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James Blake. Braids . The Decemberist . Motorhead . Iron & Wine . Verdena . Fujiya And Miyagi . Richard Wagner . Smiths EDITORIALE Nel corso della storia, gli eventi si ripetono, con varianti, ma la sostanza, spesso, resta la stessa. Ed anche la musica non puo’ far altro che ubbidire a questa regola, essendo parte della storia. Se ci mettiamo poi il fatto che, negli ambiti artistici, più il tempo passa più, ovviamente, le risorse e le possibilità di originalità si esauriscono, dipingiamo un quadro ancora più chiaro. É chiaro, questo lavorare su materiale vecchio, nella musica degli anni ‘00, quando, gruppi come gli Xiu Xiu e mille altri adepti, rimpastavano i suoni della new wave di trent’anni prima, dandogli nuove caratteristiche. Ciò non vuol dire che la musica ispirata a e non increata non valga niente anzi, è la strada più normale che ci sia e, soprattutto, non è affatto facile innestare originalità in una forma già definita (pensiamo allo stallo di gran parte della musica italiana). Forma particolare ed interessante di questa materia è il cosiddetto post-garage-dubstep, che tanto sta spopolando in questo periodo e che vede nel giovincello James Blake e nei due Mount Kimbie la sua incarnazione migliore. Ma il dubstep, importante saperlo, è sempre stata una creatura oscura, infinitamente sfaccettata, una sfera cubica (cit.), di difficile catalogazione, basta ascoltare dischi di Burial, Kode9, The Bug e King Midas per accorgersene. Questi tre ragazzi sovracitati l’hanno presa, triturata, soffritta e ne hanno tirato fuori qualcosa di nuovo, un suono che non si era mai sentito, che parte sì dal dubstep, ma si fonde con mille altre cose, dalle correnti elettroniche precedenti, dal folk (Mount Kimbie 2010) e si spinge fino al soul (James Blake 2011). Uno degli esempi più lampanti di quello che il benemerito Dante chiamava sincretismo, si riesce ad unire cose formalmente diverse dandogli però una forma comune. E allora, non è questo quello che dicevamo ad inizio articolo? E allora, perchè non sperimentare, non mischiare, non rischiare? Non ha senso dire che tutto ciò che sarà fatto è già stato fatto (in ambito musicale, ma non solo), perchè questi nuovi volti stanno dimostrando che non è vero, è tutto il contrario. E allora, su le maniche, non marciamo (dalla voce del verbo marcire) nel vecchio, non ci sono scuse. - matmo MUSICHE SFUGGEVOLI anno II feedback fanzine di musica indipendente IN QUESTO NUMERO: 1 www.feedbackmagazine.it numero 5 FEBBRAIO 2O11

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James Blake. Braids . The Decemberist . Motorhead . Iron & Wine . Verdena . Fujiya And Miyagi . Richard Wagner . Smiths

EDITORIALE

Nel corso della storia, gli eventi si ripetono, con varianti, ma la sostanza, spesso, resta la stessa. Ed anche la musica non puo’ far altro che ubbidire a questa regola, essendo parte della storia. Se ci mettiamo poi il fatto che, negli ambiti artistici, più il tempo passa più, ovviamente, le risorse e le possibilità di originalità si esauriscono, dipingiamo un quadro ancora più chiaro. É chiaro, questo lavorare su materiale vecchio, nella musica degli anni ‘00, quando, gruppi come gli Xiu Xiu e mille altri adepti, rimpastavano i suoni della new wave di trent’anni prima, dandogli nuove caratteristiche. Ciò non vuol dire che la musica ispirata a e non increata non valga niente anzi, è la strada più normale che ci sia e, soprattutto, non è affatto facile innestare

originalità in una forma già definita (pensiamo allo stallo di gran parte della musica italiana). Forma particolare ed interessante di questa materia è il cosiddetto post-garage-dubstep, che tanto sta spopolando in questo periodo e che vede nel giovincello James Blake e nei due Mount Kimbie la sua incarnazione migliore. Ma il dubstep, importante saperlo, è sempre stata una creatura oscura, infinitamente sfaccettata, una sfera cubica (cit.), di difficile catalogazione, basta ascoltare dischi di Burial, Kode9, The Bug e King Midas per accorgersene. Questi tre ragazzi sovracitati l’hanno presa, triturata, soffritta e ne hanno tirato fuori qualcosa di nuovo, un suono che non si era mai sentito, che parte sì dal dubstep, ma si fonde con mille altre cose, dalle correnti elettroniche precedenti, dal folk

(Mount Kimbie 2010) e si spinge fino al soul (James Blake 2011). Uno degli esempi più lampanti di quello che il benemerito Dante chiamava sincretismo, si riesce ad unire cose formalmente diverse dandogli però una forma comune. E allora, non è questo quello che dicevamo ad inizio articolo? E allora, perchè non sperimentare, non mischiare, non rischiare? Non ha senso dire che tutto ciò che sarà fatto è già stato fatto (in ambito musicale, ma non solo), perchè questi nuovi volti stanno dimostrando che non è vero, è tutto il contrario. E allora, su le maniche, non marciamo (dalla voce del verbo marcire) nel vecchio, non ci sono scuse.

- matmo

MUSICHE SFUGGEVOLI

anno II

feedbackfanzine di musica indipendente

IN QUESTO NUMERO:

1

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numero 5FEBBRAIO 2O11

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JAMES BLAKE ARTISTA DEL MESE

l’enfant del dubstep prodige

LA MUSICA DELLO SPRAWL

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Lo invidio James Blake, non solo per il suo bell’aspetto, ma anche perché a soli 22 anni è passato dalla scuola alle classifiche del settore indipendente più quotate. Una parabola invidiabile che si spera duri a lungo. E talento, tanto. James Blake nasce il 26 settembre 1988 a Enfield, il distretto nord di Londra, da padre musicista e madre grafica pubblicitaria . A sei anni comincia a prendere confidenza con il piano e il canto. Cresce a pane e classica (Bach soprattutto), jazz (Erol Garner) e funk soul (Stevie Wonder, Sly & The Family Stone). Studia alla Latymer, grammar school molto selettiva e attenta agli studenti musicalmente dotati, dove James esplora l’improvvisazione del pianoforte. Inizia a registrare musica nella propria camera come tutti. Finito il liceo passa all’università e scopre l’elettronica, il dubstep in particolare e ne rimane folgorato. Si tuffa nella scena di east london e si iscrive alla Goldsmiths per studiare popolar music. Comincia a farsi un nome e viene notato dalla Hemlock che lo mette sotto contratto, per la quale esce il debutto su 12” pollici,

Nello scorso numero abbiamo trattato dell’ultimo disco degli Arcade Fire, un capolavoro di coerenza narrativa sottovalutato da ascoltatori e recensori. Come detto, l’album trovava il suo baricentro nel dialogo tra testi e musica, in una evocazione trasognata e malinconica della città perduta. Perché perduta? E perché si può ritenere quest’operazione come uno dei vertici dell’arte pop recente?Per prima cosa facciamo chiarezza: i suburb del disco non corrispondono affatto alle periferie come le può intendere un italiano, dallo Zen a Cinisello Balsamo, negazione e insieme corollario della città storica. Questo non solo perché la nostra tradizione urbanistica è diversa da quella americana ma perché le periferie come comunemente le intendiamo non sono oggi più tali, sia lì che qui. Guardiamo le nostre strade: è possibile segnare con certezza i margini delle nostre città? Possiamo davvero, come fanno ingenuamente gli Uochi Toki, sostenere l’estraneità della campagna alle logiche della città e agli stili di vita urbani? Se non esiste più il centro può esistere la periferia? Il modello suburbano si basava sulla separazione tra residenza e lavoro. Poi si è creduto che fare case fosse il lavoro più remunerativo e sicuro del mondo, e allora il modello è entrato in crisi. Che l’opposizione tra suburb e downtown sia ormai soltanto immaginata è ben spiegato dalla suite The Sprawl. Espressione già entrata nel vocabolario del rock attraverso i Sonic Youth in tributo a William Gibson, lo sprawl è la città che si diluisce senza forma nella campagna, per colonizzarne usi e modi: non se ne possono distinguere le parti («these towns they built to change”») né sembra possibile identificarne i confini («sometimes I wonder if the world’s so small that we can never get away from the sprawl»). Nel 2007 il mercato della casa è crollato con tutto quello che si portava dietro, e cioè banche, famiglie, speranze. Ci guardiamo attorno e non vediamo che i relitti di una civiltà instupidita dal mattone. E allora ci troviamo a ricordare e a celebrare una doppia perdita: quella della città tradizionale e quella delle periferie, elette a sistema e poi strangolate dallo sprawl.Quanto sia importante fare i conti con questa perdita è segnalato da altri dischi che negli stessi mesi hanno affrontato il tema. Il protagonista de La Macarena su Roma di IOSONOUNCANE, a differenza dei narratori di The Suburbs, è ancora capace di riconoscere i luoghi della propria vita, seppur attraverso la televisione: la città è rimasta lì, tale e quale a trent’anni fa, ma come desertificata da nuove solitudini domestiche e dalla ipnotica irrealtà mediatica. Ma siamo sicuri che sia stata la tv a svuotare le nostre piazze? Siamo sicuri che le città che abbiamo in testa corrispondano ancora a quelle reali? Suburban Tour di Rangers è invece una sonorizzazione dello sprawl in chiave chillwave: schitarrate da telefilm pomeridiano e sintetizzatori analogici forniscono il solito stucchevole campionario di rimembranze dell’età di Reagan, una rappresentazione estetizzante che riprende le oleografie del Landscapes di Ducktails. In altre parole, più che critica o presa di coscienza, abbandono e apologia. Un lavoro ancora più astratto è The Invisible City di Bj Nilsen, costituito da registrazioni ambientali effettuate nei contesti più disparati, dal Giappone al Portogallo, alla ricerca della natura del suono che hanno le città deserte.La crisi ci costringe a pensare nuove città e a riflettere su quel che rimane di un modello parassitario e pervasivo. Può la musica aiutarci a trovare le forze per rimuovere i calcinacci?

- bobi raspati

Air & Lack Thereof (luglio 2009). Ne esce una ipotetica versione embrionale del disco di debutto (recensito in questo numero), dove Blake sperimenta un’elettronica trip hop spezzettata da continui cut/paste e beat ovattati.Il vinile finisce nelle mani di Gilles Peterson, che lo passa in radio e invita James a realizzare un remi per la sua trasmissione (mix che conterrà una esclusiva targata Mount Kimbie, con i quali ha stretto sodalizio). Intanto James conclude l’ultimo anno accademico, terminando così gli studi, e si trasferisce a Deptford, sulla riva sud del Tamigi, per rimanere nel cuore pulsante della scena. Il 2010 quindi, programmaticamente gestito con piccole produzioni in maggioranza circoscritte alla sola Inghilterra, che dimostrano il talento di James e lo avvicinano alla scena post dubstep insieme ai Mount Kimbie.Pembroke, seguito da Bells Sketch, entrambi usciti a marzo 2010 rispettivamente per Braimath e per Hessle Studio. CMYK (uscito a giugno per la belga R&S), forse il più lontano dalla sua estetica ma anche il più ottimo tra i suoi EP: risente infatti dell’influenza Mount Kimbie nella scelta di oscurare il cantato in favore dei sample vocali super effettati (ti restano in mente che è un piacere). Last but not least Klavierwerke EP, ove Blake torna sui suoi passi (è il periodo in cui sta iniziando a buttar giù il disco vero e proprio). Entra a fine anno nella classifica BBC degli artisti più quotati in previsione per l’anno successivo.“Se la gente lo chiama dubstep, per me va benissimo, perché il dubstep ha in se tutto quello che voglio: il ritmo, sound design, emozione vera, tutto insieme, tutto nello stesso posto. Il dubstep mi ha aiutato ad avere una comprensione più profonda della musica in generale, e quindi di me stesso. E poi, per me, uno come Mala non fa “dubstep”, fa semplicemente della musica incredibile. Quando ufficialmente uscirà un mio album vocale avrà tutto più senso”. Che è l’album omonimo, intuibile in prospettiva: “decisamente diverso, un album vocale con produzioni elettroniche ma con la mia voce non-adulterata. Gli arrangiamenti saranno minimalisti e la produzione sarà al servizio del cantato, ne più ne meno. Dopo aver (ri)scoperto di saper cantare, quelle sensazioni che prima cercavo cesellando il singolo suono, il singolo disturbo, la singola distorsione, ora cerco di renderle a parole.”

- mr.potato

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LIVENETMAGE 11Bologna, 22/01/2011

NETMAGE 11

GODSPEED YOU! BLACK EMPERORBologna, 26/01/2011

Finalmente riesco anch’io a presenziare al Netmage, festival di live media (installazioni sonore, visual, performance ecc…) che da oltre dieci anni raccoglie a Bologna il meglio della musica elettronica sperimentale e delle arti ad esse connesse. Organizzato dal collettivo XING, nato all’interno dello storico Link, il festival si sviluppa principalmente nelle tre serate collocate nella stupenda cornice del palazzo Re Enzo in Piazza Maggiore. E’ però una manifestazione che avvolge l’intera città di Bologna nei maggiori locali notturni proponendo un vero e proprio tour de force di nightclubbing con concerti e dj set.La qualità nell’ampia scelta del roster è sempre stata alta, basti pensare che da qui negli ultimi anni son passati personaggi come i Black Dice, gli Emeralds e i redivivi Cluster.Approfittando del compleanno della mia ragazza, che poverina mi ha fatto da accompagnatrice per tutta la serata (nottata in realtà, un po’ una faticaccia per chi si spostava in macchina), riesco a vedermi tutti i gruppi in programma nella serata di sabato 22 gennaio.Ma partiamo con ordine.Spetta ai due simpatici francesi Gaetan Bulourde e Olivier Toulemonde e alla loro performance “Not every object used to nail is an hammer” (un nome che è tutto un programma) dare il via alla serata. Si presentano trascinando un tavolo a testa, producendo un bellissimo stridio sinfonico mentre girano per tutta la stanza del palazzo. Dopo, Gaetan presenta apertamente il progetto, più una dichiarazione d’intenti per il pubblico stranito, spiegando che esso verte sul significato di “cos’èbuono” e “cos’èsbagliato” nell’arte, riprendendo un discorso iniziato nel 69 dall’artista fluxus Robert Filliou il quale, in soldoni, riduce le possibilità della critica a “well done = bad done = not done”. Egli creò tre oggetti composti da un calzino rosso in una scatola gialla, uno ben riuscito, uno mal riuscito ed uno non fatto del tutto. Insieme, tutti e tre andavano a creare un oggetto ben riuscito che, posto insieme ad un’altro oggetto mal riuscito ed a uno non riuscito, creavano un’altro insieme ben riuscito, and so on. I due artisti riprendono quest’idea e la trasportano in una dimensione performativa fatta di chiodi, assi di legno e martelli. Mentre costruiscono oggetti a suon di martellate l’azione si trasforma in musica percussiva molto concreta. Come diceva Filliou: “un’artista dovrebbe essere buon a nulla così come bravo in tutto”.Dopo l’esibizione iniziale viene aperta al pubblico l’installazione sonora “Life Kills” di Massimiliano Nazzi, un vero e proprio percorso installativo, che l’artista ha approntato per le retrovie superiori del palazzo, tra cortile d’accesso, corridoi improvvisati e sottotetto, dove era possibile scorgere tra le vetrate la vera e propria installazione costituita da elettrodomestici vari, tra cui aspirapolveri impiccate e infaticabili phon accesi attaccati al soffitto. Nelle varie stanze erano posizionate delle casse che amplificavano il suono prodotto da questi simil robot difettosi che lavoravano meccanicamente e senza tregua. Veniamo poi trasportati nella sala bellissima sala principale per assistere a eventi più prettamente musicali. Mi capita però di fermarmi prima ai banchini di merchandising, tra cui scorgo anche il simpaticissimo Onga e la sua etichetta Boring Machine! Ma il tempo vola ed ecco iniziare Barokthegreat/ Micheal Klein, in perfetto orario di scaletta: “Russian Mountains” è una performance audiovisiva nata dall’incontro tra il duo italiano Barokthegreat e il musicista olandese Micheal Klein, molto interessante tra giochi di luce e frequenze sonore proiettati in un’ipotetica corsa onirica nelle montagne russe. Nel mentre presento la mia “morosa” ai professori d’università, richiamati per l’evento bolognese, e mi gusto un “cicchetto”. Mi perdo Ries Straver e il suo “Loffa”, ma intravedo il visual del faccione in primissimo piano di un signore. Perturbante.Segue il duo Thomas Koner/Jurgen Reble, l’evento che più mi interessava vedere. Sala riempita, musica drone ad alto volume e visual (molto belli) microcellulare con lente variazioni cromatiche spazientiscono la mia ragazza, giustificata dalla stanchezza di dover stare in piedi, dalla mancanza d’aria e dalla musica non proprio accessibile. Mi fumo una “paglia” sul terrazzo del Re Enzo. Penso che Thomas Koner sia un grande, soprattutto per la collaborazione tempo addietro col collettivo Experimental Audio Research, capitanato dai geniali Sonic Boom (membro degli Spacemen 3)e Kevin Shields (My Bloody Valentine).Dopo, i visual “Paper Maché”, spezzoni di filmati del carnevale di Viareggio registrati con una 8mm a colori tra il 1956 e il 1967 dal cinematografo bolognese Alessandro Mantovani, fanno da sfondo all’esibizione del gruppo In Zaire: insulsa. Dicono di combinare la dimensione dub funk con la psichedelica araba e discendenze minimaliste. In realtà niente di tutta questa pretenziosità è udibile. Mah…“The Room” è un progetto audio-visivo prodotto dai due filmmaker/visual artist Luke Fowler e Peter Todd insieme al musicista Keith Rowe. Presentato per la prima volta alla Tate Modern durante un’importante retrospettiva di Rothko, l’opera è composta da due film in 16 mm proiettati uno di fianco all’altro mostranti immagini di “residui di attività umana” all’interno di una casa. Interessante ed emotivo, purtroppo la stanchezza non me lo fa apprezzare appieno.Palpitazione per i Prince Rama che si presentano in due, carine ragazze agghindate e psichedeliche. Il loro disco Shadow Temple, prodotto e uscito per la Paw Tracks con l’assistenza di Avey Tare e Deakin degli Animal Collective, è un bel dischetto, cantato in sanscrito e inzuppato di tribalismi e psichedelica. Aiutato dai visual vibranti e in perfetto stile con la musica del videomaker Greg St.Pierre, ne esce fuori un bel live e il pubblico risponde con calore. Menomale c’è il Netmage, che apparte tutte le difficoltà (dopotutto vien fatto in Italia, che peccato…), è ancora in piedi e speriamo lo sarà per molto tempo a venire, per rendere Bologna il centro di realtà artistiche così diverse e stimolanti.

- mr.potato

GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR

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Come un grande pranzo di Natale che ti riempie per colpa di tutti i manicaretti portati da ogni singolo parente così il concerto dei Godspeed You! Black Emperor mi lascia una sensazione strana, la consapevolezza di aver mangiato troppo e non essermi assaporato tutto al punto giusto. La colpa stavolta non è mia o della mia ingordigia, ma bensì della band di Montreal che sul palco dell’Estragon di Bologna esagera suonando per più di due ore e mezzo e costringendo molti (noi compresi) ad uscire dal locale prematuramente. Nelle prime due ore tutto è praticamente perfetto, un drone di fondo che dura per dieci minuti apre la prima traccia e uno per volta cominciano ad entrare i canadesi. Sono otto: tre chitarre, un contrabbasso, un basso, un violino e due batterie ed ognuno di loro fa un gran rumore coadiuvato da muri di amplificatori tutti microfonati; nonostante la loro musica non sia leggera e per niente easy-listening ascoltarli è un vero piacere e le poche tracce che suonano (quasi 20 minuti per ognuna) fanno esplodere il pubblico, ammaliato un po’ dalle immagini apocalittiche proiettate sullo sfondo e un po’ dalla sinergia che gli otto musicisti riescono a creare pur suonando a volumi molto alti. Spregiudicati con i cacciaviti sulle corde delle chitarre e delicati con gli archi e lo xilofono riescono a costruire lunghe suite degne della perfetta apocalisse biblica, alternando suoni dilatati e riflessivi a deflagrazioni ed esplosioni strumentali. Ogni rumore, ogni frastuono, ogni nota sembra trovare il giusto equilibrio all’interno di un flusso musicale che trascina corpo e mente e fa capire ai numerosissimi spettatori dell’Estragon a quale evento difficilmente ripetibile stanno assistendo. Quasi tre ore però risultano decisamente troppo pesanti anche per noi baldi giovani che decidiamo di alzare i tacchi prima della fine del concerto, storcendo il naso di fronte ad una performance perfetta dal punto di vista sonoro ma troppo lunga e stancante che finisce per non farci apprezzare a pieno la grandezza di ciò che abbiamo visto ed ascoltato.

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Emotional Soul Dubstep

JAMES BLAKE James Blake[Atlas, 2011]

Transcendent Dream-Pop

BRAIDS Native Speaker[Kanine Records, 2011]

DISCO DEL MESE

Siete su una sdraio pieghevole nel bel mezzo di un campo brullo e deserto. È insopportabilmente caldo, ma il mare è lontano e si può solo immaginare, forse intravedere da uno spiraglio di inconscio. Vi sentite indolenti e non avete la minima idea di come migliorare la situazione in cui vi trovate: peggio, sapete che non avreste comunque la voglia di impegnarvi per realizzarla. Tutto quello su cui vi riuscite a concentrare sono i ronzii degli insetti, le cui traiettorie cercate invano di seguire con lo sguardo. Siete completamente disorientati. Vi sembra di udire una voce femminile, dei rumori opprimenti e ripetitivi, ma forse è solo il torpore che vi sta assalendo lentamente. Altrettanto lentamente Lemonade si insinua nella mente quando si schiaccia il tasto Play del dispositivo che avete scelto per l’immersione nell’afa plasticosa di Native Speaker. Già, probabilmente è proprio l’immaginario generale il lato più armonioso di questo esordio in full-lenghth dei quattro canadesi Braids (di Calgary, Alberta). Un immaginario rigoglioso, a suo modo quasi unico, anche se qua e là ci sono rimandi a volte non troppo dissimulati ora a paesaggi da ambient-drone “oscura”, ora alla scuola degli Animal Collective, ora infine alla recente moda dell’hypnagogic pop. Ispirazioni molteplici e variegate che confluiscono, come per miracolo, in un risultato unitario: forse la sintesi dell’arte dei Braids sta tutta qui. Se poi riescono a creare veri e propri paesaggi onirici (e si ricordi ora più che mai che i sogni possono essere belli, ma anche brutti) come quello di Lemonade che sopra ho testardamente provato a descrivere (ricordiamo però che questa resta comunque il grande capolavoro del disco), il merito è da ascrivere al sapiente amalgama tra le soffici (ma neanche troppo) architetture sonore e alla fatata (ma neanche troppo) timbrica vocale di Raphaelle Standell-Preston. I canadesi giocano un gioco di indefinitezza, che mira furbescamente non tanto all’individuazione precisa di connotati stilistici e quindi di un immaginario univoco, quanto alla sapiente dispersione di elementi non troppo vistosi che permettano a chiunque di formarsi un’idea di cosa quella canzone significhi e di dove quella canzone sia in grado di portarci. Cospargono così i pezzi con frammenti di sogni bellissimi (e quindi ecco Lemonade, ecco Same Mum, ecco la parte finale di Lammicken) ma lasciano che gli stessi vengano pervasi sempre e comunque da un’inquietudine che si esprime soprattutto attraverso sia i toni più gravi e più alti della voce di Raphaelle, sia la sezione ritmica, spesso paludosa e impenetrabile. Nascono così inevitabilmente lunghi trip in apparenza schizofrenici, che trovano tuttavia una loro particolare coerenza dopo appena un paio di ascolti (Glass Deers e Native Speaker); nasce così Little Hand, vero e proprio limbo di emozioni, incomprensibile nel suo incedere cieco e tribale. Proprio come nella vita reale, nei sogni dei ragazzi di Montreal “tutto è in tutte le cose” e sta a ciascuno di noi e perchè no, alla propria fantasia, trovare la strada giusta (ma non ve n’è certo una sola) : è questo un pregio eccezionalmente prezioso per una band che, per quanto riguarda le sonorità, non si distacca eccessivamente dai canoni del dream pop, ormai fissati (anche se in continuo aggiornamento). Evviva la libertà dell’ascoltatore, evviva la limonata, evviva Native Speaker!

- samgah

22 anni. Tanto bastano a James Blake per diventare la “next big thing” del 2011: aspettativa alta creata dal settore (il semprepresente Pitchfork e la BBC) e un 2010 apripista giocato su EP usciti a a cadenza trimestrale dall’andatura qualitativamente esponenziale. Ed a inizio 2011, cavalcando l’onda, il tanto atteso disco: uscito per la neonata Atlas, etichetta dello stesso Blake sovvenzionata, sembra, da una non specificata major. Ed effettivamente tutto questo clamore intorno al ragazzo è giustificato, perché la qualità è tanta, così come la bravura. James, dopo aver sperimentato vari territori nei suoi EP, mette in primo piano la voce (non più filtrata, se non da un occasionale vocoder) e in secondo gli esercizi strumentali (il cut/paste e lo start/stop), ora al servizio dei vocalizzi. Punto di partenza il soul (Antony), la musica classica (fraseggi di piano, il suo strumento principale) e l’elettronica hyperdub (l’aritmia dei beat e le tastiere saturate): tutte contenute nella prima traccia Unluck. Essenziale, quadrata e centellinata. Wilhelms Scream, altro bellissimo pezzo, arriva dritto al cuore in caduta libera al ralenti. Una sola strofa di voce ripetuta per tutta la traccia, sempre più sofferta e ricca di anima. Tutto il disco è costruito con misuratissimi tocchi di piano e invisibili crescendo. Non c’è spazio per accelerazioni, ma regna il silenzio (trip hop, soprattutto Massive Attack) e lo scorrere del tempo (l’electronica chill out). La dubstep di Burial, meno nera e notturna ma ancor più minimale e intimista. Al centro, la splendida Limit to your love, cover di Feist (che non ha gradito) spolpata dal suo nucleo forma canzone: disciolta nell’oceano più profondo, James canta a 20000 leghe sotto i mari (il video rende benissimo l’idea). Bassi tellurici e meravigliosi giochi di rifrazione della luce, che scaldano le intonazioni di voce, rendono questo passaggio il più alto del disco. Esso prosegue con tracce diluite (non annacquate, sia chiaro) e avvolgenti (To care with you) fino alla conclusione: Measurements, invocazione gospel a cappella che ricorda l’attitudine del folksinger Bon Iver, solo imbottito di sonniferi. Una gran conclusione che culla i sensi polverizzandosi senza disturbare. Il disco finisce, non ce ne siamo accorti.

7/8- mr.potato

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RECENSIONISongwriting

IRON & WINE Kiss Each Other Clean[Warner/4AD, 2011]

Dopo l’ultimo Cover, Joan Wassel -in arte Joan As Police Woman- torna a parlare di sé, fedele a un linguaggio che sembra appartenerle da sempre. A dirla tutta

Singer-Soulwriter

JOAN AS POLICE WOMAN The Deep Field[Pias, 2011]

non è proprio così, anzi, in più di vent’anni, la parabola artistica della poliziotta non poteva assumere pieghe più diverse. Laureata in musica classica (verso la quale, però, non sentirà mai una vera e propria vocazione), Joan, alla ricerca di “un nuovo tipo di musica da suonare”, aveva iniziato il suo percorso con l’accettare ogni sorta di collaborazione che le veniva proposto, finendo col ritrovarsi a girare il mondo come tastierista e violinista rock nei Dambuilders. E lungo un cammino che la vedrà multistrumentista e collaboratrice, tra gli altri, di Nick Cave, Rufus Wainwright e Antony, non si sa con esattezza a che punto, deve essersi innamorata. Innamorata di un soul fiero e combattivo, seducente ed elegante, ma allo stesso tempo

inquieto nella sua fragilità.

Dello stesso soul che oggi ritroviamo in questo suo terzo album di inediti. Non aspettatevi un ascolto né facile né consolatorio: The Deep Field è l’album che consacra una cantautrice che quando si è trattato dei propri sentimenti non ha mai scelto la via del pop. Ce ne rendiamo conto ascoltando tracce come Run For Love o la seguente Human Condition, portate avanti da grooves accattivanti più che da vere melodie, o dalle chitarre che sferragliano grezze già in apertura con Nervous (capace anche di sbocciare, però, in un bellissimo ritornello). Ma quello che sorprende è la sensualità folgorante di una voce mai limpidissima, a tratti masticata, che ha il potere di stregare chi ascolta pezzi come Forever And A Year o I Was Everything, a conclusione di un album di un’intensità incredibile. “Beauty is the new punk rock” indeed.

7 -visjo

voce bambinesca che segue l’armonia giocherellona della base. Insomma:tra la sigla dei ghostbusters, una partita alla nintendo e dei componenti di Santana sbronzi. Seconda traccia: Miami Knights. Violinastri con charleston raddoppiato, synth arpeggiati e poi frizzi e lazzi elettronici un po’ per riempire il buco silenzioso del disco (la parte che probabilmente sarebbe stata la migliore). Terza traccia: Grooverider Free. Ritmo elettronico da Maracaibo e voce vocoder. E poi voletti trance con marimbe birichine. E poi si cambia, perché poca inventiva presente. Si accelera il ritmo e ci si schiantano due suonetti da lavatrice con distortions (meglio il wash’n’dry tradizionale) per sfogarsi in un finale alla Lost in space.Quarta traccia: Wardance. Tappeti in trentaduesimi con rullante in battere. Tra il punk e il Beverly Hills Cop “de’ no’antri”. Quinta traccia (e mi sto ropmendo di ascoltarlo): DeVry. Quel procedere alla We Will Rock You, però fatto dei Daft Punk muniti di timbales (e da questo benedetto vocoder). Sesta Traccia: Whoop. Eccoli tutti insieme: di nuovo Super Mario, di nuovo Beverly Hills Cop, con un po’ di Bee Gees, e una voce provolona svogliata alla Casablanca. Si vede che quella sera non sapevano che fare e si sono trovati tutti insieme a bere una roba. Settima traccia: LA Beat. Suoni da electro Jazz, funky, vocoder (e ridaglie), synth da Star

Electronic-Dance

MAHJONGG The Long Shadow Of the Paper Tiger[K Records, 2010]

Wars, e ritmo che ricorda Brigitte Bardot. Connubio tra tribale ed electro poco riuscito. Grossa produzione, molti mezzi, maestoso, colossal e pieno di collaborazioni. Ma forse, proprio per questo, un bel minestrone insipido. Proprio vero il titolo: un disco che si rivela tigre di carta...mah.

4 - gorot

Prima traccia: Gooble.Musichetta da videogiochi con super Mario marciante e linea vocale che alterna voce marpiona e suadente (poco riuscite) con

L’ultimo lavoro The Hazards Of Love aveva abbastanza deluso e dai tempi di Picaresque attendevamo pazienti che da Portland si facessero sentire.

Folk Rock

THE DECEMBERIST The King Is Dead[Paper Tiger, 2011]

Eccoli di nuovo tra noi, con tanto di citazione degli Smiths nel titolo. Spazio al folk americano che delude buona parte dei fan e non accontenta i restanti. Se era la semplicità che Colin Meloy stava cercando ha fatto proprio centro. Lui stesso ha definito il disco come un “esercizio di semplificazione”, fortemente voluto da tutti i componenti della band che hanno candidamente dichiarato di “aver voglia di canzoni normali”.Partiamo dalla fine: l’ultima traccia risalterà subito agli occhi di coloro che sono orfani rassegnati di Jeff Mangum e i suoi Neutral Milk Hotel. Dear Avery, oltre a essere una bella canzone, ironizza sugli inizi della band che, partita appunto come clone dei NMH, rivendica la sua autonomia musicale. La traccia migliore è sicuramente Down By The Water, convinta ed energica con una trascinante seconda voce femminile. January Hymn è una ballata chitarra e voce, tipica colonna sonora da teen drama. Meloy si salva per miracolo dal fallimento del momento “intimista” del disco, tutto merito della sua voce. La track di apertura Don’t Carry It All rappresenta bene l’intero lavoro, con il suo stile medio che non si eleva mai né scende sotto il livello guardia. La morte del re è stata dignitosa, niente di memorabile.

6-comyn

In barba alle musiche nuove, in barba alle musiche in cui si utilizzano mille strumenti, in barba a Rick Rubin, la musica dei Sic Alps è puro rock

Rock/Lo-Fi

SIC ALPS Napa Asylum[Drag City, 2011]

chitarrabassobatteria. Ed è proprio qui la grandezza dei Sic Alps che dopo tre album (di cui U.S.ez è il migliore) pubblicano il loro ultimo lavoro per un’etichetta storica come la Drag City. Quest’album di 22 tracce, che spesso non superano il minuto e mezzo, si snoda tra atmosfere elettro-acustiche, pesantemente rock, lisergiche, il

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Dopo quattro anni di silenzio, Sam Beam si reinventa cantautore etno-(country?-soul?)-folk. Legato da principio all’immagine di mesto folksinger ed evolutosi con The Sheperd’s Dog (2007) in quanto a raffinatezza e intensità della forma, questo Kiss Each Other Clean è figlio di un altro (mezzo) cambio di rotta. Innanzitutto la produzione si è fatta molto più curata: quasi maniacale nelle sovraincisioni, Sam confeziona infatti un lavoro adulto, disarmante nella pulizia dei suoni e delle intenzioni, e nel quale convivono umori imprevisti e più che mai imprevedibili. Il folk difatti passa in secondo piano, divenendo semplice trampolino di lancio verso una forma pop più compiuta e meno facilmente classificabile: un tipo di linguaggio tutto nuovo, che accoglie anche pulsazioni etniche e spunti jazz facendo leva sulla naturale predisposizione melodica di Beam.Diversi gli episodi gustosi: l’armoniosa Walking Far From Home, ad esempio, o la concitata Big Burned Hand, illuminata dal sax di Stuart Bogie; e ancora Rabbit Will Run, dall’incedere ipnotico e cantilenante, e Godless Brother in Love, tutta intarsi di arpeggi e contrappunti di piano.Kiss Each Other Clean non ha la pretesa di essere un capolavoro; viene piuttosto a confermare il fulgido talento di Iron & Wine e a ricordarci che sta arrivando primavera.

6/7- zorba

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tutto ricoperto da una patina lo-fi. I Sic Alps sono arrivati ad una fusione meravigliosa dei suoni dei Beatles e di quelli dei Velvet Underground, suonati da Syd Barrett in coppia con i Rolling Stones. Non cercano di andare avanti, ma restano lì, ancorati a quel mondo luccicante anni ‘60, tirano fuori perle su perle dalle loro conchiglie, per un disco che, senza annoiare, ci riporta anni indietro in un mondo squisitamente pop/psichedelico sotto una coltre di nubi e ci consegna uno dei migliori gruppi attuali, che senza grilli per la testa suona del sano rock. Un rock minimale, senza paillettes, che nella forma, solo in quella, ricorda gli esperimenti dei Royal Trux, ma la sostanza è tutt’altra cosa, un piatto molto gustoso. Ascoltare per credere.

7 - matmo

affettivo. Credo però che si possano fare delle valutazioni oggettive su questo disco così come sulla loro produzione tout court. WOW è il loro album più importante e maturo, ricco di momenti riusciti ma, a mio avviso, fuori fuoco nel suo complesso. Dimezzarne il numero di tracce avrebbe portato ad un risultato più lungimirante. Rispetto al passato emerge con prepotenza un’anima pop fino ad oggi solo episodica. Flaming Lips, Brian Wilson e Beatles sono le linee guida. Le melodie si son fatte più ricche, articolate, complesse; sono stati introdotti cori e scampoli d’elettronica (mai, però, in modo strutturale); il pianoforte sostituisce quasi totalmente la chitarra. La voce diventa a tutti gli effetti strumento tra gli strumenti, e come tale viene curata in ogni sfumatura. Il drumming (circondato da suoni spessi, sporchi) rimane centrale e diventa allo stesso tempo più solido e ricco. Il lavoro sul sound è il maggior punto di forza: ricercato, ampio, levigato e ricco di dettagli, omogeneo dalla prima all’ultima traccia ma di volta in volta impreziosito, con grande padronanza e aderenza, da tinte differenti. La voce si fa largo sotto gli strumenti. Nessuna concessione agli ascolti (e ascoltatori) distratti. In tutto ciò, la novità: il bagaglio di ascolti di Alberto Ferrari si è allargato, includendo il Lucio Battisti di Anima Latina. Attraverso questo “filtro” i Verdena ottengono il collante ideale per i vari elementi presi in prestito dai gruppi (mai italiani) cui da sempre fanno riferimento. Non solo: i testi arrivano ad avere pari dignità rispetto alla musica. La scoperta di Battisti ha dato ad Alberto Ferrari una naturalezza del tutto nuova nel rapporto con l’italiano cantato: solidi e tondi nella loro poetica, densi di passaggi notevoli e precisissimi, sono testi capaci di centrare pienamente l’obiettivo che si pongono. I Verdena puntano al confronto

Singer-Soulwriter

VERDENA WOW[Pias, 2011]

Sono un fan dei Verdena dalla prim’ora. Ho iniziato a scrivere spinto dai loro primi due dischi. Il mio giudizio è perciò viziato da un ingombrante fattore

non col peggio di casa nostra ma col meglio della scena internazionale. Non ne escono vincitori, ma almeno ci provano. Il risultato è un disco dispersivo ma ricco di momenti riusciti, con un suono notevole e ricercato; un disco personale ma non ancora originale. Un disco di respiro internazionale ma forse, per ora, importante solo per l’Italia; che si farà trovare, come sempre, addormentata.

7 - iosonouncane

Diciamola tutta, questo disco dei Wire non è granché. È anzi il loro peggior disco, o almeno mi pare. Tuttavia è bene parlarne, perché i Wire sono stati tra

Old New- Wave

WIRE Red Barked Tree[Pink Flag, 2011]

i più grandi innovatori del rock inglese e segnalarli è sempre salutare. Gonfi di pretese concettuali emulsionate nella Londra del ‘77, non sapevano suonare ma avevano idee chiarissime. In quel periodo pubblicano tre capolavori – Pink Flag, Chairs Missing e 154 – che inventavano nuovi confini tra punk e psichedelica: due chitarre, basso e batteria (ma anche palate di sintetizzatori) disegnavano aperture melodiche geniali, schegge pop sputate su serrate ritmiche industriali, rumorismi e trovate dadaiste. Poi si sciolgono e si riformano mille volte. Durante gli anni ’80 cercano di tradurre in lingua colta le peggio boiate di quel periodo: lo stile c’era e spesso anche le idee, ma i dischi risultano oggi assai datati. Nei primi anni del 2000 qualcuno li scopiazza e allora tornano operativi con due violentissimi EP intitolati Read & Burn, che tentavano una rilettura in chiave fantascientifica dei loro stessi primi vagiti. Tanti erano poi stati i dischi paralleli al progetto Wire, quelli nervosi e grotteschi del cantante Colin Newman (A-Z su tutti) così come quelli ariosi e oscuri del bassista Lewis e del chitarrista Gilbert. Cosa fanno i Wire del 2011? Messosi da parte il sessantaquattrenne Gilbert, il gruppo finisce qui per rievocare con scarso nerbo le reliquie di un passato glorioso. Certo fa tristezza sentirli in queste condizioni, dediti a replicare quanto fatto trenta (Now Was imita il punk nervoso dell’esordio, Please Take ha lo stesso giro della Blessed State di 154), venti (Adapt e Down to This, flanger e tastieroni come nei dischi anni ’80) e financo dieci anni fa (Moreover e Two Minutes). Se finora i loro ritorni hanno confermato la lungimiranza del progetto originale, oggi i Wire suonano stanchi e vecchi. Ad ascoltarli io non mi sento meglio: ripeschiamo i loro classici, sarà come una pera di botulino.

5- bobi raspati

Chi ha voglia di un po’ di sano wrrock? Se la risposta è io! io! vi presento il nuovo lavoro dei Motörhead. The wörld is yours (opera n. venti (!) in sala di registrazione)

Wrath’n’Roll

MOTÖRHEAD The Wörld Is Yours[Motörhead Music/EMI, 2011]

nasce dall’incrollabile passione di Lemmy Kilmister per il rock’n’roll, lo stesso che gli ha permesso in trentacinque anni di carriera di girare il mondo in lungo e in largo, e di farsi apprezzare -che dico- adorare da una sconfinata schiera di fan. Per Lemmy, evidentemente, sessantacinque anni sono ancora pochi per dire basta a tutto questo: nell’ultimo album c’è tutto l’entusiasmo, la rabbia, la frenesia di quell’Overkill che nel lontano 1979 dimostrò al mondo intero che era nato uno nuovo sound, quello bestiale e indomabile di marca Motörhead. Non cambia niente da allora, l’atmosfera si fa subito hard&heavy con Born To Lose, uno dei pezzi più coinvolgenti del disco, e il ritmo (altissimo) si mantiene costante fino alla fine, grazie a brani come Devils In My Hand e Rock’N’Roll Music, sostenuti dai battiti forsennati di Mikkey Dee e da un Philip Campbell scatenato alla chitarra. E’ vero che Mr. Kilmister non dice niente di nuovo, però lo dice piuttosto bene. Non lo punirò.

6 - visjo

Lo-Fi/Garage Pop

THE SMITH WESTERNS Dye It Blonde[Fat Possum, 2011]

Sono solo canzonette. Sì, è di questo che alla fine si compone l’album che mi appresto a recensire. Niente di particolarmente innovativo, gli Smith Westerns si caratterizzano per un sound da garage band influenzato dal brit-pop dei Nineties, con testi senza grandi pretese. Carino sì, ma decisamente insipido il loro secondo lavoro che ahimè non mostra assolutamente niente di sconvolgente (a parte la definizione garage-glam, che trovo terrificante). Qualche accenno alla psidechelia Beatlesiana rende comunque l’album piacevole all’ascolto e divertente. Unica traccia degna di nota Weekend, track iniziale e singolo di lancio ben studiato, altamente canticchiabile. Per il resto Dye It Blonde è un lavoro piuttosto anonimo, le dieci tracce sono orecchiabili ma assolutamente niente di più. Non riesco infatti a comprendere l’eccessiva considerazione che parte della critica attribuisce a questo disco. Sarà che con l’aiuto di artisti come gli MGMAT, i Florence and The Machine e i Belle & Sebastian (con cui la band emergente ha condiviso il palco), farsi un nome nella scena indipendente non è poi così difficile... chissà, le raccomandazioni raramente sono infruttuose.

4/5 - zuma

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Post-Rock, Spoken Word

GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR F# A# ∞[Kranky, 1997]

GANG OF FOUR Nati nel 1977 a Leeds e inizialmente composti dal cantante Jon King, il chitarrista Andy Gill, il bassista Dave Allen e il batterista Hugo Burnham, i Gang of Four rappresentano una delle esperienze più significative del post-punk britannico. La band è fortemente influenzata influenzato dal punk, dal funk e dub reggae e si dedica a temi incentrati sulle difficoltà della società moderna; i loro testi (spesso opera di Gill e King ) risentono in modo evidente della critica sociale neomarxista della Scuola di Francoforte. Dopo l’uscita dell’EP Damaged Goods, nel 1979 esce il primo album, Entertainment!, che probabilmente risulta essere il massimo lavoro della band. Seguono poi Solid Gold (1981), Songs Of The Free (1982) ed altri lavori non degni di nota. Ancora in attività, sebbene segnati dall’abbandono di Dave Allen, ultimamente hanno riacquistato popolarità con l’emergere di nuovi gruppi post-punk come The Rapture e Liars.

Post Punk

GANG OF FOUR Entertainment![EMI, 1979]

Pop

THE SMITHS The Queen Is Dead[Rough Trade, 1986]

ROVISTANDO IN SOFFITTA

Il basso più funky e dub della storia, la chitarra più balbettante e sghemba degli ultimi 30 anni, una batteria schizofrenica e arrembante e tutto contornato da testi che affrontano

Siamo incatenati nel ventre di questa orribile macchina mentre la macchina muore dissanguata.

Voce fuori campo, disincantata. Uno scenario da incubo,

tematiche importanti e mature con energia e divertimento; tutto questo è l’ “Intrattenimento” che la Ghenga dei 4 propone in 40 minuti di puro post-punk cazzuto e riflessivo, un disco che da 32 anni a questa parte ha influenzato generazioni di band e tracciato solchi profondi nella storia della musica. I quattro musicisti di Leeds confezionano un prodotto diverso dal punk, assorbendone l’energia e il passo travolgente e passando oltre la rabbia e la cattiveria grazie sopratutto all’ utilizzo del basso come strumento centrale e della batteria, non più una bomba pronta ad esplodere e lanciata all’impazzata ma una vera e propria macchina di ritmi a sè stante. La partenza con Ether è già straniante, l ‘argomento è quello dei privilegi concessi ai prigionieri dell’Irlanda del Nord nel 1972, le voci di Andy Gill e Dave Allen sembrano rispondersi nella singhiozzante musica piena di schitarrate e ritmi da marcia così senza neanche potersi riprendere parte Natural’s Not in It che ci parla della concezione marxista del lavoro alienante che distrugge l’uomo e già inizi a domandarti se non sia il caso di smettere di ballare e cominciare a pensare. Damaged Goods e I Found That Essence Rare parlano finalmente di sesso, politica e media mentre la triste ma veritiera descrizione dell’amore viene argomentata in Contract ( “This is really the way it is, a contract in our mutual interest”) e Anthrax. Tutto incredibilmente travolgente, appassionante tanto che ti viene da pensare come mai la chitarra in codice morse dei Go4 non abbia fatto il giro del mondo insieme ad altri grandi gruppi del momento e poi ti ricordi che il secco no rivolto da Gill e compagni alla televisione inglese (gli chiedeva di cambiare un testo offensivo) bloccò le loro carriere ancor prima di decollare; sovversivi , realisti, innovatori c’ è chi li propone come primi inventori dell’indie rock e chi li omaggia a capostipiti del dopo punk e chi invece quando sente le loro canzoni nelle pubblicità televisive (Microsoft Kinect) si rende veramente conto di quanto siano ancora attuali.

Tutto il mondo degli Smiths racchiuso in dieci indimenticabili tracce. Uscito nell 1986, The Queen Is Dead è il ritratto di una società in evoluzione sia dal punto di vista politico (grazie all’affrontamento del tema della dissacrazione delle istituzioni), sia dal punto di vista delle relazioni interpersonali. La voce dimessa di Morrissey guida l’ascoltatore all’interno dello scenario di decadenza dell’Inghilterra nel periodo della Thatcher narrando con ironia storie sempre attuali. Si apre con la title track che, nonostante la raffinatezza vocale di Morrissey, esprime un attacco feroce al principe inglese: “Charles, don’t you ever crave to appear in the front of the Daily Mail dressed in your mother’s bridal veil?”. Frankly, Mr Shankly è invece uno spaccato di quotidianità dal ritmo incalzante, seguita da I Know It’s Over, una delle tracce più belle dell’album per la struggente accoppiata Marr-Morrissey e il testo appassionato e coinvolgente: meravigliosa. Ma come non soffermarsi sulle danzanti oscillazioni vocali del cantante che emergono dalla dolce melodia di The Boy With The Thorn On His Side? Non è proprio possibile. Nella successiva Vicar In A Tutu è la Chiesa che viene presa di mira dal gruppo in un vivace folkabilly che non difetta comunque del tocco smithsiano. Ma la geniale contrapposizione tra testo e melodia trova la sua più alta espressione in There’s A Light That Never Goes Out, una geniale ballata nella quale Morrissey ci spiega quanto sarebbe bello morire spiaccicati sotto un autobus a due piani, con al fianco

fatto di droga e di corruzione, di macchine infuocate e di suicidi solitari. Una pausa e il monologo si interrompe mentre, lentamente, un drammatico arpeggio di chitarra si adagia su un violino. Solenne e magnetica, davanti a noi comincia a sfilare una schiera di fantasmi. Poi di nuovo la voce, elegia terribile, a declamare morte e distruzione.Inutile classificare una musica che non ammette classificazioni. Meglio provare ad afferrare la parte concettuale (perchè di concept-album si può e si deve parlare) di un’opera che pone l’accento sull’esperienza dell’umano esistere, tra rimpianto e desiderio, paura e speranza. Questo F#A#∞ è, alla luce della visione drammatica del mondo tipicamente GYBE, una riflessione amara sulla morte e sullo scorrere del tempo, un grande flusso di coscienza fatto di silenzi maestosi, di tensione epica e di struggente malinconia, ma anche di fulminee cariche emotive e di cavalcate furiose. È l’affresco sbiadito di una valle di lacrime, che risuona di grida e di lamenti lontani, di risate raccapriccianti e di promesse mai mantenute.

Le dissi: “Baciami, sei bellissima..questi sono veramente i nostri ultimi giorni.”

Il sole è tramontatoe i cartelloni pubblicitari ci guardano sogghignando.Le bandiere sono tutte morte in cima alle loro aste.

-zorba

GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR I GY!BE (inizialmente GYBE!), sono una band canadese, originaria di Montreal, nata nel 1994 e comunemente etichetta come post-rock; il nome deriva da God Speed You! Black Emperor (ゴッド・スピード・ユー! BLACK EMPEROR), un documentario giapponese in bianco e nero del 1976 diretto da Mitsuo Yanagimachi che tratta la vita di una biker gang Giapponese, i Black Emperors. Il nucleo originario era costituito da Efrim Menuck, Mike Moya e Mauro Pezzente ; in seguito la line-up è stata oggetto di frequenti cambiamenti e lo stesso Moya ha abbandonato nel 1998 per formare gli Hrsta. Dal 1997 circa, dopo avere raggiunto il considerevole numero di quindici, i componenti sono di solito nove.Nel 1994 esce il primo lavoro della band (o meglio di Menuck), All Lights Fucked on the Hairy Amp Drooling, solo su audiocassetta e limitato a 33 copie; il vero e proprio album di debutto è f#a#∞ Infinity uscito quattro anni più tardi. Segue l’EP Slow Riot For New Zero Kanada (1999) e gli album Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven (2000), il capolavoro della band di Montreal, e Yanqui U.X.O. (2002).

la persona che si ama. Conclude il disco Some Girls Are Bigger Then Others, caratterizzata da interessanti sali e scendi di volume e un testo particolarmente enigmatico (sono ironica, ovviamente). Un album che diverte ed emoziona dunque, uno di quei dischi che non vorresti finisse mai. In conclusione: Morrissey, “Take me out tonight, take me anywhere I don’t care, I don’t care, I don’t care...”!

-zuma

“Entertainment! Shredded everything that came before it”, Michael Stipe (R.E.M).

-w-

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ESTETICA DEL SUSSURATO DEEP INSIDEIl 2010 è stato l’anno dell’uscita di Plays Wagner ad opera di Indignant Senility per la benemerita etichetta Type. Sotto lo pseudonimo di Indignat Senility si cela Pat Maherr. La Type ha deciso di pubblicare quest’opera che precentemente era uscita solo per l’etichetta personale di Pat. In quest’opera (è una ripetizione, ma definirlo disco è riduttivo), Pat prende parti di musica di Richard Wagner e le manipola, le ha prese, distorte, stirate per arrivare ad un suono indescrivibile, oscuro, meraviglioso, etereo. Questo disco, immensamente metafisico, non dà punti di riferimento, è come ascoltare dei vecchi grammofoni da dentro l’oceano. Il suono di Plays Wagner riporta ad un’estetica che ha (avuto?) il suo apice con etichette come la Ghost Box, Mille Plateaux e la Trente Oiseaux, ovvero etichette che amano i silenzi, il concettuale, la musica non-solo-musica. Traevano origine dall’horror, ma non la paura tangibile, ma la parte astratta, quella che resta dentro e non ci se ne libera, quella che ci fa fare brutti sogni, dal surrealismo e dalla parte più oscura e più singolare della psichedelia. Queste etichette pubblicavano a tutto tondo, non solo cd quindi, ma anche immagini e film, tutte legate dallo stesso filo rosso. Il primo paragone che puo’ venire in mente parlando di Indignant Senility, è quello con la musica di Bernard Gunter e, in particolare, con il suo Un Peu De Neige Salie, una ridefinizione del silenzio come lo si era inteso con John Cage, non più dimostrazione di irrealtà, ma uno spazio immenso, bianco, dove perdersi. Potremmo dire che questa musica è un proseguìo dell’elettroacustica e della musique concrète, però non più acustica, ma “suonata” con campionatori e attrezzi elettronici. Ma di cosa parliamo fondamentalmente? Quali sono i “suoni” di questa musica? La risposta è semplice, tutto ciò che nella nostra educazione è stato etichettato come rumore. Ad iniziare questo filone, se vogliamo, è stato Pierre Schaffaer che circa 60 anni fa registrò il rumore di un treno e fece nascere la musica concreta. E i prosecutori di questa musica oltre ai rumori, campionano molto altro, echi, silenzi e pezzi di altri dischi (Indignant Senility appunto). Bisogna soffrire per poter ascoltare, dobbiamo impegnarci, è una musica isolazionista, incapace di reagire a ciò che accade nel mondo e che quindi si chiude in se stessa. Pat ricorda Leyland Kirby e William Basinski, Bernard Gunter e Eric Zann però aggiungendo particolarità, riuscendo ad andare avanti pescando dal passato. Raramente vi emozionerete come ascoltando questo disco.

- matmoDiscografia selezionata: Bernard Gunter - Un Peu De Neige Salie (Selektion 1993), Francisco Lopez - Belle Confusion (Trente Oiseaux 1998)Eric Zann - Ourobrinda (Ghost Box 2005), Indignant Senility - Plays Wagner (Type 2010)

C’erano un tempo quei personaggi che, per caso o per (de)meriti particolari, finivano per assurgere a icone popolari di un determinato genere musicale, più o meno specifico - dico c’erano perchè evidentemente ora non è più così: persone diverse quasi sempre finiranno per indicare guru diversi anche all’interno dello stesso sotto-genere -: in questo modo (per fare solo qualche esempio) Sid Vicious è diventato il simbolo del punk, quantomeno per le grandi masse, e Michael Jackson è salito al trono di “re del pop”. Forse, però, nessun genere musicale quanto il reggae si è fossilizzato sulla personalità e sull’iconizzazione del suo protagonista principale, quel Robert Marley che ha portato la cultura e le credenze rastafari alla conoscenza dei più. Questo tutto sommato è un peccato perchè, sebbene la grande epopea di Marley abbia rappresentato un momento epocale (e anche uno dei più preziosi) nella storia del genere, in questo modo sono andate decisamente perse di vista, e rimaste appannaggio di pochi, pochissimi appassionati, tutte le altre tendenze e

IJAHMAN LEVIe il Roots Reggae

contaminazioni a cui il reggae si stava aprendo nel periodo della sua massima gloria. Raggruppati sotto l’accogliente famiglia del roots reggae - vale a dire la parte che metteva il reggae in relazione con la religione rastafari, distinta dalla sponda più danzereccia e “disimpegnata” (pop reggae) – convivevano negli anni ‘70 diverse inclinazioni: per citarne alcuni tra i più famosi, oltre al sopracitato Marley - che tutto sommato proponeva un reggae sì basato sulla ripetizione a mo’ di mantra, ma melodico fino allo spasimo e ingentilito dalla sua vocalità trasognata – fiorivano in quel periodo la musicalità estrosa e dirompente con accenti dub di Burning Spear aka Winston Rodney (Marcus Garvey, 1975) e la mistica dal battito incessante di Ijahman Levi. Concentrandoci su quest’ultimo (nato Trevor Sutherland) possiamo poi ben vedere come incarnasse una concezione del reggae centrata quasi esclusivamente su tematiche religiose e di purificazione. Dopo aver esordito con alcuni oscuri singoli R&B sul finire dei ‘60, nel 1972 Trevor si converte al movimento Rastafari e, con il suo nuovo pseudonimo, avvia al tempo stesso una nuova vita e una nuova carriera musicale, scevra da qualsiasi facile concessione al marketing. Come si può intuire, quest’ultimo aspetto, specie dopo la consacrazione e la morte di Marley, lo porterà alla fondazione di una casa di produzione propria, i cui lavori tuttavia non raggiungeranno mai a livello di qualità e fama i primi due album che Ijahman registra per la Island nel ‘78 (Haile I Hymn) e nel ‘79 (Are We A Warrior). Il primo specialmente è un vero gioiello del roots reggae, imperniato sulle tematiche classiche di sottomissione e di timore verso Jah (il Dio, assimilabile a quello cristiano, dei rastafariani). Jah Heavy Load, il pezzo di apertura nonché primo capolavoro, è un inno di un fedele felice pur nel dolore di dover portare il “pesante carico” di Jah. Le sonorità si apprezzano fin da subito, essendo quelle tipiche del reggae più classico e di qualità; più originale è però la vocalità di Ijahman, che spesso (finzione scenica?) sembra letteralmente distendersi in un’assoluta concessione a Jah, una stasi mistica che sospende i pezzi in una dimensione extramusicale. Dopo Jah Is No Secret, lamento speranzoso di un profeta nel deserto (con un ritornello indimenticabile), c’è la lunghissima dissertazione biblica di Zion Hut, ricolma di parti declamate. citazioni e precetti religiosi. Quest’ultima è anche uno dei momenti più interessanti musicalmente: si basa su pattern ritmici-melodici finalmente meno ossessivi, così da dare più spazio ai singoli musicisti. Si compone inoltre di una serie di pause e riprese che forniscono finalmente una visione più rilassata della religione e permettono la costruzione, nei dodici minuti di durata, di una vera e propria sebbene disordinatissima enciclopedia del rastafarianesimo. Ijahman sceglie poi di congedarsi – in modo significativo – con I’m a Levi, stupenda ballata vicina più delle altre canzoni allo stile di Bob Marley. Si congeda con una dichiarazione di identità spirituale che però, dal momento in cui si trova espressa per mezzo di queste soluzioni musicali, diventa anche identità culturale, sociale e musicale, e ci ricorda che il reggae non sta tutto in No Woman No Cry e in allucinazioni da cannabis (che pure ci sono, chi lo vuol negare?).

- samgah8

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C’eravamo lasciati, la scorsa puntata, parlando delle esperienze di David Grubbs in Bastro e Bitch Magnet, sottolineando la poliedricità dell’artista e delle sue visioni del fine-hardcore. Ripartiamo da lui e dalla sua esperienza più importante i Gastr De Sol. Il collettivo formato da Grubbs e da musicisti diversi ogni album (collaboratore più importante Jim O’Rourke) non crea nulla di nuovo, bensì mischia con grande sapienza il folk, il primitive-guitar di John Fahey, il canterbury di Wyatt con piccole punte di progressive. La loro musica si snoda tra pezzi più robusti e pezzi che sfiorano la musica colta, la musica seriale. Questo strambo incrocio si nota già nel loro primo mini The Serpentine Similar (1993) dova oltre a Grubbs troviamo John McEntire e Bundy Brown (futuri Tortoise), disco su cui incombe lo stile chitarristico faheyano, venato di blues e progressive tra bozzetti acustici e pezzi più evocativi. Ma il vero capolavoro della band è senza dubbio Upgrade & Afterlife (1996), preceduto da due mini che facevano pensare al capolavoro imminente prodotti da Sua Maestà Steve Albini, dove si unisce alla banda Jim O’Rourke. Il disco esplora le atmosfera più diverse, dall’affresco per sola chitarra di Dry Bones In The Valley alla follia sonica di Hello Spiral, pezzo esemplare di una parte di quel post-rock che sarà, quello che alterna piano e forti senza soluzioni di continuità, fino arrivare al muro di suono finale, dove va a fare una passeggiata la perizia strumentale e resta solo un melange avulso di coltre rumoristica. Nel 1998 arriva la separazione tra Grubbs e O’Rourke con epitaffio consegnato a Camoufleur, disco bellissimo, dove le divergenze dei due musicisti non esistono e il suono è formato da leggerissimi acquerelli pseudo-pop. Si chiude così la stagione dei Gastr, del gruppo divenuto (ovviamente dopo il loro scioglimento) pietra angolare del post-rock.Ma Jim O’Rourke non smette affatto di sperimentare anzi, lo fa con il suo progetto solista, dove le coordinate restano le medesime, ma c’è in più una concettualità che mancava nei Gastr e trova compimento in Bad Timing ed in Eureka oltre nelle sue collaborazioni più interessanti, prima su tutte quella con il chitarrista sperimentale Alan Licht oltre che con John Zorn, Red Krayola e ultimamente Sonic Youth.Passiamo ora (purtroppo lo spazio è quel che è) a Chicago, dove è nato e vissuto uno dei gruppi simbolo del post-rock, che ha riscosso (un seppur minimo) successo commerciale, i Tortoise. Qui le coordinate si spostano leggermente, troviamo sulle ordinate il kraut-rock e il jazz e sulle ascisse invece il dub e il minimalismo. L’esordio fu fulminante con il disco omonimo (1994) il disco d’ordinanza per chi voglia avvicinarsi al post-rock, dove sono riassunti tutti gli stilemi, l’elettronica bassa fedeltà, le cavalcate ritmiche, il dub e il jazz. Esemplare in un pezzo come Spiderwebbed. Ma è nel 1996 che i Tortoise raggiungono l’immortalità con il loro capolavoro Millions Now Living Will Never Die. Già l’iniziale Djed è un devastante incontro nella Wind City tra Ayler e i Neu! che si mettono a suonare in metropolitana, una lunga suite composta da movimenti che hanno una loro unità ma suonano meravigliosamente insieme, uno dopo l’altro tra parti più ritmiche a intrecci chitarristici con linee di basso sempre in assetto d’assalto. Precisamente un anno dopo arriva TNT, forse il più famoso disco dei Tortoise, che sembra adagiarsi sugli allori, non aggiungere niente, ma è talmente compiuto che non è facile farne a meno.Esperienza bruciante (soprattutto per la durata, un solo disco) quella dei Rodan, che crearon un ponte tra Louisville e Chicago. Nel loro unico disco Rusty si mescolano psichedelia, math rock che verrà, furia hardcore à-la Big Black e suadenti melodie. Già nelle prime traccie di questo disco si percepisce una dialettica, tra la calma della prima canzone la furia della seconda ed è con la terza traccia, l’immensa The Everyday World Of Bodies che le due anime si unisco (aveva ragione Parmenide, gli opposti si attraggono!).Il gruppo si scioglie e, come accade in questo movimento sonoro, la divisione crea nuovi paradisi, in particolare i Rachel’s dove troviamo tre quarti dei Rodan (tra cui Mueller) e i June of 44 (ancora Mueller). I primi cercano di approfondire il discorso iniziato dai Rodan con la loro Bible Silver Black (prima traccia di Rusty), tinteggiando paesaggi che fondono la musica rock con la musica classica, creando un combo di musica rock da camera. Il loro stile è esemplare in The Sea and The Bells (1996), un gioiellino, costruito con immensa perizia che si muove tra movimentate pièce classiche a trame fortemente acustiche, Satie suonato al piano da un chitarrista hardcore. I June Of 44 approfondiscono invece la parte più violenta ed iconoclasta dei Rodan e lo fanno con un mini che è uno degli apici del post-rock, Anatomy of Sharks, diviso in tre pezzi dove si condensa tutto ciò che è stato detto con un indolo innovativa. Si passa così dai continui sbalzi di umore di Sharks And Sailor, exempla del suono della band di chicago, accompagnato da un riff perfetto di chitarra, a Boom, dove a farla da padrone sono le percussioni che ci conducono in un mondo esotico, affrescato da una tromba che crea quanto di più emotivo sia stato fatto dai nostri. Prima di questo mini, da segnalare Engines Takes To The Water, un continuo sali/scendi e psichedelia e il successivo Four Great Points dove la band si avvicina più alla forma canzon, ma lo fa sempre con il suo stile inconfondibile.

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VIAGGI EXTRASONORI

Michael Haneke, classe 42, austriaco. Da quando si e’ mes-so dietro una macchina da presa, sta portando avanti il suo messaggio. Un film, un festival, un premio dopo l’al-tro. A vederlo, pacato e sorridente, non si direbbe di avere di fronte la persona che, a conti fatti, ha girato le pellicole dai contenuti e dai mezzi cinematografici di analisi e cri-tica sociale tra i piu’ potenti e significativi del cinema mo-derno. Perche’ insomma, sono trenta anni che H. dice che la so-cieta’ e’ violenta. Che noi (quindi i nostri padri e i nostri figli) siamo violenti. Che NOI, quelli che stanno a sgra-nocchiare popcorn o a bere una tazza di te’ coi biscotti davanti allo schermo (anche se i primi sono decisamente i piu’ bersagliati) siamo violenti e apatici e abulici e pieni di pregiudizi e ricchi e infelici e incapaci di comunicarlo. E anche scemi. Il suo lavoro con piu’ buone azioni in assoluto e in un cer-to modo il messaggio piu’ positivo e’ Le Temps du Loup (2003): ambientazione post apocalittica. Acqua contami-nata, bestie d’allevamento bruciate a migliaia e anarchia totale. H. ha girato The Road prima di The Road e al con-fronto degli altri suoi lavori sembra Dickens.

I primi tre film fanno parte di una trilogia tematica. Tre pellicole per un messaggio trasparente e duro come il diamante. “Der siebente Konti-nent (1989) ritraeva la vita normale di una famiglia normale, che per 60 minuti veniva mostrata lavarsi i denti, recarsi a lavoro e cenare assieme la sera. Ogni tanto si litiga, ogni tanto ci si vuole bene (entrambe le cose per molto poco e con molta poca convinzione. Comunicazione, ve-dete?) Per poi autodistruggersi nel piu’ totale e metodico dei modi: comunicazioni staccate, risparmi di una vita ritirati e buttati letteralmente nella tazza del cesso (H. racconta di come agli screening sia stata questa la scena che ha disgustato di piu’, con tanto di gente uscita dalla sala sbattendo la porta. Non sono riuscito a scoprire se abbia mentito). Infine, overdose di barbiturici. Stessa cosa in Benny’s video (1992): qua a distruggere il nucleo familiare e’ il giovanissimo figlio omicida, che condanna la famiglia alla com-plicita’ dopo essere stato “condannato” dal loro pacato disinteresse ad una vita davanti agli schermi televisivi; il primo dei suoi film a mostrare un lato dell’infanzia oscuro, pericoloso e irraggiungibile. E’ pero’ con 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls (1994) che H. trasforma stilemi registici che si limitavano a caratterizzare i due film precedenti in (pre)potenti mezzi rappresentativi intesi a far arrivare il messaggio ancora piu’ a fondo. Una frammentazione narrativa che rac-conta gli avvenimenti immediatamente precedenti e successivi ad una carneficina “per caso”. Conversazioni monodirezionali tra un vecchio ingrigito dal quotidiano ad una cornetta telefonica; lunghi silenzi a dividere il breve periodo che separa i piatti lavati dalle luci spente di un marito e una moglie che condividono ormai solo il letto. O 4 interminabili minuti di rimbalzi di palle da ping pong, tamburellate contro il nulla da un giocatore frustrato. E’ H. stesso a dirlo: “All’inizio vedo un ragazzo giocare. Presto dico ok, ho capito, andiamo avanti. Poi mi stupisco, poi mi infurio, poi mi stanco. Poi dico vediamo dove va a parare. Ad un certo punto osservo.” Osservare. Per uno che ha la comunicazione cosi’ a cuore, H. non sembra farsi scrupolo nel dirci senza mezzi termini che sia il con-tenuto sia il significato del film ce li dobbiamo sudare. La scena finale di Cache (2005), una inquadratura fissa dell’uscita di una scuola pubblica e gli studenti che vi sostano davanti potrebbe (o meno) contenere la soluzione all’intero film. Forse basterebbe osservare per capire cosa e’ davvero successo, esattamente come avrebbero dovuto fare i protagonisti della storia. ome l’intera comunita’ del villaggio di Das Weisse Band (2009), il suo film piu’ recente e pubblicizzato. Qui invece lettere anonime velatamente minacciose accadono piccoli incidenti dai risvolti drammatici e pestaggi ai danni di handicappati. E, ancora, bam-bini bianchi solo nei nastri intrecciati nei loro capelli che cantano in chiese vuote di significato. Abbiamo capito cosa pensi H. della societa’. Difficile fare altrimenti, dato che ci fracassa la testa da tre decadi. La realta’ e’ che il tizio avrebbe anche rotto le scatole se non fosse uno dei registi piu’ brillanti del mondo. E non si parla solo di fotografia impeccabile e performance di rara intensita’ (presenti entrambi a pacchi). Quello che separa i contenuti di H. da quelli di qualsiasi altro post nichilista dell’ultimora e’ il metodo con il quale vengono offerti allo spettato-re. O, piu’ spesso, sbattuti in faccia. Ed e’ in questo modo che la violenza dei temi affrontati si aggiunge alla violenza registica. Probabilmente il suo lavoro più famoso, Funny Games (1997) glissa la critica sociale sullo schermo in favore di quella mostrata palesemente, nel comportamento dello spettatore. Uno slasher movie nel quale la violenza (estrema ed estremamente realistica, come in tutti i suoi film) accade fuori dallo schermo, che ci sottopone solo a tutto quello che ne consegue: le reazioni dei personaggi del film (che comprensibilmente scoppiano a piangere disperati per interminabili minuti) e le nostre reazioni, noi che vediamo il film. Ed e’ per questo che quando la protago-nista riesce ad approfittarsi di un momento di distrazione dei suoi aguzzini e a sparare in pieno petto ad uno di essi, quando dalla platea si solleva il (silenzioso o meno) moto di sollievo o di esultazione, e lo psicopatico Paul reagisce trovando un telecomando e riavvolgendo il film ci sentiamo cosi’ violati. H. non si limita a torturare i suoi personaggi e a farci sentire male per e attraverso di loro. Ci fa violenza personalmente, facendo leva sul nostro credere che certe cose siano dovute, siano giuste. E mentre siamo vulnerabili e contriti per immagini agghiaccianti e verosimili (agghiaccianti perche’ verosimili), ci da pure di fessi. Tant’e’ che si e’ sforzato di fare un remake scena per scena con produzione e di-stribuzione americana (2007) per riuscire a dare di fesso anche a quel pubblico al quale piu’ di ogni altro aveva pensato ma che probabilmente non aveva visto l’originale. E’ brutto, ma nel constatare che le nostre reazioni si presentano esattamente con l’intensita’ e il tempismo calcolato da questo straordinario re-gista, non si puo’ non ammettere che ci e’ riuscito.

- ethan hunt

HANEKEuna spirale di lucido caos

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Non sareste perplessi se il vostro libro preferito fosse lasciato in balia del regista di CSI ?In virtù di questa mia smodata ossessione letteraria per il personaggio di Richelieu Mordecai mi sento in dovere di farvi partecipi della verità. L’unico e solo Barney Panofsky disprezzerebbe il Barney all’acqua di rose che Paul Giamatti ha portato nelle sale in queste settimane. Se lo incontrasse dopo aver bevuto un paio di bicchieri di troppo, non esiterebbe ad alzare la voce e potrebbero persino volare un paio di pugni. Il romanzo, cult in Italia con oltre 300mila copie, è stato più recensito che letto. La sua grandezza sta nella capacità di convincere il lettore che,

L’AVVERSIONE DI BARNEY

da un momento all’altro, Barney comparirà sul suo divano, circondato dalla sua nuvola di fumo del Montecristo, mentre inveisce in yiddish contro l’arcinemico McIver. Il nostro eroe non è certo privo di difetti: bugiardo, insensibile e perennemente attaccato alla bottiglia. Si rivolge a noi ormai 70enne, abbandonato dalla moglie, malato di Alzheimer e accusato dell’omicidio del suo migliore amico. Per lui scagionarsi dall’assassinio di Boogie e difendersi dalle calunnie avanzate contro di lui da Terry McIver nel suo romanzo “Il tempo, le febbri” non è che lo spunto per ripercorrere la sua travagliata esistenza, rincorrendo una memoria in disfacimento. La giovinezza tra gli intellettuali nella Parigi anni cinquanta (il film ha scelto Roma per ragioni di produzione) termina con il suicidio di Clara (Rachelle Lefevre) folle pittrice bohemienne e prima moglie di Barney. Tornato in Canada tenta di mettere la testa a posto con una ragazza ebrea di buona famiglia, designata per tutto il libro con il poco lusinghiero epiteto di “seconda signora Panofsky”. Proprio il giorno del suo matrimonio con lei incontra Miriam (Rosamund Pike, favolosa), l’unico amore della sua vita, da cui avrà tre figli (due secondo il regista Richard J. Lewis). La regola universale raccomanda di non mettere mai a confronto un romanzo con la sua versione cinematografica ma per Mr Panofsky vale la pena fare un’eccezione. La versione è una storia d’amore, il film ha colto in pieno questa sfumatura, lasciando però che prendesse il sopravvento. La pecca del Barney cinematografico non è quindi di essere sdolcinato, come molti hanno detto, ma di essere falsato in quanto privo di tutte le altre caratteristiche. La vera rivelazione sta nel fatto che Dustin Hoffman è Izzy Panofsky, padre del protagonista. Lo è senza curarsi del fatto che il personaggio possa non piacere, manesco e sboccato così come è uscito dalla penna di Mordecai.Se questo film vincesse l’Oscar, uscirebbe una nuova edizione con quelle fascette che nelle librerie hanno tanto successo e non sarebbe affatto una brutta notizia.

- comyn

E’ un po’ triste continuare a sentir parlare di un Clint ormai ottantenne e che si ritrova per forza di cose a fare i conti con la morte, ma in effetti, stavolta, anche il titolo è fuorviante: Hereafter significa letteralmente “aldilà”, e tutti si aspetterebbero (ed hanno continuato a crederlo, anche dopo la visione) un film che affidi un ruolo assolutamente centrale a “ciò che verrà dopo”. Non è così, Clint si ritrova ancora una volta a fare quello in cui riesce meglio e che non ha mai smesso di fare (nemmeno negli ultimi dieci anni): raccontare i rapporti umani. Questa è la storia di tre situazioni tutte al-di-qua, di tre persone vere e, questo sì, di come l’esperienza della morte abbia inciso profondamente in ognuna di esse. Non un film che si fa troppe domande

HERE,not AFTER

su cosa ci aspetterà dopo la morte, ma su come rialzarsi e andare avanti quando la morte in qualche modo ci colpisce. Clint se lo chiede rimanendo fedele a quell’umanesimo che ultimamente lo ha avvicinato sempre di più alle vicende degli uomini, ai sentimenti delle persone. Allora, agli straight fans che dopo Hereafter lo hanno bollato come mieloso sentimentalista (e spero che non siano quei maschietti che poi si trasformano in zerbini piagnucoloni col solo scopo di farsi la tipa di turno) rivolgo queste domande: se questo è un film troppo sentimentale, cosa ne pensate dei Ponti di Madison County (capolavoro)? e cosa ne pensate della disperazione di Sean Penn in Mystic River (capolavoro)? forse un po’ esagerata? per non parlare dei lacrimoni in Million Dollar Baby (capolavoro)… decisamente troppi. Non sia mai che ci commuoviamo (no, neanche di fronte a scene come quella dell’incidente), non abbia a farci perdere credibilità. In ogni caso, con questo, non voglio dire -come tanti altri hanno fatto- che il film che ho appena visto sia una pietra miliare del cinema eastwoodiano e che in questo film tutto funzioni alla perfezione. No, perché, forse, la fiera del libro sa un po’ di trovatina da ultima spiaggia, e, forse, perché non c’era davvero bisogno di scomodare lo tsunami asiatico, gli attentati alla metropolitana di Londra, un investimento stradale ai danni di un bambino, una ragazzina violentata dal padre, un’encefalomielite quasi mortale (che però riesce a donare poteri da sensitivo) per far tornare tutto. Per non parlare di tutti i personaggi di contorno che a loro volta avrebbero potuto sviluppare tematiche rimaste, invece, un po’ abbandonate a se stesse (si pensi alla madre dei fratellini, nel suo ruolo di accudita e non di accuditrice, o alla ragazza del corso serale, che scompare in quattro e quattr’otto dopo il riaffiorare del suo scomodo passato). Troppa carne al fuoco? Forse si, e a cuocerla tutta sembra che non basti la trovata del Guardacaso. Può darsi che la delusione nei confronti di Hereafter stia qui, nel fatto di non aver ritrovato l’essenzialità straordinaria che aveva mosso i precedenti lavori, di trovarci davanti a un film decisamente più “sofisticato” di quel Gran Torino che seppe catturarci tutti senza ricorrere a troppi maquillages. Ma non facciamone un dramma, tanto col prossimo Clint torna in alto.

-visjo

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Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Andrea Lulli, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Jacopo Incani, AlessandroRuocco, Lorenzo Maffucci.Grafica, impaginazione e web a cura di Francesco Gori.Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel febbraio 2011.Per informazioni, critiche e consigli: [email protected]

l’eleganza del fanciullo IL GIGANTE E IL BAMBINO, DAVIDE E GOLIA,

ovvero di Nietzche contro Wagner

Friedrich Nietzsche

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Round iOpinione piuttosto diffusa che Nietzsche non fosse riuscito a trasformarsi fanciullo nel corso della sua vita. Alla fine dello Zarathustra si trova la conclusione della trasformazione in leone. Gli stadi della trasformazione dell’uomo (una corda in tirare tra scimmia e superuomo) vengono sentiti come tre: lo stadio del cammello in cui l’uomo dice “sì” e accetta tutto ciò che gli capita, il “sì del debole”. Il sì del cammello che deve portare il fardello sulle proprie spalle, o gobbe; lo stadio del leone in cui si dice “no”, si rifiuta ciò che accade. Generalmente visto come nichilismo attivo (celebre definizione di Mario Ruggenini), contrapposto a quello passivo del cammello, e la volontà di fare tabula rasa di tutto ciò che entra nel panorama nichilistico europeo. In questo panorama si ritrovano morale, scienza, religione e storia. Ecco, Nietzsche prende tutte queste cose e ci fa un bel frego sopra rifiutandoli; lo stadio del fanciullo che danza sul mondo che torna (se mai ci fosse già andato) verso l’innocenza eraclitea.La spontaneità di portare con sé nuovi valori. La trasvalutazione della morale, o meglio, della moralità. Il “sì del fanciullo” non è quello del cammello contro la sua volontà, ma è il sì di colui che ha detto alla propria volontà di volere. La volontà del fanciullo è quella che gli indiani definirebbero il lyla, il gioco della creazione del mondo. Ebbene, Nietzsche è mai arrivato a questo stadio? Forse sì, o forse no. Quello che mi viene da pensare è che, probabilmente, non abbia mai usato la filosofia per arrivare a questo stadio, ma uno strumento ancora più potente: l’arte. E più nello specifico la musica. Nietzsche si libera dal suo collare di filosofo per confrontarsi con una delle figure che lo hanno più accompagnato nella propria vita: Richard Wagner. Figura per Nietzscheancora enigmatica: mentore o traditore? Maestro o principiante? Musicista o truffatore ? Prima cosa da fare prima del combattimento è eliminare ostacoli, pesi, o zavorre, e quindi buttare via la figura del filosofo al passo coi tempi. “Cosa esige da se un filosofo...? Di superare il proprio tempo.(...) Orbene, io sono altrettanto di Wagner figlio di questo tempo, voglio dire un décadent: solo che io l’ho capito, solo che io mene sono difeso. Il filosofo in me s’è difeso”. Ma che tipo di rapporto può essere quello che vi è tra i due

adoratori della filologia come strumento di disvelamento? Da amici come due più grandi nemici? Lo spirito della décadence è quello che il filosofo non può sopportare. La grandezza di Wagner era stata nel professare l’arrivo del superuomo, e ora parla di crepuscolo degli dei. Nietzsche sa di chi è colpa. Del loro maestro. Solo che uno dei due allievi lo ha superato, e l’altro no. Il maestro è Schopenhauer che con la sua compassione ha voluto redimere gli uomini. E cosi pure Wagner. Ma Nietzsche ha visto più in là. La compassione come il dogma imposto nuovamente dalla moralità dei deboli, dei cammelli, di coloro che dicono sempre sì. Sembra strano che tutta questa dissertazione sullo spirito europeo del nichilismo possa aver a che fare con la musica di Wagner. E invece e proprio così. Come diceva Schopenhauer che la teoretica è stretta con la morale, e cosi l’arte con la morale per Nietzsche. Si passa da un elogio della Carmen di Bizet per passare a distruggere il Parsifal, per demolire i nibelunghi, per cacciare Tristano e Isotta: la musica della compassione e della decadenza attrae i deboli, e cosi ha fatto ammalare la musica, l’ha resa menzogna, e non più verità. Wagner ha ingannato con l’enigmaticità, con la simbologia, con la polisemia, con “l’Idea della musica”. Il nostro Wagner “si scrive in hegeliano”. Wagner ha attirato con la grandezza del pathos, e non con la raffinatezza dell’intimo, non con i piedi alati e satolli di grazia della bellezza.“Più facile essere giganteschi, che essere belli”; a queste parole Nietzsche si riferiva. Io dalla mia umiltà posso provare a dire che, dopo avere preso in considerazione le lettere tra i due antagonisti (Nietzsche/Wagner), dopo aver letto Il caso Wagner, e il Nietzsche contra Wagner, non c’e che da smentire coloro che sostengono che Nietzsche sia un distruttore, che sia faro per le masse, che sia stato ispiratore di ideologie, che, soprattutto, non abbia saputo amare. Non ha mai saputo amare perché il suo amore era introvabile, e se trovabile impossibile da praticare, e se praticabile sempre

camaleontico, come l’ amore di Don Jose nella Carmen. Un amore egoista, dove si ricercava l’essere amati dall’altro. Un amore pieno di contraddizioni, poiché nei suoi scritti si ritrova completamente la contraddizione; tutta da vivere e da assaporare. La tremenda solitudine metafisica-morale-estetica di Nietzsche era dovuta ancora all’idea che solo in pochi credessero nella Verità, e Nietzsche, checché se ne dica, è uno di questi. Ecco il suo appello finale: “Che il teatro non diventi signore delle arti; che il commediante non diventi lo sviatore dei genuini; che la musica non diventi un’arte della menzogna”.

-gorot

Richard Wagner