4.2 Il Problema Del Significato.

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4 LA SVOLTA LINGUISTICA. 4.2 IL PROBLEMA DEL SIGNIFICATO: W.V. QUINE Il problema del significato nasce appunto con la svolta linguistica, accennata nel paragrafo su Wittgenstein. W. V. Quine (1908 – 2000) rappresenta il nucleo del pensiero della tradizione analitica, di cui Wittgenstein stesso fa parte (perlomeno in forma originale). Per Quine, che svolge la sua filosofia sotto l’influsso della svolta linguistica, lo scopo della speculazione intellettuale deve essere quello di fornire alla scienza (ed in questa accezione per scienza intendiamo la fisica, la matematica, la logica formale) uno strumento linguistico capace di far progredire la conoscenza. La filosofia, così vista, non è più “ ancilla theologiae”, concezione di cui la scolastica si è fatta portavoce per secoli, bensì “ ancilla scientiae”, considerazione sviluppata durante tutto il novecento. No alle proposizioni. Una delle colonne portanti del pensiero di Quine è l’eliminazione delle cosiddette “proposizioni” mentali. Secondo Quine la proposizione è il contenuto mentale non ancora linguisticamente determinato, lo stesso che sarà susseguentemente configurato nella frase (sia espressa sensibilmente mediante parole, sia in essere esclusivamente come pensiero). L’eliminazione della “ propositiosarebbe conseguenza della non-identità della stessa. Il criterio di identità dei contenuti mentali nella filosofia della logica è un criterio fondamentale per la consistenza del sistema logico. Senza un chiaro criterio che discerne ciò che costituisce una proposizione da un’altra, non è possibile ammettere l’esistenza (seppur come esistenza di ragione) di tale contenuto mentale. Le proposizioni sarebbero quindi quei contenuti completamente immateriali postulati dalla logica tradizionale (prima in Aristotele e poi nel medioevo) che in ultima analisi, per Quine, non caratterizzano nessuna funzione logica, e quindi sono da eliminare. In questo senso Quine considera la nozione di “proposizione” come qualcosa che sta alla base, che sta “dietro” la frase, qualcosa che precede la determinazione linguistica. Per esemplificare il tutto utilizziamo un simpatico esempio dello stesso Quine: le proposizioni sono così non identificabili come gli elefanti invisibili in quest’aula. Quine si domanda: «Quanti elefanti invisibili ci sono in quest’aula?» e la risposta ovviamente è ignota, perché gli elefanti invisibili non soddisfano il criterio di identità. Siccome le proposizioni non sono quantificabili, è meglio lasciarle fuori del sistema logico 1 . L’eliminazione delle proposizioni serve per snellire l’apparato del sistema 1 L’eliminazione delle proposizioni viene sviluppata da Quine nel suo libro più importante, Word and Object, MIT Press, Cambridge, Massachusetts 1960/1990 17 , capitolo 6 (“Flight from Intension”, pp. 191 ss.). Cf. Philip LARREY, Quine’s Quest for Ontology, LUP, Roma 2011, pp. 85 ss. 1

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4 LA SVOLTA LINGUISTICA.

4.2 IL PROBLEMA DEL SIGNIFICATO: W.V. QUINE

Il problema del significato nasce appunto con la svolta linguistica, accennata nel paragrafo su Wittgenstein. W. V. Quine (1908 – 2000) rappresenta il nucleo del pensiero della tradizione analitica, di cui Wittgenstein stesso fa parte (perlomeno in forma originale). Per Quine, che svolge la sua filosofia sotto l’influsso della svolta linguistica, lo scopo della speculazione intellettuale deve essere quello di fornire alla scienza (ed in questa accezione per scienza intendiamo la fisica, la matematica, la logica formale) uno strumento linguistico capace di far progredire la conoscenza. La filosofia, così vista, non è più “ancilla theologiae”, concezione di cui la scolastica si è fatta portavoce per secoli, bensì “ancilla scientiae”, considerazione sviluppata durante tutto il novecento.No alle proposizioni.Una delle colonne portanti del pensiero di Quine è l’eliminazione delle cosiddette “proposizioni” mentali. Secondo Quine la proposizione è il contenuto mentale non ancora linguisticamente determinato, lo stesso che sarà susseguentemente configurato nella frase (sia espressa sensibilmente mediante parole, sia in essere esclusivamente come pensiero). L’eliminazione della “propositio” sarebbe conseguenza della non-identità della stessa. Il criterio di identità dei contenuti mentali nella filosofia della logica è un criterio fondamentale per la consistenza del sistema logico. Senza un chiaro criterio che discerne ciò che costituisce una proposizione da un’altra, non è possibile ammettere l’esistenza (seppur come esistenza di ragione) di tale contenuto mentale. Le proposizioni sarebbero quindi quei contenuti completamente immateriali postulati dalla logica tradizionale (prima in Aristotele e poi nel medioevo) che in ultima analisi, per Quine, non caratterizzano nessuna funzione logica, e quindi sono da eliminare. In questo senso Quine considera la nozione di “proposizione” come qualcosa che sta alla base, che sta “dietro” la frase, qualcosa che precede la determinazione linguistica. Per esemplificare il tutto utilizziamo un simpatico esempio dello stesso Quine: le proposizioni sono così non identificabili come gli elefanti invisibili in quest’aula. Quine si domanda: «Quanti elefanti invisibili ci sono in quest’aula?» e la risposta ovviamente è ignota, perché gli elefanti invisibili non soddisfano il criterio di identità. Siccome le proposizioni non sono quantificabili, è meglio lasciarle fuori del sistema logico1. L’eliminazione delle proposizioni serve per snellire l’apparato del sistema

1 L’eliminazione delle proposizioni viene sviluppata da Quine nel suo libro più importante, Word and Object, MIT Press, Cambridge, Massachusetts 1960/199017, capitolo 6 (“Flight from Intension”, pp. 191 ss.). Cf. Philip LARREY, Quine’s Quest for Ontology, LUP, Roma 2011, pp. 85 ss.

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mentale, giacché la non identità di questi enti mentali rende le stesse proposizioni “oscure”, e quindi inutili dal punto di vista logico.Nella tradizione aristotelico-tomista la funzione delle proposizioni è importante: sono le proposizioni i “veicoli di verità”. Difatti, all’interno della teoria della “adequatio” che cerca di descrivere il significato del predicato di verità (“è vero che…”), è la proposizione che determina se esiste conformità fra l’intelletto e la cosa reale. Sicché, eliminando la proposizione come ente mentale significativo si lascia un vuoto cruciale nella teoria quineana di verità (come si vedrà più avanti). Senza la “propositio”, Quine converte nella “frase” nel senso di un “contenuto linguisticamente determinabile”. Il vantaggio di cui gode la frase sulla proposizione è che la sua identità risulta incontrovertibile: ciò che distingue una frase da un’altra è precisamente la sua formulazione linguistica. È evidente a tutti quando c’è una frase anziché un’altra, e quindi il bagaglio logico del sistema formale risulta più leggero e trasparente (caratteristiche tipiche dei meta-linguaggi dei sistemi formali). Per Quine il significato del predicato di verità viene determinato dalle frasi, ossia dal linguaggio, sempre in riferimento al mondo esterno. «Questa salita ad un piano linguistico di riferimento è soltanto un ritiro momentaneo dal mondo, perché l’utilità del predicato di verità è precisamente la cancellazione del riferimento linguistico. Il predicato di verità ci ricorda che, nonostante la salita tecnica a parlare delle frasi (sentences), il nostro occhio mira al mondo»2. I veicoli di verità sono le frasi individuate secondo il linguaggio, qualunque esso sia. Verso una logica puramente estensionale.Oltre alla riduzione dei contenuti mentali a ciò che è determinato linguisticamente, Quine vuole eliminare anche tutti i contesti intensionali, cioè tutti i contesti in cui il riferimento oggettivo, a causa della sua dipendenza dagli stati mentali interni al soggetto (essendo non-determinabile per mezzo delle operazioni logiche), risulta opaco, poco chiaro e assai poco trasparente. A riguardo, l’esempio più famoso di Quine è quello che richiama la differenza fra la frase “Tullio scrisse l’Ars Magna” e “Tom crede che Tullio scrisse l’Ars Magna”. La prima frase (anche se falsa) rappresenta un contesto logico chiaro, dove il significato dei termini e il loro riferimento sono chiari; la seconda frase rappresenta invece un contesto logico opaco perché il riferimento (chi scrisse l’Ars Magna) dipende dal contesto intensionale di Tom: da ciò che Tom crede. Di fatto, Raimondo Lullo è l’autore dell’opera (uno dei trattati di logica più importanti del medioevo). Orbene, Tom, sbagliando, crede che Tullio = Lullo, mentre di fatto Tullio = Cicerone. Per di più Quine mostra come nella frase che coinvolge lo stato intensionale di Tom, sostituendo la parola “Cicerone” con la parola “Tullio”, codesta diventa falsa. Tom sa che Cicerone non ha scritto l’Ars Magna, ma crede che Tullio è uguale a Lullo3.

2 W.V. QUINE, Philosophy of Logic, Harvard University Press, Massachusetts 1970, 12.3 Cf. Roger GIBSON, Quintessence. Basic Readings from the Philosophy of W.V. Quine, Harvard University Press, Massachusetts 2004, 103 ss.2

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Quando la verità della frase è dipendente dallo stato intensionale del soggetto abbiamo un contesto logico opaco in cui i veicoli di verità non sono corretti. Lo stesso risultato si ottiene con tutti i verbi intensionali (che Bertrand Russell chiama propositional attitudes; ovvero: atteggiamenti o abitudini proposizionali) e che includono contesti introdotti con verbi come dubitare, sperare, sforzarsi e, appunto, credere. Il criterio di verità in questi casi manca perché il riferimento parte da ciò che pensa il soggetto; è quindi impossibile determinare con chiarezza il riferimento ontologico della proposizione (anche se è sempre possibile domandare all’individuo ciò che pensa). Orbene, mentre nella prima frase tutti gli elementi sono pienamente formalizzabili e la verità è a tutti gli effetti perseguibile (di fatto, non essendo vero che è Tullio l’autore dell’Ars Magna la frase risulta essere falsa), nel secondo caso l’atteggiamento proposizionale di Tom non è più formalizzabile e la verità della frase non è determinabile. Questo esempio serve soltanto per far emergere il tentativo di Quine di utilizzare una logica puramente estensionale, cioè, di una logica che non ammette i contesti intensionali. Tale logica è più semplice rispetto ad una logica che è essa stessa sia estensionale che intensionale (e quindi consistentemente più pregnante); oltremodo, siffatta logica a carattere puramente estensionale è più efficace e pratica di una logica dal carattere intensionale. Durante tutto il Novecento la discussione sulla convenienza di una logica puramente estensionale si sviluppò, con toni anche accessi, nei pensieri della stramaggioranza dei più illustri filosofi analitici, fino a rintracciare il picco più alto nei pensieri di Donald Davidson e Saul Kripke. Ciononostante, Quine dedicò tutta la vita a sviluppare una logica estensionale al fine di preservare la semplicità e la trasparenza dei contesti logici. I punti cardini della pura estensionalità sono: la differenza tra predicati de dicto e quelli de re (appunto la differenza tra linguaggi naturali e il meta-linguaggio); il concetto di necessità (che soltanto si può dire del linguaggio e non delle cose ontologicamente esistenti); la logica modale (che per Quine introduce contesti opachi nelle formule); il quantificatore esistenziale (che si riferisce alla nozione di “esistere” in senso strettamente univoco); la sostituzione delle variabili con oggetti esistenti; il problema delle classi.

Gli schemi concettuali.La base della filosofia quineana (non senza polemiche) si forma a partire della critica fatta all’empirismo nel suo famoso saggio, I due dogmi dell’empirismo, uno scritto giovane del filosofo americano che ha segnato il suo prestigio come pensatore 4. In questo saggio Quine afferma che l’empirismo è la tradizione all’interno della quale ragiona buona parte dei filosofi analitici, tipicamente tedeschi, britannici ed americani. Tale tradizione è stata vittima di due nozioni nocive per la filosofia, appunto la distinzione (kantiana) fra le asserzioni analitiche e le asserzioni sintetiche, e il riduzionismo.4 Cf. W.V. QUINE, From a Logical Point of View, Harvard University Press, Massachusetts 1953/19803, è il secondo saggio del volume; tr. it., Da un punto di vista logico, Raffaello Cortina editore, Milano 2004, 35-65.

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Il primo dogma (nozione, cioè, da estirpare dall’empirismo) è quello della netta distinzione tra le asserzioni analitiche e quelle sintetiche. La prima parte del saggio è uno scrutinio pressoché esaustivo del concetto di “analiticità”, dove Quine prende in considerazione vari modi di considerare la base delle asserzioni analitiche. Una frase analitica sarebbe quella in cui la verità della frase dipende esclusivamente dal significato dei termini, e non dello stato delle cose reali. Il famoso esempio quineano è: “tutti gli scapoli sono uomini non sposati”. Qui, dice Quine, non c’è bisogno di guardare il mondo reale per vedere se la frase è vera o meno. Sappiamo che la frase è vera in virtù del significato delle parole “scapoli” e “uomini non sposati”, che sono sinonimi (uguali per definizione). Questo è un tipico esempio di un’asserzione completamente analitica. Quine, nell’opera sopracitata, offre diversi altri esempi.Il nodo essenziale di questa prima parte cerca di dimostrare che la nozione di analiticità, che starebbe alla base delle asserzioni analitiche, concretamente parlando non fonda niente poiché necessita di spiegare in tutti i modi possibili ciò che significa “analitico”. In altre parole, ogni tentativo impiegato da Quine per rilevare il significato di analitico, mostra che la stessa nozione deve essere supposta per rendere comprensivo ciò che si vuole spiegare. E quando si deve supporre ciò che si cerca di dimostrare, il risultato infrange un principio basico della logica (classicamente chiamato petitio principii). A questo punto Quine afferma che non si può parlare di asserzioni prettamente analitiche, e quindi non esiste una distinzione netta fra le asserzioni analitiche e quelle sintetiche.La seconda parte del saggio tratta il tema del riduzionismo come il secondo dogma dell’empirismo di cui faremmo bene a prescindere nella filosofia della logica. La nozione risale ai grandi della tradizione empirista (John Locke, George Berkeley e David Hume) i quali sostenevano che le idee si potevano dividere fra quelle semplici e quelle complesse. Le idee semplici (o atomiche) erano quelle derivate direttamente dalla esperienza empirica, e prendevano il loro contenuto empirico dal mondo esterno su un rapporto 1:1 (uno ad uno, one to one); ovvero, erano idee che mostravano una verificabilità diretta ed immediata. Nella tradizione empirista, infatti, il criterio di verificabilità determina la giustificazione delle asserzioni fondate, a differenza di quelle non fondate, quelle in cui manca la verificabilità. Le idee complesse erano invece quelle composte dal commisto di due o più idee semplici, e che quindi possedevano il loro contenuto empirico soltanto indirettamente, di riflesso, dalle idee semplici. Il punto cardine del riduzionismo sottostà al rapporto fra i due tipi di idee: se tutte le idee complesse sono riducibili a quelle semplici, allora il rapporto fra il contenuto empirico (del mondo esterno) e le nozioni mentali consiste nella verificabilità di tutte le idee, riducendole a quelle semplici. Il riduzionismo diventa così il secondo dogma che ha impedito (secondo Quine) all’empirismo di progredire e poter spiegare adeguatamente come l’intelletto realizza la vera scienza.A tal proposito, la soluzione proposta da Quine si chiama “olismo”, che viene dalla parola inglese “holism”: un approccio che si concentra sull’intero (the whole), dell’insieme. Abbandonando sia la distinzione fra asserzioni analitiche e sintetiche, e 4

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abbandonando il riduzionismo, Quine ci colloca di fronte alla necessità di concepire il rapporto fra i contenuti mentali e il mondo esterno olisticamente, dove la verificabilità di tutte le asserzioni dipende dall’intero sistema e non dal rapporto precedentemente descritto del one to one. Ogni “sistema” diventa così il cosiddetto “schema concettuale” (conceptual scheme). Di più, tale schema concettuale fornisce il criterio di significatività (e di riflesso veracità) delle idee e quindi delle asserzioni, dove il rapporto con il mondo reale viene imposto in grande parte dallo stesso schema e non dall’esperienza diretta. Siccome poi, ogni schema concettuale determina il significato dei contenuti mentali, due schemi concettuali risultano a tutti gli effetti incommensurabili, precisamente perché una parola/asserzione in uno schema ha un significato diverso dalla stessa parola/asserzione in un altro schema concettuale. La nozione degli schemi concettuali diventa di moda durante la seconda parte del Novecento, e traslittera in nozioni quali “cornice concettuale” (Wilfrid Sellars)5, “visione del mondo” (world view)6, e forse la nozione più celebre, “paradigma” (Thomas Kuhn)7. Il più radicale esponente dell’impostazione dei schemi concettuali è appunto Kuhn, che afferma che lo stesso “mondo” dipende dal paradigma che si usa, tanto che dopo un cambiamento di paradigma (paradigm shift) il mondo cambia. L’esempio più noto di Kuhn è la differenza dei mondi prima e dopo la rivoluzione copernicana in astronomia: non soltanto abbiamo due teorie differenti, quella geocentrica e quella eliocentrica, ma il mondo eliocentrico di Copernico era differente dal mondo geocentrico. Per Quine, l’inconmensurabilità degli schemi concettuali conduce a ciò che egli stesso definisce “relatività ontologica”8, dove “ciò che è” dipende dallo schema concettuale funzionante e di riferimento. La forza della posizione quineana si intravede nella scienza contemporanea, soprattutto la fisica teoretica, in cui gli oggetti reali (quali quarks, bosons, bucchi neri, lo stesso atomo) dipendono dalla teoria scientifica sposata. In questo senso, veramente “ciò che è”, ciò che esiste nella realtà, è dipendente dal modo in cui lo scienziato approccia il reale. Dall’altra parte, è evidente che ciò che esiste non dipende da quanto diciamo o pensiamo; ma Quine parla di oggetti speciali, spesso fondanti per la fisica, per cui appunto la verificabilità di tali oggetti avviene soltanto attraverso l’insieme della teoria, l’intero dello schema concettuale.Donald Davidson, discepolo prediletto di Quine, riprende il discorso sugli schemi concettuali, con un senso critico (cf. 4.3).Indeterminatezza.In conclusione, Quine postula che il significato dei termini è, tutto sommato, indeterminato. Con questo vuol dire non che il significato non ci sia, ma che i

5 Cf. Wilfrid SELLARS, Science, Perception and Reality, Ridgeview Publishing, California 1963/1991.6 Cf. David K. NAUGLE, Worldview. The History of a Concept, Eerdmans Press, Michigan 2002.7 Cf. Thomas KUHN, The Structure of Scientific Revolutions, Univ. of Chicago Press, Chicago 20124. Questa edizione vuole essere una pubblicazione per commemorare l’anniversario della prima pubblicazione del famoso libro di Kuhn, avvenuta 50 anni prima.8 Cf. W.V. QUINE, Ontological Relativity and Other Essays, Columbia Univ. Press, New York, 1969.5

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significati sono derivati dal contenuto empirico in modo indeterminato. L’esempio celebre che impiega è quello di Gavagai. Quine ci fa immaginare che siamo antropologi inviati in una terra lontana ed incontaminata abitata da un popolo sconosciuto. Gli “indigeni” che abitano questa terra parlano un linguaggio di cui noi non sappiamo nulla. Il nostro dovere è di creare un dizionario efficace che traduce il linguaggio nativo col nostro linguaggio (nel caso di Quine, l’inglese). In base all’osservazione dobbiamo scoprire ciò che significa quando gli indigeni emettono suoni che, almeno all’apparenza, ci fanno pensare che sono segni intersoggettivi al fine della comunicazione (linguaggio). Vedendo correre davanti a noi un coniglio, il nativo dice “Gavagai”, segnalando l’animale. A questo punto, scriviamo nel nostro dizionario, “gavagai = coniglio” e probabilmente avremo azzeccato il significato. Ma il punto è che un altro antropologo, davanti allo stesso episodio, forse scrive “gavagai = componenti non slegati di coniglio”, avendo sperimentato a cena che il piatto che lui conosceva come “spezzatino di coniglio” viene chiamato dai nativi in termini completamente differenti, dove “coniglio” non c’entra affatto. L’esempio può sembrare bizzarro e lo stesso Quine lo ammette: lui stesso afferma che il binomio “gavagai = coniglio” probabilmente funzionerà, e così impareremo la lingua degli indigeni; ma il punto è che tale traduzione non è determinabile in base all’esperienza. Per di più, diversi antropologi producono dizionari molto diversi, pur essendo tutti e due dizionari efficaci. Se i significati fossero determinati, fissi una volta per sempre (nel senso di Hilary Putnam, §5.4), allora non ci sarebbe la possibilità che due antropologi traducessero diversamente. L’indeterminatezza della traduzione radicale è una conseguenza dell’impostazione dello schema concettuale, visto che i significati all’interno di uno schema sono diversi rispetto agli altri schemi. Insieme all’indeterminatezza, Quine afferma anche ciò che lui chiama l’inscrutabilità del riferimento, l’altra faccia della moneta. Nella classica distinzione fra comprensione ed estensione (“senso” e “riferimento” per gli analitici), la tesi sulla indeterminatezza del significato richiede addirittura l’inscrutabilità del rifermento, precisamente perché tutte e due dipendono dall’intero schema.Concludendo, possiamo vedere come Quine sviluppa la sua filosofia all’interno del modus operandi della tradizione empirista, correggendo però ciò che lui percepisce come “dogmi”, cioè, punti di vista ritenuti come veri ingiustificatamente. Egli vuole fornire alla scienza uno strumento linguistico adeguato per far progredire la conoscenza scientifica: il tipo migliore di conoscenza che abbiamo. Per cui, si colloca anche all’interno della svolta linguistica, dove i veri problemi della filosofia diventano problemi del linguaggio. Il suo sogno di una logica puramente estensionale non si realizzerà, a causa dei contributi offerti dai logici del Novecento (con lo sviluppo della logica formale e di quella intensionale). Infine, Quine promuove la nozione di schema concettuale per descrivere il rapporto fra la mente e il mondo: nozione che riceverà sostegni e critiche da parte dei filosofi che a lui si sono susseguiti per tutto il ventesimo secolo.

Philip Larrey

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