel caso delle fibre ottiche.

In Figura 52.4-b sono rappresentati due raggi luminosi

che incidono l’interfaccia tra core e cladding

all’interno della fibra ottica. Il fascio A incide con un

angolo A superiore a crit e rimane intrappolato nel

core ossia è totalmente riflesso mentre il fascio B

incide con un angolo B minore di crit, viene pertanto

rifratto nel cladding e perso. Si capisce quindi che

solamente i fasci luminosi entranti nella fibra

all’interno del cosiddetto cono di accettazione riescono

a percorrerla (Figura 52.5).

(a)

(b)

Figura 52.5 – Legame tra l’angolo di accettazione (a),

la propagazione e l’intensità della luce all’interno di

una fibra ottica (b).

Ciò porta a dei limiti nell’utilizzo della fibra stessa che

non può essere sottoposta ad angoli di curvatura troppo

stretti pena la fuoriuscita parziale o totale del fascio

luminoso dal cladding.

L’impiego diffuso di fibre ottiche iniziò dopo la

seconda guerra mondiale per costruire una rete di

comunicazione che fosse immune alle interferenze

elettromagnetiche e quindi potesse essere usata anche

a seguito di un’esplosione nucleare. Oggi costituiscono

la struttura portante delle principali arterie di

telecomunicazione grazie ad una serie molteplice di

vantaggi fra i quali si sottolineano la bassa attenuazione

del segnale trasmesso, la capacità di veicolare

informazioni ad alta velocità, la capacità di multiplexare le

informazioni sulla stessa fibra, l’immunità da interferenze

elettromagnetiche, l’alta resistenza elettrica, il peso e

l’ingombro ridotti, la bassa potenza contenuta nei segnali

e non ultima l’ottima resistenza a condizioni climatiche

avverse.

Nelle comunicazioni ottiche, lo spettro viene normalmente

descritto in funzione della sua lunghezza d’onda, piuttosto

che della sua frequenza (anche se le due informazioni

sono intercambiabili). Combinando i diversi fenomeni di

attenuazione, rifrazione e dispersione vi sono tre finestre

spettrali, rappresentate in Figura 52.6, particolarmente

adatte all’uso nelle telecomunicazioni:

PRIMA FINESTRA: 850nm, molto usata nei laser a diodo

con luce multimodale, permette di realizzare collegamenti

fino a poche centinaia di metri.

SECONDA FINESTRA: 1310nm, usata con laser

multimodali o monomodali, permette la realizzazione di

collegamenti dell’ordine dei 5-10km.

TERZA FINESTRA: 1550nm, usata con laser

monomodali, permette di coprire le distanze maggiori,

compresi collegamenti superiori ai 100km.

Figura 52.6 – Finestre di utilizzo della fibra ottica.

52.6.1.2 Sensori a reticolo di Bragg

I sensori a reticolo di Bragg o FBG (Fiber Bragg

Gratings) sono sensori intrinseci a modulazione spettrale

capaci di misurare diverse grandezze fisiche tra cui

deformazione e temperatura. In un sensore intrinseco il

parametro fisico da misurare interagisce direttamente con

la fibra ottica e modifica le caratteristiche della luce che

rimane sempre confinata all’interno della fibra. In un

sensore di tipo spettrale l’interazione del sensore con la

grandezza da misurare modula la distribuzione spettrale

dell’intensità della luce. I sensori a reticolo di Bragg sono

dei particolari sensori inscritti all’interno di una fibra

ottica opportunamente drogata per renderla fotosensibile.

La particolarità di questa fibra è la capacità di poter

modificare il valore locale dell’indice di rifrazione del

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core attraverso l’esposizione dello stesso ad

un’opportuna fonte di energia, come può essere un

fascio di luce laser. Modulando in maniera appropriata

la sorgente laser è possibile inscrivere nel core un

reticolo costituito da una serie di frange aventi un

indice di rifrazione differente.

Figura 52.7 – Reticolo di Bragg a spaziatura uniforme.

Il dispositivo si comporta da filtro ottico in

trasmissione e da riflettore selettivo della lunghezza

d’onda in riflessione. La variazione dell’indice di

rifrazione core altera infatti il percorso ottico del fascio

luminoso consentendo solo ad una parte della luce

attraversare il reticolo mentre la restante parte viene

riflessa. Lo spettro di riflessione presenta delle

caratteristiche ben specifiche, che sono legate alla

struttura del reticolo, in particolar modo alla

periodicità e all’intensità di modulazione dell’indice di

rifrazione delle sue frange. I parametri che

caratterizzano ogni FBG sono:

periodo del reticolo;

L lunghezza del reticolo;

neff indice di rifrazione efficace del reticolo;

B lunghezza d’onda di Bragg;

n variazione dell’indice di rifrazione del reticolo;

R riflettività del reticolo R = tanh2 (kL);

k parametro di modulazione k = n/B.

L’equazione fondamentale per l’utilizzo degli FBG è

quella di Bragg, che lega la spaziatura del reticolo e la

lunghezza d’onda centrale dello spettro riflesso,

chiamata lunghezza d’onda di Bragg B, definita come

segue:

(52.3)

Come si può osservare in Figura 52.8 ogni coppia di

frange del reticolo riflette una piccola percentuale

della luce ad una specifica lunghezza d’onda, B. Lo

spettro di riflessione si ottiene sommando i contributi di

ogni singola frangia, che nel caso siano tutte uguali

restituisce uno spettro che presenta un picco centrato a B.

Figura 52.8 – Riflessione delle frange di un reticolo di

Bragg.

Ogni effetto che provoca una variazione della lunghezza

L, del periodo o dell’indice di rifrazione neff del reticolo

determina un mutamento della lunghezza d’onda di Bragg

e quindi può essere misurato. Misurando la variazione

della B dello spettro, come mostrato in Figura 52.9, si

risale alla misura della grandezza osservata attraverso

opportune costanti foto-termo elastiche.

Nel caso in cui la sollecitazione sia uniforme su tutto il

reticolo si osserva che lo spettro di riflessione manifesta

una traslazione rigida lungo l’asse delle lunghezze d’onda,

(Figura 52.10-a). Nel caso di misura di deformazioni

meccaniche si ha uno spostamento verso le lunghezze

d’onda maggiori nel caso di sollecitazione a trazione e

viceversa verso le lunghezze d’onda inferiori nel caso di

compressione. Analogamente avviene anche per le misure

di temperatura. Nel caso la sollecitazione presenti un

andamento lineare lungo il reticolo si osserva un aumento

della larghezza dello spettro e una riduzione del suo valore

di picco, come mostrato in Figura 52.10-b.

Figura 52.9 – Variazione dello spettro di riflessione di

un reticolo FBG sottoposto a una sollecitazione

uniforme. La misura della B permette di ricavare

l’entità della sollecitazione attraverso il legame foto-

elastico.

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La misura del solo fornisce quindi una

valutazione del valore medio della grandezza in

esame lungo il sensore. Nel caso di sollecitazione

arbitraria lo spettro può subire notevoli

deformazioni (Figura 52.10-c), presentando anche

sdoppiamenti del picco, e la lunghezza d’onda

associata al picco dello spettro non è sufficiente a

determinare neanche il valore medio della

grandezza osservata.

Figura 52.10 – Variazioni dello spettro di riflessione di

un reticolo soggetto a deformazioni che presentano

diversi andamenti ma uguale valore di deformazione

media, pari a 2000µ.

Il sensore di Bragg permette quindi di ricavare sia

informazioni quantitative che qualitative della

grandezza misurata. Oltre alle già citate proprietà delle

fibre ottiche, i sensori a reticolo di Bragg si

distinguono per una serie di caratteristiche:

la B ha un andamento lineare rispetto alle

sollecitazioni termiche e meccaniche in un ampio

range di misura;

la grandezza misurata è codificata attraverso lo

spettro e il sensore risulta quindi non affetto da

disturbi esterni o perdite di potenza;

i sensori in fibra ottica hanno dimensioni limitate e

possono essere inglobati all’interno di una struttura

in materiale composito;

è possibile inserire sulla stessa fibra ottica più di un

reticolo alla volta attraverso le diverse tecniche di

multiplexing;

è possibile ottenere sia sistemi di misura quasi-

puntuali sia quasi-distribuiti;

un reticolo FBG può funzionare come trasduttore di

temperatura, deformazione o altre grandezze;

elevata sensibilità.

52.6.1.3 Caratteristiche geometrico-ottiche del reticolo

di Bragg

La risposta di un reticolo di Bragg è fortemente legata alla

sua struttura ed in particolar modo alla sua lunghezza, alla

sua spaziatura e alla sua apodizzazione, caratteristiche che

sono ottenute durante la fase di produzione del sensore. La

prima determina l’estensione la zona sensibile della fibra

ottica, la seconda riguarda la successione geometrica delle

diverse frange, mentre la terza determina il profilo di

variazione dell’indice di rifrazione.

Lunghezza

La lunghezza del reticolo determina le dimensioni della

zona sensibile della fibra ottica, la tipologia ed il campo di

utilizzo del sensore. Esistono reticoli con lunghezze

comprese in un range di 2÷50mm; quelli più corti sono

più adatti ad una misurazione puntuale della grandezza in

esame specie su oggetti di piccole dimensioni, mentre

quelli più lunghi permettono di mediare la misura su una

maggiore lunghezza. Oltre alle dimensioni che dipendono

da ciò che si deve misurare, bisogna tenere in

considerazione che, a parità di modulazione dell’indice di

rifrazione sulle singole frange, un reticolo più lungo

garantisce una maggiore riflettività ed uno spettro

migliore, ossia con un picco ben marcato e facilmente

identificabile, come mostrato in Figura 52.11.

Figura 52.11 – Spettri di reticoli uniformi e non

anodizzati di diversa lunghezza.

Si può osservare in Figura 2.10-a come all’aumentare

della lunghezza del reticolo aumenti il valore di picco

della riflettività fino ad arrivare alla riflessione completa

della luce avente lunghezza d’onda pari alla lunghezza

d’onda di Bragg e di un suo ristretto intorno.

Un’ulteriore osservazione riguarda l’ampiezza dello

spettro che al contrario della riflettività tende a diminuire

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all’aumentare della lunghezza del reticolo fino a

raggiungere un valore asintotico, come mostrato in

Figura 52.12-b.

Figura 52.12 – Andamento della potenza riflessa e

dell’ampiezza dello spettro al variare della lunghezza di

un reticolo standard.

Spaziatura

Esistono diverse tipologie di reticoli di Bragg che si

differenziano per la disposizione geometrica delle

frange. Le geometrie maggiormente usate in ambito

sensori stico sono quelle del reticolo uniforme e di

quello chirpato.

Figura 52.13 – Geometria (a) e spettro (b) di un FBG a

reticolo uniforme.

Il reticolo uniforme presenta una costante periodicità

delle frange di interferenza, definita attraverso la

relazione di Bragg. Questa uniformità permette alle

singole frange di riflettere la luce alla stessa lunghezza

d’onda e quindi di ottenere uno spettro molto stretto

centrato in corrispondenza della B, come si vede dalla

Figura 52.13.

Figura 52.14 – Geometria (a) e spettro (b) di un FBG a

reticolo Chirpato.

Un reticolo chirpato presenta una variazione monotona

delle sue caratteristiche, come mostrato in Figura

52.14-a e può essere ottenuto sia modificando la

spaziatura delle singole frange che la variazione

dell’indice di rifrazione del core n. I reticoli chirpati

danno luogo ad uno spettro di riflessione di tipo allargato

in quanto, a differenza dei reticoli uniforme, ogni frangia i

ha un periodo i diverso e quindi riflette la luce ad una

differente lunghezza d’onda Bi . La somma dei contributi

di riflessione di tutte le frange restituisce uno spettro a

banda larga, come mostrato in Figura 52.14-b.

Una caratteristica unica di questi reticoli nell’ambito

sensoristico è la possibilità di associare una perturbazione

in un preciso punto dello spettro ad una perturbazione (sia

termica che meccanica) in un punto preciso del reticolo.

Esiste quindi una relazione bi-univoca tra la posizione

geometrica di un punto sullo spettro e sul reticolo. Lo

spettro di riflessione può essere espresso in funzione della

posizione lungo il reticolo. Tipicamente i reticoli chirpati

hanno una lunghezza di 30÷50mm e riflettono uno spettro

con un’ampiezza di circa 4,5÷5nm. Le caratteristiche dei

reticoli chirpati permettono di usarli come sensori capaci

di misurare sia le variazioni medie sull’intera lunghezza

del reticolo che individuare possibili danneggiamenti

localizzati in uno o più punti dello stesso. A livello

operativo bisogna ricordare la notevole differenza di costo

tra le due tipologie di reticoli. I reticoli chirpati costano

circa 10 volte quelli uniformi a causa della loro struttura

più complessa e della maggiore lunghezza.

Apodizzazione

Lo spettro di riflessione di un reticolo di Bragg di

lunghezza finita e con le frange aventi tutte lo stesso

indice di rifrazione genera uno spettro di riflessione che

presenta un picco centrale associato ad una serie di lobi

laterali. Per migliorare la lettura dello spettro e di

conseguenza la bontà della misura è fondamentale ridurre

tali lobi il più possibile eliminando la riflettività alle

lunghezze d’onda esterne a quelle del picco principale. Per

fare ciò si ricorre all’uso di particolari reticoli, detti

apodizzati, che presentano una variazione della

modulazione dell’indice di rifrazione lungo il reticolo.

Figura 52.15 – Confronto tra lo spettro di un reticolo

FBG non apodizzato ed uno apodizzato.

52.6.1.4 Tecniche di multiplexing

L’utilizzo della fibra ottica permette di utilizzare più

sensori sullo stesso canale di acquisizione sfruttando le

diverse possibilità di multiplexing offerte dai sistemi

ottici. I principali metodi di multiplexing ottico si basano

sulla suddivisione dei segnali associati ai singoli canali

attraverso una diversificazione della lunghezza d’onda,

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Wavelength Division Multiplexing (WDM), o del

tempo, Time Division Multiplexing (TDM).

Wavelength Division Multiplexing (WDM)

La più semplice tecnica di multiplexing dei sensori

FBG si basa sulla suddivisione dei reticoli in base alla

differente B di ognuno e alla possibilità di suddividere

lo spettro della sorgente luminosa in opportune

finestre. Su un’unica fibra ottica vengono foto-incisi in

successione diversi reticoli ognuno dei quali ha una

propria periodicità e una B associata che differisce

da un reticolo all’altro. Lavorando nel campo delle

lunghezze d’onda la spaziatura tra i diversi reticoli può

essere scelta a piacimento, all’interno dello spettro

della sorgente luminosa. In Figura 52.16 è mostrato il

classico schema WDM in cui un array di reticoli FBG

è scritto su un’unica fibra e illuminato con una

sorgente laser a banda larga. I segnali ottici riflessi dai

singoli reticoli sono inviati al sistema di rilevamento

WDM . Tra i possibili metodi di separazione del

segnale WDM vi è la suddivisione dell’intero spettro

luminoso in finestre di osservazione tramite opportuni

filtri ottici di tipo passabanda. Ad ogni finestra è

associato un singolo reticolo, la cui ricade

all’interno della finestra di osservazione, e un

interrogatore ottico.

Figura 52.16 – Schema di un sistema di misura

Wavelength Division Multiplexing.

Solitamente si usa un sistema di interrogazione

simultanea in parallelo di tutti i sensori WDM, come

mostrato in Figura 2.15-a. Si usa uno splitter ottico

1xNfibre per suddividere lo spettro di riflessione negli

N reticoli monitorati. Nello schema in parallelo ogni

foto-rilevatore riceve solo 1/2N della potenza ottica a

causa dell’uso dello splitter 1xN e degli N coupler,

richiedendo quindi una notevole potenza luminosa

erogata dalla sorgente. Un migliore sfruttamento della

potenza luminosa rispetto allo schema in parallelo si

ha con lo schema in serie, mostrato in Figura 2.15-b.

La maggiore riduzione di potenza si ha a causa degli N

coupler necessari, ma grazie all’eliminazione dello

splitter 1xN si ha un risparmio di 6dB sulla potenza

ottica richiesta alla sorgente.

Il vantaggio di uno schema WDM è la possibilità di

acquisizione in continuo e contemporanea di tutti i

reticoli indipendentemente dalla distanza tra di essi

all’interno della fibra ottica. Di contro con questo

sistema è possibile acquisire un numero limitato di

reticoli.

(a)

(b)

Figura 52.17 – Schema in parallelo (a) ed in serie (b)

per il de-multiplexing di sistemi WDM.

Time Division Multiplexing (TDM)

Nello schema TDM, mostrato in Figura 52.18, si usa una

sorgente laser di tipo pulsato e questo permette di

acquisire gli impulsi di riflessione dei diversi reticoli in

tempi diversi. L’intervallo temporale di acquisizione tra

un segnale e l’altro è determinato dalla distanza tra i vari

reticoli. La durata dell’impulso della sorgente deve avere

una lunghezza inferiore o pari alla distanza tra i diversi

sensori. Gli impulsi riflessi da ogni reticolo sono separati

nel tempo e vengono elaborati da un interferometro di tipo

Mach-Zender che misura la variazione di lunghezza

d’onda B.

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Figura 52.18 – Schema di un sistema di misura Time

Division Multiplexing.

Il vantaggio principale di uno schema TDM è quello di

poter utilizzare reticoli a bassa riflettività, con lo stesso

periodo ed in numero elevato sulla stessa fibra ottica

(riducendo i costi di produzione). Con questa tecnica è

possibile acquisire fino a 100 reticoli inscritti nella

stessa fibra. Lo svantaggio principale è la necessità di

separare spazialmente i reticoli per dare il tempo

all’interrogatore di distinguere gli impulsi di ciascun

sensore nonché l’acquisizione sequenziale degli stessi.

52.6.2 Leghe SMA

Le leghe a memoria di forma (Shape Memory Alloys,

SMA) sono particolari leghe che, se deformate entro

certi limiti, hanno la capacità di recuperare la loro

forma originale mediante il riscaldamento al di sopra

di una temperatura caratteristica di trasformazione. Se

il recupero di forma è completamente o parzialmente

impedito dalla presenza di vincoli, il materiale può

generare sforzi notevoli, detti sforzi di recupero, sui

vincoli stessi. Le proprietà termo-meccaniche di queste

leghe dipendono principalmente dalla loro

composizione chimica, dal lavoro a freddo effettuato

durante le fasi di produzione, dai trattamenti termici e

dai cicli termo-meccanici cui vengono sottoposti

durante la vita operativa. La più nota lega a memoria

di forma è senza dubbio il NiTiNOL (Nickel-Titanium-

Naval-Ordnance-Laboratory, dal nome del laboratorio

statunitense dove fu scoperta agli inizi degli anni

sessanta): si tratta di una lega equi-atomica di Nickel-

Titanio e nonostante il costo abbastanza elevato, è

molto utilizzata in virtù sia delle rilevanti

deformazioni di recupero che può esibire (dell’ordine

del 5-8%). Inoltre essa possiede un range elevato di

temperature di attivazione (tipicamente da -30°C a

+170°C) che la rende versatile a molteplici impieghi.

La natura a grani fini e la bassa anisotropia di questa

lega ne permette la produzione in forma di fili, strisce,

fogli e tubi. Il NiTiNOL presenta anche una elevata

resistenza alla corrosione ed è biocompatibile (ciò ne

spiega il vasto utilizzo in applicazioni biomediche). Le

leghe NiTi arricchite con maggior quantità di Titanio

(Ti) differiscono dalle leghe NiTi equi-atomiche nel

fatto che la presenza di maggior Titanio incrementa le

temperature di trasformazione. Le leghe NiTi

arricchite con maggior quantità di Nickel (Ni), oltre ad

avere temperature di trasformazione inferiori,

esibiscono una pseudo-elasticità estesa a causa

dell’effetto delle precipitazioni che induriscono la matrice

metallica. Tipicamente la deformazione pseudoelastica

recuperabile per questo materiale è stata misurata da

Saburi (1986) ed è dell’ordine del 8%.

Alla base del comportamento di tutte le leghe a memoria

di forma vi è la proprietà delle leghe stesse di cambiare

fase al variare della temperatura: questo fenomeno è stato

denominato trasformazione martensitica. Le

trasformazioni martensitiche sono generalmente divise in

due gruppi: termoelastiche e non termoelastiche. Le

trasformazioni non termoelastiche avvengono

principalmente nelle leghe ferrose e sono associate ad una

interfaccia non mobile tra la martensite e la fase genitrice;

queste ultime sono vincolate da difetti permanenti e

procedono mediante successive enucleazioni e crescite. A

causa della enucleazione della austenite durante la

trasformazione martensitica all’indietro (da martensite ad

austenite), le trasformazioni non termoelastiche sono a

livello cristallografico non reversibili ovvero la martensite

non può riconvertirsi nella fase genitrice con

l’orientazione originale. Le trasformazioni martensitiche

termoelastiche viceversa sono associate ad una interfaccia

mobile tra la fase genitrice e quella martensitica chiamata

habit plane. Questa interfaccia è in grado di effettuare

movimenti “all’indietro” durante la trasformazione inversa

mediante uno stiramento delle placche martensitiche senza

subire né rotazioni né distorsioni rendendo così reversibile

dal punto di vista cristallografico la trasformazione stessa

(Figura 52.19).

Figura 52.19 – Deformazione reticolare nel passaggio

martensite-austenite; vengono indicati sia gli sforzi di

taglio che si generano, sia l’interfaccia mobile habit

plane.

Per una trattazione più completa delle trasformazioni

martensitiche termoelastiche di fase si rimanda alle teorie

cristallografiche della trasformazione martensitica

sviluppate da Wechsler (1953) e da Bowles e MacKenzie

(1954).

52.6.2.1 Comportamento microscopico

Nel NiTiNOL esistono due fasi stabili della struttura

cristallina chiamate austenite (o fase genitrice) e

martensite (o fase prodotto). L’austenite rappresenta lo

stato stabile ad alta temperatura e possiede una struttura

cristallina cubica B2 a corpo centrato ad elevata simmetria

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a cui corrisponde un elevato modulo elastico; la

martensite, invece, rappresenta lo stato stabile a bassa

temperatura e possiede una struttura monoclina B19’

alla quale corrisponde un modulo elastico inferiore.

Dal momento che la struttura cristallina della

martensite presenta una minor simmetria, possono in

tale fase coesistere diverse orientazioni chiamate

varianti. Le varianti martensitiche sono ventiquattro ed

in uno stato privo di sforzo sono tutte presenti; in

questo caso si dice che lo stato è di martensite twinned,

perché le orientazioni dello stesso tipo sono accoppiate

tra loro. Invece, quando esiste uno stato di sforzo, la

lega si deforma e permangono solo le varianti che

meglio si adattano allo sforzo; in tal caso la martensite

prende il nome di martensite detwinned (martensite

indotta da sforzo, SIM, oppure martensite riorientata).

In alcune leghe NiTi arricchite al Nickel, dopo alcuni

trattamenti termici, può inoltre comparire una terza

fase chiamata fase-R caratterizzata da una struttura

cristallina di tipo romboedrica R; questa fase è una

distorsione romboedrica del reticolo B2 dell’austenite

nella direzione (111)A ed è quindi una ulteriore fase in

competizione con quella martensitica durante la

trasformazione.

I cambiamenti della struttura cristallina che le leghe a

memoria di forma presentano corrispondono ad un

passaggio di fase da austenite a martensite

(trasformazione in avanti) e viceversa (trasformazione

all’indietro). La trasformazione in avanti si sviluppa a

seguito di un raffreddamento attraverso enucleazione e

propagazione di microscopici piani di interfaccia che

si muovono parallelamente. Il continuo abbassamento

della temperatura non accresce la dimensione delle

placchette di martensite, ma ne enuclea di nuove. Gli

atomi della struttura genitrice austenitica si muovono e

si riordinano in modo da ottenere la struttura prodotto;

il moto cooperativo degli atomi causa di fatto una

deformazione del reticolo cristallino.

La configurazione ideale (Figura 52.20-a) non è

raggiungibile perché la matrice austenitica vincola la

deformazione costringendo il reticolo a mantenere la

posizione originale del cristallo. Si genera in questo

modo uno stato di sforzo che porta ad una

deformazione locale secondo due possibili

meccanismi: scorrimento (slip) e geminazione

(twinning), come illustrato in Figura 52.20-b. Con lo

scorrimento si ha una deformazione plastica per moto

delle dislocazioni che quindi è irreversibile, mentre

con la geminazione si ha la formazione di placchette

con orientazione differente rispetto alla matrice. In

quest’ultimo caso non si ha rottura di legami atomici,

quindi la deformazione è reversibile. Applicando uno

sforzo di taglio alla martensite ottenuta per

geminazione è possibile far scorrere il bordo dei

geminati ottenendo una netta variazione di forma ed

una martensite allineata in una unica direzione.

La trasformazione all’indietro avviene perché i cristalli si

orientano nuovamente secondo la configurazione originale

(reversibilità cristallografica).

(a)

(b)

(c)

Figura 52.20 – Orientazione ideale del reticolo durante

la trasformazione martensitica (a); Processo di slip e

processo di twinning (b) e Curva dell’energia libera di

Gibbs per la trasformazione martensitica di fase del

NiTiNOL (c).

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La driving force che guida la trasformazione

martensitica, è il salto energetico che deve essere

superato per passare dalla fase genitrice alla fase

prodotto, ovvero la differenza tra l’energia libera di

Gibbs delle due fasi. Dalla Figura 52.20-c si può

notare che esiste una temperatura T0 alla quale la

differenza di energia libera di Gibbs ∆G è nulla; a

temperature inferiori la fase a minor G è quella B19’

martensitica, mentre a temperature superiori quella a

minor G è la fase B2 austenitica.

52.6.2.2 Comportamento macroscopico

Il passaggio di fase da austenite a martensite è

chiamato trasformazione in avanti (forward

transformation) , mentre il passaggio da martensite ad

austenite è chiamato trasformazione all’indietro

(reverse transformation). Le principali variabili

macroscopiche che permettono di caratterizzare il

comportamento del NiTiNOL sono la temperatura, lo

sforzo, la deformazione e la frazione martensitica. La

frazione martensitica, ossia il volume della martensite

presente nella lega rispetto al volume totale, può essere

impiegata come un indicatore dello stato di

avanzamento della trasformazione martensitica,

considerando insieme tutte le varianti di martensite.

Essa assume un valore che può variare tra 0, caso in

cui esiste solo austenite, ed 1, caso in cui il materiale è

tutto in fase martensitica.

Figura 52.21 – Evoluzione della frazione martensitica al

variare della temperatura.

Associate alla trasformazione martensitica in avanti e

all’indietro, vi sono quattro temperature caratteristiche

di inizio e fine trasformazione forward e reverse

(Figura 52.21): AS, AF, MS, MF. A queste possono

essere aggiunte talvolta altre due temperature associate

alla fase-R: Rs , Rf.

Le interazioni di carichi termici e meccanici con le

leghe a memoria di forma sono le cause del passaggio

da una fase all’altra.

Le temperature di trasformazione dipendono quindi

dallo stato di sforzo presente nel materiale secondo

leggi di tipo lineare:

( )

( )

(52.4)

( )

( )

(52.5)

con AS0, AF0, MS0, MF0 temperature di trasformazione a

sforzo nullo, σ è lo sforzo applicato, CA e CM coefficienti

che per il NiTiNOL possono variare rispettivamente tra

4,5 e 13,8 MPa/°C e tra 7 e 11,3 MPa/°C.

Figura 52.22 – Passaggio da austenite a martensite a

seconda della temperatura e dello sforzo applicati.

Riportando i dati sperimentali di cicli termici condotti a

sforzo costante in un grafico sforzo-temperatura, si ottiene

il diagramma di fase riportato in Figura 52.23. Nel

diagramma di fase si possono individuare quattro grandi

regioni dette zone morte (in colore grigio) e due regioni

dette strisce di trasformazione (in bianco). Nelle zone

morte la trasformazione non può avvenire e prendono

rispettivamente il nome di zona A, nella quale è presente

100% austenite, zona Md, in cui è presente martensite

allineata nella direzione dello sforzo (detwinned), zona

Mt,d dove possono coesistere martensite non allineata

(twinned) e martensite detwinned, ed infine zona Mt,d

A

nella quale possono coesistere martensite twinned,

detwinned e austenite. Nelle strisce di trasformazione [A],

[M], [t], [d] possono avvenire o la trasformazione

martensitica o la riorientazione della martensite,

esclusivamente seguendo i versi indicati dalle frecce nA,

nM

, nt, n

d. Facendo riferimento al percorso di Figura 52.23

con partenza dal punto E, quando la lega nel suo processo

attraversa la striscia [M] con verso concorde alla freccia

nM

avviene la trasformazione in avanti; quando la lega

attraversa la striscia [A] con verso concorde alla freccia nA

avviene la trasformazione all’indietro. Occorre notare che

l’andamento di MS, MF, AS, AF, è lineare per bassi e alti

valori di sforzo, mentre si presenta non regolare nel tratto

intermedio. Ciò dipende dal fatto che in base al livello di

sforzo applicato si possono avere diverse configurazioni

di martensite.

La caratteristica cruciale delle leghe a memoria di forma è

la presenza di una trasformazione martensitica di fase tra

la fase austenitica e le varianti della fase martensitica. Ciò

che rende queste leghe profondamente differenti, dal

punto di vista macroscopico, dagli altri materiali sono

principalmente l’effetto di memoria di forma (SME,

Shape Memory Effect) e la pseudo-elasticità che si

verificano a seconda del modo in cui avviene la

trasformazione di fase.

Temperatura

Fra

zio

ne

mar

ten

siti

ca

0.0

1.0

0.5

MF

MS

AS

AF

AusteniteMartensite

twinned

Martensite

detwinned

Riscaldamento

Raffreddamento

Sforzo

Sforzo

Riscaldamento

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Figura 52.23 – Diagramma delle fasi del NiTiNOL in

funzione dello sforzo e della temperatura.

Effetto memoria di forma: recupero di grosse

deformazioni mediante una combinazione di processi

meccanici e termici.

Effetto pseudoelastico: recupero di grosse

deformazioni durante cicli di carico e scarico a

temperature sufficientemente elevate.

A seconda della temperatura a cui avviene un

determinato ciclo meccanico si può verificare l’effetto

a memoria di forma, l’effetto superelastico o entrambi.

Se il materiale si trova ad una temperatura inferiore ad

AS, si ottiene effetto a memoria di forma; se il

materiale si trova ad una temperatura superiore ad AF,

effetto superelastico; se invece la lega si trova ad una

temperatura compresa tra AS ed AF i due effetti si

combinano tra loro ed il comportamento del materiale

risulta complicato. L’effetto a memoria di forma può

essere suddiviso in effetto ad una via ed effetto a due

vie; nel seguito viene dedicato a ciascuno di essi una

analisi dettagliata.

Effetto memoria di forma ad una via

La definizione di memoria di forma ad una via (one

way memory effect) indica che il materiale è in grado

di recuperare una sola deformazione imposta a bassa

temperatura, in condizione di 100% martensite,

mediante la trasformazione martensitica in austenite

(Figura 2.23).

Figura 52.24 – Esempio di una molla in NiTiNOL;

comportamento al variare della temperatura.

Il grafico di Figura 52.25-a mostra il comportamento

completo del NiTiNOL con effetto di forma ad una

via. Partendo da una temperatura al di sotto di MF

(100% martensite) ed applicando uno sforzo crescente,

il materiale percorre il tratto elastico della martensite

twinned (tratto AB) fino a quando non inizia una

riorientazione dei grani nella direzione dello sforzo stesso

con il conseguente passaggio dalla martensite twinned alla

martensite detwinned (tratto BC corrispondente al plateau

della SIM-martensite indotta da sforzo).

(a)

(b)

Figura 52.25 – Grafico sforzo, deformazione,

temperatura del comportamento ad effetto di memoria

di forma ad una via (a) ed a due vie (b).

Terminata la riorientazione ci si trova nella situazione

100% martensite detwinned e quindi al crescere ulteriore

dello sforzo si percorre il tratto elastico della martensite

detwinned stessa (tratto CD). Giunti ad un livello di sforzo

elevato si entra infine nel campo plastico della martensite

detwinned (tratto DE). Annullando lo sforzo si ha il

recupero elastico competente alla martensite detwinned

che porta il materiale ad uno stato di deformazione

individuato dal punto F. A questo punto, aumentando la

temperatura interviene l’effetto a memoria di forma,

ovvero superando la temperatura AS (tratto FG) si ha

l’inizio della trasformazione martensitica all’indietro

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI

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(reverse) che si completa con il raggiungimento di una

temperatura superiore ad AF (tratto GH). Durante

questo ciclo termo meccanico si è così recuperata tutta

la deformazione indotta al materiale in fase

martensitica tranne la deformazione plastica (tratto

DE), comunque irrecuperabile. Una volta raffreddato,

il materiale effettua una trasformazione di fase

martensitica in avanti (forward) da austenite a

martensite, durante la quale, mantenendo uno sforzo

nullo, non si ottiene alcuna variazione di forma.

Effetto memoria di forma a due vie

La definizione di memoria di forma a due vie (two way

memory effect) indica che il materiale è in grado di

cambiare forma non solo durante la fase di

riscaldamento (trasformazione martensitica reverse),

come nel caso precedente, ma anche durante la fase di

raffreddamento (trasformazione martensitica forward).

Nel grafico di Figura 52.25-b si può osservare il

comportamento del NiTiNOL dotato di effetto a

memoria a due vie nel caso più generale. Il materiale,

terminato il processo di allenamento, si trova in forma

martensitica parzialmente orientata; in questo modo

allo stato iniziale coesistono una percentuale di

martensite twinned ed una percentuale di martensite

detwinned. Applicando uno sforzo crescente si

percorre il tratto elastico del materiale nella forma

mista (tratto AB), fino a quando lo sforzo è tale da

orientare tutti i grani della fase martensitica (tratto BC)

ed ottenere solamente martensite detwinned (punto C).

Al crescere ulteriore dello sforzo si percorre tutto il

tratto elastico della martensite detwinned (tratto CD).

Annullando lo sforzo si ha il recupero elastico della

deformazione che porta il materiale ad uno stato di

deformazione individuato dal punto E. Aumentando la

temperatura fino ad AS (tratto EF) si impone l’inizio

della trasformazione martensitica reverse, ossia il

materiale inizia a trasformarsi in austenite.

Figura 52.26 – Esempio di una molla in NiTiNOL;

effetto di memoria a due vie.

Una volta raggiunta una temperatura superiore ad AF,

la trasformazione martensitica è completa e si è

ottenuto il recupero di deformazione che si è generato

in precedenza dal passaggio da martensite twinned

(non orientata) a martensite detwinned (totalmente

orientata). Questa deformazione recuperata è composta

dal tratto FG, ossia dalla deformazione ottenuta dal

passaggio da detwinned a parzialmente detwinned, e

dal tratto GH, ossia dalla deformazione ottenuta dal

passaggio da parzialmente detwinned a twinned. A questo

punto, raffreddando il materiale fino ad una temperatura

inferiore a MS si impone l’inizio della trasformazione

martensitica forward, durante la quale si ha il passaggio

da martensite twinned a martensite parzialmente

detwinned, ossia alla condizione di partenza.

Comportamento superelastico o pseudo-elastico

Il comportamento superelastico si verifica quando il

materiale a memoria di forma viene sollecitato, a

temperatura superiore ad AF, con uno sforzo critico che

può indurre la trasformazione martensitica (martensite

indotta da sforzo, SIM). Quest’ultima produce una grande

deformazione nel materiale che può essere interamente

recuperata con lo scarico quando il materiale si mantiene

sopra la temperatura AF.

(a)

(b)

Figura 52.27 – Comportamento superelastico del

NiTiNOL.

Nel grafico di Figura 52.27-a si nota che, all’aumentare

dello sforzo, dopo un iniziale tratto elastico austenitico

(tratto AB), il materiale continua a deformarsi a sforzo

quasi costante durante la trasformazione da austenite a

martensite (tratto BC), per poi proseguire con un tratto

elastico in fase martensitica (tratto CD). Annullando lo

sforzo si ottiene il recupero elastico della fase martensitica

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(tratto DF), la transizione di fase da martensite indotta

da sforzo ad austenite (tratto FG) ed infine il recupero

elastico della fase austenitica (tratto GH). In Figura

52.27-a si evidenzia il comportamento superelastico

nel caso in cui il materiale non sia giunto in campo

plastico della martensite indotta da sforzo cosicché il

punto H finale coincida esattamente con il punto A di

partenza. In Figura 52.27-b, al contrario, la

deformazione plastica generata in fase martensitica

indotta da sforzo risulta irrecuperabile ed il punto H

finale non coincide con quello iniziale A.

52.6.3 Piezoelettrici

La piezoelettricità è la capacità di alcuni materiali

cristallini di manifestare una carica elettrica se

sottoposti a stress meccanico oppure di deformarsi se

sottoposti ad un campo elettrico. L’effetto

piezoelettrico fu scoperto dai fratelli Curie nel 1880

osservando la presenza di un campo elettrico su

cristalli di quarzo soggetti a sforzi di tipo meccanico. I

Curie notarono che il livello di polarizzazione del

quarzo era proporzionale allo sforzo applicato. Lo

stesso materiale, inoltre, si deformava se soggetto ad

un campo elettrico in accordo con quanto predetto da

Lippmann e con i fondamenti della termodinamica. Si

tratta in generale di un fenomeno elettromeccanico che

accoppia il campo elastico con quello elettrico.

Il requisito fondamentale affinché esistano interazioni

piezoelettriche in un cristallo è che alcuni dei suoi assi

posseggano intrinsecamente una polarità. Il fenomeno

è spiegabile a livello cristallografico con distorsioni

del reticolo cristallino simili, per certi versi, ai

meccanismi martensitici che regolano le tempre

dell’acciaio. Il reticolo dei cristalli piezoelettrici è una

struttura metastabile cubica a facce centrate in cui

l’atomo centrale si trova confinato in una posizione

circondata da spazi ottaedrici a minor energia. Sotto

l’azione del campo elettrico, l’atomo centrale supera la

soglia di potenziale e si sposta in uno dei due spazi

ottaedrici realizzando una configurazione a minore

energia ma causando una distorsione del reticolo.

Viceversa se il reticolo viene deformato per effetto di

una sollecitazione meccanica si verifica uno squilibrio

nelle cariche elettriche che si estrinseca nella

formazione di un dipolo elettrico. Questi due

comportamenti sono definiti rispettivamente effetto

dielettrico diretto ed effetto dielettrico inverso. Ciò

rende i piezoelettrici materiali che godono della

proprietà di bi-direzionalità e quindi, come già

discusso nel precedente capitolo, essi possono essere

utilizzati sia come sensori (sfruttandone l’effetto

diretto) sia come attuatori (effetto inverso).

La piezoelettricità è manifestata da un certo numero di

cristalli presenti in natura quali il quarzo, la tormalina,

il sodio potassio tartrato o il sale di Rochelle.

Oggigiorno, grazie ai progressi tecnologici degli ultimi

decenni, sono disponibili materiali avanzati in grado di

esibire effetti piezolelettrici di ben più elevata intensità.

Ne rappresentano un tipico esempio le ceramiche

policristalline. Esse sono costituite da microdomìni, cioè

zone di piccole dimensioni, i cui momenti di dipolo

elettrici sono orientati casualmente a risultante nulla. Tali

ceramiche non possiedono quindi intrinsecamente una

polarità che può tuttavia essere loro conferita attraverso un

processo di polarizzazione sfruttandone la natura

piroelettrica e ferroelettrica5 . Investendo il materiale con

un campo elettrico costante si provocano mutue

interazioni di tipo elettrico fra le sue molecole che

tendono ad allinearsi secondo direzioni preferenziali in

accordo con il campo elettrico applicato.

(a)

(b)

Figura 52.28 – Processo di polarizzazione nei materiali

piezoelettrici (a) e loro struttura cristallina elementare

prima e dopo la polarizzazione (b).

Grazie alla sua elevata costante dielettrica al termine del

processo la ceramica esibisce un momento di dipolo

permanente. Per superare il salto energetico esistente fra

uno stato direzionale e l’altro è necessario che l’intero

5 La piroelettricità consiste nella comparsa di cariche sulla superficie di

un materiale se sottoposto a riscaldamento uniforme.

La ferroelettricità è la capacità di un cristallo polare di rovesciare il

proprio dipolo elettrico sotto l’applicazione di un campo elettrico di intensità opportuna.

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processo avvenga ad una temperatura superiore alla

“temperatura d’inversione della struttura”, più

comunemente nota come temperatura di Curie.

Dopo il trattamento di polarizzazione, il ceramico

policristallino è assimilabile, agli effetti del

comportamento elettrico, ad un cristallo piezoelettrico

che presenta un momento di dipolo netto in grado di

rispondere linearmente al campo elettrico applicato o

alla pressione meccanica. E’ da osservare che a livello

microstrutturale la ceramica piezoelettrica è costituita

da un insieme di grani a loro volta costituiti da

cristalliti; all’interno di un grano vi sono più domini

orientati in direzioni diverse (prima della

polarizzazione) e le pareti dei grani sono relativamente

mobili, dipendentemente dalla presenza di difetti

reticolari, vacanze, dislocazioni, da cui dipende la

“rigidità” del materiale. A livello dei grani è possibile

notare, nel materiale polarizzato, un’orientazione

preferenziale nei vari domini, più o meno accentuata, e

che, nel complesso, ha variato la forma del

piezoelettrico allungandola lievemente nel senso della

polarizzazione. Ad una applicazione di voltaggio

concorde con il verso di polarizzazione si osserverà

una dilatazione sull’asse parallelo e una strizione

sull’asse perpendicolare a quello di polarizzazione.

Oltre alle ceramiche policristalline, fra le quali le più

note sono i PZT (piombo zirconio titanato) ed i PMN

(piombo magnesio niobio), l’effetto piezoelettrico può

essere conferito anche ad una classe particolare di

polimeri, chiamati piezopolimeri quali il PVDF o

PVF2 (polivinilidene fluoride) ed il PVDF-TFE

(polivinildene fluoride – trifluoroetilene).

A causa della loro natura ceramica, gli elementi in

PZT mostrano rigidità comparabile se non superiore a

quella delle strutture a cui vengono applicati con il

risultato di una più efficiente conversione dell’energia

elettrica in meccanica rispetto ai piezopolimeri; ciò li

rende ottimi in svariati campi per la realizzazione di

attuatori ad alta efficienza con ottime risposte in

frequenza. Il loro effetto reversibile è sfruttabile per la

realizzazione di attuatori self-sensing o elementi di

controllo in cui è richiesta la simultanea presenza di

sensori e attuatori localizzati. Di contro le principali

problematiche riguardano l’intrinseca fragilità dei

materiali ceramici ed un elevato fenomeno di isteresi

per campi elettrici elevati. Il loro effetto piezoelettrico

inoltre decade per invecchiamento con conseguente

degrado delle prestazioni a causa della polarizzazione

che tende ad annullarsi nel tempo. Alternativamente i

film di PVDF presentano la consistenza di film

polimerici e quindi possono essere virtualmente

adattati a qualsiasi geometria, potendo essere

facilmente tagliati e adattati alle più svariate superfici

ed è quindi possibile la realizzazione di

sensori/attuatori distribuiti su tutta la struttura, cosa

impensabile con i PZT. Ad una marcata tenacità si

contrappone tuttavia una rigidezza molto bassa

(dell’ordine di 2GPa) ciò che li rende poco adatti ad essere

utilizzati come attuatori.

52.6.3.1 Proprietà ed equazioni di stato delle ceramiche

piezoelettriche

La costante di carica piezoelettrica, indicata con dij (con

i=1, 2, 3 e j=1, 2, …, 6), è definita come la polarizzazione

elettrica indotta in un materiale per unità di stress

meccanico applicato. Di conseguenza nell’effetto

piezoelettrico diretto si ottiene che lo spostamento

elettrico D è direttamente proporzionale allo sforzo

applicato T:

(52.6)

Nel caso dell’effetto inverso, la proporzionalità vale

ugualmente e lega il campo elettrico E alla deformazione

S attraverso la relazione:

(52.7)

La costante di proporzionalità risulta numericamente

identica a quella dell’effetto diretto e viene indicata di

nuovo con dji, ma ora denota lo deformazione meccanica

subita dal materiale per unità di campo elettrico applicato.

Una semplice analisi dimensionale permette di indicare

l’unità di misura di dij:

[d]=[D/T]=[S/E]=coulomb/newton=metri/volt=[C/N]=[m/

V]

Un’altra costante piezoelettrica è gij, detta costante di

tensione piezoelettrica, definita come il campo elettrico

prodotto nel materiale da uno sforzo meccanico unitario

(nell’effetto diretto), oppure come deformazione

meccanica subita dal materiale per unità di spostamento

elettrico applicato. Dimensionalmente si ha:

[g]=[E/T]=[S/D]=metri2/coulomb=[m

2/C]

Le costanti gij e dij sono messe in relazione da eij, che

indica il componente del tensore permettività:

(52.8)

Le altre costanti da definire per una migliore descrizione

delle caratteristiche di un materiale piezoelettrico sono:

eij costante che lega lo stress meccanico al campo

elettrico

hij costante che lega il campo elettrico alla

deformazione

Tutte le costanti piezoelettriche definite possono essere

ricavate mediante le equazioni di un corpo solido e la

prima legge della termodinamica; in particolare:

(

)

(

)

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(

)

(

)

(

)

(

)

(

)

(

)

Oltre alle costanti piezoelettriche definite, ci sono

coefficienti che danno una stima “globale” del

fenomeno piezoelettrico; tra questi si ricorda il fattore

di accoppiamento elettromeccanico efficace che

indica la frazione di energia elettrica convertita in

energia meccanica o viceversa:

Si ipotizza che il piezoelettrico sia dotato di un

“carico”, cioè compia del lavoro imprimendo una

forza, ad esempio, su di una membrana (è il caso di un

attuatore), oppure che carichi, ad esempio, un

condensatore (è il caso di un generatore).

poiché non è possibile la totale conversione

energetica.

Valori tipici di sono 0.01 per il quarzo; 0.4 per il

titanato di bario; 0.5-0.7 per le ceramiche PZT.

Le equazioni del legame costitutivo di un materiale

piezoelettrico possono essere scritte in forma sintetica

nel seguente modo:

Effetto piezoelettrico diretto:

Effetto piezoelettrico inverso:

dove i, l=1, 2, 3; j=1, 2, …, 6

Considerando la Figura 52.29 si possono fare delle

osservazioni per esplicitare meglio le equazioni

soprascritte.

Per convenzione l’asse di polarizzazione scelto è l’asse

3 o asse z. I piani di taglio indicati dai pedici 4, 5, 6,

sono normali rispettivamente agli assi 1, 2, 3. Ogni

elemento delle varie costanti avrà due indici, di cui il

primo indicherà l’asse (o il piano di taglio) lungo il

quale si misura il coefficiente e il secondo l’asse (o il

piano di taglio) dell’azione che influisce su di esso. Ad

esempio, d33 è la deformazione in direzione dell’asse 3

per unità di campo elettrico applicato in direzione 3,

mentre d13 è la deformazione in direzione 1 per unità

di campo elettrico applicato in direzione 3.

Le azioni di taglio avvengono solo quando il campo

elettrico viene applicato perpendicolarmente all’asse di

polarizzazione e quindi sono non nulli solamente d15 e

d24, che sono, inoltre, uguali tra loro per simmetria.

L’effetto piezoelettrico governato dal coefficiente d33 è

chiamato effetto primario in virtù del fatto che si ha

deformazione nella stessa direzione di applicazione del

campo elettrico mentre tutti gli altri sono chiamati effetti

secondari. I sensori/attuatori piezoelettrici vengono

generalmente classificati sulla base del coefficiente di

accoppiamento d che viene sfruttato.

(a)

(b)

Figura 52.29 – Esempio degli effetti d33 e d31 in una

ceramica PZT (a) e designazione degli assi e delle

direzioni di deformazione (b).

52.6.3.2 Evoluzione degli attuatori piezoelettrici

I primi attuatori piezoceramici furono sviluppati a partire

dagli anni cinquanta. Costituiti da una struttura monolitica

a forma di piastra sulle cui facce è elettrodepositato un

sottile strato uniforme di materiale metallico essi sfruttano

l’effetto piezoelettrico secondario accoppiando uno stato

di deformazione nel piano ad un campo elettrico normale

alla piastra stessa. Naturalmente nel corso degli anni, con

il miglioramento delle tecniche di sinterizzazione e di

produzione in genere, i piezoceramici hanno subito via via

notevoli cambiamenti. Oggigiorno sono disponibili in

commercio più tipologie che differiscono principalmente

nella composizione della ceramica e nella forma.

L’introduzione del concetto di elettrodo interdigitato

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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 23 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

(InterDigitated Electrodes- IDE) ha consentito un netto

miglioramento delle prestazioni. Applicati in modo

esattamente speculare sulle due facce principali della

piastra ceramica essi sono formati da rami di polarità

alternata così da garantire, rispetto ad elettrodi

uniformi, una maggiore porzione di campo elettrico

allineato nel piano della piastra (Figura 2.29-b).

(a)

(b)

Figura 52.30 – Piezoceramica monolitica con elettrodi

uniformi (a) e struttura degli elettrodi interdigitati (b).

Il principale vantaggio nell’utilizzo di questi elettrodi è

quello di consentire lo sfruttamento dell’effetto

piezoelettrico primario d33 il quale risulta essere di

circa due volte l’effetto secondario d31 nonché di

ottenere attuazioni anisotrope. Le prime applicazioni

degli IDE non ebbero tuttavia particolare successo per

problemi legati ai processi di polarizzazione. La loro

morfologia infatti porta a concentrazioni di campo

nelle vicinanze dei rami dell’elettrodo originando una

intensificazione dello stato di sforzo nella così detta

“zona morta” dell’attuatore. I valori in gioco durante la

polarizzazione, normalmente superiori a quelli di

funzionamento, inducevano spesso danni e rotture nel

materiale ceramico.

Qualche anno più tardi si modificò la geometria della

ceramica andando ad estrudere delle fibre dello stesso

materiale ed inglobandole allineate in una matrice

epossidica.

Una tale configurazione consentiva di ovviare, in linea

teorica, a molti dei limiti che affliggono le piastre

monolitiche: esibivano un’ottima conformità

(adattabili anche a superfici curve), un’attuazione

anisotropa più marcata e, non ultimo, una elevata

resistenza al danno grazie ad un meccanismo di

trasferimento dei carichi in presenza di rotture simile a

quello che avviene nei materiali compositi (dovuto alla

combinazione di fibre sottili e matrice tenace).

Figura 52.31 – Attuatore in fibra piezoceramica con

elettrodi interdigitati (AFC).

Pur tuttavia l’elevata differenza dielettrica tra matrice e

fibre causava una forte diminuzione del campo elettrico a

disposizione delle fibre per l’attuazione; l’applicazione di

alte tensioni per mantenere alti livelli di campo elettrico

causavano inoltre la nascita di fortissime concentrazioni di

campo elettrico nella matrice provocando, come per la

generazione di attuatori precedente, rotture dielettriche già

durante la fase di polarizzazione.

Il problema è stato risolto con l’introduzione di fibre a

sezione rettangolare. Brevettati dalla Nasa al Langley

Research Center nel 2000 i Macro Fiber Composites

(MFC) hanno molte analogie in comune con i loro

predecessori essendo costituiti anch’essi da un fascio

parallelo di fibre piezoceramiche inglobate in una matrice

epossidica e dotati di elettrodi interdigitati. La differenza

sostanziale risiede proprio nella sezione rettangolare delle

fibre che consente di aumentare notevolmente la zona di

contatto con gli elettrodi (che costituiva il punto critico

delle fibre circolari) come si può osservare in Figura

52.32. Il particolare processo produttivo con cui vengono

realizzati permette inoltre di incrementare notevolmente il

contenuto di materiale ceramico che è pari all’80%.

Entrambi questi due aspetti consentono di ottenere

prestazioni attuative migliori rispetto agli AFC. Se

confrontati con i PZT monolitici la densità di energia è

ben più elevata grazie all’uso del campo elettrico nel

piano dell’attuatore (si sfrutta in altre parole l’anisotropia

dell’attuazione) riuscendo ad ottenere quasi 2 volte la

deformazione per attuazione e quasi 4 volte la densità di

energia di deformazione.

Gli elettrodi interdigitati sono ottenuti per foto-tranciatura

chimica di un sottile strato di rame incollato ad un film di

poly-imide con ottime proprietà di resistenza alle alte

temperature, all’ossidazione, ai solventi e con un

coefficiente di espansione termica molto ridotto. Tutto ciò

assume particolare importanza in considerazione del fatto

che questo strato (assente nelle ceramiche con elettrodi

uniformi) costituisce l’interfaccia del sensore/attuatore

con l’esterno ovvero ad esso è deputato il compito di

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trasferire le sollecitazioni tra il materiale ceramico

interno e la struttura alla quale il sensore/attuatore è

applicato (Figura 2.32). Nel caso delle strutture

intelligenti, come si spiegherà meglio in seguito,

l’interfaccia con l’host material gioca un ruolo

fondamentale influenzando direttamente non solo le

proprietà funzionali della struttura ma incidendo anche

sulle sue prestazioni meccaniche e sul comportamento

a fatica.

(a)

(b)

Figura 52.32 – Confronto delle sezioni di un AFC (a) e

di un MFC (b). Si evidenzia il maggior contenuto in

volume di fibra e la maggior area di contatto dell’MFC.

Discorso analogo va fatto anche per la matrice

utilizzata per inglobare le fibre piezoceramiche cui è

deputato il compito di trasferire il carico alle fibre e di

fungere da legante strutturale. Essa deve inoltre

possedere proprietà elettriche tali da consentire il

trasferimento del campo elettrico alle fibre

dell’attuatore ovvero una costante dielettrica elevata,

un basso fattore di dissipazione e una elevata forza

dielettrica (così da evitare cortocircuiti).

I principali vantaggi degli MFC rispetto ai tradizionali

attuatori monolitici sono quindi le prestazioni attuative

(a fronte però di una maggiore tensione da fornire), la

flessibilità (o “conformability”) e la durevolezza (sono

molto meno fragili rendendone più agevole

l’installazione o inglobamento).

Due sono le grandezze importanti degli attuatori

piezoceramici: la deformazione (il “free strain”) e la

forza di blocco (blocking force). Per quanto riguarda il

free strain, un MFC al massimo si espande di circa

4500 ppm (parti per milione o microstrains) in

rapporto alla sua lunghezza. Viceversa, quando lo

spostamento è impedito si sviluppa una forza di

‘blocco’, la cosiddetta “blocking force”, la quale è a

tutti gli effetti una misura della rigidezza dell’attuatore

e di conseguenza degli sforzi. Nel caso degli MFC la

blocking force assume valori massimi dell’ordine dei

4KN/cm2 relativamente all’area attiva delle fibre che

costituiscono l’attuatore (per l’M2814 si ottengono ad

esempio circa 100N). [43]-[45].

(a)

(b)

Figura 52.33 – Componenti di un attuatore MFC (a) e

immagine al microscopio di elettrodi e fibre (b).

52.7 Tecniche di inglobamento

Lo sviluppo di tecniche di inglobamento efficienti che

garantiscano il corretto funzionamento dei

sensori/attuatori, ne preservino le caratteristiche di

accuratezza ed autorità e nel contempo mantengano entro

limiti accettabili l’invasività degli stessi sul materiale

ospite è una condizione necessaria e un aspetto cruciale

nello sviluppo delle Smart Structures. Separatamente per

ciascuna delle tipologie di Smart Materials prese in

esame, verranno qui presentate le tecniche di

inglobamento sviluppate presso il laboratorio Smart

Materials del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale del

Politecnico di Milano. Come si vedrà in alcuni casi si è

giunti ad utilizzare le medesime soluzioni per criticità

specifiche differenti offrendo delle procedure di

inglobamento più trasversali.

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52.7.1 L’inglobamento di sensori a fibra ottica

Le criticità connesse all’inglobamento di fibre ottiche

dipendono anzitutto dalla necessità di preservare

l’integrità del coating polimerico, condizione

necessaria per assicurare il corretto trasferimento delle

sollecitazioni dal materiale ospite al sensore.

Altrettanto importante è poi evitare al sensore FBG

distorsioni di forma che possano comprometterne il

funzionamento o comunque portare a misure non

accurate. Da questo punto di vista è cruciale evitare un

eccessivo disallineamento delle frange del reticolo che

porterebbe alla riflessione di segnali perturbati di

difficile se non impossibile interpretazione pur con le

tecniche di analisi dello spettro più raffinate. Entrambi

questi aspetti sono influenzati dalla sequenza di

laminazione del laminato in cui la fibra ottica (FO) si

trova inglobata. Fin dalle prime esperienze di

inglobamento fu evidenziato infatti che la presenza di

fibre di rinforzo diversamente orientate rispetto alla

FO originava sulla stessa fenomeni di micro-bending

con riduzione dell’intensità del segnale ottico. Se nelle

telecomunicazioni ciò comportava limitazioni nella

capacità di trasmissione del segnale ottico a lunghe

distanze per cui si richiedeva potenze molto elevate in

grado di sopperire alle perdite di segnale lungo il

cammino ottico, con l’introduzione dei sensori FBG

inscritti nel core questi fenomeni non possono più

essere tollerati. Le fibre di rinforzo infatti inducono sul

reticolo pericolosi stati di sollecitazione locali che

possono portare ad alterazioni di forma permanenti

finanche alla completa perdita di funzionalità del

sensore.

Ragionando in termini di invasività sul materiale

ospite gli effetti di un mutuo disallineamento tra FO e

fibre di rinforzo potrebbero essere ancor più gravi

mettendo a rischio non solo le proprietà funzionali del

laminato intelligente ma anche e soprattutto le sue

proprietà meccaniche. E’ lecito presupporre infatti che,

al pari della FO, anche le fibre di rinforzo vengano

deviate dalla loro giacitura più naturale ed ottimale

originando in tal modo difettosità più o meno

pronunciate in termini di vuoti e sacche di resina con

un conseguente decadimento delle prestazioni del

laminato.

Da queste considerazioni preliminari emerge

chiaramente che la condizione di inglobamento meno

pericolosa sia dal punto di vista della FO che da quello

del materiale ospite, dovrebbe essere una sequenza di

laminazione con tutte le lamine orientate in un’unica

direzione, coincidente con l’asse della FO. Ciò tuttavia

precluderebbe la possibilità di progettare laminati

angle ply oppure quasi isotropi od altri ancora. Più in

generale si può affermare che una siffatta soluzione è

in netta contrapposizione con la peculiarità più

importante che contraddistingue i materiali compositi

che hanno il loro punto di forza proprio nella

possibilità di progettare sequenze ad hoc per

massimizzare l’efficienza strutturale del componente in

esame.

(a)

(b)

(c)

(d)

Figura 52.34 – Meccanismo di deformazione del reticolo

per azione delle fibre di rinforzo che attraversano il

cammino della FO (a, b) e confronto dello spettro di un

FBG inglobato in un laminato angle-ply (c) con quello di

un FBG inglobato in un laminato UD a [0°] (d).

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI

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autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.

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Nel caso di tessuti, infine, il soddisfacimento del

vincolo di parallelismo tra FO e fibre di rinforzo

sarebbe addirittura impossibile. Con l’obbiettivo di

confermare o meno queste criticità e per guidare al

meglio lo sviluppo di una tecnica di inglobamento

efficiente è stata condotta un’approfondita analisi

microscopica sull’influenza delle sequenze di

laminazione i cui risultati principali sono sintetizzati

nel prossimo paragrafo.

Un ultimo importante aspetto che si vuole qui

introdurre è quello legato alla protezione e

connettorizzazione della FO all’uscita dal laminato.

Benché attualmente non siano disponibili in

commercio terminali miniaturizzati e resistenti ad alte

temperature da consentirne il parziale inglobamento

nei laminati, il loro sviluppo è una condizione

necessaria per conferire ad una struttura intelligente

nel suo complesso un sufficiente grado di robustezza e

maneggiabilità. Pur non essendo fra gli obbiettivi della

presente attività, le soluzioni che è stato necessario

mettere in atto per garantire la raggiungibilità dei

sensori verranno brevemente riportate per evidenziare

ancor di più le criticità connesse a questa fase

dell’inglobamento.

52.7.1.1 Influenza della sequenza di laminazione:

analisi microscopiche

Le analisi microscopiche sono state eseguite sulle

sezioni di 5 laminati ognuno con una sequenza di

laminazione significativa ed ognuno inglobante le 2

tipologie di FO prese in esame. Tutti i laminati sono

costituiti da 8 lamine in fibra di vetro tipo S2

impregnate con matrice epossidica. Le specifiche del

materiale sono riportate in Tabella 52.3.

Le tabelle che seguono riportano un sommario di

alcuni fra i metodi più usati nel controllo non

distruttivo e loro peculiarità.

Tabella 52.3 – Proprietà del pre-impregnato CYCOM

Glass Fiber UD Rigidite 5216.

Tipo di fibra S2

Tipo di matrice Epoxy

Contenuto di resina 43% Weight

Spessore nominale ply 0,21÷0,25mm

Laminato [0°]4S

Le FO sono inserite nella stessa direzione delle fibre di

rinforzo in un laminato con lamine tutte orientate a 0°.

Le immagini al microscopio confermano che questa è

la sequenza di laminazione migliore per ospitare una

FO. Le fibre di rinforzo si scostano per effetto della

pressione esercitata sul laminato durante il ciclo di

polimerizzazione disponendosi attorno alla FO stessa.

Il mantenimento di una pressoché perfetta sezione

circolare di quest’ultima lascia presupporre l’assenza

di schiacciamenti e distorsioni del reticolo. Anche il

coating non presenta segni di danneggiamento. In

particolare l’integrità di quello in poli-acrilato, nonostante

la transizione vetrosa subita, attesta l’assenza di

condizioni di carico gravose ad opera delle fibre di

rinforzo (Figura 52.35).

Poli-imide

Poli-acrilato

Figura 52.35 – Analisi microscopica laminato [0°]4S.

Laminato [± 45°]2S

Le fibre ottiche sono inserite tra due lamine a 45°. Sono

evidenti le sacche che si creano attorno alle fibre, in cui si

ha accumulo di resina e presenza di vuoti in particolare ai

lati della FO in poli-imide. Il coating in poli-acrilato

risulta deformato, mentre quello in poli-imide non sembra

aver subito danni. Non si rilevano deformazioni evidenti

al cladding che conserva la sua sezione circolare (Figura

52.36).

Laminato [0°,90°]2S

Le lamine che inglobano le fibre ottiche sono a 90°

rispetto ad esse. Le dimensioni delle sacche di resina sono

confrontabili al caso precedente mentre si riscontra una

percentuale inferiore di vuoti. Nella FO in poli-acrilato

sono ben visibili le deformazioni sia del coating sia del

cladding che esibisce una sezione leggermente ovalizzata.

Viceversa la FO in poli-imide sembra ancora

perfettamente integra (Figura 52.37).

Laminato [90°]4S

Tutte le fibre di rinforzo del laminato sono orientate a 90°

rispetto alla FO. E’ la condizione peggiore con difettosità

molto marcate. La FO in poli-imide appare

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completamente inglobata in una sacca di resina: non

c’è contatto tra fibre di rinforzo e FO ai lati della quale

sono inoltre molto evidenti due grosse bolle d’aria

analogamente a quanto registrato per la sequenza a

[±45°]. La FO in poli-acrilato evidenzia deformazioni

sia del coating sia del cladding (Figura 52.38).

Poli-imide

Poli-acrilato

Figura 52.36 – Analisi microscopica laminato [±45°]2S.

Poli-imide

Poli-acrilato

Figura 52.37 – Analisi microscopica laminato [0°,90°]2S.

Poli-imide

Poli-acrilato

Figura 52.38 – Analisi microscopica laminato [90°]4S.

Laminato [90°,0°]2S

La sequenza di laminazione è tale da avere le FO inserite

tra due lamine a 0°. Nella zona attorno alla FO si verifica

una condizione molto simile a quella del laminato [0°]4s e

l’effetto delle fibre esterne a 90° è molto contenuto sia in

termini di difettosità sia in termini di deformazione del

coating e del cladding.

Poli-imide

Poli-acrilato

Figura 52.39 – Analisi microscopica laminato [90°,0°]2s.

Dalle analisi microscopiche emerge dunque la conferma di

quanto precedentemente ipotizzato: la condizione di

inglobamento migliore è in assoluto quella che garantisce

l’allineamento tra FO e fibre di rinforzo evitando cioè la

mutua intersezione (chiaramente su piani differenti) tra di

esse. Tale condizione non può che essere verificata con la

sequenza di laminazione a [0°]. Pur tuttavia l’ultimo caso

dimostra come possano essere sufficienti 2 lamine per

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preservare, almeno visivamente, l’integrità della FO e

mantenere entro limiti contenuti le difettosità

introdotte nel composito. Rimane il fatto che per tutte

le altre sequenze di laminazione si evidenziano sacche

di resina e vuoti di dimensioni assolutamente

inaccettabili: l’invasività della FO è palese ed un suo

inglobamento diretto, così come è stato per questi

laminati, non può essere consentito.

52.7.1.2 L’inglobamento negli incollaggi: analisi

microscopiche

Alla luce dei risultati appena riscontrati,

l’inglobamento di una FO fra due film di adesivo

strutturale che incollano due laminati in composito già

polimerizzati appare improponibile. Esso può essere

considerato infatti un caso limite dei precedenti in cui

la FO si trova sottoposta a sollecitazioni ancor più

gravose in virtù della maggior rigidezza dell’host

material all’interno del quale non c’è alcuna

possibilità di movimento per le fibre di rinforzo

indipendentemente dalla sequenza di laminazione

adottata per la realizzazione dei 2 aderendi.

D’altro canto le motivazioni che giustificano

l’attenzione ad un caso così critico sono molteplici.

Innanzitutto gli incollaggi costituiscono la tecnica di

collegamento più naturale per i laminati compositi il

cui impiego nelle moderne costruzioni aeronautiche è

sempre più diffuso. Le giunzioni sono per altro zone

ad alta concentrazione di sforzi che non possono essere

trascurate nell’ottica di realizzare un sistema di

monitoraggio strutturale efficiente. In ultimo sempre

più spesso la produzione di componenti complessi e ad

elevato spessore si basa sull’incollaggio di sotto

laminati elementari.

Poli-imide

Poli-acrilato

Figura 52.40 – Analisi microscopica incollaggio.

Le prove tecnologiche e le successive analisi

microscopiche sono state condotte su provini realizzati

inglobando la FO fra due film di adesivo con spessore

nominale di 0,1mm. L’incollaggio di 2 laminati in fibra di

carbono è stato realizzato in pressa a piani caldi assistita

da vuoto. L’ausilio di speciali cuscini elastomerici ha

garantito una pressione uniforme sull’intera superficie dei

provini affetti da uno spessore non costante in larghezza a

causa della presenza della FO. Sono state inglobate

entrambe le tipologie di FO in esame.

Le immagini in Figura 52.40 evidenziano l’effetto

benefico dell’adesivo che potendo fluire con maggiore

libertà rispetto alla resina dei pre-impregnati riduce la

percentuale di vuoti. Per contro i danni sul coating in poli-

acrilato sono estremamente marcati: il cladding è rimasto

pressoché privo della sua protezione al punto che

l’adesivo ha potuto penetrare negli interstizi creatisi fra le

due parti. Anche in questo caso la FO in poli-imide non

mostra danneggiamenti evidenti.

52.7.1.3 Analisi DSC del coating

Le rilevanti deformazioni del coating in poli-acrilato

possono trovare una giustificazione dal superamento della

temperatura di transizione vetrosa del materiale durante i

cicli di polimerizzazione della resina. Oltre questa

temperatura infatti si ha la rottura dei legami

intermolecolari tra le catene polimeriche e quindi la

possibilità della comparsa di deformazioni permanenti a

seguito di sollecitazioni meccaniche, quali ad esempio le

pressioni del ciclo produttivo dei compositi.

Le analisi al DSC condotte su campioni di FO con

entrambe le tipologie di coating hanno effettivamente

confermato tale ipotesi. La Figura 4.8 e la Figura 4.9

mostrano i grafici ottenuti. La temperatura di transizione

vetrosa è individuata dal flesso della curva del flusso di

calore fornito al campione. Si può notare come il coating

in poli-imide abbia TG pari a 187°C, mentre per il poli-

acrilato si ha un valore di 86°C. Questi risultati

dimostrano perciò anche quantitativamente come i

rivestimenti in poli-acrilato siano molto più vulnerabili

alle sollecitazioni meccaniche rispetto a quelli in poli-

imide che viceversa non subiscono danni.

Figura 52.41 – Analisi DSC del coating in poli-acrilato.

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Pur tuttavia, quando la temperatura torna a valori

ambientali, i legami intermolecolari si riformano. Se le

deformazioni rimangono entro valori accettabili è

comunque possibile ipotizzare l’uso di FO con coating

in poli-acrilato. Queste infatti presentano alcuni

vantaggi. I costi della FO risultano inferiori e la

maneggiabilità è meno critica, proprio grazie ai

maggiori spessori del rivestimento ed alla minore

fragilità. Inoltre sempre lo spessore più abbondante e

la maggiore deformabilità, seppur giudicati

negativamente in alcuni frangenti, potrebbero

considerarsi favorevoli proprio per limitare le

deformazioni trasversali di cladding/core in caso di

inglobamenti per esempio in tessuti.

Figura 52.42 – Analisi DSC del coating in poli-imide.

52.7.1.4 Tecniche di inglobamento

Le analisi microscopiche hanno confermato ancor di

più la necessità di dotarsi di tecniche di inglobamento

capaci di prescindere dalla sequenza di laminazione

del materiale ospite. Appare chiaro a questo punto che

ciò si traduce nell’ introduzione di un dispositivo di

protezione della FO che possa garantirne la completa

funzionalità ma che, nel contempo, sia ad invasività

estremamente ridotta e consenta un adeguato

trasferimento delle sollecitazioni al sensore FBG. Con

questi obbiettivi è stata originalmente sviluppata una

tecnica denominata “inglobamento mediante Quick-

Pack” per la descrizione della quale è dedicato il

prossimo paragrafo.

Inglobamento mediante Quick-Pack

Il concetto su cui si basa questa tecnica è quello di

effettuare l’inglobamento della FO in 2 fasi mediante 2

cicli di polimerizzazione distinti. Nella prima fase

l’inglobamento è eseguito in un laminato le cui

caratteristiche unitamente ad un ciclo di

polimerizzazione appositamente studiato siano in

grado di soddisfare tutti i requisiti tecnologici . Nella

seconda fase si effettua l’inglobamento del laminato

così prodotto all’interno del materiale ospite vero e

proprio. Il punto di forza di questa tecnica è che la

seconda polimerizzazione non necessita di attenzioni

particolari e tantomeno di modifiche al ciclo di

polimerizzazione fornito dal produttore del pre-

impregnato. In sostanza, realizzato che sia il primo

inglobamento si dispone di un sensore a FO robusto,

maneggevole e facilmente inglobabile da cui la

denominazione “Quick-Pack”. Naturalmente le difficoltà

sono tutte ora concentrate nella produzione di questo

laminato, ma la differenza fondamentale rispetto

all’inglobamento diretto sta nel fatto che il Quick-Pack

può essere progettato ad hoc avendo libertà d’azione su

tutti i principali parametri connessi alla sua realizzazione a

partire dalla scelta del materiale, della sequenza di

laminazione, delle pressioni di polimerizzazione finanche

alla tecnologia produttiva. Il ciclo tecnologico ottimale

deve tenere sempre in considerazione la forte influenza

della pressione sul livello di deformazioni indotte sul

coating in poliacrilato, ciò che non accade per il coating in

poli-imide.

Figura 52.43 – Quick-Pack prodotto in forno con sacco

da vuoto a 0,7 bar.

Nella sua versione definitiva il Quick-Pack consta di 2

lamine in tessuto di fibra di vetro bilanciato ad alto

contenuto di resina (66% in peso) e spessore molto ridotto

(circa 0,05mm) la cui polimerizzazione viene eseguita in

forno con l’ausilio del sacco da vuoto ad una pressione

relativa di -0,7bar. La fase di laminazione mediante

tecnica dell’hand-lay-up avviene su apposito stampo

piano in lega leggera di alluminio sul quale sono deposti

in successione un pad elastomerico ed un film di teflon®

microforato. Specularmente questi stessi strati vengono

deposti anche sopra il laminato inglobante la FO prima di

effettuare la chiusura del sacco (Figura 52.44). Le 2

lamine di pre-impregnato sono orientate a 0°. La scelta di

un pre-impregnato in fibra di vetro a grammatura fine

fornisce alle lamine la capacità di aderire alla FO

nonostante la presenza di fibre di rinforzo ortogonali ad

essa (peraltro fondamentali per ottenere una distribuzione

uniforme della resina nel laminato). L’elevato contenuto

di resina congiuntamente all’utilizzo dei due film di teflon

microforati (il cui compito è quello di controllare e

limitare il rilascio della resina in eccesso) ed a una ridotta

pressione di polimerizzazione garantiscono inoltre la

presenza di un quantitativo di resina tale da evitare la

presenza di vuoti soprattutto in prossimità della FO. Il

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ridotto spessore delle lamine è infine motivato dalla

necessità di limitare l’invasività del Quick-Pack.

(a)

(b)

(c)

Figura 52.44 – Fasi di produzione del QP.

Posizionamento sensori FBG (a), pad elastomerico (b) e

Quick-Pack polimerizzato prima dell’operazione di

contornatura (c).

(a)

(b)

Figura 52.45 – Confronto fra le sezioni di un provino

incollato con una FO in poli-acrilato inglobata nello

strato di adesivo con (a) e senza (b) QP.

La tecnica di inglobamento mediante QP consente di

effettuare l’inglobamento della FO anche nello strato di

adesivo che unisce due aderendi come mostrano le

immagini di Figura 52.45 ove è riportato il confronto fra

le sezioni di 2 provini incollati inglobanti una FO in poli-

acrilato inglobata con e senza QP. Si può notare che,

benché deformato, il coating protetto dal QP rimane

perfettamente integro.

Inglobamento diretto

La presenza del QP in seno al materiale ospite, per quanto

si tratti di 2 sole lamine a spessore molto ridotto, ne

modifica la sequenza di laminazione e ciò può riflettersi

sulle caratteristiche meccaniche globali della struttura.

Inoltre questa tecnica di inglobamento innovativa

ancorché promettente deve essere ancora ampliamente

validata soprattutto nelle condizioni più critiche per il QP.

Si pensi ad esempio all’inglobamento in un laminato in

fibra di carbonio sottoposto a forti gradienti termici: il

differente comportamento delle fibre di carbonio rispetto a

quelle di vetro con cui è realizzato il QP potrebbe

innescare pericolosi effetti termo-elastici. Per questi ed

altri motivi l’inglobamento diretto della FO potrebbe

essere comunque preferibile laddove consentito. Le analisi

microscopiche hanno evidenziato che la condizione

migliore è quella di laminati UD con sequenza di

laminazione [0°]n. Si è altresì notato che potrebbero essere

sufficienti poche lamine a 0° in una sequenza di

laminazione qualsivoglia. Indagini successive hanno

permesso di verificare che la presenza di lamine a 0° può

essere limitata ad un lato della sequenza di laminazione

rispetto all’interfaccia in cui si ingloba la FO. Ciò perché

in una simile condizione le fibre disallineate rispetto alla

FO, essendo tutte da una parte, “costringono” la FO stessa

a penetrare fra le fibre di rinforzo parallele ad essa e

posizionate dal lato opposto. La Figura 4.14 sottostante

evidenzia come le fibre di rinforzo delle lamine disposte a

0° si dispongano omogeneamente attorno alla FO

minimizzando la presenza di difettosità attorno al sensore.

Figura 52.46 – Inglobamento diretto della FO

nell’interfaccia 45°/0° di un laminato in fibra di vetro.

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Protezione della zona di uscita della FO dal laminato

A differenza di altri smart materials che possono

essere collegati ai sistemi di alimentazione ed

interrogazione esterni al laminato mediante

connessioni elettriche (per le quali è richiesto un grado

di attenzione nettamente inferiore) in questo caso deve

essere necessariamente la FO stessa a fungere da

elemento di collegamento del sensore FBG con

l’esterno. Il punto di uscita più naturale è sicuramente

il bordo del laminato stesso. Ciononostante è proprio

in questa zona che l’intrinseca fragilità delle fibre

ottiche si manifesta in tutta la sua criticità. Qui la FO è

infatti soggetta ad una netta discontinuità e ad un

conseguente stato di concentrazione di sforzi . La

resina del materiale ospite che per effetto della

temperatura è resa estremamente fluida nella fase

precedente alla polimerizzazione tende inoltre a

risalire per capillarità lungo la fibra stessa provocando,

a reticolazione avvenuta, la nascita di pericolosi sforzi

residui di compressione.

(a) (b)

(c) (d)

Figura 52.47 – Aspetto critico della fibra ottica all’uscita

dal laminato (a e b), sistema di protezione mediante

tubetto in PTFE (c) e sua applicazione al QP (d).

La soluzione a questi problemi consiste nell’adozione

di un tubo in PTFE di ridotte dimensioni (in cui viene

inserita la fibra ottica) anch’esso inglobato nel

laminato per circa 10mm e che si estende, all’altro

capo, fino alla zona in cui viene collegato il connettore

ottico. Al fine di evitare che la resina fluisca per

capillarità all’interno del tubo, l’intercapedine viene

sigillata con resina epossidica a freddo (Figura 52.47).

L’intera operazione, che viene eseguita durante la fase

di laminazione, è necessaria sia per l’inglobamento

diretto sia per l’inglobamento mediante Quick-Pack. In

questo caso però essa viene compiuta solamente

durante la produzione del QP in quanto durante il

successivo inglobamento nel laminato è il QP stesso a

proteggere la FO (Figura 52.47-d). Essendo

impossibile eseguire la contornatura del laminato sui

lati interessati dalla FO è infine opportuno utilizzare

uno speciale stampo che consenta di ottenere una buona

finitura superficiale (Figura 4.16).

Figura 52.48 – Speciale diga con inserti elastomerici per

garantire la protezione della FO all’uscita dal laminato.

52.7.2 L’inglobamento di attuatori PZT

Le specifiche criticità connesse all’inglobamento di

attuatori piezoceramici dipendono fondamentalmente da

due fattori. Il primo di questi è l’intrinseca fragilità delle

ceramiche per cui è cruciale evitare concentrazioni di stati

di sforzo locali durante ogni fase del processo produttivo

fin dalle operazioni preliminari all’inglobamento

necessarie per il collegamento degli attuatori con la

strumentazione di alimentazione e controllo. A differenza

delle FO essi sono infatti completamente inglobati nel

materiale ospite e la loro raggiungibilità dall’esterno

richiede l’adozione di fili elettrici di connessione. Il

secondo fattore deriva dalla necessità di garantire

l’isolamento elettrico fra gli elettrodi dell’attuatore stesso

il che si traduce nell’impossibilità di effettuare un

inglobamento diretto fra lamine di composito che

presentino conducibilità elettrica. Entrambi questi

problemi possono essere superati pre-inglobando

l’attuatore PZT fra due speciali films costituiti da uno

strato di materiale isolante (kapton) ed uno conduttivo

(rame). Lasciando all’esterno il kapton è garantito

l’isolamento elettrico dal materiale ospite mentre la

presenza del rame consente di posizionare i fili elettrici

nella parte finale dei due films esternamente al PZT

evitando così possibili danneggiamenti allo stesso. Questa

soluzione, peraltro adottata dalla maggior parte delle

tecniche di inglobamento proposte in letteratura, comporta

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tuttavia l’introduzione nel materiale ospite di ulteriori

2 materiali differenti, ciascuno con le proprie

caratteristiche fisiche, chimiche e meccaniche.

Analizzando in dettaglio la sequenza di laminazione di

un laminato intelligente realizzato in questo modo ed

escludendo le interfacce fra le lamine di composito si

contano esattamente nella zona del PZT 6 interfacce

fra materiali diversi, 3 per ciascun lato dell’attuatore

(Tabella 4.2), oltre alla presenza di due strati di

adesivo necessari per unire il rame sia al film di poli-

imide sia all’attuatore. Ciò implica la nascita di sforzi

di taglio di natura termo-elastica con conseguente

aumento della probabilità di innesco di delaminazioni.

Tabella 52.4 – Interfacce in corrispondenza del PZT

secondo la tecnica più comunemente utilizzata per

isolare elettricamente l’attuatore.

1a interfaccia Composito / poli-imide

2a interfaccia Poli-imide / rame con adesivo

3a interfaccia Rame / PZT

4a interfaccia PZT / rame

5a interfaccia Rame / poli-imide

6a interfaccia Poli-imide / composito

Questo ragionamento trova conferma proprio in

letteratura dove non sono rari i casi in cui si

denunciano rotture del laminato in seguito allo

scollamento di una delle interfacce del sistema di

protezione del PZT. Paget e Levin riscontrarono il

cedimento dell’adesivo fra PZT e rame su provini

sollecitati staticamente a trazione (Figura 52.49), Mall

e Coleman [62] monitorarono la nucleazione e

propagazione di una delaminazione analoga su provini

a fatica. Altri autori evidenziarono delaminazioni fra

poli-imide e composito.

La tecnica di inglobamento qui presentata si pone

dunque l’obbiettivo di migliorare l’adesione

PZT/materiale ospite riducendo nel contempo il

numero di interfacce fra materiali diversi.

52.7.2.1 Inglobamento mediante Quick-Pack

Grazie alle caratteristiche isolanti delle fibre di vetro, è

apparso evidente fin da subito che un sistema

efficiente per isolare elettricamente i PZT fosse

proprio il Quick-Pack originariamente sviluppato per

le fibre ottiche. Esso infatti essendo costituito della

stessa matrice epossidica del materiale ospite è

potenzialmente in grado di esibire un’adesione

superiore a quella di altri materiali. L’inglobamento

del PZT direttamente fra le lamine in fibra di vetro del

QP consentirebbe inoltre di ridurre il numero di

interfacce presenti limitandosi a quella fra PZT e

lamine in fibra di vetro ed a quella fra queste ultime ed

il materiale ospite. Inoltre non vi sarebbe più la

presenza dei due strati di adesivo necessari per unire il

film di rame alla poli-imide da un lato ed all’attuatore

dall’altro. Per poter realizzare il QP dei PZT rimane però

da risolvere il problema legato alla connessione dei fili

elettrici.

(a)

(b)

Figura 52.49 – Esempio di inglobamento di attuatore

PZT mediante sistema di protezione in poli-imide (a) e

indagine al microscopio ottico della delaminazione

occorsa durante i tests fra PZT e strato di rame (b).

Cablaggio dell’attuatore PZT

Nelle applicazioni comuni gli attuatori PZT vengono

collegati ai fili elettrici mediante saldatura a stagno. E’ in

apparenza la soluzione più semplice e per tale motivo fu

quella adottata fin dalle prime esperienze di inglobamento.

L’operazione invero comporta delle difficoltà legate alla

necessità di non superare la Temperatura di Curie del

materiale ceramico pena la depolarizzazione dello stesso.

Ciò che richiede l’esecuzione della saldatura in tempi

rapidi ed ai limiti della temperatura di fusione dello stagno

nonché l’impiego di flussanti in grado di promuovere

l’adesione dello stesso allo strato metallico elettro-

depositato sulla ceramica. Tali difficoltà aumentano

proporzionalmente alla riduzione delle dimensioni sia

della saldatura sia dei componenti da collegare,

condizione imprescindibile nel caso di attuatori inglobati.

Pur tuttavia, il vero problema è qui legato alla nascita di

concentrazioni di sforzo deleterie dovute proprio alla

presenza di tale saldatura. Nonostante il suo spessore

possa essere estremamente ridotto (anche inferiore al

decimo di millimetro) ed il materiale d’apporto possa

essere distribuito uniformemente così da ottenere una

superficie priva di asperità si è verificato che le pressioni

di polimerizzazione del materiale ospite ingenerano sforzi

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locali elevati che causano frequenti rotture

dell’attuatore inglobato. In Figura 52.50-b sono

evidenti le cricche sull’attuatore che hanno come

punto di partenza comune la zona della saldatura.

Traendo spunto dai casi di letteratura pocanzi

presentati è stata messa a punto una tecnica che in

maniera analoga consentisse di eliminare la saldatura

dal PZT. Essa consiste nell’adozione di piccole strisce

di adesivo conduttivo che si posizionano solo

parzialmente sull’attuatore. In questo modo è possibile

portare la zona di saldatura al di fuori dell’attuatore

laddove evidentemente non può indurre

danneggiamenti sullo stesso come si può vedere

chiaramente in Figura 52.51-a. Tale film adesivo, di

spessore 50m, è costituito da una pellicola di

materiale conduttivo su cui è applicata una resina

epossidica contenente particelle di argento che ne

assicurano la conducibilità elettrica.

(a)

(b)

Figura 52.50 – Saldatura eseguita su di un attuatore

PZT Piezo Inc (a) e rottura di un attuatore PZT

Ferroperm inglobato a causa di sforzi locali elevati nella

zona della saldatura durante il ciclo di polimerizzazione

del materiale ospite.

Produzione del Quick-Pack

La produzione del QP può essere eseguita seguendo le

stesse procedure sviluppate per le fibre ottiche.

L’unica differenza degna di nota è l’adozione di 4

patches in fibra di vetro non impregnate (Nexus®)

posizionate a protezione dei fili elettrici nella zona di

fuoriuscita dal QP (Figura 52.51-c).

Benché questi non possano essere considerati fragili come

le FO la resina che tende ad accumularsi attorno ad essi

induce anche in questo caso pericolosi sforzi di

compressione che, unitamente alle loro ridotte dimensioni

(il diametro dei fili è circa 40m) possono provocare

rotture accidentali. La presenza delle patches consente di

assorbire la resina in eccesso rilasciata dal preimpregnato

mantenendo però nel contempo un’invasività ridotta

durante la successiva fase di inglobamento del QP nel

materiale ospite. Questo materiale infatti è estremamente

sottile (spessore inferiore ai 20m) ed esibisce un’elevata

drappabilità e bagnabilità, caratteristiche che ne

permettono l’utilizzo proprio nelle zone di accumulo di

resina all’interno dei laminati in composito. La Figura

4.19-c mostra il QP al termine della polimerizzazione. Si

può notare come le dimensioni siano leggermente più

grandi del PZT al fine di garantirne l’isolamento elettrico

richiesto su tutti i lati. In particolare l’attuatore

nell’immagine ha dimensioni 30x30x0,127mm mentre il

QP misura 50x40x0,25mm.

(a) (b)

(c)

Figura 52.51 – Fasi di produzione del QP per attuatori

PZT. Cablaggio (a), laminazione (c) e QP a produzione

ultimata (b).

Tecniche di inglobamento del QP

La fase di inglobamento del QP nel materiale ospite può

essere eseguita seguendo le tecniche proposte in

letteratura. Sostanzialmente se ne individuano due:

l’inglobamento diretto e l’inglobamento mediante cut-out.

La prima è certamente più semplice ma introduce nel

materiale ospite evidenti difettosità sotto-forma di sacche

di resina e vuoti in corrispondenza dei bordi dell’attuatore,

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laddove le fibre di rinforzo non riescono a seguire

perfettamente l’improvvisa variazione di spessore del

laminato. La seconda tecnica è stata sviluppata con

l’obbiettivo primario di ridurre questo effetto.

Operando il cut-out di una o più lamine con

orientazione a 90° rispetto alla direzione di

applicazione del carico è possibile ricavare un’apposita

sede in cui posizionare l’attuatore. Si ottiene un

laminato con giacitura delle fibre di rinforzo invariata

o comunque modificata in misura minima rispetto alla

configurazione ottimale. Di contro anche questa

tecnica non è esente da problemi introducendo

difettosità, seppur di dimensioni più contenute, nella

zona in cui le lamine che muoiono incontrano il PZT.

Inoltre proprio queste lamine costituisco esse stesse

elemento di discontinuità nella sequenza di

laminazione. Che questa tecnica sia più efficiente e

meno invasiva rispetto all’inglobamento diretto non è

quindi affatto scontato. Lo confermano peraltro i

numerosi studi con conclusioni spesso contrastanti

presenti in letteratura. Min e Seng, Gli stessi Paget e

Mall hanno conseguito risultati talvolta favorevoli ad

una tecnica e talvolta favorevoli all’altra. In particolare

Mall eseguì una campagna di tests di confronto su

provini con laminazione quasi-isotropa i cui risultati

mostrarono non esserci particolari differenze di

resistenza e rigidezza. Diversamente il comportamento

a fatica di provini analoghi testati in condizioni di

carico R=0,1 evidenziarono una riduzione della

velocità di propagazione della cricca in direzione

trasversale alla direzione di applicazione del carico nei

provini con PZT inglobati mediante cut-out. Vizzini e i

suoi colleghi partirono dalla considerazione che, pur

con modalità diverse, entrambe le tecniche inducono in

ogni caso alla nucleazione e propagazione prematura

di delaminazioni a causa della nascita di

concentrazioni di sforzo troppo elevate in

corrispondenza delle discontinuità introdotte. Con

l’obbiettivo di ridurre tali sforzi interlaminari Vizzini

modificò la tecnica di inglobamento mediante cut-out

cercando di distribuire sullo spessore le discontinuità

introdotte. Questa tecnica si rifà a quelle sviluppate per

i laminati rastremati laddove un certo numero di

lamine che muoiono all’interno del laminato vengono

preferibilmente distribuite nella sequenza di

laminazione. La deposizione alternata di lamine che

muoiono e di lamine continue consente infatti di

distribuire il carico evitando pericolose concentrazioni

di sforzo. Attraverso analisi numeriche e prove

sperimentali Vizzini dimostrò che la resistenza a

rottura a trazione in condizioni statiche di provini con

cut-out distribuito è superiore di un fattore 2 rispetto a

quelli con cut-out concentrato. Come si può notare in

Figura 52.52, questa tecnica può essere ritenuta

preferibile laddove requisiti funzionali legati alla

prestazione dell’attuatore richiedessero l’adozione di

PZT con spessori elevati per il cui inglobamento

sarebbe necessario operare il cut-out di un numero

molteplice di lamine. Benché la disponibilità di attuatori

sempre più prestanti e di dimensioni sempre più contenute

renda questa evenienza assai remota la tecnica di Vizzini

evidenzia in ogni caso l’importanza di ridurre le

concentrazioni di sforzo in corrispondenza dell’attuatore.

Del resto le peculiarità del QP dovrebbero consentire di

migliorare le prestazioni complessive del laminato.

Figura 52.52 – Tecnica di inglobamento di un attuatore

PZT mediante cut-out distribuito.

Nel seguito della trattazione i PZT sono stati inglobati sia

mediante inglobamento diretto sia mediante cut-out come

illustrato in Figura 52.53. Operativamente le due tecniche

si equivalgono. Le difficoltà principali sono legate anche

in questo caso alla necessità di distribuire il più

uniformemente possibile la pressione sul laminato in fase

di polimerizzazione ed alla protezione dei fili elettrici

nella zona di fuoriuscita dal laminato stesso. Le soluzioni

messe in atto sono, analogamente a quanto già descritto

per le FO, l’ausilio di cuscini elastomerici e di tubi in

PTFE. Rispetto ai sensori FBG tuttavia gli attuatori PZT

non risentono della sequenza di laminazione adottata: la

ceramica resiste a pressioni anche elevate purché

uniformi. L’unico inconveniente è una sua parziale

depolarizzazione se soggetta a carichi di compressione

particolarmente gravosi.

(a)

(b)

Figura 52.53 – Tecniche di inglobamento del QP.

Inglobamento diretto (a) e inglobamento mediante cut-

out (b).

Per quanto riguarda nello specifico l’inglobamento dei fili

elettrici e la modalità con cui farli uscire dal laminato,

Ghasemi-Nejhad e i suoi collaboratori proposero 3

differenti soluzioni confrontandole sulla base di opportuni

indici fra cui l’invasivity, la durability e la reparability.

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Benché essi abbiano sviluppato e brevettato una

tecnica in grado di consentire la sostituzione dei fili in

caso di rottura, i test dimostrarono che la soluzione in

assoluto migliore resta il loro inglobamento diretto

insieme all’attuatore disponendo i fili, per quanto

possibile, fra le fibre di rinforzo del materiale ospite

per poi farli uscire, nella maniera più naturale

possibile, dai bordi dello stesso.

La Figura 52.54-a e la Figura 52.54-b evidenziano il

diverso grado di difficoltà nel posizionamento dei fili

elettrici su di una lamina di tessuto e una di UD con

fibre orientate a 90° rispetto ai fili stessi. Si può notare

la presenza dei tubetti in PTFE che, come per le FO,

vengono utilizzati per proteggere i fili nella zona di

uscita dal laminato.

Le immagini in Figura 52.55 illustrano infine alcune

fasi dell’inglobamento. Si può osservare la diga

elastomerica di cui è dotato lo stampo per permettere

ai fili elettrici di fuoriuscire dal sacco da vuoto

proteggendoli sia dalla pressione di polimerizzazione

sia dalla resina rilasciata dal pre-impregnato. L’ultima

immagine mostra il laminato posizionato fra due

cuscini elastomerici che garantiscono una

distribuzione uniforme della pressione.

(a) (b) (c)

Figura 52.54 – Fili elettrici inseriti fra trama e ordito di

una lamina di tessuto (a) e loro posizionamento su di

una lamina UD con le fibre di rinforzo orientate

trasversalmente ai fili stessi (b). Maschera per il cut-out

(c).

Figura 52.55 – Inglobamento del QP con attuatori PZT.

52.7.3 L’inglobamento di attuatori in NiTiNOL

L’inglobamento di attuatori in lega a memoria di forma

può apparire in prima analisi meno critico rispetto agli

smart materials visti in precedenza per i quali i problemi

erano connessi principalmente alla loro intrinseca fragilità.

In realtà il grado di complessità di questa operazione è

strettamente correlato agli obbiettivi che si intende

raggiungere, ovvero alle caratteristiche meccaniche e

funzionali che si richiedono ad un laminato inglobante

questo tipo di attuatori.

Sulla base del suo principio di funzionamento l’effetto a

memoria di forma di un attuatore SMA può essere

sfruttato in due modi. Nel primo caso, previo

inglobamento in uno stato pre-deformato ovvero in fase di

martensite orientata, l’autorità sul materiale ospite è

associata alla trasformazione reverse della lega durante la

quale l’attuatore tende a recuperare la forma che gli è

propria in fase di austenite. In questo caso si sfrutta

dunque l’effetto a memoria di forma ad una via

(OWSME). Al termine dell’attivazione è necessaria

l’applicazione di un carico esterno che riporti l’attuatore

nella sua condizione iniziale pre-deformata. Ciò che può

avvenire in fase di raffreddamento grazie alla rigidezza

del materiale ospite ed al suo ritorno elastico verso la

configurazione iniziale. Nel secondo caso viene sfruttato

l’effetto a memoria di forma a due vie (TWSME):

l’attuatore può essere inglobato sia in fase di austenite sia

in fase di martensite detwinned ed il passaggio dalla prima

forma alla seconda e viceversa avviene attraverso cicli di

raffreddamento e riscaldamento.

La differenza sostanziale di queste due modalità di

funzionamento sta nella forza che l’attuatore può

sviluppare. E’ noto infatti che la deformazione ed il

conseguente sforzo di recupero associato all’effetto a due

vie sia nettamente inferiore rispetto a quello ad una via. La

caratterizzazione sperimentale presentata nel capitolo 3 ha

confermato che un filo di NiTiNOL allenato a due vie è in

grado di recuperare deformazioni dell’ordine del 2÷2,5%

mentre con l’effetto ad una via è possibile progettare

l’attuatore su deformazioni fino al 6÷7%. In questo caso

infatti il limite sulla pre-deformazione iniziale della lega è

principalmente legato all’insorgere della plasticità nel

materiale nonché al grado di ripetibilità ed al numero di

attivazioni che si richiede all’attuatore.

Da questa considerazione se ne deduce che un attuatore

SMA può essere efficientemente impiegato a due vie solo

se inglobato in un laminato al quale non sono richieste né

rigidezze elevate né grandi variazioni di forma. E’ ovvio

che tali vincoli appaiono fortemente limitanti, soprattutto

nell’ottica di sviluppare smart structures altamente

performanti, motivo per il quale la ricerca scientifica è

principalmente orientata alla messa a punto delle

tecnologie produttive di laminati inglobanti attuatori ad

una via.

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52.7.3.1 Tecniche di inglobamento

Una fra le prime tecniche sviluppate per introdurre fili

SMA nei laminati in composito prevedeva il loro

inglobamento mediante manicotti (Figura 4.24-a).

Sperimentata da Thompson e J. Loughlan [41]-[42], da

Birman [71] e altri ricercatori nella seconda metà degli

anni novanta questa tecnica consente l’inserimento dei

fili a polimerizzazione avvenuta attraverso manicotti in

gomma vulcanizzata o materiale plastico inglobati nel

laminato in fase di laminazione. Il trasferimento del

carico era garantito da una struttura esterna montata

sul laminato che vincolava le estremità dei fili al

laminato stesso. In questo modo si evitavano i

problemi di adesione all’interfaccia attuatore/materiale

ospite con il risultato di ridurre il decadimento delle

prestazioni conseguente ad un numero elevato di cicli

di attivazione. D’altro canto la presenza sia di questa

struttura esterna sia soprattutto dei manicotti in seno al

laminato era apparsa fin dall’inizio troppo invasiva e la

tecnica non ebbe molto seguito. Lo step successivo fu

quello di effettuare l’inglobamento diretto di fili già

allenati e pre-deformati polimerizzando il materiale a

temperature inferiori a quella di attivazione (AS).

Poiché le temperature di inizio della trasformazione in

austenite sono generalmente inferiori ai 50÷60°C ciò

implica sostanzialmente l’utilizzo di sistemi di resine a

freddo ed a tecniche di laminazione wet-lay-up. Le

prestazioni dei laminati che se ne ottengono sono

modeste e di scarso interesse per la maggior parte delle

applicazioni. La mancanza di pre-impregnati complica

la fase di inserimento dei fili ed il loro mantenimento

nella posizione desiderata (Figura 4.24-b). In ultimo, la

necessità di utilizzare resine a basse temperature di

reticolazione e, conseguentemente, basse temperature

di transizione vetrosa limita la scelta delle tipologie di

lega che è possibile inglobare. Queste infatti devono

avere temperature di trasformazione (AF) inferiori alla

Tg della matrice al fine di evitare un prematuro

degrado dell’interfaccia filo/materiale ospite.

(a) (b)

Figura 52.56 – Tecniche di inglobamento di attuatori in

fili di NiTiNOL. Inglobamento mediante manicotti (a) e

inglobamento mediante tecnica wet lay-up con ciclo di

polimerizzazione inferiore ad AS (b).

Tecnica di inglobamento sviluppata presso il DIA

Per superare i limiti denunciati da entrambe queste

tecniche di inglobamento una via perseguibile è quella

di inglobare gli attuatori in fase di martensite

detwinned vincolandoli allo stampo su cui si effettua la

laminazione. In questo modo infatti è possibile utilizzare

pre-impregnati ad alta temperatura essendo impedito ai fili

il recupero di forma associato alla trasformazione in

austenite. Durante il ciclo di polimerizzazione del

materiale ospite si induce sulla lega uno stato di sforzo

temporaneo che permane fino alla successiva ri-

trasformazione in martensite detwinned che avviene nella

fase di raffreddamento conclusiva del ciclo. Dal punto di

vista della compatibilità termica fra materiale ospite e

attuatore, l’unico vincolo che permane è quello sulla Tg

della matrice anche se i sistemi di resina epossidica più

evoluti garantiscono temperature di funzionamento

superiori ai 150°C. La Figura 52.57 illustra la fase di

inglobamento di 6 fili in uno dei pannelli prodotti. Le

caratteristiche principali di tale pannello sono riportate in

Tabella 52.5.

Tabella 52.5 – Caratteristiche principali di un laminato in

fibra di carbonio inglobante attuatori in fili di NiTiNOL.

ID PROVINO 003

Dimensioni 260x100x1.27mm

Host Material Carbon fabric pre-preg

SEAL CC90 ET443

Spessore lamina 0.12mm

Sequenza di laminazione [90°/(0°)2/90/45°/-45°]s

Tipologia attuatore Fili Dynalloy – diametro 0.381mm

Numero attuatori 6

Posizione attuatori Inglobati fra la 10a e la 11a lamina

Per rendere più agevole il posizionamento dei fili si

applica ad essi un leggero pre-tensionamento mediante lo

stesso sistema di afferraggio che vincola i fili durante la

polimerizzazione del laminato. Si può notare la presenza

delle ormai consuete dighe elastomeriche in

corrispondenza dei lati del pannello da cui fuoriescono i

fili necessarie sia per ottenere una buona finitura

superficiale ai bordi del pannello stesso sia per proteggere

appositi terminali che facilitano il successivo

collegamento degli attuatori al sistema di alimentazione

(Figura 52.57-a). Per l’attivazione dei fili infatti, benché

essa possa essere eseguita mediante convezione o

irraggiamento termico, è generalmente preferibile sfruttare

l’effetto Joule che permette attivazioni più rapide oltre che

la possibilità di attivare separatamente ogni attuatore

inglobato. Il vantaggio di attivazioni parziali può essere

facilmente compreso se si pensa ad una struttura più

complessa di un semplice pannello in cui la presenza di un

numero molteplice di fili opportunamente distribuiti

potrebbe consentire di realizzare un sistema di attuazione

in grado di introdurre sia carichi localizzati sia diversi

livelli di sollecitazione.

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(a)

(b)

Figura 52.57 – Tecnica di inglobamento diretto

vincolato di attuatori in fili di NiTiNOL.

Una siffatta filosofia progettuale introduce però una

serie di problemi legati all’attivazione degli attuatori. I

tempi di attivazione sono legati esclusivamente alla

diffusione del calore nel materiale essendo la

trasformazione martensitica una trasformazione non

diffusiva. L’attivazione di un filo non inglobato

richiede tempi minimi; se inglobato nel laminato può

impiegare anche tempi dell’ordine di 100÷200

secondi. Questo perché molto dipende dalla

conducibilità termica ed elettrica del materiale ospite.

Tempi di attivazione così elevati sono fortemente

penalizzanti anche in applicazioni dove non è richiesta

una risposta immediata del sistema di attivazione.

Ancor più importante è poi l’influenza dell’attivazione

sullo stato di salute della struttura. Oltre alle

sollecitazioni meccaniche, che un qualsiasi tipo di

attuatore introduce per definizione, potenzialmente

pericolose sono da considerarsi anche le sollecitazioni

termiche associate agli attuatori SMA. Il riscaldamento

per effetto Joule introduce nel materiale ospite forti

gradienti termici con la nascita di tensioni interne fra

le zone in corrispondenza dei fili e quelle più lontane.

Questo aspetto può influenzare fortemente le

prestazioni del laminato, soprattutto il suo

comportamento a fatica.

Alla luce di questi ragionamenti, confermati per altro

da analisi termografiche condotte durante le prove di

attivazione dei pannelli prodotti, è di seguito

presentata una tecnica di inglobamento che

potenzialmente potrebbe sia migliorare le prestazioni

degli attuatori sia limitarne l’invasività.

Inglobamento mediante Quick-Pack

I problemi legati alla conducibilità termica ed elettrica

del materiale ospite inducono a considerare la

possibilità di isolare termicamente ed elettricamente

gli attuatori dallo stesso. Una soluzione potrebbe

essere quella di effettuare un pre-inglobamento in un

materiale che risponda a tali requisiti, seguendo dunque la

medesima filosofia adottata per gli altri smart materials

presi in esame: l’inglobamento mediante Quick-Pack.

La fibra di vetro, che già ha consentito di effettuare

efficacemente l’isolamento elettrico fra gli elettrodi dei

PZT, è nota anche per le sue proprietà di isolamento

termico e potrebbe dunque rispondere anche ai requisiti

richiesti per l’inglobamento degli attuatori in NiTINOL.

Non di meno, non possono essere trascurate le

caratteristiche peculiari del Quick-Pack che consente di

poter prescindere dalla sequenza di laminazione dell’host

material. A tal proposito, Zhou ottenne sui fili di

NiTiNOL risultati analoghi a quelli qui presentati per le

FO: il loro inglobamento comporta la nascita di difettosità

soprattutto se inglobati con orientazione differente rispetto

alle fibre di rinforzo. Egli verificò inoltre il grado di

invasività di tali fili inglobati evidenziando nelle modeste

caratteristiche dell’interfaccia filo/host material la

principale causa di cedimento dei laminati.

Pur tuttavia, l’attivazione dei fili durante il processo

produttivo e la conseguente necessità di effettuare un

“inglobamento vincolato” dei fili stessi così come

l’esecuzione di 2 cicli termici di polimerizzazione per

produrre il QP e successivamente effettuarne

l’inglobamento nel materiale ospite sono tutti elementi

che non possono escludere a priori la nascita di difficoltà

nell’adozione di una tale tecnica.

Alla luce di queste considerazioni, la tecnica del QP è

stata applicata anche ai fili di NiTiNOL. La Figura 4.26

illustra alcune fasi del processo produttivo. Nonostante il

livello di complessità della procedura di inglobamento, la

presenza del QP ha agevolato il posizionamento degli

attuatori nel laminato ospite. Si è notato infatti che a

seguito del primo inglobamento dei fili fra le due lamine

in fibra di vetro questi diventino più maneggevoli, il QP

impedisce loro di muoversi e l’operazione di

inglobamento successiva si limita ad una normale

procedura di laminazione. L’analisi al microscopio di

alcune sezioni del laminato prodotto (Figura 4.26-c)

evidenziano un soddisfacente livello di compattazione e

un’apparente assenza di difettosità attorno al filo. Ciò

lascia presupporre che l’interfaccia attuatore/materiale

ospite possa esibire buone prestazioni.

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(b)

(a) (c)

Figura 52.58 – Tecnica di inglobamento mediante

Quick-Pack (a) laminato prodotto (b) e analisi al

microscopio di una sezione(c).

Potenzialmente quindi il QP applicato ai fili di

NiTiNOL potrebbe portare ad una serie molteplice di

vantaggi:

1. riduzione dell’invasività passiva degli

attuatori grazie alla diminuzione delle difettosità e ad

un conseguente miglioramento del livello di adesione

all’interfaccia;

2. riduzione dell’invasività attiva grazie

all’adozione di materiale elettricamente e

termicamente isolante nella produzione del QP;

3. incremento delle prestazioni dell’attuatore sia

in termini di autorità che di velocità di risposta.

52.8 Self Healing materials

Le strutture comunemente esistenti sono concepite

secondo un concetto ormai largamente assodato che è

quello di prevenzione del danno, per cui si cerca di

realizzare strutture il più possibile resistenti in grado di

sopportare, senza danni, i carichi per le quali sono

state progettate.

Per parlare di materiali autoriparanti (self healing)

occorre introdurre un nuovo concetto che è quello di

“damage management”, ovvero gestione del danno. Si

studiano, quindi, materiali in grado di ripararsi

automaticamente e autonomamente senza bisogno di

alcun intervento esterno o, comunque, senza la

necessità di sostituire il pezzo danneggiato.

In quest'ottica, la nascita di una cricca non sarebbe più

un problema se seguita da un processo autonomo di

rimozione e riparazione del danno. Gli attuali sforzi

compiuti in tale ambito hanno condotto a risultati

ancora ben lontani dal permettere di realizzare

strutture capaci di autorigenerarsi in seguito a

danneggiamenti più o meno importanti, ma

l'ingegneria in tale campo, seppur ancora agli albori,

possiede tutti i presupposti per importanti sviluppi.

52.8.1 Tipologie di materiali autoriparanti

Il concetto di damage management è il principio

fondamentale dei materiali autoriparanti. Negli ultimi anni

sono stati condotti differenti studi che hanno portato allo

sviluppo di tecnologie diverse nell'ambito della ricerca e

della produzione di materiali self healing.

E’ possibile distinguere due diversi approcci: uno riguarda

tutti quei materiali e quelle tecnologie in cui

l'autoriparazione viene innescata autonomamente senza

alcun bisogno di interventi esterni quali, ad esempio,

riscaldamento o pressione; il secondo, riguarda quelle

tecniche per cui è necessario, affinché il processo di

autoriparazione possa aver luogo, un controllo attivo che

si accorga dell'avvenuto danno e attivi la riparazione.

Nel seguito, vengono, richiamati brevemente tre diversi

meccanismi di autoriparazione che, insieme agli ionomeri,

sono quelli attualmente di maggior interesse nel campo

della ricerca scientifica.

52.8.1.1 Microcapsule

Il primo meccanismo self healing che viene qui discusso

basa il proprio funzionamento nel verificarsi di una

opportuna reazione chimica che porta ad un processo di

polimerizzazione.

All'interno di un materiale composito vengono inserite

delle microcapsule contenenti una resina particolare che

funge da agente riparante. Quando si manifesta una rottura

all'interno del materiale, le capsule presenti nella regione

interessata si rompono lasciando fuoriuscire la resina. Tale

resina fluisce all'interno della matrice polimerica dove

trova il catalizzatore grazie al quale riesce a polimerizzare

andando, quindi, a riempire la cricca e a restaurare le

proprietà meccaniche originarie. In Figura 52.59 è

riportata una rappresentazione schematica di quanto

appena descritto. Sebbene, per un certo punto di vista,

l'invenzione delle microcapsule sia uno dei progressi più

innovativi nell'ambito dello sviluppo dei materiali

autoriparanti, d'altro canto anch'esse non sono la soluzione

a tutte le casistiche di frattura e danneggiamento. Danni di

dimensioni grandi, come quelli causati dall'impatto con un

proiettile, non possono, infatti, essere riparati con l'utilizzo

delle microcapsule e, inoltre, questo tipo di soluzione non

consente una ripetibilità di funzionamento in quanto, una

volta rotte, le capsule possono adempire al proprio

compito esclusivamente una sola volta.

52.8.1.2 Fibre contenenti cave

La seconda tipologia di materiali autoriparanti riguarda i

laminati in composito rinforzati da fibre contenenti resina.

Si tratta di fibre di vetro o di carbonio; esse sono in certi

casi preferite all'utilizzo delle microcapsule perché

presentano, contemporaneamente, due vantaggi:

contengono la resina autoriparante (come le microcapsule)

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI

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autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.

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e, allo stesso tempo, costituiscono un rinforzo per il

laminato.

Figura 52.59 – Processo di autoriparazione mediante

microcapsule.

Come nel caso precedentemente trattato, quando si

verifica un danneggiamento le fibre rotte lasciano

fuoriuscire la resina e il catalizzatore, essi reagiscono

tra loro e riempiendo la cricca danno inizio ad un

processo di autoriparazione e di arresto del danno.

Anche in questo caso, quindi, il funzionamento si basa

su una reazione chimica.

Figura 52.60 – Esempio della disposizione delle _bre

autoriparanti in un laminato.

L'autoriparazione dipende da diversi fattori:

1. la natura e la zona in cui si verifica il danno;

2. la tipologia di resina scelta;

3. l'influenza dell'ambiente in cui si opera.

Le fibre autoriparanti possono essere introdotte come

strati addizionali tra una lamina e l'altra, oppure nelle zone

più soggette a danno. In Figura 52.60 viene rappresentata

la disposizione delle fibre all'interno di un composito.

52.8.1.3 Riparazione tramite riscaldamento

Questo meccanismo rientra nella seconda casistica di

materiali self healing, ovvero necessita di un intervento

esterno che inneschi la riparazione, in questo caso di

calore. Il chimico Wool ha osservato che esistono alcuni

polimeri (ad esempio il polistirene e il polietilene) che, se

messi a contatto al di sopra della propria temperatura di

transizione vetrosa si legano tra loro. Preso, quindi, un

campione di polistirene e prodotta al suo interno una

cricca, affinché la riparazione avvenga, è necessario che le

due facce della cricca vengano tenute vicine tra loro (per

esempio con una morsa) e la temperatura venga fatta

aumentare. In questo modo il materiale, scaldandosi, si

espande, le due superfici entrano in stretto contatto tra

loro e si risaldano. E' evidente che una soluzione di questo

tipo ha un interesse modesto, proprio perché la riparazione

non viene innescata autonomamente nel materiale, ma

necessita di un intervento esterno e, inoltre, richiede un

tempo piuttosto lungo (da pochi minuti a qualche ora).

52.8.1.4 Ionomeri

Gli Ionomeri costituiscono una classe di polimeri che

presentano una certa percentuale (20%) di ioni al loro

interno. Questi ioni formano degli aggregati che giocano

un ruolo determinante nella definizione delle proprietà

fisiche e meccaniche di tali materiali. Negli ultimi

quarant'anni sono stati condotti molti studi circa il legame

esistente tra la struttura di questi polimeri e le loro

proprietà, in modo tale da utilizzarli e sfruttarli a livello

commerciale in diverse applicazioni. Il fenomeno di

autoriparazione esibito da tali materiali è di particolare

interesse scientifico, esso deve essere attribuito alla loro

particolare struttura chimica. Seppure gli ionomeri si

conoscano da parecchio tempo, la ricerca condotta su di

essi come materiali self healing risale a non più di dieci

anni fa e la letteratura disponibile è ad oggi ancora al

quanto scarsa.

Il fenomeno di autoriparazione si manifesta

spontaneamente senza alcun intervento esterno a seguito

di impatti in cui le energie in gioco sono sufficientemente

elevante da consentire all'oggetto impattante di

attraversare il materiale in un tempo molto breve.

Le potenzialità applicative di tali materiali sono, come è

facile immaginare, numerose ed è pertanto comprensibile

il forte interesse nel voler studiare e comprendere il

meccanismo di autoriparazione, in modo tale da sfruttarlo

ed, eventualmente, produrre nuovi materiali con il

medesimo comportamento.

Ciò che è chiaro fino ad ora è che il fenomeno si osserva a

seguito del passaggio di un proiettile ed è un evento molto

rapido che si compie in una frazione di secondo. Pare

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assodato che le ragioni di tale comportamento

risiedano nei gruppi ionici presenti in questi materiali.

Durante l'impatto con un proiettile, l'energia cinetica di

quest'ultimo viene trasferita al materiale sotto forma di

calore e di energia elastica, sembra essere proprio il

giusto bilanciamento tra queste due ad attivare il

processo di autoriparazione.

52.8.2 Soluzioni applicative

52.8.2.1 Serbatoi autosigillanti per applicazioni

aeronautiche

Da quanto emerso fino ad ora si può affermare che le

possibilità applicative degli ionomeri e delle loro

miscele, per quanto ancora siano necessari studi più

approfonditi, siano molto interessanti.

Per il loro utilizzo occorre pensare a tutte quelle

situazioni in cui determinate strutture o parti di esse

possano essere a rischio di impatto contro corpi piccoli

ad una certa velocità e in cui è necessario un intervento

di riparazione immediato. Situazioni simili si

riscontrano sia in ambito aeronautico che spaziale.

Nel campo aeronautico una possibile applicazione

riguarda i serbatoi dei velivoli militari soggetti

all'impatto contro proiettili. Uno studio sugli incidenti

di volo, condotto nell'arco di molti anni, ha dimostrato

che, in molti casi, la principale causa di morte o di

lesioni gravi è il fuoco che si sviluppa a causa delle

enormi quantità di carburante fuoriuscito dalla rottura

dei serbatoi. E', quindi, importante prevedere l'utilizzo

di serbatoi capaci di resistere all'impatto e impedire la

dispersione di carburante.

Esistono diverse tipologie di serbatoi:

• Serbatoi integrali impiegati per lo più nelle

ali, sono ricavati nella struttura stessa, sigillando

completamente il vano utilizzato a tale scopo;

• Serbatoi flessibili sono serbatoi di materiale

sintetico, non attaccabile chimicamente dal

combustibile, montati in un vano e fissati attraverso un

certo numero di punti di attacco. I serbatoi flessibili

consentono un certo movimento rispetto alla struttura e

quindi non interferiscono conla rigidezza strutturale.

• Serbatoi rigidi utilizzati principalmente

all'interno delle fusoliere, hanno il vantaggio di

costituire un componente isolato, indipendente dalla

struttura, con la quale interferiscono solo attraverso gli

attacchi.

In commercio sono già disponibili serbatoi che

utilizzano una struttura multistrato in cui viene incluso

anche uno spessore di gomma naturale che provvede

all'autosigillazione a seguito del passaggio di un

proiettile.

Lo spessore complessivo può variare da 3,5 a 6 mm, a

seconda del livello di protezione balistica richiesta. Di

norma hanno capacità autosigillante contro proiettili di

calibro 7.62, 12.7, 20 e 23.

In Figura 52.61 è schematizzata la struttura multistrato di

un serbatoio flessibile auto-sigillante.

Figura 52.61 – Struttura multistrato di un serbatoio

autosigillante. 1) Rivestimento anti-ozono, 2) Strato

esterno di tessuto gommato, 3) Strato intermedio di

tessuto gommato, 4) Strato autosigillante, 5) Strato

interno di tessuto gommato, 6) Strato autosigillante, 7)

Barriera di nylon, 8) Strato interno di tessuto gommato.

52.8.2.2 Strutture multistrato per applicazioni spaziali

In ambito spaziale lo sviluppo di materiali autoriparanti è

un settore oggi di grande interesse. Negli ultimi anni si

stanno compiendo ingenti sforzi per lo sviluppo di nuove

tecnologie in vista di future missioni lunari che possano

consentire di allungare i tempi della missione. Tale

progetto richiede la necessità di installare sul territorio

lunare delle strutture per l'alloggio dell'equipaggio e delle

attrezzature.

I primi studi avanzati dalla NASA (National Aeronautics

and Space Administration) hanno sottolineato

l'importanza di realizzare degli ambienti sufficientemente

grandi per far fronte ai bisogni sia fisici che psicologici a

cui gli astronauti dovranno rispondere. L'idea è quella di

realizzare delle strutture innovative che siano pieghevoli,

in modo tale da poter essere facilmente stivate e

trasportate, e gonfiabili una volta giunte a destinazione.

Per poter rispondere a tali esigente, è evidente che occorre

fare uso di materiali diversi rispetto agli usuali metalli e

compositi rigidi che devono, quindi, essere sostituiti da

tessuti, schiume e materiali polimerici elastici.

Le strutture pieghevoli e gonfiabili risultano attualmente

la soluzione migliore per future missioni lunari almeno

per quattro ragioni:

• Elevato rapporto volume abitabile/peso

strutturale: è evidente che strutture pieghevoli e gonfiabili

consentano di massimizzare il volume abitabile rispetto a

strutture costituite da moduli predefiniti. Si è

indicativamente stabilito che per ciascun membro

dell'equipaggio debbano essere garantiti 120 di spazio

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praticabile: per equipaggi numerosi ottenere spazi così

ampi risulta difficile utilizzando soluzioni diverse.

• Ottima efficienza di imballaggio: strutture di

questo tipo possono essere facilmente stivate e

trasportate occupando il minimo spazio necessario.

• Minima necessità di disporre di materiale

costruttivo in loco: la struttura con tutti i suoi

componenti costituisce un unico blocco. Il passo

successivo sarà quello di utilizzare pietre lunari per

realizzare strutture fisse capaci di proteggere

l'equipaggio e le attrezzature dalle radiazioni termiche,

dall'impatto contro micrometeoriti e dagli sbalzi

termici.

• Minori effetti secondari dovuti alle radiazioni:

utilizzando materiali non metallici si riduce il

deterioramento della struttura dovuta alle radiazioni

subite.

A questi aspetti positivi propri delle strutture

pieghevoli e gonfiabili si aggiungono anche i minori

costi di produzione e installazione rispetto a quelli

richiesti per moduli prefabbricati o strutture costruite

direttamente sul suolo lunare. In Figura 52.62 è

riportato un possibile prototipo.

Figura 52.62 – Struttura gonfiabile per suolo lunare.

Uno dei problemi principali è quello di riuscire a

mantenere l'integrità di tali strutture, che hanno il

compito di proteggere l'ambiente interno pressurizzato

in un contesto in cui si verifica, a causa della

mancanza di un'atmosfera lunare, un continua pioggia

di detriti di diverse dimensioni che impattano a

velocità molto elevate (dell'ordine di alcuni chilometri

al secondo). L'architettura di tali strutture è quindi

pensata in modo da preservare tale integrità; esse si

compongono di una struttura rigida interna e da una

copertura esterna gonfiabile multistrato in cui ciascun

componente ha una determinata funzione.

La copertura prevede una serie di strati ridondanti per

il contenimento dell'atmosfera interna, uno strato di

tessuto di kevlar e uno scudo esterno contro l'impatto

di detriti costituito da strati di kevlar alternati a schiuma di

poliuretano (MMOD multi-shock micrometeoroid and

orbital debris).

In Figura 52.63 è rappresentata in modo schematico la

struttura multistrato descritta.

L'idea è, quindi, di aggiungere all'interno dei diversi strati

protettivi un sistema per monitorare costantemente

l'integrità della struttura ed, eventualmente, segnalare

danni subiti e un sistema di autoriparazione. Per l'impatto

con piccoli detriti sarebbe, infatti, vantaggioso disporre di

un sistema autoriparante in modo che l'equipaggio non

debba preoccuparsi di intervenire personalmente.

Attualmente le soluzioni maggiormente prese in

considerazione per lo strato autoriparante prevedono

l'utilizzo di polimeri contenenti capsule di resina, l'utilizzo

di ionomeri è ancora in fase di studio.

Figura 52.63 – Schematica vista in sezione di una

struttura multistrato.

Bibliografia

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“LAMINATI COMPOSITI INTELLIGENTI: Problematiche tecnologiche e valutazione dell’invasività dell’inglobamento di

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