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3/4 laboratorio della sinistra lucana euro 7.00 Poste Italiane S.p.A. - Sped. in a.p. - 70% Potenza ANNO II - DICEMBRE 2005 segue in penultima La FIAT di Melfi e il futuro della Basili cata PIERO DI SIENA Il cemento di Matera Una città tra storia ed “altre storie” Nicoletti | Porcari | Giuralongo pp. 8/19 Bruno Leone p. 29 Francesco Laudadio p. 59 “Pulcinella è megl’e Pelè” Confessioni di un burattinaio Il racconto Ritorno alla Comune L’intesa sui diciassette turni alla Sata di Melfi raggiunta tra la Fiat e i sindacati dei metalmeccani- ci costituisce un soddisfacente punto di equilibrio tra la lunga marcia intrapresa dagli operai di Melfi di lavorare in condizioni al- meno pari a quelli delle altre fab- briche del settore auto in Italia e l’esigenza dell’azienda di tenere un elevato livello di produttività degli impianti a fronte della ne- cessità derivanti dal lancio della “Grande Punto”. In verità per i volumi comunicati dalla Fiat a governo e sindacati nella riunione del 3 agosto a Pa- lazzo Chigi, nella quale l’azien- da di Torino ha annunciato il suo programma a medio termine nel settore dell’auto, secondo la Fiom a Melfi sarebbero bastati anche quindici turni. E ciò costituisce un motivo in più per apprezza- re il senso di responsabilità dei lavoratori a fronte di augurabi- li e impreviste impennate della domanda nella fase iniziale di lancio della “Grande Punto” che potrebbero richiedere un’accele- razione della produzione. A. Califano | P. Fanti pg. 22 Nucleare e Ferrandina Nucleare e Ferrandina La “bufala” della fusione controllata

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3/4 laboratorio della sinistra lucanaeuro 7.00Poste I ta l i ane S .p.A . - Sped . in a .p. - 70% Potenza

ANNO II - DICEMBRE 2005

segue in penultima

La FIAT di Melfie il futuro della Basilicata

PIERO DI SIENA

Il cemento di MateraUna città tra storia ed “altre storie”

Nicoletti | Porcari | Giuralongo pp. 8/19 Bruno Leone p. 29 Francesco Laudadio p. 59

“Pulcinella è megl’e Pelè” Confessioni di un burattinaio

Il racconto Ritorno alla Comune

L’intesa sui diciassette turni alla Sata di Melfi raggiunta tra la Fiat e i sindacati dei metalmeccani-ci costituisce un soddisfacente punto di equilibrio tra la lunga marcia intrapresa dagli operai di Melfi di lavorare in condizioni al-meno pari a quelli delle altre fab-briche del settore auto in Italia e l’esigenza dell’azienda di tenere un elevato livello di produttività degli impianti a fronte della ne-cessità derivanti dal lancio della “Grande Punto”.In verità per i volumi comunicati dalla Fiat a governo e sindacati nella riunione del 3 agosto a Pa-lazzo Chigi, nella quale l’azien-da di Torino ha annunciato il suo programma a medio termine nel settore dell’auto, secondo la Fiom a Melfi sarebbero bastati anche quindici turni. E ciò costituisce un motivo in più per apprezza-re il senso di responsabilità dei lavoratori a fronte di augurabi-li e impreviste impennate della domanda nella fase iniziale di lancio della “Grande Punto” che potrebbero richiedere un’accele-razione della produzione.

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Nucleare eFerrandinaNucleare e Ferrandina

La “bufala”della fusione

controllata

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MARCO TEDESCHI

La Rubrica

Sono passati venticinque anni da quel 23 novembre del 1980, da quella bellissi-ma giornata di sole quasi estiva, in cui si abbattè nel cuore del Mezzogiorno conti-nentale uno dei più terribili terremoti che mente umana da queste parti ricordi.Per ricordare quell’esperienza molti ap-puntamenti significativi: dal conferimento della medaglia d’oro al merito ai comuni disastrati da parte del Presidente della Re-pubblica a seguito di un’iniziativa dei se-natori Di Siena e Gruosso a numerose ma-nifestazioni volute da Regione, Provincia di Potenza e comuni. Ma se si esclude una lunga Memoria di Gaetano Fierro, sindaco di Potenza negli anni della ricostruzione, nessuna iniziativa che superi la dimensio-ne puramente celebrativa, che insomma si accinga a avviare un bilancio storico di uno dei passaggi cruciali della vita della Basilicata.Eppure i segni di quel terremoto sono an-cora tra noi. La ricostruzione delle abita-zioni colpite non è ancora terminata. Da Rapolla a Muro Lucano è aperta una parti-ta che non si riesce a chiudere perché scar-seggiano i fondi. La Nerico-Pescopagano-Muro Lucano-Baragiano, la più importan-te opera infrastrutturale prevista per le aree del “cratere”, è da decenni incompiuta e solo da pochi anni sono state riavviate le procedure per completare i lavori.Se la commissione di indagine presiedu-ta da Oscar Luigi Scalfaro ebbe il merito di interrompere la spirale di sprechi e la corruzione dilagante che aveva investito in specie la ricostruzione in Campania, i risultati da essa prodotti hanno costituito l’alibi per tagliare per anni i fondi neces-sari a completare l’opera iniziata. Si è pas-sati da una generosità forse eccessiva, che ha veicolato verso le zone terremotate ri-sorse intercettate tuttavia prevalentemente da un nuovo ceto affaristico, a una penuria di mezzi che dura ormai da più di un de-cennio.E tuttavia una riflessione sarebbe necessa-ria. Il terremoto del 1980 e la ricostruzione

che ne seguì costituisce un vero e proprio spartiacque nella storia della nostra regio-ne e del Mezzogiorno continentale. Dopo l’esaurimento, senza che ne rimanesse-ro tracce di un qualche significato, dello straordinario moto di solidarietà che inve-stì al momento dei soccorsi l’intera nazione attraverso la mobilitazione di regioni, co-muni e province dell’Italia settentrionale, di una vasta schiera di volontari e di forze intellettuali, terremoto e ricostruzione sono state la nostra “rivoluzione passiva”.Essi sancirono la morte del vecchio meri-dionalismo. Ed è sintomatico che le scelte più discutibili - aree industriali che presto si sarebbero svuotate, infrastrutture farao-niche - fossero fatte seguendo le indicazio-ni di massima dell’ultimo contributo che la scuola agraria di Portici, con la Memoria di Manlio Rossi Doria sullo sviluppo del-le aree terremotate, ha dato alla questione meridionale. E comunque - questa l’altra faccia della medaglia - strapparono, nel bene e nel male, le aree interne della nostra regione dall’isolamento e inserirono le no-stre classi dirigenti in quella modernizza-zione senza qualità che ha caratterizzato la vita dell’Italia degli anni Ottanta.Non è comunque azzardato affermare che senza le aree industriali costruite dopo il terremoto dell’80 probabilmente la Fiat non avrebbe mai pensato a Melfi per il suo nuovo insediamento, che è proprio in que-gli anni che nasce quel rapporto tra poli-tica, impresa e processi di costruzione del consenso che comportò un salto di qualità nella capacità di governo della classe diri-gente lucana ma costituisce anche l’ipoteca più grande sull’esperienza di centrosinistra da più di un decennio alla guida della re-gione.Insomma, la nuova Basilicata ha bisogno di lasciarsi alle spalle l’eredità di quegli anni. Ma per farlo, sarebbe bene che la sua opinione pubblica e le nuove classi diri-genti che si affacciano alla guida della re-gione sapessero effettivamente di che cosa si tratta.

A venticinque anni dal terremoto

EditorialeLa FIAT di Melfi e il futuro della Basilicata‹Piero Di Siena›

RubricaA venticinque anni dal terremoto‹Marco Tedeschi›

Politica e societàEconomia lucana: fine di un ciclo‹Angelo Vaccaro›

Torna lo spettro della disoccupazione di massa ‹Antonio Sanfrancesco›

Matera: lo strapotere del “partito del mattone”‹Eustachio Nicoletti›

“Chi fa politica stia lontano dagli affari”Intervista al Sindaco di Matera M. Porcari ‹Antonio Califano, Anna Maria Riviello›

I Sassi tra nuovi e... cattivi soggetti‹Tommaso Giura Longo›

Mercure: ma la centrale c’entra? ‹Paolo Fanti›

Ferrandina: una “bufala” nucleare ‹Antonio Califano, Paolo Fanti›

La strategia euro-mediterraneaOpportunità per il Mezzogiorno‹Dino Nicolia›

ReportagePulcinella senza frontiereConfessioni di un burattinaio‹Bruno Leone›

CulturaLa Basilicata che mi porto dentro‹Marisa Virgilio›

Ceti rurali e fascismo tra ricerca delconsenso e resistenza passiva‹Elena Vigilante›

La “mescolanza” del mondo ‹Simone Calice›

La cultura non è una merce‹Tonino Colasurdo›

La riforma difficile. La scuola italiana e l’educazione nell’era planetaria‹Camilla Schiavo ›

Il raccontoRitorno alla Comune‹Francesco Laudadio›

Francesco e io‹Piero Di Siena›

Pasolini e quella differenza che spaventa ancora‹Palma Fuccella›

Musica, cinema, libri

SudPosizioniDal Mezzogiorno una nuova dimensione dei beni comuni ‹Giacomo Schettini›

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olitica e societàP

ANGELO VACCARO

Fine di un cicloEconomia lucana

La Basilicata: una regione di contrasti, sempre in bilico tra modernizzazioni e arretratezze

La deriva di cui è preda il sistema economico-produttivo del Paese riverbera i suoi effetti – amplificandoli- in una regione piccola come la nostra con una fragile struttura produttiva e dei servizi. Una regione, la Basilicata, che rimane una terra di contrasti, quasi in bilico, sospesa fra tratti evidenti di modernizzazione e vecchie e nuove asimmetrie territoriali e sociali, potenziali di crescita differenziati ed endemici fattori di arretratezza. La stessa distribuzione fra e nei settori degli occupati – nonostante il consistente processo di aggiustamento strutturale che si è realizzato nella composizione settoriale dell’economia regionale nel corso dell’ultimo decennio – rileva ancora la persistenza di una forte connotazione tradizionale della struttura produttiva, con una occupazione agricola ancora sovradimensionata e sottodimensionata quella del terziario avanzato e dell’industria manifatturiera ad alta tecnologia. In questo contesto si inscrive, oggi, il repentino deterioramento dei diversi segmenti che si erano venuti configurando come la nuova armatura industriale del sistema produttivo regionale. Basta enuclearne alcuni. La conclusione del lungo ciclo espansivo del distretto industriale murgiano del mobile imbottito ed il contestuale avvio di un consistente processo di riorganizzazione produttiva e di ridimensionamento occupazionale. Le crepe sempre più vistose che si stanno aprendo nel sistema dell’indotto dell’autocomponentistica di S.Nicola di Melfi e le non poche incognite che gravano sul futuro della FIAT Auto, non ancora dissipate nonostante la presentazione del nuovo piano industriale e il lancio dei nuovi modelli. Le pesanti difficoltà in cui versano alcune importanti filiere agroalimentari e l’incombente cessazione produttiva

di pezzi significativi di quello che era venuto delineandosi come un vero e proprio polo dell’industria alimentare. Il quasi completo disimpegno del Gruppo SNIA in Val Basento, la dissoluzione di alcuni embrioni di distretti produttivi nel settore tessile-calzaturiero (da ultimo, la dichiarata cessazione dell’attività produttiva di Standartela) e i problemi di tenuta occupazionale che stanno venendo avanti nell’area industriale di Viggiano. Questo scenario -che di per sé interpella tutti e che pone nuovi interrogativi e nuovi problemi- mina gli stessi presupposti sui quali si è innervata l’impostazione delle politiche di crescita e sviluppo negli ultimi 10-15 anni.

In buona sostanza rischia di essere del tutto compromesso lo schema, largamente condiviso anche dal sindacato confederale, per cui sull’ossatura industriale che si era venuta estendendo e rafforzando a partire dagli inizi degli anni ’90, avrebbe dovuto saldarsi -attraverso la leva degli strumenti della programmazione negoziata e le misure finanziate con le risorse comunitarie- un nuovo ciclo virtuoso di crescita, caratterizzato da un allargamento progressivo dell’equilibrio fra produzione e territorio e da un restringimento della forbice dei divari infraregionali. La legislatura regionale appena avviata, peraltro, coincide con l’imminente apertura di un nuovo e impegnativo ciclo di transizione, che sarà segnato dalla fuoriuscita della Basilicata dal novero delle Regioni del nuovo Obiettivo Convergenza (ex Obiettivo 1) e dall’attuazione di un più accentuato federalismo fiscale, nonché dalla configurazione di una riforma Costituzionale che rischia di incrinare irrimediabilmente l’unità territoriale della Repubblica e la coesione sociale del Paese.

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Ppolitica e società

In questo nuovo e, per molti versi, inedito orizzonte prospettico occorre, allora, avere la piena consapevolezza che senza incidere in profondità sulla struttura del sistema produttivo regionale, senza operare con rigore e lungimiranza sugli investimenti – accrescendo in primo luogo il capitale sociale dei saperi e delle competenze e recuperando i deficit rilevabili nel campo della ricerca e del trasferimento tecnologico, dei servizi avanzati e dell’innovazione organizzativa e di prodotto – la nostra Regione rischia di arrestare il suo cammino verso l’Europa.

Nella ponderosa relazione di insediamento del Presidente della Giunta – della quale pure sono condivisibili non pochi profili programmatici e politiche proposte – è del tutto assente qualsivoglia analisi e visione dei rapporti sociali e, dunque, non viene delineata alcuna proposta circa le modalità di relazione fra la rappresentanza sociale degli interessi e la concreta esplicazione dell’azione di governo. Nella difficile fase che si è aperta e che non sarà affatto breve - in cui uno dei nodi cruciali sarà rappresentato dalla capacità di tenere in equilibrio il rapporto complesso e delicato tra il governo sociale e politico dei processi di crisi e la necessità di accentuare gli elementi di innovazione nella programmazione dello sviluppo e nelle politiche di investimento – tale mancanza costituirebbe un vulnus nel metodo e nell’azione di Governo. E’nel perseguimento di un comune e generale impegno innovatore, invece, da rafforzare in tutte le politiche di crescita e sviluppo, che il lavoro e le nuove condizioni di equità e sostenibilità sociale del welfare regionale possono e devono diventare la stessa ragion d’essere dell’azione collettiva, nella quale le istituzioni (non solo la Regione, ma tutto il sistema delle autonomie territoriali), le rappresentanze economiche (mai così evanescenti come lo sono state in questi anni) e quelle sociali (che devono liberarsi da qualche

retaggio corporativo), devono essere chiamate a riversare tutto il potenziale progettuale e operativo di cui dispongono, senza attenuare minimamente la propria autonomia e concorrendo ad elevare il profilo del confronto programmatico e della concertazione sociale. Definendo, su questo terreno, non un roboante “grande patto sociale” in cui tutto diventa generico e indistinto, ma un metodo (ed un corrispondente quadro di regole esigibili) capace di affrancare il campo delle relazioni sociali tanto dalla discrezionalità e dagli umori della politica quanto dalla pressione delle incessanti emergenze o da presunti rapporti di forza. In conclusione vorrei aggiungere una nota “a margine”. Il percorso verso il XV Congresso nazionale della CGIL cade in una fase cruciale della vita politica e sociale del Paese, ancora aperta a diversi esiti. Abbiamo da aggiornare la nostra strategia; sistemare, riprecisare il nostro profilo programmatico e mettere le nostre idee a disposizione delle lavoratrici e dei lavoratori, del Paese, di CISL e UIL. Abbiamo bisogno, a tal fine, di una impostazione –che ci siamo dati- e di una ricerca unitarie che, senza annullare gli elementi di pluralismo interno i differenti punti di vista, ci mettano nella condizione di delineare, scavando in profondità nei mutamenti dell’oggi, i caratteri fondamentali di un nuovo progetto di competitività per il Paese incardinato sul lavoro, la sua qualità, la sua dignità e libertà, il suo valore sociale. D’altra parte, sarebbe stata cosa ben strana e paradossale chiedere agli “altri” unità, e noi praticare la divisione. Di questo c’è bisogno perché il travaglio non è del tutto sopito; le ragioni che hanno mosso l’aspra dialettica sociale di questi anni non sono dissolte; evolvono – questo si – e sorvegliarne le evoluzioni, leggere il segno dei tempi è il nostro primo dovere oltre che una necessità. Ce ne derivano ragioni di inquietudine, per un verso. Per l’altro, riscontriamo elementi di novità incoraggianti, positivi. Di fronte a queste

ambivalenze, a questa densità e fluidità del contesto la concomitanza della scadenza congressuale risponde anche alla avvertita esigenza di riproporci in campo, senza supponenza, aggiornando l’analisi, e ribadendo i nostri punti di riferimento. L’asprezza delle battaglie che abbiamo condotto in questi anni derivava dalla inflessibile volontà di affermare la nostra autonomia. Voglio dire che noi abbiamo posto in campo la questione che più di ogni altra connota l’essere “riformista” del sindacato confederale: la necessità di ripensare le forme del rapporto fra rappresentanza sociale e rappresentanza politica, tanto più a fronte di un governo che ha scientemente praticato la negazione della soggettività della rappresentanza collettiva. E, a ben vedere, sul terreno della nostra funzione, della funzione della confederalità è possibile rinvenire gli elementi di comunanza con le radici più nobili di CISL e UIL. Appunto: la “politicità” che esprimiamo solo quando esercitiamo con pienezza la nostra autonomia. Dobbiamo continuare a sfidare la politica.

La politica ma, in particolare, nel bipolarismo, la sinistra politica, il campo del centro sinistra; sfidarli sui valori, sul modello sociale, sulla pregnanza del lavoro e delle sue rappresentanze collettive anche nel definire i profili della statualità e delle istituzioni. Per dare continuità a quel viaggio nell’autonomia che ci permetta di non essere preda della velleità, da sindacalisti, di surrogare i soggetti della politica, e, nello stesso tempo, con quei soggetti, e nella distinzione dei ruoli di ciascuno, ci permetta di svolgere il confronto e la dialettica su un piano di pari dignità.

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politica e società

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Torna lo spettro

ANTONIO SANFRANCESCO

della disoccupazione di massa

Gli ultimi dati rilevati dall’Istat, nel trimestre precedente (aprile-giugno 2005), sulla popolazione residente nella Regione Basilicata, con posizione lavo-rativa e non lavorativa, presentano una situazione del mercato del lavoro statica. Anzi, il dato rileva un momento di crisi occupazionale abbastanza preoccupante per le modalità fenomelogiche con cui si presenta.

Analizzando il dato rilevato dal-l’ISTAT nell’ultimo trimestre, compa-randolo al trimestre precedente si osserva numericamente la seguente situazione:

1. rispetto alla dimensione “forze di lavoro”:

1.1. gli occupati, nel secondo trime-stre, sono 197 mila unità (di cui 126 mila maschi e 71 mila femmine, con un au-mento percentuale rispetto al trimestre precedente del 5,2%, di cui il 3,2% è di sesso maschile ed il 7,1% di sesso fem-minile);

Per la categoria Persone in cerca di occupazione, la situazione è caratteriz-zata dal seguente dato:

2. per la dimensione “con precedenti esperienze di lavoro”, il dato si presenta con 19 mila nel II trimestre e con 17 mila nel I trimestre, con un incremento per-centuale del 10,5. Nel primo trimestre,

vi erano diecimila unità maschi e 8 mila femmine, mentre nel secondo trimestre vi erano 9 mila unità maschi e 8 mila femmine;

3. per la dimensione “Senza preceden-ti esperienze di lavoro”, il dato si carat-terizza identico per il I ed il II trimestre (10 mila unità) di cui 4 mila maschi e 6 mila femmine;

Il totale delle due dimensioni prece-dentemente esaminate è di 29 mila unità nel II trimestre, con un incremento di 2 mila unità rispetto al trimestre prece-dente (27 mila). Il rapporto percentua-le dei due trimestri è di un incremento del 6,9%; la distribuzione per sesso è di 14 mila unità per il II trimestre (con un incremento di 2 mila unità rispetto al I° trimestre) e a 15 mila per il sesso femmi-nile pari a 15 mila unità (senza nessuna variazione percentuale rispetto al trime-stre precedente);

Per la categoria non forze di lavoro si ha la seguente situazione:

1. le persone che “cercano lavoro non attivamente” sono 20 mila per il II tri-mestre (mentre erano 23 mila nel primo trimestre con un relativo decremento percentuale del 13,1. La distribuzione per sesso si caratterizza con diminuzio-ne della popolazione maschile (nel I°

trimestre erano 9 mila unità, mentre nel secondo trimestre sono passati a 6 mila unità, mentre il dato, nei due trimestri, per le femmine, è rimasto invariato, 14 mila unità);

2. le persone che “cercano lavoro ma non disponibili a lavorare” (da 3 mila a 4 mila nei due trimestri , 25%) di cui sta-bilità nei maschi (mille unità) e da 3 a 2 mila nelle femmine con un decremento del 33%;

3. le persone che non cercano ma disponibili a lavorare sono in totale 15 mila unità nel II trimestre rispetto alle 21 mila unità del I trimestre con un decre-mento del 28,1% di cui 5 mila maschi nel II trimestre (6 mila unità del I trime-stre) e 10 mila donne nel II trimestre (15 mila unità del I trimestre) con un decre-mento del 33%;

4. le persone che non cercano e non disponibili a lavorare sono passati dal-le 129 mila unità del I trimestre alle 126 mila unità del II trimestre (decremento pari al 15 %), di cui 44 mila unità maschi nel II trimestre rispetto alle 46 mila del I trimestre, con un decremento del 4,6%, mentre la popolazione femminile è pas-sata dalle 83 mila del primo trimestre alle 82 mila del secondo trimestre con decremento del 1,3%;

5. le persone che si ritrovano nella ca-tegoria non forze di lavoro inferiore ai 15 anni sono passate dalle 89 mila del I trimestre alle 88 mila del II trimestre (decremento del 1,2%). I maschi nel pri-mo trimestre erano 46 mila unità e sono passate a 45 mila unità nel secondo tri-mestre (decremento del 2,2%), mentre il dato femminile nei due trimestri è rima-sto invariato (43 mila unità);

6. le persone che si trovano nella cate-goria non forze di lavoro maggiore dei 64 anni sono passate dalle 114 mila unità del I trimestre alle 111 mila del II trimestre (con un decremento del 2,7%. La popolazione maschile è pari a 49 mila unità per il primo trimestre e a 48 mila unità nel secondo tri-mestre (decremento del 2,1%), mentre per le femmine il dato è passato dalle 65 mila

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Ppolitica e società

unità del I trimestre alle 63 mila del secon-do (decremento del 3,1%);

7. le persone che rientrano nella di-mensione non forze di lavoro sono pas-sate da 379 mila unità del I trimestre a 363 mila unità del II° trimestre, con un decremento del 4,2%. La popolazione maschile è passata dalle 158 mila unità del I trimestre alle 149 mila unità del II trimestre (decremento del 5,7%) e la po-polazione femminile è passata dalle 222 mila unità del I trimestre alle 214 mila unità del II trimestre (decremento del 3,7%).

La popolazione complessiva della Re-gione Basilicata è passata dalle 595 mila unità del I trimestre alle 589 mila uni-tà del II° trimestre con un decremento (in tre mesi) di 6.000 lucani che hanno lasciato la Basilicata o per motivi ana-grafici o per un aumento del fenomeno migrazionale. La popolazione maschile della Regione è passata dalle 292 mila unità del primo trimestre alle 289 mila del secondo, con un decremento del 1,1%. Mentre la popolazione femminile è passata dalle 303 mila unità del primo trimestre alle 300 mila unità, con un de-cremento della popolazione femminile pari al 1%. Il divario della popolazione fra sessi è quasi inesistente.

I tassi di attività (per la popolazione compresa fra i 15 ed i 64 anni) sono pas-sati dal 54,8 per cento del I trimestre al 57,6% del II trimestre. Il tasso di attività nella popolazione maschile è passato dal 68% del primo trimestre al 71,1% del II trimestre, mentre per la popolazione femminile dal 41,5% del primo trimestre al 44,1% del secondo trimestre.

I tassi di occupazione della popolazio-ne complessiva è passata dal 47,9% del I trimestre al 50,1% del II trimestre. Per la popolazione maschile, il tasso occu-pazionale è passato dal 61,8% del primo trimestre al 64% del secondo trimestre, mentre per la popolazione femminile dal 33,9% del primo trimestre al 36,3% del secondo.

Il tasso di disoccupazione è passa-

to invece dal 12,5% del I trimestre al 12,9% del secondo. Per la popolazione maschile il tasso è passato dal 9,1% del primo trimestre al 9,9% del secondo, mentre per la popolazione femminile dal 18,2% del primo trimestre al 17,7% del secondo.

Da una prima lettura dei dati, si evi-denzia una situazione occupazionale complessivamente preoccupante. Le tendenze ottimistiche avanzate verso la fine degli anni ’90, quando si gridava ad un modello tutto lucano di sviluppo e di relativa crescita occupazionale sembra declinarsi o almeno arrestarsi. Si eviden-ziano fenomeni di:

1. forte scoraggiamento da parte del-l’intera popolazione verso concrete op-portunità occupazionali che il mercato del lavoro locale possa offrire. L’effetto scoraggiamento produce nell’individuo una scarsa fiducia nelle proprie capacità profes-sionali e lavorative oltre che umane aumentando danni di carattere psi-cologico. Il fenomeno è molto più elevato fra la popolazione femminile, anche se si evidenzia una tendenza all’au-mento occupazionale. Il rapporto fra la popolazione e il mercato è vissuto con un atteggiamento di attesa e/o di rinuncia;

2. spopolamento. La Regione Basili-cata presenta indici di spopolamento. È un fenomeno in aumento e le tendenze demografiche non presentano indici po-sitivi. Il tasso demografico è complessi-vamente negativo. Le cause sono molte-plici e vanno individuate oltre agli aspet-ti orografici della regione anche nell’as-senza totale di opportunità occupaziona-le e di reale sviluppo locale. La Regione Basilicata si caratterizza territorialmente per un forte internalità. Non vi sono cen-tri urbani con fenomeni di urbanizzazio-ne accentuata. La maggior parte della popolazione è concentrata oltre che nelle

“Le aspettativeottimistichedegli anni ‘90,quando si gridavaa un modello lucanodi relativa crescita,sono ridimensionate”

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politica e società

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due province, che da sole rappresentano oltre il 20% della popolazione, nelle aree costiere (soprattutto metapontino) e dal-l’area nord della Regione (vulture-mel-fese), il rimanente della popolazione è concentrato in piccole comunità locali di cui oltre l’80% della popolazione è infe-riore ai 5.000 abitanti. Il fenomeno dello spopolamento è concentrato soprattutto in questi territori. Eppure in questi anni, sono state realizzate varie azioni proget-tuali e programmatiche per incrementare la crescita economica locale. Molte ini-ziative locali si sono concentrare sull’in-dividuazione di modelli, sulla realizza-zione di infrastrutture e sulla definizione di sistemi (sto parlando dei Leader, dei PIT etc.) che attraverso azioni concertate potessero offrire sbocchi occupazionali non solo temporanei ma duraturi. Ma tutto questo non è successo e non succe-de. Si avverte la necessità di invertire le politiche o di individuare nuove strategie per lo sviluppo locale e per l’occupazio-ne. Tali strategie devono considerare il territorio come una risorsa strategica che

riesce a promuovere sistemi di relazioni adeguate fra le singole comunità locali e gli attori che in esso vivono;

3. la disoccupazione femminile e gio-vanile. Come in tutte le società in crisi, i primi a subire sono sempre i più deboli e fra questi si annoverano le donne ed i giovani in cerca di prima occupazione o scarsamente qualificati. La disoccu-pazione femminile interessa trasversal-mente tutte le fasce di età della popola-zione. Per molte donne le possibilità di realizzarsi professionalmente sono quasi nulle. I tassi di disoccupazione femmini-le in alcuni territori raggiungono anche il 70 o l’80%. Le difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro per le donne sono quadruplicate come si evidenzia da una ricerca sulla condizione femminile nelle aree montane della Regione. Le difficol-tà sono dovute ad una assenza di servizi sociali in favore della famiglia, dalle dif-ficoltà oggettive dovute al doppio ruolo che la donna svolge all’interno del con-testo familiare e ad altre motivazioni. I giovani, altra categoria sociale molto

colpita dalla disoccupazione, tendono dopo un periodo di studio breve o lungo ad allontanarsi per sempre (la cosiddetta fuga dei cervelli).

Il dato dell’Istat, complessivamente, presenta una situazione del mercato del lavoro rigido e poco propenso ad un mi-glioramento delle dinamiche fra l’offerta e la domanda. Ciò potrà essere realizzato se si avviano politiche del lavoro e dello sviluppo concertate su azioni e program-mi innovativi rispetto all’attuale sistema produttivo ed industriale locale.

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Ppolitica e società

La spinta culturale degli anni ’50, che ha consentito che a Matera venissero fatte scelte urbanistiche innovative e rispettose delle peculiarità sociali, eco-nomiche e soprattutto umane della città, sembra essersi definitivamente esaurita. Attraverso l’intervento costante di ge-stioni mediocri e localistiche, l’origina-rio progetto innovativo si è depotenziato e ridimensionato.

Il colpo decisivo è stato dato proprio nell’ultimo decennio dalle Amministra-zioni di centrosinistra che non solo han-no abbandonato le critiche che, prima del raggiungimento della maggioranza, avevano avanzato alla Democrazia Cri-stiana, ma attraverso un consolidamento dei rapporti con il “mondo del mattone” hanno causato profondi stravolgimenti all’assetto urbanistico della città.

A distanza di dieci anni, quindi, a scempio urbanistico purtroppo ormai av-venuto, ben vengano gli interventi come quelli contenuti nel numero di Basilica-ta di luglio, tesi a denunciare i misfatti perpetuatisi nell’ultimo decennio, ma affinché l’analisi storica possa aiutare a dare spiegazioni esaustive e a trovare le soluzioni, è necessario che essa sia con-dotta in maniera approfondita e senza reticenze.

Il dominio della speculazione nella città dei Sassi non può essere datato solo a partire dalla Giunta Manfredi (la prima di sinistra, dopo la fine dei vecchi par-titi), come in qualche modo è avvenuto nelle recenti polemiche. A rigore biso-gna invece partire dal momento in cui a Matera si sono innescate le premesse per la costituzione di una economia preva-lentemente basata sulla rendita fondiaria e sull’edificazione.

Nel periodo tra la fine degli anni ses-santa e l’inizio degli anni settanta, sotto la spinta delle trasformazioni della so-cietà materana (da prevalentemente agri-cola a burocratica/impiegatizia) e delle conseguenti nuove necessità abitative, iniziarono a consolidarsi i rapporti tra rendita fondiaria e imprese edili. L’azio-ne edificatoria si concentrò soprattutto lungo gli assi di Via Nazionale, Via San Pardo, Via Cererie e Via Cappuccini ed è allora che si sperimentarono i primi ele-menti di un’economia edificatoria basata sul rapporto tra le rendite fondiarie, le imprese e il potere politico.

Si trattò di un preludio perché la vera esplosione urbanistica della Città di Ma-tera emerse chiaramente nel 1973 con la presentazione del 2° Piano Piccinato che, ridefinendo i nuovi perimetri urbani

e le destinazioni dei lotti, fece scattare i meccanismi politici e gli interessi che a breve distanza si sarebbero affermati.

A testimonianza di ciò vale la pena ri-cordare che tra il 1973, anno di presenta-zione del 2° piano Piccinato, ed il 1975, anno di approvazione dello stesso, a se-guito di numerose sollecitazioni il Con-siglio Comunale fu indotto a deliberare la costituzione di una Commissione con il compito di verificare il nuovo mercato fondiario e quanto lo stesso fosse conta-minato da speculazioni.

Ma anche se allora la Commissione formalmente non riscontrò anomalie, l’impresa privata e le cooperative, sotto il controllo diretto ed indiretto dei par-titi, riuscirono progressivamente a strut-turarsi al punto tale da condizionare le scelte degli stessi partiti e delle ammini-strazioni comunali.

Nei quartieri di Via La Martella e Via Gravina previsti dal Piano Regolatore si cominciarono a registrare significative varianti come quella di San Giacomo 2, che rappresentò un primo attentato alla qualità ambientale della corona periur-bana che, pure, Piccinato aveva faticosa-mente salvaguardato.

A partire dal 1975, per un quindicen-nio, Matera fu interessata da una tumul-

EUSTACHIO NICOLETTI

Con un numero monografico di “Basilicata” a luglio Leonardo Sacco ha riaperto la discussione sui problemi urbanistici della città dei Sassi. Si riapre un confronto da troppo tempo sopito. Le responsabilità del centrosinistra

Matera: lo strapotere del “partito del mattone”

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tuosa espansione edilizia tanto che nel 1988, sembrò prevalere un atteggia-mento di maggiore rispetto del carattere urbanistico-ambientale e da cui derivò l’incarico ai proff. Nigro e Restucci per la redazione della Variante Generale del Piano Regolatore Generale del 1975.

In realtà il futuro nuovo Piano Rego-latore, che tentava di ordinare il pregres-so, si trovò di fronte a nuove emergenze abitative (Via La Martella - zona 33, Via Gravina - Serra Rifusa e Agna - Le Pia-ne) e commerciali (Asse Commerciale Matera Altamura e PAIP 2) che intro-dussero pesanti condizionamenti al di-mensionamento del PRG.

Ma mentre si continuava a discutere sul nuovo piano regolatore, il Consiglio Comunale di Matera, utilizzando lo stru-mento della Variante, deliberava l’ap-provazione della zona commerciale di Via La Martella (zona 33) che di fatto modificava brutalmente il 2° Piano Re-golatore Piccinato approvato nel 1975.

È proprio con l’approvazione del Piano di Lottizzazione della zona 33 che la commistione tra rendite fon-diarie, imprese edili e potere politico, strutturatasi progressivamente nel tem-po, dimostra apertamente il potenziale affaristico raggiunto con una spregiu-

dicatezza ed una incisività senza pre-cedenti.

L’azione realizzata dell’ormai costi-tuito “partito del mattone”, con un’ope-razione corale tra i proprietari, le impre-se e i referenti dei partiti di governo della città, riuscirono a spazzare il Piano di “ristrutturazione urbana di tipo pubbli-co” approvata dal 1982 dal Sindaco Di Caro che prevedeva l’abbattimento dei manufatti e capannoni abusivi sul terri-torio compreso tra gli insediamenti pro-duttivi (PAIP) e San Giacomo I (ultimo quartiere di edilizia popolare).

Alla proposta dei proprietari di tra-sformare l’intervento da “Piano di ini-ziativa pubblica” a “Piano di lottizzazio-ne convenzionata” con le conseguenti trasformazione degli indici edificatori da 2,2 fondiario a 2,2 territoriale, si accom-pagnò l’azione dirompente dei soggetti politici/amministrativi/partitici che, at-traverso una manipolazione ideologica, presentarono la “variante” come una necessaria ristrutturazione della città av-valorata dalla qualità delle infrastrutture previste (alberghi, impianti sportivi, uf-fici, ecc.)e la costituzione di un vero asse economico-commerciale.

Il piano di lottizzazione, dopo che la delibera aveva subito una trasformazio-

ne nel passaggio dalla Giunta Regiona-le, introdusse una possibile deroga alle altezze per le strutture alberghiere che venne approvato dal Consiglio Comu-nale il 22 Gennaio 1993 con la sola op-posizione di 2 Consiglieri Comunali del PCI.

È a questo punto che si innesta la storia più recente dell’urbanistica ma-terana coincidente con l’elezione del Sindaco Manfredi. La sua amminstra-zione fallì clamorosamente, tradendo le aspettative iniziali tra cui l’incapacità di contrastare gli interessi tradizional-mente strutturati nel settore dell’urba-nistica. In verità Manfredi, pur essendo stato inizialmente indicato dalla Società Civile, di fatto non ebbe alcun legame con essa e fu sordo alle riflessioni e ai messaggi che questa pure tentò di fargli giungere in quegli anni.

Il principale limite politico fu quel-lo di non saper leggere coerentemente quella realtà che, nata all’ombra del po-tere democristiano, aveva permesso la costituzione di un ceto di professionisti della cooperazione, partitizzati e interes-sati solo a modificare i rapporti percen-tuali degli appalti.

Già durante la campagna elettorale, sfruttando l’euforia del passaggio dalla

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prima alla seconda repubblica, il “partito del mattone”, che nella realtà materana rappresenta una entità politicamente tra-sversale, si presentava come una complessa “rete di interessi” presente nella maggior parte dei partiti diretta da una logica simile a quella delle multinazionali nei confronti degli stati sovrani tutta tesa a occupare le postazioni necessarie per di-fendere e rilanciare gli affari urbanistici.

Nell’Amministrazione Manfredi, il “partito del mattone” continuò ad operare a pieno ritmo con la differenza che le vec-chie percentuali di acquisizione degli appalti si modificarono in ragione all’appartenenza politica. Gli appartenenti della sinistra al “partito del mattone”, che durante il potere demo-cristiano riuscivano marginalmente ad inserirsi nel mercato, con il cambio di maggioranza aumentarono le percentuali di presenza fino a determinarne il quasi totale controllo.

Per dovere di cronaca, Manfredi durante il suo mandato non si accorse che alcuni dei suoi collaboratori ed assessori, pre-scelti o forse imposti dai partiti, avevano innescato meccani-smi di rottura totale con la società civile creando un frattura ancora oggi presente nella realtà materana. In quel periodo si instaurò un approccio politico che progressivamente si andò consolidando: della politica potevano occuparsi solo i politici con la “P” maiuscola e la Società Civile (associazioni culturali e del volontariato) doveva ritirarsi negli ambiti della semplice attività culturale, il tutto attraverso l’attuazione di azioni am-ministrative di contrasto tese a sfiancare la società civile.

Un esempio è rappresentato dal fatto che alcune associazio-ni ancora oggi non sono riuscite ad acquisire gli spazi nei Rio-ni Sassi nonostante abbiano presentato sin dal lontano 1987 un progetto multimediale teso alla produzione di attività culturali e alla creazione di opportunità di aggregazioni di giovani e fasce emarginate.

Inoltre, seguendo la filosofia imprenditoriale pluridisci-plinare capace di rispondere con flessibilità ad una società sempre più complessa, le stesse trasversalità del “partito del mattone” occuparano il settore dei servizi pubblici a doman-da individuale, affinché ci fosse un ritorno. Si arrivò perfino a “manipolare” il concetto di sussidiarietà. Per un servizio pubblico si crearono le condizioni di vantaggio del soggetto privato a scapito della collettività attraverso processi ammini-strativi tesi a ridimensionare le potenzialità di controllo e di programmazione della macchina comunale. Molti regolamenti comunali riguardanti i servizi pubblici furono modificati e ri-sposero alla filosofia delle “maglie larghe”, in cui la possibilità del Comune di svolgere il controllo sui servizi pubblici affidati a soggetti privati era assolutamente nulla.

Per queste ragioni, subito dopo l’insediamento di Manfredi, con l’appoggio incondizionato anche dei partiti PDS (ex PCI) e PSI che precedentemente si erano opposti, si approvano i 292.000 mq previsti per la Zona 33, senza alcuna discussione in consiglio, giustificandolo come “atto dovuto”.

Allo stesso modo si procedette con una seconda “variante” alle due grandi aree di “167” di Agna le Piane e di Gravina 2 ubicate a Nord ed a Sud della città con la previsione di 1.000 alloggi. Un anno dopo, con l’approvazione della VEP (varian-te periurbana) con la quale, insieme alla regolamentazione per le aree periurbane, si prevedeva il grande asse commerciale Matera-Venusio. Vengono, infine “bruciate” a ritmo serrato le dotazioni di aree edificabili del PRG/75, senza rispetto per la qualità morfologico / ambientale, lungo l’asse di Via La Mar-tella, la collina Serra di Rifusa, e di Macamarda completando l’opera di snaturazione del PRG Piccinato.

Tutto ciò ha rappresentato il modo peggiore per interpretare le nuove esigenze produttive e residenziali avanzate negli anni

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’90 che, anche se difficilmente realizzabili con il PRG del 1975, non giustificano l’assenza della pianificazione e l’utiliz-zo delle “varianti anticipatrici”, impossibilitate a coniugare le esigenze culturali di tutela ambientale e di qualità dell’insedia-mento urbano con le trasformazioni della rendita fondiaria.

L’assenza di un’adeguata legislazione nazionale e il ritardo all’approvazione della Legge Regionale n. 23/99 hanno con-tribuito ad accelerare lo scempio urbanistico prodottosi negli anni ’90 in quanto l’assenza di regole certe ha lasciato campo libero ai soggetti portatori di interessi privati, in grado di in-fluenzare le politiche urbane.

Con l’inizio del nuovo secolo, annunciato in Basilicata dal-l’approvazione della L.R. n. 33/99, sembrava che le “strane” vicissitudini dell’urbanistica materana potessero rientrare all’in-terno della “normale” regolamentazione. Infatti, il PRG/Nigro ritorna all’attenzione dell’opinione pubblica sospinto anche dal-la necessità di doverlo approvare entro 6 mesi pena il ricorso obbligatorio ai nuovi strumenti di pianificazione previsti dalla L.R. n. 33/99 (Regolamento Urbanistico e Piano Strutturale).

Il PRG/Nigro verrà adottato dal Consiglio Comunale l’ul-timo giorno utile (23/02/2000) senza la risoluzione di diver-si problemi (l’intera zona rurale e alcune zone di espansione vengono infatti stralciate). Con l’adozione del nuovo piano regolatore gli ultradecennali problemi urbanistici della città di Matera non sembrano trovare soluzione e anzi, incredibil-mente si complicano.

Il PRG adottato dal Consiglio Comunale il 23/02/2000 ri-mane bloccato negli Uffici Regionali fino a Settembre 2004 quando lo si rispedisce al mittente per l’esecuzione di una serie di adempimenti tecnici e procedurali (studio geologico, pareri di rito, ecc.).

Un atto gravissimo che difficilmente può spiegarsi addos-

sando le responsabilità alla macchina tecnico/amministrativa della Regione Basilicata, ai meccanismi normativi che non hanno funzionato, al mancato coordinamento degli uffici tec-nici comunali e regionali. Il tutto fa riemergere i dubbi e le perplessità circa la persistenza di “regie strategiche” che conti-nuano a condizionare i processi politici ed amministrativi della città di Matera. Nei quattro anni di stallo del PRG alla Regione si è continuato a realizzare l’urbanistica delle “emergenze” e delle varianti con il conseguente risultato della destrutturazione della vecchia e nuova pianificazione urbanistica assistendo al-l’aumento vertiginoso dei carichi urbani: nell’anno 2004 sono state rilasciate circa 300 autorizzazioni a costruire in contrasto con il nuovo piano regolatore Nigro ed a queste vanno somma-ti i permessi a costruire per “l’opificio” ex mulino Alvino ed ex officine di recinto Pagano.

La situazione attuale, aggravata anche dall’assenza di stra-tegie pubbliche di governo del territorio e dalla volontaria in-capacità di ricercare sintesi lungo un percorso condiviso, la-scia spazio alla quotidianità affidata alla struttura burocratica pronta ad assecondare, con interpretazioni estensive delle nor-me, la domanda di trasformazione a discapito degli interessi pubblici. Ci troviamo di fronte una sconfitta della politica, e nel Comune di Matera si sono invertite le parti tra la politica e la burocrazia tanto che quest’ultima riesce a condizionare un potere politico/amministrativo incapace di imporre qualsiasi livello di programmazione e di controllo.

Di fronte a questa situazione diventa veramente difficile ri-cercare soluzioni credibili ed incisive in grado di determinare l’avvio di percorsi culturali, politici e amministrativi rispon-denti ai reali bisogni dei cittadini.

Ad oggi, dallo scarno dibattito apertosi nella Città di Mate-ra, solo due sono le proposte emerse: rifondare l’urbanistica

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materana presuppone il riallaccio dei contatti con l’urbanistica nazionale, abbandonando la politica della “emergenza”, ed im-postando una nuova stagione di progettualità urbanistica sulla scorta dei nuovi strumenti previsti dalla L.R. n. 33/99; pensa-re ad un Piano strutturale/strategico che tenga conto di un’ag-giornata analisi sullo stato sociale e sulla economia di questo territorio, elabori un documento di indirizzo che fissi le linee strategiche di sviluppo territoriale a cui dovrà corrispondere un altrettanto chiaro indirizzo sul piano dell’organizzazione dei contenuti e della forma urbana. Un piano/strumento in grado di orientare i processi di trasformazione urbana e territoriale facendo loro assumere caratteristiche di sviluppo davvero so-stenibile (socialmente e territorialmente), sorretto da vocazioni e saperi locali.

Possono queste proposte da sole riuscire a scardinare la struttura del “partito del mattone” che condiziona l’urbanisti-ca materana? Certamente no. Quel che è necessario è un vero rinnovamento politico che investa i partiti e la società civile, come il rapporto tra loro. Bisogna passare dalla denuncia alla proposta e lungo questo percorso realizzare una “svolta”. Pri-ma che sia troppo tardi.

Intervista al sindaco di Matera Michele Porcari

ANTONIO CALIFANOANNA MARIA RIVIELLO

“Chi fa politica stia lontano dagli affari”

La storia di Matera, la bellezza del suo centro storico, la presenza dei Sassi giustificano l’allarme che si sta creando intorno ad una “cattiva” gestione della politica urbanistica e del recupero dei Sassi. A luglio di quest’anno è uscito un numero di Basilicata, la storica rivista di Leonardo Sacco, in cui si esprimono giudizi molto duri sullo stato delle cose e sulle responsabilità del ceto politico materano .Chi meglio del Sindaco può esprimere una valutazione e un giudizio? Da qui nasce questa nostra conversazione con Michele Porcari.

Il Sindaco della città che idea si è fatta di tutto questo?Alcune idee nascono dall’esperienza che sto vivendo, af-

fascinante per un verso, difficile per altri. Condivido le ri-chieste fatteci da più parti di riaprire un dibattito sulla città. Infatti stiamo pagando il fatto che da quindici anni non si discute. Ora si tratta di capire se questa discussione bisogna aprirla o cercare solo un capro espiatorio. Se è così è eviden-te che io come Sindaco mi presto a fare da capro espiatorio. Questa Amministrazione si è confrontata, è stata capace di accettare le critiche. Alcune destinazioni d’uso, vedasi l’area camper, sono state cambiate dopo il confronto con le Asso-ciazioni. Di questo non c’è stato il giusto apprezzamento.

Il limite della discussione di questa estate è che si ferma all’analisi dell’accaduto e non offre una prospettiva. Si con-tinua poi a non voler fare chiarezza. Sono pochi quelli che vogliono dire come stanno realmente le cose sull’urbanistica e sulla gestione del territorio a Matera. Eppure in questi anni sono molti quelli che hanno avuto i documenti dal Comune e che conoscono i fatti. Il Comune non ha mai fatto misteri. Andiamo a guardare cosa è successo, chi ha firmato gli atti, chi ha firmato i provvedimenti. Altro che “scempio di questi tempi”, come scrivono alcuni giornali!

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P“Chi fa politica stia lontano dagli affari”

Questa Amministrazione ha appro-vato dopo un anno di lavoro e quindi-ci anni di attesa (l’incarico a Nigro è dell’89) il piano regolatore. La lunga attesa è dovuta solo ad errori tecnici e non politici, la Regione infatti ha boc-ciato il piano per problemi procedurali, quindi ha bocciato i tecnici non i poli-tici.

Si apre qui una questione che var-rebbe la pena di approfondire, il rapporto tra fun-zioni tecniche e funzioni politiche. Si hanno idee con-fuse su cosa sia un’Amministra-zione e come fun-ziona. Il Sindaco non è un monarca assoluto. Il Comune è un’istituzione fortemente burocratiz-zata, regolamentata da leggi che disci-plinano compiti, funzioni e poteri.

Ti riferisci all’autonomia della fun-zione dirigente?

La legge 267/2000, prevede una fun-zione autonoma nelle mansioni esecu-tive di indirizzo da parte dei funziona-ri. Questo aspetto è poco noto perché i

soggetti politici non ne parlano per non sminuire il proprio ruolo e agli altri fa comodo così. D’altra parte è giusto che il cittadino si rivolga al politico che ha eletto.

Il punto ora è, come si esce da una situazione che abbiamo gestito limitan-doci a dare solo un’accelerazione, rara

per Matera, ma che poi è naufragata su problemi tecnici.

Questa Amministra-zione non ha fatto lot-tizzazioni, non ha fatto varianti, se non una re-lativa alla zona 33, di rimodellamento delle destinazioni urbanisti-che precedenti che non incide sui volumi, ed un’altra relativa all’am-

pliamento destinato all’edilizia popola-re e al ripristino degli standard, su un progetto, per altro, che non è di questa Amministrazione.

Per questo quando leggo “gli scem-pi attuali dell’urbanistica” rimango in-terdetto. Possiamo chiederci se c’è una responsabilità politica delle altre Am-ministrazioni? Direi che c’è stata una carenza di scelte sul profilo della città

e questo obiettivamente ha lasciato spa-zio all’affermazione di interessi parti-colari.

Cosa pensi che ora bisognerebbe fare?

Discutere cosa vuole essere questa città e affrontare le emergenze che que-sto dissennato stato dell’urbanistica ha provocato. Abbiamo fermato e rallenta-to alcune realizzazioni ma che non ab-biamo risolto politicamente il problema introducendo la necessaria inversione di tendenza.

Escludo un blocco dello sviluppo dell’edilizia abitativa perché non cor-risponderebbe alle esigenze della città ma sono contrario a pensare, per motivi ambientali ed economici, che esso pos-sa realizzarsi sull’asse lungo il quale fi-nora è cresciuta la città. Abbiamo i bor-ghi su cui spostare servizi per renderli vivibili, dobbiamo immaginare per essi uno sviluppo programmato.

Il dibattito che si fa in città purtroppo non affronta questi problemi ma indu-gia sul passato, spesso è rinunciatario. Si dice: gli scempi ci sono non c’è più nulla da fare. Spesso si parla di cose inesistenti, si scade nel pettegolezzo, i cittadini finiscono col dare per certe notizie di fantasia come è accaduto ad

“La polemica di Sacco ha il limite di riproporre una discussione rivolta al pas-

sato, ma i problemi ci sono. Bisogna stabilire qual è la vocazione della città. Pen-so che il turismo culturale

debba essere la bussola della nostra azione”

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una signora che mi ha chiesto se poteva comprare casa al campo sportivo dove non è previsto l’avvio di alcun lotto abi-tativo!

Ma il Sindaco anche se non è il Si-gnore degli Anelli è pur sempre il Sinda-co, possibile che non può fare niente?

Esiste una situazione abitativa diffi-cile, nonostante le grosse lottizzazioni degli anni novanta, i costi sono elevati. Bisognerà dare maggior sfogo ad edi-lizia sovvenzionata e popolare ma non possiamo più toccare il centro urbano che ha un’estensione eccessiva e irre-golare. Bisogna prevedere lo sviluppo in nuove aree.

Ma soprattutto dobbiamo concentrar-ci sullo sviluppo economico della città che è la condizione necessaria per tu-telare ambiente e qualità della vita. Ci vuole la tranquillità economica e noi non l’abbiamo né come cittadini, né come Amministrazione. Il Comune non ha risorse.

E la Storia, i Sassi...?Sviluppo economico per Matera è

anche e soprattutto turismo. Ma che tipo di turismo? Tutti definiscono Ma-tera città della pace, Matera città della cultura, città del turismo culturale. In realtà questa scelta non è sancita in al-cun documento ufficiale. Le istituzioni non l’hanno mai fatta. Non è cosa da poco. Se un imprenditore dice di voler realizzare le montagne russe a Borgo Venusio, io in questo momento non gli posso dire di no. Non c’è un documen-to che dica ciò che si può o non si può fare. E’ il turismo culturale quello su cui stiamo puntando? Dichiariamolo, esplicitamolo, e poi cominciamo a ca-pire come su questa scelta si aggregano forze e si costruisce il consenso..

Chi lo deve dichiarare? Il Comune?Il Comune lo ha già fatto, lo ha già

scritto. Ora tutti debbono trarre le con-seguenze.

La tua amarezza è dovuta al fatto che le forze sociali, gli imprenditori non ti seguono?

Non danno prospettive, si fermano a fatti parziali. Se parliamo di turismo culturale dobbiamo decidere come si sviluppa il territorio rispetto a questa esigenza. Si tratta di valorizzare la no-stra storia, la nostra cultura a partire dai Sassi. Ci sono personalità a Matera come Raffaele De Ruggeri che incontro in dibattiti di livello nazionale che ha molte buone idee ma che qui non trova-no spazio. Usiamo le competenze che abbiamo e decidiamo come si fa turi-smo culturale mettendo a valore il no-stro patrimonio.

C’è un concorso nazionale del lonta-no 1977, vinto dal gruppo dell’archi-tetto Tommaso Giura Longo che propo-neva una complessiva rivitalizzazione dei Sassi e non una mera destinazione a Museo all’aria aperta. Che fine han-no fatto le proposte di prevedere comparti di edilizia residenziale?

Abbiamo vissuto una soffertissima fase di avvio della rivita-lizzazione dei Sassi. Il primo bando, per il reinsediamento delle attività andò deserto. Quell’Amministrazione vedeva la rivitalizzazione in una logica conserva-tiva. Questo problema è stato risolto, for-se male, attraverso una forte disponibilità a dare spazio ai privati. Ora siamo nella condizione di dire fermiamoci e decidia-mo come possiamo rigestire il territorio. Ieri non avevamo nulla perché i Sassi erano vuoti, oggi invece abbiamo il pro-blema della conflittualità tra insediamenti produttivi e residenzialità. Ma è un pro-blema comune a tutti i centri storici vivi. Vuol dire che quegli interventi anche se disordinati hanno prodotto un risultato. Oggi il problema che abbiamo è quello di governare la vita all’interno dei Sas-si, abbiamo la materia prima e si tratta di modellarla. Non nego che siamo stracari-chi di problemi perché per rivitalizzare il quartiere abbiamo perso di vista un’orga-nica programmazione degli interventi.

“C’è stata una fasesoffertissima di avvio. Poi i Sassisi sono ripopolati.Forse sin troppo”

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Intanto i soldi destinati ai Sassi come sono stati spesi?

I bandi secondo la legge 771 per la rivitalizzazione dei Sassi sono stati fatti quindici anni fa. Attualmente abbiamo finito i fondi, stiamo recuperando i fon-di dei progetti non eseguiti. Ora però non avendo i problemi di partenza, il contributo si fermerà al 15% , non al 40-60% e fino al 100% come è avvenu-to negli anni ’90.

Va bene, ma ora, c’è una tua idea su cosa bisogna fare. Passata la fase di avvio i cittadini devono vivere nei Sassi o pensi solo o prevalentemente a strutture di tipo turistico?

Ritengo che la soluzione passi per una via di mezzo, difficile perché gli interventi sono frastagliati tra aree re-sidenziali dove fare arrivare servizi che appunto servono alla residenzialità ed aree più idonee ad attività produttive di giorno e ricreative di sera. aree che non sono in conflitto ma che, anzi, consen-tono una piena vivibilità del territorio. Individuerei, ma se ne può discutere, per la prima destinazione, per le resi-

denze le aree alte dei Sassi, per le altre le aree più basse.

Abbiamo avuto per due, tre anni l’in-vasione dei Sassi da parte di migliaia di ragazzi, ora il fenomeno si è attenuato un po’ perché si è cercato di dirottarli, un po’ perché è “passata la moda,” è finito l’ingorgo ma è rimasta la percezione dei Sassi come un luogo di vita.

Hai fatto riferimento al rapporto tra tecnica e politica. Come sai, non è con-sigliabile affidarsi completamente alla teknè, è la politica quella che deve sce-gliere. Proprio per quello che dicevi al-l’inizio non credi sia necessaria una bat-taglia culturale per affermare il primato della politica? C’è un ritardo su questo dell’ Amministrazione, delle forze politi-che. Insomma se vuoi superare come dici “i piccoli fatti” devi inglobarli dentro un’idea, una strategia. L’assenza, l’omis-sione da parte dei responsabili della po-litica locale non è meno colpevole di chi approfitta di questo per fare i suoi affari. I piani non decollano o decadono e si va avanti con interventi disordinati che se-guono la sola logica del profitto.

Nelle Amministrazioni lo spazio del-la politica si è ridotto. Non ci sono ri-sorse per grandi progetti. Proporrò che diventi “borgomastro” il Direttore Ge-nerale del Comune così sarà più chia-ro che i grandi temi politici sono stati buttati fuori dall’Amministrazione. Le ultime finanziarie sono libri umoristici, la politica sociale si fa sulle dentiere e non si fa pagare il canone RAI ai centri per anziani…..che, per altro, non han-no la televisione. Senza risorse aumenta il ruolo dei tecnici che devono farti uno studio al millesimo delle risorse dispo-nibili per andare avanti.

Più che della politica stai parlando del ruolo del Comune e di una politica che sottrae funzioni e risorse agli enti locali.

Si è parlato di edilizia popolare nei Sassi. L’Ater ha detto che non si può fare, i programmi di edilizia popolare non sono compatibili con i Sassi e quin-di si sono bloccate le ristrutturazioni abitative.

La Basilicata negli ultimi anni sem-brava risollevarsi da una storia esem-plarmente difficile. Sono nate grandi

Matera, Esempio di edilizia popolare degli anni Settanta - foto di Mario Cresci tratta da Basilicata, TCI, 1984

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speranze che di fronte soprattutto alla crisi del comparto industriale sembra-no allontanarsi paurosamente. Siamo secondo l’ISTAT, la Regione in cui ci sono (con la Sicilia) il maggior nume-ro di cittadini poveri mentre continua l’esodo ininterrotto dei nostri giovani. È una situazione che avrebbe bisogno di una classe dirigente all’ altezza dei problemi. La presenza di gruppi ristretti di interessi che attraversano la politica, burocrazia ed affari, strozza obiettiva-mente la vita civile di qualunque terri-torio. È un problema che esiste, come viene da più parti denunziato?

Ritengo che non devono esserci commistioni tra la funzione pubblica e la funzione d’impresa. Se uno vuole fare soldi non deve fare politica. Per me questa è una regola di condotta.

Ma al di là di ciò che si pensa sul piano personale, il problema esiste?

Bisogna cambiare la cultura. Il di-scorso sull’etica nella sinistra va fatto. Però non va fatto strumentalmente, per-ché spesso il primo che urla “al ladro, al ladro!” è quello che si è messo in tasca

qualcosa. Io sono attaccato continua-mente da persone che i fatti loro se li sono fatti e sistemati. Fin a quando in politica si impegneranno solo quelli che hanno qualcosa da guadagnarci, quelli che non ce l’hanno saranno massacra-ti e martoriati. La gente per bene verrà trattata da imbecille e gli sarà detto: “tu non capisci come funziona la politica, noi sappiamo com’è la politica”. In que-sto modo la gente per bene si allontana.La situazione che si è creata a Matera, che è quella di “dagli all’untore” verso l’attuale amministrazione, fa comodo a molti, quelli che parlano e anche quelli che stanno zitti. Avevo scommesso su un patto strategico con gli imprenditori per consentire loro di non passare dalle forche caudine della politica. Ho detto loro: facciamo le gare e facciamole se-riamente. C’è stato un fuggi fuggi gene-rale. E allora di che parliamo? Voglia-mo bruciare sul rogo il politico e poi gli attori sociali pretendono che il politico si comporti in modo poco trasparente? Dobbiamo tutti imparare che non si può vivere in queste condizioni, pena rima-

nere indietro, essere un paese del Terzo Mondo.

La situazione a livello nazionale non appare diversa ma insistiamo, noi ab-biamo un problema in più. La gravità della situazione sociale ed occupazio-nale, richiederebbe come livello mini-mo di partenza un ceto politico capace di progettualità e di azione, quella che gli studiosi del settore chiamano “go-vernance”.

Tre cose servono in questa situazio-ne: persone di buona volontà (dico così perché sono cattolico), chiarezza di rap-porti, unità d’intenti.

Avete ragione, anche io sono terro-rizzato da quello che stiamo vivendo. Noto che la gente invece di pensare a come venire fuori dai problemi sta pen-sando a come saltare sul carro del più forte. Dovremmo fermarci tutti e chie-derci come fare per salvare l’economia del nostro territorio, invece, di fronte alla disgregazione economica e sociale, vanno avanti spinte particolaristiche e individuali. Rispetto alla discussione che si è aperta sulle scelte urbanistiche

Matera, Esempio di edilizia popolare degli anni Settanta - foto di Mario Cresci tratta da Basilicata, TCI, 1984

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politica e società

PI Sassi cattivi soggetti

tra nuovi e...

TOMMASO GIURA LONGO

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Dopo l’approvazione comunale del primo programma bien-nale di interventi nei Sassi, avvenuta nel Giugno 1988, quoti-diani, periodici e riviste specializzate sono tornati a occuparsi di Matera. Il tono complessivo dei commenti oscilla tra il mi-surato consenso per il primo passo compiuto nella concreta applicazione della legge 771 del 1986 e l’attesa un po’ ansiosa di vedere in che modo le realizzazioni corrisponderanno alla troppo tormentata e troppo lunga maturazione culturale del-l’evento attuativo. Protagonisti di tale atteso evento sembra-no essere i cosiddetti “nuovi soggetti”, indigeni o forestieri, che finalmente avrebbero rivolto il loro più grande interesse alla complessa operazione di recupero e (perché no?) di rivi-talizzazione dei due storici rioni. Nessuno dei commentatori di quest’ultima fase della questione materana si sforza però di spiegarci chi siano questi nuovi soggetti né si domanda se, per caso, dietro o accanto ai nuovi non possano esserci i soliti “cattivi soggetti” che, da almeno trenta anni, comandano l’urbanistica materna. Eppure, nel valutare la effettiva portata dell’operazione di recupero di un centro storico, la questione centrale è quella di garantirsi, prima di tutto, che i soggetti pro-tagonisti siano quelli giusti, cioè i residenti stabili e le impre-se specializzate locali e poi che siano veramente nuovi questi soggetti, cioè che siano diversi da quelli che hanno ridotto l’ur-banistica ad ancella delle rendite, del mercato dei suoli, degli alloggi e degli affitti. Voglio dire diversi da quelli che hanno confuso l’urbanistica con la gestione clientelare dei finanzia-menti, degli appalti, degli incarichi pubblici e delle concessio-ni edilizie in variante ai piani.

Dopo il piano Picconato del 1956, a Matera, si puntava sul recupero dei Sassi per riportare l’urbanistica al suo più alto compito: dare qualità all’assetto complessivo dell’organismo

Intervento al Convegno ANCSA, “Associazione nazionale Centri storici e artistici”, Palermo 29 Giugno/1 Luglio 1989.

di Matera potrei anch’io accusare questo e quello. Ma così non si risolve nessuno dei problemi della mia città. Come risolvo il problema delle persone che vengono alla mia porta a chiedere il lavoro che non hanno? Gli imprenditori mi spa-rano addosso perché hanno avuto gli appalti con un importo minore di quello che volevano. Ma i soldi che l’Amministra-zione ha risparmiato li posso spendere sulle politiche sociali o creando altri posti di lavoro.

Si ha l’impressione che tu creda più in un’autoriforma della società che in un’autoriforma della politica.

No, se non ci credessi avrei abbandonato il mio posto di sindaco. Ho fatto politica e volontariato insieme sin da ra-gazzo. Credo che per cambiare bisogna stare dentro ai pro-cessi. Non credo personalmente nella “rivoluzione” perché la storia mi ha insegnato che la rivoluzione, una certa maniera di concepirla, non cambia il modo di gestire cambia solo chi gestisce. Non credo ai cambiamenti traumatici ma ai cambia-menti graduali e che vengono dall’interno. È questa l’unica soluzione per non fare la parte dei Gattopardi di turno, cioè cambiare tutto perché non cambi niente.

Questo cambiamento deve riguardare anche i partiti?Si. Io ho accettato di vivere questa esperienza politica

dando fiducia ai partiti. La scelta degli assessori è stata con-divisa con i partiti. Perché l’unico modo per uscire fuori dal-la situazione attuale è quello di ridare responsabilità ai partiti politici. Nei Democratici di Sinistra ci sono persone di cui mi fido, che stanno portando avanti un rinnovamento vero. Si cambia se diamo spazio alle persone che pensano di lavorare in quella direzione, non dobbiamo lasciare il campo a colo-ro che considerano la politica un mezzo per fare gli affari. Insomma, chi ha interesse “a fare la rivoluzione” a Matera? Forse chi vuole prendere il posto del Sindaco?

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urbano, gravemente compromesso dalla sciagurata variante generale del 1972.

Il dibattito sui Sassi, prolungatosi per un quarantennio, era riuscito, sia pure con grande fatica e tra mille difficoltà, a determinare alcune condizioni per fare tornare Matera nel novero delle città ben disegnate e ben gestite, come lo fu negli anni a cavallo del 1960. Queste condi-zioni potevano costituire più di una pre-messa per imprimere una svolta salutare nella gestione urbanistica della città e si possono così sintetizzare: la corretta applicazione delle successive leggi spe-ciali per il risanamento dei Sassi; la pro-prietà pubblica di una parte cospicua del patrimonio edilizio storico; le risultanze del concorso internazionale di idee ed i conseguenti studi per i piani di recupero pilota; le provvidenze della legge 771 del 1986; infine, la stesura del primo programma biennale di interventi.

Nonostante ciò, oggi possiamo già constatare che tale svolta non c’è stata o che, per lo meno, essa non ha avuto né la spinta né la portata tali da segnare con decisione il passaggio dell’urbanistica dell’espansione deregolata a quelle del-l’espansione dell’esistente.

La vicenda dell’approvazione del pri-mo programma biennale di interventi nei Sassi è stata narrata e commentata nel numero 7/9 di “Basilicata”. Da tale vi-cenda esce ancora una volta confermato “il disegno politico di gestione conser-vatrice e clientelare della cosa pubblica materana, proprio in questa straordinaria occasione”, secondo le parole che ha pro-nunciato in consiglio comunale il consi-gliere Alfonso Pontrandolfi e che molti giudicarono esagerate. La giunta e il consiglio comunale, il 13 giugno, appor-tarono alcune significative modifiche alle tavole e alle norme presentate dai consu-lenti nella seduta del 31 maggio. Queste modifiche rivelano nettissima la volontà di non disturbare nessuno di quelli che Le Corbusier chiamava “i giochi fatti e da farsi” e sui quali ha costruito, a Ma-tera, la sua forza il partito dell’edilizia. Quest’ultimo sembra ormai attraversare tutti i gruppi politici in consiglio comu-nale e si manifesta attraverso inaspet-tate e sorprendenti contiguità tra alcuni che decidono (assessori, amministratori e funzionari) e alcuni altri che specu-lano (sensali di terreni, imprenditori e professionisti). Le più rilevanti tra le

modifiche della giunta sono: la riduzio-ne dei vincoli di inedificabilità sull’area dell’altopiano murgico prospiciente i Sassi, dichiarato di preminente inte-resse nazionale dalla legge; la riduzio-ne dell’edilizia residenziale pubblica, nell’ambito di San Pietro Barisano; la parallela artificiosa enfatizzazione dei grandi concessionari, presunti portato-ri di servizi terziari avanzati, culturali, turistici e internazionali, per lo più im-probabili e improvvisati; la cancellazio-ne, infine, del concorso internazionale di progettazione per la punta di Santa Lucia alla Civita.

È evidente lo scopo di tali “ritocchi”: rassicurare il partito dell’edilizia e con-tinuare a garantirgli che potrà alimen-tarsi ancora di nuove edificazioni, pre-valentemente residenziali e sicuramente fuori piano regolatore. La continuità del disegno clientelare che guida lo svilup-po di Matera emerge a tutto tondo se si mettono in sequenza le modifiche im-poste al programma per i Sassi e alcuni atti deliberativi comunali che precedo-no e che seguono l’approvazione del programma biennale.

Eccone alcuni:

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- le trenta e più varianti al piano rego-latore intervenute a partire dal 1972 e tutte indirizzate a consentire edifica-zione abitativa su aree agricole o de-stinate a verde;

- l’abbattimento del mulino Andrisani e l’insensato intasamento del suolo ricavato con decine di appartamenti, uffici e negozi;

- l’approvazione di due nuovi pesanti insediamenti di 167 ad Agna e in via Gravina;

- l’approvazione di una mastodontica clinica-albergo in aperta campagna giustificata col pretesto ipocrita del recupero di una vecchia masseria.Questo disegno, retrivo e buio, con-

traddice visibilmente i tanto conclamati buoni propositi di dare serio avvio al ri-sanamento dei Sassi. Ma il dato più in-quietante è che questo disegno ha avuto il potere deduttivo di aggregare, in con-siglio comunale, non solo le forze della maggioranza ma anche quelle dell’oppo-sizione di sinistra. Qualche defezione e qualche riluttanza in verità è emersa tra le file dell’opposizione, ma si è trattato di casi isolati ed occasionali. Comunque è ancora troppo poco per sperare che,

nella pratica urbanistica materna, non si protragga e non si cronicizzi lo stato al-larmante di confusione di idee e di ruoli, messo in moto dalla variante del 1972 e rafforzato dai decreti sull’abusivismo, tutte cose che hanno già prodotto veri scempi alla città costruita ed al territorio circostante.

Quello che sommamente disturba i fautori di questo disegno è che i Sassi possano essere destinati ai normali, civili e tradizionali usi abitativi. Tale idea non fa dormire sonni tranquilli a costoro, dal momento che essi paventano ogni, sia pur minima, riduzione dello stock di nuo-ve abitazioni che vorrebbero continuare a veder dilagare indiscriminatamente, sotto le turpi sembianze di cooperative, condomini, residences e intensivi.

Disturba meno invece che i Sassi pos-sono diventare luogo archeologico pri-vilegiato, destinato esclusivamente ad attività nobili ed elevate, a servizi rari e avanzati, a finzioni prestigiose e cul-turali, a comunità di studiosi, scienziati e artisti provenienti da tutte le parti del mondo. Anzi, questa seconda idea non li disturba affatto e costituisce il male minore, accettabile perché remotissimo.

Come sempre essi vogliono ancora che i Sassi restino isolati dal resto della città e mantengano il ruolo di mera appendice esornativa, ininfluente sugli assetti urba-nistici futuri, sui giochi ancora da farsi dei cattivi soggetti (cattivi si intende in senso urbanistico).

Alla fine degli anni ottanta e alla vigi-lia dell’ingresso in Europa, la condizio-ne urbana di Matera, che pure fu definita “città emblematica” del riscatto meri-dionale, sembra stia tornando in dietro di quaranta anni e si presenti simile a quella di tante altre città della provin-cia italiana che non è ancora uscita dal sottosviluppo. In esse il patto sociale tra amministrati e amministratori sarà sem-pre più arretrato e barbaro se continuerà a basarsi sulla rozza e perentoria formu-la: io ti faccio costruire e tu mi voti.

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La storia della centrale del Mercure è antica: l’autorizza-zione per la sua costruzione risale al 1962 e il suo reale av-vio è nel 1965 (sezione 1 della centrale) e 1966 (sezione2). Inizialmente si prevede l’utilizzo dei giacimenti delle miniere di lignite presenti nella zona, ma, in attesa di poter utilizzare tali giacimenti, si inizia con una alimentazione ad oli combu-stibili. Alterne vicende si succedono negli anni, con continue denunce degli abitanti locali sui gravi danni ambientali che la centrale produce, finché l’ENEL nel 1984 avvia la procedura tecnica ed amministrativa per la riconversione a carbone. Suc-cessivamente la stessa ENEL decide con motivazioni di ordine economico ed ambientale, e nonostante interventi costosi ope-rati sulle due sezioni decide di fermare gli impianti, nel 1993 della seconda sezione e quindi nel 1997 della prima sezione.

Nel settembre del 2001 l’Enel chiede alla provincia di Co-senza, comune entro cui ricade il sito della centrale, l’auto-rizzazione per la riconversione della sezione 2 della stessa a biomasse (in particolare a cippato di pioppo) per una potenza prevista di 35 MW netti.

La “cura” che l’Enel ha riservato a questa centrale mai completamente operativa è perlomeno singolare: dal febbraio al luglio 2005 si succedono le indagini e i sequestri dei cara-binieri che più volte rilevano interramenti di amianto e valori superiori ai limiti di legge di nichel (a testimonianza del pas-sato impiego di oli combustibili) presenti nel terreno interno ed adiacente alla centrale. Il tutto implica un fattore di grave inquinamento, data la prossimità della centrale al fiume Lao (zona a Protezione Speciale compresa nella Zona 1 del Parco del Pollino) e l’indagine si conclude con nove avvisi di ga-

ranzia verso dirigenti dell’Enel ed amministratori. Questi fatti rendono di per se il progetto di riconversione ed apertura per lo meno sospetto, e se a questo si aggiunge la leggerezza con cui la Regione Calabria ha trattato l’intera vicenda il quadro risulta a dir poco preoccupante.

La cosa che ancora non risulta chiara è quale sia per l’Enel l’obiettivo reale di questo tipo di riconversione proposta, i cui dati tecnici sono piuttosto contraddittori. I 35 megawatt pre-visti, ad esempio, sono in contrasto con il protocollo d’intesa con il Ministero dell’Ambiente, che prevede un massimo di 15 megawatt per le centrali a energie rinnovabili nei Parchi. Il fabbisogno di biomasse vegetali (cippato di pioppo) annuo (380.000 tonnellate) appare sottostimato in relazione alla po-tenza della centrale e renderebbe comunque necessario un ade-guamento delle infrastrutture (per altro negato dall’Enel), allo stato attuale non in grado di sopportare il traffico dei camion per l’approvvigionamento. Infine, una centrale a biomasse si giustifica, economicamente ed ecologicamente, solo se si è in grado di utilizzare tutto il calore messo a disposizione e da questo punto di vista il progetto presentato dall’Enel è quanto mai lacunoso. È lecito il sospetto che l’Enel sia interessato alla conversione della centrale del Mercure solo per “accumulare punti” e per raggiungere le premialità europee collegate alle quote di produzione di energia pulita.

Esistono quindi diversi e giustificati motivi per non lascia-re il processo di riconversione dell’attuale centrale affidato al solo criterio di autogoverno dell’Enel, prescindendo da più rigorose valutazioni sull’impatto ambientale del progetto proposto. D’altro canto, non sembra utile un atteggiamento

Mercurema la centrale c’entra?

PAOLO FANTI

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ma la centrale c’entra?Cosa si intende quando si dice che le biomasse vegetali sono fonti di energia alternative?Da un lato il fatto che il loro processo di combustione, produce una minore quantità di inquinanti, soprattutto con le recenti tecnologie disponibili, ad eccezione degli ossidi d’azoto, comparabili a quelli ottenuti utilizzando olii combustibili o gas naturale. Questo dato innegabile rende le biomasse vegetali una fonte energetica preferenziale rispetto a combustibili fossili, a parità di altre condizioni.A volte si fa invece riferimento al fatto che le foreste, e le piante in generale, agiscono come una sorta di “serbatoio”, di accumulatore netto di CO2, convertendola, tramite la fotosintesi, in nuova biomassa, contribuendo a mitigarne l’aumento nell’atmosfera (e il conseguente effetto serra). Questo genera a volte un affrettato ragionamento sulla sostenibilità tout court della combustione da biomasse, che si può riassumere così: dal momento che il processo è ciclico, l’immissione netta nell’ambiente è nulla e questo non peggiora l’effetto serra. Questa conclusione è errata perché il problema non sta nell’immissione nell’ambiente, bensì nell’atmosfera. In altri termini: nel processo di combustione si converte il carbonio organico in CO2 in un tempo di gran lunga inferiore a quello necessario per risequestrarlo in nuova biomassa. Quel che occorre è un equilibrio nel ciclo del carbonio: tanto viene liberato nell’atmosfera (come combustione o decomposizione) e tanto viene assorbito dalle foreste o dagli oceani. L’effetto serra è anche conseguenza del fatto che l’immissione antropogena di CO2 è passata, dalla fine del XVIII secolo, dal valore irrisorio di cento milioni di tonnellate di carbonio annue a circa 6,3 miliardi di tonnellate l’anno – circa il doppio di quello che la biosfera può facilmente assorbire. Obbiettivo principale del protocollo di Kyoto è quello di ridurre l’emissione di CO2 nell’atmosfera, indipendentemente dalla fonte di emissione, petrolio o biomasse.Perché allora ci riferiamo alle biomasse vegetali come fonti alternative, con maggior grado di sostenibilità? Questa è una affermazione vera, se rispettiamo alcune presupposti. Il primo è quello di scegliere come biomasse quelle colture che hanno tempi di rinnovo ridotti ed elevata produttività per superficie, che ci mettono cioè meno tempo a sequestrare carbonio dall’atmosfera (e questo spiega il ricorso al pioppo rispetto ad altre essenze forestali). Il secondo implica individuare prevalentemente come massa combustibile non l’intera produzione vegetale/arborea, ma i sottoprodotti della sua lavorazione (da cui l’uso del cippato, materiale legnoso di varia forma, ma comunque di piccole dimensioni, e che tipicamente deriva da scarti legnosi urbani o dalle lavorazioni del legno, oppure di scarti di lavorazioni agro-alimentari, come sansa e noccioli d’oliva).Nel promuovere l’uso delle biomasse forestali (o comunque vegetali) come sostituti dei combustibili fossili è quindi essenziale distinguere tra una gestione pianificata (che interessi ogni anno una frazione boscata complessiva tale che il prelievo sia compensato dagli incrementi di tutte le particelle non toccate) da un taglio guidato solo dalle condizioni di mercato. La prima soluzione è garanzia di gestione sostenibile, la seconda rischia di aumentare gli squilibri ambientali.

che si pronunci aprioristicamente contro l’utilizzo di biomasse per la produzio-ne energetica. La produzione forestale costituisce una delle poche risorse real-mente rinnovabili del pianeta, se cor-rettamente realizzata secondo i canoni della gestione sostenibile (vedi scheda), ed una sua valorizzazione potrebbe con-trobilanciare, almeno in parte, un mo-dello di sviluppo totalmente incentrato sull’uso di risorse non rinnovabili come i combustibili fossili. La battaglia per ottenere nella conversione della centra-le del Mercure il massimo di garanzie quindi non può sconfinare in forme di in-tegralismo ambientalistico (pur alimen-tato dalle ambiguità dello stesso Enel) e non può prescindere da un atteggiamen-to culturalmente favorevole all’utilizzo di queste fonti energetiche, all’interno di un programma di pianificazione che tenga conto di tutti gli aspetti che riguar-dano la funzionalità e la conservazione dell’ecosistema e del territorio.

In questo senso, il dimensionamento dell’impianto e il problema dei conse-guenti volumi di approvvigionamento sono elementi non secondari, ma centrali e fanno la differenza fra una scelta so-stenibile o meno. Le scelte dell’Enel in merito al tipo di riconversione non sem-brano sottrarsi a vecchie logiche, e sono peraltro coerenti con altri progetti di ri-conversione su cui punta l’Ente, come il passaggio da olio combustibile a carbo-ne “pulito” della centrale Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia, progetti segnati da un gigantismo e un modello energetico storicamente basato sulla sola offerta.

Date queste premesse, il risultato fi-nale sarà sempre lo stesso, non importa se inseriamo nei modi di produzione una quota “verde” (che rischia di ottenere lo stesso risultato di quelle, in altri contesti, “rosa”). Ripetiamo quanto abbiamo già detto a proposito della centrale di Pisticci: l’unico sviluppo ecocompatibile è quello che usa l’energia nel modo più efficiente, producendo più lavoro, beni, servizi e ric-chezza per chilowattora consumato.

ENERGIA DA BIOMASSE E SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE

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Ppolitica e società

Ferrandinauna “bufala” nucleare

ANTONIO CALIFANOPAOLO FANTI

Il 18 agosto scorso, il quotidiano “Il Manifesto” pubblica un articolo dal titolo “Ferrandina atomica, la futura Los Alamos”, ove si racconta che la cittadina lucana è destinata ad ospitare nientemeno che il primo reattore al mondo a termofusione cal-da controllata, almeno nelle parole dell’ideatore del progetto, il fisico Emilio Panarella. Questi dice che il programma è a buon punto, incontra il favore della Regione (“Bubbico, quan-d’era presidente, mi ha assicurato la massima disponibilità”), della giunta comunale (“il sindaco ha destinato un’area per il progetto”), dell’Accademia (“l’anno scorso ho stretto un ac-cordo con l’Università di Potenza”). E i finanziamenti? L’anno scorso il ministro Marzano annunciò un intervento che inte-ressava l’area di Ferrandina, con fondi UE destinati allo svi-luppo di “energie alternative”. Giubilato Marzano, l’interesse del governo non sembra attenuato: “Il vice-ministro per le at-tività produttive Adolfo Urso, per quanto ne so, è disponibile” - insiste il fisico - “Tra cinque anni la centrale sarà pronta”.

La prima reazione a livello locale all’articolo è di Franco Mattia, FI, che elenca vari dubbi in termini di sicurezza, am-biente, salute e di difesa dell’impianto da attacchi terroristi-ci. Più o meno velatamente, si sottolinea una presunta doppia natura del centrosinistra regionale: antinucleare nei giorni di Scanzano, ma sotto sotto…

Il giorno dopo, Mattia viene “tirato per le orecchie” da Nino Grasso sulla Nuova Basilicata: Mattia non prenda delle inizia-tive prima di capire di che si tratta, questa è farina del sacco del centro-destra – è il senso del pezzo - semmai va elogiato l’atteggiamento del Presidente Bubbico di fronte a un progetto di alto valore scientifico e enorme interesse economico.

In effetti sulla paternità “politica” del progetto pare non vi siano dubbi: il primo Memorandum di intesa viene siglato tra una società di Panarella (la Fusion Research Technology) e la giunta di centro-destra di Ferrandina nel marzo del 2003, e dello stesso periodo è la disponibilità del governo a investi-re, confermata dal consigliere del sottosegretario Urso, Mario Cospito, al giornalista del Manifesto.

Tranne queste certezze, il percorso della vicenda necessita diversi chiarimenti. Cominciamo dall’ideatore del progetto. Emilio Panarella, originario di Ferrandina, si laurea a Napoli e si trasferisce in Canada, dove lavora all’NRC (equivalen-te canadese del nostro CNR) dal 1964 al 1987. In quell’anno lascia l’NRC e fonda una sua compagnia, l’Advanced Laser and Fusion Technology, che nel 2002 diventa ALFT Inc., di cui è Amministratore delegato e principale ricercatore. Que-sta compagnia si occupa di soft X-rays, un sottoprodotto della fusione nucleare con applicazioni nel campo della diagnostica medica, delle bio e nano-tecnologie, microelettronica e altro. Niente a che vedere con la fusione nucleare per la produzione di energia, ma Panarella continua a occuparsi dell’argomento, anche come editor di una rivista di fisica, Physics Essays, e organizzando convegni sull’argomento.

Cosa distingue il progetto di Panarella dalle correnti attivi-tà di ricerca sulla produzione di energia attraverso la fusione nucleare? I grossi progetti di ricerca della comunità interna-zionale (ad esempio il mega progetto Iter, che costerà almeno 10 miliardi di euro) sono basati sul confinamento del plasma tramite campi magnetici con una struttura toroidale detta to-kamak, mentre il progetto di Panarella si basa sul cosiddetto

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politica e società

PPlasma Focus, che negli anni ’60 era considerato un sistema promettente per il raggiungimento della fusione nucleare con-trollata, ma che viene abbandonato a questo fine negli anni ‘70 (per maggiori informazioni vedi http://www.fe.infn.it/disa-ster2/fisicaplasma.htm). Non per questo la ricerca sul Plasma Focus si è esaurita (recentemente le Università di Bologna e di Ferrara hanno avuto finanziamenti per realizzare un PF ad ele-vata intensità neutronica), ma il suo uso è visto come sorgente mobile di neutroni, raggi X, elettroni e ioni per applicazioni in campo industriale e medico. Panarella è però convinto che sia ancora una strategia vincente per la produzione di energia e, come abbiamo visto, ha coinvolto nel suo convincimento amministratori locali e politici nazionali.

Ma si tratta di un progetto scientificamente e tecnicamente perseguibile? Nel citato articolo del Manifesto viene riportata l’opinione di Marcello Cini, a suo tempo professore ordinario di Fisica teorica e Teorie quantistiche a La Sapienza di Roma, che si esprime nel più classico stile accademico: “ci credo poco, ma non è il mio campo, non conosco il progetto”. Due giorni dopo, però, il Manifesto pubblica una precisazione di Cini che tra l’altro dice: “La presentazione del mio punto di vista al termine dell’articolo sotto forma di semplice «scettici-smo», non rispecchia pienamente la mia assoluta convinzione che il progetto non possa essere oggetto di un dibattito serio”.

E l’accordo quadro di cooperazione “accademica, industria-le, scientifica” con l’Università di Basilicata? Beh, qui la cosa diventa abbastanza grottesca, perché l’Ateneo lucano prima firma l’accordo e poi va a vedere di cosa si tratta. Il Rettore Lelj Garolla di Bard, incontra il 14 luglio Panarella a Ottawa nell’ambito di una serie di incontri promossi dall’Addetto Scientifico dell’Ambasciata d’Italia, e conclude con lui un accordo quadro di cooperazione. L’ “accordo storico” (defini-zione di Panarella) è in realtà assai generico, non viene men-zionato alcun progetto di ricerca particolare e anzi si rimanda ad “accordi specifici, nei quali verranno definiti gli scopi della cooperazione scientifica, le modalità del suo svolgimento, le responsabilità e i risultati attesi”. Dell’accordo non si parla nel Senato Accademico dal momento che, come ci spiega il Rettore, si tratta solo di una dichiarazione d’intenti che, a suo dire, non impegna l’Ateneo. Dal punto di vista dell’immagine pubblica si tratta ovviamente di un accreditamento dell’ope-rato e del progetto di Panarella, ma questo non turba molto il Magnifico Rettore.

La verifica a posteriori che viene affidata a docenti dell’Ate-neo non porta buoni frutti, perché l’idea si scontra contro un ostacolo non da poco, e cioè il secondo principio della ter-modinamica. Infatti, in questo momento lo “stato dell’arte” dell’idea progettuale di Panarella è tale che per produrre 27 watt di energia tramite fusione occorrono circa 100 kwatt di energia, che si trasformano in calore. Il processo richiede cioè

(molta) più energia di quanta ne fornisce. L’idea di Panarella è che si possa arrivare al pareggio (o eventualmente al guadagno di energia) recuperando i 100kwatt che sono stati convertiti in calore. Dopo un anno di imbarazzati e imbarazzanti tentativi di comprensione, il processo dialettico tra il fisico italo-cana-dese e l’ateneo lucano è attualmente fermo dopo uno scambio del tipo “Lei non sa chi sono io” e un “e lei non sa cos’è la fisica”.

Ma, si dirà a questo punto, se i fisici sono scettici e l’Uni-versità di Basilicata è stata un po’ precipitosa, Panarella vanta altre collaborazioni importanti. Nell’articolo apparso sul Quo-tidiano il 21 maggio scorso, forse si esagera sull’ ”unanime consenso riscosso nel mondo scientifico e accademico”, ma si menzionano collaborazioni con prestigiosi centri scientifici e industriali: il Lawrence Livermore National Laboratory, nella persona di Richard Post, l’Ecole Politechnique di Parigi in cui lavora Michel De Peretti, che collabora con Panarella nella si-mulazione numerica del progetto, e infine la General Electric con l’equipe guidata da Vincent Paget (sic).

Cerchiamo di capire chi sono questi collaboratori, a partire da Richard Post, che è un grande fisico americano, il cui nome è legato al Maglev (un treno a levitazione magnetica). Post ha anche una lunga esperienza nel campo della fusione termonu-cleare, ma non è un ragazzino (ha 86 anni). Nel gennaio 2002, intervistato da CBS Radio Network, dichiarò: “ho fiducia che un giorno si potrà realizzare la fusione, anche se non potrò vederla”. L’intervistatore ci informa che a 83 anni Post, che aveva deciso di andare in pensione già diversi anni fa, trova ancora la ricerca troppo eccitante per uscire dal settore.

Passiamo a Michel De Peretti e all’Ecole Politechnique, che non è la prestigiosa e famosa Ecole Politechnique de Fran-ce, di cui condivide lo stesso acronimo, ECF (dove però F sta per Féminine). Si tratta infatti di una università privata, nata nel 1925, la prima facoltà di ingegneria aperta a studentesse. Michel De Peretti lavora in una struttura dell’ECF, il Compu-tational Physics Laboratory, un laboratorio per addestrare gli studenti nell’uso dell’informatica e del calcolo scientifico in diversi campi della fisica. Sia l’Ecole che il CPL si occupano prevalentemente di scambio di studenti (tipo Erasmus), e De Peretti ha questo compito per il CPL. Organizza però altri pro-getti, il più importante dei quali ha visto la luce nel 2004, con gli auspici dell’Unesco, e punta a costituire un database del-le acque del Nilo affinché le donne sudanesi, keniote, eritree, ecc., diventino manager delle acque. Ma tornando al legame tra De Peretti e Panarella questo non è esclusivamente scienti-fico, dal momento che l’unico partner industriale del CPL è la ALFT di Ottawa, la società canadese di Panarella di cui abbia-mo già parlato (vedi http://deperett.cpl.free.fr/Anglais/indexa.html alla voce Links: Industrials).

Dulcis in fundo, sono rimasti la General Electric e Vincent

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Roy Page (e non Paget), che si firma anche come Vince Page. Vince è un personaggio curioso: è leader per il Texas del

Constitution Party, un partito di estrema destra, i cui elementi caratterizzanti sono: no all’aborto, no alla contraccezione, no alle tasse, no ai fondi per la cura dell’Aids, no al controllo sulle armi da fuoco, no all’ONU, no all’assistenza sociale, si all’unificazione dello Stato e della Chiesa in una sorta di rico-stituzione dello Stato teocratico. Il Partito della Costituzione è affiliato all’American Independent Party, un partito nato nel 1968 contro il Governo Federale ed il comunismo e a favore della supremazia della razza bianca.

In uno scritto pubblicato sul sito web del Constitution Party e intitolato We are on the cusp of a new nuclear age (http://cp-texas.org/articles/vp040104.shtml) Vince fa la seguente affer-mazione: “sono membro della Società Nucleare Americana e, nel mio tempo libero (in my spare time, sottolineatura nostra) collaboro alla progettazione di un impianto di energia a fusio-ne che sarà costruito in Italia nel 2009”. Superfluo aggiungere che alla Società nucleare americana si può iscrivere chiunque e non è certo un titolo scientifico o professionale farne parte.

Ma Vince Page ha rapporti con la General Electric? È a capo di un team che si occupa di fusione, o anche semplicemente di energia? In siti della General Electric di lui non vi è traccia. Non è laureato, non ha un percorso scientifico o professionale rilevante. Emerge solo con una curiosa comunicazione al con-vegno Current Trends in International Fusion Research orga-nizzato da Panarella a Washington nel marzo scorso. In questo convegno si firma come “Mr. Vincent Roy Page, Capo Inge-gnere in Ricerca e sviluppo della GE Aero Energy Products

a Katy, Texas”. La Ge Aero Energy, che come compagnia è un segmento della GE Energy e ha sede a Houston, costruisce turbine. Come quella che per l’appunto Panarella afferma di voler comprare dalla GE.

Riassumendo: il Plasma Focus è un sistema abbandonato al fine di produzione di energia e viene utilizzato solo per ap-plicazioni in campo medico ed industriale; l’Università della Basilicata ha preso una cantonata, ma è imbarazzante ammet-terlo; le importanti collaborazioni risultano quantomeno ridi-mensionate.

A conclusione di questa storia, non vogliamo mettere in dubbio la buona fede di Emilio Panarella, che è sicuramente un ricercatore assai appassionato al suo progetto. Riteniamo però che questa vicenda evidenzi grossolane leggerezze, da parte sia degli amministratori e dell’accademia locale che dei politici nazionali, nei meccanismi di accreditamento e di verifica. La fusione nucleare rimane un obiettivo per parte della comunità internazionale dei fisici, ma sicuramente la strada è complessa e non si intravedono né facili scorciatoie né eredità dello zio d’America. E tutta la vicenda rassomiglia in maniera impressionante, più che ad una “querelle” scien-tifica, a quella famosa gag in cui Totò vendeva la fontana di Trevi ad un turista americano. Solo che, sempre per citare il principe, “ca nisciun è fesso”!

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politica e società

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La strategia euro-mediterranea

Opportunità per il Mezzogiorno

La questione meridionale non si risolve in Italia, ma nel Mediterraneo. Mentre l’Italia è il sud dell’Europa, il Mezzogiorno é il centro del Mediterraneo. Sembra una considerazione ovvia, invece è molto meno banale di quanto si possa credere. Oggi, il Mediterraneo costituisce uno straordinario centro di opportunità per il Mezzogiorno e per l’Europa in generale. Tuttavia, affinché tali possibilità non restino solo potenziali, occorre che l’Europa nel suo insieme rivolga il suo sguardo verso il Mediterraneo, considerato che essa ha notevoli possibilità di condizionamento sull’economia dell’area. Non va dimenticato che le scelte effettuate a Bruxelles ormai influiscono ben oltre i ristretti confini dell’Unione europea. Per questo è importante che il Mezzogiorno segua il processo politico in corso a Bruxelles.E l’Europa, a dieci anni di distanza dalla Conferenza di Barcellona, che ha segnato la nascita del partenariato euro-mediterraneo, sembra tornata a guardare con rinnovato interesse proprio al Mare Nostrum, l’area dalla quale l’Occidente ha attinto i valori morali, la cultura e lo sviluppo della civiltà.Cosa rappresenta la strategia euro-mediterranea? Quali ne sono i riflessi sulle realtà locali?In via preliminare, per rispondere a questi interrogativi, è opportuno descrivere brevemente il partenariato lanciato a Barcellona per valutarne le fondamenta, le difficoltà e le prospettive future.L’obiettivo principale della Conferenza di Barcellona era la costituzione di una zona di sicurezza, stabilità e prosperità, da realizzarsi entro il 2010, attraverso un’area di libero scambio. In questa ottica l’intenzione era quella di accelerare il ritmo

DINO NICOLIA

dello sviluppo socio-economico duraturo, riducendo il divario di sviluppo tra la regione euro-mediterranea ed il resto delle aree sviluppate.Tuttavia, i risultati raggiunti si sono rivelati inferiori alle attese. Esaminiamone i motivi. Innanzitutto, il progetto di partenariato si era sviluppato all’epoca in cui sembrava che il conflitto arabo-israeliano potesse avviarsi verso una soluzione positiva. Nel 1995, il clima politico era abbastanza favorevole, considerato che gli Accordi di Oslo tra israeliani e palestinesi erano stati appena firmati nel segno di una speranza crescente.Nell’ultimo decennio, invece, la situazione si è completamente rovesciata ed il quadro politico in Medio Oriente ha fatto segnare un lento e progressivo deterioramento, tanto da spingere il processo di pace verso una preoccupante fase di stallo. Questo è stato il primo grande ostacolo sulla strada di una compiuta realizzazione del partenariato, ma non è stato il solo. Ve ne sono stati altri a partire dall’inizio del nuovo millennio. Alcuni di questi esterni al processo di Barcellona, come gli attacchi terroristici dell’11 settembre e le conseguenti guerre in Afghanistan e Iraq (che hanno giocato un ruolo significativo nel peggioramento del clima di sicurezza intorno all’area mediterranea), altri interni al processo stesso come quello relativo alle difficoltà incontrate dal processo di democratizzazione. L’emergere di derive sempre più fondamentaliste hanno favorito il consolidamento di regimi autoritari, concorrendo a creare un circolo vizioso in cui il fondamentalismo favorisce l’autoritarismo e l’autoritarismo fomenta ulteriormente il

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fondamentalismo. Il risultato finale va a detrimento dello stabilimento di regimi autenticamente aperti e democratici.Tuttavia, se da un lato si sono avvertite sempre più nitidamente le conseguenze negative del difficile contesto politico-diplomatico; dall’altro, nonostante le difficoltà, è emersa ancora più prepotentemente l’esigenza di trovare un filo comune che rimettesse in carreggiata il progetto euro-mediterraneo.Le circostanze sociali, legate al fenomeno sempre più intenso delle immigrazioni, i conflitti interetnici e religiosi hanno suggerito alle istituzioni europee il rafforzamento della strategia per il Mediterraneo, sia per la vicinanza geografica e le affinità culturali, sia per i nuovi squilibri che danno forza alle instabilità politiche legate al rinvigorirsi delle culture integraliste e all’inasprirsi di conflitti endemici (mai definitivamente risolti e sempre pronti a riaffiorare quando il quadro internazionale si complica).L’Europa, inoltre, ha la necessità di cercare nuove opportunità e mercati sempre più integrati con i suoi vicini mediterranei per sperare di poter adeguatamente competere con le altre grandi aree macro-economiche, come la Cina e l’India, sempre più aggressive sulla scena economico-commerciale internazionale. L’aspetto, tuttavia, più interessante in chiave regionale, a cui si faceva riferimento all’inizio dell’articolo, è che la strategia euro-mediterranea crea nuove speranze e nuove opportunità, non solo a livello globale ma anche in riferimento alle più modeste realtà locali.Una di queste riguarda il ruolo e le opportunità offerte alle regioni del Mezzogiorno, Basilicata compresa, che potrebbero fare da ponte tra la zona europea e quella africana, svolgendo un’attività importante non solo per la posizione geografica e per le ragioni storico-culturali che legano l’Italia a questa area del pianeta, ma anche per mettere a frutto le esperienze derivate dall’utilizzo degli strumenti previsti dalla politica regionale europea per lo sviluppo delle aree in ritardo.D’altra parte è ormai giunto il tempo affinché le regioni del Mezzogiorno si muovano con maggiore incisività nel dare consistenza alle politiche di internazionalizzazione delle economie locali, concorrendo a svolgere da protagoniste un ruolo di cerniera tra l’Unione europea ed i paesi dell’area mediterranea e balcanica.Lasciarsi alle spalle lamenti, rimpianti e recriminazioni. Evidenziare successi, nuova mentalità e voglia di riscatto. Abbandonare definitivamente ogni rigurgito di assistenzialismo ed invece proporre autonomia, responsabilità e capacità imprenditoriale. Un nuovo Mezzogiorno ed una nuova Basilicata devono af-facciarsi sulla scena europea, pronti a rinnegare una politica fatta di aiuti di corto respiro per immergersi in uno scenario profondamente modificato, pronti a raccogliere le sfide della globalizzazione e della modernità.

Il mercato globale non deve far paura, tanto più che esso è inevitabile, e per dare nuovo impulso al suo sviluppo, il Mezzogiorno ha soprattutto bisogno di orientarsi verso un’economia trainata da un forte settore privato. In termini di finanziamento dello sviluppo, il Mezzogiorno ha bisogno sia di un massiccio afflusso di capitali, sia di favorire flussi aggiuntivi a favore dello sviluppo del settore privato, in particolare le piccole e medie imprese. Ciò può avvenire solo a condizione che venga creato un adeguato quadro giuridico e istituzionale e venga favorito il diffondersi della cultura d’impresa, non in una singola regione, ma in una zona ampia che abbia la massa critica per poter reggere il peso e le sfide lanciate dal processo di globalizzazione in atto .In questo quadro, le autorità locali dovrebbero pertanto divenire partner a pieno titolo e membri di ogni nuovo assetto istituzionale, inteso a promuovere lo sviluppo della regione euro-mediterranea.Per realizzare questi obiettivi, è necessario stabilire un’adeguata cooperazione economica e azioni comuni in alcuni importanti settori in cui esiste una profonda complementarietà, nonché un consistente potenziamento dell’assistenza finanziaria dell’Unione europea a favore dell’intera regione.In questo contesto si tratta di attivare alcune linee prioritarie di sviluppo.La prima è la creazione di partenariati durevoli tra le regioni meridionali ed i governi europei da un lato, e le istituzioni locali della sponda sud dall’altro, per sviluppare il settore delle piccole e medie imprese, in cui la Basilicata potrebbe inserirsi senza difficoltà, potendo contare su una fitta rete di piccole aziende con un ristretto numero di dipendenti ed un fatturato non elevato.La seconda è la formazione di programmi di riqualificazione produttiva, che richiede investimenti in capitali umano e collaborazione delle università delle due aree, per promuovere la formazione di imprenditorialità e di cultura del mercato del lavoro, di cui già si annoverano interessanti esperienze di altro profilo nel Mezzogiorno.La terza è quella della costituzione di reti istituzionali di collegamento tra le associazioni d’imprese artigianali delle due sponde, che stimolino le associazioni delle piccole e medie imprese a promuovere la collaborazione intesa a valorizzare le risorse umane, ambientali e culturali locali.Questo processo non richiede l’attivazione di iter parti-colarmente complessi. Sarebbe sufficiente fare riferimento agli strumenti già a disposizione delle regioni meridionali e utilizzati per la proiezione internazionale dell’apparato produttivo locale, nonché a quelli predisposti per attivare la cosiddetta “politica di vicinato”.La politica di vicinato si è sviluppata ed ha preso forma dopo il più grande processo di allargamento che ha caratterizzato

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politica e società

Pquesti ultimi anni della storia dell’Unione europea. Dopo aver esteso per anni il proprio territorio ed aver incluso sempre più stati, l’Unione ha iniziato a percepire l’esistenza di un limite che non poteva essere più varcato. La tendenza, pertanto, che si sta delineando sembra essere la definizione di una sorta di “cerchia di amici”, con i quali condividere un futuro di attività comuni, che riprende e rafforza quei modelli di integrazione che l’Unione ha stabilito nel corso degli anni, primo fra tutti il partenariato euro-mediterraneo.Jeremy Rifkin evidenzia nella sua pubblicazione, “Il sogno europeo”, come l’Europa stia diventando la nuova terra delle opportunità per milioni di persone che sono alla ricerca di un futuro migliore. In un mondo sempre più stanco delle visioni individuali, il nuovo sogno europeo ha osato creare una nuova sintesi, che combina la sensibilità postmoderna per le prospettive molteplici e multiculturali con una nuova visione universale ed inclusiva. Tra i diversi problemi che frenano lo sviluppo del Mezzogiorno, ve ne sono alcuni a cui non è stato mai posto rimedio. Tre circostanze oggettive hanno rallentato la messa in efficienza della “macchina produttiva meridionale”: il basso grado di integrazione delle imprese esistenti, in un contesto

mondiale in cui il tratto dominante rimane la tendenza alla globalizzazione dei mercati; le difficoltà di accesso al credito; il ruolo periferico e di confine cui la regione è stata destinata dalle circostanza geo-politiche e che l’allargamento dell’Unione europea verso i paesi dell’Europa centrale ed orientale ha finito con l’accentuare.L’allargamento dell’Unione, che comporta inevitabilmente uno spostamento del “baricentro” europeo ad Est, rischia, nei prossimi anni, di penalizzare non solo l’Italia nel suo complesso, ma soprattutto il Mezzogiorno, che potrebbe finire per essere tagliato fuori dalle principali reti di comunicazione e di trasporto e conseguentemente dai principali traffici commerciali.A partire da queste considerazioni, l’Europa rappresenta lo strumento per vincere la battaglia contro la marginalità e la lentezza della crescita meridionale.Il Mezzogiorno da sempre è in cerca di una strada per un definito e stabile sviluppo sociale ed economico, ma per quanti sforzi si siano fatti finora, il divario con le regioni più sviluppate non è stato colmato. In questo contesto, la strategia euro-mediterranea, se adeguatamente costruita e valorizzata, potrà costituire più di una speranza.

Aglianica

www.aglianica.it | e-mail: [email protected]

ringraziano tutti i visitatori di

2, 3 e 4 settembre 2005Castello di Lagopesole (Pz)

...in BasilicataCONSORZIO DI VALORIZZAZIONE

DEI VINI DEL VULTURE

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p u b b l i c i t à

BASILICATA

UNITÀCONTADINA

Cooperareper dare spazio ai giovani e alle donne

per una società in cui nessuno sia esclusoper dare forza alle opportunità dei singoli

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Reportage

BASILICATA

UNITÀCONTADINA

Cooperareper dare spazio ai giovani e alle donne

per una società in cui nessuno sia esclusoper dare forza alle opportunità dei singoli

Pulcinella senza frontiere Confessioni di un burattinaio

BRUNO LEONE

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r e p o r t a g e

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Bruno Leone, chi è.Bruno Leone arriva a Potenza alla fine degli anni sessanta, il padre è infatti chiamato da Napoli a dirigere, di fatto a mettere in piedi, il nascituro “Istituto Statale d’Arte” che diventerà un forte elemento di accelerazione della vita culturale della città in quegli anni. Bruno è figlio d’arte: il padre è Giuseppe Antonello un artista, essenzialmente scultore e pittore , la madre è Maria Padula anch’essa una pittrice “importante” oltre che un’intellettuale molto presente nel dibattito politico culturale meridionalista del dopoguerra, per altro lucana di Montemurro dove nasce il resto della famiglia (altri due fratelli ed una sorella, Rosellina, burattinaia anch’essa) così come lucano di adozione diventerà Giuseppe Antonello. Quella con Bruno è un’amicizia che si cementa sullo sfondo delle lotte del sessantotto, sul tentativo di costruire improbabili assi di coordinamento tra Potenza e Napoli (era studente di architettura a Napoli), in una città furiosamente bigotta e conformista in cui un piccolo gruppo di giovani “rivoluzionari” tentava di rompere la tranquillità di “tanti figli di papà” e di una piccola borghesia sonnolenta. La casa della famiglia Leone, nel quartiere Santacroce, diventa un luogo di incontri generazionali, “noi” e i genitori , gli amici di famiglia tutti intellettuali, poeti, pittori, scrittori, grandi chiacchierate, spesso violenti litigate, con la storia della Basilicata e dei loro “amici” che scorreva nei racconti : Levi, Scotellaro, Sinisgalli, Riviello. La nostra amicizia continuerà negli anni intrecciata alle nostre migrazioni, Roma, Napoli, Parigi, Amsterdam, Amburgo, Milano, si alimenta di lotte , amori, sogni, arte, alcol e vagabondaggi, con percorsi ora individuali ora collettivi che si incontrano e si dividono continuamente senza mai separarsi. Poi ognuno prende la sua strada e annoda i propri percorsi esistenziali perdendosi per lunghi periodi ma poi ritrovandosi e ricominciando a chiacchierare con molta naturalezza, esattamente come prima, a volte riprendendo discorsi cominciati e mai conclusi. Bruno si laurea in architettura, mette su famiglia , viene assunto dal comune di Napoli ma fa l’artista, il burattinaio per l’esattezza, tanto che come recita la sua biografia ufficiale: “A Napoli la

rinascita di Pulcinella è un merito da attribuire a Bruno Leone che da quasi venti anni ne indossa ‘o cammesone. Leone è Pulcinella dal 1979, da quando ha raccolto la maschera dall’ultimo guarattellaro attivo a Napoli, Nunzio Zampella, e come ci ricorda lui stesso “Ho conosciuto Zampella alla fine del 1978, avevo 28 anni e facevo l’architetto al comune, dopo ho abbandonato questa professione per fare il burattinaio”. Raccoglie l’eredità del suo maestro che abbandona l’attività per motivi di salute nel 1978. Ci racconta: “quando ho conosciuto Nunzio lui non aveva più nulla. Ho ricostruito, allora, gli strumenti del suo lavoro soprattutto perché lui potesse ricominciare. Dopo un po’ di tempo, di fronte alla mia ostinazione e alla mia decisione di riprendere quest’arte anche senza di lui si è lasciato convincere, penso soprattutto per insegnarmi. Dal 1979 e fino a poco prima che morisse (nel 1986) ha ripreso a lavorare con me, in società”. Con Zampella e Leone quest’arte ritorna sotto gli occhi di tutti e altri giovani artisti, come Salvatore Gatto e Maria Imperatrice, si avvicinano a Pulcinella e al teatro delle guarattelle, e, dopo di essi altri ancora, come Lia Colucci, Annamaria Di Stefano, Roberto Vernetti, Adele Fuccio, Aldo de Martino, Luigia Aiello, Gaspare Nasuto nei successivi 20 anni a scongiurarne definitivamente la scomparsa. Recuperata la tradizione però il Pulcinella doveva fare i conti con il necessario rinnovamento del repertorio per evitare che tutto fosse vanificato dalla definitiva disaffezione del pubblico. “Già dall’inizio, già dal 1979, iniziavo a mescolare le carte, ad introdurre cioè elementi di novità nei miei spettacoli. Sempre conservando stretto il rapporto con la tradizione, con quello che ho imparato da Nunzio Zampella proponendolo ancora nel mio repertorio, ho cominciato a contaminare il mio Pulcinella con altri miti e facendolo vivere nella nostra epoca alle prese con accidenti “sincronici”. Bruno negli anni non è cambiato, mantiene sempre quell’aria incantata e quel sorriso da puer aeternus che spegne ogni aggressività e che gli invidio da sempre. Si è coerentemente “evoluto”, continua il suo impegno politico e sociale con le guarattelle; ma del resto cosa c’è di più politico di Pulcinella che si rivitalizza, diventa attento osservatore e interprete di tanti argomenti di impegno civile sia in teatro che nelle strade? Ed eccolo sostenere la Pantera, intervenire a Scampia, lavorare con i disabili e realizzare con essi, nei 13 anni del Carnevale di Napoli, “Pulcinella alla gogna”, tantis-simi interventi teatrali. Lavora nei centri sociali e non manca mai alle feste popolari che sopravvivono ancora in città, in teatro si schiera contro la guerra in Iraq in “Pulcinella va alla guerra” spettacolo del 1991 per la regia di Renato Carpentieri; nel 1995, dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, Pulcinella denuncia la seduzione del potere attraverso il confronto scontro con Don Giovanni nello spettacolo “Il convitato di Pezza”, regia di Davide Iodice, musiche eseguite

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Rdal vivo dal gruppo musicale “È Zezi”; nel 1999 si confronta e trasporta la delusione cocente dei rivoluzionari del 1799 ne “Pulcinella ’99, voglia d’utopia”, regia di Bruno Leone, con Salvatore Gatto e Paola Carbone. “La caratteristica costante del mio lavoro è che in realtà tutti i temi anche se legati a dei fatti particolari, di cronaca o di costume, assumano un carattere universale: la guerra, la rivoluzione, l’amore, il tradimento sono proposti come archetipi, temi generali e ricorrenti nel rito esorcizzante dello spettacolo di guarattelle”. In era di globalizzazioni esce “Pulcinella contro Gigiotto”, provocazione ideata in occasione del G8, in uno dei suoi ultimi spettacoli mette in scena l’amore. “Ho sempre proposto nei miei spettacoli argomenti per me importanti. Pulcinella si è confrontato con la guerra, con il tradimento, con la rivoluzione e adesso si confronta con l’impegno più grande: l’amore. L’idea dello spettacolo – spiega Bruno Leone – è nata tra la gente, come spesso avviene per il teatro di Pulcinella. Alla fine di uno spettacolo nei Quartieri Spagnoli di Napoli, tanti bambini si erano fermati per fare delle domande a Pulcinella. Volevano, ad esempio, sapere come facevo a parlare con questa voce. Più che spiegare che essa era ottenuta mediante uno strumento metallico, la pivetta, posto in prossimità della gola, mi piaceva l’atmosfera che si era creata e preferii lasciare un piccolo mistero intorno al fatto. Questo è un segreto! Risposi, ma loro non mi lasciavano: “vogliamo sapere qual è il segreto di Pulcinella”. Non se ne veniva fuori … così dissi loro che il segreto di Pulcinella è scoprire l’importanza delle cose che non sono importanti. Ma non sapevo neanche io che voleva significare. I bambini mi presero sul serio e dopo alcuni minuti una di loro, molto emozionata, mi si avvicinò e, sottovoce, nell’orecchio, mi disse: io l’ho capito, è l’amore”. Il Pulcinella di Bruno Leone non conosce soste, lavorando in tanti progetti a Napoli e producendosi in lunghe tournée in tutto il mondo. In uno di questi suoi viaggi, nel 1988 a Mosca, chiamato a fare spettacolo e a tenere una serie di incontri sulla maschera di Pulcinella, spinge il burattinaio russo Andrei Chavel a riprendere gli spettacoli di Petruska. La maschera in questa nazione era scomparsa, avversata innanzitutto dal regime sovietico poi disconosciuta dal padre dei burattinai sovietici, il grande maestro Sergej Obrazov. Dopo la visita del “cugino” Pulcinella, dal 1990, a Mosca si riascolta la stridula voce metallica di Petruska. Bruno Leone con la struttura stabile di cui è fondatore “I Teatrini” oltre a produrre tutti i suoi spettacoli realizza il festival internazionale “La scuola di Pulcinella” programmato da ormai dieci anni, ospitato nella scorsa estate a Roma ne “Le vie dei Festival”, che presenta insieme momenti di spettacolo, mostre e incontri sulla maschera di Pulcinella e sulle maschere “gemelle” attive nei tanti Paesi del mondo. In attesa che anche a Napoli possa aprirsi una Casa stabile per Pulcinella, un teatro, come qualche tempo fa era stato promesso

dal Comune, Bruno Leone si lancia nel progetto per la realizzazione, nell’aprile del 2000 a Napoli, di una scuola internazionale per guarattellari, da gestire in collaborazione con l’Istituto della Marionetta di Charleville Mezieres. Il progetto va avanti da due anni, con grande successo, coin-volgendo circa venti nuovi burattinai, la “terza generazione del Pulcinella contemporaneo”. Tutto questo per “essere all’altezza dei tempi senza però perdere il carattere che abbiamo sempre avuto, senza diventare televisione. Di tornare ad avere nel terzo millennio la stessa forza che possedeva il Pulcinella di trecento o 500 anni fa . Lo spettacolo di Pulcinella non appartiene al nostro mondo, al nostro mondo appartiene il computer, internet, e queste cose qua. Poi ci si ferma davanti ad una baracca, si incontra Pulcinella e si scopre che piace di più della televisione…”.

SALON D’AUTOMNE

Sui vetri osservo menelle vie, ingegnoso sotto la pioggiaad aprire l’ombrello.Via XVIII Agosto è un battellovi salgo col fumo fatuo dell’intransigenzae vado verso la foce della pioggia,vado in su incontroalle luci solforose dei lampiche sorridono alle sartine,salgo la viacome un albero genealogico.Nessuno che abbia contatoper aver alzato la voceo fabbricato illusioni,una via con a capo la pioggiaun’acqua stufa che si può giocare a biliardo

Vito Riviello

ANTONIO CALIFANO

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r e p o r t a g e

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è lungo e comincia da molto lontano.Sono nato a Montemurro e da bambino stavo spesso con Antonio, un vecchio pastore che mi costruiva flauti di canna e pipe di cocola (palline che si formano sulle querce). Così io, che ero un bambino, potevo volare come un uccello e sentirmi saggio come un vecchio. Oggi ho Pulcinella e con lui viaggio per il mondo e incontro tanta gente, io stesso non sono più io e posso diventare un indiano, un palestinese, un uomo blù, nomade del deserto e tante altre cose. Già con Pulcinella avevo girato tutta l’Europa, avevo incontrato artisti di tanti paesi e avevo scoperto che esistono dei Pulcinella nei paesi più lontani e con le culture più diverse e che siamo fratelli e soprattutto avevo viaggiato a Napoli, nei vicoli più nascosti, nelle periferie più scassate, in luoghi desolati e avevo trovato fratelli dove non te lo aspetti, Pulcinella è stata la parola d’ordine, il modo per riconoscersi e guardarsi negli occhi, giù fino in fondo.

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R Quello che Pulcinella mi ha fatto scoprire è che ci può essere gioia nel dolore, ricchezza nella povertà, bontà nella violenza e nel crimine, e quando questo succede è come un piccolo miracolo, magari dura un attimo, la realtà più orribile e opprimente che si possa immaginare si ricompone inesorabile, ma il miracolo c’è stato e ci da la forza di credere che un giorno il mondo sarà migliore. Quando poi ho attraversato l’oceano le capacità di Pulcinella di esplorare gli animi si sono rivelate in maniera sorprendente. Durante il mio primo spettacolo in Brasile per darmi coraggio facevo alcune piccole provocazioni teatrali e mi sono accorto che il pubblico restava disorientato, allora ho corretto il tiro perdendomi tra di loro e ho capito che avendo anche io paura come loro, si divertivano moltissimo e se molto timidamente facevo una carezza, si squagliavano dalla contentezza. Da noi per essere accettati a volte è necessario essere aggressivi e io non ci avevo mai fatto caso. In un villaggio sperduto, dopo aver attraversato strade di terra, buche e fango, abitato da

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ammalati di AIDS, c’era una bambina con le mani sugli occhi, che non voleva guardare, il mio Pulcinella diventava sempre più dolce e quando finalmente ho visto le sue mani aprirsi … certe emozioni non si possono neanche raccontare. Pulcinella mi aiuta a capire, a entrare in relazione, perché la gente si riconosce in lui e cadono le barriere, le diffidenze, le distanze. Questo a Napoli è normale, ma quello che io non sapevo è che succede dappertutto. Il Brasile mi ha insegnato la dolcezza, la tenerezza, il Chapas la poesia: Gli indiani, che non conoscono l’applauso, ti parlano col silenzio, con lo sguardo. Far vedere quanto sei bravo, con svariati virtuosismi da vecchio maestro, serve a ben poco, ma un piccolo movimento con un po’ di poesia scioglie e commuove gli sguardi, così quando lo spettacolo è finito si avvicinano e ti comunicano con particolari silenzi il loro sentire. Passeggiare nella foresta Locandona con un indiano zapatista parlando di zucche, fiori e peperoni è un privilegio raro che non capita tanto facilmente, neanche agli osservatori internazionali carichi delle migliori intenzioni umanitarie.

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R Ricordo una chiacchierata con il responsabile di un villaggio, io gli raccontavo le mie impressioni e chiedevo come mai gli indiani erano così sensibili alla poesia e lui mi parlò della importanza che da loro ha la comunità ed era convinto che la propensione alla poesia intesa come capacità di ascolto nascesse dalla grande importanza che loro danno alla comunità, tutte le decisioni importanti vengono prese collettivamente, anche i capi devono ubbidire alla comunità, altrimenti vengono allontanati dalle loro funzioni. Gli indiani sanno ascoltare, prendono la parola per parlare solo se è indispensabile, da noi uno che ascolta non riuscirà mai a prendere la parola, purtroppo questo è il mondo in cui viviamo ed è così che ci arroghiamo il diritto di andare in giro a imporre le nostre idee, la nostra cultura e alla fine imporre gli interessi di una stretta minoranza. Non potrò mai dimenticare queste file di bambini che si mettevano molto distanti dal teatrino in cerchio e ancora più lontane le donne, coloratissime, e ancora più lontani,

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un po’ discosti, gli uomini, e sentire i loro sguardi, la loro attenzione pronta a captare piccoli movimenti che in genere da noi passano inosservati, da noi, dove vedi i bambini entrarti nello spazio scenico, che, magari presi dall’entusiasmo, si perdono tanti passaggi… e apprendere così che per capire le cose meglio, bisogna guardarle da lontano, che il tempo poiché a noi manca sempre, non può essere schiacciato come un hamburger. In Chapas ho capito che la poesia è il mezzo di comunicazione più forte che l’uomo possiede, che il mondo è rotondo e si può trovare una linea di comunicazione tra popoli e culture apparentemente molto distanti e questa linea passa attraverso mezzi poveri che sono spesso patrimonio segreto di quella parte della popolazione che oggi conta poco, Pulcinella è uno di questi mezzi. Ho capito che devo seguirlo in questo suo desiderio folle di girare il mondo, di andare nei posti dove c’è maggiore sofferenza, scoprire e far scoprire che non si è soli, e soprattutto scoprire che i bambini, che più di tutti subiscono la sofferenza delle ingiustizie del mondo, perché assolutamente incolpevoli, nonostante tutto e a dispetto di tutto, hanno voglia di vivere. Vedere i bambini dell’orfanotrofio palestinese di Gerusalemme sorridere, scoprire che nella folla meravigliosa degli scolaretti di una scuola mussulmana di Abu Dis, città ormai circondata da un muro per molti invalicabile, c’è una bambina col vestito rosso, la figlia della prima vittima palestinese dell’ultima Intifada, che osserva Pulcinella con occhi un po’ tristi, ma vivi. Questi sono i doni che io ricevo. Un giorno andai alla porta di Damasco vestito da Pulcinella, con dei burattini appesi al costume e iniziai a fare

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Rspettacolo. Arrivò subito un poliziotto per cacciarmi, intervennero degli arabi che erano lì presenti e costrinsero il poliziotto a subire il piccolo spettacolo e poi sono entrato vittorioso nella città di Gerusalemme. Dopo un po’ un gruppetto di scugnizzi palestinesi iniziò ad accompagnarmi ed erano convinti che con me potevano fare tutto ciò che volevano e così abbiamo improvvisato la nostra piccola parata per la causa palestinese. Camminavamo impuniti tra soldati armati fino ai denti e sparuti gruppi di fedeli cristiani che percorrevano la strada del Calvario; facemmo solo una piccola sosta a una delle porte della Moschea, dove bevemmo il succo di melograno, “com’è buono!”, e siamo entrati a sorpresa in una piccola scuola nel quartiere arabo, forse la scuola che quegli scugnizzi avevano appena marinato. Si era fatto tardi e dovevo tornare. Chiesi la strada ai bambini che mi indicarono la direzione opposta, conoscevo la strada e mi venne da ridere, ma fui costretto a salutarli perché mi aspettavano in teatro. In Ecuador ho fatto spettacolo nelle comunità indiane dove ho imparato a usare il fiato a 4000 metri di altitudine e a salutare in zeltal, che è la lingua delle Ande. C’erano folle di bambini incredibili, coloratissimi e quello che mi ricordo con particolare gioia è la loro espressione di sorpresa dopo lo spettacolo, come se anche loro fossero meravigliati di riconoscersi in storie che venivano da un mondo tanto lontano. Ci devo tornare per capire meglio. Sono stato anche in un manicomio vicino Quito, dopo lo spettacolo si è avvicinato un signore del pubblico che veniva dalla Columbia, è stato mezz’ora a studiarsi il teatrino e poi ha detto: “questa è una tecnologia della rivoluzione!”… comunque era un pazzo e chissà che voleva dire …

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R Pulcinella è uno strumento per viaggiare nel tempo e nello spazio, le culture popolari nella loro essenza sono culture dell’incontro, quelle dominanti creano la differenza. Sento che per verificare la validità di questa ipotesi oltre che in Asia, in America e in tanti altri posti, bisogna andare nel cuore dell’Africa nera, forse nel Bambarà, da dove mi giungono alcune notizie che fanno pensare a delle relazioni fantastiche con Pulcinella, o forse addirittura nel Dogon, dove pare che ci siano parecchi segreti. A proposito, una delle cose che Pulcinella mi ha insegnato è che i segreti sono affascinanti finchè vengono protetti, rivelarli è un modo per ucciderli e quando il segreto è quello della vita, diventa pericolosissimo volerlo svelare, ammesso che lo si possa comprendere. Il discorso è ancora più lungo e complesso di questi appunti, ma uno dei significati nascosti dell’universalità di Pulcinella risiede nel fatto che a livello simbolico Pulcinella rappresenta la voglia di vivere nella sua espressione primitiva. Spiegare come e perché è troppo complicato, ma in effetti quello che io volevo dire è che nel 2005 sono andato per la prima volta

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Rin Africa, nel deserto, e ho conosciuto un vecchio nomade, Salma Balga, ha fatto la guerra contro gli Spagnoli e contro i marocchini che gli hanno rubato la patria, ha aiutato il suo popolo a sopravvivere nel deserto, mi ha scelto tra i suoi amici più cari e mi ha svelato un segreto:” le cinque fortune del viandante e le cinque disgrazie di chi sta fermo”.“Pulcinella senza frontiere” potrebbe significare che si può viaggiare per il mondo, conoscere tante cose, tante culture diverse, modi di vivere e abitudini diverse, ma si può anche essere riconosciuti ed accolti nei posti più disparati ed incontrare l’amicizia, anche tra le guerre e la miseria. Questo non ha prezzo, infatti queste sono cose che si possono acquistare solo con mezzi poveri. Pulcinella è uno di questi, io l’ho avuto in regalo dal mio maestro Nunzio Zampella, il quale mi chiedeva cifre esorbitanti per insegnarmi dei segreti e poi me li ha dati per niente. Pulcinella è come un bambino sempre curioso di conoscere il mondo, vuole incontrare tanta gente nuova come se fossero vecchi amici e io sono costretto a seguirlo.

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Amerigo Restucci è uno storico dell’architettura italiana e insegna da sempre alla Ca’ Foscari di Venezia. Ma Restucci è nato a Tricarico e non ha mai perso i contatti con la Basilicata. Anzi. Nel corso degli anni, anche esercitando la professione di architetto e di urbanista, ha più volte rinnovato i suoi legami con la terra d’origine. C’è stato un momento in cui, alla fine degli anni settanta, il suo partito di allora, il Partito comunista italiano, l’aveva scelto come uno degli elementi di punta per costruire in Basilicata una nuova classe dirigente. Restucci ha fatto il segretario cittadino del Pci a Matera, ma poi ha prefe-rito la strada della ricerca e della professione.

A me che sono come lui lucana ed emigrata nel Veneto - io a Padova, lui a Venezia - interessava capire, da psicologa , quale Basilicata Restucci si porta “dentro”, qual è il suo vis-suto, per confrontarlo al mio, ma anche essere aiutata da lui a vedere e a “ri-conoscere” questa regione per comprenderne meglio l’identità per come si racconta attraverso i segni del territorio.

Da questo sentimento è nata questa nostra conversazione. Il fotografo Mario Giacomelli in un suo lavoro intitola-

to “La forma dentro” ha provato a raccontare con immagi-ni la realtà interna. Potresti allo stesso modo attraverso la forma con cui si esprime il territorio raccontarmi il dentro della“tua” Basilicata ?

Per parlare della Basilicata, potrei partire da come altri nel-l’incontrarla l’hanno raccontata. Mi riferisco in particolare ai viaggiatori del Settecento. L’Abbé de Saint-Non, raffinatissi-mo intellettuale francese, visitò la Grande Grèce, e natural-

mente la Basilicata. Con lui erano alcuni pittori e incisori che, tornati a Parigi restituirono al loro pubblico le emozioni del-le regioni del Sud. Circolano ancora nelle rete commerciale antiquaria incisioni e visioni di Puglia, Basilicata e Calabria, alcune delle quali pubblicate anche in Voyage pittoresque à Naples et en Sicile. Esse mostrano come un illuminista potesse ‘vedere’ la Basilicata. In una delle illustrazioni che accompa-gnano il volume, sotto al castello di Bernalda c’è una folla di contadini festosi che tornano con delle ceste piene di frutta, un cavallo e una ressa di contadini e bambini che ballano attorno. Queste incisioni propongono un’immagine della realtà piena di giocosità e di curiosità. E forse le cose non stavano proprio così. In quelle terre era endemica la malaria. Inoltre i lucani, pur vivendo a ridosso dello Ionio, non avevano porti. Ciò è sintomatico della diffidenza che nutrivano nei confronti del mare e del sospetto che da esso potessero arrivare più pericoli che progresso.

A meno che quei viaggiatori stranieri non abbiano comun-que saputo riconoscere dei segni di altro, di una vitalità na-scosta dalle condizioni materiali dell’epoca ma che già affio-rava nei comportamenti e nel modo di porsi...

Ne dubito. Anche in tempi più recenti, nel secondo dopo-guerra, la Basilicata è stata raccontata dalle immagini di Carlo Levi che ne mettono in evidenza un destino di separatezza. La nostra era una regione arretrata, ma il Cristo di Levi ne ha se-gnalato una peculiare diversità anche rispetto ad altre regioni del mezzogiorno, portando alla luce i segni di un destino che si porta addosso ancora adesso. Dopo Levi è Carlo Lizzani con

Intervista a Amerigo Restucci

“La Basilicata che mi porto dentro”

MARISA VIRGILIO

Un difficile e irrisolto rapporto con il mare. Il futuro è fatto di due cose:modernizzare e “mantenere” la storia

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il suo documentario del 1949 Al Sud qualcosa di nuovo a mo-strare i Sassi di Matera ancora abitati in tutta la loro miseria e arretratezza. Se avesse spostato l’obbiettivo verso la Basilicata interna avrebbe forse mostrato questa realtà con una maggio-re immediatezza, senza le sovrapposizioni iconografiche che spesso hanno accompagnato l’attenzione alla vita nei Sassi.

Comunque la Basilicata è anche un luogo con complesse stratificazioni di civiltà succedute l’una all’altra.

Sì, gli scavi archeologici oggi rendono testimonianze molto interessanti di quanto lei afferma. Il corredo della Principessa di Lavello, ritrovato nella necropoli dauna di quella città, è ric-co di bellissimi monili, ambre preziose e raffinatezze notevoli. Questi reperti ci aiutano a capire che chi abitava lì non solo riusciva a fruire di oggetti raffinati ma viveva in una realtà in cui la ricchezza non era sconosciuta. Come la Basilicata sia stata attraversata dalla civiltà è un fenomeno che bisogna oggi portare alle luce in tutta la sua completezza.

Se facciamo un salto dall’antichità all’oggi vediamo che in Basilicata “civilizzazione” ha anche significato un importante processo di industrializzazione.

La presenza della Fiat aiuta a far capire che la Basilicata non è solo racchiudibile nel suo passato. Ma la Fiat quando ha scelto l’area di S. Nicola di Melfi per costruire la sua fabbri-ca, quasi sicuramente senza averne consapevolezza, getta un ponte verso quel passato. Abbiamo già detto dell’importanza dei siti archeologici di Lavello, il cui territorio è contiguo al-l’area industriale di Melfi, ma la vera scoperta da fare per la costruzione di questo ideale ponte tra passato remoto e presen-te industriale è proprio Melfi. Federico II è detto puer Apuliae, figlio della Puglia, ma sceglie Melfi per insediare la sua corte

negli anni fervidi in cui promulga la prima forma di legislazio-ne dell’era moderna. L’imperatore Federico II guarda all’Im-pero Romano, le sue leggi perdute nel medioevo e impegna i giuristi riscoprendo le Costitutiones Augustales. Non si limita a questo ma amplia le architetture e rinnova il paesaggio. Fe-derico, a ridosso del ’200, si fece assistere da esperti che oggi chiameremmo agronomi, un frate normanno e un geografo arabo proveniente dalla Sicilia. Questi gli fanno comprendere che tutta la piana di Melfi, Venosa e Lavello, se disboscata dai quercioli cespugliati, avrebbe prodotto ottimo grano. Attento ai processi economici, egli migliorerà le comunicazioni per Trani e Bari favorendo il mercato di grano duro di ottima qua-lità che gli permetterà anche di portare a termine operazioni come la costruzione di castelli, strade ed altre opere.

Ma quale storia racconta di sé la Basilicata attraverso le sue opere architettoniche e artistiche? Hanno esse un rappor-to armonico tra di loro come accade per altre regioni italiane? A me sembra come disarticolate e isolate dal contesto.

Questo è in verità un punto critico. Come ho già detto, la Basilicata è una regione che non ha avuto un colloquio sem-plice con il mare. Questo ha conferito un andamento contrad-dittorio al suo sviluppo. Una regione che non ha mai saputo dotarsi di porti, ha tuttavia ricevuto dal mare le prime forme della sua civiltà. La Basilicata nell’VIII secolo a. C. era abitata da pastori. Furono i greci, i quali più tardi si insediano nella pianura prossima al mare, che portano con loro con le prime forme colturali come la vite e l’ulivo anche forme d’arte. La Basilicata di allora guardava verso l’Oriente e non verso le sue medesime zone interne, poiché l’Appennino a quel tempo costituiva una barriera invalicabile.

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Dunque si può dire che nell’antichità la Basilicata è stata una “regione aperta”, ma poi per secoli non è stato più così.

È nel medioevo che le popolazioni della Basilicata hanno visto le colline come zone più interessanti per gli agglomerati umani perché luoghi difendibili. La pianura, che era stata adat-ta alla coltivazione, abbandonata a se stessa divenne preda del-la malaria. Si è così formata quella scontrosa realtà medioevale della Basilicata fatta di qualche castello e poi di aggregazioni di piccole case intorno, dei paesetti sulle colline. In Basilicata non esistono palazzi pubblici. Il Palazzo Ducale di Tricarico o quello di Episcopia sono solo case un po’ più grandi che non differiscono nella forma dalle altre abitazioni. Si può dire che per secoli non è possibile fare storia dell’architettura. In gene-re c’è solo un castello (e non dappertutto), un palazzo un poco più grande e tante casette più piccole intorno.

Ma questo vuol dire che è necessario salvaguardare la tipici-tà dei luoghi. Nel piccolo paesetto significa sapere conservare i colori o le tegole di un certo tipo. Tutto ciò è essenziale come lo è insomma evitare che vi sia un’irruzione troppo sfacciata della modernità. Proprio perché mancano monumenti impor-tanti, vi sono fenomeni spontanei che solo se mantenuti insie-me hanno valore in sé come fattore trainante di altro.

Quando la Basilicata si è riaperta al mondo?Può sembrare un paradosso, ma la Basilicata è stata “risco-

perta” dai Borbone. Carlo III di Borbone si rende conto che il re di Napoli per andare a Bari, o di lì a Potenza, deve fare il periplo della regione e allora decide di costruire le prime stra-de che l’attraversano. Il tracciato dell’Appia che si percorre ancora adesso è quella borbonico. Questa strada permetterà l’arrivo del nuovo nel più profondo Mezzogiorno e Napoli as-

surgerà contemporaneamente al ruolo di capitale europea. Nel ’700 venendo da Napoli anche semplici capomastri introdu-cono forme d’arte nuove sia in pittura che in architettura. A Matera il clero e la borghesia escono dai Sassi. Il corso della città ha architetture rococò che ricordano la capitale del Re-gno. La chiesa di S. Lucia ad esempio è specularmente impo-stata copiando l’Annunziatella di Napoli. Nel ’700 non ci sono più elementi artistici che arrivano dal nord. I tecnici e pittori che lasciano il segno nella regione sono napoletani che vi im-portano sia pure una pallida eco dello splendore della capitale partenopea.

Non bisogna nemmeno farsi sfuggire quello che avviene a Melfi, e non solo quella della fase angioina. Dopo la battaglia di Lepanto, Melfi e il suo contado vengono assegnati in feudo a Andrea Doria il protagonista di quella storica vittoria sui tur-chi. Insomma arrivano i genovesi, attori nuovi che lasciano il segno anche sul nuovo assetto architettonico che il castello di Melfi assume con l’arrivo dei nuovi signori.

Tu hai detto che nel medioevo in Basilicata non vi sono mo-numenti importanti. Io ho trovato sempre intrigante e carica di fascino l’Incompiuta di Venosa. È un’eccezione?

No, vi sono altri importanti manufatti e opere d’arte. Certo la Trinità, la basilica incompiuta di Venosa, presenta elementi di grande ed estrema curiosità. Il suo altare con deambulatorio, a cui si gira attorno, come avveniva in Francia, in Italia è pre-sente così solo a Padova e a Bologna. La Chiesa “nuova” - ap-punto incompiuta - è costruita con tutti i blocchi ricavati dalla vicina città romana, ma insieme vi troviamo anche scolpiti su alcuni di essi il “serpente” e la “vipera” che sono segni caratte-ristici dell’iconografia longobarda. Un intreccio strabiliante di

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Cculture e di sedimenti materiali di civiltà che si succedono l’una all’altra.

L’Incompiuta di Venosa resta miste-riosa nella sua formulazione, ma gran-de. Il Bertaux, autore della prime guide d’arte in Basilicata, la cita come esempio unico. La parte “vecchia”, pur modesta nelle sue forme di ascendenza longobar-da, all’interno custodisce le tombe rega-li dei Normanni Abelarda e Roberto il Guiscardo. Ciò testimonia del fatto che questo zoccolo sopraelevato sui primi lembi della fossa premurgiana che fa da confine tra Basilicata e Puglia costituiva un’attrattiva per chi vi arrivava.

Infatti non sono solo gli insediamenti abitativi e i resti medievali che possono raccontare la Basilicata. La storia è fatta anche di segni più modesti che, una volta compresi, riconducono alle caratteristi-che della regione. La distesa di grano a giugno e lo stesso campo arato dai colo-ri nerastri di una terra umorale rivisto a novembre mi dà emozioni notevoli. Mi chiedo se non è possibile trasformare an-che questo in qualche cosa che spieghi questo “cuore antico” della Basilicata. Questa terra nerastra arata, se la vedo a ottobre o novembre pulsa come la civiltà che si è succeduta.

Dai monumenti alla natura, dunque, senza soluzione di continuità. Da questo punto di vista il massiccio del Pollino è stato un tempo definito come una delle bellezze naturali d’Italia tra le più impor-tanti. Lo è ancora? L’aver messo un freno alla cementificazione con l’istituzione del Parco ne ha impedito anche il degrado?

Il Pollino è sicuramente un fatto natu-rale di grande interesse. È un parco im-portante. Il più bello d’Italia? Non lo so. Ma quelle montagnone alte che segnano il confine fra Calabria e Basilicata ci re-stituiscono un paesaggio incontaminato, inalterato nei secoli. È una condizione di una rarità assoluta: chilometri e chilo-metri senza che vi sia una casa.

All’armonia di forme e colori della regione, si sovrappone attualmente una disarmonia di progetti?

Si potrebbe anche dire, al riguardo, che accanto ai due capoluoghi Potenza e Matera ci sono anche altri centri impor-tanti - come Melfi, Lavello e Policoro - dove c’è un avvicinamento ad altre città meridionali, quasi una omologazione per la cementificazioni o per la mancanza di piani regolatori. Ma insieme a questo c’è anche altro. Nella montagna potentina ad esempio, Picerno, Corleto Perticara, o verso Banzi, l’interno offre una real-tà con un tempo quasi sospeso, che po-trei definire magico. In un volume sulla identità artistica della Basilicata pubbli-cato anni fa, ho parlato di un’atmosfera magica, ferma alle origini.

Storia, natura e cultura si intreccia-no in modo originale particolarmente a Matera...

Sì, non a caso Ma-tera è stata scelta dal-l’Unesco tra i luoghi considerati patrimo-nio dell’intera umani-tà. Soprattutto i Sassi, che sono tra i segni più importanti lasciati dalle civiltà umane nel mondo. Ma il pericolo è che si esaltino solo alcune aree particolari. A Matera, per esempio, il piano regolatore ancora non c’è, e questo è indizio di mancanza di attenzione democratica verso il ter-ritorio. Intanto Matera dovrebbe essere oggetto di un piano di risanamento glo-bale, che richiederebbe una grande at-tenzione al territorio e una serie di salva-guardia ancora più di quelle di cui avreb-be bisogno il Colosseo. Ho visto alcune preoccupanti “smagliature” nell’opera di recupero, come l’uso del porfido del trentino, elemento del tutto sconosciuto nella zona, oppure restauri molto “alle-gri”, inadatti a preservare una continuità storica di questi luoghi.

Matera è l’unica vera attrazione turi-stica della Basilicata.

A partire dai Sassi bisogna costruire itinerari turistici che investano tutta la regione. Da Matera verso l’interno. A

“La Trinità di Venosaè un intrecciostraordinario di culture.La parte anticacustodisce le tombedei re normanni”

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CTricarico con i dipinti di Ferri e le tavo-le del Ribera, a Calciano o Metaponto, ma anche nella bizantina Anglona e poi a Venosa e ad Acerenza ad ammirare la grandiosa cattedrale normanna. Firenze i suoi turisti riesce a portarli anche nelle zone interne della Toscana. Perché non potrebbe farlo Matera? In Toscana sono riusciti a legare zone forti e zone deboli. Ho citato la Toscana perché certe zone vicino Siena assomigliano alla Basilica-ta. Chi va a Matera potrebbe vedere an-che i Calanchi di Aliano, ma non come segni di una povertà dura a morire ma come segni di diversità naturale che ha una sua inimitabile peculiarità. Anzi io proverei a cancellare questo legame tra la Basilicata e una certa idea della “po-vertà”.

“Il futuro ha un cuore antico” Questa immagine usata da Carlo Levi può es-sere riferita alla Lucania attuale? Nella regione dove, come sul Pollino, gli albe-ri risalgono alla preistoria, si notano se-gni di una modernità che avanza. Della Fiat abbiamo detto, ma penso anche ai pozzi di petrolio della Val d’Agri... E nel mezzo tanta storia e tante storie.

Il titolo riferisce di un modo di essere che i lucani non condividono con altri. In loro c’è una disponibilità all’etica del lavoro che non ha eguali almeno nel resto del mezzogiorno. La Regione ha alle spalle una storia interessante, una civiltà, un modo di usare il territorio che ha favorito la nascita di opere d’arte sia pure in un quadro generale di arretra-tezza. I lavori che stanno facendo le So-vraintendenze stanno portando a risultati interessanti. Penso al museo archeologi-co di Melfi o alla piana di Metaponto; sono miniere di citazioni storiche lega-te alle civiltà che si sono succedute, ma attraversate da una sorta di costante, da un’etica del lavoro che gli abitanti pos-siedono e che si realizza come capacità di attualizzare un passato con comporta-menti che definisco “civili”. In Basilica-ta è ben vivo il rapporto fra chi governa e chi è governato. Il civis è il cittadino

conscio del rapporto con le regole e le istituzioni. Chi oggi arriva in Basilicata o chi è arrivato negli anni sessanta nella valle del Basento solo per fare un inve-stimento economico, forse non ha colto lo spirito genuino della nostra regione e delle sue potenzialità.

Non mi pare che Levi la pensasse esattamente in questi termini...

Sì, bisogna andare oltre le immagini di Levi, quelle descritte nei suoi libri e quelle dipinte nei suoi quadri, oltre quel-le donne vestite di nero, allegoria di un dolore eterno. Tutto ciò non riesce a ren-dere per intero quello che la regione è stata e ha rappresentato. La Basilicata non è stata solo quella descritta da Levi. Se si guarda bene, pur se è esistita la po-vertà è esistito anche un modo civile e dignitoso di opporsi ad essa. Se si va in profondo, si trova che il “cuore antico” della Basilicata è fatto di tanti aspetti e tanti segni. È anche il senso del dove-re dei suoi abitanti. Gaetano Salvemini scriveva del senso dello Stato dei funzio-nari lucani.

Come vedi il futuro di questa regione?Il futuro è tenere unite le due cose,

la capacità di modernizzarsi e quella di “mantenere” la storia. Ciò vuol dire co-gliere della Basilicata tutte le sue sfac-cettature e la potenzialità progettuale che l’attraversa. Questa civiltà di cui parlo la regione deve offrirla, riattrezzandola, alla modernità dei tempi, allora sì che si può dire che Cristo si è mosso da Eboli per arrivare altrove. Ho usato un para-dosso. Cristo però parte dalla Palestina e non come Caro Levi da Torino. Pro-babilmente si ferma ad Eboli perché ha paura di cosa c’è dopo ed allora torna indietro a scoprire un territorio così strano, con paesaggi così emozionanti e con una popolazione radicata nei suoi usi e costumi, quasi una fedeltà a se stessi.

Il rispetto del territorio per te è essen-ziale.

Io do molta importanza al territorio. Si notano spesso delle slabbrature, il

confine della città non c’è più , si è perso qualcosa che la caratterizzava nel pae-saggio. Bisogna che la generazione fu-tura sappia costruire il futuro rispettando il ricordo.

Sono queste piccole cose, ben conser-vate, a fare il futuro.

Esattamente. Ad esempio è in questo modo che penso a un’attività modernis-sima come il turismo. Cioè come a un modo per “narrarsi”, per raccontare di sé attraverso il territorio. Penso al turismo come cosa che possa salvaguardare la propria storia, per salvare un insieme di tante piccole cose che solo unitariamen-te fanno un valore. Diventa allora impor-tante anche il rispetto delle tradizioni. Non dovrebbe succedere che tornando dall’estero non si trovi più nel proprio paese un palazzo che è stato abbattuto per puro spirito speculativo. È impor-tante che si ritrovino le cose che si sono sapute conservare.

Penso alla Val d’Agri in cui lo sfrut-tamento del petrolio, se non ben gover-nato, potrebbe portare a devastazioni dell’ambiente.

Una volta a Viggiano c’era lo straor-dinario pellegrinaggio della Madonna Nera che se valorizzato in un circuito tu-ristico, darebbe il senso di continuità del-la storia. Ma questo non accade. Mentre a Venezia per la festa del Redentore fan-no il ponte di barche, dando una grande importanza alla tradizione, a Tricarico invece la festa che prima era a settem-bre è stata spostata ad agosto perché c’è più gente facendole così perdere tutta la ritualità che a quella data era legata. Per la vigilia di S. Pancrazio accendevano grandi fuochi ed altrettanto interessan-te era la festa della legna per la potatura delle olive. Oramai non c’è niente di tut-to ciò. E questo mette tristezza.

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Le indagini storiografiche volte a stu-diare il rapporto fra masse contadine e fascismo mettono in luce l’inconciliabi-lità esistente fra queste figure sociali e il regime. A determinare questa considera-zione, gioca un ruolo preminente l’idea che il fascismo non fosse riuscito ad organizzare una macchina del consenso che potesse aver presa su categorie so-ciali quali i ceti popolari operai e le mas-se contadine.1

Secondo quest’ottica, la politica pro-pagandistica messa in piedi dal regime era volta a cooptare il consenso dei ceti borghesi e non attecchiva sulle altre fi-gure sociali. Finanche le attività svolte dall’Opera Nazionale Dopolavoro sem-brano non aver avuto alcuna presa sulle figure rurali e meno che mai in Basili-cata; in questo caso si ritiene che l’Ond non fosse riuscita nemmeno nell’intento di avvicinare i contadini e di coinvolger-li: nel 1927, in Basilicata, gli aderenti all’organizzazione appartenenti al mon-do contadino erano appena trentanove. Le adesioni toccavano il limite minimo d’Italia2.

Sostanzialmente l’idea sostenuta è che il fascismo non fosse riuscito ad andare

Ceti rurali e fascismotra ricerca del consenso e resistenza passiva

ELENA VIGILANTE

oltre i suoi sostenitori originari, e ad al-largare la base del consenso. Nell’affer-mare questo riveste un ruolo fondamen-tale l’idea che le manifestazioni di piaz-za, le celebrazioni, la retorica adottata e nei comizi pubblici e nei rituali fossero efficaci verso i ceti borghesi; al contra-rio non trovassero ascolto fra i ceti rura-li. Il motivo nazionale rispondeva alle esigenze di categorie particolari: i reduci della Grande Guerra, gli intellettuali in cerca di fede, la borghesia patriottica, re-stava invece estraneo alle categorie non urbane3.

In questo senso un passo del libro Cri-sto si è fermato ad Eboli relativo proprio all’atteggiamento dei contadini delle nostre campagne verso la propaganda fascista a favore della guerra di Etiopia è fortemente esplicativo: “Di discorsi in quei giorni se ne sentivano molti, e don Luigino si affaccendava a convocare le sue adunate. Era ormai ottobre, le nostre truppe passavano il Mareb, la guerra di Abissinia era cominciata. Popolo italia-no, in piedi! e l’America si allontanava sempre più, nelle nebbie dell’Atlantico, come un’isola nel cielo, chissà per quan-to tempo, forse per sempre. Questa guer-

ra non interessava i contadini. La radio tuonava, don Luigino adoperava tutte le ore di scuola che non passava a fumare sulla terrazza, concionando ad altissima voce (lo si sentiva dappertutto) ai ragaz-zi, e facendogli cantare «faccetta nera, bella abissina», e raccontava a tutti, in piazza, che Marconi aveva scoperto dei raggi segreti, e che la flotta inglese sa-rebbe presto saltata tutta per aria. Dice-vano anche, lui e l’altro maggiore mae-stro di scuola, il suo collega della radio, che quella guerra era fatta tutta per loro, per i contadini di Gagliano, che avrebbe-ro avuto finalmente chissà quanta terra da coltivare, e una terra buona, che a se-minarla la roba ci cresce da sola. Ahimè, i due maestri parlavano un po’ troppo della grandezza di Roma perché i con-tadini potessero credere a tutto il resto.Scuotevano il capo diffidenti, silenziosi e rassegnati. Quelli di Roma volevano fare la guerra, e l’avrebbero fatta fare a loro. Pazienza! Morire sopra un’amba Abissina non è molto peggio che morire di malaria nel proprio campo, sulla riva del Sauro”4.

Carlo Levi avvalora questa tesi di sostanziale estraneità dei contadini al

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fascismo; tuttavia la sua analisi tende a non circoscrivere l’estraneità dei conta-dini al movimento fascista, ma giunge a ritenere che i contadini restassero estra-nei alla retorica della propaganda fasci-sta così come sarebbero rimasti estranei a qualsiasi altra propaganda. A suo av-viso la comune contadina viveva di di-namiche sue proprie che non trovavano punti di contatto con l’organizzazione sociale e politica borghese. La chiave di lettura fornita da Levi è protesa a sotto-lineare questa assenza di un qualsivoglia rapporto osmotico fra le due dimensioni, piuttosto che a ritenere che i contadini restassero lontani dal fascismo per que-stioni più politiche spiegabili in termini di dissenso al fascismo.

Queste analisi, tuttavia, trascurano di studiare almeno due aspetti d’importan-za sostanziale. In primo luogo la diver-sità che intercorre fra le figure rurali; in secondo luogo l’effetto che ebbero sui ceti rurali le politiche studiate dal regime espressamente per cooptare il consenso dei contadini.

Per quanto concerne il primo aspet-to, le campagne lucane costituiscono un esempio della variegatura del mondo

rurale. Le province di Matera e Potenza presentano organizzazioni sociali diffe-renti. Nel materano prevalevano grandi distese di terra coltivate estensivamente e attestate su rese per ettaro bassissime. I fondi di terra erano amministrati da grandi fittavoli che o li subaffittavano, o li gestivano assumendo manodopera sa-lariata, dunque il numero di braccianti, in questa zona era consistente5.

Nel potentino e nel lagonegrese, la situazione era contraddistinta da un’agricoltura arretrata che si fondava sul frazionamento della proprietà che in termini di organizzazione sociale si tra-duceva nella presenza di un largo strato di piccoli contadini fittuari e di piccoli proprietari6.

La risposta al fascismo di queste dif-ferenti figure appartenenti al mondo del-le campagne, come possiamo facilmente immaginare, non fu unanime.

Nel materano vi fu un vero e proprio scontro sociale che ebbe per protago-nista un bracciantato agricolo piuttosto organizzato.

Qui il fascismo nacque in funzione degli interessi del padronato locale, ca-ratterizzandosi come una forza atta a

respingere rivendicazioni contadine e a distruggere leghe bracciantili schierate a sinistra.

Nel potentino, al contrario, la struttu-ra socio-economica del territorio sem-bra aver costituito una naturale fonte di consenso al fascismo: è probabile che i piccoli proprietari abbiano appoggiato il fascismo, considerandolo tutore delle loro proprietà e efficace a scongiurare la collettivizzazione delle terre.

Alberto Jacoviello individua una ter-za situazione che sarebbe costituita dai paesi della montagna, dal versante nor-dico del Vulture fino alla provincia di Salerno. A suo avviso, paesi come Picer-no e Tito videro la presenza di un’ampia classe bracciantile; tuttavia l’assenza di forze politiche attive e la mancanza di comunicazione con l’esterno fecero sì “che il bracciantato continuasse a fare gli interessi del padrone”7.

D’altronde per quanto riguarda i com-portamenti del bracciantato non organiz-zato, lo stesso Gramsci ci aveva messo in guardia. In una nota tratta da “ Qua-derni del carcere” scrive: “ I braccianti sono anche oggi ed erano tanto più nel periodo del Risorgimento, dei semplici

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contadini senza terra, non degli operai di un’industria agricola sviluppata con capitale concentrato. La loro psicologia perciò è, salvo eccezioni, la stessa del colono e del piccolo proprietario”8.

Per quanto concerne il secondo aspet-to, vale a dire le politiche studiate dal regime per riuscire ad avvicinarsi ai ceti non urbani, non bisogna dimenticare che affianco ad una campagna nazionalista ri-volta espressamente ai ceti borghesi il re-gime pose una campagna propagandistica volta a cooptare l’adesione dei contadini.

La politica propagandistica messa in moto dal regime, difatti, non si esaurì nelle manifestazioni sportive e più in ge-nerale negli eventi naturalmente rivolti ad accogliere il consenso dei ceti bor-ghesi; al contrario il fascismo studiò e mise a punto una macchina del consenso atta a coinvolgere i ceti rurali: la befa-na fascista, le colonie, rientravano in un progetto più vasto mirante a rispondere alle esigenze dei ceti rurali. Lo stesso tentativo di modernizzare le campagne e di introdurre dei miglioramenti nelle condizioni di vita dei contadini può es-sere letto in questo modo. Sebbene sia ben chiaro che rientrasse in una politica economica precisa che prese corpo so-prattutto dopo il 1929.

In questo tentativo di penetrazione nei ceti rurali, l’Ond svolse un ruolo importante. Difatti sebbene nei primi anni rimase effettivamente confinata agli ambienti impiegatizi, più tardi vi fu un’inversione di rotta. A questo pro-posito, Ernesto Ragionieri individua i due momenti di cesura, nel 1927 e nel 1929. Il 1927 fu la data in cui il consi-glio d’amministrazione dell’Ond venne sciolto e sostituito con un commissario straordinario individuato nella persona del segretario del Pnf. Ragionieri ritie-ne che la gestione Turati ebbe proprio la specificità di far raggiungere all’Ond quei settori della società italiana cui era fino ad allora rimasta estranea, in parti-colare i centri rurali e il Mezzogiorno. La seconda data individuata da Ragionieri, il 1929, segnerebbe il vero e proprio svi-luppo del dopolavoro in risposta alla cri-si economica crescente. Da questo mo-mento, non a caso, l’assistenza divenne l’attività principale dell’Ond: l’adozione di queste misure avrebbe dovuto coprire gli effetti più gravi della crisi economica sul piano sociale.9

Pertanto, quando si studiano gli effet-ti delle campagne propagandistiche sui ceti rurali bisognerebbe badare all’im-patto che riscosse questa sorta di welfare

state inventato dai fascisti che costituisce sul piano sociale, un aspetto della rispo-sta tutta italiana alla crisi economica del 1929 e dei crack finanziari del 1931.

Note1 Edward Tannenbaum, L’esperienza fa-

scista cultura e società in Italia dal 1922 al 1945, Mursia editore, Milano, 1972, pp. 235-245.

2 Victoria De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari, 1981.

3 Emilio Gentile, Il culto del littorio, La-terza, Roma-Bari, 1998.

4 Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Mondadori, Milano, 1969, p.29.

5 Domenico Sacco, Socialismo riformista e Mezzogiorno, Pietro Laicata Editore, Man-duria, 1987.

6 Alberto Jacoviello, Il 25 luglio 1943, in Giustino Fortunato Alberto Jacoviello, Nel regime fascista, Calice Editori, Rionero in Vulture, 1996.

7 Alberto Jacoviello, Il 25 luglio, cit., pp. 73-74.

8 Antonio Gramsci, Quaderni del carce-re, Quaderno primo, Einaudi Editore, Tori-no,1975, p.49.

9 Ernesto Ragionieri, Il regime reazio-nario di massa, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Einaudi Editore, Torino, 1976, pp. 2220-2230.

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Il termine meticcio arrivò in Italia at-traverso la lingua francese (métis) ma l’origine comune era quella latina (dal verbo Miscére) e prima ancora quella greca (con la radice comune Miç-) da cui derivano miktòs e mixtus (o nell’odierno inglese to mix): mischiare cioè, o misto.

Il sostantivo indica, nella sua acce-zione moderna, un nato/a da due genitori di razze diverse (la sua diffusione si ebbe in America con le unioni tra bianchi e indiane), ma trova una formulazione più estesa nel verbo da cui deriva , quel latino miscére che in italiano diciamo méscere, mescolare, mischiare: “confon-dere più cose o persone eterogenee tra loro, che non essendo aderenti ed unite, si possono perciò distinguere”.

La parola ci porta, quindi, ad una me-scolanza, per la quale è necessario un incontro, una unione (di conseguenza il suo contrario è divisione, separazio-ne, scontro); unione, che come si evince dalla definizione, può anche realizzarsi (e nella quasi totalità dei casi, si realiz-za) senza conseguire una comune iden-tità: una fusione che rimane allo stato di “con-fusione”.

Non vi è niente di nuovo, nè di temi-bile e di negativo in sé, a partire dalla parola e dal suo significato, che, la lette-

“Ecco, dunque, quant’è buono e quant’è piacevole,che fratelli dimorino insieme”

(Davide, Libro dei Salmi, 133, v.1)

ratura, la filosofia, e persino la religione (“In principio era il Verbo…”) ci hanno spiegato possedere una “forza fondan-te”.

Ma significato e senso sono due cose distinte, e la seconda appartiene all’uo-mo e alle sue contingenze.

Quindi oggi, il termine assume una valenza negativa, come una minaccia a cui opporre difese che preservino una (presunta) comunanza di cultura, reli-gione, storia, tradizione e via dicendo, che sarebbe il fondamento di una preci-sa identità: quella cristiano-occidentale opposta all’islamico-orientale, (ma un musulmano ortodosso farebbe lo stesso ragionamento invertendo i termini del discorso, e lo stesso dicasi per tutte le culture e religioni del mondo).

Eppure, se riconosciamo al linguag-gio quella forza cui abbiamo accenna-to, il significato spiega chiaramente che questa unione preserva una distinzione: la mantiene, la lascia vivere, come diffe-renza all’interno di una molteplicità.

La cosa singolare non è che questo avvenga, oggi come ieri, in maniera ec-cezionale; al contrario, la sua ecceziona-lità consiste nel fatto che l’intera storia dell’umanità è pervasa, potremmo dire persino caratterizzata, da questo incon-

tro-scontro, da questo mischiarsi; e il meticcio, utilizzato linguisticamente per distinzioni razziali, è qualcosa che va ben oltre, nel tempo e nel senso appun-to, il risultato cromosomico dell’unione di due razze, che quando, nella storia recente, si è tentato di evitare, ne sono conseguite, nel cuore della civilissima Europa, le teorie e gli orrori reali della “razza pura”, vagheggiata dai nazisti o gli stupri di massa nella guerra jugosla-va, con la mescolanza imposta e vissuta come “infamia” genetica.

Meticcia è dunque la nostra storia, fi-gurativamente persino la nostra origine e l’origine della vita in genere (cos’al-tro fu il Big Bang se non un’esplosione, una divisione, conseguita ad una prece-dente unione, a un miscelarsi di miliar-di di detriti e particelle, che diede vita all’Universo…e come si può nascere e procreare senza incontrarsi, senza con-fondersi…).

Meticce, nella loro creazione, le tre grandi religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo ed Islamismo) che furo-no tutte il risultato dell’incontro e della revisione di quelle che le avevano pre-cedute: i primi seguaci di Maometto sul-l’altopiano dello Higiaz erano dissidenti di sette giudaico-cristiane ed ebrei noma-

del mondoSIMONE CALICE

La “mescolanza”

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Cdi delle montagne vicino Yatrib (l’odierna Medina); e la figura di Abramo, per fare un solo esempio, è presente in ognuna di esse.

Meticce la Grecia di Pericle e la Roma di Augusto, con i loro poeti, scultori, filo-sofi, provenienti da ogni luogo del mondo allora conosciuto: il generale Ezio, l’ulti-mo grande eroe dell’antico impero, e del-la cristianità quindi, che fermò Attila e le sue orde di invasori alle porte di Roma, provenienti dal Nord Europa (i barbari allora erano altrove!), era figlio di prece-denti “invasori”.

Meticcia la nostra cultura e i nostri padri (anche quelli della Chiesa): San-t’Agostino nacque a Tagaste, e morì, vescovo d’Ippona nell’odierna Algeria; e San Tommaso non avrebbe potuto compiere il suo straordinario sforzo spe-culativo di conciliare la filosofia greca e le Scritture (peraltro non riuscito) senza quell’arabo di nome Averroè, che conse-gnò all’Europa cristiana i testi di Aristo-tele, altrimenti sconosciuti.

Meticcio il sogno di Federico II, lo Stupor Mundi che diventò Anticristo, il quale andò a liberare Gerusalemme, sen-za alcuno spargimento di sangue, il 18 Febbraio del 1229, stringendo amicizia col sultano Al-Kamil (amicizia che du-rerà per tutta la vita suscitando lo sde-gno di entrambe le parti, l’Islam come la Chiesa di Roma) e portando con sè, al ritorno in Italia, nella sua corte tra la Puglia e la Sicilia, scienziati, astronomi, filosofi, matematici, medici e giuristi, in-sieme al principio fondante di ogni stato laico moderno: quello della centralità della giustizia, intollerabile per qualsiasi religione, in quanto pone la legge degli uomini sul piano fino ad allora riservato alla grazia divina:

“Federico II aveva ottenuto senza alcuna guerra, quanto era fallito a tut-ti gli altri crociati dopo la conquista di Gerusalemme da parte del Saladino: la liberazione, cioè, della città santa…in più egli si trovava nel paese allora fon-te d’ogni scienza per l’Europa…quello

che l’Italia e Roma furono per le terre del Nord, ciò che l’Ellade, la sua arte e la sua filosofia, rappresentarono per Roma, questo fu il mondo ellenistico-orientale per l’occidente di allora”. (E. Kantorowicz, Federico II Imperatore, Garzanti, Milano, 1976).

Meticce, fors’anche, le radici dell’Eu-ropa moderna, con i suoi mirabili monaci cristiani in giro tra lande sconosciute ed ostili nel nord del continente, a reclutare, convertire, istruire, mediare, nel nome di un’unica dottrina, popoli e genti diver-sissime tra loro.

Meticce perciò pure le nostre lingue, i nostri numeri e le nostre tavole, riem-pite di spezie e pani e canditi e fritti di ogni tipo dagli arabi ed ebrei che li in-trodussero nelle nostre diete, da Venezia a Palermo.

Meticcia, ancora, la storia dei tem-pi recenti e delle sue nazioni, prima tra tutte quell’America che il cantore della sua fondazione, nonché il suo più gran-de poeta, ammoniva così: “…svitate i chiavistelli dalle porte, le porte stesse scardinate dagli stipiti…” (W. Whitman, Foglie d’erba, par. 24 v. 501, Rizzoli, Milano, 1988), come il più bell’invito all’incontro, alla non chiusura, all’acco-glienza, che si possa rivolgere ad una na-zione che nasce o a chiunque vogliate... e meticcio il Blues e meticcio il Jazz e tutti gli straordinari atleti neri trionfanti di ori olimpici con la bandiera a stelle e strisce sul petto…

Ma quasi mai a questo mischiarsi è corrisposta un’identità comune, che ri-mane solamente auspicabile, in quanto non necessaria: nel corso dei secoli è stato quando questo mischiarsi, questo diàlogos (“colloquio, comunicazione co-stante tra persone o tra gruppi che per-mette di eliminare o ridurre gli elementi di dissenso e favorisce la comprensione reciproca”) è mancato, che ci si è perduti nella violenza e nello scontro, e non il contrario.

Per questo, oggi più che mai, la parola va difesa insieme al suo significato, va

gridata con forza, protetta e preservata, dal fanatismo e dall’ignoranza, dal terro-rismo e dalla stupidità ideologica, ovun-que essa abbia origine.

Salviamola dunque, salvatela: datele un altro senso, perché difenderla vuol dire difendere ciò che tutti noi siamo, la storia del mondo, il suo inizio ed il suo corso, un divenire, un cambiamen-to, il risultato di più incontri, il prodotto imperfetto delle nostre diversità… E a coloro che sostengono il contrario, ri-cordate con dolcezza, che l’uguaglianza, esclusa quella dei diritti e dei doveri, che è un principio cristiano prima che laico (“Tutte le creature sono uguali davanti a Dio…”) è noiosa, stagnante, genera chiusura e solitudine, e, con il tempo, è per ciò stesso, drammaticamente morta-le.

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La volontà dell’attuale governo nazio-nale di tagliare i finanziamenti al FUS (Fondo Unico dello Spettacolo) quale spesa dello Stato superflua e quindi ri-conducibile ad una sana azione di rien-tro delle stesse, propone una riflessione che va al di là della valutazione sulla operazione economica.

Voglio dire che drastico o parziale che sarà il taglio, si mette in discussione un principio che ha regolato la vita dello spettacolo in Italia dal dopoguerra ad oggi. Altro è, chiaramente, fare delle va-lutazioni su quella che è stata la gestio-ne negli anni del Fondo e quali regole, chiare o poco chiare, l’hanno normata attraverso circolari e regolamenti che invano hanno aspettato di tramutarsi in leggi, in particolare per il teatro.

L’elemento da considerare è la valenza dello spettacolo: puro momento ludico o momento più o meno valido di promozio-ne culturale, parte di un progetto culturale. Lo spettacolo come momento di crescita sociale, lo spettacolo come strumento di libertà di espressione o meglio palestra per una sana educazione all’utilizzo del linguaggio come espressione della libertà del pensiero. Finanziare pubblicamen-te tutto questo ha significato in qualche modo garantire questa libertà.

Il dubbio che mi viene in mente è che sarà balenato ai nostri governanti l’idea che, comunque molto si spende in Ita-lia, anche e fuori dal FUS, per lo spetta-colo. E in effetti basta guardare qualche programmazione, soprattutto estiva, di grandi e piccoli centri, turistici e non, per avvalorare il dubbio. Iniziative a ca-rico di Enti Locali al fine di promuovere momenti di arte ed altro in un miscuglio articolato e gradevole nelle aspettative, non sempre nelle risultanze. Notti bian-che ed altro con spettacoli in ogni an-golo e piazza, tutto rigorosamente gratis. Tutto a significare due cose: la prima che intrattenimento di piazza e progetto cul-turale si confondono, la seconda che chi organizza manifestazioni con il biglietto d’ingresso, così come prevede il FUS, al fine di motivare il pubblico e stimolarne una crescita, è superato dai fatti e soprat-tutto ne trae uno svantaggio.

L’Associazione Basilicata Spettacolo da vent’anni opera sul territorio regiona-le finanziata, in buona parte, anche dal FUS essendo sovvenzionata dal Mini-stero, oggi, per il teatro e la danza. Non lo è più per la musica perché per i tagli già apportati a livello di commissione ministeriale il suo progetto di concer-tistica jazz per il 2005 non è stato ap-

provato nonostante la tradizione oramai consolidata decennale e la valenza degli artisti esibitisi quest’anno e negli anni passati nel cortile del Castello di Lago-pesole e anche in altri luoghi della regio-ne. Non lo è più per il cinema in quanto non avendo i suoi progetti sponde eco-nomiche d’altri Enti, vedi Regione, si è dovuto rinunciare alla domanda d’am-missione. Tutto ciò con il rammarico di non poter portare avanti progetti che nel passato hanno visto partecipi tanti nello sforzo comune di poter fungere da mo-mento di formazione del pubblico, per una crescita non solo quantitativa ma anche e soprattutto qualitativa.

Ma altrettanto vera è la consapevo-lezza che questa ventennale azione sul tessuto sociale della Basilicata ha con-tribuito in maniera forte alla crescita di numerose esperienze professionali nel campo dello spettacolo e dell’organizza-zione dello stesso.

Il teatro dagli inizi degli anni ottan-ta con i due circuiti poi scomparsi per una felice scelta della politica, per farne nascere uno che operasse a pieno titolo sull’intero territorio, ha visto la sua dif-fusione anche oltre le strette mura di una sala andando nelle piazze, ovunque fos-se possibile ottenere un palcoscenico ed

TONINO COLASURDO

La culturanon è una merceChi vuole uccidere l’Associazione Basilicata Spettacolo?

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una platea ed una bigliettazione per un pubblico motivato. Ovunque un teatro o un cine-teatro lo consentisse e ovunque un sito di valenza artistica, storica o am-bientale si prestasse a palcoscenico. In vent’anni il teatro in Basilicata da even-to unico ed isolato nel ridotto orizzonte della proposta culturale della regione si è trasformato in tradizione: oggi è tra-dizione, è patrimonio culturale della comunità. Non solo a Potenza e Matera, ma da Venosa a Francavilla la stagione teatrale è appuntamento fisso ed atteso. Tutto merito dell’ABS e della sue pro-fessionalità? Certamente non solo ma in parte certamente assieme ad una volontà politica sancita da una legge regionale solo in parte in realtà attuata.

Tutto ciò oggi è messo in discussio-ne da una politica nazionale guidata da un governo di destra che percorre dise-gni propri con interessi “privati” anche in questo settore. Purtroppo le politi-che regionali fin qui non hanno aiutato il sistema della distribuzione pubblica. Infatti, il contributo previsto dal Piano delle attività culturali si è assottigliato negli anni a fronte di costi che si sono raddoppiati ma soprattutto lo strumento di programmazione e cioè la legge re-

gionale 22/88 non è stato mai attuato in pieno. L’articolo 21 di quella legge in-dividua nell’ABS il referente regionale per la promozione culturale attraverso la distribuzione dei linguaggi dello spetta-colo.

E poi c’è il protagonismo di sindaci che nuovi mecenati dell’Arte, agiscono fuori da norme che regolano i meccani-smi e consolidate dalla storia delle co-munità di questa regione.

Oggi le intuizioni sul campo sono molteplici e si pensa, forse giustamen-te, che le misure di finanziamento euro-peo possano sopperire a ristrettezze di un’economia regionale povera, dove an-cora non incidono i proventi delle royal-ties e non sappiamo quando e quanto!

Ma regna il disordine, non mi pare che ci sia un progetto di politica culturale ed una linea comune!

Qualcuno obietterà che un progetto non serve, basta mettere insieme tante iniziative e via!

Ma un obiettivo bisogna pure averlo, una ricaduta bisogna pure cercarla per-ché si possa ottenere una crescita sociale che è pure economica.

Sento parlare di “cittadella dei sape-ri”, ed immagino un bel sogno che dal-

l’archeologia industriale porta alla fuci-na delle conoscenze per dare spazio alla fantasia dell’arte, alla libertà del pensie-ro.

Proviamoci a realizzare questo sogno per la città di Potenza e per l’intera regio-ne, ma non dimentichiamo il patrimonio ultraventennale di un’esperienza che ha contribuito, forse in piccola parte, alla nascita di piccole economie e di profes-sionalità ma soprattutto alla formazione di un pubblico che, oggi, pretende e sce-glie qualità e non quantità.

L’Associazione Basilicata Spettaco-lo è consapevole della necessità di ri-disegnarsi un nuovo ruolo, ma se deve chiudersi la sua esperienza, non perché agonizzante e dimenticata, la Politica, quella vera senza la quale non c’è liber-tà, ha il dovere di individuare percorsi di trasformazione perché il passato non sia un fardello ma un patrimonio.

Il teatro è anche la capacità di una co-munità di raccontarsi. Facciamo sì che il sogno di questa comunità possa essere la narrazione degli artisti del futuro di questa regione.

La scuola italiana e l’educazione nell’era planetaria

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In questi giorni (16 ottobre 2005) il Consiglio dei Ministri ha approvato il Decreto Legislativo sul Secondo Ciclo del si-stema educativo di istruzione e formazione, la cosiddetta Ri-forma della scuola secondaria superiore. Una decisione presa a poco più di un mese dalla Conferenza Unificata Stato –Regio-ni, dalla quale è emerso un deciso freno all’avvio delle speri-mentazioni anticipate, anche per via dei numerosi paletti posti dalla quasi totalità delle regioni italiane di fronte all’incertez-za dei percorsi della formazione professionale ancora tutti da definire, alla necessità di rimettere mano ai piani regionali di dimensionamento e organizzazione della rete scolastica, alla vaghezza delle risorse finanziarie occorrenti per dare concre-tezza al dettato legislativo.

Una corsa contro il tempo, voluta dal Ministro per rispetta-re, costi quel che costi, la scadenza della Delega in materia di riforma scolastica, avviata con l’approvazione della Legge 53 del 2003 e rimasta da due anni priva proprio della parte cru-ciale, quella che riguarda il settore formativo più difficile da riformare, la secondaria superiore che ha fatto arenare governi e ministeri da circa ventanni a questa parte.

Mentre mi impegno a collocare in un qualche orizzonte di senso gli enunciati di principio del Decreto Legislativo appena varato e i contenuti e gli obiettivi delle Indicazioni nazionali per i vari indirizzi liceali, mi vengono in mente piuttosto le grandi sfide ineludibili che il nostro tempo incerto e complesso pone ai sistemi educativi, specie a quelli occidentali, sempre più dentro una crisi ormai di lunga durata. E, devo ammettere, non trovo risposte convincenti neppure nel lungo e dettagliato elenco di competenze previste dai Profili formativi dei percor-si liceali e della istruzione e formazione professionale.

La scuola italiana e l’educazione nell’era planetaria

Sono sfide che riguardano il mondo e i velocissimi cam-biamenti che lo attraversano in dimensione planetaria e le conoscenze che gli uomini producono sul mondo e su se me-desimi.

In un saggio scritto a più mani con l’epistemologo spagnolo Emilio-Roger Ciurana e con lo studioso del pensiero comples-so argentino Raùl Domingo Motta - Educare per l’era plane-taria, uscito recentemente in Italia per i tipi della Armando Editore1 - il sociologo e filosofo francese Edgar Morin, torna con forza a riproporre la necessità di una riforma dell’inse-gnamento che sappia fornire ai giovani di questo tempo gli strumenti “metodologici” per affrontare la comprensione della complessità, vale a dire i problemi fondamentali e globali del nostro pianeta, contro ogni forma di frantumazione e di iper-specializzazione dei saperi, tendenza purtroppo assai diffusa nelle diverse riforme dei sistemi educativi della più parte dei paesi europei, Italia compresa.

Morin aveva già affrontato in precedenza il tema della “ri-forma del pensiero”, come riforma del modo di affrontare la conoscenza e riforma dell’insegnamento. In La testa ben fatta (1999), risultato di una consulenza esperta richiesta dal mini-stero dell’Educazione francese in vista di una riforma, e ne I sette saperi necessari all’educazione del futuro (1999), testo redatto per conto dell’UNESCO per il progetto interdiscipli-nare “Educare per un avvenire possibile”, lo studioso francese aveva riflettuto sulla necessità di rivedere i paradigmi cono-scitivi in relazione a un mondo che richiede una comprensio-ne più articolata, più “interconnessa”.2

A fronte dell’accumulazione dei saperi e della frammen-tazione delle concezioni del mondo, il pensiero complesso si

CAMILLA SCHIAVO

La riforma difficile

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Cpone il problema di individuare i principi organizzatori che permettono di collegare i saperi e di dare loro senso e, per chi impara, diventa importante riuscire ad individuare le relazioni tra le parti che compongono il tutto, visto che il tutto è un si-stema in continua rapidissima trasformazione.

L’interdisciplinarità e le relazioni tra i saperi e le cono-scenze sul mondo avviano ad una visione complessa e insie-me aperta delle vicende umane nel tempo e nello spazio, ne consentono la comprensione in termini di legami tra aspetti globali e sviluppi locali, allontanano i pre-giudizi come con-seguenza della gerarchia delle conoscenze, tanto quanto della gerarchia tra esseri umani. Ciò che l’educazione deve favorire è perciò l’intelligenza generale, capace di riferirsi al contesto in modo multidimensionale. D’altra parte, ciò che rende par-ticolarmente “globale” il nostro tempo è l’aumento incessante dei legami e delle interconnessioni tra le parti e le vicende che caratterizzano gli ambienti, le economie, le politiche, le socie-tà, le culture, le storie.

La cifra essenziale di quella che Morin definisce l’era pla-netaria è “l’irrimediabile incertezza della storia umana”, poi-ché ciò che ha segnato il passaggio emblematico tra il secolo, e il millennio, appena trascorso e quello da poco iniziato è “la perdita del futuro, cioè la sua imprevedibilità”. Costruire saperi che aiutino le menti a navigare e trovare la rotta nel mare delle incertezze rappresenta dunque la possibile strategia cognitiva, “un metodo di apprendimento nell’errore e nell’in-certezza umani”.

Insegnare la comprensione come coscienza della comples-sità umana, insegnare la democrazia nel rapporto tra individuo e società, insegnare la cittadinanza terrestre e l’umanità come destino planetario, sono alcune delle sfide a lungo termine, ep-pure urgenti come mai, che ogni riforma dei sistemi educativi avanzati dovrebbe saper raccogliere e tradurre in indicazioni concrete per la scuola reale.

Si tratta quindi di pensare a sistemi educativi che mettano in condizione le giovani generazioni di orientarsi nella moltepli-cità delle esperienze e delle conoscenze attraverso un bagaglio di competenze forti e durevoli, di saperi che aiutino a collega-re, piuttosto che a separare, a distinguere per capire, piuttosto che a dividere e ridurre.

Ho difficoltà a trovare ragionevoli e persino convenienti quei percorsi formativi che dividono eccessivamente settori e modalità conoscitive e di approccio al mondo, che attraverso scelte educative profondamente diversificate e precoci perso-nalizzazioni dei piani di studio, di fatto creano le condizioni per destini umani, professionali e sociali preventivamente, forse irrimediabilmente, differenziati.

In una società-mondo in cui il rischio delle “esclusioni” sociali e culturali sembra ridiventato altamente probabile, mi pare che la scuola debba impegnarsi a ridurre il più possibile

l’esclusione culturale, assicurando nuclei di saperi comuni so-lidi e garantiti per tutti, necessari a dare piena cittadinanza a ciascuno.

A Lisbona nel 2000 l’Unione Europea poneva tra gli obiet-tivi prioritari per lo sviluppo dei paesi membri la riduzione del tasso di dispersione e di insuccesso scolastico a meno del 10%. Ciò significa che non vi è sviluppo se non cresce l’istru-zione e la cultura di ogni paese che voglia dirsi avanzato.

Differenziare i percorsi di istruzione deve servire a dare ri-sposte formative adeguate ad attitudini e vocazioni diverse, certo, e per farlo occorrono contenuti culturali più solidi e ac-cessibili a tutti dentro sistemi scolastici molto meno rigidi del nostro. La riforma scolastica di questi giorni, introducendo di fatto il sistema formativo duale, non sembra proprio voler an-dare in questa direzione.

La solidità e la profondità di una formazione di base, am-pia e sostanzialmente valida non per pochi, offre una qualche concreta possibilità di muoversi senza soccombere nell’uni-verso delle radicali trasformazioni che le tecnologie avanzate producono nell’informazione e nella comunicazione, oltre che nelle scienze.

Howard Gardner, grande teorico dell’intelligenza e della conoscenza, in occasione di una conferenza tenuta a Tokio nel maggio del 2000 per conto della Harvard Graduate School of Education, ci ricorda, tra l’altro, che l’educazione per questo millennio non può permettersi di venir meno all’importante compito di aiutare gli studenti ad assumere un ruolo attivo e critico proprio nei confronti dell’intreccio tra scienze e tecno-logia, tra sapere tradizionale organizzato nelle discipline e sapere tecnologico, fortemente mobile, rapido e trasversale ai diversi saperi strutturati.

Sapere critico, insieme a Umanità e Responsabilità, sem-brano dunque, ancora una volta, rappresentare insostituibili valori e risorse per riuscire a dare un volto e un senso ad un futuro ormai troppo schiacciato da un presente interminabile.

Se ne ricorderanno coloro che governano e intervengono negli scenari educativi e scolastici globali e locali, coloro che decidono in quelli nazionali e regionali ?

1 E. Morin, E. Ciurana, R. Motta, Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento. Armando Edi-tore, Roma 2004

2 E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e rifor-ma del pensiero. Raffaello Cortina Editore, Milano 2000

E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro. Raf-faello Cortina Editore, Milano 2001

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Il Racconto

Avevo acconsentito con una certa riluttanza all’invi-to dell’editore di recarmi da lui a *** per discute-re insieme della pubblicazione del volume dei miei

racconti: in quella città avevo trascorso alcuni anni, i primi anni d’università e insieme i primi delle lotte studentesche. Anni in-tensi e produttivi, in movimento e di movimento, nei quali mi ero maturato umanamente e politicamente, e che avevo acqui-sito come tappa fondamentale della mia esperienza. Temevo che, ritornandovi dopo un lunghissimo e ininterrotto periodo di assenza, scattassero i meccanismi della dimensione immobile e infeconda della memoria, del ricordo: detesto le rimpatriate, che falsamente ricreano, tra adulti diversi per collocazione e ruolo sociale, il sodalizio irripetibile di comuni esperienze gio-vanili, in generale legate all’odiosa costrizione scolastica e uni-versitaria della “comunità”. Diverso è il sodalizio politico che, quando è contrassegnato dalla militanza rivoluzionaria, esclude il pericolo commemorativo della “rimpatriata”: essa non può infatti caratterizzare con il suo marchio di falsità l’incontro tra due “compagni d’arme” che tali sono rimasti, ché allora il loro sguardo è rivolto al passato solo in funzione del comune impe-gno presente, né l’incontro tra loro e chi per strada si è perso, ha “abbandonato la lotta”, ché tra i primi e questi ultimi il ricor-do è strumento di divisione e di polemica. Ma talvolta anche in questi casi non ci si sottrae al ricordo e alla sua più usuale connotazione, che è la menzogna, la falsificazione: nella comune memoria svaniscono le colpe e i torti, gli odi e le antipatie, e subentra la dimensione ineffabile del “come eravamo” (belli, giovani, gran figli di puttana, ecc.) in funzione conciliatrice. Per quello che mi riguarda aborro la conciliazione, e amo invece di ravvivare dentro di me gli odi, i torti fatti e subiti, le antipatie così come i trasporti e gli amori irripetibili, legati come sono ad un’epoca e alle sue interne tensioni. Il risultato è che fre-quento pochissimo “vecchi” amici, e tutti a me accomunati da identica passione civile, ed evito di incontrarne altri.

FRANCESCO LAUDADIO

Ritorno alla Comune

Arrivai a *** alle 7, l’appuntamento in casa editrice era fis-sato nella tarda mattinata, e potei approfittarne per una lunga passeggiata in città. Dalla stazione mi immisi nella lunga arteria centrale frammisto alla fiumana di pendolari rovesciati dai tre-ni e diretti alle scuole e agli uffici. Sono le prime ore del matti-no le più congeniali a conoscere la natura della città: superato l’orario d’apertura delle scuole, dei negozi, dei luoghi di lavoro, tutte le città s’assomigliano tra loro, e Roma e Napoli non si distinguono da Milano e Torino, e le piccole città del cen-trosud da quelle del nord, se non per il maggior numero di persone che stazionano nelle strade e nei bar. Ma al mattino, quando tutta la gente è per le strade, ed è in movimento, ha una direzione, scuola fabbrica ufficio cantiere negozio, allora si può tastare il polso della città: *** è una città levantina e com-merciale. Le prime ore d’attività sono segnate dall’apertura di centinaia di negozi, di grossisti, di esercizi pubblici, che trasfor-mano le sue strade centrali in sgargianti e lussuosi mercati. Queste strade percorsi all’inizio della mia passeggiata, inol-trandomi poi nella città vecchia e nel grande quartiere popo-lare di levante, per tornare infine in centro. Mentre mi avviavo alla casa editrice, mi accorsi di aver ripercorso in sostanza il tragitto canonico dei cortei studenteschi con cui prima alcune centinaia di giovani, poi grandi masse di studenti, compivano un rituale gemellaggio della loro lotta e della loro condizio-ne con quella delle masse popolari della città vecchia e dei quartieri sottoproletari, per concludere infine con ingiuriosi comizi contro il centro urbano.

La passeggiata produsse l’effetto temuto; e se la discussione con l’amico editore valse a cancellare soprassalti di malinco-nia, questa mi riprese più forte quando andammo a pranzare insieme, dopo aver firmato il contratto. Di pochi anni più gran-de di me, e alle lotte della mia generazione accomunato da una lunga milizia politica, egli conosceva bene i miei compagni più intimi degli anni delle lotte universitarie: gli chiesi perciò di

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Cparlarmi di loro, che fanno, sono nel partito, si sono sposati, la-vorano e dove? Di alcuni, che erano venuti a trovarmi a Roma, sapevo già qualcosa, degli altri mi informò brevemente l’edito-re. Mi disse infine di uno che mi era stato più caro degli altri, e con cui avevo formato un inseparabile sodalizio fino alla mia partenza da ***, che aveva coinciso con una brutta rottura dei nostri rapporti. Andrea dunque, era rientrato nel Partito, ne era divenuto funzionario, si era sposato con Valeria, aveva un figlio. Avrebbe avuto piacere di rivedermi, concluse l’editore. Annuii, e terminammo di pranzare parlando d’altro.

Nel pomeriggio, mi trattenni in casa editrice per visionare un saggio sul quale il mio amico mi aveva chiesto un parere per la pubblicazione, rinnovando così per una volta l’antico rapporto di lavoro tra noi - in quella casa editrice avevo fat-to le mie prime esperienze di redattore. Quando terminai, stesi una breve nota per l’editore, che intanto era andato via, gli scrissi un biglietto di saluto e uscii. Era ormai pomeriggio inoltrato, avevo perso l’aereo delle 17 e dovevo aspettare le nove per il prossimo oppure prendere il treno di mezzanotte. Di passeggiare non avevo più molta voglia, era già quasi buio: così decisi di telefonare ad Andrea. Conoscendo la sua discre-zione, sapevo che l’aver detto che avrebbe voluto rivedermi significava in sostanza che lui aveva fatto il primo passo e che sarebbe toccato ora a me mettermi in contatto con lui per incontrarci.

Andrea era più grande di me di quasi due anni; a differenza di me, che mi ero trasferito a *** per frequentare l’università, provenendo da un picco-

lissimo comune di montagna, Andrea vi risiedeva con la fami-glia, una famiglia ricca e influente, con cui aveva rotto tutti i rapporti al termine del liceo. Fu il primo compagno che co-nobbi a ***, e pochi giorni dopo esserci conosciuti, andammo a vivere insieme in un grande appartamento, dove abitavamo con altri tre amici, che divennero ben presto militanti attivi del movimento. Per una serie di circostanze, soprattutto per la forza d’attrazione che la “comune”, come subito venne chiamata, esercitava su coloro che vivevano in famiglia e che da noi respiravano aria di “libertà”, per la forza non trascura-bile di un collettivo di militanti in un movimento così frasta-gliato e diviso come quello studentesco, per il ruolo dirigen-te che Andrea ed io vi esercitavamo, si strinsero tra i membri della “comune” legami profondi di stima e di solidarietà, ce-mentati da interminabili discussioni ideologiche e politiche e da un’assoluta disciplina nella vita in comune. Questi legami erano particolarmente profondi tra me ed Andrea: ambedue eravamo militanti già dai primi anni del ginnasio, io nella mia sezione di paese, Andrea presso la gioventù comunista di ***; avevamo identiche passioni culturali, e in particolare uno svi-scerato amore per il cinema; e a questo s’aggiungeva una to-tale corrispondenza di sentimenti, una costante comunanza di reazioni, umane e politiche. Questo, e la comune posizione di responsabilità alla direzione delle lotte, aveva reso la no-stra amicizia molto più solida e radicata di quella che l’uno o l’altro di noi avesse con gli altri membri della “comune”, costituendo così un gruppo nel gruppo.

Francesco e io

Francesco Laudadio è morto a 55 anni nell’aprile di quest’anno in una clinica di Bologna per malati terminali, dove per mesi ha guardato negli occhi la

morte che stava arrivando. I suoi fratelli mi hanno detto che l’ha fatto con la graffiante ironia con cui era solito affrontare le sfide più difficili dell’esistenza e che era il tratto del suo carattere che per primo si imponeva all’attenzione di chi lo avvicinava, e che ha affrontato quest’ultima prova con quella stessa serenità, la quale dava alla sua vita di ragazzo quell’alone di solarità che lo circondava, e che nel corso degli anni aveva dolorosamente rischiato di smarrire.Francesco era approdato al mondo del cinema a metà degli anni settanta, dando corpo a una sua giovanile passione, il cui peso nella sua esistenza non avevo mai sospettato pur avendo avuto con lui tra il 1968 e il 1972 una consuetudine pressoché quotidiana. È stato tra i registi italiani di valore - dal suo primo film Grog fino all’ultimo Signora - quello che più di altri ha anticipato temi e tendenze, con un acume e una genialità d’eccezione, ma anche quello artisticamente meno risolto. Come del resto risolta non è stata la sua stessa esistenza. “Francesco era ‘troppo’ in tutto”, ha detto nella serata a lui dedicata a Mola di Bari a luglio di quest’anno Silvia Napolitano - insieme a cui Francesco iniziò l’avventura del cinema in quegli ormai lontani anni settanta - cercando di dare una spiegazione alle ragioni per le quali si è come perduto nella vita come nell’arte.I giornali, nei giorni della sua morte, hanno diffusamente reso conto di questo suo singolare percorso di artista del cinema ma nessuno (se si fa eccezione per un bellissimo articolo di Rosanna Lampugnani sull’edizione pugliese del Corriere del Mezzogiorno) ha fatto un cenno sia pur fugace alla “precedente” vita di Francesco Laudadio, interamente spesa nella politica e per la sinistra.Per me questa è stata una percezione dolorosissima, come se una parte stessa della mia vita fosse stata rimossa e occultata. Forse anche perché in quegli anni eravamo vicinissimi. Diversi in tutto e comunque affini, fino al punto che (come può capire chi può apprezzare i riferimenti autobiografici del racconto che pubblichiamo) sono state tante le volte che io avrei voluto essere come lui e viceversa.Mentre all’università si era formato un gruppo dirigente i cui componenti erano sostanzialmente alla pari, Francesco è stato nel ‘68 barese il leader unico e indiscusso degli studenti medi. Migliaia di giovani lo amavano e lo avrebbero seguito in ogni impresa. Attraverso la guida di Francesco, prima come dirigente della Fgci e poi come capo del Comitato

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Cantimperialista antifascista, un’intera generazione di una città mercantile e di destra, che rispettava ma non amava e soprattutto non capiva neppure Aldo Moro, si spostò a sinistra. Qualcosa di profondo cambiava nella sinistra pugliese, da sempre radicata nelle campagne e quasi accampata in città, come chiusa in postazioni minoritarie. Che l’esperienza di cui Francesco era alla guida avrebbe contribuito a cambiare lo spirito pubblico di Bari lo sottolineò in un articolo apparso in quegli anni sul Contemporaneo, supplemento di Rinascita, Franco De Felice, esponente di quell’ “école barisienne” che Francesco diversamente da me non amava, perché non ne apprezzava a suo dire la vocazione tendenzialmente elitaria.E infatti quello che ci aveva fatti “riconoscere”, a me e a Francesco, era il fatto che per ambedue stare a sinistra, prima che aderire al comunismo (che pure è stato la bussola della nostra vita), era stata la scelta di una classe, quella dei lavoratori, diversa da quella da cui ambedue venivamo. Io più curioso della classe operaia di fabbrica, Francesco emotivamente legato al mondo bracciantile della sua Puglia. Comunque insieme ai lavoratori. La nostra fu un’amicizia, oltre che un sodalizio politico, che si cementò più che nelle lotte studentesche nelle notti passate al fumo dei copertoni bruciati nei picchetti bracciantili di Ruvo e Corato, nelle albe trascorse al mercato delle braccia di Canosa presi di mira dalle minacce dei caporali che reclutavano i braccianti per il lavoro, davanti e dentro le fabbriche occupate. Tenere insieme del movimento operaio tradizione e innovazione: questo era il nostro assillo. E non a caso, ognuno per suo conto, Francesco e io fummo poi appassionatamente berlingueriani.Con tutto ciò e con la scelta del funzionariato, fatta una volta rientrato nel Pci, a un certo punto, alla metà degli anni settanta, Francesco ruppe di netto e iniziò la sua lunga avventura nel mondo del cinema. Ritorno alla Comune, testamento sentimentale e esercitazione letteraria di un giovane di non più di 27 anni, è la testimonianza di come anche sul piano dei rapporti interpersonali niente poteva più essere come prima.Confesso che non capii quella scelta, come negli anni successivi non ne capii altre in un certo senso simili alla sua. Non capii, ma non mi interrogai più di tanto, forse per sottrarmi a quella resa dei conti che Francesco, per il rigore morale che lo contraddistingueva, non aveva risparmiato a se stesso.Per me la morte di Francesco ha significato cominciare a pensare che quel libro dei conti sia il caso di riaprirlo. Si tratta di iniziare a fare un bilancio dell’eredità del ‘68 e della generazione che ne è stata protagonista, di scavare a fondo sulle contraddizioni di un movimento mondiale che, nei processi oggettivi e di fondo che lo alimentavano, anticipava la fine del Novecento e dei suoi paradigmi, ma che la stessa generazione che ne era protagonista si è affrettata a sistemare entro le categorie di una sinistra di cui

si avvicinava il declino. Trotskismo, marxismo-leninismo, operaismo, spontaneismo, anarchismo furono le figure dell’ideologia a cui la nostra generazione seppe ricorrere, ricavandole tutte dal passato glorioso del movimento operaio, qualche volta nell’illusione che riesumare dei filoni che erano stati sconfitti avrebbe potuto costituire una soluzione nuova per il futuro. La verità è che non riuscimmo a dare una risposta originale alla rottura storica che il ‘68 rappresentava rispetto al Novecento, cioè di un processo di liberazione radicale della condizione umana in cui fosse rovesciato, a vantaggio dei primi, il rapporto tra individuo e masse, tra libertà e uguaglianza. E non è un caso che anche coloro che guardavano alle novità che sembravano presentarsi all’orizzonte preferirono a Marcuse e alla sua “filosofia della liberazione” la “rivoluzione culturale” e Mao.Questa contraddizione irrisolta, non avendo avuto una compiuta elaborazione sul piano critico e razionale, per molti di noi si rovesciò senza freni e senza filtri nel “vissuto”. Così fu per Francesco. Così fu anche per tante storie lontanissime dalla sua, che furono travolte dalla spirale del terrorismo. C’è chi si sottrasse, senza misurarsi fino in fondo, trovando riparo nelle professioni e anche nella politica.Comunque l’immagine di Francesco che voglio portare con me è quella di quando l’ho visto e ascoltato per la prima volta. Era il 7 novembre del 1967, cinquantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Nel teatro Piccinni di Bari gremito di gente appare sul palco un ragazzo biondo dalle cui parole emana un magnetismo che afferra e sa dare corpo alla speranza di un mondo nuovo. Per noi l’Ottobre a cinquant’anni di distanza (si pensi: solo un decennio in più dal tempo che oggi ci separa da quegli anni) era parte integrante del nostro tempo storico, lo spartiacque di un’epoca che sentivamo nostra. Ma quelli erano anche i giorni in cui ci affannavamo a negare contro ogni evidenza che quell’immagine di “Cristo deposto” che tutti i giornali del mondo pubblicavano in bella vista non fosse il Che ucciso in Bolivia, e con quell’insensato diniego forse non volevamo vedere che quello era il segnale che un’epoca della rivoluzione mondiale si stava chiudendo invece che aprendo.Ma quella apparizione di Francesco resta per me come un’icona che mi porto dentro, capace di spingermi a ripensare le contraddizioni della mia generazione, la cui linea di condotta - se si scava a fondo - resta comunque ispirata a un insopprimibile sentimento di libertà per tutte e per tutti. E se un’eredità vogliamo lasciare alle generazioni che verranno, di quella esperienza bisogna ricostruire il senso. Finché ce n’è concesso il tempo.

Piero Di Siena

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La comune visse per circa due anni, al termine dei quali si sciolse. I motivi furono essenzialmente politici: si era creata una frattura nel gruppo, ed io ero rimasto

isolato, la convivenza si era rivelata impossibile, e la stessa so-pravvivenza della comune era resa difficile da una serie di pro-vocazioni di fascisti e polizia che avevano preso di mira quel “covo”, additato all’opinione pubblica come focolaio d’immo-ralità e sedizione, e che anche per il movimento aveva assun-to caratteristiche di eccessivo accentramento di militanti e di lavoro. Dovemmo dunque dividerci, e divisione fu, oltre che politica, umana. Avevo deciso di rientrare nel Partito, e l’ultima riunione del collettivo fu quindi una sola lunga requisitoria contro le mie scelte. Com’era naturale, essa fu condotta prin-cipalmente da Andrea, l’unico che mi fosse pari per posizione e responsabilità nell’organizzazione, e fece sforzi inauditi per nascondere la delusione personale, l’autentico dolore per la mia decisione. Al termine, mi trovai isolato; prendendone atto, feci uno stupido tentativo di distinguere tra rapporti umani e rapporti politici, ma Andrea, usando una frase che io stesso avevo pronunciato in altra occasione contro altri compagni, respinse ogni forma di “sentimentalismo”. Così ci lasciammo: dopo alcuni mesi mi trasferii a Roma.

Al telefono, Andrea mi chiese di raggiungerlo in Federazione: avrebbe avuto da fare ancora un po’, ma si sarebbe senz’altro libe-rato per trascorrere insieme la serata. Arrivai al Partito verso le 19, Andrea mi aspettava nel suo ufficio: ci salutammo brevemente ma l’incontro, che ad altri sarebbe potuto apparire del tutto fred-do e compassato, fu in realtà dominato da una felicità ilare e con-tenuta. Come mi aspettavo, Andrea non mi fece alcuna domanda sul mio lavoro, che normalmente tante curiosità solleva tra i miei vecchi conoscenti, né io mi informai sul suo rientro nel Partito. Aveva da finire di stendere alcune note per la Sezione d’organiz-zazione, poca cosa, e mi pregò di attenderlo per andare a cenare insieme a casa sua: Valeria mi aspettava, aggiunse con sorridente autorevolezza, e questo troncò il mio accenno all’aereo delle 21; mi avrebbe accompagnato lui al treno di mezzanotte.

Preferii attenderlo fuori dalla sua stanza, approfittando di quei pochi minuti per salutare alcuni compagni dell’apparato che avevo conosciuto durante la mia permanenza a ***. Quan-do non vi sono assemblee e riunioni allargate, le serate nelle Federazioni trascorrono in silenzio, sonnacchiose, e sembra che i “palazzi” si riposino dell’attività frenetica che caratteriz-za le mattinate, quando sono popolati di decine e decine di quadri che nel pomeriggio si sparpagliano nella rete dell’or-ganizzazione. Così restai a chiacchierare con un gruppetto di compagni finché Andrea non si affacciò nella stanza dov’era-vamo riuniti.

Andando in macchina a casa sua, facemmo tappa in due sezioni dove Andrea doveva verificare lo stato di preparazio-ne di un’iniziativa che interessava una zona della città. Rimasi colpito dal rapporto che legava Andrea ai compagni e in par-ticolare ai gruppi dirigenti sezionali, che esprimevano nei suoi confronti quell’affetto raro e tutto particolare che si nutre, nei partiti proletari, per quei quadri che alle capacità politi-che uniscono un’attenzione, una partecipazione autentica ai problemi anche i più minuti delle masse, delle organizzazioni periferiche, dei singoli compagni. Nonostante la sua origine grande borghese, Andrea possedeva questa dote, che è innata e tipica della specifica formazione di un quadro, e i compagni lo amavano.

Rientrando in automobile Andrea mi annunziò sorridendo una “sorpresa”, e infatti restai abbastanza sconcertato quando posteggiò davanti all’ingresso del complesso di case popolari in cui “alloggiava” la nostra comune. Mi spiegò, mentre era-vamo nel cortile del caseggiato e salivamo per le scale della palazzina, che da quando si era sposato era tornato ad abitare nell’appartamento della comune, che dopo aver conosciuto per un certo periodo nuovi inquilini, era rimasto sfitto.

Sulla soglia ci accolse Valeria, e si ripetette l’esitante im-barazzo di poco prima con Andrea, l’incertezza cioè tra l’ab-braccio e la stretta di mano, e fu Valeria a tendermi la sua con decisione, ponendo fine all’esitazione. La casa era completa-

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mente trasformata, ma non nel senso di aver acquistato la di-mensione spesso deprimente della “giovane coppia”, oppres-sa dall’iniqua tradizione del salotto, soggiorno-pranzo, camera da letto, cucina. Certo, essa aveva perso la caratteristica di piccolo collegio che aveva avuto nel periodo della comune ed erano scomparse le differenze tra le varie stanze, che riflette-vano nella disposizione di letto - scrittoio - armadio - libreria e nella scelta dei manifesti le disposizioni personali e politiche di ciascuno. Predominava ora un carattere unitario, ma fatto di una sobrietà nuda ed essenziale: dal ‘68 si sono formate migliaia di giovani coppie che hanno case come questa, che costituiscono la testimonianza di un modello di vita nuovo di una larga fetta di giovani generazioni di intellettuali, che alla dimensione quotidiana lavoro-famiglia hanno sostituito una dimensione aperta, sociale, profondamente legata alla mili-tanza politica attiva in tutte le sue forme. Le loro abitazioni riflettono questo cambiamento: non più involucro di monadi, di microcosmi separati, esse sono divenute un servizio, un’in-frastruttura aperta e provvisoria.

A tavola e dopocena parlammo del mio lavoro e di quello di Andrea e di Valeria. Erano rientrati nel Partito insieme, due anni dopo la nostra rottura;

Andrea era ben presto diventato funzionario, Valeria svolgeva invece la sua principale attività al Sindacato scuola. Degli altri “comunardi”, Sergio, assistente all’università, era rientrato an-ch’egli nel Partito, mentre Ludovico aveva sempre più estre-mizzato le sue posizioni e viveva autocondannandosi, con rigorosa inflessibilità, ad un isolamento totale, lontano dagli stessi aderenti del suo gruppetto, in generale più giovani di lui. Andrea si soffermò a parlare di Ludovico, e nelle sue parole c’era la consapevolezza dolorosa del dirigente che esamina una sconfitta, e che guarda ai militanti con occhio autocritico, e si chiede se si sia fatto tutto il possibile e di più, per conqui-starli all’organizzazione. Dell’ultimo, Sandro, avevo già saputo: si era ucciso poche settimane dopo lo scioglimento della co-mune, da cui era stato il primo ad andarsene, condannato dal

nostro atteggiamento dispotico e ingiustamente crudele. Ne-gli ultimi mesi della nostra convivenza, Sandro aveva deciso di non celare più la sua omosessualità: era, dei comunardi, il più entusiasta e orgoglioso di quel nuovo umanesimo che il nostro collettivo a suo parere stava edificando, ed ebbe fiducia in ciò che di nuovo e rivoluzionario la nostra esperienza costituiva per introdurvi la sua personale lotta di liberazione. La sua fiducia fu mal riposta: al suo discorso reagimmo con una chiu-sura netta e senza scampi, reprimendolo con quel moralismo atroce che è tipico della milizia giovanile e in generale delle deviazioni infantili del leninismo. Ma quel che è peggio, accanto all’incomprensione politica, Sandro dovette affrontare un’im-provvisa e sconosciuta freddezza nei rapporti umani tra noi e lui. Ancora adesso io non riesco a vincere una sensazione di irreprimibile ripugnanza quando mi trovo a frequentare degli omosessuali; è una sensazione istintiva e del tutto irrazionale, ma mi mette talmente a disagio che preferisco rinunciare a rapporti umani importanti e preziosi piuttosto che dovermi trovare in questa situazione. Questo atteggiamento, in parte condiviso dagli altri, suonò come condanna per Sandro, che vi si ribellò con la disperazione dell’animale ferito. Preferì an-dare via, piuttosto che conoscerci sotto le vesti di accusatori estranei e nemici, ma quella delusione, il nostro tradimento, fu per lui una mazzata atroce: nel febbraio del ‘70 si uccise, senza clamorosi messaggi e post-scripta, con la discrezione amara di chi non riesce a disprezzare chi lo umilia.

Dalla comune e dal collettivo che l’animava, Andrea por-tò il discorso su altre cose, la situazione politica, le modifi-cazioni sociali avvenute a *** negli ultimi anni, e a sua volta mi faceva delle domande su Roma: era curioso di conoscere l’orientamento e l’evoluzione di alcuni intellettuali e la loro attuale collocazione, il mio parere sulla loro produzione. Era sottintesa a queste domande un’inespressa curiosità per la mia attività, e perciò ne parlai a lungo, senza tacere nulla sui miei dubbi circa l’effettiva utilità del lavoro che svolgo come sceneggiatore cinematografico.

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CSi era intanto fatto molto tardi, e dovevo assolutamente

accomiatarmi per poter prendere il treno di mezzanotte; ma Andrea e Valeria insistettero con gentile fermezza perché mi fermassi: mi avevano già preparato il letto e mi avrebbero ac-compagnato loro al mattino all’aeroporto per il volo delle 8. A condizione che rinunciassero ad accompagnarmi, permetten-domi di prendere un taxi, accettai volentieri di restare, confor-tato dall’idea di non dover viaggiare in treno di notte, ciò che francamente detesto.

Restammo così a conversare ancora un po’, parlando sottovoce per non svegliare il bambino che riposava nella stanza attigua. Valeria andò quasi subito a dor-

mire (alle sei doveva dare il latte al figlio), e verso l’una, stan-chi entrambi, anche Andrea ed io ci ritirammo. Mi avevano preparato il letto nella stanza che Andrea usava come studio, piena di libri e di pile di giornali; mi ricordai che nel sorteggio per l’assegnazione delle camere tra i membri del collettivo, mi era capitata proprio quella, e mi divertì l’idea di dormire nella stanza dove avevo abitato per quasi due anni.

Anche quella notte ebbi difficoltà a prendere sonno, no-nostante la stanchezza: soprattutto pensavo ad Andrea, alla sicurezza e alla straordinaria umanità che aveva acquistato in quegli anni di esperienze diverse e complesse, alla stabilità che era riuscito a dare alla dimensione totalmente politica della sua esistenza. Ma in tutto questo Andrea aveva semplicemente assecondato un’attitudine chiara, esplicita sin dai suoi primi anni d’impegno; totalmente mutata era invece Valeria. Nel mo-vimento, almeno ai suoi esordi, quando l’avevo conosciuta, le ragazze raramente svolgevano un ruolo autonomo, e ancor più raramente tale ruolo veniva loro riconosciuto. In questo Valeria costituiva un’eccezione: non era la ragazza “di” questo, la donna “di” quell’altro, ma un militante cui si potevano affida-re compiti importanti al pari di qualsiasi altro. Sostanzialmente timida e inizialmente ribelle a ogni forma di disciplina, non si trovò mai a ricoprire incarichi dirigenti, almeno nei primi tempi, ma era una componente fissa delle riunioni del grup-po dirigente, il cui nucleo era costituito essenzialmente dal nostro collettivo. Fu questa la prima ragione ad avvicinarla a noi, e per qualche tempo fu la nostra donna, nel senso che fu il nostro solo amico donna, del tutto diversa dalle ragazze con cui alcuni di noi allora stavano. Queste rientravano nella sfera del privato, lei in quella del collettivo. Era una condizione di particolare privilegio, che la rendeva destinataria delle atten-zioni di tutti, e che durò alcuni mesi, finchè lentamente Valeria prese a frequentare me con maggiore assiduità, e ci mettem-mo insieme. Fu questo uno dei momenti in cui avvertii per la prima volta la fragilità del nostro gruppo; credo che fossimo tutti ugualmente innamorati di lei, e gli altri silenziosamente mi rimproveravano di non aver tenuto fede al tacito impegno comune, per cui nulla doveva essere fatto per turbare la con-dizione di Valeria quale amica di tutti equamente. E in realtà io mi ero comportato in perfetta malafede, ignorandola volu-tamente, sottraendomi alla comune attenzione nei suoi con-fronti, e contando su questo, e sulla naturale insoddisfazione del rapporto che aveva con noi, e sul desiderio di creare un

rapporto individuale, che fosse anche sessuale e sentimentale, oltre che “di dibattito ideale”. Ciò che mi sorprese in segui-to fu di scoprire che, oltre agli altri, anche Valeria era stata perfettamente consapevole del mio calcolo, e ad esso aveva coscientemente aderito, attratta dalla sostanziale freddezza, che mi ha sempre caratterizzato, verso gli aspetti moral-com-portamentali della milizia politica.

Il nostro era stato un rapporto del tutto libero; né d’altron-de poteva essere altrimenti, chè io non ho mai sopportato qualsiasi forma di legame stabile, con regole e obblighi conse-guenti, e Valeria era talmente riottosa al vincolo dello “stare insieme” che, pur volendo sarebbe stato ridicolo tentare di imporle quei comportamenti che invece caratterizzavano le altre “coppie”: così mai io e lei ci siamo fatti vedere abbrac-ciati, o mano nella mano, né lo facevamo quando eravamo soli, se non per giocare a “fare come i fidanzati”, con tutta l’irrisio-ne che questo comportava, per riderne insieme. Si trattava in realtà di un esasperato pudore dei propri sentimenti, comu-ne a entrambi, dove si mischiavano elementi di immaturità e di morbosa autoironia, e che usavamo come unica arma per nascondere all’altro e a ciascuno di noi che ci eravamo inna-morati, ostentando invece un’indifferenza a volte francamente patetica. Di quale profonda libertà fosse dotata Valeria, si ebbe però prova all’atto della scissione del collettivo; così come avevo fatto con gli altri, mi limitai ad esporle le ragioni del-la mia scelta, con quel distacco voluto che stava a significare che a lei mi rivolgevo come ad una compagna, e non come alla mia compagna. E lei, senza acrimonia, ridendo anzi della cattiveria con cui replicavo alle compunte argomentazioni dei miei “avversari”, parteggiando intellettualmente per me, mi fu ostinatamente contro, ma con tale eleganza e buon gusto da non costituire neanche l’altra faccia della medaglia di una tradizione che anche nel movimento studentesco voleva le donne pedisseque e bigotte seguaci delle più complicate evo-luzioni politiche dei loro compagni (l’altra faccia della medaglia era costituita da quelle che, accompagnandosi senza legame di causalità la rottura politica a quella sentimentale, dei loro ex divenivano nemiche acrimoniose e sgraziate).

Adesso Valeria era cambiata, innanzitutto fisicamente: non era mai stata particolarmente bella, e anzi era stata sempre contraddistinta da un che di buffo, che

le derivava dalla sua andatura, che assomigliava a quella di una puledra che non riesce ancora a controllare perfettamente le gambe. Mi accorgevo che in quegli anni si era trasformata, proprio come quelle donne lombarde che, sciape in gioventù, diventano belle col passar degli anni, e nel pieno della maturità, fra i trenta e i quaranta, divengono bellissime. Valeria si avviava a diventarlo, e a questo si accompagnava una modificazione profonda nel carattere, che era ora visibilmente quello di una donna, pieno di tesori segreti e preziosi. Era evidente che in questo aveva avuto il suo ruolo la personalità di Andrea, che, innamorato di lei praticamente da sempre, più che inseguirla, l’aveva attesa con ostinazione paziente e tenace. Per un atti-mo provai nei suoi confronti una sorda gelosia, come di chi si rende conto che altri ha saputo far fruttare ciò che a te era

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Csembrato inservibile, ma presto mi accorsi che il motivo era un altro. Non ho mai desiderato di “mettere su fami-glia” e non era certo sotto questo aspetto che invidiavo la condizione di Andrea, la cui caratteristica principale, invece, o almeno ciò che più mi colpiva, era che Andrea aveva mes-so radici, si era radicato nella città, nella sua attività, in un modo diametralmente opposto, ma non per questo meno solido, di come avveniva un tempo, in questa stessa città, per le famiglie dei mercanti o dei proletari, ma che non è mai stato possibile per chi non svolgeva attività produttiva, o ad essa non era in qualche modo legato. In questo Andrea aveva annullato quella instabilità, quella mancanza di radici, che è tipica della condizione intellettuale, e che costituisce ad esempio il mio maggior cruccio, il limite invalicabile della mia condizione.

Valeria mi svegliò alle sei e mezzo, e mentre mi lavavo, pre-parò il caffè e svegliò Andrea, che ci raggiunse in cucina. Per

un po’ restammo in silenzio, c’era nella stanza come un’aria di imbarazzo, e mi pentii di non essere partito la notte prece-dente. Andrea mi guardava sorridendo, e avevo la spiacevole impressione che mi leggesse dentro, che sorprendesse i miei pensieri, la mia vaga invidia nei suoi confronti; per un attimo pensai che ci fosse un’intesa tra lui e Valeria, che mi avessero invitato proprio perché potessi misurare la superiorità della loro condizione di provincia rispetto alla mia, ma era un pen-siero sciocco che mi irritò ancor più.

La citofonata del tassista giunse a rompere l’imbarazzo. Ora, nella fretta dei saluti, pareva che vi fossero molte cose da dirsi, e abbracciando Valeria mi riprese l’emozione del giorno prima, non più ilare però, ma melanconica, struggente.

Fuori le strade erano già piene di gente che si recava al lavoro, e la città aveva ripreso l’aspetto consueto delle prime ore del mattino. C’era già traffico sulla circonvallazione, e dovemmo per-dere molto tempo per un incidente occorso poco prima.

Pasolini e quella “differenza” che spaventa ancoraMaestro controverso e affascinante Pier Paolo Pasolini moriva crudelmente assassinato trent’anni fa. Ma quella dell’intellet-tuale friulano non fu una morte accidentale. Non si trattò dell’epilogo violento di un adescamento mal riuscito. Le ultime rivelazioni di “Pino la rana” squarciano l’apparato accusatorio e riaprono di fatto il caso: Pasolini è stato deliberatamente assassinato.Il dramma consumato da questa tragica e oscura vicenda umana e giudiziaria non si riassume solo nella inconsistenza della trama accusatoria quanto, piuttosto, nella trasfigurazione operata con l’obiettivo di cristallizzare nella memoria collettiva l’immagine di un uomo violento e perverso.Nel 1975 eravamo appena adolescenti, noi, nati nei primi anni sessanta, quelli del boom economico e della “guerra fredda”, per intenderci. Ma la voce di Pasolini entrò a far parte della nostra vita molto presto per non lasciarci, evidentemente, mai più. Penso di poter sostenere che la nostra sia la generazione orfana di Pasolini, orfana di intellettuali capaci di offrire chiavi di lettura profonde del presente, di sorprendere, di trasmettere inquietudine e curiosità, “volontà di sapere”. L’omologazione culturale del nostro tempo ha riflessi ovunque, nei poteri disciplinari che investono la società, la sfera della religione e della politica.Pochi giorni or sono l’Organo culturale delle Nazioni Unite ha approvato un trattato internazionale per proteggere la diversità culturale, dopo più di tre anni di dibattito e con 148 voti a favore e due contrari (Stati Uniti e Israele). La necessità di sancire con un trattato questi diritti, e quella dell’Unesco resta una grande vittoria morale, dimostra però che la capacità di dialogo in materia di diversità sia tutt’altro che acquisita. Il diverso da sé, in tutte le molteplici sfumature che questa espressione può assumere (religione, razza, sesso...) fa paura.

E nonostante le infelici esternazioni dei nostri rappresentanti istituzionali di destra, la sinistra non è immune. Per fare un esempio che ci tocca molto da vicino mi piace ricordare che il Consiglio Regionale della Basilicata ha sospeso i lavori di redazione del testo dello Statuto Regionale, nella scorsa legislatura, perché non sembrò opportuno, ai consiglieri di maggioranza, che si facesse specifico riferimento al rispetto delle diversità. Così il governo di centro-sinistra liquidò la questione con una “democratica” pratica di sospensione del giudizio, l’astensione. Votarono a favore solo il consigliere proponente ed altri due membri. Viene spontaneo chiedersi, allora, ma chi ci rappresenta? Nel fossato che si ingigantisce giorno dopo giorno fra politica e società civile si vive una situazione paradossale: il livello culturale, la capacità di dialogo e comprensione dei problemi dei nostri interlocutori politici sono sovente assolutamente inadeguati. A chi stiamo affidando il nostro futuro, a chi lo affidano i giovani di questa regione che hanno solo voglia di fuggire e non perché “non sanno quello che vogliono” ma perché percepiscono che nessuno li ascolta e che nessuno gli riconosce meriti per ciò che sanno fare ma solo per “altro”? A chi lo affidano le donne che hanno un livello di alfabetizzazione e competenze sempre più alto ma, viceversa, sono in numero sempre minore nelle nostre istituzioni?Rispetto delle diversità significa capacità di dialogo, voglia di crescere nel rispetto della cultura e delle scelte degli altri, parità di diritti e dignità fra donne e uomini e fra persone di razza e religione diverse.Per chiudere, una domanda alla quale ci attendiamo risposte significative: il rifiuto di una società eterodossa può ritenersi un’idea di sinistra?

Palma Fuccella

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C“Private” di Saverio CostanzoNICOLA ERRICO

GERTTrilogia di MarsigliaJan Claude Izzo, Edizioni E/O

Rimane un enigma individuare gli elementi che fanno di un lungometraggio un’opera da oscar. Chiariamo subito che “Private” è da considerarsi un film italiano, per la produzione, per il regista, per gli sceneggiatori e per tutto quello che concerne la sua realizzazione. “Private”, tra le altre cose, è anche un bel film, è questo solitamente non guasta. Qualcuno potrà affermare che gli attori sono palestinesi e israeliani, verissimo. Qualcuno potrà affermare che la storia riguarda il loro eterno conflitto nei territori occupati, anche questo vero. Questo qualcuno però, sicuramente non si rende conto che il mondo che ci circonda è cambiato. Subito dopo la guerra, Carlo Lizzani, uno dei padri del nostro cinema, affermava come la necessità di fare film “italiani”, che raccontassero cose nostre, del nostro paese, fosse un’esigenza intima dei nostri registi. Mesi dopo nacque il Neorealismo. Questa affermazione rimane legittima solo se contestualizzata in un preciso

momento storico: il dopoguerra. Oggi il mondo e le persone sono completamente diversi. Il conflitto israeliano-palestinese è qualcosa che riguarda tutti noi, e a ricordarcelo ci sono le torri che cadono o le metropolitane che saltano, senza contare le migliaia di vittime che colorano di rosso le nobili terre d’oriente. Il cinema, come catalizzatore di immagini e di emozioni, non può isolarsi in ambienti provinciali (nel senso dispregiativo del termine), facendo finta che quello che succede non lo riguardi. Hollywood e l’Accademy, non avendo accettato “Private” come film italiano in concorso, continuano a dimostrare la radicale lontananza dal modo reale, premiando opere belle solo se inevitabile. “Private” probabilmente non è un film da oscar. I dialoghi non proprio perfetti e una buona dose di luoghi comuni, fanno da contraltare ad una buonissima fotografia e ad un coraggioso utilizzo della macchina a spalla e del replay. Il film ad ogni modo rimane bello, soprattutto

se consideriamo che è un opera prima .Saverio Costanzo, figlio di Maurizio, colui che inguaiò la televisione italiana, parafrasando Ciprì e Maresco, dimostra una sensibilità rara, capace di percepire situazioni e ambienti tanto lontani da noi. Il cinema cambia in funzione di ciò che ci circonda. Arabi, israeliani, americani, europei; facciamo tutti parte di un unico grande contesto sociale, bello nelle sue svariate sfaccettature e nelle sue diversità. Pier Paolo Pasolini, in una delle sue ultime interviste rilasciate alla RAI affermava come “la globalizzazione, intesa come omologazione totale, non darà, alle generazioni future, la possibilità di percepire in pieno le proprie radici e la propria storia, non darà la possibilità di essere uomini in maniera diversa”. Ben vengano questi film, poiché ci rendono partecipi di ciò che molte volte ci sforziamo di non capire.

La triologia di Marsiglia si compone di tre romanzi organizzati in successione temporale ( Casino Totale, Chourmo, Solea), e acquistabili anche separatamente, ambientati a Marsiglia con un comune protagonista, Fabio Montale. Marsiglia è ben più di una location , è il vero protagonista dei tre romanzi , inscrivibili al genere noir ma che vanno ben oltre la letteratura di genere; con la libertà che ci si può permettere scrivendo di “fantasia” intercettano i cambiamenti sociali degli anni novanta, le trasformazioni, i nuovi modelli di immigrazione, la globalizzazione , i rapporti tra politica e malaffare meglio di tanti saggi di sociologia e di politica. La forma del romanzo di genere è da questo punto di vista , probabilmente, la nuova letteratura sociale del terzo millennio ( basti pensare a Manchette, Landsdale e perché no a Lucarelli e De Cataldo). Il romanzo di genere racconta e spiega, senza per questo dover necessariamente dar conto delle “prove”, utilizzando quel meraviglioso meccanismo inventato da Platone nei suoi dialoghi che è il ricorso alla metafora,

al recìte per andare oltre e superare i limiti della logica , riannodando infiniti sentieri altrimenti destinati a rimanere interrotti. Izzo in questo è straordinario, una vera scoperta. Il mondo di questo straordinario scrittore, morto cinque anni fa, è apparentemente circoscritto e addirittura claustrofobico, legato a Marsiglia , il suo porto, le sue strade. Un microcosmo che racchiude un macrocosmo , un Bonzai della globalizzazione dei suoi meccanismi umani , sociali, economici. Un mondo fatto di colori, di profumi mediterranei, di musica , cucina , vino e nello stesso tempo di una disperata durezza, con continui tentativi da parte del suo principale protagonista, Fabio Montale ex poliziotto deluso, di opporsi a questa durezza,di dare un senso alla vita, a mani nude, in perfetta solitudine ma senza atteggiamenti machisti o da super eroe. Fabio Montale è un antieroe malinconico e solitario, quasi costretto ad occuparsi degli altri ma con una vena di convinto senso della giustizia che lo porta a trovarsi al centro di vicende più grandi di lui che vanno dalla diffusione dell’integralismo

islamico tra gli immigrati arabi di seconda e terza generazione, ai conflitti razziali, alle multinazionali della malavita che fanno affari miliardari con gli appalti edilizi in collusione con i poteri politici e con quelli economici con continui rimandi a fatti di cronaca reale (c’è anche un riferimento alla stagione di mani pulite in Italia). Una scrittura, infine, densa e mai ovvia impregnata dei sapori e dei colori del mediterraneo, che si nutre delle atmosfere di bar fumosi e malinconici dove razze, culture e generazioni si incontrano bevendo vino e pastis ascoltando musica , da Brel a Coltrane passando per l’Hip Hop e Gianmaria Testa, in una lenta deriva esistenziale, senza troppe illusioni per il futuro. P.S. Per chi volesse saperne di più e mastica un po’ di francese www.jeanclaude-izzo.com.

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SudPosizioni“Private” di Saverio Costanzo

Vi sono accadimenti che hanno una straordinaria capacità di svelare, anzi, di “svergogna-

re”. In ottobre si sono verificati due fatti che colpiscono per la loro forza simboli-ca: il voto della Camera dei Deputati sul-la cosiddetta devoluzione e l’assassinio del vicepresidente del Consiglio Regio-nale della Calabria Fortugno. Le sfide e i rischi, prodotti dall’impreparato passag-gio del Mezzogiorno dal rapporto con lo Stato nazionale a quello col mondo, sono squadernati come un presagio.

Provo a svolgere la metafora ricorren-do ad una fra le più feconde categorie storico-politiche, il meridionalismo ap-punto, che aiuta ad interpretare e a rico-struire una funzione nazionale del Mez-zogiorno d’Italia in un nuovo orizzonte, europeo e mediterraneo insieme. Su que-sta nozione di meridionalismo vi è una diffusa concordanza tra tutti coloro che sono intervenuti nel dibattito sulla “que-stione meridionale” che si sta svolgendo sulle pagine di Decanter.

Il Mezzogiorno sta facendo i conti con processi che vengono dalla storia e

dal mondo. Sono mutati tutti i termini della questione meridionale. La globa-lizzazione ha cambiato la qualità delle contraddizioni, il loro oggetto: non sol-tanto dipendenze, dualismi, divari, ma separazioni, vere e proprie fratture. E se si guarda al rapporto tra il Nord e il Sud del mondo le separazioni si fanno abissi. Ci sono dati che danno una rappresen-tazione sconvolgente di tutto ciò. Negli ultimi 20 anni la ricchezza in Europa è cresciuta dal 50 al 70% e però vi sono 50 milioni di poveri, 20 milioni di disoccu-pati e 5 milioni di senzatetto. In America il 96% dell’incremento della ricchezza è andata al 10% della popolazione, mentre in Germania sempre nello stesso perio-do la ricchezza delle imprese è cresciuta del 90% e i salari solo del 6. In Italia, secondo l’economista Geminello Alvi, la quota di Pil destinata ai salari, pari al 56,4% nel 1980, scende intorno al 2000 al 40,1% (una picchiata stimata in cifra assoluta, oltre 300.000 miliardi di lire). Di contro la quota delle rendite e dei profitti sale dal 43,6% al 59,9%.

Gli ultimi rapporti ISTAT e molte in-

dagini regionali, comprese quelle sulla Basilicata, documentano l’allarmante “marcia” verso la povertà che è in atto (in Basilicata, su una popolazione di poco più di 600.000 abitanti, ben 150.000 persone, componenti di famiglie povere, debbono vivere con 220 euro al mese). Sono gli esiti di decenni del “keynesi-smo delinquenziale” e di una “program-mazione” senza programmi, insomma di quel particolare riformismo “all’italia-na” e “gestionale”che ha caratterizzato la storia repubblicana del paese, e del Mezzogiorno in particolare.

D’altronde, la qualità nuova delle contraddizioni e il grado di logoramento cui il liberismo ha portato la democrazia hanno determinato una profonda crisi non solo di questo riformismo, ma del riformismo in generale. Infatti, se l’idea originaria del riformismo si fondava sul presupposto che lo sviluppo della demo-crazia avrebbe messo in crisi il capita-lismo, per ora è accaduto esattamente il contrario. Per un altro verso si è rot-to quel rapporto virtuoso tra sviluppo e avanzamento civile che durava da secoli.

Dal Mezzogiorno una nuova dimensione dei beni comuni

GIACOMO SCHETTINI

L’assassinio di Fortugno in Calabria e il voto della Camera dei Deputati sulla devolutiondisegnano la cornice di un Sud separato e imbarbarito dal dominio delle mafie. Il meridiona-lismo degli ultimi venti anni ha galleggiato nel vuoto provocato dalla crisi del vecchio rifor-mismo e dalla mancata crescita della nuova politica

Esiste ancora una questione meridionale?

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s u d p o s i z i o n i

SSi è prodotta una nuova contraddizione tra quantità della produzione e qualità delle relazioni tra uomo e natura, tra le persone, tra il cittadino e il potere. In-somma, il bisogno di politiche alternati-ve trae ragione, vorrei dire “necessità”, non da opzioni ideologiche, ma dai pro-cessi strutturali. Questo, a me pare, è lo sfondo cui bisogna riferire il cosiddetto “possibile” - cioè di una forma dell’agi-re politico che si muova tenendo conto delle cose che realisticamente si possono fare - che tuttavia, almeno a sinistra, non può essere inteso come resa all’esistente, ma come tensione verso l’utopia.

Il meridionalismo degli ultimi due decenni ha galleggiato nel vuoto provo-cato dalla crisi del vecchio riformismo e dalla mancata crescita della nuova poli-tica. Il Mezzogiorno, come ammonisce l’iniziale riferimento al valore simbolico costituito dalla concomitanza tra l’as-sassinio di Fortugno e il voto sulla de-voluzione, rischia di regredire a luogo separato e imbarbarito dal dominio delle mafie. Certamente, come in ogni crisi sono presenti anche occasioni. E oggi, più che nel passato, è necessario ela-borare e costruire un modello con forti elementi di originalità, non isolato ma in relazione con un’Europa e un Mediter-raneo in cui operino politiche, culture, stili di vita fondati sull’autonomia, sulla pluralità e sull’uguaglianza quale riferi-mento alla realizzazione di un principio di libertà. L’Europa, come è stato più volte detto, è a un bivio: o si riduce alla periferia orientale dell’Impero atlantico o costruisce una sua funzione e un suo ruolo autonomi. Per perseguire quest’ul-timo obiettivo si debbono far rivivere in forma nuova alcune peculiarità proprie della tradizione del Vecchio Continente.

Facciamo un piccolo passo indietro. Franco Cassano ha ragione quando nel suo intervento afferma che troppo fretto-losamente il crollo del 1989 fu interpre-tato come il trionfo della libertà assolu-ta e del capitalismo, il quale si sarebbe liberato, uscendone, persino dei vincoli

temporali della storia per identificarsi finalmente con il destino perenne del mondo e dell’umanità (come ebbe modo di affermare allora in un suo famossi-mo libro, il politologo americano Fran-cis Fukujama, intitolato appunto La fine della storia).

Le cose non stavano così. Il 1989 non segnò, rispetto al “socialismo reale”, un trionfo, bensì il crollo, di quei trat-ti originali della politica e della cultura più avanzate europee consistenti nello sforzo di tenere insieme libertà ed ugua-glianza, al fine di condizionare il capi-talismo ed evitarne gli effetti maggior-mente devastanti. Si ebbero così le Co-stituzioni progressive, lo Stato sociale, i paesi non allineati e lo stesso campo del socialismo reale, che - nelle diverse fasi della sua vicenda stori-ca e nonostante e suoi esiti rovesciati rispetto alle premesse e benché traesse le sue origini da una diversa e più radi-cale rottura storica qua-le fu la rivoluzione dì Ottobre - Samir Amin include tra i fenomeni propri della civilizzazione europea. La rielaborazione, secondo forme e conte-nuti che vadano oltre le esperienze del passato, dei tratti di questa civilizzazione forse è la strada (non l’unica ma certa-mente la principale) per costruire un’Eu-ropa all’altezza delle sfide che vengono dal Sud dell’Europa e dal Mediterraneo. Dopo circa cinque secoli il Mediterraneo torna ad essere il baricentro del rapporto tra il Nord e il Sud del mondo. È nel ba-cino del Mediterraneo o nei suoi pressi che si sperimenta la guerra preventiva, come forma della politica verso il Sud del mondo tesa a difendere i privilegi del 20% della popolazione del pianeta che divora l’80% di ciò che si produce sulla terra a spese di tutti. È a partire dal Me-diterraneo che si sta tentando una strate-gia geopolitica volta a creare un grande Medioriente di 23 Paesi, inteso come un

“È al capolineail riformismo‘all’italiana’tipico del Mezzogiorno.Anzi lo sonotutti i riformismi”

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s u d p o s i z i o n i

S

Esiste ancora una questione meridionale?

cuneo tra Cina e India e l’insieme di Eu-ropa e Russia, sotto il predomino degli Stati Uniti, unica potenza imperiale, an-che per controllare il 65% delle riserve petrolifere; qui si confrontano i fonda-mentalismi che piegano a loro funzioni, democrazia e religione. In questo mare e su queste rive, per l’importanza degli av-venimenti e per essere approdo e ponte tra Oriente e Occidente, si determineran-no gran parte degli esiti che connoteran-no la qualità dell’identità europea e degli equilibri mondiali.

Pensare il Mezzogiorno in questa dimensione e con queste implicazioni significa anche mettere in campo una forza materiale costituita dalla consape-volezza diffusa delle difficoltà e insieme delle potenzialità.

Le lotte e gli eventi significativi degli ultimi anni - Melfi, Scanzano, Rapolla, Acerra, le lotte dei braccianti siciliani, degli agricoltori, delle ragazze e dei ra-gazzi contro la legge Moratti, la mafia, la Bolkestein, la stessa elezione di Niki Vendola in Puglia e la conquista della quasi totalità delle Regioni meridionali - rivelano che forse si sta uscendo dal-l’eclissi dal lato giusto. Bisogna sapere e dire, anche e soprattutto all’Unione, che nessuno deve illudersi ed illudere il paese che si possa governare la crisi con l’ordinaria amministrazione e col rispet-to dei parametri di Mastricht. Sarebbe grave se un futuro governo dell’Unione venisse vissuto come una “stagione di sconti”. La politica e la cultura non solo meridionali debbono mettere mano a una nuova dimensione del “pubblico”, intesa sia come capacità di fornire lo spazio per la partecipazione e la produzione dei le-gami sociali nel tempo della separazio-ne e della solitudine programmate, sia come intervento nella sfera economica e delle tutele sociali. Vi è un pauroso defi-cit di beni comuni, dove per beni comu-ni bisogna intendere certamente l’acqua, l’aria la terra, la luce, che, essendo parte “organica del corpo umano” ( Marx), do-vrebbero essere inalienabili come il pa-

trimonio genetico e le biodiversità. Ma è necessaria una nuova concezione del “pubblico” anche per i servizi essenziali, sanità, scuola, trasporti, energia.

Si può risolvere la crisi dell’auto - la cui produzione è per tanta parte concen-trata nel Mezzogiorno - senza un piano della mobilità sul territorio nazionale ed europeo fondato sul trasporto pubblico e collegato a un piano energetico informa-to al principio del risparmio e dell’uscita dalla dipendenza da fonti non rinnova-bili? E si possono accogliere i flussi di uomini, di culture, di merci che verran-no dalla Cina e dall’India senza ferrovie, porti, servizi di rete, sicurezza del terri-torio e dell’abitare? I fondi per il ponte sullo Stretto dovrebbero essere dirottati a favore di queste finalità.

Il Mezzogiorno e il Mediterraneo di oggi sono i luoghi in cui la precarietà la fa da padrona. Questa è, a mio avvi-so, la questione cruciale. La precarietà è la forma di organizzazione della produ-zione e della vita che è subentrata e si è combinata con il fordismo. Se è così bi-sogna affrontare il tema con grande rigo-re, perché essa corrisponde a una forma di produzione capitalistica storicamen-te determinata. Ora, non basta valutare che tipo di economia la precarietà sta producendo, ma, seguendo il metodo di Gramsci, bisogna pensare il tipo umano che essa sta elaborando, il suo rapporto col sesso, il tempo, la natura, la politica e soprattutto il lavoro. Quest’ultimo, non solo ha perduto, già da tempo, la funzio-ne di tramite tra uomo e natura, e degli uomini tra di loro, ma ha contribuito in modo decisivo al mutamento qualitativo dell’alienazione. La logica della separa-zione, propria al capitalismo, nel tempo della precarietà non opera soltanto una scissione tra il lavoratore e il suo pro-dotto, ma tra l’uomo e la sua capacità di progettare la sua vita. Non si verifica soltanto il dominio della cosa sull’uomo, la riduzione dell’uomo a merce, ma una riduzione dell’uomo a cosa usa e getta, a scoria: mercificazione e scorificazione

si cumulano. Io credo che tutto questo c’entri col trionfo del narcisismo, col consumo di presente, con il dimenarsi tra arrembaggio e abulia, tra aggressività e depressione, con il ramingare per “sen-tieri interrotti” di tanti giovani. Nelle grandi metropoli come nel Mezzogior-no.

Come nell’alienazione del passato, anche in questa del presente permango-no residui di soggettività su cui far leva per produrre e autoprodurre consape-volezza critica. L’obiettivo del salario sociale - che ha un importanza cruciale per la costruzione di una nuova piatta-forma meridionale, si colloca in questo quadro.

Purtroppo le classi dirigenti meridio-nali, e non solo, nella loro stragrande maggioranza inseguono la loro legittima-zione attraverso particolarismi e pratiche clientelari che finiscono per colonizzare le società di riferimento. E gli effetti si vedono.

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editoriale segue dalla prima laboratorio della sinistra lucana

DirezioneAntonio CalifanoAnna Maria Riviello

RedazioneDavide Bubbico, Simone Calice, Fabrizio CaputoPaolo Fanti, Eustachio Nicoletti, Gianni PalumboCamilla Schiavo

Progetto grafico e Art directionPalma Fuccella

Hanno collaborato a questo numeroTonino Colasurdo, Presidente A.B.SNicola Errico, Esperto di cinemaGert Dal Pozzo, Eretico militanteTommaso Giura Longo, Docente - Università di RomaBruno Leone, BurattinaioDino Nicolia, Funzionario Commissione Europea - BruxellesMarco Tedeschi, GiornalistaElena Vigilante, StoricaMarisaVirgilio, PsicoterapeutaAntonio Sanfrancesco, SociologoGiacomo Schettini, Segretario regionale “Rifondazione Comunista”Angelo Vaccaro, Segretario generale CGIL di Basilicata

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Aut. Trib. Melfi n. 2/2004Direttore ResponsabileGiuseppe RolliDirettore EditorialePiero Di SienaRivista trimestraleAbbonamento sostenitore e estero: € 50.00Abbonamento annuo: € 15.00 c.c. postale n. 14667851Costo singola copia: € 5.00 Numero doppio: € 7.00Stampa Grafiche Finiguerra Lavello (Pz)

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Questa vertenza sindacale, che si è svi-luppata anche in un contesto carico di preoccupazione per i problemi occupa-zionali che investono le aziende dell’in-dotto, dimostra anche per questa attitu-dine dei sindacati e dei lavoratori a tro-vare soluzioni negoziali condivise che la Primavera del 2004 alla Fiat di Melfi non è stata una fiammata. È infatti dalla conclusione, vittoriosa per i lavoratori, della lunga lotta del 2004 che un nuovo clima unitario si è creato tra i sindacati dei metalmeccanici. Se dopo tanti anni si è arrivati a una piattaforma unitaria per il contratto nazionale non è esagerato affermare che questo si deve anche alla lotta di Melfi.Naturalmente i rapporti tra i sindacati di categoria non sono diventati rose e fio-ri. Segnali di rottura del fronte unitario sulla questione dei turni da parte della Uilm e della Fismic sono a un certo pun-to comparsi all’orizzonte, per poi fortu-natamente rientrare.Ora è necessario che sulla Fiat di Melfi intervenga con maggiore cognizione di causa e incisività la politica. Le nuove relazioni industriali che si sono instaura-te alla Sata sono un patrimonio per lo svi-luppo della qualità della vita democrati-ca in Basilicata. E la politica deve fare di fronte alla crisi generale che ha investito l’apparato produttivo lucano, una messa a punto del suo autonomo punto di vista sui destini industriali della Fiat. Cìò di-venta più urgente perché dalle politiche industriali che riguarderanno il settore dell’auto in Italia dipendono nell’imme-diato i destini dell’indotto dell’area di San Nicola di Melfi su cui incombono rischi imminenti di un processo genera-lizzato di delocalizzazione. Esso è an-che un dovere di fronte al paese. Melfi è ormai, dal punto di vista produttivo, il “cuore” dell’industria dell’auto italiana. In un certo senso è da quel che accade a Melfi che dipende il destino dell’indu-stria dell’auto in Italia e non viceversa. Ciò significa che è anche compito delle classi dirigenti della Basilicata assolvere

a un ruolo di elaborazione e di proposta per quel che riguardano le scelte di po-litica industriale nel campo della produ-zione automobilistica. È questo il principale appuntamento che nei prossimi mesi attende la politica in Basilicata. E ad esso non è dato sfuggire.Bisogna quindi evitare la tentazione che qui e la affiora di tanto in tanto di pensare che l’economia e la società lucana possano evitare la crisi sottraendosi alle sfide della competitività, rinchiudendosi in nicchie di attività in un certo senso impermeabili alle sfide della globa-lizzazione.Tutto ciò sarebbe esiziale per la re-gione, per le sue classi dirigenti, per le forze vive della società, per le nuove generazioni che aspettano un salto di qualità. È il momento che, come si suol dire, la politica lucana “butti il cuore oltre l’ostacolo” e definisca una strategia economica e sociale che la ponga all’avanguardia di quella grande impresa che attende l’Italia che vuole sfuggire al declino. Mi riferisco alle sfide di una riconversione industriale che affronti la competitività internazionale opponendo qualità alla riduzione del costo dei fattori. La classe dirigente lucana deve sapere che la presenza dell’industria dell’auto può essere da questo punto di vista un’opportunità, perché quello che è rimasto forse l’ultimo grande comparto industriale del paese o si misura con i grandi problemi strutturali della mobilità del futuro, oppure morirà.E l’Italia non può permettersi che questo accada. Perciò vedo nel futuro della Basilicata non meno ma più industria. Tocca ora alla politica dare spessore e prospettiva a una scelta che trasformi la singolare congiuntura degli anni Novanta - in cui per una serie di motivi la nostra regione ha visto uno sviluppo manifatturiero inusuale per il Mezzogiorno - in un fattore strutturale duraturo, un dato permanente del suo assetto economico e sociale.

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