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Immaginate un cooperante che parte per la Nigeria sapendo già alla per- fezione youruba, inglese e pidgin, oltre a conoscere la geografia del paese, gli equilibri fra i diversi grup- pi etnici, la storia e i codici di comunicazione culturali. O un agro- nomo che avvia un commercio di prodotti agricoli in Ghana senza aver bisogno di imparare come funziona- no i mercati locali e l’economia informale. In Italia esiste una nuova cooperazione, ancora poco raccon- tata, ma sempre più attiva e propo- sitiva: quella promossa dagli immi- grati. A fare cooperazione allo svi- luppo infatti, oltre alle ong, sono sempre di più cooperative e asso- ciazioni formate da immigrati, spes- so in collaborazione con istituzioni locali italiane o organismi interna- zionali. Ma a prendere l’iniziativa sono anche singoli individui, che inventano progetti o attività impren- ditoriali con ricadute sociali nei pro- pri paesi d’origine. Ci sono immi- grati che lavorano all’interno delle ong. E altri che collaborano con il Ministero degli Affari esteri. Eppure la legge 49 sulla cooperazione inter- nazionale (che risale all’87) dice che gli immigrati extraeuropei, in Italia, non possono fare i cooperanti. Immigrati e ong Udo Enwereuzor, 50 anni, nigeriano, lavora nella sede di una ong italia- na, il Cospe di Firenze. Si occupa di politiche migratorie, integrazione, campagne di lotta al razzismo in Europa. «Prima di cominciare un progetto di sviluppo in un altro paese, e per far sì che funzioni, è indispensabile conoscere cultura e dinamiche sociali del posto dove si va a operare. Per sapere “chi è chi” in un determinato contesto possono volerci mesi. Avere un mediatore è di sicuro un vantaggio. Ong e istitu- zioni in Italia se ne stanno accor- gendo, apprezzano la capacità degli immigrati di muoversi fra ambienti culturali diversi. Su questo fronte sono più avanti gli enti territoriali, vale a dire regioni, province e comuni, che promuovono iniziative di cooperazione decentrata. Anche perché nel mondo delle ong c’è un problema da risolvere: la legge 49 non consente di utilizzare nei pro- getti finanziati dal Ministero degli Affari esteri personale non apparte- nente all’Unione europea, a meno che non si tratti di personale in loco». Anche per questo Enwereuzor, che ha una laurea in Sviluppo self made Conoscono perfettamente il paese di destinazione, la lingua, la situazione politica e le tensio- ni sociali. Sono gli immigrati, i nuovi protagonisti della cooperazione internazionale, che stan- no moltiplicando i progetti innovativi. Non senza problemi, come il vincolo della legge 49 che permette di fare i volontari solo agli europei. DI EMANUELA CITTERIO VpS aprile 2008 38 cooperazione

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Transcript of 38-41

Immaginate un cooperante che parte

per la Nigeria sapendo già alla per-

fezione youruba, inglese e pidgin,

oltre a conoscere la geografia del

paese, gli equilibri fra i diversi grup-

pi etnici, la storia e i codici di

comunicazione culturali. O un agro-

nomo che avvia un commercio di

prodotti agricoli in Ghana senza aver

bisogno di imparare come funziona-

no i mercati locali e l’economia

informale. In Italia esiste una nuova

cooperazione, ancora poco raccon-

tata, ma sempre più attiva e propo-

sitiva: quella promossa dagli immi-

grati. A fare cooperazione allo svi-

luppo infatti, oltre alle ong, sono

sempre di più cooperative e asso-

ciazioni formate da immigrati, spes-

so in collaborazione con istituzioni

locali italiane o organismi interna-

zionali. Ma a prendere l’iniziativa

sono anche singoli individui, che

inventano progetti o attività impren-

ditoriali con ricadute sociali nei pro-

pri paesi d’origine. Ci sono immi-

grati che lavorano all’interno delle

ong. E altri che collaborano con il

Ministero degli Affari esteri. Eppure

la legge 49 sulla cooperazione inter-

nazionale (che risale all’87) dice che

gli immigrati extraeuropei, in Italia,

non possono fare i cooperanti.

Immigrati e ongUdo Enwereuzor, 50 anni, nigeriano,

lavora nella sede di una ong italia-

na, il Cospe di Firenze. Si occupa di

politiche migratorie, integrazione,

campagne di lotta al razzismo in

Europa. «Prima di cominciare un

progetto di sviluppo in un altro

paese, e per far sì che funzioni, è

indispensabile conoscere cultura e

dinamiche sociali del posto dove si

va a operare. Per sapere “chi è chi”

in un determinato contesto possono

volerci mesi. Avere un mediatore è

di sicuro un vantaggio. Ong e istitu-

zioni in Italia se ne stanno accor-

gendo, apprezzano la capacità degli

immigrati di muoversi fra ambienti

culturali diversi. Su questo fronte

sono più avanti gli enti territoriali,

vale a dire regioni, province e

comuni, che promuovono iniziative

di cooperazione decentrata. Anche

perché nel mondo delle ong c’è un

problema da risolvere: la legge 49

non consente di utilizzare nei pro-

getti finanziati dal Ministero degli

Affari esteri personale non apparte-

nente all’Unione europea, a meno

che non si tratti di personale in

loco». Anche per questo

Enwereuzor, che ha una laurea in

Sviluppo self made Conoscono perfettamente il paese di destinazione, la lingua, la situazione politica e le tensio-ni sociali. Sono gli immigrati, i nuovi protagonisti della cooperazione internazionale, che stan-no moltiplicando i progetti innovativi. Non senza problemi, come il vincolo della legge 49 chepermette di fare i volontari solo agli europei.

DI EMANUELA CITTERIO

VpS aprile 200838

cooperazione

agraria, ha scelto di specializzarsi in

programmi europei piuttosto che

occuparsi di progetti in paesi in via

di sviluppo. «La società italiana è

cambiata, ci sono molti immigrati

che hanno competenze e potrebbero

diventare una risorsa per le ong. Ma

la legge per la cooperazione è vec-

chia di trent’anni». Oggi, un’ong che

prende un agronomo ghanese di

Modena e lo manda in Ghana deve

dargli uno stipendio secondo gli

standard ghanesi, anche se vive in

Italia. Se l’agronomo è modenese

riceve invece uno stipendio italiano.

Presenti negli enti localiNonostante la burocrazia, l’attivismo

degli immigrati nella cooperazione

sta crescendo. Ousmane Niaye,

senegalese, 37 anni di cui 12 tra-

scorsi in Italia, parla con entusia-

smo della cooperazione nata fra

quello che chiama «il mio

Comune», Verbania, e il villaggio di

Ndiawdoune, in una zona particolar-

mente arida del Senegal. «Un gior-

no ho letto sul sito internet della

Regione Piemonte che c’erano

finanziamenti per attuare progetti

nella regione del Sahel. Avevo già in

mente di fare qualcosa per il mio

paese d’origine e ho pensato che

tentare non costava nulla».

L’associazione creata da Niaye,

Dabafrica, è diventata partner con

altri 12 soggetti, tra enti locali e

associazioni, di un progetto di agri-

coltura sostenibile finanziato dalla

Regione Piemonte e dalla Provincia

del Verbano-Cusio-Ossola. «Lo

abbiamo avviato nel 2006 e siamo

già alla seconda fase» dice Usmane.

«Nel villaggio di Ndiawdoune è nata

una cooperativa di trecento persone,

di cui 153 donne, e insieme a loro

abbiamo creato un sistema di irriga-

zione goccia a goccia che ora per-

mette la coltivazione dodici mesi

all’anno». Il ruolo dell’associazione

Dabafrica è «fare da ponte», spiega

Usmane. «Cerchiamo di facilitare il

lavoro in Senegal, diamo consigli

quando serve, accompagniamo i

cooperanti italiani e mettiamo a

disposizione i nostri contatti in loco.

A Dakar è nata una nostra associa-

zione gemella, Dabafrica Senegal».

Turismo e cooperazione«Fare rete è la soluzione giusta»

afferma Mamadou Samb, 43 anni,

presidente della comunità senegale-

se di Torino. Samb - che ha colla-

borato con diverse ong italiane fra

cui Cisv e Coopi, e dal ’94 è media-

tore culturale per il Comune di

Torino - ora sta lanciando un pro-

getto suo: una struttura di turismo

responsabile in Senegal. «Dieci

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A favore dei diritti delle donne

Tra gli immigrati c’è anche chi non ha paura di raggiungere i luoghi della diplomazia internazionale. È il caso diMarian Ismail, somala, figlia di un diplomatico che fuggì dal proprio paese per motivi politici durante il regime diSiad Barre. Marian, sposata con due figli, vive da allora in Italia. Ed è un vulcano di iniziative. Ha fondato Adir,Associazione donne in rete per lo sviluppo e la pace, che ha sede negli uffici della Provincia di Milano. Formatada donne africane, Adir si occupa di tutte le problematiche legate alla famiglia e ai diritti delle donne immigratee ha appena presentato al Comune di Milano un progetto di cooperazione in Senegal a favore dei bambini distrada. Nel 2003 Marian è stata protagonista di una campagna in convenzione con la Regione Lombardia controle mutilazioni genitali femminili e ha presieduto alla ratifica del Protocollo di Maputo, che nel 2005 ha messo albando questa pratica nell’Africa dell’est. Di recente è entrata a far parte di un gruppo di lavoro sulla Somaliasostenuto dal Ministero degli Affari esteri, per l’applicazione della risoluzione 1325 sui diritti delle donne nellesituazioni di conflitto. «Siamo una decina di somale che vivono in Italia» spiega Marian. «Tra noi c’è una giurista,un’economista, io sono laureata in lingue con un’esperienza nel sociale e nella cooperazione. Lo scorso gennaio,sostenute dal Ministero, siamo andate al vertice dell’Unione africana ad Addis Abeba. Ci siamo presentate aimembri del governo di transizione somalo e abbiamo parlato dei problemi che le donne stanno vivendo nel nostropaese d’origine, devastato da oltre quindici anni di anarchia e conflitti». Marian la chiama «diplomazia che partedal basso». Non sa se funzionerà. Ma si è detta che doveva provarci.

In apertura Marian Ismail,

somala, ha fondato

l’Associazione donne in

rete per lo sviluppo e la

pace e promosso la campa-

gna contro le mutilazioni

femminili, presiedendo alla

ratifica del protocollo di

Maputo (foto Vita-Cesvi).

Sopra: un banchetto di

Ghanacoop, una delle

imprese sociali di immigra-

ti più grande in Italia (foto

Roberto Brancolini)

In questa pagina: due pro-

getti di sviluppo in

Senegal, sostenuti da

immigrati. A fianco

Ousmane Ndaye, fondatore

dell’associazione Dabafrica,

insieme al Ministro e l’am-

basciatore senegalese in

Italia

bungalow sul mare e un campo con

tende nel deserto per accogliere i

turisti facendo incontrare loro la

comunità locale» spiega. «E nello

stesso tempo per dare lavoro a gio-

vani senegalesi». Il costo del pro-

getto, 45 mila euro, è sostenuto per

metà da Mamadou, per il 30% è

finanziato dall’Oim (Organizzazione

mondiale per le migrazioni) e per il

resto è coperto da istituzioni italiane

locali, fra cui il Comune e la

Provincia di Torino.

Ma l’esperienza di impresa sociale

realizzata da migranti più consolida-

ta in Italia è probabilmente

Ghanacoop (www.ghanacoop.it). Il

progetto è stato avviato dall’Oim

insieme alla comunità ghanese di

Modena (circa 3.500 persone), il

Comune, Confcooperative e la coo-

perativa Arcadia. Ghanacoop ha ini-

ziato nel 2005 l’importazione di ana-

nas certificati con il marchio del

commercio equo Fair Trade e in

Ghana ha fondato un’azienda agrico-

la e una cooperativa, Ghanital, per la

produzione di frutti esotici. «Stiamo

diventando, anche se con fatica, una

vera impresa sociale» afferma

Thomas McCarthy, 42 anni, ghanese

e presidente della cooperativa. «Nel

2007 il nostro fatturato ha superato

il milione di euro». Ghanacoop rea-

lizza anche progetti di cooperazione:

«Lo facciamo indirizzando parte

delle nostre risorse umane a questo

scopo» spiega McCharty, «e parte-

cipando a bandi di cooperazione

decentrata emessi da Comune e

Provincia di Modena». In Ghana la

cooperativa ha co-finanziato l’am-

pliamento di un ospedale e promuo-

ve il progetto “Luce per il Ghana”

che si propone di realizzare impianti

a pannelli solari nei villaggi.

Insieme all’Oim, Ghanacoop ha

creato un marchio, Midco, con cui

si certificano prodotti e servizi rea-

lizzati dagli immigrati, che con le

proprie attività commerciali creano

un collegamento con le comunità

d’origine.

Ma c’è chi è scettico. «Ghanacoop è

una bella realtà» afferma

Enwereuzor del Cospe, «ma espe-

VpS aprile 200840

cooperazione

L’impresa sociale di migranti piùnota in Italia è Ghanacoop; importaananas Fairtrade e ha fondatoun’azienda agricola

rienze di questo genere sono un po’

di nicchia e non prive di problemi. Il

filone di iniziative promosse

dall’Oim nasce e si sviluppa nel

quadro delle politiche di conteni-

mento dell’emigrazione dai paesi

d’origine. Se devo essere brutale,

appartiene al disegno “aiutiamoli a

casa loro”. Ciò non significa che

non possa produrre buoni risultati,

ma bisogna essere consapevoli che

il fine non è solo quello dello svi-

luppo».

Progetti individualiDall’impresa sociale sostenuta da

organismi internazionali ai micro-

progetti individuali. La cooperazione

fatta dagli immigrati passa per que-

sti due estremi. Un esempio partico-

larmente significativo del secondo

tipo è Microcammino (www.micro-

cammino.com), un progetto voluto e

perseguito con tenacia da Peter

Bayuku Konteh, 43 anni, della Sierra

Leone. Un caso di emigrazione al

contrario, quello di Peter. Sposato

con un’italiana, lavorava per una

multinazionale informatica in Italia.

«Ma sognava di fare qualcosa per il

suo villaggio di Yagala, in particola-

re perché i bambini potessero avere

un’istruzione» racconta la moglie

Antonella. «Nel 2000 Peter si è

messo a costruire una scuola per

315 bambini a Yagala, coinvolgendo

associazioni umanitarie e una quan-

tità di elementari della nostra zona:

Arese, Rho, Melegnano, Lainate.

L’anno scorso ha deciso di tornare

in Sierra Leone per continuare a

seguire sul posto i progetti che

aveva avviato».

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Sostegno all’imprenditoria

Incanalare le rimesse degli immigrati in attività di sviluppo in patria. È l’obiettivo di Mida (Migration for develop-ment in Africa) un programma dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, sostenuto in Italia dal Ministeroper gli Affari esteri, che nel 2007 ha finanziato 15 progetti di sviluppo gestiti da immigrati, tra cui 7 in Senegal e5 in Ghana. «Si tratta di iniziative di co-sviluppo» precisa Tana Anglana, responsabile di Mida-Italia. «I progettisono sostenuti dalla cooperazione italiana attraverso l’Oim, ma anche da regioni ed enti locali italiani e in alcunicasi da privati, imprenditori o associazioni di categoria». L’Oim emette ogni anno bandi destinati a immigrati chedecidono di avviare nei propri paesi d’origine attività imprenditoriali aventi anche finalità sociali e di sviluppo. Il30% del costo dell’iniziativa viene finanziato dall’Oim, il 15% è il contributo richiesto agli immigrati che fannodomanda, e il restante 55% deve essere coperto da altri sponsor, privati o istituzionali. «La partecipazione diregioni ed enti locali italiani è una condizione indispensabile per l’approvazione di un progetto» spiega la mana-ger dell’Oim. «Ci siamo resi conto in questi anni che ogni migrante che vive sul territorio italiano stabilisce diversirapporti, di carattere professionale o amicale, e questa rete è una risorsa sociale da valorizzare». Il programmaMida, avviato in Italia dal 2003, finora è stato rivolto solo a immigrati africani. «Quest’anno ci allargheremoall’America Latina» annuncia Anglana. «E avvieremo un programma cui teniamo molto, dedicato a sostenere inmodo specifico le iniziative imprenditoriali e di cooperazione delle donne immigrate, che in Italia sono sempre piùnumerose ma con poco accesso al credito».

www.iom.int

VpS