44 — l’altra musica Il flauto magico dei Jethro · PDF...

12
L a storia deL- La musica rock è zeppa di mu- sicisti leggendari, che attraverso innovazio- ni tecniche e compositive hanno valorizzato nel cor- so degli anni l’utilizzo di questo o quello strumento. Se nella maggior parte dei casi si tratta di chitarristi, bassi- sti, tastieristi e batteristi, c’è però un unico caso in cui un flautista entra di diritto nell’olimpo della storia del- la musica. Ian Anderson è stato il primo e unico musici- sta a introdurre l’uso del flauto traverso nelle composi- zioni di musica rock. Un innovatore, così come lo era sta- to l’agronomo inglese del XVIII secolo Jethro Tull, in- ventore della seminatrice meccanica e teorizzatore del- la moderna agricoltura, dal quale prese il nome il gruppo che Anderson fondò nel 1967. I Jethro Tull rappresentano un caso uni- co, una band che in quanto a longevità è seconda solo ai Rolling Stones e che da più di quarant’anni offre musica di otti- ma qualità, godendo anche di un profon- do legame con il pro- prio pubblico, che ancora oggi accor- re instancabile e fe- dele ai loro concerti. Ventuno dischi da studio, senza con- tare i live e le rac- colte, e un nume- ro impressionan- te di copie vendu- te che si aggira at- torno ai sessanta mi- lioni. Sono passati indenni attra- verso le molteplici metamorfo- si della discografia e della mu- sica rock, riuscendo a creare uno stile unico che negli an- ni ha continuato a seguire il flauto magico di Ander- son nell’esplorazione di molti generi musicali, dal blues al folk, fino al progressive e all’hard-rock. Quando il grup- po ha mosso i primi passi in Inghilterra era molto diffuso il british blues ed è proprio partendo da queste influenze che nasce il primo loro disco, This Was del 1968, nel qua- le spicca «Song for Jeffrey», prima di molte canzoni dedi- cate all’amico Jeffrey Hammond. L’anno successivo è la volta di Stand Up, in cui troviamo uno dei brani di mag- gior successo del gruppo, «Boureé», che altro non è che una rivisitazione in chiave jazz di una suite per liuto di J.S. Bach. Dopo Benefit, del 1970, arriva quello che è con- siderato il loro lavoro migliore, Aqualung . Un riff di chi- tarra tagliente e oscuro è il biglietto da visita per il pezzo che dà il titolo all’album e che rimarrà la canzone di mag- gior riferimento per i Jethro Tull. Un album crudo come l’immagine del barbone in copertina o le invettive contro la chiesa anglicana nel testo di «My god». Thick as a Brick è l’altra pietra miliare del gruppo, un concept album sviluppa- to attraverso un’unica suite composta da due sole lunghe tracce (divisione all’epoca forzata dalle due facciate dei vinili). Siamo in piena epoca progressive, nella quale il rock vuole elevarsi, creare forme più lunghe e complesse della semplice forma canzone, ispirandosi anche a elementi di musica classica. Il cammino continua e i Jethro Tull que- sta volta decidono di abbracciare il folk: tre album, Songs from the wood, Heavy Horses e Storm Watch per un ritorno al- le origini della cultura rurale inglese e a una maggiore at- tenzione ai problemi ambientali. Negli anni ottanta an- che Anderson rimane affascinato dal suono delle tastiere elettroniche che coltiva in album come A e The Broadsword and The Beast del 1982. Ancora un cambio di rotta, questa volta verso un sound più metal, con il disco Crest of a Kna- ve, che a sorpresa varrà al gruppo il premio come miglior band heavy metal nel 1989. Se negli anni successivi ci sarà un breve ritorno alle sonorità blues e jazz degli inizi della loro carriera, la discografia più recente è invece composta da riedizioni di album precedenti come This Was, nel qua- rantesimo anniversario dalla pubblicazione, o Aqualung Live, e da pubblicazioni rimasterizzate di concerti come quello al Madison Square Garden del 1978. Assieme a Martin Barre, chitarrista della band dal 1969, Ian Anderson, passato per alcuni problemi di salute, non è più il folletto che incantava il pubblico suonan- do su un piede solo ma con- tinua a portare instanca- bile in giro per il mondo i suoi Jethro Tull, senza aver mai perso quel magneti- smo, quel carisma e quella inesauribile voglia di suo- nare solo per il piacere di creare ottima musica. Il flauto magico dei Jethro Tull La band di Ian Anderson in concerto a Padova di Tommaso Gastaldi Ian Anderson (www.j-tull.com). Piazzola sul Brenta (Pd) Anfiteatro Camerini 16 luglio, ore 20.30 44 — l’altra musica l’altra musica

Transcript of 44 — l’altra musica Il flauto magico dei Jethro · PDF...

La storia deL-La musica rock è zeppa di mu-

sicisti leggendari, che attraverso innovazio-ni tecniche e compositive hanno valorizzato nel cor-so degli anni l’utilizzo di questo o quello strumento. Se nella maggior parte dei casi si tratta di chitarristi, bassi-sti, tastieristi e batteristi, c’è però un unico caso in cui un flautista entra di diritto nell’olimpo della storia del-la musica. Ian Anderson è stato il primo e unico musici-sta a introdurre l’uso del flauto traverso nelle composi-zioni di musica rock. Un innovatore, così come lo era sta-to l’agronomo inglese del XVIII secolo Jethro Tull, in-ventore della seminatrice meccanica e teorizzatore del-la moderna agricoltura, dal quale prese il nome il gruppo che Anderson fondò nel 1967. I Jethro Tull rappresentano un caso uni-co, una band che in quanto a longevità è seconda solo ai Rolling Stones e che da più di quarant’anni offre musica di otti-ma qualità, godendo anche di un profon-do legame con il pro-prio pubblico, che ancora oggi accor-re instancabile e fe-dele ai loro concerti. Ventuno dischi da studio, senza con-tare i live e le rac-colte, e un nume-ro impressionan-te di copie vendu-te che si aggira at-torno ai sessanta mi-

lioni. Sono passati indenni attra-verso le molteplici metamorfo-si della discografia e della mu-sica rock, riuscendo a creare uno stile unico che negli an-ni ha continuato a seguire il flauto magico di Ander-

son nell’esplorazione di molti generi musicali, dal blues al folk, fino al progressive e all’hard-rock. Quando il grup-po ha mosso i primi passi in Inghilterra era molto diffuso il british blues ed è proprio partendo da queste influenze che nasce il primo loro disco, This Was del 1968, nel qua-le spicca «Song for Jeffrey», prima di molte canzoni dedi-cate all’amico Jeffrey Hammond. L’anno successivo è la volta di Stand Up, in cui troviamo uno dei brani di mag-gior successo del gruppo, «Boureé», che altro non è che una rivisitazione in chiave jazz di una suite per liuto di J.S. Bach. Dopo Benefit, del 1970, arriva quello che è con-siderato il loro lavoro migliore, Aqualung. Un riff di chi-tarra tagliente e oscuro è il biglietto da visita per il pezzo che dà il titolo all’album e che rimarrà la canzone di mag-gior riferimento per i Jethro Tull. Un album crudo come l’immagine del barbone in copertina o le invettive contro la chiesa anglicana nel testo di «My god». Thick as a Brick è l’altra pietra miliare del gruppo, un concept album sviluppa-to attraverso un’unica suite composta da due sole lunghe tracce (divisione all’epoca forzata dalle due facciate dei vinili). Siamo in piena epoca progressive, nella quale il rock vuole elevarsi, creare forme più lunghe e complesse della semplice forma canzone, ispirandosi anche a elementi di musica classica. Il cammino continua e i Jethro Tull que-sta volta decidono di abbracciare il folk: tre album, Songs from the wood, Heavy Horses e Storm Watch per un ritorno al-le origini della cultura rurale inglese e a una maggiore at-tenzione ai problemi ambientali. Negli anni ottanta an-che Anderson rimane affascinato dal suono delle tastiere elettroniche che coltiva in album come A e The Broadsword and The Beast del 1982. Ancora un cambio di rotta, questa volta verso un sound più metal, con il disco Crest of a Kna-ve, che a sorpresa varrà al gruppo il premio come miglior band heavy metal nel 1989. Se negli anni successivi ci sarà un breve ritorno alle sonorità blues e jazz degli inizi della loro carriera, la discografia più recente è invece composta da riedizioni di album precedenti come This Was, nel qua-rantesimo anniversario dalla pubblicazione, o Aqualung Live, e da pubblicazioni rimasterizzate di concerti come

quello al Madison Square Garden del 1978. Assieme a Martin Barre, chitarrista

della band dal 1969, Ian Anderson, passato per alcuni problemi di

salute, non è più il folletto che incantava il pubblico suonan-do su un piede solo ma con-tinua a portare instanca-bile in giro per il mondo i suoi Jethro Tull, senza aver mai perso quel magneti-smo, quel carisma e quella inesauribile voglia di suo-nare solo per il piacere di creare ottima musica. ◼

Il flauto magicodei Jethro TullLa band di Ian Andersonin concerto a Padova

di Tommaso Gastaldi

Ian Anderson (www.j-tull.com).

Piazzola sul Brenta (Pd)Anfiteatro Camerini

16 luglio, ore 20.30

44 — l’altra musical’a

ltra

mus

ica

charles aznavour vivrà una serata da protagoni-sta a Venezia il 16 luglio, quando salirà sul palco apposi-tamente allestito in piazza San Marco per un concerto cele-

brativo di una lunghissima carriera.Chiediamo a Giò Alajmo – firma storica del Gazzettino – co-

me vede questo legame tra Venezia e Aznavour.

Fra Charles Aznavour e Ve-nezia c’è un legame indisso-lubile rappresentato da quel-la canzone molto malinconi-ca e molto romantica che fu «Com’è triste Venezia», rac-conto di un amore finito e con esso la magia della città da cartolina.

Aznavour ha avuto un vero e pro-prio periodo di gloria in Italia in passato, lo ricordi?

Aznavour è stata forse la vo-ce francese più famosa in Ita-lia negli anni sessanta e settan-ta, quando ancora la cultura anglosassone non era penetra-ta del tutto sulla scia della be-atlemania e di Hollywood. Era ancora l’epoca delle versioni in lingua, con le canzoni france-si tradotte in italiano che assu-mevano un fascino esotico per l’accento un po’ nasale e l’erre moscia.

Eppure poteva non essere affatto francese...Poteva nascere americano, Aznavour. Strano destino il

suo. La madre ebbe le doglie a Parigi, in attesa del visto per gli Usa. Era il 1924. Così l’armeno Shahnour Vaghi-nagh Aznavourian, nipote del cuoco dello zar Nicola II, si ritrovò francese e forse fu la sua fortuna.

Una carriera cominciata presto no?Cresciuto nel ristorante di famiglia meta di artisti, a no-

ve anni Charles calcava già i palcoscenici teatrali facen-dosi chiamare Aznavour. A ventidue Edith Piaf se lo por-tò in tour in America. A trentadue cantava all’Olympia sulla scia del successo di «Sur ma vie» mentre in Usa il rock’n’roll era agli albori e ci si chiedeva chi diavolo fosse quel tal Elvis Presley. I critici non lo consideravano una gran voce, ma il pubblico adorava il suo carisma e la capa-cità di comunicare emozioni, scrivendo e interpretando canzoni mai banali, spesso velate di malinconia e scon-fitta e talvolta coraggiose nell’affrontare temi scomodi.

Una carriera lunghissima la sua, e a Venezia avrà anche ospi-ti d’eccezione.

A ottantasei anni, Aznavour può ben permettersi di re-galarsi un omaggio di carriera cantando nel salotto d’Eu-ropa. Con lui, a parte l’orchestra d’archi della Fenice di-retta da Eric Wilm, saranno tre artisti italiani che in qual-che modo gli devono qualcosa, Massimo Ranieri, Patty Pravo e Franco Battiato. Sono solo alcuni dei tanti che

hanno inciso o renterpretato le sue canzoni. Ranieri in particolare ha ricordato di recente di aver avuto proprio Aznavour come modello per la sua carriera giocata tra musica e teatro.

Ma cosa possiamo dire di Aznavour cantante?Charles Aznavour è stato un gigante della canzone. È

stato un attore popolare. È stato forse il personaggio di spettacolo la cui carriera più si può avvicinare a quella di Frank Sinatra, altro inimitabile gigante. Il fatto di po-ter cantare in sei lingue lo ha reso popolarissimo in ogni parte del mondo. E l’aver scritto o interpretato più di

mille canzoni, la maggior par-te d’amore, ne fa uno degli in-terpreti e autori più prolifici di sempre. Ma quel che non ha fatto la musica ha fatto il cine-ma. Sono più i film nel suo car-niere che non i dischi, e se la maggior parte delle pellicole lo vede protagonista di copio-ni popolari e non particolar-mente raffinati, non mancano lavori di alta qualità che porta-no la firma di Truffaut, Cocte-au, Chabrol.

Anche come attore ha comiciato presto...

Il suo primo ruolo è del ’36, ma è anche nel primo film del-la nouvelle vague francese, La fos-sa dei disperati, in cui interpre-ta un pazzo nel ’58, ben prima di Basaglia e del Nido del cucùlo.

Come mai questa popolarità?La sua faccia segnata, gli oc-

chi tristi, il naso pronunciato, la statura non rimarchevole, ne fanno un personaggio che può

stare al passo dei divi americani, una specie di Spencer Tracy europeo. Lavora con tanti, per tutta la sua vita. In circa sessanta film, fra cui Morire d’amore presentato a Ve-nezia nel ’71. Il ruolo forse più importante è però il più recente: nel 2002 interpreta un regista armeno in Ararat di Egoyan, facendosi carico in prima persona di rievoca-re la tragedia dimenticata del popolo armeno, il genoci-dio perpetrato dai turchi nel 1915. Di questa eredità sto-rica Aznavour si farà interprete non dimenticando le sue radici, accettando qualche anno fa di essere ambasciato-re dell’Unesco in Armenia.

Un artista scontroso, malinconico, riservato o disponibile?Da cantante la sua fama è stata pari alla sua disponibi-

lità. In Italia ha partecipato a un Festivalbar, a tre Festi-val di Sanremo in varia veste. A innamorarsi delle sue canzoni – anche grazie alle splendide traduzioni di Ca-labrese – sono stati in tanti e in epoche diverse, da Mo-dugno con la classica «La mamma» a Mina, da Ornel-la Vanoni a Mia Martini alla Zanicchi, da Enrico Rug-geri a Battiato, da Massimo Ranieri a Renato Zero che si sono entrambi riconosciuti nell’«Istrione». Attraver-so le sue canzoni sono passati sessant’anni di storia e cultura francese, ma anche un po’ della nostra. (l.m.) ◼

Piazza San Marco abbraccia Aznavour

Charles Aznavour ed Edith Piaf (da: http://monsieuraznavour.free.fr).

l’altra musica — 45

l’altr

a m

usica

iL fLamenco possiede una sua peculiarità, che fa sì che il chitarrista possa essere allo stesso tempo com-positore e interprete. Dall’epoca lontana dei maestri

nati nel secolo XIX, come Paco el de Lucena, Patiño, Paco el Barbero o anche Ramón Montoya, la tradizione ha trasformato i chitarristi flamenchi in musicisti totali, in grado di manifestare il proprio impulso creativo e al-lo stesso tempo eseguirlo. Naturalmente questa partico-larità ha delle ripercussioni non solo nei risultati finali – nei quali si coglie l’intensità delle sonorità, l’originalità di ciascun brano e la specia-le enfasi di ogni passaggio – ma anche nello sviluppo di opere di per sé aperte (cioè mai imprigionate in strutture definitive) e per questo suscettibili di ap-prodare al terreno dell’im-provvisazione. Questa ca-ratteristica di libertà mu-sicale, anche se all’interno di schemi stabiliti, conferi-sce infatti al chitarrista fla-menco, se le circostanze lo richiedono, la prerogativa di improvvisare.

Nell’inverno del 1973, durante il montaggio di un documentario per la televisione, feci a Paco de Lucía la seguente doman-da: «Parlando di tecnica e improvvisazione, qua-le credi sia la relazione tra questi due concetti?» E lui mi rispose: «Penso che l’improvvisazione pos-sa realizzarsi soltanto se si possiede un grande domi-nio tecnico. L’improvvi-sazione per me è l’espres-sione dell’artista secondo il suo stato d’animo, ma se questi ha dei problemi con le dita, essa non può esiste-re...». In quel periodo aveva ventisei anni e già allora di-mostrava di avere il dono della creatività, che in lui sorge in modo compulsivo, come un’inesauribile sorgente che irriga la sua opera con raffiche abbaglianti.

È difficile essere posseduto da questo potere, che se-condo Paco non nasce per caso, ma è inve-ce il prodotto di un continuo lavoro, del-la perseveranza e del contatto prolungato con lo strumento. Da questo permanente

stato di allerta, in sintonia con ciò che potremmo chia-mare ispirazione, trae origine l’unicità della sua espres-sione artistica, che divide la storia della chitarra flamen-ca in due periodi significativi, entrambi nettamente defi-niti: prima e dopo Paco de Lucía. «Esistono fattori – sen-timenti, ricordi, ecc. – che ti spingono a comporre?» gli chiesi nel 1994 in un’altra intervista. «Nel processo com-positivo, come disse qualcuno (Thomas Alva Edison, ndt.), c’è il dieci per cento di ispirazione e il novanta di sudora-zione. Bisogna lavorare, rinchiudersi con la chitarra per ore e ore fino a quando arrivi ciò che chiamiamo ispira-zione», fu la sua risposta.

Paco è attorniato dalla grazia della costruzione musi-cale, da quella qualità innata che è l’inventiva, la quale lo eleva alla condizione di illuminato. Ma in questo caso si tratta di un illuminato razionale, che anche ricevendo gli impulsi di scoperte spontanee e straordinarie, dispone comunque coscientemente di essi e li ordina fino a dar lo-ro la forma che richiede la sua personale necessità artisti-ca. Se da un lato il potenziale creativo di Paco de Lucía ha modificato la rotta della chitarra flamenca, innalzando-

la a un’altra dimensione e dotandola di un ricchissi-mo e inesauribile univer-so melodico, dall’altro la-to ha rivoluzionato il con-cetto stesso di esecuzione, ma con una naturalezza tale che il suo virtuosismo non sembra nemmeno in-tenzionale: la velocità del-le sue picchiate vertigino-se sui tasti, il dominio as-soluto del manico della ta-stiera in tutta la sua esten-sione, la pulizia cristalli-na del tremulo, l’esattez-za nel fraseggio, l’accor-datura perfetta, gli accor-di inediti e sorprendenti e gli arpeggi originali han-no permesso alla chitarra flamenca, nelle sue mani, di accedere ad ambiti fino a ora impensabili, e hanno accelerato il suo sviluppo attraverso un fertile pro-cesso evolutivo.

Con la Medaglia d’Oro delle Belle Arti, il Premio Príncipe de Asturias per le Arti, le lauree honoris causa all’Università di Ca-dice e al Berklee College

of Music dell’Università di Boston, per citare soltanto al-cune delle sue onorificenze, Paco de Lucía è uno dei gran-di musicisti del nostro tempo, un artista universale che ha creato un nuovo linguaggio per la chitarra flamenca. ◼

Traduzione di Eva Rico

Paco de Lucía, artista universaleAlla Feniceper il Venezia Jazz Festival

di José María Velázquez-Gaztelu

Venezia – Teatro La Fenice29 luglio, ore 21.00 Al centro, Paco De Lucía.

46 — dossier licei musicalido

ssier

lice

i mus

icali

sarà L’xi edizione di «Tra Ville e Giar-dini», itinerario di danza e musica nelle ville e corti del Polesine, a ospi-

tare una delle due date italiane del Close up Tour di Suzanne Vega. Il 4 luglio, infatti, la cantautrice americana sarà a Rovigo per brindare ai suoi venticinque anni di carriera e presentare un nuovo album antologico, Suzanne Vega Close up Vol.1: Love Songs, uscito in Italia lo scorso 15 giugno.

Fattasi conoscere all’inizio degli anni ottanta suonan-do canzoni folk nei bar del Greenwich Village, la Vega in questo suo nuovo album, il primo di quat-tro, rilegge le proprie canzoni in chiave acustica. A Rovigo la cantautrice presenterà uno spettacolo che alla vocazione folk mescolerà suoni più elettri-ci e innovativi.

Nata l’11 luglio del 1959 a Santa Monica, in Cali-fornia, all’età di un anno la piccola Suzanne si tra-sferisce con la madre e il padre adottivo a New York, dove cresce nei quartieri socialmente «diffici-li», quelli di Spanish Harlem e dell’Upper West Si-de. All’età di nove anni comincia a scrivere poesie e a quattordici dà vita alla sua prima canzone. Alla

New York High School of Perfor-ming Arts (la scuola in cui

è ambientato il film e musical Saran-

no famosi ) studia danza moder-na. Ma la mu-sica rimane il suo primo e gran-de amore. Studen-

tessa alla Columbia

University, Suzanne comincia a esibirsi in piccoli loca-li e nel 1984 ottiene il primo contratto discografico, che, l’anno successivo, la porta alla pubblicazione del suo al-bum d’esordio, Suzanne Vega, disco introspettivo che ot-tiene un buon successo di pubblico e critica.

Solitude Standing, del 1987, è il disco che contiene due tra i suoi singoli forse più conosciuti e amati: «Tom’s Diner», la cui bellissima versione originale a cappella è stata in

seguito reinterpretata e remixata da nume-rosi artisti – molte di queste versioni sono state pubblicate nella raccolta Tom’s Album, tra esse anche una dei R.E.M. pubblicata sotto uno pseudonimo – e «Luka», pezzo scritto dal punto di vista di un bambino

che subisce violenze domestiche, argomento piuttosto in-solito per un successo pop. E nel 1988 anche la nostrana Paola Turci incide una cover italiana di «Luka» con il tito-lo «Mi chiamo Luka»: contenuto nell’album Ragazza sola,

ragazza blu, il brano per-de però ogni r i fer imen-to a violenze sessuali.

A porta-re un cam-b i a m e n t o di rotta nel-lo stile del-la Vega è il terzo al-bum, Days of Open Hand. È il 1990, e la musica di Suzanne di-v iene più sperimenta-le. Due anni

dopo, nel ’92, esce nei negozi 99.9Fº («ninety-nine point nein Fahrenheit degrees»), che consiste in una miscela eclettica di musica folk, dance e industriale, con canzoni brevi e stile minimale.

Il quinto album è del ’96. Si tratta di Nine Objects of Desire, con una musica che varia da uno stile semplice ed essen-ziale a una produzione industriale come quella del disco precedente, e che contiene il brano «Caramel», incluso nel film di Michael Lehmann Un uomo in prestito (The Truth About Cats and Dogs, 1996), e «Woman On The Tier», usa-to da David Robbins, che ne curava le musiche, nel film diretto da Tim Robbins nel ’95 Dead Man Walking.

Nel settembre del 2001 viene dato alle stampe Songs in Red and Grey, disco che prende spunto dal divorzio del-la Vega da suo marito, il produttore discografico Mitchell Froom, a cui seguono Retrospective – The Best of Suzanne Ve-ga e Beauty & Crime.

Oltre a Rovigo, la Vega il 6 luglio aprirà l’Arez-zo Festival. Due date esclusive da non perdere. (i.p.) ◼

Venticinque anniin musicaper Suzanne Vega

Rovigo – Chiostro Olivetano4 luglio, ore 20.30

A sinistra: Suzanne Vega (wikimedia.org).Sopra: la copertina del suo ultimo album.

l’altra musica — 47

l’altr

a m

usica

anche quest’anno iL festivaL di Venezia sul jazz punta su grossi no-mi, su jazz star in tutto e per tutto,

in quanto a successo e notorietà, figure pa-ragonabili ai divi del pop o del rock: oltre a Paco De Lucia (cfr. p. 46), la nuova edi-zione lancia soprattutto Norah Jones e Pat Metheny, che proprio al pop e al rock ven-gono spesso associati, sia pur con diverse motivazioni. Cantante la prima, chitarrista il secondo, ol-tre la fama massiccia, la Jones e Metheny hanno in comu-ne una versatilità artistica raffinata, che porta entram-bi a relazionare gli elementi del jazz (melodia, timbrica, improvvisazione) con altre musiche, soprattutto odierne e giovanili. Già di per sé il jazz è musica di contamina-zioni, assimilazione, ibridazioni, ma nei casi di No-rah e Pat il loro approccio di stile pop-jazz o rock-jazz può ritenersi una variabile fusion al quadrato o, culturalmente, all’enne-sima potenza.

Tutto questo riguarda anzitutto il denominatore comune di musici-sti seri e preparati, che però re-stano lontani per anagrafe, ruo-lo, forma mentis e bagaglio intel-lettuale. Presi singolarmente Norah Jones e Pat Metheny ri-velano insomma le tante strade che, ora, sta percorrendo il jazz della postmodernità, un jazz che smette con gli invecchiati avanguardismi, le futili virtuo-sità, le pacchiane gigionerie, per guardarsi attorno, dentro, in net-to controluce e forse con autore-vole sincerità. Ciò non toglie che tale status

profondo riesca a infondere molta comunicativa e a trat-ti fascinosa spettacolarità, al punto da guadagnarsi, No-rah e Pat, la stima di audience eterogenee, dai puristi ai fric-chettoni, dagli amanti dell’hard-bop ai fan del tranquil-lo mainstream.

Presi individualmente ecco quindi che la ventinovenne, graziosissima Norah potrebbe rientrare nel novero delle folksinger o cantautrici statunitensi, con quel tocco in più di accesa musicalità che, ad esempio, nelle giovani colle-ghe inglesi, da Joss Stone a Amy Winehouse, è condito di blues o di soul: la Jones invece preferisce una canzone ve-

nata di uno swing delicato, mentre sul pia-no armonico viene subito da pensare al re-cupero degli stilemi bianchi country & we-stern. In effetti, se non fosse per l’imprin-ting fornito di solito da un gruppo acustico paragonabile al classico jazz quartet, i bra-ni della Jones guardano alle tradizioni can-tautorali delle Joni Mitchell o delle Laura Nyro, che negli anni settanta rinnovano la

white song nordamericana; tuttavia c’è in Norah un modo di porsi che attiene pure, nel timbro vocale, alle balladeu-ses di scuola jazzy, con l’eredità quasi naturale del lirismo malinconico da romantica crooner; l’interpretazione pia-na, controllata, talvolta sofferta, per la Jones è tutto: non a caso, all’uopo, si serve di un repertorio straordinario

in cui alterna le proprie melodie a evergreen, co-ver e standard. La novità, rispetto ad album

e tournée precedenti, sarà ascoltarla a Venezia solo voce e chitarra (lei che

di solito suona il pianoforte), ag-giungendo così atmosfere an-

cora più raccolte e intimiste.Tutt’altra musica per Pat Metheny, 55 anni, ormai incanutito capellone: mu-sica strumentale per chi-tarre e band più o meno allargate, con un lavoro sul jazz assai più speri-mentalista e multidisci-plinare, senza però di-sattendere i gusti meno

esigenti e più af-fini al crossover odierno; già i

La grande musicain Piazza San MarcoPat Metheny e Norah Jones al Venezia Jazz Festival

di Guido Michelone

VeneziaPiazza San MarcoPat Metheny Group23 luglio, ore 20.30

Norah Jones24 luglio, ore 20.30

48 — l’altra musical’a

ltra

mus

ica

primi album del Pat Metheny Group, proprio in quan-to incisi con la bavarese ECM (celebre per un’avanguar-dia sobria, fruibile, cesellata, da Keith Jarrett a Jan Gar-barek), mettevano in luce un compositore, un bandleader e soprattutto virtuoso allo strumento sia elettrico sia acu-stico, in grado di accogliere nel proprio sound originalis-

simo diversi elementi del post-bop, della musica black, della canzone yankee e persino delle suggestioni brasi-lere e ispano-americane. Dagli anni settanta dei fortu-nati esordi, in parallelo ai mostri sacri John McLaughlin, Carlos Santana, Joe Pass, Lee Ritenour, fino alle confer-me attuali, il suono del Group sostanzialmente non cam-bia, magari si avvicina ai trend correnti, benché in paral-lelo Metheny voglia e riesca di frequente a cimentarsi con linguaggi sonori ardimentosi, dal free al solo, dal guitar jazz trio classico a un’orchestra meccanica autodiretta. I fan di Pat non sempre amano tali escursioni, preferendo il ti-pico «fusionista» con le tirate chitarristiche dai toni so-gnanti, in mezzo ai ritmi commisti a loro volta ai già ci-tati virtuosismi romanticheggianti.

E sotto quest’ultime prospettive sia Norah Jones sia Pat Metheny hanno un altro bel segno condivi-so: quello di non deludere mai le loro platee, offren-do show carichi di sentimento, arte, professionalità. ◼

una serata tutta Lunare con il clarinetto di Lu-cio Dalla e un menù a tema per aiutare i tesori di Palazzo Fortuny. Dopo le dorature del soffitto

della Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, Ve-nice Foundation si è presa a cuore le sorti del modellino del Teatro delle Feste, dei disegni preparatori per i tessi-li e dei dipinti dell’atelier conservati del museo di cam-po San Beneto, e l’ha fatto con una cena specialissima, il 26 giugno scorso, nel giardino di Ca’ Rezzonico. Trecen-to ospiti che hanno accolto l’invito di Franca Coin, presi-dente della Fondazione, ad «adottare» un pezzettino del Fortuny per coprire le spese del restauro, e che in cam-bio hanno ricevuto una festa ispirata alla luna. Prima una mostra con i pastelli di Giorgio Tonelli, poi le fotografie e le poesie di Marco Alemanno, quindi le note di plenilu-nio di Lucio Dalla, infine la cena celestiale.

La nuova «avventura», come la chiama Franca Coin, ri-guarda i disegni per i tessili, i dipinti dell’atelier e, soprat-tutto, il grande modello del Teatro delle Feste, un vero e proprio teatro in miniatura ideato da Mariano Fortuny nel 1912 insieme a Gabriele D’Annunzio e Lucien Hes-se. Il teatro avrebbe dovuto sorgere a Parigi e consiste-

va in una sce-na e una sa-la coperta da una gigante-sca cupola in tela, dando co-si l’impressio-ne di trovarsi all’aperto. Un gioiellino che rimase limita-to al model-lo in miniatu-ra del Fortuny, i n c r e d i b i l -mente rifinito anche nell’ap-parato tecni-co, e che ora il restauro vuole rendere nuo-vamente fun-zionante. ◼

Il clarinettodi Lucio Dallaper FortunyL’iniziativadella Venice Foundationcopre le spese di restauro

di Manuela Pivato

Sopra: Pat Metheny in concerto ( foto di Manfred Schweda,www.thisfabtrek.com). A fronte: Norah Jones (norahjones.com).

Mariano Fortuny y Madrazo, Autoritratto (1947, tempera su

cartone, Venezia, Palazzo Fortuny)e Lucio Dalla.

l’altra musica — 49

l’altr

a m

usica

magrissima, voce doLente, sguar-do febbrile, ha segnato la storia del rock aggiudicandosi il titolo di sacer-

dotessa «maudit». «Maledetta» e impegnata da sempre e per sempre, quindi anche al fianco di Emergency, l’associazione umanitaria di Gino Strada a cui Patti Smith dedicherà un concerto speciale in Piazza San Marco il primo agosto. Un concer-to attesissimo che la laguna è riuscita a includere nel car-tellone degli eventi estivi sotto le stelle dopo lunghe trat-tative, per la somma gio-ia dei suoi fans.

La data veneziana è stata inserita nel tour We Shall Live Again, do-po l’incontro folgoran-te tra la Smith ed Emer-gency l’anno scorso a Fi-renze. Nel corso dell’ot-tavo raduno naziona-le con i volontari, la can-tante di Chicago ha de-dicato all’associazione di Strada la sua indimenti-cabile «People Have The Power» e sono incomin-ciati i contatti per realiz-zare il concerto in Piazza San Marco, organizzato in collaborazione con il Centro Pace di Venezia e International Music.

Sostenitrice di infinite battaglie per i diritti so-ciali e ideale ponte tra la Beat Generation e gli ar-tisti contemporanei, Pat-ti Smith, 64 anni, è redu-ce dall’enorme succes-so del suo libro-biogra-fia Just Kids e, con il nuo-vo tour europeo, ritor-na a proporre i suoi suc-cessi e a offrirci un’anti-cipazione del suo pros-simo progetto musicale. Un tour – We Shall Live Again – totalmente acu-stico, con gli storici Len-ny Kaye alla chitarra e Jay Dee Daugherty alle percussioni, Tony Sha-nahan, suo collaborato-

re da quasi quindici anni, al basso, la figlia Jesse Smith al pianoforte e Mike Campbell alla chitarra.

Con questa formazione Patti Smith salirà sul palco di Piazza San Marco a incantare il suo pubblico, fatto di ragazzi dai venti ai settant’anni, tre generazioni unite dall’adorazione verso la poetessa indiscussa del rock, co-me se non fossero passati oltre trent’anni da quando, a 28 anni, Patti Smith entrò nel mondo della musica pri-ma con reading di poesia e suoni, quindi con singoli di eti-chette indipendenti, infine con un album prodotto da Jo-hn Cale. Per alcuni anni Patti fu la regina di un rock nuo-

vo e impegnato, conquistando i critici e scalan-do le classifiche anche con passaggi spericolati.

Dopo uno strepitoso tour italiano, nel 1979 la Smith si ritira dalle scene e sposa il chitarri-sta degli MC5 Fred «Sonic» Smith, a cui è dedi-cato il brano «Frederick» e dal quale ebbe due figli, Jackson e Jessica. Dieci anni dopo pub-

blica un disco gradevole ma che la critica giudica non abbastanza incisivo – Dream of Life – a cui seguirono al-tri anni di silenzio. Gli anni novanta furono molto dif-

ficili: Patti perse il fida-to pianista Richard So-hl e Robert Mapplethor-pe, compagno degli anni giovanili, il fratello Tod e il marito Fred, morto per un attacco di cuore. Il dolore, però, la spinge a ritornare a fare musica e completa l’album che progettava da tempo con Fred con il nome di Go-ne Again.

Negli anni successivi continua a calcare i pal-coscenici con concerti in tutto il mondo, mentre le sue canzoni non cessa-no di denunciare gli or-rori e le follie del mondo: l’invasione cinese del Ti-bet, la morte di Ginsberg e Burroughs, il Vietnam, Madre Teresa e il mito di Ho Chi Minh, a cui Pat-ti dedica il suo album del 2000. Il disco inedi-to più recente è Trampin, del 2004, con una pic-cola apparizione della figlia Jessica che, come annunciato, sarà al suo fianco il primo agosto in Piazza San Marco. ◼

Patti Smith,rock senza etàA San Marcoun concerto specialeper Emergency

di Manuela Pivato

VeneziaPiazza San Marco1 agosto, ore 21.00

Patti Smith(elaborazione graficada wikimedia.org).

50 — l’altra musical’a

ltra

mus

ica

dopo la malavita, i mistici dell’Occidente: quinto album in quasi dieci anni pieni, per i Baustelle di Montepulciano. Un gruppo che è riuscito nella

difficile impresa di farsi apprezzare dalla critica più esi-gente, quella che stigmatizza il cosiddetto pop italiano, e una mole considerevole di ascoltatori fuori dagli sche-mi. Oggi, Francesco Bianco-ni e compagni escono ancora di più dai cliché: ce lo raccon-ta lui stesso, in prima perso-na, nell’attesa del suo primo romanzo, che verrà pubbli-cato da Mondadori alla fine dell’anno.

Le vostre nuove canzoni sono me-no legate alla melodia di quanto ci si potesse aspettare: non tentate, in-somma, di compiacere chi vi ascolta.

Non abbiamo mai scritto per compiacenza, semmai per urgenza. A esser sinceri, tan-te volte le idee musicali arriva-no da suggestioni incontrolla-te. È pur vero che per I misti-ci dell’Occidente l’idea di base era quella di uscire dai binari della prevedibilità.

Meno pop e più rock?Se vuoi, sì. Meno sicurezze e

più nostalgia, come ne «Le ra-ne», che fa i conti con un sen-so di perdita che accompagna da tempo la mia generazione.

In musica, soprattutto nelle can-zoni di chi ha la tua età, il rimpian-to sembra essere una costante ineliminabile.

Se diventa uno strumento narrativo, può andare bene, nel senso che non c’è, almeno da parte mia, la pretesa di una necessaria appartenenza generazionale. Di sicu-ro c’è l’inquietudine rispetto ai tempi moderni, chiamia-moli così.

I testi sono volutamente sfuggenti: non solo quelli del cd, anche quelli che hai scritto per Irene Grandi («Bruci la città» del 2007 e «La cometa di Halley», brano presentato a Sanremo 2010, ndr.).

Non amo essere riconosciuto, forse, ma penso che il modo in cui scrivo sia abbastanza chiaro: can-tare e mettere in versi le parole non è, comun-que, dare corpo a un pensiero, a un ragiona-mento. Dovrebbe essere, invece, affidarsi alle suggestioni. L’interpretazione è sempre libera.

Quando avete cominciato, ci si chiedeva dove sarebbe

andato il rock in Italia, se in classifica o fuori dai riflettori. Oggi…… grazie al cielo non ci sono più steccati precisi. Se gli

Afterhours vanno a Sanremo a presentare altre band, si possono giudicare per ciò che fanno, non per il gruppet-to di amici di cui fanno parte. È un’evoluzione.

Nel frattempo, i dischi vendono sempre meno, o spariscono del tutto.

Ci sono nuove forme di consumo musicale: non biso-gna essere troppo ortodossi, in questo periodo. L’impor-tante è trattare bene chi viene ai concerti, segue quello che fai come artista, ti apprezza: è ritornato importante un rapporto diretto fra musicista e appassionato.

Nella sfera della passione, la ricerca sulle sonorità piene vi ha por-tato a lavorare con un produttore come Pat McCarthy.

Siamo riusciti a lavorare con uno dei nostri punti di ri-ferimento, almeno per un certo tipo di sound. Ci ha da-to molta libertà di manovra e ha permesso alle canzoni di suonare in maniera diversa dal solito.

In che senso?In Italia i timbri sono tremendamente piatti: un disco

inglese o americano ha dinamiche più movimentate, che siamo riusciti a ottenere. La sostanza, però, è che non vo-levamo sembrare troppo contemporanei.

Davvero?Davvero. I riferimenti più importanti per I mistici… si

trovano, grosso modo, fra il 1966 e il 1973…Stai per esordire con un romanzo, per una grande casa editrice: si

tratta di un atto di sfida, rispetto al panorama narrativo di oggi?Spero di no. Confrontarmi con la scrittura a largo respi-

ro per me è un’avventura, un rischio. Soprat-tutto, è un’aspirazione che coltivo fin da ado-lescente. ◼

I Baustelle allo Sherwood FestivalIl gruppo di Montepulcianopresentai «Mistici dell’Occidente»

di John Vignola

PadovaParcheggio NordStadio Euganeo2 luglio, ore 20.30 Baustelle ( foto di Gianluca Moro).

l’altra musica — 51

l’altr

a m

usica

un cast d’eccezione per l’edizione 2010 dell’Heineken Jammin’ Festival, che, dal 3 al 6 luglio, vedrà alternarsi

sul palco principale allestito nel Parco di San Giuliano, in riva alla laguna, gli Aerosmith, i Cranberries, i Massive Attack, i Black Eye Pe-as, i Green Day, i 30 Seconds to Mars, i Pearl Jam, Ben Harper, gli Skunk Anansie, i Gossip e molti altri ancora.

Tutti gli artisti si esibiranno in un’unica data italiana nel-la magica cornice del Parco di Mestre, allestito per l’oc-casione con due palchi, un’area relax e una dedicata allo sport, numerosi luoghi di ristoro, un campeggio, un ci-nema e zone di incontro per chi desidera approfondire l’argomento della musica intesa come professione. Inol-tre, grande novità di quest’anno è un enorme ristorante che serve piatti tipici della cucina veneta, e un servizio di gommoni che permetterà, a chi lo desidera, di raggiunge-re Venezia via acqua.

Si comincia dunque il 3 luglio con gli Aerosmith, tra gli artisti più celebri di tutta la storia del rock, che hanno in-fluenzato gran parte della musica degli anni settanta e ot-tanta, contribuendo allo sviluppo di diversi generi tra cui il metal e l’hard rock. La serata procede con i Cranberries:

irlandesi, nati nel 1990, propongono fin dai primi anni un sound pop rock molto particolare. Vengono scoperti da un’etichetta indipendente, la Xeric Records, che permet-te ai quattro musicisti di registrare il primo demo. È l’ini-zio di un grande successo, che li porta a vendere in tutto il mondo più di cinquanta milioni di dischi. Dopo un silen-zio che durava dal 2003, nel 2009 la band annuncia il pro-prio ritorno con un nuovo tour e brani inediti. È poi la

volta dei gallesi Stereophonics, che rappresen-tano una delle band più importanti nel panora-ma della scena rock alternativa mondiale, e dei Plan de fuga, gruppo che muove i primi pas-si a Brescia nel 2005, suonando dal vivo i pro-pri prezzi originali; ed è del 2009 il loro primo

album, In a Minute, tra contaminazioni pop, funk e dark.Il 4 luglio sul palco dell’Heineken approdano i Green

Day, considerati la band punk-rock migliore del momen-to. Il loro merito più grande è forse la capacità di rilancia-re in chiave pop la musica punk, rendendola commestibi-le anche a chi non mastica Ramones, Clash e Sex Pistols.

A seguire, i 30 Seconds to Mars, fondati nel 1998 da Ja-red Leto (voce e chitarra) e da suo fratello Shannon (bat-teria). Si tratta di una cult band dalle atmosfere cupe co-me la notte, voci passionali e sound intenso e corposo. Si continua con gli Editors, la risposta inglese alle atmosfe-re dark dei newyorkesi Interpol, con i Rise Against, band hardcore punk in grado di imporsi in poco tempo sulla scena mondiale, e con i Bastard Sons of Dioniso, forma-zione punk rock italiana che raggiunge la notorietà nel 2009 grazie al talent show «X Factor».

Il 5 luglio approdano all’Heineken i Black Eyed Peas, band formatasi a Los Angeles nel 1998 con ricette a ba-se di breakdancing e rime, e divenuta in breve tempo for-mazione in grado di raggiungere incassi da record. A se-guire i Massive Attack e il loro sound ipnotico che na-sce dalla fusione di dub, elettronica e atmosfere dark, i Cypress Hill, gruppo hip hop statunitense, considerato tra i pilastri del latin rap e del rap-rock, i N.E.R.D., la cui pronuncia esatta è «en ii ar dii» e le cui sonorità sono un po’ rock ma anche hip hop e soul, i Club Dogo, gruppo

L’Heineken Jammin’ Festival torna a Venezia

MestreParco San Giuliano

dal 3 al 6 luglio

52 — l’altra musical’a

ltra

mus

ica

metropolitano attivo a Milano fin dagli anni novanta, che ha fatto dell’hip hop la propria bandiera, e Airys che altro non è se non Syria «allo specchio», un progetto con cui la cantante romana si rilancia sul palcoscenico della musi-ca italiana e non solo.

Il 6 luglio aprono i Pearl Jam, gruppo imprescindibile del movimento grunge insieme a Nirvana, Soundgarden e Alice in Chains. La loro evoluzione degli ultimi anni li porta a un rock più morbido in cui si possono ancora ri-conoscere alcuni tratti dei vecchi dischi. Si prosegue con

Ben Harper, cantante e polistrumentista, vero e proprio genio nel mescolare pop, rock, funk, blues, reggae e folk. Nel 2008 l’idea di fondare i Relentless Seven insieme a Ja-son Mozersky (chitarra solista), Jesse Ingalls (basso e ta-stiere) e Jordan Richardson (batteria), con i quali salirà sul palco del festival veneziano. Sarà quindi la volta degli Skunk Anansie, uno dei gruppi più viscerali e controver-si degli ultimi anni. La serata prosegue con i Gossip, trio americano formatosi in Arkansas nel 1999 dall’incontro tra la cantante Beth Ditto, il chitarrista Brace Paine e la batterista Kathy Mendonca: un cocktail esplosivo otte-nuto da un mix di ingredienti tra cui il punk, il funk e la

dance. A seguire, la band indie-rock dei Gomez.A esibirsi durante questa nuova e attesissima edizione

dell’Heineken, anche le trenta band vincitrici del concor-so «Contest», selezione curata da Rock Tv, che porta sui due palchi del San Giuliano i migliori gruppi emergenti italiani, offrendo loro l’opportunità di farsi conoscere a livello internazionale.

E se dal 7 al 9 luglio il parco rimarrà chiuso al pubblico per ragioni di sicurezza (in quanto tutte le strutture del festival resteranno montate), il 10 riaprirà i cancelli per un

ultimo appuntamento in musica: l’Electro Venice Festi-val, una giornata intera dedicata a sedici tra i migliori dj del mondo, dal duo belga 2Many Djs al tedesco Richie Haw-tin, dal brasiliano Gui Boratto allo statunitense Steve Aoki, agli italiani Bloody Beetrots e Marco Carola. (i.p.) ◼

A fronte: a sinistra, Green Day (divertimentitalia.com); a destra, Skunk Anansie (elaborazione grafica da lastfm.it).

Sopra: a sinistra, Cranberries (testigratis.com);a destra, Black Eye Peas (video-musicali.com).

Sotto, a sinistra Aerosmith (wordpress.com);a destra, 30 Seconds to Mars (inforo.com).

l’altra musica — 53

l’altr

a m

usica

«ti assicuro, guaLtiero, anni così non pensavo proprio che sarebbero arrivati. Nel nostro me-stiere ci sono alti e bassi, come tu sai, ma così…

Praticamente ho tirato avanti, da dieci anni a ‘sta parte, con i diritti di una canzone…». Era un Gino Paoli inter-detto, più che preoccupato, quello che mi parlava in quel mese di dicembre del 1981.

L’avevo invitato a tenere un concerto a Dolo, all’inter-no di una rassegna organizzata da Mira, Dolo e Fiesso, il prologo di quella che sarebbe stata la collaborazione tra tutti i Comuni della Riviera del Brenta in quella stagione ricca di creatività culturale. È arrivato con il suo pianista; un Paoli intimo, ricordava quello dei maglioni neri e de-gli occhiali scuri degli anni sessanta.

«Ho vissuto – continuava – con la SIAE di “Sapore di sale”. Meno male che ci hanno fatto i film!»

Erano gli anni in cui Gianni Moranti si era ritirato a stu-diare il contrabbasso, Dalla scriveva cose bellissime con i testi del poeta Roversi, ma vendeva poco, e i nomi nuo-vi erano Guccini, De Gregori, Venditti oppure Area, PFM, Banco e così via.

Soltanto tre anni dopo Paoli riesplodeva: gira-va con un’orchestra, luci, suoni, tutto in gran-de, anche il prezzo, e mentre Dalla, do-po il successo di «Banana Republic», si preparava a fare il bis con il riesu-mato Morandi, Canzonieri vari riponevano le chitarre e l’Ita-lia riprendeva la sua strada dopo la tormentata stagione delle canzoni contro. Riflusso??

È di quel periodo l’invenzione di una frase che di primo acchito non capivo bene cosa volesse dire in concre-to, ma che mi ha aggiustato «ideologica-

mente»: «Il personale è politico», dove per «personale» non si intendono le maestranze di un’azienda, che ci sa-remmo ritrovati nel più ovvio pan-sindacalismo, ma le proprie esigenze personali, i sentimenti, le speranze, gli obiettivi anche se disgiunti dal sol dell’avvenire. Sembra poco, sembra ovvio, ma mica tanto, almeno a quei tem-pi, per quelli come me!

non ho mai amato molto Milano e men che meno la Mi-lano uggiosa dell’inverno. Ma in quei primi di febbraio del ‘95 avevo una buonissima ragione per soprassedere ed essere moderatamente soddisfatto di esserci. Si sposa-va Emanuele – un mio carissimo amico divenuto poi col-lega – con Donatella, e per gli amici, circa duecento, ave-va affittato il circolo ARCI di Sesto Marelli. Ci arrivai con tre colleghi di Venezia e subito fummo coinvolti in una bagarre dal sapore antico. Bicchieri di vino, panini e al-tro, musica: un gruppo improvvisato di amici che armeg-giava attorno ad amplificatori, chitarre, tastiere.

Dopo circa un’ora di chiacchiere e canti a squarciagola, un chitarrista che aveva appena finito di clonare gli Inti Illimani mi chiama e mi chiede di cantare «Nina». Ade-risco, lo faccio, più o meno silenzio, applausi commossi, torno dagli amici.

Si avvicina un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni, al-to, barbuto, che, in un italiano eccellente, benché secon-da o terza lingua, mi chiede: «Sei Gualtiero Bertelli? – e al mio cenno – L’avrei giurato. Stavo parlando quando hai incominciato a cantare e mi son detto: ma questa vo-ce? è lui!!!»

Poi, rendendosi conto del mio interdetto stupore, ha continuato: «Sono di Bratislava, vivo e insegno in Italia e sono uno scrittore. Mi chiamo Alf Schneditz e ho scritto racconti e romanzi sia in tedesco che in italiano. Nel 1972 un amico mi ha regalato una cassetta di canzoni italiane registrate durante dei concerti a Salisburgo. Tra le altre c’era “Nina”. La melodia e la tua voce mi hanno preso. Non capivo nulla del testo e a me sembrava una ninna-nanna e così l’ho cantata, con una lingua che ti lascio im-maginare, a mia figlia che era appena nata e che è cresciu-ta con la tua canzone. Quando poi sono venuto in Italia mi hanno spiegato cosa diceva il canto e chi la cantava. Ecco perché poco fa ho riconosciuto subito la tua voce ed ho provato una grande emozione» e via con ringrazia-menti di cui, davvero, non avevo alcun merito.

È incredibile come una canzone, nata così, a volte per caso, a volte per ispirazione, ma forse sono la stessa co-

sa, possa determinare l’immagine di una persona, caratterizzare in modi diversi la sua vita, a volte

determinarne una svolta imprevedibile.

non avrei mai pensato, quel giorno di febbraio del 1966, che quel foglio di

quaderno con le righe di quinta che si stava riempiendo rapidamente di

versi e di strofe sarebbe diventa-to la «mia» canzone.

Prudentemente appog-giato sul tavolino a tre zampe del nostro salotto

«all’inglese», nella mia casa di famiglia alla Giudecca, scrivevo

rapidamente, come sotto dettatura (e vedevo scorrere davanti ai miei oc-

Ma sono solo canzonette?La vera storia di «Nina»

di Gualtiero Bertelli

54 — l’altra musical’a

ltra

mus

ica

chi dieci, venti visi come in un film), le parole di «Dopo sie ani» divenuta poi «Nina ti te ricordi».

La cantai la sera stessa a Luisa Ronchini. «Sì… bella…però è una canzone d’amore…» Come tutte quelle che affioravano dalla ricerca e che tanto ci facevano invidia-re i bei repertori di monda o di filanda dell’Emilia e della Lombardia così espliciti, così «di lotta». Possibile che in questa regione di preti e suore, pensavamo, non ci sia sta-to il benché minimo rigurgito non dico rivoluzionario, ma almeno protestatario!

Luisa si consolava con il repertorio anarchico che ave-va raccolto da una preziosa registrazione con Armando Borghi, l’ultimo dei grandi anarchici tra Otto e Novecen-to, ma restava l’amaro in bocca per non aver anche noi un bel repertorio battagliero da proporre. Per questo grande fu la soddisfazione quando emersero «Povere filandine» da una registrazione di Maddalena Lucco, e «Semo tu-te impiraresse» mutuata da varie regi-strazioni incomplete, fino a quella ef-fettuata con Bianca Medici, divenuta poi l’edizione di riferimento.

Quindi si spiega la disillusione di Luisa e il mio imbarazzo a eseguire quella canzone. Piegai il foglietto, lo riposi in tasca con l’idea di lasciarlo lì sepolto a lungo.

Dal 4 marzo al 1 aprile a Milano, nel teatro della Società Umanitaria, si te-neva la seconda rassegna organizzata dal Nuovo Canzoniere Italiano e de-nominata «L’altra Italia». Presentava concerti e spettacoli sui temi più di-versi. Quell’anno i titoli furono cin-que: «La canzone popolare narrativa. Prova di concerto numero uno» a cu-ra di Roberto Leydi e Franco Coggiola (l’ultimo lavoro di Leydi con il NCI), «La opposizione. Trenta canzoni per la resistenza di sempre» a cura di Michele L. Stranie-ro, «Altri vent’anni. La protesta» a cura di Cesare Berma-ni e Ivan Della Mea, «Piadena, un paese della pianura pa-dana» a cura della Biblioteca popolare di Piadena, e infi-ne «Gorizia. Ricerca di un linguaggio e di dimensioni te-atrali» a cura di Paola Boccardo e Tullio Savi con la re-gia di Virgilio Puecher. Luisa Ronchini, Alberto D’Ami-co ed io, cioè il Canzoniere Popolare Veneto, prendem-mo parte allo spettacolo «Gorizia» mentre io partecipai anche ad «Altri vent’anni» che ragionava sul dopoguerra attraverso le canzoni della lotta popolare, in particolare braccianti e mondine, e dei nuovi autori, e in quel caso ol-tre a Ivan e a me c’era anche Fausto Amodei.

Dopo una prima parte strutturata ci fu un epilogo libe-ro, dove ognuno poteva eseguire ciò che più lo rappre-sentava in quel momento. Mentre mi interrogavo sul che fare Fausto ci sorprese con una canzone d’amore. In un attimo mi sentii libero di tirare fuori il foglietto che pru-dentemente mi ero infilato nel taschino della camicia, ri-porlo sul leggio e intonare con qualche patema «Nina».

L’applauso del pubblico assiepato fu davvero sorpren-dente, lungo e convinto. Leydi esclamò «Questa è la nuo-va canzone popolare» (me l’hanno riportato perché io ero in totale confusione) e Sandra Mantovani mi chiese im-mediatamente il testo che io non potevo fornirle sedu-ta stante in quanto era scritto a mano in copia unica. Ho pensato più volte: «E se quella copia l’avessi persa?»

«nina» si è diffusa con una rapidità incredibile. L’ho in-cisa un anno dopo in un 45 giri della Linea Rossa, con mio fratello Tiziano, distribuito in un numero limitatis-simo di copie e soltanto nel 1978 ha avuto lo spazio di un LP, eppure ovunque era già nota e cantata, è finita in va-rie raccolte di canzoni da eseguire in coro, comprese al-cune pubblicazioni dei boys scout, ha avuto un numero imprecisato di incisioni, prime tra tutte quella di Giovan-na Marini e di Maria Monti.

La cosa sorprendente è che ovunque la cantassi, alla ter-za sillaba scattava l’applauso del pubblico. Anche a Pari-gi, a Vienna, a Salisburgo. Certo in quel periodo si girava molto e c’erano ovunque giovani italiani, ma non solo, vi-sta la storia di Alf Schneditz sopra raccontata.

Ho ricevuto decine di testimonianze di incontri propi-ziati dalle note dolenti di quel valzerone e una signora mi ha inviato per e-mail la registrazione dell’esecuzione che i

suoi due figli, entrambi attorno ai die-ci anni di età, le hanno regalato per il suo compleanno.

Dopo la ripresa che ne hanno fatto nel cd Il fischio del vapore Francesco De Gregori e Giovanna Marini, l’interes-se per Nina si è rinvigorito con esecu-zioni che spaziano dalla musica antica alla salsa, non sempre con esiti illumi-nanti, ma quanto meno curiosi.

Me la son sentita spacciare per au-tentico canto popolare vecchio di chissà quanti anni e per molti sono di-ventato «Quello di Nina». Non mi so-no mantenuto con i proventi dei dirit-ti d’autore, questo no, ma d’altra par-te nessuno ci ha ancora fatto un film sopra! Chissà.

Eppure se mi chiedessero qual è la più bella canzone che ho scritto farei fatica a decidere, ma non penserei a «Nina»; per i miei canoni musicali e poetici non è «la più bella».

Ma che cosa vuol dire «la più bella»? Eppoi sono le canzoni «più belle» quelle che hanno suc-

cesso? Faccio fatica a crederlo con gli esempi che corrono.E allora perché Nina sì e altre dieci altrettanto amare,

altrettanto poetiche, altrettanto «vere» invece no?Sono domande alle quali ancora non so dare risposta.

Mi sfugge l’insieme delle concause che determinano la dimensione di certi successi, anche perché da «Nel blu di-pinto di blu» a «Vamos a la playa» ne corre di strada. So-no riflessioni che lascio volentieri ai sociologi della musi-ca e della canzone.

Quello che però non avrei mai potuto immagina-re quarantaquattro anni fa, in un pomeriggio d’in-verno, alla vigilia del mio ventiduesimo comple-anno è che oggi, all’alba del terzo millennio, do-po aver ascoltato ciò che stava uscendo da quelle ri-ghe, un giovane mi avrebbe detto: «Bella quella can-zone, sembra fatta ieri. Per noi è ancora tutto vero». ◼

Alla pagina fronte, in alto, da sinistra: Tiziano e Gualtiero Bertellicantano «Nina» nel 1967 (Venezia, Ca’ Giustinian);

sotto: copertina del 45 giri «Nina» (1967).

Sopra: copertina del cd delDizionario della canzone Italiana

di Enzo Arbore con «Nina».

l’altra musica — 55

l’altr

a m

usica