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32352/14 )d REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUINTA SEZIONE PENALE Composta da Giuliana Ferrua Paolo Oldi Giuseppe De Marzo Carlo Zaza Ferdinando Lignola - Presidente - - Relatore - Relatore - Sent. n. sez. L UP - 7/03/2014 R.G.N. 25787/2013 ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da 1. Tanzi Calisto, nato a Collecchio il 17/11/1938 2. Tonna Fausto, nato a Parma il 19/12/1951 3. Barili Domenico, nato a Tizzano Val Parma il 13/10/1933 4. Tanzi Giovanni, nato a Collecchio i113/03/1943 5. Silingardi Luciano, nato a Lama Mocogno il 18/02/1940 6. Branchi Fabio, nato a Felino il 21/04/1945 7. Florini Camillo, nato a Ferentino il 21/09/1942 8. Fratta Davide, nato a Parma il 16/01/1936 9. Calogero Rosario Lucia, nato a Vibo Valentia il 30/10/1945 10. Panizzi Giuliano, nato a Parma il 01/11/1959 11. Mutti Mario Paolo Alfonso, nato a Montemarzino il 11/06/1941 12. Sciumé Paolo, nato a Carpi il 31/01/1943 13. Barachini Enrico, nato a Pisa il 27/07/1935 14. Erede Sergio Piero Franco, nato a Firenze il 14/08/1940 15. Bonici Giovanni, nato a Borgo Val di Taro il 11/08/1967 avverso la sentenza del 23/04/2012 della Corte di appello di Bologna Via Serbelloni, 1 | 20122 MILANO (MI) | [email protected] Editore Luca Santa Maria | Direttore Responsabile Francesco Viganò | 2010-2015 Diritto Penale Contemporaneo

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32352/14 )d REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

QUINTA SEZIONE PENALE

Composta da

Giuliana Ferrua

Paolo Oldi

Giuseppe De Marzo

Carlo Zaza

Ferdinando Lignola

- Presidente -

- Relatore

- Relatore -

Sent. n. sez. L UP - 7/03/2014

R.G.N. 25787/2013

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi proposti da

1. Tanzi Calisto, nato a Collecchio il 17/11/1938

2. Tonna Fausto, nato a Parma il 19/12/1951

3. Barili Domenico, nato a Tizzano Val Parma il 13/10/1933

4. Tanzi Giovanni, nato a Collecchio i113/03/1943

5. Silingardi Luciano, nato a Lama Mocogno il 18/02/1940

6. Branchi Fabio, nato a Felino il 21/04/1945

7. Florini Camillo, nato a Ferentino il 21/09/1942

8. Fratta Davide, nato a Parma il 16/01/1936

9. Calogero Rosario Lucia, nato a Vibo Valentia il 30/10/1945

10. Panizzi Giuliano, nato a Parma il 01/11/1959

11. Mutti Mario Paolo Alfonso, nato a Montemarzino il 11/06/1941

12. Sciumé Paolo, nato a Carpi il 31/01/1943

13. Barachini Enrico, nato a Pisa il 27/07/1935

14. Erede Sergio Piero Franco, nato a Firenze il 14/08/1940

15. Bonici Giovanni, nato a Borgo Val di Taro il 11/08/1967

avverso la sentenza del 23/04/2012 della Corte di appello di Bologna

Via Serbelloni, 1 | 20122 MILANO (MI) | [email protected] Editore Luca Santa Maria | Direttore Responsabile Francesco Viganò | 2010-2015 Diritto Penale Contemporaneo

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visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dai consiglieri Paolo Oldi e Giuseppe De Marzo;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro

Gaeta, che ha concluso chiedendo declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di

Barachini Enrico, Barili Domenico, Bonici Giovanni, Branchi Fabio, Calogero

Rosario Lucio, Fratta Davide, Panizzi Giuliano, Silingardi Luciano e Tanzi

Giovanni; rigetto dei ricorsi di Erede Sergio Piero Franco, Mutti Mario Paolo

Alfonso, Sciumé Paolo, Tanzi Calisto, Florini Camillo e Tonna Fausto;

uditi per le parti civili gli avv.ti Isabella Altana, Dario Piccioni, Marco De Luca,

Carlo Federico Grosso (anche in sostituzione dell'avv. Federico Palestro), Enrica

Maria Ghia e Adriano Andrenelli (in sostituzione degli avv.ti Claudio De Filippi e

Anna Campilii), che hanno concluso in conformità alle rispettive richieste scritte;

uditi per gli imputati gli avv.ti Tullio Padovani, Carlo Boy Baccaredda, Fabio

Fabbri, Nicola Mazzacuva, Francesco Mucciarelli, Antonino Tuccari, Domenico

Pulitanò, Mario Zanchetti, Andrea Marvasi, Romano Corsi, Daniele Carra,

Massimo Krogh, Luca Troyer, Oreste Dominioni, Concetta Miucci, Alessandro

Dedoni, Roberto Rampioni, Amerigo Ghirardi, Franco Magnani e Mariano

Rossetti, quest'ultimo anche in sostituzione dell'avv. Filippo Sgubbi, che hanno

concluso chiedendo l'accoglimento dei rispettivi ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. I fatti per cui si procede sono stati oggetto di indagine a seguito del

tracollo, verificatosi nel dicembre 2003, del colosso economico-finanziario

costituito da un nutritissimo raggruppamento di società, comunemente designato

con l'icastico nome di «galassia Parmalat».

1.1. All'epoca della dichiarazione dello stato d'insolvenza, la struttura di

controllo del gruppo Parmalat era articolata sulla base di una società quotata alla

borsa valori - Parmalat Finanziaria s.p.a. - che controllava Parmalat s.p.a.,

Dalmata s.p.a., con sede entrambe in Collecchio, e Parmalat Capital Netherlands

BV con sede in Olanda. Parmalat Finanziaria s.p.a. risultava indirettamente

controllata dalle famiglie di Calisto Tanzi, Laura Tanzi e Francesca Tanzi,

attraverso plurimi livelli di controllo «a cascata» che coinvolgevano le società

Coloniale s.p.a., Utilitas srl, Acqua SA, Firmitas S.r.l.; quest'ultima apparteneva

alla Venustas S.r.l. per il 51%, a Laura Tanzi per il 24,5% e a Francesca Tanzi

per il 24,5%. La Venustas s.r.l. era, a sua volta, controllata al 6 3 °/o da Stefano

Tanzi, mentre le sorelle Laura e Francesca detenevano, rispettivamente, il 19,5%

e il 17,5%.

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1.2. La catena di controllo del gruppo Parmalat si articolava dunque in una

doppia struttura ad incrocio, di cui Parmalat Finanziaria era lo snodo centrale. Al

di sotto di questa vi erano tutte le società controllate operative, finanziarie e di

servizi, mentre al di sopra di essa esisteva una serie di società facente

riferimento ai diversi componenti delle famiglie di Calisto Tanzi, Annamaria Tanzi

e Giovanni Tanzi.

1.3. Accanto a questa struttura, definita a clessidra, esisteva un altro

insieme di società che faceva ugualmente riferimento alle famiglie Tanzi: in

particolare Agis s.p.a. e Sata s.p.a., cui facevano capo altre società operanti nel

comparto agricolo, come Rimigliano s.r.l. e Pisorno s.r.I., in quello

dell'intermediazione di diritti poliennali di atleti, come Roma 2000 s.r.I., e

soprattutto nel settore del turismo (Horus s.r.I., Hit s.p.a., Hit International

s.p.a., Nuova Holding s.p.a., Parmatour s.p.a.).

1.4. La fonte finanziaria principale della galassia Parmalat era rappresentata

dal gruppo di società oggetto di «consolidamento» contabile, costituito dalla

Parmalat Finanziaria s.p.a. e dalle sue controllate. Tale gruppo presentava una

rilevante sub holding mista, operativa e finanziaria, che faceva capo

direttamente o indirettamente alla Parmalat S.p.A.. Ma, al di là del confine

giuridico del gruppo, si estendeva il confine economico, all'interno del quale

operavano le cosiddette «parti correlate» riconducibili alla famiglia Tanzi o a terzi

in funzione di prestanome.

Cosicché, complessivamente, le società incluse nel perimetro del

consolidamento erano 246 al 31 dicembre 2002 e 236 al 30 giugno 2003; le

società controllate e collegate, ma non consolidate, erano 29 al 31 dicembre

2002 e 27 al 30 giugno 2003; le società qualificabili come «parti correlate»

erano in numero di 100.

2. Apertasi la procedura concorsuale di amministrazione straordinaria con

dichiarazione dello stato d'insolvenza, sono emersi elementi che hanno condotto

all'instaurazione di un procedimento penale, volto ad accertare eventuali

responsabilità nella gestione economico-finanziaria del gruppo. Sulla scorta delle

indagini svolte dalla guardia di finanza, degli apporti chiarificatori recati da uno

dei soggetti coinvolti, Fausto Tonna, e della relazione redatta dal consulente

tecnico del pubblico ministero, è emerso il compimento di una serie di condotte

illecite, che possono essere raggruppate come segue.

2.1. Primo gruppo: condotte di falsificazione dei bilanci, viste come

elemento costitutivo del delitto ex art. 223, comma 2, n. 1) della legge

fallimentare per il loro nesso eziologico con la produzione del dissesto; esse sono

consistite: nell'iscrizione in contabilità di fatti non rispondenti al vero (false d 3 /

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operazioni di vendita, false fatturazioni, falsi estratti conto bancari, falsi

contratti), allo scopo di far apparire liquidità in realtà inesistente, ovvero ricavi

maggiori di quelli effettivamente conseguiti, e così produrre utili fittizi da esporre

in bilancio; nella rappresentazione nei bilanci e nelle relazioni periodiche di fatti

veri, ma in violazione delle disposizioni normative applicabili, con ripercussioni

nelle esposizioni successive; nella totale assenza di informazione in relazione ad

accadimenti di importanza significativa per il gruppo, ovvero nella presenza di

informazioni lacunose e fuorvianti.

Particolare rilievo ha assunto, nella ricostruzione dei fatti, il metodo di

falsificazione consistito nella cessione di crediti falsi o inesigibili e nello storno di

debiti nei confronti di banche, mediante fittizio accolto dei debiti stessi da parte

di società partecipate. Per la realizzazione di tali operazioni venivano utilizzate

tre società appartenenti al gruppo, i cui bilanci venivano consolidati con quello di

Parmalat, e cioè Curcastle, Zilpa e Contai, nonché tre società formalmente non

appartenenti al gruppo, ma nella sostanza riferibili ad esso, e cioè Rushmore,

Kelton e Cantai.

In prosieguo il sistema si era raffinato adottando un unico soggetto - la

società Bonlat - in qualità di controparte delle operazioni fittizie, che aveva

rivestito il ruolo di vera e propria "discarica" utilizzata per la manipolazione dei

bilanci, facendo diminuire l'indebitamento del gruppo verso banche e

obbligazionisti.

2.2. Secondo gruppo di illeciti: operazioni dolose causatrici del dissesto,

tradottosi nella dichiarazione dello stato d'insolvenza per le società sottoposte ad

amministrazione straordinaria e nel fallimento per le altre. In tale ambito si è

preso in considerazione, innanzi tutto, il meccanismo di autofinanziamento

denominato «giro dei concessionari» col quale la Parmalat otteneva anticipazioni

di credito emettendo ricevute bancarie nei confronti dei concessionari senza

alcuna fattura sottostante; analoga valutazione si è espressa per le operazioni di

factoring e securitization.

Le altre operazioni contestate, sebbene intrinsecamente lecite, sono venute

in considerazione per la dannosità sostanziale oggettiva, ritenuta agevolmente

valutabile ex ante. In una sommaria elencazione, si possono qui ricordare: il

ricorso a strumenti di debito, ovvero a finanziamenti, in alcune occasioni tra

l'altro occultati attraverso simulate operazioni di investimento nel capitale, in una

situazione di squilibrio economico-finanziario irreversibile; la conversione dello

strumento societario denominato Wishaw Trading, per ottenere credito in

assenza di programmi commerciali definiti; l'aumento di capitale della Parmalat

Finanziaria s.p.a. organizzato nel 1996 con l'intervento dell'Unione delle Banche

Svizzere (UBS), sottoscritto da Coloniale s.p.a. e coperto da un'erogazione da

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parte della Sata s.r.I., che tuttavia era priva della liquidità necessaria e non è

mai stata totalmente rimborsata; il prestito obbligazionario Par.Fin. del 1994,

produttivo di fondi non impiegati nel piano industriale, ma nelle società personali

di Calisto Tanzi; l'operazione denominata «Eurolire», organizzata da Citibank e

sottoscritta in gran parte, in ultima analisi, dalla stessa società finanziata e fonte

di gravosi esborsi per le commissioni alla Citibank e alla Banca di Roma; la

complessa operazione di finanziamento di 75 milioni di dollari, concesso da BofA

NTSA a Parmalat Brasile e garantito da Parmalat s.p.a., a condizioni molto più

sfavorevoli di quelle dichiarate; gli analoghi finanziamenti, anch'essi più onerosi

di quanto apparente, concessi con l'intervento di Bank of America a Parmalat

Argentina, a Parmalat Venezuela, a Indulac, a Parmalat Brasile e a Parmalat

Africa, Parmalat Sud Africa e Parmalat Chile, nonché altri finanziamenti - ancora

inerenti ai rapporti con la Bank of America - riguardanti le società Food Holding,

Dairy Holding, Cur Holding Limited (quest'ultima interposta quale veicolo in vista

di un finanziamento alla Parmalat Capital Finance); i prestiti obbligazionari volti

a sostituire debiti verso banche con debiti verso investitori; i finanziamenti

ottenuti attraverso simulate operazioni di investimento nel capitale.

2.3. In un terzo gruppo di illeciti possono essere cumulativamente collocate

le condotte di distrazione di cespiti attivi ai danni delle società Parmalat s.p.a.,

Parmalat Finance Corporation BV, Parmalat Finanziaria s.p.a., Boschi Luigi & Figli

s.p.a., Contai s.r.I., Emmegi Agroindustriale s.r.I., Parmalat Trading Limited,

Coloniale s.p.a., e quelle di irregolare tenuta delle scritture contabili nella

gestione delle società Parmalat s.p.a., Parmalat Finanziaria s.p.a., Contai s.r.l.

ed Emmegi Agroindustriale s.r.I.; nonché gli altri analoghi illeciti riferiti alle

società della famiglia Tanzi e ad altre società minori.

3. Sulla base di tali emergenze sono state elevate le corrispondenti

imputazioni di bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale, e bancarotta

impropria ex art. 223, comma 2, nn. 1 e 2 della legge fallimentare.

4. L'esito del doppio grado del giudizio di merito svoltosi davanti al Tribunale

e alla Corte d'Appello di Bologna, del quale il presente processo è il troncone

principale, sarà visto nel trattare, di volta in volta, le posizioni dei singoli

imputati qui ricorrenti. Ciò che interessa fin da ora osservare è che, nei confronti

di costoro, fatta eccezione per Fratta, è stata anche elevata imputazione di

associazione per delinquere; per tale reato Sergio Erede e Giuliano Panizzi sono

stati giudicati a parte; Enrico Barachini, Mario Mutti e Paolo Sciumé sono stati

assolti per non aver commesso il fatto; Domenico Barili, Fabio Branchi, Giovanni

Bonici, Rosario Calogero, Camillo Florini sono stati prosciolti per intervenuta

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prescrizione; sono incorsi invece nella condanna, con l'aggravante di aver

assunto il ruolo di capi od organizzatori, Calisto Tanzi, Giovanni Tanzi, Fausto

Tonna e Luciano Silingardi.

4.1. L'istituto della prescrizione ha trovato applicazione anche per il reato

minore di bancarotta semplice ex art. 224 della legge fallimentare, salvo che per

Sergio Erede, il quale vi ha rinunciato; l'estinzione del reato, comunque, non ha

impedito la conferma delle statuizioni civili a favore delle parti civili costituite. È

da notare, peraltro, che nei confronti dell'imputato Calogero la Corte d'Appello ha

disposto la revoca della condanna al risarcimento dei danni nei confronti delle

parti civili Alvisi +45, Lavagnino + 47, Di Stefano +11, L. Cabrini, Ballarin+159,

Beltrami +115, Corvaia+12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza + 35,

Allegri +73, Pompini +38, Agresti + 55, Anceschi + 36.

5. Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati Calisto Tanzi, Fausto

Tonna, Giovanni Tanzi, Enrico Barachini, Giovanni Bonici, Rosario Lucio Calogero,

Sergio Piero Franco Erede, Giuliano Panizzi, Davide Fratta, Mario Paolo Alfonso

Mutti; Camillo Florini, Paolo Sciumé, Fabio Branchi, Luciano Silingardi e

Domenico Barili, ciascuno per i motivi che più innanzi saranno indicati.

6. Calisto Tanzi. E' stato membro del consiglio di amministrazione della

società Odeon Programmi Tv s.r.l. fino alla cessazione; presidente del consiglio

di amministrazione della Finanziaria Centro Nord dal 7 novembre 1989 al 30

ottobre 1990, della Parmalat Finanziaria s.p.a. dal 30 ottobre 1990 al 15

dicembre 2003, della Parmalat s.p.a. da prima del 1989 al 16 febbraio 2003,

della Eurolat s.p.a. dal 7 luglio 1999 al 15 dicembre 2003; amministratore e

socio della S.a.t.a. s.r.l. dal 20 ottobre 1980 al 10 febbraio 2004; socio di Eliair

s.r.l. dal 8 settembre 1986 al 3 settembre 1990, di Agis s.p.a. dal 20 ottobre

1990 al 7 novembre 2004, di Coloniale s.p.a. dal 2 agosto 1989 al 29 dicembre

2003, di Finaliment s.r.l. dal 2 gennaio 1985 al 5 dicembre 1990.

L'esito del giudizio di merito lo ha visto condannato per i reati di

associazione per delinquere in posizione verticistica (capo A); bancarotta

impropria da reati societari (capo B); bancarotta impropria per operazioni dolose

(capo C); bancarotta fraudolenta patrimoniale, in relazione all'insolvenza della

società Parmalat s.p.a. e al fallimento della Cosa! s.r.l. (Capo D); bancarotta

fraudolenta patrimoniale in relazione all'insolvenza della Parmalat Finance

Corporation BV (capo E), della Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo F), della Boschi

Luigi & Figli s.p.a. (capo G), della Contai s.r.l. (capo I), della Emmegi

Agroindustriale s.r.l. (capo J), della Parmalat Trading Limited (capo K);

bancarotta fraudolenta documentale in relazione all'insolvenza delle società

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Parmalat s.p.a., Parmalat Finanziaria s.p.a., Parmalat Finance Corporation BV,

Contai s.r.l. ed Emmegi Agroindustriale s.r.l. (capo L); concorso, quale

mandante, in una serie di bancarotte fraudolente patrimoniali, documentali, e

per operazioni dolose e falsi societari in relazione al fallimento di altre società

controllate, appartenenti alla galassia del gruppo Parmalat quali concessionarie

dei prodotti (capo O); bancarotta fraudolenta patrimoniale (capo P) e bancarotta

fraudolenta impropria da reati societari (capo Q) in relazione all'insolvenza della

Coloniale s.p.a..

Ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del difensore, affidandolo

a sette motivi; la loro esposizione è preceduta da una premessa con la quale,

rilevato che in talune singole imputazioni si sono raggruppate condotte

riguardanti vari fallimenti, il ricorrente osserva che l'eventuale accoglimento di

taluno dei motivi di ricorso dovrebbe riflettersi, a cascata, su una molteplicità di

illeciti ascritti e valutati, dalla Corte, per la loro pluralità anche nella

determinazione della pena base nella misura massima edittale.

6.1. Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e carenza

motivazionale in ordine all'affermazione di responsabilità per i reati di cui al capo

B), con specifico riferimento alla eccepita mancanza di nesso causale fra le

singole condotte di falsità in comunicazioni sociali e il dissesto delle società

interessate. Impugna, altresì, l'ordinanza con la quale la Corte d'Appello ha

rigettato la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale a mezzo di

perizia o, quanto meno, di audizione dei consulenti tecnici di parte.

Sotto altro profilo contesta la sussistenza del dolo, osservando che la

motivazione ha il torto di trattare in generale il tema riguardante il dissesto del

gruppo, senza entrare nella valutazione delle singole condotte incriminate.

In ordine al nesso di causalità si richiama a un recente arresto

giurisprudenziale di questa stessa sezione, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta,

osservando che, se i principi ivi enunciati valgono per la bancarotta distrattiva, a

maggior ragione devono valere per quella da reato societario, che quel

medesimo nesso causale espressamente richiede.

Seguono analoghe considerazioni sviluppate per il capo C), lamentando

anche qui che non si sia motivato sul nesso causale, anche avuto riguardo alla

6.2. Il secondo motivo è articolato in due censure.

Con la prima il ricorrente ripropone in questa sede una questione di 9 variabile collocazione nel tempo delle condotte ascritte.

rt

giurisdizione già sollevata in secondo grado con un espresso motivo di gravame,

. ivi disatteso. La questione riguarda le società aventi sede all'estero, che per tale

motivo - così sostiene - non dovrebbero ritenersi soggette alla giurisdizione

italiana. Nega la pertinenza di un precedente giurisprudenziale citato dalla Corte

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d'Appello, e riguardante un altro ramo dello stesso procedimento penale, atteso

che in quella fattispecie si era ravvisata la natura fittizia delle società estere, qui

non affermata e non provata. Invoca la ripartizione della giurisdizione sancita dal

regolamento dell'Unione Europea.

Con la seconda censura pone in discussione la legge applicabile alle società

estere. Secondo l'assunto del deducente, anche riconosciuta la giurisdizione

italiana, dovrebbe applicarsi la legge straniera, deponendo in tal senso il

principio di legalità e di territorialità della legge penale, sancito dall'art. 25 della

Costituzione, dall'art. 7 della Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo e dai

principi generali del diritto riconosciuti dai paesi civili. Sotto altro profilo il

ricorrente osserva che gli elementi normativi di fattispecie dovrebbero essere

interpretati sulla base del diritto extrapenale straniero.

Avuto riguardo al disposto dell'art. 234 (oggi art. 267) del trattato istitutivo

dell'Unione Europea, chiede espressamente che questa Corte sollevi questione

pregiudiziale da sottoporre alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

6.3. Col terzo motivo il ricorrente eccepisce l'inosservanza del divieto del bis

in idem rispetto alla sentenza della Corte d'Appello di Milano in data 26 maggio

2010, riguardante il parallelo processo ivi celebratosi per i reati di aggiotaggio e

ostacolo alle funzioni di vigilanza. Sostiene che i fatti materiali giudicati in quella

sede sono gli stessi qui ascritti in talune delle ipotesi di reato contemplate ai capi

A, B e C; e che a tale identità dei fatti deve aversi riguardo, indipendentemente

dalla qualificazione giuridica, ai fini dell'applicazione dell'art. 4 prot. 7 aggiuntivo

della convenzione EDU, secondo l'interpretazione datane dalla Corte di

Strasburgo. Richiama l'attenzione sul carattere vincolante delle sentenze emesse

da detta Corte.

6.4. Col quarto motivo impugna il capo della sentenza riguardante il reato di

associazione per delinquere, sia in punto di esistenza del sodalizio criminoso, sia

in punto di attribuzione al deducente della qualità di capo. Osserva essere

maturato il termine massimo di prescrizione, pari a 8 anni e 9 mesi, già prima

della sentenza di appello. Nega, comunque, che il gruppo Parmalat sia sorto e sia

stato condotto come entità strutturalmente illecita, finalizzata al compimento di

un numero indeterminato di reati. Quanto alla propria posizione personale,

lamenta che i giudici di merito abbiano confuso la sua posizione mediatica con la

partecipazione ai fatti di reato, che invece doveva essere provata nelle sue

componenti soggettiva e oggettiva.

6.5. Col quinto motivo il Tanzi impugna l'affermazione di responsabilità per il

capo G, cioè per bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione alla

dichiarazione della stato d'insolvenza della società Boschi Luigi e Figli s.p.a.,

società di carattere agroalimentare, titolare del marchio Pomì. Evidenzia di aver

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sostenuto nell'atto di appello che l'attrazione della società nell'orbita del gruppo

aveva risposto a finalità di ordinata gestione del gruppo stesso in un

delicatissimo momento di illiquidità. Denuncia carenza di motivazione, per

essersi omesso di confutare tale linea difensiva.

6.6. Col sesto motivo si duole della mancata ammissione ed escussione,

quali testimoni, di tutte le parti civili costituite. Impugna l'ordinanza datata 10

gennaio 2012, che ha disatteso la relativa richiesta in base al disposto dell'art.

603, commi 1 e 3, cod. proc. pen.. Sostiene che l'istanza doveva essere invece

riguardata sotto il profilo di cui al secondo comma dell'articolo citato, trattandosi

di richiesta istruttoria già formulata nel giudizio di primo grado e

irragionevolmente disattesa. Ne sottolinea il carattere determinante sia in vista

della decisione sulle statuizioni civili, per quanto disposto dall'art. 187, comma 3,

cod. proc. pen., sia in relazione all'aggravante del danno di rilevante gravità.

Conclusivamente denuncia violazione del diritto alla prova.

6.7. Col settimo motivo, infine, denuncia inosservanza degli artt. 62-bis e

133 cod. pen. e vizi di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti

generiche, alla concreta modulazione della pena e al rigetto dell'istanza di

patteggia mento ex art. 444 cod. proc. pen..

7. Fausto Tonna. E' stato giudicato quale membro del consiglio di

amministrazione della società Parmalat Finanziaria s.p.a. dal 30 aprile 1992 al 15

dicembre 2003, di Parmalat s.p.a. dal 28 aprile 1994 al 16 dicembre 2003, di

Bonlat Financing Corporation dal 4 dicembre 1998 al 27 marzo 2003, di Contai

s.r.l. dal 30 luglio 1991 al 27 settembre 1994, di Curcastle Corporation NV dal 28

agosto 1991 al 2 novembre 2001, di Eliair s.r.l. dal 2 marzo 1992 al 27 marzo

2003, di Eurofood IFS LTD dal 19 novembre 1997 al 26 marzo 2003, di Eurolat

s.p.a. dal 7 luglio 1999 al 27 dicembre 2003, di Parma AC s.p.a. dal 25 giugno

2002 al 27 dicembre 2003, di Parmalat Capital Finance LTD dal 27 aprile 1990 al

27 marzo 2003, di Parmalat International s.p.a. dal 20 novembre 1991 al 26

marzo 2003, di Parmalat Soparfi dal 27 maggio 1994 al 26 marzo 2003, di

Parmalat Trading Limited dal 1 agosto 2002 al 10 dicembre 2003, di Streglio

s.p.a. dal 5 giugno 2002 al 27 marzo 2003; componente del comitato di controllo

di Parmalat Finanziaria dal maggio 2001 fino - secondo i giudici di merito - al 15

dicembre 2003; Managing director di Finance Corporation SV dal 27 aprile 1990

al 26 marzo 2003, di Parmalat Netherland BV dal 27 aprile 1990 al 26 marzo

2003, di Cantai Food Distributor NV dal 31 ottobre 1994 al 28 novembre 1994;

Director di Parmalat USA Corp. dal 23 aprile 2002 al 26 marzo 2003;

Amministratore Unico di Agis s.r.l. dal 18 settembre 1989 al 30 giugno 2003 e di

S.a.t.a. s.r.l. dal 26 marzo 1990 fino - così si è ritenuto - al 10 dicembre 2003;

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Presidente del consiglio di amministrazione di Agis s.r.l. dal 30 giugno 2003 al 10

dicembre 2003 e di Coloniale s.p.a. dall'Il settembre 1989 al 10 dicembre 2003.

E' stato condannato per i seguenti reati: associazione per delinquere in

posizione verticistica, a fianco di Calisto Tanzi (capo A); bancarotta impropria da

reati societari (capo B); bancarotta impropria per operazioni dolose (capo C);

bancarotta fraudolenta patrimoniale, in relazione all'insolvenza della società

Parmalat s.p.a. e al fallimento della Cosa! s.r.l. (Capo D); bancarotta fraudolenta

patrimoniale in relazione all'insolvenza della Parmalat Finance Corporation BV

(capo E), della Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo F), della Contai s.r.l. (capo I),

della Emmegi Agroindustriale s.r.l. (capo 3), della Parmalat Trading Limited (capo

K); bancarotta fraudolenta documentale in relazione all'insolvenza delle società

Parmalat s.p.a., Parmalat Finanziaria s.p.a., Parnnalat Finance Corporation BV,

Contai s.r.l. ed Emmegi Agroindustriale s.r.l. (capo L); concorso, quale

mandante, in una serie di bancarotte fraudolente patrimoniali, documentali, e

per operazioni dolose e falsi societari in relazione al fallimento di altre società

controllate appartenenti alla galassia del gruppo Parmalat, quali concessionarie

dei prodotti (capo O); bancarotta fraudolenta patrimoniale (capo P) e bancarotta

fraudolenta impropria da reati societari (capo Q) in relazione all'insolvenza della

Coloniale s.p.a.; bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in relazione

al fallimento della S.a.t.a. s.r.l. (capo R), della Agis s.r.l. (capo S), della

Finaliment s.r.l. (capo T); bancarotta fraudolenta per distrazione in relazione

all'insolvenza della Eurolat s.p.a. (capo W).

Ha proposto ricorso per cassazione sia personalmente, sia per il tramite del

difensore. I diciotto motivi, nei quali ambedue gli atti impugnatori si articolano in

termini sostanzialmente conformi, sono preceduti da una premessa, con la quale

il Tonna sostiene esserglisi applicata una responsabilità da posizione, lamentando

inoltre che nella determinazione della pena non si sia tenuto conto della

collaborazione da lui prestata agli inquirenti: argomenti, questi, poi ripresi nei

singoli motivi di ricorso.

7.1. Col primo motivo il ricorrente impugna la condanna pronunciata a suo

carico per i reati di cui ai capi E.3.1, C.6.3, E.6 (capo per cui era intervenuto

appello del pubblico ministero) T, D.4, C.7.6, C.9, F.6, D.27, adducendo

l'assenza di una sua qualsiasi carica formale e sostanziale nelle società cui si

riferiscono tali capi di imputazione: carica mai assunta o, comunque, dismessa

nel marzo 2003. Denuncia contraddittorietà della sentenza sul punto concernente

l'ampiezza cronologica del ruolo gestionale da lui assunto, con specifico

riferimento alle società S.a.t.a. s.r.l. e Parmalat Finanziaria s.p.a., nonché alle

riunioni di budget cui ebbe a partecipare; deduce vizi motivazionali, per

travisamento delle prove, in ordine alla responsabilità per fatti verificatisi dopo le

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sue dimissioni, risalenti al 26 marzo 2003. Sottolinea di non aver mai fatto parte

del consiglio di amministrazione della società Wishaw Trading, cui si riferiscono

le imputazioni di cui ai capi C.9 ed F.6. Osserva che la Corte d'Appello è incorsa

in confusione fra le promissary notes, che sono titoli di credito, e le Ri.Ba., che

sono mandati all'incasso.

7.2. Col secondo motivo impugna la condanna per i reati di cui ai capi A, B e

C. Lamenta che si sia ritenuta - in via alternativa - la sua responsabilità per

condotte di tipo omissivo, o quanto meno a titolo di concorso morale, sebbene

l'imputazione facesse esclusivamente riferimento ad un concorso materiale di

tipo commissivo.

Si duole che non si sia tenuto conto del dissenso da lui manifestato in più

occasioni, con riferimento a talune operazioni dolose ascrittegli, nonché della sua

estraneità ai fatti di reato verificatisi dopo il 26 marzo 2003. Quanto al primo

punto, sottolinea che la sua partecipazione ha riguardato soltanto acquisizioni

rivelatesi proficue, che dettagliatamente descrive nel ricorso: donde l'ingiustizia

della generalizzazione operata dal giudice di merito, nell'attribuirgli

sommariamente la corresponsabilità per la politica di internazionalizzazione; su

tale argomento, sottoposto alla disamina della Corte d'Appello, lamenta omessa

motivazione. Quanto al secondo punto, incentra la propria critica sulla mancata

considerazione delle ragioni che lo avevano indotto alle dimissioni e sulla

valutazione dei dati probatori, che assume essere stata incompleta.

Osserva, ancora, il ricorrente che l'avere la Corte d'Appello acceduto a una

qualificazione della condotta in chiave omissiva, alternativamente a quella

contestata, non soltanto ha menomato il diritto alla difesa, ma si è anche

tradotto in violazione degli artt. 40 e 110 cod. pen.. Insiste, per gli illeciti

posteriori al marzo 2003, sulla propria assenza formale e fisica da ogni consiglio

di amministrazione e sulla conseguente astensione da atti gestori: il che,

osserva, ha precluso qualsiasi conoscenza, o anche solo conoscibilità, dei fatti di

reato.

Contrasta l'affermazione della Corte di merito secondo cui, in tema di

bancarotta fraudolenta patrimoniale o documentale, l'elemento soggettivo

dell'extraneus nel reato commesso da altri non deve coprire il dissesto della

società; in proposito si richiama a un arresto giurisprudenziale di questa stessa

sezione (n. 47502 del 24.9.2012, Corvetta), secondo la quale dovrebbe

accertarsi sia il nesso causale fra la condotta e la dichiarazione di fallimento, sia

l'aspetto volitivo del dolo.

7.3. Col terzo motivo il ricorrente torna sull'argomento inerente alla

riqualificazione della condotta come omissiva, ovvero a titolo di concorso morale,

per denunciare l'inosservanza del principio di correlazione fra contestazione e

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condanna. Sottolinea la diversità del fatto concretatosi in un'omissione, piuttosto

che in una condotta attiva; lamenta la conseguente compromissione del diritto

alla difesa.

7.4. Col quarto motivo, riferendosi alle imputazioni di cui ai capi C.3, E.2.2.

e C.4, il Tonna lamenta carenza motivazionale per omessa confutazione dei

motivi di appello, con i quali aveva dedotto: quanto ai capi C.3 ed E.2.2, inerenti

all'aumento di capitale di Par.fin del 1996 e alla correlata distrazione, l'assenza

di un proprio apporto materiale nell'operazione, non bastando a tal fine l'incarico

ad alto livello manageriale da lui ricoperto; nonché l'errata ricostruzione

dell'operazione da parte del Tribunale, ingiustificatamente minimizzata dalla

Corte d'Appello; quanto al capo C.4, riguardante il finanziamento «eurolire» da

parte della Citibank e della Banca di Roma, le ragioni di appetibilità

dell'operazione, a motivo della non imponibilità fiscale nel Granducato di

Lussemburgo.

7.5. Col quinto motivo, riferendosi alle imputazioni di cui ai capi C.5, C.7.2,

D.35, E.3, F.11.2, riassumibili nell'espressione «operazioni di Bank of America»,

il Tonna denuncia la sommarietà della motivazione; censura per contraddittorietà

l'affermazione di responsabilità per il bonifico effettuato da Luciano Del Soldato,

pur nella riconosciuta posteriorità rispetto alle dimissioni del deducente; e per

illogicità la condanna per dazioni di denaro a favore di Luca Sala, sul fallace

presupposto che la prova sia contenuta negli interrogatori resi dallo stesso

Tonna. Definisce, per il resto, scarne, contraddittorie e illogiche le

argomentazioni poste a sostegno dell'affermazione di colpevolezza.

7.6. Col sesto motivo, impugnando la condanna per i reati di cui ai capi C.6,

C.6.1, C.6.2, C.6.3, C.6.3.1, C.6.3.2, C.6.3.3, C.7.1, C.7.3 e C.7.6, il ricorrente

rimprovera alla Corte d'Appello di aver considerato incontestata la ricostruzione

della vicenda riguardante la cosiddetta operazione CSFB, mentre in realtà nei

motivi di appello si era data una diversa versione dei fatti al fine di dimostrare la

convenienza dell'operazione, apparsa infruttuosa solo a motivo della sua

complessità.

7.7. Col settimo motivo, riferendosi alle imputazioni di cui ai capi C.8 e O,

riguardanti il cosiddetto «giro delle concessionarie», deduce assenza e illogicità

di motivazione in ordine al proprio contributo causale. Rievocate le

argomentazioni spese al riguardo nei motivi di appello e in una successiva

memoria, lamenta che con esse non si sia confrontata la Corte territoriale nel

motivare la conferma della condanna. Contesta di aver reso sull'argomento

dichiarazioni ammissive di propria responsabilità.

7.8. Analoghe doglianze sviluppa, con l'ottavo motivo, in ordine alle

imputazioni di cui ai capi C.8.3, D.31.1, C.9 ed F.6. Lamenta anche in questo

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caso che la Corte d'Appello abbia ignorato i motivi di censura avverso la

sentenza di primo grado, volti a evidenziare la carenza di prove in ordine ad un

suo contributo, materiale o morale, ai fatti oggetto di contestazione.

7.9. Col nono motivo impugna l'affermazione di sua colpevolezza per gli

illeciti distrattivi descritti ai capi d'imputazione D, E ed F. Nega di aver tratto

lucro dagli sconti Tetrapak, rilevando la mancanza di prova sul punto; denuncia

carenza di motivazione per omessa risposta ai motivi di appello, nonché illogicità

e contraddittorietà nelle parti in cui la sentenza impugnata valorizza, quali prove

della sua responsabilità, i ruoli dirigenziali da lui rivestiti nelle società del gruppo

e la collaborazione prestata alla guardia di finanza nella sua attività ispettiva.

Ribadisce le ragioni per cui deve escludersi la sua partecipazione alle distrazioni

in qualità di percettore, già esposte nei motivi di appello e di cui lamenta

l'omessa disamina da parte del collegio di secondo grado.

7.10. Col decimo motivo impugna la condanna pronunciata a suo carico per

le bancarotte delle società minori, contemplate ai capi d'imputazione P, R, S e T.

Contrasta quanto argomentato dalla Corte d'Appello in base alla testimonianza di

Biagio Bailo; lamenta non essersi considerato che le distrazioni ai danni della

Parmatour s.p.a. sono posteriori alle proprie dimissioni; richiama - dolendosi

dell'omessa disamina - le argomentazioni svolte nell'atto di appello a sostegno

della non conoscibilità delle distrazioni ai danni della S.a.t.a. s.r.I.; sostiene,

quanto ai capi R bis ed S bis, che, una volta esclusa la sussistenza dei fatti

ascritti alla lettera b), si sarebbe dovuti addivenire alla sua assoluzione, anziché

ritenere la contestazione alternativa a quella di cui alla lettera a). Ancora,

lamenta l'omessa confutazione dei motivi di appello dedotti a proposito della

bancarotta della società Agis s.p.a.; censura di illogicità e contraddittorietà la

motivazione in ordine al reato di cui al capo T, riguardante la bancarotta della

società Finaliment s.r.I., nella quale non ha rivestito alcuna carica sociale.

7.11. Con l'undicesimo motivo, riferendosi alle bancarotte patrimoniali ai

danni della Parmalat Capital Finance ltd, di cui ai capi F.2.3 ed F.2.4, il ricorrente

si richiama - lamentandone l'omessa disamina - alle ragioni esposte nei motivi

d'appello e nella successiva memoria difensiva, per negare che le distrazioni si

siano verificate e, comunque, che le relative somme siano entrate nel proprio

patrimonio. Censura per contraddittorietà il passaggio motivazionale in cui la

Corte territoriale sostiene che la sentenza della commissione tributaria di Parma,

acquisita nel giudizio di appello, non valga ad escludere la «destinazione

deviata» delle somme, sebbene proprio in tal senso deponga l'accertamento ivi (2)/ contenuto. Lamenta l'omessa disamina delle prove documentali prodotte a

sostegno dell'insussistenza delle condotte contestate: prove di cui ribadisce la

capacità dimostrativa, sottoponendo a separata trattazione i due capi

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d'imputazione in questione.

7.12. Col dodicesimo motivo denuncia violazione dell'art. 133 cod. pen. e

vizi di motivazione in ordine alla determinazione della pena, per essersi

determinata la pena base in misura prossima al massimo edittale alla stregua del

solo criterio del danno causato e trascurando, invece, le modalità dell'azione e

l'intensità del dolo. Lamenta, una volta di più, che la Corte d'Appello non abbia

tenuto in considerazione le ragioni illustrate dalla difesa. Osserva che, così

operando, si è dato luogo a un processo di «omogeneizzazione» di

responsabilità fra presidenza, direzione industriale-commerciale e direzione

finanziaria, senza neppure distinguere fra quanto avvenuto prima e dopo le

dimissioni del deducente.

7.13. Col tredicesimo motivo deduce contraddittorietà e manifesta illogicità

di motivazione in ordine al rigetto delle istanze di rinnovazione dell'istruzione

dibattimentale, avanzate allo scopo di stabilire le cause del dissesto; nonché

analoghi vizi in ordine alle questioni di nullità decise con ordinanza.

Ad illustrazione delle censure ripercorre in chiave critica la motivazione

addotta nell'ordinanza datata 10 gennaio 2012, denunciandone l'illogicità sia

nella parte in cui ha disatteso l'istanza di nomina di un perito, sia nella parte in

cui ha negato accesso all'audizione del consulente tecnico della difesa.

Analogo vizio ascrive al provvedimento assunto il 9 gennaio 2012, di rigetto

della questione di nullità dedotta con riferimento all'ordinanza del Tribunale

indicata come datata 27 maggio 2012 (ma la data è chiaramente errata),

reiettiva della richiesta di acquisizione delle procure rilasciate da Calisto Tanzi al

deducente; nonché della questione di nullità della sentenza di primo grado a

causa dell'immotivato rigetto della richiesta di «patteggiamento» ex art. 444 del

codice di rito.

7.14. Il quattordicesimo motivo si incentra nuovamente sul trattamento

sanzionatorio, ancora con riferimento alla pena base. Il ricorrente si duole che,

oltre ai criteri oggettivi, siano stati ignorati i criteri soggettivi compendiati nella

locuzione «capacità a delinquere»; fa seguire l'illustrazione delle ragioni addotte

a sostegno del corrispondente motivo di appello, che afferma non avere ottenuto

adeguata risposta dalla Corte di merito. Evidenzia, lamentandone la mancata

valorizzazione, la straordinarietà della collaborazione processuale da lui prestata:

di questa lamenta che si sia tenuto conto solo ai fini dell'applicazione delle

attenuanti generiche e non anche nella graduazione della pena.

7.15. Col quindicesimo motivo il Tonna denuncia violazione dell'art. 69 cod.

pen., con riferimento alla disposta applicazione dell'aumento di pena per

l'aggravante di cui all'art. 219, comma 2, della legge fallimentare,

nell'inosservanza dell'obbligo di inserire anche tale aggravante nel giudizio di

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bilanciamento con le attenuanti generiche.

7.16. Col sedicesimo motivo impugna la determinazione degli aumenti di

pena per continuazione, rimasti invariati rispetto alla sentenza di primo grado

sebbene la Corte d'Appello abbia mutato il giudizio di comparazione fra

circostanze, assegnando la prevalenza (in luogo della minusvalenza) alle

attenuanti generiche. In ciò il ricorrente ravvisa un duplice vizio: carenza di

motivazione in ordine al rigetto del motivo di gravame con cui si chiedeva una

moderazione degli aumenti in discorso; violazione di legge per essersi omessa la

riduzione di pena correlata al giudizio di prevalenza delle attenuanti.

7.17. Col diciassettesimo motivo denuncia inosservanza delle norme

processuali in tema di ammissibilità dell'impugnazione, con riferimento all'appello

del pubblico ministero, nonché errata applicazione dell'art. 69 cod. pen..

Sotto il primo profilo osserva che la stessa Corte d'Appello ha rimproverato

all'organo della pubblica accusa di avere impugnato indiscriminatamente tutte le

assoluzioni operate dal Tribunale con riferimento ai fatti di cui ai capi D.31, E.6,

E.7, F.11, senza addurre una specifica motivazione: sicché l'appello è stato

dichiarato inammissibile per genericità nei confronti degli imputati Barachini,

Barili, Bonici, Calogero, Fratta, Panizzi, Silingardi e Giovanni Tanzi; di contro lo

stesso appello è stato ritenuto ammissibile nei confronti del deducente Tonna e

di Calisto Tanzi, sebbene anche le posizioni di costoro fossero state trattate

«indiscriminatamente» insieme alle altre, senza che alcuna contestazione

specifica fosse stata mossa dal P.M. riguardo al preteso apporto del Tonna ai fatti

contestati.

Sotto il secondo profilo ribadisce l'illegittimità del disposto aumento per la

continuazione, in relazione ai reati investiti dall'appello del P.M., per le stesse

ragioni già esposte a corredo del quindicesimo motivo.

7.18. Il diciottesimo motivo riunisce tutte le ragioni di censura avverso le

statuizioni civili, la disposta confisca dei beni già sottoposti a sequestro,

convertito in sequestro conservativo, e la condanna alle spese processuali.

Nell'illustrazione della complessa censura il ricorrente rinnova, in primis,

l'eccezione riguardante la mancata indicazione e allegazione, ad opera delle parti

civili, degli elementi documentali da cui emergerebbe l'importo nominale del

valore delle obbligazioni contestate.

Di seguito impugna l'ordinanza in data 10 novembre 2011, reiettiva della

richiesta di sospensione del pagamento della provvisionale.

Impugna poi l'ordinanza datata 12 dicembre 2011 con la quale la Corte

d'Appello, in accoglimento dell'eccezione sollevata dalla difesa del coimputato

Calogero, ha dichiarato inammissibile soltanto nei confronti di costui - senza

estendere il provvedimento agli altri imputati - la costituzione delle parti civili

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Alvisi +45, Lavagnino + 47, Di Stefano +11, L. Cabrini, Ballarin+159, Beltrami

+115, Corvaia+12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza + 35, Allegri +73,

Pompini +38, Agresti + 55, Anceschi + 36.

7.19. Vi è agli atti una memoria difensiva depositata nell'interesse del

ricorrente, con illustrazione di due nuovi motivi.

Col primo di essi, articolato in due censure, il ricorrente ribadisce,

approfondendo ulteriormente il tema, l'eccezione di inosservanza della

correlazione fra contestazione e condanna, già sviluppata nel terzo motivo di

ricorso. La prima censura si incentra, adducendola ad esempio significativo,

sull'imputazione di cui al capo B.2.1.4, contestata come inserimento in bilancio di

debiti (preference shares) mascherati come patrimonio di pertinenza di terzi, e

invece valutata nella sentenza come «anomalia omissiva». La seconda censura

prospetta una violazione dell'art. 2423-bis cod. civ., osservando che le

preference shares sono state correttamente poste in bilancio come patrimonio

netto di terzi, trattandosi di azioni perpetue per le quali non era previsto un

obbligo certo di riacquisto per la società, ma soltanto una facoltà concessa al

possessore.

Il secondo motivo nuovo ripropone il tema inerente alla violazione dell'art.

133 cod. pen. sotto il profilo del criterio soggettivo, già trattato nel

quattordicesimo motivo di ricorso e qui ulteriormente approfondito con

riferimento alla collaborazione prestata agli inquirenti e alla possibilità di una sua

doppia valutazione: sia ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche, sia

nella concreta modulazione della pena.

8. Giovanni Tanzi. E' stato consigliere della Parmalat Finanziaria s.p.a. dal

30 ottobre 1990 al 15 dicembre 2003; componente del comitato esecutivo della

stessa società dal 15 maggio 1992 al 15 dicembre 2003; vicepresidente del

consiglio di amministrazione di Parmalat Spa da prima del 1989 al 23 dicembre

2003; direttore generale di Parmalat Spa dal 29 aprile 1992 al 16 dicembre

2003; Managing Director di Carital Food Distributors dal 12 ottobre 1993 al 25

ottobre 1994, di Carital Food Distributors NV dal 31 ottobre al 28 novembre

1994, di Curcastle Corporation NV dal 30 agosto 1991 al 2 novembre 2001, di

Dairies Holding BV dal 20 maggio 1997 al 29 ottobre 2001, di Parmalat Finance

Corporation BV e di Parmalat Netherlands BV dal 27 aprile 1990 al 29 ottobre

2001; membro del consiglio di amministrazione di Eurolat dal 7 luglio 1999 al 20

gennaio 2004, di Parma AC Spa dal 19 luglio 1996 al 4 settembre 2000, di

Coloniale dal 28 febbraio 1992 al 16 gennaio 2004; presidente del consiglio di

amministrazione di Giglio Spa dal 29 ottobre 1993 al 5 settembre 2003; socio di

Agis Spa dal 29 dicembre 1992 al 7 aprile 2004 e di S.a.t.a. Srl dal 5 maggio

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1989 al 10 febbraio 2004; amministratore unico di Finaliment Sri dal 28 gennaio

1985 al 16 giugno 1993; amministratore di S.a.t.a. Sri dal 6 aprile 1987 al 26

marzo 1990.

Nel giudizio di merito ha riportato condanna per i seguenti reati:

associazione per delinquere in posizione verticistica (capo A); bancarotta

impropria da reati societari (capo B); bancarotta impropria per operazioni dolose

(capo C); bancarotta fraudolenta patrimoniale, in relazione all'insolvenza della

società Parmalat s.p.a. e al fallimento della Cosa! s.r.l. (Capo D); bancarotta

fraudolenta patrimoniale in relazione all'insolvenza della Parmalat Finance

Corporation BV (capo E) e della Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo F); bancarotta

fraudolenta documentale in relazione all'insolvenza della Parmalat s.p.a. (capo

L1) e della Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo L2); bancarotta fraudolenta

patrimoniale in relazione all'insolvenza della Coloniale s.p.a. (capo P); bancarotta

fraudolenta impropria da reati societari in relazione all'insolvenza della Coloniale

s.p.a. (capo Q); bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in relazione

al fallimento della S.a.t.a. s.r.l. (capo R); bancarotta fraudolenta patrimoniale e

documentale in relazione al fallimento della società Agis s.r.l. (capo S).

Ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del difensore, affidandolo

a due motivi.

8.1. Col primo motivo il ricorrente impugna l'ordinanza in data 9 gennaio

2012 con la quale la Corte d'Appello ha respinto le eccezioni di nullità dell'avviso

di conclusione delle indagini preliminari e del decreto di citazione a giudizio,

sollevate dall'imputato per essere stata negata al suo difensore la possibilità di

prendere visione degli atti contenuti nel fascicolo del P.M., nonché per omessa

traduzione dei documenti in lingua straniera.

Sotto il primo profilo sostiene che, se è pur vero che al difensore è stata

consegnata una copia informatica degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico

ministero, ciò tuttavia non ha soddisfatto l'esigenza di prendere visione degli atti

in formato cartaceo, anche al fine di verificare la completezza delle copie in

formato digitale.

Sotto il secondo profilo invoca l'applicazione dell'art. 143 cod. proc. pen.,

rilevando che i verbali di perquisizione e sequestro redatti all'estero, così come i

documenti acquisiti a seguito di rogatoria internazionale, devono considerarsi atti

compiuti nel procedimento penale, per cui ne è obbligatoria la traduzione nella

lingua italiana.

8.2. Il secondo motivo è articolato in due censure. Con la prima di esse il

ricorrente deduce l'erroneità della qualificazione giuridica che ha indotto i giudici

di merito a ricondurre i fatti accertati entro l'alveo della bancarotta fraudolenta,

mentre doveva ritenersi configurabile la bancarotta semplice, alla stregua della

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effettività dei ruoli e delle funzioni da lui esercitate. Lamenta che non siano stati

presi in considerazione gli elementi da lui addotti, col risultato che gli si è

attribuita una responsabilità ancora più grave di quella ritenuta dal Tribunale,

con una sostanziale violazione del divieto di reformatio in peius. Nella realtà,

afferma, egli è rimasto estraneo alla conduzione delle società, sebbene abbia

assunto formalmente una posizione apicale a motivo del suo vincolo parentale

con Calisto Tanzi.

Con la seconda censura il ricorrente denuncia violazione di legge e vizi di

motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche, alla concreta

determinazione della pena e alla reiezione della richiesta di «patteggiamento».

9. Enrico Barachini. E' stato membro del consiglio di amministrazione della

Parmalat Finanziaria s.p.a. dal 30 ottobre 1989 al 30 dicembre 2003.

Nel giudizio di merito ha riportato condanna per i seguenti reati: bancarotta

impropria da reati societari, limitatamente alla dichiarazione di insolvenza di

Parmalat s.p.a. e di Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo B); bancarotta impropria

per operazioni dolose, consistite nei prestiti obbligazionari emessi da Parmalat

Finance Corporation BV nel 2003 (capo C.6.3); bancarotta fraudolenta

patrimoniale in relazione all'insolvenza di Parmalat Finanziaria s.p.a.,

limitatamente ai dividendi per euro 137.734.563 nel periodo 1990-2002 (capo

F.11.5); bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione all'insolvenza di

Parmalat s.p.a., sia per distrazione dei dividendi conferiti come aumento di

capitale da parte della Parmalat Finanziaria s.p.a., per la somma di euro

235.909.403 (capo D.34), sia per distrazione della somma di euro 1.239.600 a

favore della X Group s.r.I., in base a un simulato patto di non concorrenza (capo

D.16).

Il Barachini ha proposto ricorso per il tramite dei difensori, affidandolo a

quattro motivi.

9.1. Col primo motivo espone, a titolo di premessa, di non aver ricoperto

altra carica nel gruppo Parmalat, se non quella di amministratore non esecutivo

nella Parmalat Finanziaria s.p.a.. Sottolinea di essere stato assolto, già in primo

grado, dall'imputazione di associazione per delinquere e da altre imputazioni di

bancarotta distrattiva, perché ignaro degli illeciti perpetrati da altri fino al 2002;

queste statuizioni, osserva, sono coperte dal giudicato, così come l'assoluzione

da tutte le accuse di aggiotaggio, ostacolo alle funzioni di vigilanza e false

comunicazioni sociali pronunciata nei suoi confronti nel processo parallelamente

svoltosi a Milano.

9.2. Col secondo motivo deduce erronea applicazione dell'art. 40 cod. pen. e

degli artt. 2381 e 2392 del codice civile, con riferimento alla responsabilità

18

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dell'amministratore non esecutivo. Si richiama a quanto statuito in proposito da

questa stessa sezione nella sentenza Bipop-Carire (n. 23838 del 4/7/2007);

evidenzia i limiti dell'obbligo di agire informato in una situazione nella quale

l'associazione per delinquere - all'insaputa del Barachiní - si estendeva agli

organi di controllo, quali il collegio sindacale e le società di revisione; osserva

che l'obbligo di attestare la veridicità dei dati contabili è attribuito dalla legge agli

organi amministrativi delegati, in ciò richiamandosi anche all'art. 154-bis,

comma 5, del testo unico della finanza (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), come

modificato dall'art. 15 d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 303: ne induce il conseguente

ridimensionamento della posizione di garanzia dell'amministratore senza

deleghe. Quanto alla condotta omissiva ascrittagli, sostiene di non essere stato

in grado di scoprire, né di impedire i falsi; assume non essere chiaro che cosa si

intenda dire nella sentenza impugnata, là dove si prospetta come doverosa una

«azione di pubblico dissenso» e una richiesta di chiarimenti «pubblicamente

formulata». Rimprovera alla Corte d'Appello di essere incorsa in travisamento del

fatto, nell'affermare che egli interveniva soltanto per segnalare la propria

vicinanza al presidente, senza chiedere chiarimenti sulle dimissioni di Tonna,

sull'acquisto di obbligazioni per somme spropositate, sulle divergenze dei dati di

bilancio da quelli risultanti da Bloomberg e dalla Centrale Rischi: osserva in

proposito che, nel motivo 18 dell'atto di appello, si erano fornite spiegazioni

rimaste senza confutazione nella sentenza di secondo grado. Al riguardo

menziona il verbale del consiglio di amministrazione in data 28 gennaio 2003,

dal quale assume emergere un proprio atteggiamento ben diverso da quello

descritto dalla Corte di merito.

Analoghe considerazioni svolge in ordine alla possibilità, per gli

amministratori non esecutivi, di accertare la veridicità dei dati trasmessi dalle

società controllate ai fini della formazione del bilancio consolidato; osserva che,

secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, sussiste responsabilità solo

in caso di conoscenza della falsità, la quale deve essere provata in concreto.

9.3. Col terzo motivo il ricorrente denuncia erronea applicazione dell'art. 43

cod. pen. e carenza motivazionale sul dolo. Contrasta l'affermazione della Corte

d'Appello secondo cui il fallimento non è evento del reato di bancarotta; si

richiama alla sentenza di questa sezione n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta,

secondo la quale il dissesto deve essere voluto. Lamenta che, in tema di dolo

eventuale, la Corte abbia omesso di tener conto della distinzione fra conoscenza

e conoscibilità. Rileva che occorre la precisa conoscenza di fatti illeciti o la

percezione di segnali d'allarme: questi nella specie sono mancati perché gli

organi di controllo hanno coperto e supportato i falsi.

Sostiene, del resto, non essere vero che ci fossero i segnali d'allarme: la

19 A,

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Corte, a suo avviso, ha conferito una patente di attendibilità alle dichiarazioni

rese dal Tonna, che invece non la meritavano.

Segue, nel ricorso, una diffusa disamina in chiave critica degli allarmi di

natura societaria, e di quelli che la Corte ha ritenuto specificamente percepiti

dallo stesso Barachini.

9.4. Col quarto motivo il ricorrente eccepisce l'inosservanza dell'art. 649

cod. proc. pen., in relazione al giudicato che lo ha assolto dalle contestazioni di

aggiotaggio, ostacolo alle funzioni di vigilanza e fraudolenta certificazione dei

bilanci, con la formula «perché il fatto non costituisce reato».

10. Giovanni Bonici. È stato amministratore finanziario, e in seguito,

presidente della Indulac e di tutte le società del gruppo Parmalat presenti in

Venezuela; dal 27 dicembre 2001 direttore generale della Bonlat e membro del

consiglio di amministrazione; amministratore delegato della stessa società dal 6

maggio 2003.

Ha subito condanna per i seguenti reati: bancarotta impropria da reati

societari, limitatamente all'insolvenza di Parmalat s.p.a. e di Parmalat finanziaria

s.p.a. (capo B); bancarotta fraudolenta documentale in relazione all'insolvenza

della Parmalat s.p.a. (capo L1) e della Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo L2).

Il ricorso da lui proposto si articola in tre motivi.

10.1. Col primo motivo il ricorrente denuncia errata interpretazione dell'art.

2392 cod. civ., rilevando che la nuova formulazione di esso ha ridimensionato la

responsabilità degli amministratori non esecutivi. Rievoca la pronuncia del

Tribunale di Milano che, nel processo ivi svoltosi, lo ha assolto riconoscendo la

sua inconsapevolezza del ruolo di «discarica» che, di fatto, i vertici del gruppo

avevano assegnato alla società Bonlat. Si richiama - come già la Corte d'Appello

- ai principi affermati da questa Corte Suprema nella sentenza n. 23838/2007

(Bipop-Carire), in tema di responsabilità degli amministratori non esecutivi; al

riguardo sostiene di avere assunto nel consiglio di amministrazione un ruolo non

dissimile da quello di una comparsa; si richiama alle dichiarazioni rese dal Tonna,

secondo cui egli era stato chiamato nel consiglio di amministrazione al solo scopo

di «riempire una casella». Insiste sulla differenza fra «conoscenza» e

«conoscibilità» dell'evento che si deve impedire. Nega che l'inadempimento ai

doveri di diligente vigilanza, a lui eventualmente imputabile, possa essere

considerato indizio del dolo, di cui nega la sussistenza.

10.2. Col secondo motivo deduce carenza di motivazione per omessa

valutazione delle argomentazioni svolte dalla difesa, che assume supportate da

documenti e conclusioni oggettive. Propone la rilettura delle risultanze istruttorie

acquisite sia nel presente giudizio, sia in quello svoltosi a Milano; si richiama,

d

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nello specifico, alla relazione redatta dal consulente tecnico del P.M., Prof. Galea,

alle dichiarazioni rese dal Tonna anche in sede di controesame, al proprio

interrogatorio davanti al Gip e alle produzioni documentali, riproducendo nel

ricorso svariati passi dei verbali contenenti le dichiarazioni rese dai diversi

soggetti coinvolti. Adduce a propria discolpa i risultati positivi della gestione del

gruppo Parmalat in Venezuela, riconosciuti anche dalla sentenza pronunciata

dalla Corte d'Appello di Milano nel processo ivi svoltosi per i reati finanziari e per

aggiotaggio. Sottopone a dettagliata critica alcuni passaggi argomentativi della

sentenza impugnata, lamentando che la Corte Bolognese abbia dato alle

risultanze istruttorie un'interpretazione distorta.

10.3. Col terzo motivo il ricorrente deduce l'inosservanza del principio del

ragionevole dubbio, codificato nell'art. 533, comma 1, del codice di rito,

richiamandosi alla giurisprudenza formatasi in argomento.

11. Rosario Lucio Calogero. E' stato revisore contabile, partner della società

Hodgson Landau Brands, incaricata della revisione della Parmalat s.p.a. e,

successivamente anche della Parmalat Finanziaria s.p.a. e di altre società del

gruppo; membro del consiglio di amministrazione di Agrider Spa dal 4 novembre

1994 al 16 gennaio 1995, di Aranca Industria Sri dal 1 agosto 1995 al 28

gennaio 1998, di Ci.Pro Sicilia Srl dal 20 dicembre 1994 al 2 dicembre 1995, di

Curcastle Corporation NV dal 1994 in poi, di Sido s.r.l. dal 4 novembre 1994 al 1

agosto 1995; managing director di Carital Food Distributor NV dal 30 ottobre

1994 e di Tissington Corporation NV dal luglio 1997; vicepresidente e presidente

del consiglio di amministrazione di Agrider Spa dal 16 gennaio 1995 al 28

maggio 1998, di Aranca Prodotti Spa dal 25 gennaio 1995 al 28 gennaio 1998, di

Aranca Spa in liquidazione dal 7 giugno 1994 al 27 novembre 2000, di C.B.S.

concentrati bevibili Sicilia Srl dal 1 agosto 1995 al 28 gennaio 1998, di Ci.Pro

Sicilia Srl dal 2 dicembre 1995 al 9 dicembre 1999, di Sido Srl dal 1 agosto 1995

al 7 novembre 1997; liquidatore e amministratore unico di Aranca Spa dal 27

novembre 2000 al 15 settembre 2003 e di Ci.Pro Sicilia Srl dal 10 dicembre

1999.

E' stato condannato per i seguenti reati: bancarotta impropria da reati

societari (capo B); bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione all'insolvenza

della Parmalat s.p.a., per distrazione di somme in favore di società appartenenti

al gruppo AFIM (capo D.14); bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione

all'insolvenza della Parmalat Finance Corporation BV, per distrazione della

somma di 20 miliardi di lire in favore della società Des Alpes s.r.l. (capo E.1.2);

bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione all'insolvenza della Emmegi

Agroindustriale s.r.l. (capo 3); bancarotta fraudolenta documentale in relazione

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all'insolvenza della Parmalat s.p.a. (capo L1) e della Parmalat Finanziaria s.p.a.

(capo L2).

Il Calogero ha proposto ricorso per il tramite del difensore, affidandolo a sei

motivi.

11.1. Il primo motivo investe la condanna per i reati di cui ai capi B, Li e L2.

Osserva il ricorrente che, per quanto inerisce alla formazione del bilancio

consolidato, la responsabilità ricade esclusivamente sugli amministratori della

società controllante: la quale, nel caso specifico, si identifica nella Parmalat

s.p.a., dato che il consolidato faceva capo ad essa per tutte le società del

gruppo. Conseguentemente, non avendo egli ricoperto alcuna carica di

amministratore, né di sindaco, nella predetta società né nella Par.Fin s.p.a., e

neppure avendo svolto per esse incarichi di revisore o di consulente dopo il

1993, non doveva essergli addebitata alcuna responsabilità in ordine al bilancio

consolidato.

Relativamente alla responsabilità facente capo agli amministratori privi di

delega, sottolinea che per costoro si richiede: la conoscenza, e non la semplice

conoscibilità, della natura illecita delle operazioni compiute; il mancato esercizio

dei poteri ad essi riconosciuti dalla legge; il nesso di causalità fra l'omissione e

l'evento dannoso; l'elemento psicologico del reato, che deve consistere nel dolo.

In ordine alla conoscenza degli illeciti, nega che i segnali d'allarme enucleati

dalla Corte di merito abbiano avuto la valenza significativa ad essi attribuita;

osserva, al riguardo, che non è sufficiente riportarsi alla concreta percepibilità

delle descritte palesi anomalie della gestione economico-finanziaria della holding,

in quanto l'esistenza di una ben organizzata e ramificata "cabina di regia" e di

una serie di collusioni certificative difficilmente immaginabili, potevano

acquietare gli scrupoli di coloro che avessero, ancorché in minima parte, cercato

di svolgere la propria funzione di garante.

Quanto alla propria posizione personale, il Calogero definisce priva di

fondamento l'affermazione che egli conoscesse le problematiche proprie del

turismo: circostanza, questa, non soltanto priva di riscontro probatorio, ma

neppure ipotizzata dalla Procura della Repubblica; nega di essere stato

liquidatore della società Rushmore, come invece è stato affermato nella

sentenza. In ordine alle società satelliti osserva: che la Camfield è stata

cancellata d'ufficio perché non ha mai operato; che la Tissington non è mai stata

operativa; che, quanto alla Carital Food, egli è stato assolto dall'imputazione

riguardante gli sconti Tetrapak.

Il ricorrente lamenta, ancora, che la Corte territoriale abbia negato

immotivatamente attendibilità alle dichiarazioni scagionanti rese dal coimputato

Claudio Pessina, mentre ha dato credito a quelle accusatorie del Tonna; senza,

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tuttavia, considerare che costui aveva ammesso di non aver mai parlato col

Calogero delle problematiche inerenti alla collocazione in bilancio di crediti fittizi,

e di ritenere che egli avesse appreso le relative informazioni dal Pessina.

Lamenta che il giudice di secondo grado abbia omesso di motivare in

risposta alle deduzioni svolte nei motivi di appello; in particolare evidenzia di

aver ivi spiegato come la società Curcastle non fosse una «discarica» cioè una

società destinata a rendersi cessionaria di crediti fittizi o inesigibili: mentre lo era

la Bonlat, che era una creatura del Tonna.

Altre argomentazioni sono spese nel ricorso per far notare che il fiscalista,

ricevendo e utilizzando i dati contabili così come fornitigli dal cliente o dal suo

commercialista, non può essere chiamato a rispondere degli illeciti connessi alla

loro elaborazione.

Si duole, altresì, il ricorrente che nella sentenza impugnata manchi qualsiasi

motivazione in ordine al dolo generico.

11.2. Il secondo motivo si traduce nella riproposizione dell'eccezione di

indeterminatezza dell'imputazione, relativamente al capo 3: eccezione che il

ricorrente segnala di aver puntualmente formulato nel giudizio di appello, senza

tuttavia ottenere adeguata risposta. Osserva, in proposito, che nella descrizione

del fatto di reato risultano specificamente individuate le condotte dei coimputati,

mentre non vi è alcun cenno alla condotta ascritta al deducente; né la lacuna

può dirsi colmata attraverso il rinvio - ivi fatto - all'imputazione di cui al capo

D.14, dato che in esso nulla si aggiunge al fine di determinare la condotta

imputatagli.

11.3. Ancora ai capi D.14 e 3 si riferiscono le censure che informano il terzo

motivo. Con esso il ricorrente deduce violazione dei criteri di valutazione delle

prove e vizi di motivazione per omessa considerazione delle tesi difensive e delle

risultanze probatorie; violazione dell'art. 42 cod. pen., per essersi pronunciata la

condanna in assenza di prove circa l'elemento psicologico del reato; violazione

del principio del ragionevole dubbio, codificato nell'art. 530 del codice di rito, in

relazione all'art. 111 della Costituzione.

Ad illustrazione del motivo il Calogero sostiene che lo scopo dell'acquisizione

del gruppo di società calabresi e siciliane facente capo alla AFIM s.p.a. non era

stato quello di rottamare forzatamente delle aziende decotte, bensì di creare un

polo agroalimentare che fosse in grado di autogestire l'intera filiera dalla

raccolta, alla produzione, alla distribuzione del succo di agrumi. L'operazione così

realizzatasi, osserva, è stata il frutto di una scelta imprenditoriale, realizzata in

modo diverso da quello che la Corte ha creduto di potervi ravvisare: non c'è

stato accollo dei debiti, ma acquisto dei crediti delle banche per un corrispettivo

pari al 40% del loro valore.

23

A

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Il ricorrente protesta di essere sempre rimasto estraneo alla Afim e di non

avere mai firmato alcun documento per conto di tale società.

Contesta che le fatture intercorse fra il gruppo Aranca e la Parmalat fossero

false: la merce, sostiene, era pronta per la consegna, ma la Parmalat "faceva il

pesce in barile", denunciando vizi del prodotto prima ancora di vederlo. Di tutto

ciò afferma di aver dato conto alla Corte d'Appello, la quale non ha fornito alcuna

risposta, essendosi limitata a far prevalere le proprie intuizioni sui dati oggettivi.

Lamenta, conclusivamente, il Calogero di essere stato indicato come

responsabile solo perché presidente del consiglio d'amministrazione del gruppo

Aranca; ma in realtà - così afferma - ha solo cercato di risanare l'azienda: non

ha mai assunto cariche in Emmegi Agro-Alimentare s.r.I.; non ha chiesto

finanziamenti alla Parmalat, ma ha solo trovato quelli fatti in precedenza,

essendo diventato amministratore nel 1994.

11.4. Col quarto motivo il ricorrente svolge analogamente censure di

violazione di legge e vizi motivazionali con riferimento all'imputazione di cui al

capo E.1.2, riguardante la vicenda dell'acquisto del marchio Des Alpes.

Pur astenendosi dal ribadire in questa sede, per rispetto dei limiti del

giudizio di legittimità, la linea difensiva basata sull'assunto che la sua firma

apposta al contratto intercorso fra le società Zilpa Corporation e Dairies Holding

International, sebbene autentica, vi fosse stata applicata con un «copia e

incolla», osserva comunque il Calogero che quel documento è posteriore alla

stipulazione dell'accordo, realizzatasi già nel marzo del 2000 e cioè in epoca

anteriore al proprio avvento nel consiglio di amministrazione della Dairies

Holding. Contrasta l'affermazione della Corte d'Appello secondo cui egli non

sarebbe stato totalmente estraneo alla società in epoca precedente, stante la

qualità da lui rivestita di membro del consiglio di amministrazione della società

controllante.

11.5. Col quinto motivo il ricorrente lamenta l'eccessività della pena

irrogatagli; critica il giudizio di bilanciamento fra circostanze, attestatosi

sull'equivalenza anziché sulla prevalenza delle attenuanti generiche; chiede

l'applicazione dell'indulto, in presenza dei relativi presupposti.

11.6. Col sesto motivo, indirizzato ad impugnare le statuizioni civili, il

Calogero ripropone l'eccezione volta a far valere la mancanza di prova del

possesso, da parte dei creditori costituitisi parti civili, dei titoli sui quali essi

intendono fondare l'istanza risarcitoria; rinnova, altresì, l'eccezione di

inammissibilità della costituzione di parte civile per i creditori delle procedure

concorsuali, in presenza della costituzione del commissario straordinario; in

proposito si richiama all'art. 240 della legge fallimentare; reitera, infine,

l'eccezione di inammissibilità della costituzione di tutte le parti civili per

24 /

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violazione dell'art. 78, lett. d), del codice di rito, stante l'omessa indicazione

delle ragioni che giustificano la domanda nei confronti del deducente.

11.7. Vi è agli atti una memoria difensiva, depositata nell'interesse del

ricorrente, recanti motivi nuovi costituenti una riedizione dei motivi 1 e 3 del

ricorso.

12. Sergio Piero Franco Erede. E' stato amministratore non esecutivo della

società Parmalat Finanziaria s.p.a dal 30 ottobre 1990 al 30 aprile 2001.

Originariamente imputato per i reati di cui ai capi B, C, D, E, F, L ed M, è

stato riconosciuto responsabile del reato di cui all'art. 224 n. 2 legge fall., così

riqualificate le condotte, limitatamente ai fatti riguardanti la Parmalat Finanziaria

s.p.a. anteriori al 30 aprile 2001.

Condannato alla pena di legge, avendo rinunciato alla prescrizione frattanto

maturata, ricorre per cassazione per il tramite dei difensori.

Ad una premessa, nella quale lamenta che il prestigio professionale

riconosciutogli abbia comportato la pretesa di uno standard di diligenza superiore

al normale e denuncia violazione del principio del ragionevole dubbio, segue nel

ricorso l'esposizione degli otto motivi posti a sostegno della richiesta di

annullamento.

12.1. Col primo motivo, rilevando che l'apparente derubricazione ha

costituito, in realtà, un'immutazione del fatto contestatogli, il ricorrente deduce

l'inosservanza del principio di correlazione fra accusa e sentenza, di cui all'art.

521 cod. proc. pen.. Osserva, in proposito, che la norma incriminatrice

applicatagli ha un contenuto descrittivo diverso, rispetto a quella originariamente

ascrittagli, non coincidendo la nozione di dissesto con quella di fallimento.

Sostiene di non essere stato in grado di difendersi adeguatamente dal nuovo

addebito, emerso soltanto in sede di discussione e non formalizzatosi in una

modifica dell'imputazione, per cui è stato costretto a sviluppare una nuova

difesa, inevitabilmente priva di substrato probatorio, in relazione al rimprovero

colposo formulato ex novo. In ordine a tali doglianze deduce carenza di

motivazione nella sentenza di secondo grado, nella quale ravvisa oltretutto una

contraddittorietà, là dove si riconosce che la diversità del titolo di reato richiede

una modifica delle statuizioni civili nei confronti del deducente.

12.2. Il secondo motivo investe il tema riguardante l'individuazione dei

poteri - e delle connesse responsabilità - dell'amministratore non esecutivo.

Sostiene l'Erede che nessuna inosservanza dell'art. 2392 cod. civ. possa essergli

addebitata per omessa verbalizzazione del proprio dissenso, quando egli sia

stato assente dalle riunioni del consiglio di amministrazione della Par.Fin s.p.a.:

giacché l'annotazione del dissenso richiede la presenza. Quanto all'omesso

25

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esercizio della facoltà di impugnazione delle delibere ritenute illegittime, rileva

che tale possibilità è stata introdotta nell'art. 2388 cod. civ. soltanto con la

novella del 2003, non applicabile retroattivamente.

Ristretta, così, al parametro dell'«agire informati» la portata dell'obbligo

giuridico facentegli capo quale amministratore privo di deleghe, ne evidenzia il

diverso modo di atteggiarsi nei confronti delle vicende gestorie delle società

controllate, rimarcando che tale era la Parmalat s.p.a. nei confronti della Par.Fin;

deduce l'inapplicabilità - perché riguardante un reato doloso e riferito a soggetti

dotati di rilevanti poteri gestori - del principio affermato nella sentenza c.d.

«Romiti» (Sez. 5, n. 191 del 19/10/2000 - dep. 10/01/2001, Mattioli, Rv.

218073), che estende all'amministratore della società controllante la

responsabilità per il falso nel bilancio consolidato dipendente da false

comunicazioni della società controllata; rileva essere gli amministratori della

controllata i garanti della veridicità dell'informazione trasmessa: come del resto

ammesso, non senza contraddittorietà, nella stessa sentenza impugnata.

Osserva che la holding è investita delle «strategie globali» del gruppo, non certo

della gestione diretta delle singole controllate: essendo, fra l'altro, inesigibile un

controllo su tutto, all'interno di una multinazionale attiva in molteplici settori.

Un ulteriore argomento difensivo il ricorrente trae dalla disposizione dell'art.

2381, comma 5, cod. civ., che obbliga gli amministratori delegati a riferire al

consiglio di amministrazione: dovendosene trarre, a suo avviso, l'inesistenza di

un obbligo degli amministratori privi di deleghe ad acquisire informazioni, con la

conseguenza per cui ritenere che costoro rivestano una posizione di garanzia

darebbe luogo a una inammissibile forma di responsabilità oggettiva.

Denuncia errata interpretazione dell'art. 2392, comma 2, cod. civ., con la

quale la Corte d'Appello fa rivivere l'obbligo di vigilanza sul generale andamento

della gestione, che invece è stato rimosso dalla novella del 2003.

Conclusivamente denuncia carenza motivazionale sul tema in questione.

12.3. Col terzo motivo il ricorrente rimprovera alla Corte d'Appello di avere

snaturato la disposizione incriminatrice di cui all'art. 224, n. 2), I. fall.,

trattandola come un reato a forma libera e ravvisandovi una variante colposa

della bancarotta impropria per operazioni dolose causatrici del fallimento;

osserva trattarsi, di contro, di un reato a forma vincolata in quanto, ad integrare

la fattispecie incriminata, si richiede l'inosservanza degli obblighi imposti dalla

legge.

causale, rilevando che il suo accertamento richiede la risposta a un duplice

g/

Il ricorrente introduce poi la trattazione del requisito inerente al nesso

quesito: quale sarebbe stato il doveroso comportamento impeditivo e se la sua

omissione sia stata causa efficiente del dissesto. Sostiene che la risposta data

26 d/ ,

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dalla Corte d'Appello si pone in contrasto coi principi generali in tema di

causalità, non essendo condivisibile l'affermazione secondo cui, quand'anche non

fosse stato possibile impedire l'evento, se ne sarebbe potuta limitare l'entità;

osserva, al riguardo, che così argomentando il giudice di merito si è sottratto ad

una verifica controfattuale, invece necessaria in ipotesi di colpa; mentre, sotto

altro profilo, è mancata l'individuazione dell'obbligo giuridico di porre in essere la

condotta impeditiva: onde la possibilità di impedire o attenuare l'evento è

rimasta indimostrata.

Rileva, ancora, l'Erede che, una volta escluso il concorso con gli altri

imputati, ritenuti responsabili a titolo di dolo, il reato attribuitogli ha assunto una

valenza monosoggettiva, tant'è che è stata esclusa l'aggravante di cui all'art.

112 n. 1 cod. pen.; si sarebbe quindi dovuto, coerentemente, accertare

l'efficienza eziologica della condotta in sé, individualmente considerata.

12.4. Il quarto motivo approfondisce il tema inerente all'elemento soggettivo

del reato. Secondo il ricorrente la rilevanza dei segnali d'allarme è stata

erroneamente evocata nei propri confronti, in quanto funzionale a un addebito a

titolo di dolo. In ogni caso, la valorizzazione di tali segnali avrebbe richiesto che

ne fosse verificata l'attitudine a rendere prevedibile il dissesto.

Si osserva, ancora, nel ricorso che fra dolo e colpa non esiste una

progressione quantitativa, per cui non è possibile mutuare dall'uno elementi che

valgano per l'accertamento dell'altra. Nella struttura del reato ex art. 224, n. 2

della legge fallimentare l'addebito di colpa richiede che sussista la violazione di

obblighi imposti dalla legge, mentre la Corte d'Appello ha mosso soltanto un

rimprovero di colpa generica, ricondotta alla negligenza. Inoltre è mancato

l'accertamento della prevedibilità e dell'evitabilità dell'evento.

Di seguito il ricorrente analizza partitamente, per negarne l'efficacia

dimostrativa, i segnali d'allarme valorizzati nella sentenza di appello: l'elevato

livello di liquidità e indebitamento; l'aumento di capitale del comparto

sudamericano; lo swap Sumitomo. Lamenta che la Corte territoriale non abbia

verificato se egli avesse agito secondo il canone dell'agire informato e abbia

omesso di considerare che, all'epoca in cui era amministratore, il gruppo

Parmalat era in una fase di piena espansione, sicché nulla faceva presagire il

dissesto.

12.5. Col quinto motivo l'Erede denuncia mancanza, contraddittorietà e

manifesta illogicità di motivazione sotto un duplice profilo: sia per l'identità di

trattamento - riverberatasi anche sulla condanna solidale al risarcimento dei

danni - rispetto ai coimputati Fratta e Panizzi, anch'essi ritenuti responsabili a

titolo di colpa, ma per i quali ben più numerosi erano i segnali d'allarme; in

ordine a tali rilievi, già sollevati coi motivi di appello, il deducente lamenta

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carenza di motivazione.

12.6. Col sesto motivo impugna, per violazione dell'art. 133 cod. pen. e per

vizi di motivazione, la modulazione della pena e il diniego del beneficio della non

menzione della condanna.

12.7. Col settimo motivo denuncia, quale violazione di legge processuale, la

mancata applicazione dell'art. 587 cod. proc. pen., in relazione alla revoca delle

statuizioni civili disposta in favore soltanto del coimputato Calogero, conseguente

alla irrituale costituzione di oltre 1.500 parti civili, indicate in sentenza come:

Alvisi + 45, Lavagnino + 47, Di Stefano + 11, L. Cabrini, Ballarin + 159,

Beltrami + 115, Corvaia + 12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza + 35,

Allegri + 73, Pompini + 38, Agresti + 55, Anceschi + 36.

12.8. Con l'ottavo motivo deduce violazione di legge e illogicità della

motivazione per essersi attribuita la qualifica di provvisionale a quella che, in

realtà, era la liquidazione definitiva del danno patrimoniale in favore degli

azionisti e degli obbligazionisti costituitisi parti civili.

12.9. Agli atti vi è una memoria difensiva depositata nell'interesse del

ricorrente, nella quale, dopo una premessa riassuntiva delle ragioni di critica alla

sentenza impugnata, si traggono ulteriori argomenti difensivi dalla pronuncia

emessa da questa Corte Suprema nel giudizio inerente al cosiddetto «troncone

milanese» della vicenda Parmalat; vengono poi reiterate le censure mosse nel

ricorso in ordine alla valenza dei segnali d'allarme evidenziati dalla Corte di

merito.

13. Giuliano Panizzi. È stato consigliere non esecutivo di Parmalat s.p.a. dal

29 settembre 1991 al 24 dicembre 2003, membro del consiglio di

amministrazione di Giglio s.p.a. dal 29 ottobre 1993 al 5 febbraio 1997 e di Altair

Servizi Finanziari s.r.l. dal 2 febbraio 1990 al 2 gennaio 1994.

Nell'interesse dell'imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato

ai seguenti motivi.

13.1. Con il primo motivo, si lamentano vizi motivazionali e violazioni di

legge, in relazione alla ritenuta responsabilità dell'imputato per il reato di cui

all'art. 224, n. 2, I. fall.

Il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere specificato quali

fossero e quando si fossero concretizzati i presupposti dell'obbligo di attivarsi,

gravanti su di lui, né quale sarebbe stata l'incidenza causale di tali asseriti

inadempimenti rispetto all'aggravamento del dissesto.

In secondo luogo, con riferimento alla derubricazione del reato

originariamente contestato, di concorso in bancarotta fraudolenta mediante false

comunicazioni sociali, nel reato di cui all'art. 224, n. 2, I. fall., si sottolinea che la

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condotta per la quale era intervenuta condanna in primo grado concerneva

esclusivamente la predisposizione di progetti di bilancio relativi alla Parmalat

s.p.a., contenenti dati falsi con riguardo all'esercizio 2002, talché, in assenza di

impugnazione del P.M. rispetto ai restanti capi per cui era intervenuta

l'assoluzione, solo in relazione alla prima era possibile operare la riqualificazione

dei fatti.

In tale contesto, si osserva in ricorso che il concorso del Panizzi

nell'approvazione del bilancio di Parmalat s.p.a., in quanto non sorretta dalla

consapevolezza della sua falsità, non poteva far sorgere l'obbligo di impugnare la

delibera o di riferire all'autorità giudiziaria o di far annotare il proprio dissenso, a

norma dell'art. 2392 cod. civ. Né, del resto, la responsabilità dell'imputato era

stata fondata sulla mancata richiesta di fallimento di cui all'art. 217, comma

primo, n. 4, richiamato dal n. 1 e non dal n. 2 del successivo art. 224.

Quanto, infine, alla mancata richiesta di approfondimenti, a fronte dei

"segnali d'allarme" individuati dalla sentenza impugnata, si rileva: che due di tali

anomalie, ossia il rapporto fra liquidità e il debito nonché il riacquisto dei bond,

concernevano non Parmalat s.p.a., ma la holding Parmalat finanziaria, cui era

demandata la definizione della strategia finanziaria del gruppo; che, quanto alla

terza anomalia, ossia l'eccessività degli oneri finanziari gravanti su Parmalat

s.p.a., si trattava di tema controverso, come dimostrato dal fatto che gli imputati

e i loro consulenti avevano indicato metodologie diverse di calcolo, idonee a

ricondurre gli oneri in limiti fisiologici e che erano state apoditticamente disattese

dalla Corte territoriale.

In ogni caso, si aggiunge, anche una richiesta di approfondimenti non

avrebbe assunto alcuna concreta idoneità ad impedire l'evento, se si considera

che, attraverso il supporto di documentazione contabile falsificata e la

connivenza dei revisori, la "cabina di regia" della Parmalat era riuscita persino a

sottrarsi ai penetranti poteri ispettivi della Consob.

13.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali, in ordine alla

condanna al risarcimento del danno e alla provvisionale, nonché erronea

applicazione dell'art. 539 cod. proc. pen. e dell'art. 240 I. fall.

Oltre a rinviare alle critiche esposte nel primo motivo, il ricorrente rileva che

la possibilità di azionisti e obbligazionisti di costituirsi parte civile nel processo

penale, in presenza, come nella specie, della costituzione di parte civile del

commissario dell'amministrazione straordinaria, è limitata, dall'art. 240, comma

13.3. Con il terzo motivo, si lamenta l'erronea applicazione della disciplina in

materia di solidarietà nelle obbligazioni civilistiche, rilevando che gli imputati

secondo, I. fall., alle sole ipotesi di bancarotta fraudolenta.

Fanizzi, Fratta ed Erede, erano stati tutti ritenuti responsabili in relazione al

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reato di cui all'art. 224, n. 2, I. fall., ma non con riferimento a fatti diversi,

ciascuno produttivo di una frazione del danno complessivo.

13.4. Con il quarto motivo, si lamentano vizi motivazionali in ordine alla

quantificazione dell'importo della provvisionale.

14. Davide Fratta. È stato sindaco supplente di Par.fin. s.p.a. dal 29 giugno

1998 al 10 giugno 1999, sindaco effettivo di Parmalat s.p.a. da prima del 1989 al

24 dicembre 2003.

Nell'interesse dell'imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato

ai seguenti motivi.

14.1. Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali ed erronea

applicazione dell'art. 578 cod. proc. pen., rilevando che la norma da ultimo citata

consente la valutazione delle conseguenze civilistiche del fatto, solo quando il

reato esposto alla vicenda estintiva della prescrizione sia quello ritenuto

sussistente dal giudice di primo grado e non quando, in appello si operi, come

nella specie , una riqualificazione della condotta contestata.

14.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali e violazione

dell'art. 224 I. fall.

In primo luogo, il ricorrente sottolinea, alla luce del complesso sistema di

occultamento degli illeciti posti in essere dal gruppo di comando delle varie

società, l'assenza di prova di una immutazione del vero, operata dai sindaci

all'esito delle attività di loro competenza.

Con ulteriore articolazione del motivo, si ribadisce la dubbia applicabilità

delle raccomandazioni della Consob ai sindaci delle società non quotate e si

contesta l'applicabilità dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., ai sindaci,

aggiungendo che l'omissione dell'azione impeditiva, per assumere rilievo, deve

essere assistita dalla consapevolezza dell'evento nella sua portata illecita, quale

emergente da segnali perspicui e peculiari.

Da ultimo, si censura la motivazione per non avere dato conto della

rilevanza causale, rispetto al dissesto (o al suo aggravamento), dei ritenuti

colposi inadempimenti del ricorrente.

15. Mario Paolo Alfonso Mutti. È stato consigliere non esecutivo di Par.fin.

s.p.a. da prima della quotazione in Borsa sino al 29 giugno 1998, presidente del

consiglio di amministrazione e consigliere delegato in Afim s.p.a. dal 1992 al q/

2004 , presidente del consiglio di amministrazione di Aranca Spa dal 20 maggio

1993 al 7 giugno 1994.

Nell'interesse dell'imputato è stato proposto ricorso per cassazione affidato

ai seguenti motivi.

0 g/

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15.1. Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali e inosservanza o

erronea applicazione degli artt. 40, 41, 42, 43 cod. pen., 216 e 223, comma

primo, I. fall., con riguardo all'affermazione di responsabilità dell'imputato per la

bancarotta fraudolenta per distrazione in danno di Parmalat s.p.a., in relazione

alle vicende del gruppo Sidac - Cosfid - Aranca.

Al riguardo, dopo avere richiamato la decisione della Sez. 5 di questa Corte

n. 47502 del 24/09/2012, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata ha

omesso di valutare, in relazione alla sua posizione, la sussistenza sia del nesso di

causalità tra la condotta e l'insolvenza, sia del necessario elemento soggettivo

rispetto a quest'ultimo evento, alla luce dello sviluppo cronologico della vicenda

del gruppo Parmalat e del fatto che essa appare il risultato di scelte volta a volta

orientate verso la ricerca di una soluzione contingente al problema

dell'indebitamento, che aveva, infine, condotto alla sua esplosione, ma al di fuori

di qualunque apporto del ricorrente, la cui condotta si era esaurita quasi dieci

anni prima della dichiarazione di fallimento.

Del resto, anche i primi "segnali di allarme" della grave crisi finanziaria del

gruppo, valorizzati dai giudici di merito, si collocavano, a tutto voler concedere,

nel 2000 e, quindi, diversi anni dopo l'esaurimento delle condotte contestate al

Mutti, il quale era risultato estraneo alla "cabina di regia" delle varie operazioni.

Il ricorrente insiste, inoltre, sul fatto che egli era stato un mero strumento

nelle mani del Tanzi, il quale, già prima di conferire il mandato al Mutti, aveva

assunto impegni diretti in Sidac.

Ed, infatti, non era emersa alcuna sua consapevolezza della portata della

vicenda, nella quale egli aveva perseguito esclusive finalità di risanamento delle

aziende acquistate, né una volontà di contribuire alla dissipazione in danno dei

creditori di Parmalat s.p.a.

In ogni caso, la Corte territoriale aveva errato nell'ascrivere al ricorrente

tutte le vicende contabili e concernenti la mancata restituzione dei finanziamenti

ricevuti da Parmalat s.p.a., successive alla cessazione, nell'aprile 1994, del

mandato ricevuto dal Tanzi e, persino, dell'incarico di consigliere non esecutivo

di Par.fin. s.p.a., avvenuta nel 1998.

15.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali nonché

inosservanza o erronea applicazione di norme di legge, in relazione agli artt. 217

e 224, I. fall., sottolineando che le condotte ascritte all'imputato sono, al più,

inquadrabili nella fattispecie di cui all'art. 217, comma primo, n. 2, I. fall., cui

rinvia il successivo art. 224, n. 1, con la conseguenza che il reato è ormai

estinto per prescrizione.

15.3. Nell'interesse del Mutti è stata deposita memoria, nella quale si

A sviluppano le considerazioni contenute nei motivi di ricorso.

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16. Camillo Florini. È stato direttore Finanza e Tesoreria in CLUB VACANZE

s.p.a. dal 4 giugno 1997 al 3 luglio 2000, ha ricevuto in HIT INTERNATIONAL

s.p.a. procura per atti e operazioni bancarie dal 4 luglio 2001 al 4 febbraio

2004, in SESTANTE s.p.a. è stato alla Direzione Divisione Operativa dal 24 marzo

2000 al 2 settembre 2002, in HIT HOLDING ITALIANA TURISMO s.p.a. ha

ricevuto procura all'amministrazione dell'esercizio di attività operative e

gestionali dal 7 novembre 2001 al 4 febbraio 2004, la delega di direttore del

Turismo dal 15 maggio 2002 al 2 settembre 2002, procura bancaria a firma

singola e congiunta dal 17 dicembre 1999 al 28 gennaio 2004; inoltre ha

ricevuto la direzione del coordinamento operativo dal 3 luglio 2000 al 12 febbraio

2001, la direzione operativa dal 15 ottobre 2001 al 23 novembre 2001, la

direzione finanziaria dal 12 febbraio 2001 al 30 giugno 2001, la direzione

amministrativa, finanza e controllo dal 30 giugno 2001 al 31 agosto 2002.

Nell'interesse dell'imputato è stato proposto ricorso per cassazione affidato

ai seguenti motivi.

16.1. Con il primo motivo, si lamentano vizi motivazionali e violazione

dell'art. 110 cod. pen.

Al riguardo, il ricorrente inizia col rilevare che la Corte territoriale, dopo

avergli attribuito, a partire dal luglio 2001, il ruolo di CFO del gruppo turistico,

con il compito di sovrintendere ai rapporti tra quest'ultimo e altri settori del

Gruppo Parmalat, aveva contraddittoriamente riconosciuto che egli era stato un

efficiente e affidabile assistente del Baratta, ma non certo quello stabile e

fondamentale punto di riferimento, per il settore turistico, che aveva

rappresentato quest'ultimo e ancor meno il CF0 "tipo", quale era stato il Tonna,

nel settore alimentare.

Con riferimento al capo E.1.1., ossia alla distrazione in danno di Parmalat

Finance Corporation BV, per effetto dei finanziamenti intervenuti tra giugno e

ottobre 2000, in favore della ITC & P s.p.a. (e, in parte, trasferiti ad HIT s.p.a.),

a seguito della prima operazione effettuata per il tramite dello schermo della

società Web Holdings, il ricorrente sottolinea che la motivazione della Corte

territoriale si limita a fare riferimento alla sua partecipazione alla metodologia

operativa, senza specificare in cosa essa si sia tradotta, giacché, come emerso in

dibattimento, l'ideatore dell'operazione era stata altra persona (l'avv. Zini),

mentre, per altro aspetto, era stato il Baratta a dare indicazioni sul modo di

annotare in contabilità i fondi pervenuti alla ITC & P s.p.a., al punto che il

ricorrente nel processo cd. Parmatour era stato assolto dalle imputazioni di

bancarotta in danno di Hit s.p.a. e Hit International s.p.a.

Né, in relazione all'imputazione, potrebbero essere valorizzate le tecniche di

32 /

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contabilizzazione dei bonifici provenuti da Parmalat s.p.a., in relazione alle

operazioni Web Holdings del 2001 e del 2002, perché ampiamente successive ai

fatti contestati.

Quanto, infine, agli asseriti prelievi effettuati dal Florini dal conto

lussemburghese Business and Leisure, il ricorrente, dopo avere precisato di

essere stato assolto nel processo cd. Parmatour da tale imputazione, ha

sottolineato che essi hanno una valenza neutra, in assenza di prova quanto al

loro collegamento con la realizzazione dell'operazione Web Holdings, potendo

avere causali diverse, penalmente irrilevanti, anche nell'ipotesi che essi abbiano

rappresentato il prezzo per il silenzio serbato.

16.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali, in relazione al

capo D.38.

Il ricorrente rileva che, con riferimento alle forniture ricevute da Hit s.p.a.

negli anni 1998, 1999 e 2000, non è dato rinvenire nelle due sentenze di merito

alcuna motivazione, al punto che non è neppure dato intendere di quali forniture

si tratti e quale sia stato il contributo fornito dall'imputato in relazione alla

contestata distrazione.

Con riferimento ai finanziamenti erogati da Parmalat s.p.a. in favore della

medesima Hit s.p.a. negli anni 1999, 2001 e 2002, il ricorrente censura

l'affermazione di responsabilità in relazione a tutte le operazioni compiute nel

2002, sia giacché era incontroverso che nell'aprile dello stesso anno gli era stata

revocata la procura e aveva interrotto i rapporti con il Gruppo di appartenenza.

Con riguardo ai finanziamenti anteriori a tale data, le critiche del ricorrente

si sviluppano in relazione ai seguenti argomenti: a) il documento valorizzato

dalla Corte territoriale per sostenere la consapevole partecipazione del Florini

non era stato redatto da quest'ultimo, ma dal Baratta; h) se l'introduzione di

nuove tecniche di contabilizzazione delle operazioni finanziarie, a partire

dall'ottobre 2001, fosse stata riconducibile al Florini, nel frattempo divenuto

direttore operativo della Hit s.p.a., non avrebbero dovuto essergli attribuite le

distrazioni concernenti i finanziamenti intervenuti in data antecedente e

contabilizzati come debito verso Parmalat, giacché si porrebbe la seguente

alternativa: o il Florini - con modalità non esplicitate nella motivazione - aveva

contribuito anche a tali distrazioni, salvo rilevare l'assenza di una spiegazione in

ordine al successivo mutamento delle modalità di contabilizzazione (versamento

in conto capitale da Hit International s.p.a.) oppure, proprio quest'ultima tecnica

rivelava la contrarietà del Florini alle scelte precedentemente adottate; c) al di

là, di tali considerazioni, comunque, l'analisi delle prove dichiarative, dimostra

che il Florini era assolutamente estraneo alle distrazioni contabili in danno di

Parmalat s.p.a., effettuate attraverso la Web Holdings; d) in particolare,

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dichiarazioni del Tonna, quanto alla conversazione nella quale aveva riferito al

Florini in ordine alla reale identità della Web Holdings, si collocava

ragionevolmente nel marzo del 2002, quando era stato confezionato il

documento (Third Loan Agreement) consegnato dal primo al secondo nello

stesso contesto; e) in definitiva, la contabilizzazione di un bonifico intervenuto

nell'ottobre 2001 come un finanziamento socio risiedeva propria nell'ignoranza

della reale natura di schermo della Web Holdings, anche perché altrimenti non si

spiegherebbe la corretta contabilizzazione dei versamenti effettuati nel

precedente mese di settembre come debiti verso Parmalat; f) che il Third Loan

Agreement copriva i versamenti intervenuti tra 1'11/10/2001 e il 15/02/2002,

ossia in un periodo nel quale Florini non era ancora stato informato dal Tonna

della reale natura della Web Holdings, mentre il successivo Fourth Loan

Agreement riguardava i versamenti intervenuti a partire dal 21/05/2002, quando

il Florini era stato esautorato dal suo incarico; g) in coerenza con tali indicazioni,

nel processo cd. Parmatour, il Florini era stato assolto dalle imputazioni di

bancarotta societaria di Hit s.p.a. per l'anno 2002 e di Hit International s.p.a. per

tutte le annualità in contestazione; h) egli non aveva mai affermato di avere

sollecitato il socio americano a versare fondi al settore Turismo, indirizzando tali

richieste a Collecchio, avendo piuttosto precisato di essersi rivolto al Tanzì, per

evitare che le sue società fallissero; i) il Baratta si era limitato a riconoscere, sia

pure timidamente, una partecipazione del Florini agli aggiustamenti dei conti, in

epoca successiva alla cessazione dalla carica di Direttore amministrativo del dott.

Petazzini; I) l'affermazione attribuita dalla Corte territoriale al Baratta, secondo

la quale il Florini sarebbe stato l'ideatore della falsa cessione dei marchi Kilburn e

avrebbe provveduto a raccogliere la firma del primo su detto contratto, era

smentita dalla circostanza che i contratti concernenti tale vicenda non recavano

alcuna sottoscrizione e comunque erano stati confezionati molto tempo dopo

l'avvenuta appostazione della voce relativa in bilancio; m) sempre con

riferimento a tale vicenda il teste Nevi aveva ricordato di avere ricevuto i

contratti da altro soggetto; inoltre sempre il Nevi li aveva trasmessi al Florini,

con missiva di accompagnamento nella quale si dichiarava disponibile a rendere

ogni necessario chiarimento.

16.3. Con il terzo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea

applicazione della legge penale, in relazione alla ritenuta sussistenza del dolo del

delitto di bancarotta fraudolenta, sottolineando che la consapevolezza del

concreto rischio di insolvenza era stata agganciata dalla Corte territoriale a

eventi -quali la vicenda del finanziamento a favore di ITC & P s.p.a.- risalenti al

gennaio 1997, ossia ad un periodo nel quale il Florini non faceva parte del

Gruppo Turismo, per averlo abbandonato alla fine del 1996, facendovi ritorno

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solo alla metà del 1997.

Da ultimo, si sollecita la rimessione alle Sezioni Unite della questione del

contenuto del dolo in tale ipotesi.

16.4. Con il quarto motivo, si lamentano vizi motivazionali in ordine alla

mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Al riguardo, si sottolinea: a) che le condotte erano state poste in essere dal

Florini sostanzialmente per intero nel Gruppo turistico, che egli non aveva mai

partecipato alle riunioni del comitato di budget, ove venivano pianificate le

operazioni finanziarie, che anche quando aveva assunto la massima carica nel

settore turistico non aveva posto in essere alcun atto; b) che il travaso di risorse

economiche dal Gruppo Parmalat al Gruppo Turistico era iniziato ben prima che il

Florini entrasse a far parte di quest'ultimo ed era proseguito anche dopo la sua

fuoriuscita, a dimostrazione della scarsa incidenza del suo contributo e della sua

fungibilità; c) che, pertanto, era illogico valorizzare il solo dato della gravità dei

danni subiti dai creditori, senza apprezzare il concreto ruolo ricoperto dal Florini,

oltre che la sua incensuratezza, il comportamento processuale, l'età avanzata,

l'ormai definitivo disinteresse da qualunque attività imprenditoriale.

16.5. Con il quinto motivo, si lamentano vizi motivazionali nonché erronea

applicazione degli artt. 415 bis, 416, 178, lett. c), cod. proc. pen., con riguardo

all'ordinanza del 09/01/2012.

Al riguardo, si lamenta che la segreteria del P.M. aveva comunicato a tutti

gli interessati che, previo pagamento dei diritti di cancelleria, sarebbero stati

consegnati i CD contenenti gli atti processuali. La richiesta, presentata nei venti

giorni dalla ricezione della notifica dell'avviso di cui all'art. 415 bis cod. proc.

pen., al fine di ottenere l'autorizzazione alla consultazione e alla visione del

fascicolo, era rimasta inevasa. Essa aveva riguardato gli atti in formato cartaceo,

in quanto si trattava dell'unica modalità di consultazione concretamente

praticabile presso l'ufficio destinatario della richiesta.

In definitiva, siffatto ostacolo alla consultazione degli atti si traduce,

secondo il ricorrente, in un omesso avviso, in tal modo travolgendo anche la

successiva richiesta di rinvio a giudizio, ai sensi dell'art. 416, comma 1, cod.

proc. pen.

17. Paolo Sciumè. È stato consigliere non esecutivo di Par.fin. s.p.a. da

prima della quotazione in Borsa sino al default, presidente del collegio sindacale

di Vacanze s.r.I., poi Vacanze Tour Operator s.p.a. dal 1992 al 1996, membro e

presidente del consiglio di amministrazione di Ifitalia dal 10 aprile 1998 al marzo

2004.

Il ricorso proposto dall'imputato si affida ai seguenti motivi.

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17.1. Con il primo motivo denuncia erronea interpretazione della legge

penale, in ordine al dolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta

patrimoniale e documentale.

Al riguardo, si rileva che il dolo, tanto diretto come eventuale, richiede la

conoscenza e non la mera conoscibilità del fatto costitutivo di reato (oltre che la

rappresentazione e volontà dell'evento, quale conseguenza della propria

omissione), mentre la Corte territoriale ha ritenuto che, ai fini della

configurabilità del dolo eventuale, è sufficiente la rappresentazione del rischio

dell'evento pregiudizievole e la mancata attivazione per impedirlo.

Il ricorrente affronta quindi la questione dei segnali peculiari e perspicui,

utilizzabili ai fini della dimostrazione del dolo, sottolineando che essi si

distinguono dalle generali situazioni di rischio, la cui necessaria valutazione

attiene al tema dei doveri di diligenza, in quanto attraverso di essi l'imputato

giunge a rappresentarsi il fatto di reato.

Alla stregua di tali premesse, si rileva che l'apparato motivazionale ruotante

attorno all'inadempimento degli amministratori non esecutivi, come il ricorrente,

rispetto alla regola dell'agire informato, esprime una conseguenza dell'errore

consistito nel non ricercare la necessaria conoscenza del fatto costitutivo di

reato, in quanto addebitare l'inadempimento di doveri informativi presuppone

situazioni di mancanza o di incompletezza di conoscenza ed orienta verso

l'esclusione del dolo.

D'altra parte, si aggiunge, il dovere dell'agire informato va raccordato col

dovere di fornire ragguagli informativi da parte degli amministratori operativi e si

attualizza nel momento in cui l'amministratore non esecutivo è chiamato ad

agire.

Con specifico riguardo alla posizione dell'imputato, si precisa, ancora, che,

oltre a non essere individuabile alcuna sua condotta "pericolosa", manca in

radice la prova della rappresentazione dell'evento, quale conseguenza, prevista

in termini di elevata probabilità della propria omissione.

17.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea

interpretazione della fattispecie e del dolo in tema di bancarotta per distrazione.

Al riguardo, si muove dalla premessa che l'elemento soggettivo della

fattispecie in questione, quando la condotta si concreti nell'erogazione di prestiti

da parte del soggetto che successivamente fallirà, presuppone la consapevolezza

del carattere distrattivo della vicenda, ossia del fatto che il rimborso del prestito

sia a priori escluso o altamente improbabile.

Tale conclusione è inquadrata nell'affermazione giurisprudenziale, coerente

con i principi dettati dagli artt. 3 e 27, comma primo, Cost., secondo la quale

l'evento della bancarotta va ravvisato nell'insolvenza, con la conseguenza che la

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situazione di dissesto che dà luogo al fallimento deve porsi in rapporto di

causalità con la condotta distrattiva ed essere rappresentata e voluta o almeno

accettata come rischio concreto della propria azione.

Il ricorrente, pertanto, per il caso che si ritenga di disattendere siffatta

ricostruzione, solleva questione di legittimità costituzionale della disciplina.

Nel dettaglio delle singole imputazioni, si esaminano, in primo luogo, gli

episodi di cui D.3.5.1., D.3.5.2 e D.3., ossia tre distrazioni di beni della Parmalat

s.p.a., trasferiti, in assenza di corrispettivo o di titolo o in presenza di titolo

simulato, a favore della Vacanze s.r.I., della quale lo Sciumè è stato sindaco nel

triennio 1993 - 1995.

Al riguardo, si rileva che le vicende del gruppo Turismo sono state

esaminate nel cd. processo Parmatour, all'esito del quale lo Sciumè, cui era stato

contestato il concorso in false comunicazioni sociali, è stato assolto, per

mancanza di dolo dalle imputazioni relative agli anni 1993 e 1994 e condannato

esclusivamente per quelle concernenti il 1995. Il ricorrente si duole del fatto che

tali esiti siano stati trascurati e che la Corte territoriale non ha espresso neppure

il sospetto che lo Sciumè fosse a conoscenza dei documenti richiamati e, in

generale, della crisi del gruppo turistico e degli ingenti flussi di denaro da

Parmalat s.p.a. verso quest'ultimo.

Con riferimento alla distrazione di cui al capo D.3.5.1., si osserva che solo

nella nota integrativa al bilancio chiuso al 31/12/1993, si fa riferimento al

finanziamento di un miliardo di lire da parte di Parmalat s.p.a., alla quale lo

Sciumè era estraneo, talché, in assenza di dimostrazione di una previa

conoscenza dell'operazione, non poteva concludersi per la sua responsabilità.

Con riferimento alle altre due distrazioni, il ricorrente lamenta che la sua

estraneità a Parmalat s.p.a. e il suo ruolo di amministratore non esecutivo di

Parfin s.p.a. non consentono di ascrivergli alcuna responsabilità per l'omessa

analisi dei bilanci della prima società, anche in ragione del fatto che, a differenza

del primo finanziamento del 1993, i due successivi non emergevano dai bilanci

degli anni corrispondenti delle società finanziate, in quanto la voce "debiti verso

altri finanziatori" si presenta come sintetica, senza il dettaglio delle voci che la

compongono. Inoltre, secondo la medesima ricostruzione della G. di F., dei

finanziamenti del 1994 per dodici miliardi, ben sei erano stati rimborsati nel

corso del medesimo esercizio, talché chi ne avesse avuto notizia non avrebbe

avuto ragione alcuna per ritenere che la quota non ancora restituita dovesse

essere considerata come a fondo perduto.

Sulla questione, richiamando le considerazioni sopra ricordate in tema di

ricostruzione della fattispecie di bancarotta e della sua necessaria componente

soggettiva, si rileva, come autonomo profilo di vizio motivazionale, che la Corte

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territoriale: a) non ha approfondito la questione se i finanziamenti in esame,

risalenti agli anni '90, anche se intesi come a fondo perduto, presentassero il

disvalore del reato fallimentare o dell'appropriazione indebita; b) non si è posta il

problema dei rapporti tra siffatte operazioni e la posizione di garanzia

specificamente assunta dallo Sciumé, quale amministratore di Parfin s.p.a.; c)

non ha affrontato la questione del dolo di concorso omissivo in bancarotta.

17.3. Con il terzo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea

interpretazione della legge penale, con riferimento al capo C.8.2., ossia con

riguardo alla dolosa operazione di cessione pro so/vendo di crediti fittizi di

Parmalat s.p.a., attraverso la Contai - con conseguente allocazione a carico di

quest'ultima presso la Centrale Rischi del debito nascente dall'operazione -, ad

Ifitalia, della quale lo Sciumè era Presidente.

Sotto un primo profilo, si critica la sentenza impugnata per non avere

motivato in ordine alla conoscenza, da parte dello Sciumè - estraneo, per quanto

emerge dallo stesso capo di imputazione, al complessivo disegno fraudolento

descritto nel capo C.8 -, del carattere fittizio dei crediti, non desumibile dal fatto

che l'imputato avesse "notato e ponderato" l'esistenza dell'interposizione della

Contai, anche alla luce del fatto che nessuna delle persone coinvolte

nell'ideazione e nell'esecuzione aveva riferito di pressioni, interferenze o anche

solo di conversazioni con lo Sciumè a tal riguardo.

Del resto, l'esattezza di tale impostazione si desume dal fatto che lo Sciumè

è stato assolto dal Tribunale di Milano, che ha esaminato compiutamente la

vicenda.

Sotto un secondo angolo prospettico, si esclude che la vicenda possa essere

qualificata come operazione dolosa in danno di Parmalat s.p.a., rilevante ai sensi

dell'art. 223 I. fall., non essendo dato cogliere in essa l'effetto dell'indebita

diminuzione dell'asse attivo, che scaturisce dalla selezione delle condotte tipiche

previste dalla fattispecie, alla luce dell'evento richiesto dalla norma del dissesto

della società. Nella specie, al contrario, non si era realizzato alcun

depauperamento di Parmalat s.p.a., che aveva ottenuto - sia pure

fraudolentemente un finanziamento -, ma un'operazione squilibrata in danno di

Ifitalia, al più riconducibile alla figura del ricorso abusivo al credito o alla

bancarotta semplice, per avere consentito di procrastinare il default.

Infine, per altro aspetto sostanzialmente legato alla vicenda, ossia il

pagamento delle commissioni in favore di Ifitalia in relazione alle cessioni di

credito, si rileva, subordinatamente all'accoglimento delle superiori censure, che

il versamento delle somme non presenta alcun rilievo distrattivo, in quanto atto

di adempimento del contratto concluso.

17.4. Con il quarto motivo, concernente la condanna dell'imputato

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relazione al reato di cui all'art. 223, comma secondo, n. 1, I. fall., per il concorso

in false comunicazioni sociali, si rileva, preliminarmente che la motivazione della

Corte territoriale, mentre fonda la responsabilità dello Sciumè per i bilanci di

Parmalat s.p.a. e Parfin s.p.a. relativi all'esercizio 2002, con riguardo alla

distribuzione dei dividendi di competenza di tale esercizio, nulla spiega in ordine

ai bilanci precedenti, cui pure il capo di imputazione e il dispositivo della

decisione si riferiscono, e ciò nonostante l'affermazione per la quale il medesimo

Sciumè non era consapevole del carattere illecito della distribuzione di dividendi

relativi agli esercizi precedenti.

Con ulteriore articolazione del medesimo motivo, si denuncia il difetto di

motivazione della sentenza impugnata in relazione alla rilevanza dell'estraneità

dell'imputato alle operazioni che avevano cagionato lo squilibrio e poi il dissesto

del gruppo rispetto al ritenuto concorso nelle false comunicazioni sociali.

Nella medesima prospettiva del dolo, il ricorrente, dopo avere richiamato le

considerazioni svolte in generale nel primo motivo, con riferimento ai "segnali di

allarme", esamina la motivazione concernente la sua specifica posizione,

rilevando: a) che, con riferimento al ruolo ricoperto dallo Sciumè nel Gruppo

Turismo, la condanna dello stesso per i fatti risalenti al 1993 - 1995 e la sua

assoluzione per quelli successivi (capi D.38 e D.39) rendono contraddittoria

l'argomentazione della Corte territoriale in ordine alla perspicuità di quanto

appreso negli anni 1993 - 1995, in relazione ad illeciti successivi, che investono

un diverso e più ampio ambito di vicende, privando di base oggettiva la pretesa

che l'imputato, quale amministratore di Parfin s.p.a., potesse, negli anni

seguenti, opporsi alle delibere, in virtù di quanto appreso in precedenza; b) che

l'assoluzione per mancanza di dolo dello Sciumè dall'imputazione D.14, relativa

all'operazione Aranca, non consentiva di trarre la prova della consapevolezza

dell'imputato, della capacità falsificatrice dei management di Parfin e di

Parmalat; c) che, con riguardo alla vicenda del factoring Ifitalia, l'assenza di

prova del carattere fittizio dei crediti rendeva il ritenuto "segnale di allarme" del

tutto irrilevante; d) che, con riferimento alla posizione dello Sciumè in Parfin

s.p.a., non potevano assumere rilievo, rispetto alla contestazione concernente il

bilancio dell'esercizio 2002, approvato dall'assemblea nell'aprile 2003, le vicende

dei tre bond emessi successivamente, nell'estate del 2003, e quelle del periodo

finale, che si collocano tra il novembre e il dicembre di tale anno, tra le quali si

pone anche la riunione consiliare del 9 dicembre; e) che con riguardo ai segnali

precedenti, non era dato intendere cosa significasse la liquidità dichiarata,

laddove la stessa Corte territoriale aveva escluso che essa consentisse di

desumere l'inesistenza del Fondo Epicurum e del conto presso Bank of America;

f) che, del pari, l'accorpamento del debito non aveva inciso sul saldo di bilancio;

39 ,-

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g) che la stessa sentenza d'appello non era giunta ad affermare che il falso

riacquisto dei bond, al pari della falsità dello Swap Sumitomo, fosse noto allo

Sciumè; h) che la vicenda dell'aumento di capitale di Parmalat Brasile esprimeva

una criticità, ma non consentiva di individuare fatti illeciti, tanto più che già in

primo grado lo Sciumè era stato assolto dall'imputazione di distrazione correlata

a tale vicenda.

17.5. Con il quinto motivo, si lamentano, in ragione delle considerazioni

appena esaminate, vizi motivazionali, in relazione alle ipotesi di bancarotta per

distrazione concernenti la distribuzione dei dividendi Parmalat s.p.a. (capo D.34)

e Parfin s.p.a. (capo F.11.5), aggiungendo, comunque, che l'illegale ripartizione

degli utili, sussumibile nel paradigma dell'art. 2627 cod. civ., orienta verso

l'applicazione dell'art. 223, comma secondo, n. 1, I. fall., ponendo il problema

della verifica del nesso eziologico rispetto al dissesto.

17.6. Con il sesto motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea

interpretazione della legge penale, in relazione alle operazioni del 2003 indicate

nel capo C.6.3.

In particolare, si tratta delle tre emissioni di prestiti obbligazionari effettuate

dal Gruppo Parmalat, attraverso la controllata Parmalat Capital Finance BV

nell'estate del 2003: obbligazioni UBS/Totta (capo C.6.3.1), Nextra Morgan

Stanley (capo C.6.3.2), Deutsche Bank (capo C.6.3.3)

In generale, si rileva che si tratta di operazioni neutre, al più espressive

della fattispecie di cui all'art. 217, comma primo, n. 3, o di cui all'art. 218 I. fall.,

nella specie, peraltro, caratterizzate da clausole comunicate al mercato di

assoluta normalità, laddove non era stata dimostrata la conoscenza, da parte

dello Sciumè, dei profili dai quali l'accusa aveva fatto discendere la qualifica delle

operazioni come dolose.

In particolare, si rileva, attraverso l'esame degli atti valorizzati dalla Corte

territoriale, che Parmalat non aveva mai assunto l'impegno di non procedere

all'emissione di bond, in quanto: a) il brano tratto dalla relazione sulla gestione

relativa al bilancio 2002, oltre a non assumere il rilievo di formale deliberazione

del consiglio di amministrazione, faceva riferimento ad una graduale riduzione

dell'indebitamento, ossia prospettava un obiettivo tendenziale, che non

escludeva, nel breve come nel medio termine, il rifinanziamento del debito

esistente; b) le "promesse" di identico contenuto del CFO Ferraris erano del pari

inesistenti, giacché nella comunicazione del 10/04/2003 si indicava, come

elemento della strategia globale, quello della politica di allungamento del debito

a tassi competitivi e si specificava che nel breve termine non c'erano piani di

nuove emissioni obbligazionarie, con chiaro riferimento ad emissioni di bond,

ovvero di obbligazioni quotate nei mercati regolamentati, non riferibili alle

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( ?

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operazioni effettuate di private placement presso investitori istituzionali; c)

anche il comunicato stampa del 15/05/2003 non recava alcuna traccia

dell'impegno a non emettere ulteriori obbligazioni, in quanto si precisava, al

contrario, che sarebbe stato preso in considerazione un collocamento privato a

tassi e durata favorevoli; d) che la comunicazione del Ferraris ad UBS del

11/06/2003, al di là del fatto che non se ne trova traccia in atti, comunque non

era indirizzata allo Sciumè, senza che ne emerga in altro modo la conoscenza da

parte di quest'ultimo.

Sotto altra prospettiva, si critica l'affermazione della Corte territoriale,

secondo la quale era indiscutibile che gli amministratori non esecutivi avessero a

disposizione i documenti degli stessi bond, dal momento che la contrattualistica

relativa alle emissioni non era stata portata in consiglio di amministrazione ed

allegata agli atti del consiglio e che la corrispondenza e-mail intercorsa tra il

Ferraris e i funzionari degli istituti di credito aveva natura riservata e si collocava

al di fuori della portata conoscitiva dei consiglieri non esecutivi.

Esaminando, in dettaglio, le tre operazioni, il ricorrente osserva, quanto

all'emissione Nextra/Morgan Stanley: che l'operazione era stata resa nota al

mercato, dopo il suo perfezionamento, attraverso una comunicazione del

18/06/2003, che riportava dati, in seguito rivelatisi non completi; che

l'operazione non era mai stata portata all'attenzione e all'approvazione del

consiglio di amministrazione e che lo Sciumè era all'oscuro delle trattative

riservate tra il Ferraris e i funzionari della Morgan Stanley e Nextra; che solo in

data 03/07/2003 l'operazione era stata comunicata al consiglio di

amministrazione di Parfin s.p.a., attraverso l'esposizione dei medesimi termini

già riportati nella comunicazione del 18/06/2003 e senza che il consiglio venisse

chiamato ad assumere alcuna delibera; che non era stata indicata alcun ragione

che giustificasse l'opposizione di un amministratore esecutivo a tale operazione,

dal momento che le condizioni di emissione erano in linea con il profilo

economico e il rischi di Parmalat, al punto che gli operatori le giudicarono come

favorevoli a quest'ultima.

Con riferimento all'emissione UBS/Totta, per l'importo di 130 milioni di euro,

si rileva che essa non fu oggetto di alcuna delibera, né di informativa in alcuna

seduta del consiglio di amministrazione di Parfin, in quanto, perfezionata in data

09/06/2003, fu resa nota solo con la semestrale 2003, pubblicata in data

11/09/2003, in termini oggettivamente favorevoli, quanto alle condizioni, come

dimostrato dalle valutazioni della stampa specializzata, alla luce

dell'indebitamento lordo di Parmalat (7 miliardi di euro) e della liquidità esistente

(4 miliardi di euro)

Quanto, infine, all'emissione Deutsche Bank, si osserva che essa fu oggetto

A 41

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di comunicazione preventiva al consiglio di amministrazione, ma attraverso

l'indicazione delle stesse, inesatte e incomplete, notizie in seguito comunicate al

mercato, senza che lo Sciumè fosse al corrente delle effettive condizioni di

emissione.

17.7 Con il settimo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea

interpretazione della legge penale, in ordine alla sussistenza del nesso causale

tra l'evento ipotizzato, ossia l'aggravamento del dissesto del Gruppo Parmalat, e

le condotte contestate.

Muovendo dalla sentenza Franzese delle Sezioni Unite del 2002, si rileva che

la stessa Corte territoriale riconosce che l'intervento dello Sciumè, come degli

altri amministratori non esecutivi, non avrebbe potuto avere l'effetto di

preservare la conservazione del patrimonio sociale e ciò senza dire che, se pure

erano presenti elementi idonei ad ingenerare forti perplessità sulla gestione del

Gruppo, non erano ravvisabili, né erano stati ravvisati anche da operatori

istituzionali qualificati, segnali idonei a disvelare gli illeciti sottesi alla gestione

Tanzi.

17.8. Con l'ottavo motivo, si lamenta violazione dell'art. 649 cod. pen., in

relazione alla sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato del

Tribunale di Milano nel procedimento n. 10456 del 2004, con riguardo ai reati di

aggiotaggio, per le comunicazioni dei dati economici e finanziari della Parmalat

s.p.a. negli anni 2002 e 2003, ostacolo alle funzioni di vigilanza della Consob,

concorso nel falso dei revisori Deloitte e Grant Thorton.

Al riguardo, si rileva che i fatti storici esaminati dal Tribunale di Milano,

sono, nonostante la diversa qualificazione giuridica, i medesimi di cui al presente

procedimento, con la sola eccezione delle vicende relative al Gruppo Turismo e

alla società Aranca.

17.9. Con il nono, subordinato motivo, si lamenta errore di diritto in

relazione alla condanna risarcitoria in solido per il danno corrispondente al

dissesto Parmalat, sottolineando che la regola di responsabilità solidale

presuppone l'identità del fatto rispetto al quale si afferma la responsabilità,

laddove, nel caso di specie, ricorrono fatti diversi, ciascuno produttivo di una

frazione del danno complessivo.

Nella specie, la condanna in solido al risarcimento del danno ha comportato

l'imposizione, sempre in solido tra gli imputati, del pagamento della

provvisionale liquidata.

18. Fabio Branchi. È stato sindaco supplente in Parmalat s.p.a. dal 29 aprile

1991 al 24 dicembre 2003, in Donzelli s.p.a. dal 1° ottobre 1993 al 5 luglio

1994, in Viaggi Donzelli s.r.l. dal 25 gennaio 1993 al 23 dicembre 1993; sindaco

9,

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effettivo in Eliair s.r.l. dal 28 aprile 1998 al 1° aprile 2004, in Hit Holding, poi Hit

Immobiliare -in seguito fusa con Hit International s.p.a. - dal 28 aprile 2000 al 5

luglio 2001, in Hit Holding Italiana Turismo s.p.a. dall'H ottobre 1999 al 31

gennaio 2003, in Hit International s.p.a. dal 31 luglio 2000 al 24 gennaio 2003,

in Vacanze s.r.l. - poi Vacanze Tour Operator s.p.a. - dal 30 luglio 1996 al 9

dicembre 1997; presidente del collegio Sindacale in Cereal Sole s.p.a. e in

Dalmata s.r.l. dal 28 aprile 1997 in avanti, in Geslat s.r.l. dal 14 dicembre 1995

al 9 febbraio 2004, in World Vision Travel s.r.l. dal 9 marzo 1990 al 23 dicembre

1993, in Agis s.r.l. dal 3 marzo 1993 al 10 aprile 2004, in Coloniale s.r.l. dal 28

febbraio 1994 al 17 gennaio 2004, in Sata s.r.l. dal 1° agosto 1994 al al 1° aprile

2004; amministratore delegato in Hit Holding Italiana Turismo s.p.a. dal 31

marzo 2003 al 28 gennaio 2004 e in Hit International s.p.a. dal 24 gennaio 2003

al 28 gennaio 2004; consulente contabile in Agis s.r.I., in Cononiale s.r.l. e in

Sata s.r.l. dal 30 novembre 1993 in avanti.

Il ricorso proposto nell'interesse dell'imputato è affidato ai seguenti motivi.

18.1. Con il primo motivo, si lamenta inosservanza o erronea applicazione

dell'art. 70 cod. proc. pen., ribadendo che, all'esito dell'ictus che colpì l'imputato

in data 31/10/2002 e della successiva dimissione, il 16/01/2003, dall'Istituto di

riabilitazione presso il quale era stato ricoverato, il Branchi non era più stato in

grado di svolgere qualunque attività che richiedesse continua attenzione o

applicazione.

Alla stregua di questa premessa, si lamenta che i giudici di merito non

abbiano svolto gli accertamenti necessari a verificare la capacità dell'imputato di

seguire costantemente il processo, udienza dopo udienza, in tal modo

determinando l'impossibilità di indicare elementi a discolpa, testimoni o

consulenti di parte, o di controesaminare le persone ascoltate; d'altra parte,

neppure erano state rivolte all'imputato domande ad eventuale discolpa, con

conseguente violazione dell'art. 358 cod. proc. pen.

Al riguardo, si aggiunge: che l'unica dichiarazione resa dall'imputato nel

dibattimento dinanzi alla Corte d'appello riguardava proprio il fatto che egli non

comprendeva di che cosa lo si accusasse; che la Corte territoriale, per un verso,

aveva escluso l'attribuibilità all'imputato dei fatti posti in essere tra il 31/10/2002

e il 31/01/2003 e, per altro verso, aveva assegnato rilevanza alla sua

partecipazione alle assemblee della Hit s.p.a. e della Hit International s.p.a. del

24 e del 31/01/2003 nonché al rogito Parmatour del 31/01/2003; che la

consulenza tecnica di parte del 24/11/2011, a nove anni di distanza dall'ictus,

ancora descriveva gli esiti fisici dello stesso, così come gli accertamenti relativi ai

deficit psichici attestavano che l'elaborazione concettuale era pregiudicata dal

deterioramento cognitivo e le capacità espressive e percettive erano

43 (

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compromesse e comunque tali non raggiungere livelli sufficienti che per brevi

periodi di tempo, al punto da pregiudicare la libera e consapevole partecipazione

al dibattimento.

18.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali, in ordine

all'affermazione di responsabilità dell'imputato.

In particolare, si rileva che la situazione del Gruppo Parmalat, ancora nel

settembre 2003, non evidenziava all'esterno quelle criticità emerse solo in

seguito agli imponenti accertamenti seguiti al default e grazie al determinante

apporto del Tonna. In tale contesto, si ribadisce l'assenza di ogni coinvolgimento

dell'imputato e si contesta che egli abbia liberamente sottoscritto i bonifici

risalenti a tempi di poco successivi all'ictus dell'ottobre del 2002.

Il ricorrente aggiunge: a) che egli non era mai stato sindaco effettivo di

Parmalat s.p.a., né in tale società aveva mai ricoperto alcuna funzione che gli

consentisse l'esercizio di un potere attivo o interdittivo, dalla cui mancata

attivazione potesse scaturire una condotta penalmente illecita; b) che, in

definitiva, sarebbe stato necessario accertare il dolo dell'extraneus nei reati

contestati; c) che, con riguardo ai fatti commessi in danno di SATA s.r.I.,

dichiarata fallita nell'aprile 2004, occorre considerare che l'insolvenza era stata

motivata in ragione dell'improbabile realizzo dei crediti vantati verso società del

Gruppo Parmalat e che, tuttavia, proprio per effetto dell'acquisizione della

società, successiva al default, da parte di Parmalat s.p.a., la prima era tornata in

bonis, al punto che il fallimento era stato revocato; d) che anche il curatore del

fallimento della SATA s.r.l. aveva dato atto che, per effetto della rinuncia dei

creditori, la società era tornata in bonis; e) che la Pisorno s.r.I., anch'essa

acquisita dalla Parmalat s.p.a., era attualmente proprietaria di un bene; f) che

anche la società AGIS era da tempo in bonis; g) che, per entrambe le società,

secondo la deposizione del curatore, la contabilità era nella forma regolarmente

tenuta e i libri sociali obbligatori erano stati regolarmente aggiornati; g) che,

quanto alla società Finaliment, se è vero che la contabilità era tenuta dallo studio

Branchi, è altrettanto vero che l'imputato non ricopriva alcuna carica sociale; h)

che, successivamente all'ictus dell'ottobre 2002, nessuna condotta era

attribuibile al Branchi; i) che, in ogni caso, egli era stato completamente

sottomesso alle indicazioni della proprietà delle società che gli si chiedeva di

amministrare, sicché egli non aveva avuto alcun potere di indagine, di

conoscenza, di deliberazione e, in genere, alcun potere interdittivo in grado di

impedire eventi progettati e accuratamente occultati da terzi, anche in ragione

delle informazioni contabilmente corrette da lui ricevute e senza che potesse

avere contezzaa di alcunché di illecito; I) che, con riferimento alla sua posizione

associativa, faceva difetto, per le stesse ragioni, il necessario dolo specifico,

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anche alla luce delle prove dichiarative acquisite; m) che, con riferimento al capo

r) e alla luce del fatto che altri aveva la responsabilità dell'amministrazione, oltre

alla non attribuibilità dei fatti successivi all'ottobre 2002, per le ragioni sopra

ricordate, occorreva considerare che la SATA s.r.l. era tornata presto in bonis; n)

che, anche con riguardo ai fatti relativi alla società AGIS (capi S, S bis, S ter), in

relazione alla quale il Branchi aveva solo svolto incarichi di presidente del

collegio sindacale e non ruoli amministrativi, occorreva prendere atto che la

società era tornata in bonis; o) che, anche in relazione ai capi concernenti la

società Finaliment (capi T e T bis), la tenuta della contabilità da parte del suo

studio non valeva a fondare la sua responsabilità personale; p) che, in definitiva,

la responsabilità del Branchi era stata affermata sulla base di motivazioni

inesistenti; q) che, con riferimento alle bancarotte documentali e patrimoniali

della Parmalat s.p.a., della Parmafin s.p.a. e della Parmalat Finance Corporation

BV, il Branchi non aveva ricoperto né svolto alcuna funzione amministrativa o

sindacale o di tenuta della contabilità

Con ulteriore articolazione del motivo, si censura l'impugnata sentenza, per

non avere riconosciuto le circostanze attenuanti generiche con criterio di

prevalenza, nonostante l'età e la condizione di incensuratezza, la contestazione

delle accuse rivoltegli e i tratti collaborativi rinvenibili in atti.

18.3. Con il terzo motivo, si lamenta violazione o falsa applicazione dell'art.

533 cod. proc. pen., in relazione all'art. 111 Cost., per violazione del principio

dell'oltre ragionevole dubbio.

18.4. Nell'interesse del Branchi è stata depositata memoria, con la quale,

oltre a svilupparsi le considerazioni già contenute nei motivi di ricorso, si

aggiunge che il G.i.p. del Tribunale di Parma, in data 15-19/09/2013, ha

archiviato il procedimento concernente il Branchi relativo al cd. filone

Parmacalcio, prendendo atto delle richieste del P.M., dalle quali emergeva che il

ricorrente aveva documentato la falsità della firma apposta sulla relazione del

Collegio dei sindaci sul bilancio del 30/06/2002.

Il ricorrente sottolinea, pertanto, che può ormai ritenersi più che verosimile

che il Branchi venisse dato ordinariamente presente, anche in sua assenza, alle

riunioni del Collegio sindacale, con apposizione di firme apocrife.

19. Luciano Silingardi. È stato consigliere non esecutivo di Par.fin. s.p.a. dal

30 aprile 2001 al 9 dicembre 2003, membro del comitato per il controllo interno

di Par.fin. s.p.a. dal maggio 2001 al 9 dicembre 2003, sindaco supplente di Word

Vision Travel dal 25 ottobre 1984 al 29 dicembre 1986, membro del consiglio di

amministrazione di Banca Intesa dal 28 gennaio 1999 al 12 giugno 2000 e del

Comitato esecutivo di tale Banca dal 20 aprile 1999 al 12 giugno 2000,

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Page 46: 32352/14 )d - Diritto Penale Contemporaneo...Parmalat Finanziaria s.p.a. e dalle sue controllate. Tale gruppo presentava una rilevante sub holding mista, operativa e finanziaria, che

Presidente del CdA della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza dal 27/4/87 al

12 giugno 2000, della Fondazione della Cassa di Risparmio di Parma dal 13

dicembre 1991 al 20 gennaio 2004, di Revinda s.r.l. dal 9 giugno 2003,

consulente contabile di Sata s.r.l., Finaliment s.r.I., e Agis s.r.l. fino al 29

novembre 1993.

Il ricorso proposto da Luciano Silingardi si affida ai seguenti motivi

19.1. Con il primo motivo, si lamentano vizi motivazionali, con riferimento

alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, relativamente a tutti

i capi ed i punti della sentenza impugnata.

In particolare, si lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto che

l'incontro dell'08/12/2003, nel corso del quale, secondo il medesimo Silingardi,

Tanzi aveva ammesso l'"inconsistenza di Epicurum, l'inconsistenza dei bond

riacquistati e l'inconsistenza della liquidità", lungi dal mostrare la consapevolezza

di Tanzi di avere ingannato gli amministratori indipendenti e la conseguente

inconsapevolezza di questi ultimi delle manipolazioni realizzate, rivelava, al

contrario, l'intento del primo di "raccogliere le ultime forze attive e disponibili a

salvare Tanzi e le sue società prima che i problemi diventassero di dominio

pubblico".

Al riguardo, si osserva che la lettura della Corte territoriale, oltre che

difforme da quella fornita dagli stessi giudici di primo grado e dalla sentenza

della V sezione di questa Corte, che aveva annullato senza rinvio la decisione di

merito, in relazione al processo per aggiotaggio, per tutti i capi d'imputazione,

tranne che per l'episodio del comunicato del 10/12/2003, era intrinsecamente

contraddittoria rispetto ad altro luogo della motivazione, in cui, per giustificare la

condanna di altro imputato, il Barili, non convocato dal Tanzi per la riunione

dell'08/12/2003, la medesima Corte d'appello aveva affermato che la mancata

convocazione si giustificava, in quanto nulla il Tanzi riteneva di confessare a

Barili, già pienamente a conoscenza di tutto, né pensava di potere chiedere il suo

aiuto perché già, in sede di comitato esecutivo, gli era stato fornito tutto l'aiuto

possibile dai partecipanti.

19.2. Con il secondo motivo si lamentano vizi motivazionali, sempre con

riguardo alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo, con specifico

riferimento all'omesso esame delle doglianze contenute nei motivi di appello e

nelle memorie difensive presentate alla corte d'appello e al travisamento della

prova quale emerge dagli atti del processo.

Al riguardo, si osserva: a) non si può logicamente ritenere che Silingardi,

che all'epoca aveva già completato il proprio percorso professionale, essendo

stato per tredici anni Presidente della Cassa di Risparmio e per alcuni anni

membro del Consiglio di Banca Intesa, essendo rimasto in ogni caso quale

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/ x

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Presidente della Fondazione Cariparma ed essendo titolare di uno dei più

importanti ed avviati studi di commercialisti di Parma, abbia, per il solo

sentimento di gratitudine verso Calisto Tanzi, accettato di entrare nel Consiglio di

Amministrazione ed addirittura nel Comitato per il Controllo Interno, quale

Presidente, nell'aprile del 2001, pur conoscendo la reale situazione in cui versava

il Gruppo Parmalat; b) che il Silingardi non era a conoscenza dell'inesistenza del

fondo Epicurum, al punto che, come emergeva dagli atti processuali, dopo

averne chiesto, con la convocazione d'urgenza il Comitato di Controllo del

7/11/2003, la liquidazione, quando si era reso conto che questa, deliberata il

14/11/2003, tardava ad arrivare, aveva cominciato a chiamare Tanzi, Del

Soldato e poi Petrucci per avere delle delucidazioni in merito; c) che, del resto,

sul periodico economico "Il Mondo" era comparso un lungo articolo nel quale si

parlava del fondo Epicurum come di uno dei più importanti fondi di investimento

presenti sul mercato, a riprova del grado di sofisticazione e di efficacia che aveva

raggiunto la frode perpetrata dalla ristretta "cabina di regia"; d) che la Corte

territoriale non aveva spiegato per quale ragioni il Silingardi si era dimesso

immediatamente dopo che Tanzi gli aveva rivelato in data 08/12/2003 che la

liquidità non esisteva, se davvero ne fosse stato da sempre a conoscenza ed anzi

fosse stato un organizzatore dell'associazione per delinquere, laddove

l'alternativa spiegazione fornita sulla scorta delle dichiarazioni di Sciumè (quella

di continuare ad aiutare la Parmalat, cercando appoggi nel mondo bancario da

esterno al gruppo) era illogica, perché Silingardi - la cui versione dei fatti era

dalla stessa Corte stata contradditoriamente ritenuta più credibile di quella dello

Siumè - era l'unico a non essersi adoperato per cercare contatti con le banche

per cercare di trovare aiuto per pagare il bond dell'Immacolata e aveva

sostenuto la sua plausibile versione con la produzione di un appunto, il cui

contenuto confermava integralmente quanto dichiarato dallo stesso circa lo

svolgimento dei fatti del concitato pomeriggio dell'8/12/2003, quando egli aveva

appreso da Tanzi della reale situazione del Gruppo; e) che, del resto, come

confermato da Sciumè, che sul punto non aveva alcun interesse di mentire,

l'appunto poi prodotto da Silingardi era già stato redatto nel momento in cui lui

si era recato presso il suo studio e, dunque, non dopo che Silingardi si era recato

dal proprio avvocato penalista, bensì prima; f) e ciò senza dire se Silingardi,

dopo aver parlato con Tanzi il giorno 8/12/2003, fosse stato così preoccupato da

andare a parlarne immediatamente con un avvocato penalista, ciò non poteva

che significare che aveva appreso solo in quel momento dell'esistenza di

comportamenti illeciti gravissimi da parte di Tanzi e dei suoi sodali e che ne era

rimasto tanto sconvolto da sentire l'esigenza di rivolgersi ad un professionista

per chiedere un consiglio su come comportarsi e di prendere appunti su quanto

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riferitogli da Tanzi per ricordarsi in futuro con precisione degli eventi; g) che, in

definitiva, la plausibile versione dell'imputato era stata superata, in violazione

della regola dell'oltre ragionevole dubbio, sulla scorta di considerazioni

contraddittorie ed illogiche, come dimostrato dal fatto che, posto che già il

09/12/2003, durante il consiglio di amministrazione era stata data la notizia del

mancato pagamento del bond e dell'intervenuta sospensione del titolo,

divenendo così di dominio pubblico, non era dato intendere quale intervento si

sarebbe potuto attuare in meno di dodici ore; h) che, al contrario, il reale

svolgimento dei fatti era coerente con quanto riferito dal Tanzi, il quale aveva

posto una distinzione netta tra coloro i quali sapevano perché erano con lui nella

"cabina di regia" e quelli che, a suo giudizio, per le posizioni personali

extrasocietarie, potevano avere intuito non già la reale situazione, bensì un certo

stato di tensione finanziaria, con la conseguenza che, proprio per tale motivo,

era andato di persona ad informarli della reale situazione, ossia dell'inesistenza

delle liquidità e dunque dello stato di dissesto della società; i) che, inoltre, la

ricostruzione della Corte territoriale era illogica, in quanto, se l'opera esterna del

Silingardi era preziosa, non si riusciva ad intendere perché egli, da organizzatore

dell'associazione, sarebbe entrato nel consiglio di amministrazione di Parmalat,

in difformità dagli interessi dello stesso sodalizio, visto che sarebbe stato di

maggior utilità con la sua opera dall'esterno del Consiglio stesso; 1) che, del

resto, dal fatto che Tanzi si aspettasse dai consiglieri non esecutivi un aiuto non

può certo logicamente dedursi che Silingardi intendesse fornirglielo, ciò che era

dimostrato, peraltro, dagli interrogatori di Sciumè e Panizzi, dai quali emergeva

che Silingardi non si era mai occupato di cercare finanziamenti per il gruppo

dopo 1'08/12/2003, ma anzi era stato pregato invano da Tanzi di ritirare le

dimissioni; m) che, ancora, il fatto che Tanzi si sarebbe incontrato il 16/12/2003

con Silingardi per chiedergli di aiutarlo a trovare la disponibilità di liquidità, non

era riscontrato da alcun elemento di prova, mentre era stato il Silingardi stesso a

riferire dell'incontro nel corso del quale, però, Tanzi gli aveva chiesto un consiglio

circa l'opportunità di vendere delle azioni, al che lui aveva risposto che sarebbe

stata una follia e che per il futuro non si sarebbe più dovuto rivolgere a lui, ma

consultare un avvocato; n) che, in definitiva, in assenza di una prova diretta,

visto che non era mai stata contestata l'approvazione di una delibera

pregiudizievole alla società da parte di Silingardi, così come degli altri Consiglieri

non esecutivi di Parfin, la prova del dolo era stata nella sostanza colta nei

rapporti personali con Tanzi.

19.3. Con il terzo motivo, si lamentano erronea applicazione della legge

penale e vizi motivazionali, in relazione all'affermata sussistenza dell'elemento

soggettivo con riferimento a tutti delitti per cui è stata pronunciata condanna.

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Nel motivo, si inizia con il criticare la ritenuta attendibilità della chiamata in

correità operata dal Tonna e, per altro aspetto, la stessa esistenza di una

chiamata in correità.

Quanto al primo profilo, si sottolinea: a) la diversa valutazione espressa dai

giudici di primo grado, che avevano valorizzato il fatto che il Tonna aveva iniziato

a collaborare solo quando ormai ben sapeva che non avrebbe potuto nascondere

le sue responsabilità e, nonostante ciò, aveva continuato a minimizzare il suo

ruolo, accusando gli altri per diminuire le proprie palesi responsabilità; b) il fatto

che comunque il Bocchi - il quale aveva escluso che Silingardi fosse un membro

della "Cabina di regia" - aveva iniziato a collaborare prima di essere arrestato,

come ammesso dalla stessa Corte d'Appello e non dopo, come invece aveva fatto

Tonna, rifiutandosi di distruggere la documentazione cartacea.

Quanto al secondo profilo, si critica la sentenza impugnata per avere

valorizzato le sole dichiarazioni accusatorie del Tonna, trascurando quelle

favorevoli all'imputato.

Al riguardo, si rileva: a) che Tonna, nell'interrogatorio reso ai PM di Parma in

data 07/01/2004, aveva ammesso che, a differenza di Giuffredi, Del Soldato,

Pessina, Bocchi, Penca, Bianchi, Gorreri, Giovanni e Stefano Tanzi, Visconti, "gli

altri amministratori ritengo che sapessero poco di ciò che accadeva in Parmalat.

Ritengo più che altro che abbiano esercitato un controllo molto superficiale"; b)

che la Corte ha incongruamente valorizzato talune affermazioni di Tonna del

tutto decontestualizzate e di valenza assolutamente neutra, secondo le quali

"Silingardi ha avuto un ruolo più significativo quando era fuori dalla società che

quando era consigliere", frase in sé non espressiva di consapevole partecipazione

ad una condotta criminosa, ma piuttosto dell'opinione del dichiarante in ordine

all'influenza del Silingardi sulle delibere di finanziamento al gruppo.

Con riferimento alle dichiarazioni di Calisto Tanzi, il ricorrente, dopo avere

sottolineato che la valutazione di attendibilità espressa dalla Corte territoriale

appariva in contrasto con il pur riconosciuto atteggiamento non collaborativo e

ambiguo dello stesso, ribadito nella motivazione concernente la determinazione

del trattamento sanzionatorio, lamenta che, anche in questo caso, la sentenza

impugnata valorizza le dichiarazioni nelle quali coglie indicazioni accusatorie,

svalutando quelle di significato contrario e, in particolare, il fatto che nessuno dei

coimputati (Bocchi, Del Soldato, Ferraris e perfino Tanzi e Tonna) aveva mai

effettuato una chiamata di correità nei confronti di Silingardi ed anzi tutti

avevano escluso che costui facesse parte della "Cabina di regia".

19.4. Con il quarto motivo, si lamentano erronea applicazione della legge

penale e vizi motivazionali, in relazione all'affermata sussistenza dell'elemento

soggettivo con riferimento a tutti delitti per cui è stata pronunciata condanna.

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In particolare, si rileva la diversità del metro di valutazione della sussistenza

del dolo adottato per i coimputati Panizzi e Fratta, da un lato, e per il Silingardi

dall'altro.

Su un piano generale, si osserva che i criteri di dimostrazione della

sussistenza dell'elemento soggettivo non mutano sulla base del tipo di illecito e

che la conoscenza del carattere distrattivo delle condotte può anche desumersi

da elementi indiretti, purché siano il risultato della percezione in capo al

concorrente di segnali perspicui e peculiari dell'illecito in itinere.

Nel caso di Silingardi, così come di tutti gli amministratori estranei alla

"cabina di regia", ognuno riponeva ampia fiducia nelle capacità manageriali di

Tanzi e Tonna, sicché, eventuali segnali d'allarme sfumavano nell'affidamento

verso i delegati e nelle risposte sempre coerenti da questi offerte, unitamente

all'elevato livello di sofisticatezza e decettività dei falsi, sempre più evoluti e

complessi con il trascorrere degli anni.

Del resto, proprio le superiori considerazioni sul fatto che solo nell'incontro

dell'08/12/2003 il Silingardi aveva appreso della reale situazione del gruppo,

dimostrano l'esattezza della ricostruzione difensiva.

19.5. Con il quinto motivo, si lamentano erronea applicazione della legge

penale e vizi motivazionali, in relazione all'affermata sussistenza del reato di

associazione a delinquere.

In primo luogo, il ricorrente critica il circolo vizioso argomentativo, per cui la

partecipazione ai reati fallimentari si fa derivare, più o meno implicitamente,

dalla qualità di associato del Silingardi e, a sua volta, la prova dell'associazione

consegue dalla commissione delle bancarotte, nelle quali la responsabilità del

Silingardi discende nella sostanza da attività lecite, colorate dal dolo solo

attraverso una valutazione a posteriori, giacché il ricorrente: a. in Sata svolgeva

la funzione di commercialista e si limitava ad annotare - come ogni

commercialista - ciò che gli veniva indicato; b) in Cariparma, in qualità di

Presidente della Banca, partecipava alle delibere dei finanziamenti (erogati in

pool con tutte le altre principali banche italiane) di quella che era allora la più

importante (se non l'unica vera) multinazionale italiana; c) come membro del

consiglio di amministrazionedi Par.fin. e presidente del comitato di controllo

interno svolgeva l'attività che riteneva doverosa e rispetto alla quale si possono,

a tutto volere concedere, muovere addebiti di negligenza.

In secondo luogo, si lamenta che non vi è alcuna traccia nell'istruttoria

dibattimentale di indicazioni della cabina di regia dirette a Silingardi: costui

avrebbe fornito il proprio contributo, all'oscuro degli altri sodali, spontaneamente

e senza, peraltro, essere al corrente del sistema delle falsificazioni e senza "le

direttive impartite dai capi" richieste dalla giurisprudenza di legittimità. In

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definitiva, al più sarebbe configurabile un concorso nei singoli reati, non essendo

ravvisabili gli elementi oggettivo e soggettivo del reato associativo.

A riprova di tale conclusione, si richiama: a) la lettera inoltrata da Tonna a

Silingardi, quale presidente della Cariparma, in data 20/09/1999, con la quale il

primo minaccia di "riconsiderare la relazione con la Vostra banca e di iniziare

pratiche legali per il recupero della somma indebitamente sottratta dal nostro

conto", in tal modo palesando l'assenza di qualunque legame; b) il fatto che

Tanzi il giorno 06/12/2003, quando si era recato presso la sede di Roma della

banca San Paolo per richiedere di finanziare il pagamento del bond in scadenza

1'08.12.2003, non si era fatto accompagnare dal Silingardi né lo aveva avvisato

di tale sua iniziativa, per comunicargli solo il successivo 08/12/2003 la reale

situazione del gruppo.

Su un piano generale, il ricorrente aggiunge che l'art. 416 cod. pen.

contempla un reato contro l'ordine pubblico, a tutela della sicurezza e della

tranquillità dei cittadini e sottolinea che un'associazione i cui effetti sono

destinati a riflettersi soltanto su rapporti economico-finanziari non sembra possa

avere quei requisiti di minaccia e intimidazione per la collettività che la

fattispecie richiede.

19.6. Con il sesto motivo, si lamenta erronea interpretazione della legge

processuale penale, per avere la Corte territoriale omesso di disporre una perizia

in materia tecnico-contabile e finanziaria, ai sensi dell'art. 603 cod. proc. pen.,

come richiesto nell'atto d'appello, in merito ai temi dell'asserita riconoscibilità del

dissesto dall'esame dei bilanci, nonché in merito al rapporto tra debito e

liquidità, al fine di stabilire se si trattasse di un elemento fisiologico ovvero di un

indicatore di patologia.

Il ricorrente ricorda che il tribunale, su richiesta del P.M., aveva disposto

nuovamente l'audizione del C.T. dell'accusa, Prof. Ferrari all'udienza del

17/6/2010, in violazione dell'art. 507 del codice di rito, in quanto non aveva

nemmeno indicato il requisito della assoluta necessità di tale mezzo, in

violazione del diritto al contraddittorio e sottraendosi alla necessità del

sostanziale diritto alla controprova, espresso attraverso la richiesta di perizia.

19.7. Con il settimo motivo, si lamentano erronea applicazione della legge

penale e vizi motivazionali, in relazione all'affermata sussistenza dell'elemento

soggettivo con riferimento a tutti delitti per cui è stata pronunciata condanna, in

particolare concentrandosi sui "segnali d'allarme" relativi al periodo in cui il

Silingardi sedeva nel consiglio di Parfin: la liquidità nel suo rapporto con

l'indebitamento, il debito e gli eventi dell'estate e dell'autunno 2003.

Con riguardo al primo profilo, si evidenzia: a) che la liquidità che appariva

dai bilanci Parmalat era sotto gli occhi di tutti da tempo e nessuno aveva mai

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avanzato l'ipotesi che fosse insistente, neppure le Autorità di Vigilanza, anche

alla luce delle caratteristiche del gruppo; b) che dai dati di bilancio

l'indebitamento di Parmalat appariva assolutamente sostenibile, così come

affermato dai C.T. della difesa; c) che, come riconosciuto da una sentenza del

Tribunale civile di Parma, "la coesistenza tra liquidità e indebitamento non fu (...)

una prassi isolata di Parmalat essendo stata, al contrario, adottata (...) anche da

altre realtà economiche nazionali ed internazionali del settore alimentare e

pertanto non può assurgere a sintomo conclamato di anomalia o dissesto"; d)

che, anche secondo la relazione

fatta nel gennaio 2004 dal Governatore di Banca d'Italia Fazio in

Parlamento, l'esposizione delle banche italiane facenti capo alla famiglia Tanzi

non ha mai raggiunto livelli tali da costituire un rischio per la stabilità di alcun

intermediario

Con riguardo al debito, si rileva che le ricostruzioni effettuate dai C.T. del

P.M., fatte proprie dalla Corte d'Appello, erano avvenute a posteriori, utilizzando

le analisi fatte da Banca d'Italia su richiesta della Procura di Parma,

successivamente al default. In definitiva, si trattava di dati aggregati che non

erano disponibili prima del default, posto che all'epoca non esisteva una Centrale

Rischi di gruppo. Ed, infatti, né la Banca d'Italia né alcuno degli Istituti di Credito

che aveva constatatola presenza di discrasie, prima del default, e neppure gli

Istituti che avevano rilevato delle squadrature dei risultati del bilancio

consolidato rispetto ai dati della Centrale Rischi, aveva mai scoperto la reale

situazione di Parmalat: nessuna, infatti, aveva rapporto alla Banca d'Italia, né

interruppe i rapporti con il gruppo Parmalat. Al più vennero chieste delle

delucidazioni agli amministratori esecutivi, cui seguirono risposte ritenute

soddisfacenti, come dimostra la vicenda relativa all'ampliamento dei fidi

avvenuto nel luglio del 2003 da parte di IMI - San Paolo, di cui aveva riferito il

teste Rainer Masera.

Del resto, dall'esame del bilancio consolidato, la Banca, ossia i

funzionari/dirigenti addetti alla stesura della relazione da sottoporre agli organi

deliberanti (e quindi non certo il Presidente), avrebbero al più potuto vedere che

il saldo complessivo dello scoperto delle Banche (ossia delle Banche italiane, che

obbligatoriamente forniscono i dati di esposizione del Gruppo alla Banca d'Italia

che poi provvede alla elaborazione dei flussi di ritorno), non coincideva con i dati

risultanti dal bilancio consolidato. Inoltre, la Centrale Rischi registra solo i

prestiti erogati dalle banche italiane e dagli altri intermediari vigilati (ossia, le

filiali di banche estere in Italia e le filiali di banche italiane all'estero) e ciò non

consente di ricostruire, attraverso di essa, l'indebitamento complessivo di gruppi,

come quello Parmalat, che facevano ricorso a mercato estero.

52 A

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Ad ogni modo, si osserva: a) che era assolutamente illogico affermare che

Silingardi avrebbe potuto o dovuto verificare attentamente la situazione di

Parmalat quando era Presidente di CariParma, in quanto Silingardi si era

dimesso il 12/06/2000, ben prima di entrare nel Consiglio di Amministrazione di

Par.fin. (aprile 2001), mentre le perplessità da parte di Istituti bancari circa

squadrature tra il dato della Centrale Rischi ed i dati del bilancio consolidato

appaiono essere state avanzate a partire dalla fine del 2000 - inizi 2001, come

risulta anche dalla testimonianza del teste Masera; b) che dalla due diligence

eseguita da Andrea Dall'Olio per conto del Ferraris si desumeva, al contrario di

quanto ritenuto dalla Corte territoriale, che quest'ultimo, ancora negli ultimi mesi

del 2003, non era in grado di conoscere la reale situazione del Gruppo Parmalat

e solo in seguito a tale indagine fatta eseguire da persona che faceva parte del

Gruppo sin dal 1987 e che aveva dovuto consultare i documenti conservati in

Tesoreria e non nella disponibilità di un amministratore non esecutivo, era

riuscito a comprendere cosa stava in realtà accadendo.

Con riguardo agli eventi dell'estate e dell'autunno 2003, si rileva, con

riferimento al buy back dei bonds, che solo nell'intervista "I segreti di Mister

Bond" e, dunque, nel dicembre del 2002, si era dato per la prima volta atto del

riacquisto dei bonds; in ogni caso, all'epoca, non vi era alcun obbligo di

segnalazione delle operazioni di compravendita degli strumenti finanziari propri,

obbligo che invece era stato introdotto successivamente da Consob con delibera

n. 15232 del 26/01/2005, e ciò senza dire che il riacquisto di bonds era

operazione funzionale a quella di rifinanziamento del debito, prassi

assolutamente normale per una società operante sul mercato del debito, e come

tale più volte illustrata dal management della Par.fin. e resa nota al mercato,

come dimostrato dal fatto che nè Standard & Poor's né Consob avevano avuto

nulla da obbiettare.

19.8. Con ottavo motivo si lamentano erronea applicazione della legge

penale e vizi motivazionali, con particolare riguardo ai fatti (rapporti personali,

competenze specifiche, ruoli ricoperti, condotte poste in essere, eventi

indubbiamente conosciuti), che, secondo la Corte territoriale, attribuiscono a

Silingardi non solo la mera conoscibilità, né esclusivamente una effettiva ed

ampia conoscenza degli illeciti affari e delle fraudolente modalità operative del

gruppo di Collecchio e del suo "patron", ma addirittura ne rilevano la

cooperazione con la cd. "cabina di regia".

Al riguardo, si rileva: a) quanto alla posizione di Silingardi, quale Presidente

della Cassa di Risparmio di Parma, che, a tacer del fatto che tale carica era stata

ricoperta solo sino al giugno del 2000, in ogni caso, nel consiglio di

amministrazione della Banca si approvavano i finanziamenti da Cariparma a

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Parmalat e da Cariparma al Turismo, non certo i finanziamenti da parte di

Parmalat al Turismo, che nulla avevano a che vedere con la banca; b) che le

prove testimoniali raccolte escludevano pressioni del Silingardi nelle pratiche

concernenti il gruppo, mentre, per altro aspetto, le considerazioni

personologiche, a proposito dell'influenza del Silingardi, contenute in una

relazione ispettiva della Banca d'Italia, erano prive di qualunque rilievo; c) che,

nell'ambito della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, nessuno aveva mai

contestato alcunché circa eventuali pratiche di finanziamento irregolari, non i

sindaci di Cariparma né la società di revisione che certificava i bilanci dell'Istituto

di Credito e neppure, infine, la Banca d'Italia; d) che non era dato intendere a

quale titolo Silingardi, Presidente di una banca, ma pur sempre un privato

cittadino, dovesse esperire controlli esorbitanti dalle sue attribuzioni, con

capacità e competenza maggiori di quelle autorità che avevano il potere - ed anzi

il dovere - di vigilare e che non avevano mai sollevato alcun rilievo; e) che

irrilevanti erano le attese di Tanzi in ordine alle condotte del Silingardi; f) che era

stata contestata dalla difesa l'affermazione di una consapevolezza da parte del

ricorrente in ordine alle operazioni distrattive in favore del Gruppo Turismo e del

resto anche il Tonna aveva riferito di non sapere nulla al riguardo; g) che,

quanto alla vicenda del finanziamento in pool del 27 gennaio 1997 a favore di

ITC & P e del relativo rimborso, non rispondeva alla realtà dei fatti che la banca,

per erogare un finanziamento al Gruppo del Turismo, avesse preteso ed ottenuto

denaro e garanzie dal gruppo alimentare; h) che i finanziamenti concessi da

Cariparma al gruppo del turismo avevano sempre rappresentato una parte

infinitesima rispetto a quanto erogato da altri ben più importanti Istituti Bancari

e che proprio la vicenda in esame dimostrava che non fu certo Cariparma a farsi

promotrice dell'operazione del finanziamento in pool del 1997, bensì Banca di

Roma che assunse il ruolo di capofila e chiese espressamente l'intervento di

Cariparma; i) che, se Cariparma e Silingardi fossero stati a conoscenza della

provenienza dei denari rimborsati con fondi del Gruppo alimentare, non avrebbe

avuto alcun senso creare il sistema ruotante attorno a Web Holdings; I) che

l'affermazione di Tonna, secondo il quale erano "gli stessi funzionari delle banche

(compresi quelli di Cariparma) a lamentarsi della spudoratezza con cui venivano

effettuati i finanziamenti da Parmalat spa al Turismo, ed a considerare

ordinariamente i due gruppi come una cosa sola", non dimostrava la

consapevolezza di Silingardi, anche perché non accompagnata neppure

dall'indicazione di quali funzionari si sarebbero lamentati ed in quale periodo;

inoltre Tonna non aveva affermato di essere direttamente a conoscenza del

fatto, ma di averlo appreso da Tanzi, con riferimento ad una non meglio

precisata Cassa di Risparmio; m) che neppure assumeva rilievo il fatto che il

q/ 54

d

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Silingardi era stato il professionista contabile di una società, giacché il

professionista non riveste una posizione di garanzia e ciò senza dire che al

professionista che, per di più non direttamente, ma tramite il personale di una

Società di Servizi, la Revinda S.r.l., cura la contabilità di una società, può

attribuirsi la conoscenza necessaria dei movimenti che annota, ma non - se non

e nei termini riferitigli dai titolari - la conoscenza delle causali dei versamenti in

dare e in avere con altri soggetti che interfacciano la società di cui ha l'incarico di

tenere la contabilità; tanto meno egli apprende, inevitabilmente, la valenza

lesiva di tali versamenti sul patrimonio sociale della società versante; n) che,

pertanto, con riferimento alla vicenda dei finanziamenti da Parmalat s.p.a. alla

società Sata, per il Silingardi, il quale non aveva modo di controllare l'effettività

del pagamento, ciò non poteva che costituire la dimostrazione dell'assenza di

ogni pregiudizio in capo a Parmalat stessa, talché era assolutamente illogico

concludere che Silingardi doveva sapere che prima di tale passaggio i soci

avessero ricevuto ingiustificate erogazioni da parte di Parmalat tramite Sata,

proprio perché l'acquisto di detti crediti agli occhi dello stesso chiudeva ogni

partita con Parmalat, e ciò anche in ragione del fatto che il Silingardi non era

imputato della bancarotta concernente la Sata; o) che, in ogni caso, non erano

mai stati accordati a Sata ingenti finanziamenti, dal momento che, come risulta

dalle delibere di Cariparma in merito alla concessione di linee di credito alla

predetta, il fido massimo concesso a Sata era arrivato alla non rilevante somma

di 5 miliardi di lire; p) che, comunque, neppure dalle dichiarazioni del Tonna

poteva desumersi che il Silingardi fosse consapevole che il meccanismo della

cessione dei crediti ai soci costituiva solo una giustificazione contabile, ma che

poi Sata avrebbe dovuto effettivamente restituire i soldi a Parmalat, giacché le

affermazioni del Tonna potevano essere riferite proprio al rimborso effettuato dai

soci che avevano acquistato detti crediti; in ogni caso, non si poteva pretendere

che il Silingardi dovesse preoccuparsi di verificare tale situazione, posto che non

rivestiva alcuna carica, né in Sata, né in Parmalat s.p.a., in quanto si occupava

solo della contabilità di Sata; q) che, d'altra parte, era evidente che Sata,

avendo acquistato Odeon al 100%, non poteva che farsi carico in prima istanza

del pagamento dei debiti di tale società, secondo i principi del diritto civile, salvo

poi rivalersi su Parmalat che aveva prestato una fideiussione, come era stato

spiegato con estrema chiarezza dal coimputato Tonna; r) che, ancora, erano gli

Amministratori di Parmalat spa e ed i Sindaci a dover segnalare in bilancio le

ingenti distrazioni operate in favore di Sata e del Gruppo alimentare e non

certamente gli amministratori non esecutivi di Par.fin. cui tali dati sono stati

scientemente occultati; s) che, pertanto, il Silingardi quando, a ben nove anni di

distanza dal momento in cui aveva cessato di seguire la contabilità di Sata, era

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Page 56: 32352/14 )d - Diritto Penale Contemporaneo...Parmalat Finanziaria s.p.a. e dalle sue controllate. Tale gruppo presentava una rilevante sub holding mista, operativa e finanziaria, che

entrato nel Consiglio di amministrazione di Par.fin., società quotata, sottoposta a

revisione legale ed a vigilanza della Consob, aveva preso atto di quanto

emergeva dal bilancio consolidato e di quanto riferito dagli esecutivi con

riferimento all'esistenza di rapporti con società correlate, sotto il controllo del

Collegio Sindacale e della società di revisione, e non aveva certo pensato di

intraprendere delle ispezioni a titolo personale; t) che l'affermazione della Corte

d'Appello, secondo cui la gestione contabile e la redazione dei bilanci di Sata non

era sostanzialmente mai uscita dal "dominio di Silingardi", in quanto affidata, su

indicazione da quest'ultima, al fidato Branchi, era contrastata sia dal fatto che la

dichiarazione del teste Gorreri era una mera illazione, sia dal fatto che la

medesima Corte territoriale, in varie occasioni, aveva riconosciuto che il Branchi

era piuttosto il fedele esecutore delle direttive del Tonna; u) che, se è vero che

nel triennio '91-'93, erano state nominate come sindaco di Sata alcuni dipendenti

dello studio Silingardi e di Revinda, Ferraguti Daniela e Maestri Maria Chiara ed

una collaboratrice dello stesso studio, Veroni Pier Marina, era altrettanto vero

che nessuna di loro aveva mai riferito che Silingardi le controllasse in alcun

modo, riconoscendo, al contrario, di svolgere i loro compiti; v) che, con riguardo

alla cessione delle azioni della Boschi s.p.a., al di là della superficiale valutazione

della sostanza economica dell'operazione, la Corte d'appello non aveva

considerato che il Silingardi all'epoca aveva agito come consulente di Sata e,

quindi, non era tenuto a valutare la convenienza dell'operazione per Parmalat,

tanto più che la società era in bonis; inoltre, il ricorrente poteva vedere solo che

gli assegni utilizzati per il pagamento erano stati tratti su di un conto corrente di

Sata, ma da ciò non poteva desumersi che, quando Silingardi era Presidente di

Cariparma, controllasse i flussi in entrata sui conti correnti delle società

correntiste, non avendone né il dovere e neppure il potere e ciò senza dire che il

fatto che, all'epoca agli ultimi acquisti, egli fosse Consigliere di Par.fin., non gli

consentiva di controllare dove finissero i denari di Parmalat, per la semplice ma

conclusiva ragione che i Consiglieri ed i Sindaci di Parmalat s.p.a. avevano

scientemente occultato in bilancio tali uscite di denaro con la complicità della

società di revisione; z) quanto alla disastrosa situazione dell'argentina e del Sud

America, che il Viotto non aveva mai riferito alcunché di preoccupante o di

irregolare, come risulta dal testo scritto delle sue relazioni, allegate agli atti del

Comitato di Controllo Interno, talché era evidente che il medesimo Viotto non

aveva detto la verità, quando aveva cercato di sostenere che la ragione del suo

comportamento andava ricercata nel fatto che il suo compito era solo quello di

riferire sulle procedure e che non gli furono poste questioni circa l'indebitamento

brasiliano; in definitiva, se Viotto, preposto al Controllo Interno, occultava

scientemente le perdite del Gruppo al Comitato, ciò non può che condurre alla

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logica conclusione che Silingardi non solo non era a conoscenza di tali perdite,

ma neppure faceva parte della "cabina di regia": infatti gli altri due membri del

Comitato di Controllo Interno, Tonna e Giuffredi, ne facevano

inequivocabilmente parte, avendolo ammesso espressamente Tonna ed avendo

patteggiato per tutte tali accuse Giuffedi, con la conseguenza che tutta la messa

in scena non poteva che essere organizzata in danno di Silingardi.

Il motivo di ricorso, quindi, dopo avere esaminato la genesi del Comitato di

Controllo Interno e la disciplina regolatrice, osserva che a tale organo è

demandata una attività di valutazione (e, pertanto, non di "verifica",

"assevera mento", "indagine", "ispezione", etc.), circoscritta a documenti

predisposti da altri soggetti.

Quanto alla vicenda Streglio, il ricorrente rileva che la segnalazione, alla

vigilia del default, da parte di Tonna e Viotto, i quali avevano nascosto le perdite

del comparto sudamericano a Silingardi in occasione delle riunioni del Comitato

per il Controllo Interno per cifre di alcuni miliardi di euro, concerneva contestate

distrazioni per appena 126.000 euro, al fine evidente di distoglierne l'attenzione

dai più gravi illeciti commessi e dalla vicenda del fondo Epicurum.

Si aggiunge che non era neppur vero che Silingardi fosse stato portato a

conoscenza dei pur modesti ammanchi sin dal maggio del 2003: solo nella

riunione del Comitato di Controllo Internodel 09/09/2003, Viotto aveva reso una

scarna informazione del problema "Visconti", fornendo fra l'altro dati contabili

ancora approssimativi. Il comitato, presenti anche il Brughera e il Giuffredi,

aveva incaricato il Silingardi di informare sull'argomento Tanzi per valutare la

situazione, chiarire la natura e la congruità delle spese in modo da regolarizzare

al più presto la situazione.

In ogni caso, la condotta distrattiva non era stata posta in essere dai

componenti del vertice Parmalat ma dal Presidente del consiglio di

amministrazionedi Streglio, con la conseguenza che era tale società che avrebbe

dovuto provvedere a prendere gli opportuni provvedimenti e non certo Par.fin.,

che era una mera holding di partecipazioni; d'altra parte, il Comitato per il

Controllo interno di Par.fin. in teoria avrebbe dovuto occuparsi solo del controllo

interno di Par.fin. stessa e non dell'intero gruppo.

Infine, con riguardo alle ultime emissioni di bonds, lamenta il ricorrente che

egli si era rivolto a Ferraris per avere dei chiarimenti e questi, nuovo e brillante

Direttore Finanziario, molto conosciuto ed apprezzato nel mondo bancario, gli

42)/ aveva risposto che era riuscito a spuntare delle condizioni particolarmente

favorevoli, così come emergeva dai dati illustrati in consiglio di amministrazione,

trascurati completamente dalla Corte d'appello.

In tale contesto, non era dato comprendere perché il ricorrente avrebbe

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dovuto pretendere di verificare la contrattualistica intercorsa tra il Gruppo e gli

istituti bancari, che, come affermato dal Ferraris nel procedimento per

aggiotaggio a Milano, non era stata messa a disposizione dei Consiglieri non

esecutivi.

Pertanto, il Silingardi aveva comunicato regolarmente le operazioni al

consiglio di amministrazione, ritenendole perfettamente lecite, secondo quanto

riferito da Ferraris.

Da ultimo, si osserva che per tali fatti, ossia con riferimento alla

comunicazione al mercato relativa all'emissione dei bonds dell'estate del 2003,

nei confronti del Silingardi è intervenuta sentenza irrevocabile di assoluzione per

non aver commesso il fatto nell'ambito del procedimento c.d. Parmalat

aggiotaggio instauratosi a Milano.

19.9. Con il nono motivo, si lamenta erronea applicazione della legge penale

in relazione all'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 219, comma primo, I.

fall. alle ipotesi di bancarotta impropria previste dall'art. 223, commi primo e

secondo, I. fall.

19.10. Con il decimo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea

applicazione degli artt. 132, 133 e 62 bis cod. pen, in riferimento alla concreta

commisurazione della pena, tenuto conto della brevissima durata della carica

ricoperta da Silingardi in seno al consiglio di amministrazione di Par.fin. e delle

modalità che ne hanno contrassegnato l'ingresso, e alla mancata concessione

delle circostanze attenuanti generiche, alla luce dell'incensuratezza all'epoca dei

fatti di un imputato di età oggi superiore ai 70 anni, con una lunga e specchiata

carriera professionale alle spalle, oltre che del comportamento leale e corretto

tenuto nel corso del processo.

19.11. Con l'undicesimo motivo, si lamenta erronea applicazione della legge

penale e processuale penale in relazione al mancato riconoscimento della

sussistenza del medesimo disegno criminoso in relazione alle condotte contestate

nel presente procedimento e in quello milanese già passato in giudicato, alla luce

dell'istanza depositata all'udienza del 05/03/2012.

19.12. Con il dodicesimo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea

applicazione della legge penale, con riferimento alle statuizioni civilistiche, a

favore delle società del gruppo Parmalat e correlate in amministrazione

straordinaria, contenute nella sentenza nonché nell'ordinanza emessa in data

12/12/2011.

Sul punto, si critica, in ragione delle considerazioni svolte nei motivi che

precedono, l'erroneità della decisione, con riferimento soprattutto con

riferimento a quelle società - controllate o collegate - in relazione alle quali il

Silingardi non aveva alcuna posizione di garanzia (capi C.6.3., D.3.8.2., D.3.8.3.,

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D.3.8.4., D.3.9., D.5.2., D.10, L.1.).

Si aggiunge che la Corte d'Appello, con ordinanza emessa il 12/12/2011, ha

dichiarato l'inammissibilità delle costituzioni di parte civile di Alvisi + 45,

Lavagnino + 47, Di Stefano + 11, Cabrini, Ballarin + 159, Beltrami + 115,

Corvaia + 12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza + 35, Allegri + 73,

Pompini + 38, Agresti + 55, Anceschi + 36, giacché effettuate all'udienza del 6

maggio 2008, tramite sostituto del difensore procuratore speciale, sulla base di

un'eccezione posta dalla difesa del coimputato Calogero.

Tale pronuncia, secondo il ricorrente, erroneamente aveva ritenuto, invece,

permanente la costituzione nei confronti degli altri imputati, non ricorrenti sul

punto, anche in ragione dell'art. 587 cod. proc. pen.

19.13. Nell'interesse del Silingardi è stata depositata memoria nella quale si

sviluppano alcune delle critiche sopra riassunte.

20. Domenico Barili. È stato membro del consiglio di amministrazione di

Par.fin. s.p.a. dal 30 ottobre 1998 al 30 dicembre 2003, del comitato esecutivo e

del comitato per la remunerazione di Par.fin. s.p.a. dal 15 maggio 1992 al 30

dicembre 2003, membro del consiglio di amministrazione di Eliair s.r.l. dal 1992

al 6 febbraio 2004, di Eurolat s.p.a. dal 7 luglio 1999 al 16 maggio 2003, di

Parma AC s.p.a. dal 19 luglio 1996 al 26 giugno 2002, di Parmalat s.p.a. da

prima del 10 gennaio 1989 al 24 dicembre 2003 e vicepresidente dello stesso

sino alla medesima data, direttore generale commerciale di Parmalat s.p.a. dal

10 giugno 1980 al 16 maggio 2001, presidente del consiglio di amministrazione

della Centrale del Latte di Parmalat s.p.a. dal 23 maggio 1997 al 31 dicembre

2000.

Sono stati proposti distinti ricorsi, dall'imputato, personalmente e

nell'interesse dello stesso.

20.1, Con il primo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili, si

lamenta inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con

riferimento all'omessa traduzione degli atti in lingua straniera contenuti nel

fascicolo delle indagini preliminari, con conseguente invalidità dell'avviso di

conclusione delle indagini e degli atti successivi.

L'impugnativa riguarda l'ordinanza del 09/01/2012, con la quale la Corte

territoriale ha dato atto che il Tribunale aveva disposto, su richiesta dei difensori

di alcuni imputati, la traduzione dei documenti in lingua inglese prodotti dal P.M.,

e sottolinea, per un verso, che la traduzione, anche a prescindere dalla richiesta

degli imputati, doveva riguardare anche tutti gli altri atti in lingua diversa

dall'italiana contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari e, per altro verso,

che il pur parziale adempimento era tardivo, in quanto intervenuto

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successivamente alla notifica dell'avviso di conclusione delle indagini, con

conseguente pregiudizio per le garanzie difensive, anche in relazione alla

possibilità di accedere a riti alternativi.

20.2. Con il secondo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili, si

lamenta inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con

riferimento al diniego per i difensori e gli indagati di accedere al fascicolo

cartaceo depositato ai sensi dell'art. 415 bis, comma 2, cod. proc. pen.

Al riguardo, si osserva che i diritti difensivi previsti dalla norma appena

citata sono stati limitati, in quanto si è prevista soltanto la consegna di supporti

informatici asseritamente contenenti la documentazione contenuta nel

menzionato fascicolo, con la conseguenza che è stata inibita l'estrazione di copia

cartacea e, ancor prima, è stata preclusa la stessa possibilità di prendere visione

dei documenti, come, del resto, riconosciuto dallo stesso P.M. nel corso

dell'udienza del 24/11/2008. Si aggiunge, sul punto, che la digitalizzazione dei

documenti è avvenuta in assenza di disciplina legale idonea a conferire valore

legale all'attività, ossia senza alcuna garanzia che l'operazione abbia riprodotto

completamente gli atti acquisiti.

20.3. Con il terzo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il

primo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato, si lamentano vizi

motivazionali e violazioni di legge.

In particolare, si critica la sentenza impugnata per avere, per un verso, dato

atto della progressiva marginalizzazione, a partire dal 1997, del Barili, del fatto

che già dal 2000 il direttore generale del gruppo era divenuto il Tonna, del fatto

che nella primavera del 2001 il Barili era stato costretto a dimettersi e, per altro

verso, ritenuto che l'imputato fosse a piena conoscenza e partecipe del sistema

di illeciti realizzato dalla cd. "cabina di regia" e ciò anche a prescindere dalla

concreta disponibilità del supporto cartaceo o informativo dei dati HQR. Illogica

conseguenza di tale contraddittoria premessa - oltre che espressione di

violazione dell'art. 648 cod. proc. pen. - era rappresentata dal fatto che la

responsabilità del Barili per i fatti di bancarotta societaria di cui al capo B era

stata ritenuta a prescindere dalla sua compartecipazione alle correlate fattispecie

di bancarotta impropria.

Si rileva, sul piano delle acquisizioni probatorie, che le dichiarazioni del

Tonna, quanto alle pretese conoscenze da parte del Barili del sistema ruotante

attorno alla società Bonlat e dei dati HQR, erano state smentite già nel corso del

primo grado del giudizio. Del pari, il Tonna era stato smentito quanto alle

conoscenze dell'imputato in ordine ai flussi in uscita da Wishaw Trading, come

dimostrato dal fatto che il Barili era stato assolto, con sentenza ormai

irrevocabile, da tutte le contestazioni relative a tale sistema.

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Del resto, sempre in primo grado, era emerso, in aggiunta a quanto sopra

evidenziato, che il Barili, impegnato con risultati positivi nella direzione

commerciale, non apparteneva alla cerchia dei falsificatori guidata dal Tanzi e dal

Tonna, nulla sapeva delle manipolazioni concernenti il conto asseritamente

acceso presso Bank of America e dell'inesistenza del fondo Epicurum, al punto

che era stato assolto da decine di imputazioni, né era al corrente del

trasferimento di fondi da Parmalat verso il Gruppo Turismo. Per ragioni di ordine

espositivo, va anticipato che il ricorrente valorizza, altresì, il fatto che i files

rinvenuti nel computer del Nicolotti e la deposizione del teste Prevedini rendono

palese che il Barili, nelle riunioni di budget veniva reso edotto solo dei dati

ufficiali della contabilità, che rivelavano un andamento positivo e apparivano

congrui con quanto indicato in bilancio.

In definitiva, osserva il ricorrente, anche alla luce del positivo rilievo del

Gruppo Parmalat, dello straordinario prestigio e potere del Tanzi, dei

riconoscimenti ricevuti, anche dalle agenzie di rating, sino al default e

dell'assenza di ogni rilievo da parte delle autorità di vigilanza, mancano le basi

obiettive per affermare la sussistenza del dolo, sia pure nella forma del dolo

eventuale, in relazione ai reati contestati. A tal proposito, si ricorda che, anche

con riguardo ad uno dei partecipanti alla riunione dell'08/12/2003, nel corso del

quale Tanzi mise taluni consiglieri al corrente della situazione di Parmalat, nel

procedimento milanese per aggiotaggio, definito con decisione ormai

irrevocabile, si era dato atto dell'assenza di consapevolezza, sino a quel

momento, della miserevole condizione del gruppo.

A ciò deve aggiungersi che il Barili non fu invitato a tale riunione e

nemmeno viene menzionato tra coloro che non furono convocati, perché già al

corrente della situazione del Gruppo; ciò si spiega con la ricordata progressiva

marginalizzazione risalente al 1997, che rende del tutto irrilevanti i "segnali

d'allarme", colti dalla sentenza impugnata, a partire dal 2002.

La contraria affermazione della Corte territoriale, oltre a contrastare con tali

dati, ignora, sul punto anche le dichiarazioni di Tanzi, secondo il quale, appunto,

il Barili nulla sapeva del sistema Bonlat, né si confronta con le conclusioni dei

giudici di primo grado, secondo i quali il Barili era stato estraneo all'ideazione e

alla realizzazione dei falsi, né era stato informato delle modalità con i quali erano

realizzati.

Che, peraltro, la realtà economica del Gruppo non fosse percepibile è

dimostrato dal fatto che, quando il sindaco di Par.fin. s.p.a., Martellini, ottenuta

una risposta sgarbata da Tonna in ordine al mantenimento di un'elevata liquidità,

chiese una relazione alla società di revisione, non emerse nulla di anomalo,

sicché, in definitiva, qualunque approfondimento sarebbe stato inutile, con

61 A.

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conseguente irrilevanza, sul piano causale, di una alternativa condotta

ipotizzabile.

In conclusione, solo nel consiglio di amministrazione . del 19/12/2003 il

Barili aveva appreso dell'inesistenza del conto presso Bank of America.

Il ricorso, poi, con riferimento alle fattispecie di bancarotta di cui all'art.

223, comma primo, I. fall., rileva che la Corte territoriale muove dal presupposto

secondo il quale il fallimento non rappresenta l'evento del reato, con

conseguente irrilevanza dell'accertamento del nesso eziologico e psicologico tra

condotta e insolvenza, e ne critica l'argomentare, richiamando e in senso

contrario Sez. V, 24/09/2012, Corvetta.

Il ricorrente ribadisce di essere stato assolto dalla quasi totalità delle

vicende contemplate nel capo C e di essere stato destinatario, per altre

imputazioni, di sentenza di non luogo a procedere all'esito dell'udienza

preliminare. Tale conclusione è stata raggiunta anche in relazione a svariate

vicende distrattive di cui ai capi D, E, F, la cui rilevanza si coglie non solo sul

piano quantitativo, ma anche qualitativo, considerata l'incidenza che hanno

avuto del default del gruppo e, sul piano soggettivo, sulla consapevolezza della

reale situazione economica del Gruppo.

Egli aggiunge, altresì, con riferimento alle vicende legate alle concessionarie

e al cd. giro delle ricevute bancarie, che egli era assolutamente estraneo a

qualsivoglia meccanismo illecito, tanto che era stato assolto dalle imputazioni di

cui ai capi 0.1 e 0.2.

Siffatta estraneità era, peraltro, dimostrata dall'altrimenti inspiegabile

ingerenza del Tonna che aveva bloccato la consegna di merce ad un

concessionario di Sulmona, a fronte del previsto pagamento con assegno

bancario, anziché circolare, e delle conseguenti discussioni intervenute con il

Tanzi. Del resto, era anche emerso che il Barili era stato il solo ad impegnarsi

per aumentare il compenso distributivo riconosciuto alle concessionarie,

rimanendo estraneo alla loro gestione, alla tesoreria di Parmalat e al sistema

centralizzato di contabilizzazione, come confermato dal fatto che era stato il

Pessina, come da lui ammesso, ad occultare il carattere fittizio del rateo

contabile che, a fine anno, serviva a ripianare le perdite. Al contrario, del tutto

inesistente sul punto era una contraria affermazione del Tonna, in ordine alla

conoscenza da parte del Barili del giro di ricevute bancarie.

Sempre con riferimento a tale vicenda, si osserva che la dichiarazione del

Pessina, secondo la quale egli fece presente al Barili di essere stato costretto a

firmare bilanci falsi, precisando che, se la situazione fosse continuata, egli si

sarebbe rifiutato di proseguire nell'incarico di amministratore, dimostrava solo,

posto che il Pessina aveva continuato a svolgere l'incarico, che il Barili poteva

62

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ragionevolmente supporre che le cose fossero cambiate.

In definitiva, tutti tali elementi dovevano condurre ad affermare l'estraneità

del ricorrente rispetto alle imputazioni di cui ai capi C.8.1. e 0.3.

Con ulteriore articolazione del motivo, si osserva che gli stessi elementi

sopra valorizzati rendono ingiustificata l'affermazione di responsabilità in

relazione al capo A, come del resto emerge dal fatto che, nella quasi totalità dei

punti in cui il capo di imputazione è articolato, il ricorrente non è menzionato

affatto, così come non è menzionato nei sottocapi concernenti i rapporti con le

concessionarie.

Quanto al punto 2.IV, nel quale il ricorrente è indicato, si rileva che la stessa

operazione indicata è contemplata anche nel capo C.II, dal quale il Barili è stato

assolto, e quanto al punto 2.11, si osserva che l'imputazione è stata limitata al

2001, anno nel quale il ricorrente, dopo il progressivo esautoramento iniziato nel

1997, era stato dimissionato.

20.4. Con il quarto motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il

secondo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato, si lamentano

vizi motivazionali e violazione di legge, per avere la Corte d'appello affermato la

responsabilità dell'imputato, in relazione a fatti per i quali era intervenuta

assoluzione.

In particolare, il ricorrente si duole della condanna per bancarotta impropria

fraudolenta da reato societario di cui al capo B, nonostante l'assoluzione per altri

sottocapi che richiamano le medesime vicende e qualificate come operazioni

dolose o come vicende distrattive (capi: B.2.1.4, in riferimento ai sottocapi

C.7.1, C.7.2., C.7.4., C.7.5; B.2.1.5, in riferimento al sottocapo C.8.3.; B.2.1.6,

in riferimento al sottocapo C.8.2.; B.2.2.0 in riferimento al sottocapo D.3.;

B.1.2., B.2.1.a, B.2.1.b, B.2.1.b.ii, B.2.1.c) a), B.2.1.c) b), B.2.1.c) c), B.2.1.d,

B.2.2.f).

20.5. Con il quinto motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il

terzo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato si lamentano

erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione

all'affermazione di responsabilità in relazione al capo C.6., alla luce della sopra

ricordata estraneità del ricorrente alla gestione finanziaria del Gruppo.

A ciò si aggiunge che la qualificazione della vicenda in termini di operazione

dolosa, anziché di ricorso abusivo al credito, si giustifica, nel precedente

giurisprudenziale citato dalla Corte territoriale, in ragione del testo previgente

dell'art. 218 I. fall., che, prima della riforma attuata con la I. n. 262 del 2005,

faceva salva la configurabilità di un diverso reato. La soppressione della clausola

rende perciò applicabile in tale prospettiva il principio di specialità di cui all'art.

15 cod. pen.

63

a 9-

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In via subordinata, si osserva che comunque si imponeva una pronuncia

assolutoria rispetto al capo C.6.3., attesa l'estraneità del Barili alla Parmalat

Finance Corporation BV, attestata anche dalla sua assoluzione in relazione al

capo B, con riguardo a tale società.

20.6. Con il sesto motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il

quarto motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato, si lamentano

erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione

all'affermazione di responsabilità in relazione al capo C.3., valorizzando, oltre

che la ricordata estraneità alle decisioni di carattere finanziario, il fatto che le

modalità con le quali la società Coloniale si era procurata i mezzi per

sottoscrivere l'aumento di capitale di Par.fin. s.p.a. non potevano riguardare

quest'ultima e che, infatti, dalle imputazioni relative a tali vicende e alle modalità

di rimborso del finanziamento ottenuto dalla società Coloniale (capi E.2. e R.4.2.)

il Barili era stato assolto.

20.7. Con il settimo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il

quinto motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato si lamentano

erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione

all'affermazione di responsabilità in relazione al capo 0.3., ribadendo l'estraneità

del ricorrente al sistema di illecita gestione delle concessionarie e precisando che

il Barili era stato assolto dalle contestazioni di cui ai sottocapi 0.1. e 0.2.

Ora, il capo 0.3. si articola nei due sottocapi 0.3.ii e 0.3.i: il primo riguarda

un'ipotesi di bancarotta societaria impropria derivante dall'alterazione del

risultato di esercizio e dell'entità dei crediti riportati nello stato patrimoniale,

mediante l'indicazione dei falsi ricavi di cui al precedente capo 0.2., dal quale

però il ricorrente è stato assolto per non avere commesso il fatto; il secondo,

concerne l'asservimento delle concessionarie all'assorbimento dei volumi di

produzione Parmalat non utifizzabili sul mercato e il giro delle ricevute bancarie,

ossia vicende per le quali valgono le considerazioni svolte nei motivi precedenti.

20.8. Con l'ottavo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il

sesto motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato si lamentano

erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione

all'affermazione di responsabilità in relazione ai capi D.15 e F.9.

Il ricorrente sottolinea che le somme percepite in forza del contratto di

consulenza corrispondevano alla documentata attività svolta, in assenza di

qualunque elemento idoneo a sostenere la fittizietà dell'incarico, e che gli importi

corrisposti a titolo di buonuscita, rappresentavano il ragionevole compenso in

relazione alla brusca interruzione del rapporto, laddove il pagamento da parte di

una società terza rispetto a quella obbligata poteva legittimamente inquadrarsi

nella delegazione di pagamento o nell'adempimento del terzo.

64

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In ogni caso, si rileva l'assenza di qualunque approfondimento in ordine al

nesso eziologico fra tali operazioni e il verificarsi dell'insolvenza.

20.9. Con il nono motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il

settimo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato, si lamentano

erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione

all'affermazione di responsabilità in relazione ai capi D.34 e F.11.5.,

rispettivamente relativi ai dividendi pagati da Parmalat s.p.a. negli anni 1990 -

2003 e da Parfin s.p.a. negli anni 1990 - 2002.

Richiamando le censure svolte nel primo motivo, il ricorrente ribadisce

l'assenza di consapevolezza in ordine alla reale situazione nella quale versava il

Gruppo, a fronte della sua estraneità alla gestione finanziarie e alla sua

progressiva marginalizzazione iniziata nel 1997, e il fatto che la stessa sentenza

impugnata ammette che sino a sei anni prima del default non si poteva cogliere

nella distribuzione di dividendi alcuna deviazione dalle finalità sociali.

Anche in relazione a tale ipotesi si rileva l'assenza di qualunque

approfondimento in ordine al nesso eziologico fra tali operazioni e il verificarsi

dell'insolvenza.

20.10. Con il decimo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e

l'ottavo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato, si lamentano

erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione

all'affermazione di responsabilità in relazione ai capi L.1. e L.2., rispettivamente

concernenti la falsificazione delle scritture contabili di Parmalat s.p.a. e di Parfin

s.p.a., ribadendo e sviluppando le considerazioni svolte nel primo motivo.

20.11. Con l'undicesimo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili

e il nono motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato, si lamentano

vizi motivazionali e violazioni di legge, con riferimento alla determinazione

dell'entità della pena, per avere la Corte territoriale completamente trascurato di

esaminare le censure che investivano l'eccessività della sanzione irrogata.

20.12. Con il dodicesimo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili

e il decimo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato si

lamentano violazione degli art. 62 bis, 132 e 133 cod. pen., 219 I. fall. e illogicità

palese nonché disuguaglianza di trattamento rispetto agli altri imputati,

sottolineando che, in favore di Francesca e Giovanni Tanzi, nonostante il

maggiore rilievo assunto, erano state riconosciute le attenuanti generiche

prevalenti sulle contestate aggravanti, trascurando di considerare l'età avanzata

dell'imputato, la sua incensuratezza, il comportamento processuale.

Per altro aspetto, si contestano: a) l'applicazione dell'aggravante di cui

all'art. 219, comma primo, I. fall., in relazione alla fattispecie di bancarotta

fraudolenta impropria; b) l'assenza di motivazione rispetto alla determinazione

a 65 V

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della pena base: c) il mancato accoglimento della richiesta di riduzione della

durata delle pene accessorie in misura corrispondente all'entità delle pene

principali.

20.13. Con il tredicesimo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili

e l'undicesimo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato si

lamentano vizi motivazionali e violazione di norme processuali stabilite a pena di

nullità, con riguardo all'ordinanza del 12/12/2011, con la quale la Corte

territoriale aveva revocato nei confronti del solo imputato Calogero gli effetti

civili correlati alla sentenza di primo grado (peraltro, trascurando di rilevare, a

pag. 374 della sentenza impugnata, le parti civili Di Stefano + 11), omettendo di

considerare, per un verso, che il difetto di rappresentanza delle parti private

diverse dall'imputato comporta una nullità a regime intermedio, rilevabile anche

d'ufficio dal giudice del grado successivo nel quale si è verificata, e, per altro

verso l'effetto estensivo delle impugnazioni basate su motivi non esclusivamente

personali.

20.14. Nell'interesse del Barili sono state depositate note, nelle quali si

ribadiscono le ragioni di censura esposte nel ricorso.

21. È stata depositata memoria nell'interesse delle parti civili Aba + 32.000.

Dopo una generale premessa sulla giurisprudenza in tema di responsabilità

civile da fatto illecito, si osserva, con riguardo alle critiche sviluppate nei ricorsi

degli imputati, in relazione alle statuizioni risarcitoria: a) che, se è pur vero che

l'art. 240, comma secondo, I. fall., prevede l'azione civile dei creditori nel

procedimento penale per bancarotta fraudolenta, quando, come nella specie, essi

intendano far valere un titolo personale, deve, tuttavia, ritenersi che, nei

procedimenti per bancarotta semplice, o non vi sia limite alcuno o ricorra lo

stesso presupposto normativamente previsto per i casi di bancarotta fraudolenta,

a pena di illegittimità costituzionale della previsione; b) che la solidarietà

risarcitoria consegue all'identità dell'evento dannoso, rimanendo indifferente alla

diversità degli apporti degli imputati, ancorché questi ultimi si siano tradotti in

reati diversi; c) che l'unitarietà della nozione di danno, ricavabile dagli artt. 538

e 539 cod. proc. pen., esclude l'illegittimità della decisione della Corte territoriale

di liquidare una provvisionale di importo corrispondente al danno non

patrimoniale riconosciuto e quindi, sostanzialmente, destinata ad identificarsi in

una condanna definitiva; d) che, ai fini della legittimità della costituzione di parte

civile, ai sensi dell'art. 78, lett. d), cod. proc. pen., è sufficiente un'indicazione

sommaria delle ragioni che la giustificano e, al limite, il semplice richiamo al

contenuto del capo di imputazione; e) che, quantomeno con riferimento alle parti

civili cui la memoria si riferisce, era stata depositata la documentazione

66

a

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attestante il possesso dei titoli al momento del default e il loro importo; f) che la

Corte territoriale aveva dato conto, nell'esercizio delle proprie valutazioni

discrezionali, dei criteri seguiti nella determinazione del danno non patrimoniale,

agganciato ad una percentuale del valore nominale dei titoli; g) che non era

richiesta alcuna motivazione, in ordine alla rilevante entità, rispetto ai mezzi dei

destinatari della condanna, della provvisionale, peraltro scaturente non

dall'entità dell'importo riconosciuto, ma dal numero delle parti civili; h) che

neppure è sussistente l'asserita nullità della sentenza, in relazione al rigetto della

richiesta di parziale rinnovazione del dibattimento, attraverso l'assunzione della

testimonianza delle parti civili, per l'irrilevanza delle circostanze che il mezzo

invocato era destinato a dimostrare.

22. È stata depositata memoria nell'interesse delle parti civili Sonia Foti,

Sergio Catalanotto, Antonio Lupo, Wilma Caputo, Giovanni Di Rosso, Michele

Spatocco, Anna Pieni, Dino Pieni, Rosemary Gormlay, Bianca Natta e Maria

Coppolecchia, quest'ultima in proprio e quale erede di Gaetano Caputo,

specificamente destinata a contrastare i motivi di doglianza contenuti nel ricorso

proposto nell'interesse del Barili e di Calisto Tanzi, attraverso un richiamo alla

completezza e logicità degli argomenti valorizzati dalla Corte territoriale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Nella disamina delle numerose questioni investite dai motivi di ricorso,

conviene assegnare priorità a quelle che, per il loro carattere preliminare di rito,

sono potenzialmente idonee ad esplicare efficacia assorbente o, quanto meno, a

provocare la regressione dell'intero procedimento o di parte di esso.

2. La prima, in ordine logico, delle cennate questioni è quella con cui il

ricorrente Calisto Tanzi eccepisce il difetto di giurisdizione del giudice italiano in

relazione agli illeciti riguardanti le società del gruppo Parmalat aventi sede

all'estero.

2.1. Sul punto in questione il ricorrente deduce illogicità della motivazione,

per avere la Corte d'Appello fatto riferimento a un precedente giurisprudenziale,

relativo ad un altro troncone della complessa vicenda processuale scaturita dal

tracollo del gruppo Parmalat (Sez. 5, n. 37370 del 07/06/2011, Bianchi), del

quale si deduce la non pertinenza alla fattispecie: sia per la diversità del rito -

abbreviato - in quella sede adottato, sia per essersi ivi attribuita alle società

estere una natura fittizia che, di contro, nel presente giudizio non è stata mai

presa in considerazione.

In argomento corre l'obbligo di osservare che, quand'anche potesse ritenersi

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a

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sussistente il vizio motivazionale denunciato dal ricorrente, esso non potrebbe

assurgere a causa di annullamento della sentenza: e ciò in quanto, in tema di

inosservanza di norme processuali, la Corte di Cassazione decide in maniera

diretta e non attraverso il sindacato sulla motivazione adottata dal giudice a quo.

Infatti, ciò che rileva è soltanto la legittimità o meno della soluzione adottata dal

giudice, rimanendo indifferenti le argomentazioni spese al riguardo nella

sentenza, atteso che l'art. 619 cod. proc. pen. espressamente consente di

modificare o rettificare, ove necessario, la motivazione, quando la decisione in

diritto sia immune da censura (v. da ultimo Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010,

Maugeri, Rv. 247123).

2.2. Ciò detto, ed entrando nel merito della questione prospettata, si

osserva che il ricorrente pone a fondamento della propria eccezione le seguenti

considerazioni: 1) non rileva il rapporto di collegamento - o correlazione - delle

società estere con quelle italiane, posto che ognuna di esse è dotata di

autonomia soggettiva e patrimoniale; 2) in materia vale il principio, legificato

nell'art. 9 legge fall. e - a livello sovranazionale - nell'art. 3, comma 1, del

regolamento CE 1346/2000, in base al quale la competenza ad aprire la

procedura concorsuale spetta al giudice del luogo nel quale l'impresa ha il centro

principale dei propri interessi, che, di norma, coincide con la sua sede principale.

Tale modo di argomentare non può essere condiviso. Esso, invero, svolge il

tema dell'individuazione del giudice investito della competenza - interna o

giurisdizionale - a conoscere delta responsabilità penale, utilizzando i parametri

normativi dettati per individuare il giudice della procedura concorsuale, quasi che

il primo, nel verificare la propria competenza, fosse legittimato a sindacare

quella del secondo. Così invece non è, dato che la dichiarazione di fallimento,

una volta che abbia acquistato il carattere della irrevocabilità, costituisce un dato

definitivo e vincolante sul quale non possono più sorgere questioni non collegate

alla produzione formale della prova della sua giuridica esistenza. In tal senso si è

espressa la giurisprudenza di legittimità con ripetute pronunce (Sez. 5, n. 7912

del 04/05/1993, Berzanti, Rv. 194876Sez. 5, n. 4427 del 24/02/1998, Bertoni,

Rv. 211139), per vero non immuni da contrasti, fin quando le Sezioni Unite

hanno preso posizione sul punto, affermando che «la dichiarazione di fallimento

assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale, e non per i

fatti con essa accertati»; e che «i presupposti di fatti accertati nella sentenza

richiamata dalla fattispecie penale non sono una "questione pregiudiziale" della

quale possa ritenersi investito il giudice penale, dato che essi sono stati appunto

accertati da detta sentenza, "la quale vincola il giudice penale (purché esistente

e non revocata) come elemento della fattispecie criminosa, e non quale decisione

di una questione pregiudiziale" implicata dalla fattispecie (Sez. U, n. 19601 del

68 g/

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28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398).

Dall'essere la dichiarazione di fallimento elemento costitutivo del reato di

bancarotta discende l'ulteriore conseguenza per cui, in tutti i casi riferibili a

condotte realizzate prima della stessa dichiarazione, la fattispecie criminosa si

considera perfezionata nel tempo e nel luogo in cui la sentenza di fallimento è

pronunciata: con ogni connessa incidenza sulla competenza giurisdizionale e

sulla competenza territoriale nell'ordinamento interno. Ne consegue che nel caso

di specie, essendosi verificata in Parma la dichiarazione giudiziale dello stato

d'insolvenza (equiparata alla dichiarazione di fallimento per disposto dell'art. 95

d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270) delle società cui si riferiscono in massima parte le

imputazioni contestate nel presente processo, così come la dichiarazione di

fallimento per le restanti società, non sottoposte ad amministrazione

straordinaria, correttamente si è radicata per il giudizio penale la giurisdizione

del giudice italiano e, nello specifico, la competenza territoriale del Tribunale di

Parma.

2.3. Le considerazioni fin qui svolte rendono conto, altresì, dell'infondatezza

della questione preliminare subordinata con cui il ricorrente sostiene doversi

valutare le condotte degli imputati, con riferimento alla gestione delle società

estere, alla stregua del diritto vigente negli Stati ove hanno queste hanno le

rispettive sedi. In senso contrario depone la norma codificata nell'art. 6 cod.

pen., in base alla quale è punito secondo la legge italiana chi commette un reato

nel territorio dello Stato. Né vale addurre in senso contrario quanto disposto

dall'art. 25 della legge 31 maggio 1995, n. 218, trattandosi di norma che - come

l'intero testo legislativo cui appartiene - è volta a disciplinare i rapporti di diritto

internazionale nell'ambito esclusivamente privatistico.

Neppure può condividersi l'aggettivazione di «paradossale», riferita dal

ricorrente all'ipotesi di applicazione del diritto penale italiano a una società

estera che abbia sempre operato all'estero; si tratta, invero, di giudicare la

condotta di amministratori di società estere cui l'ipotesi accusatoria attribuisce il

concorso nella consumazione di reati commessi in Italia: ora attraverso il

contributo alla determinazione dell'evento, come è nel caso della bancarotta

impropria di cui all'art. 223, comma 2, nn. 1) e 2) legge fall.; ora rendendosi

partecipi delle distrazioni ai danni delle società italiane cadute in dissesto, come

è nel caso delle molteplici ipotesi contestate di bancarotta fraudolenta

patrimoniale; ora con la falsificazione delle scritture contabili, ostativa della

ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio delle società da parte

degli organi della procedura concorsuale.

2.4. Quanto fin qui argomentato spiega, infine, l'irrilevanza del quesito

inerente all'interpretazione dell'art. 4 del trattato UE, di cui il ricorrente sollecita

69

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la rimessione alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Ed invero, alla stregua

delle considerazioni già svolte, la decisione sulla responsabilità penale degli

imputati non richiede alcuna attività interpretativa della norma sovranazionale

citata.

3. Altra questione che, per il suo carattere preliminare di rito, richiede di

essere esaminata in via prioritaria, è quella con cui i ricorrenti Giovanni Tanzi

(primo motivo), Domenico Barili (secondo motivo) e Camillo Florini (quinto

motivo) rinnovano l'eccezione di nullità dell'avviso di conclusione delle indagini

ex art. 415-bis cod. proc. pen., per essersi negata ai difensori la visione diretta

degli atti processuali in forma cartacea; lamentano, all'unisono, i ricorrenti che

siano state messe a loro disposizione soltanto le copie degli atti su supporto

informatico, esigendo il previo pagamento di un'ingente somma a titolo di diritti

di cancelleria: in ciò ravvisano una violazione del diritto alla difesa, sia per

essersi condizionata la visione degli atti di interesse del singolo indagato

all'onerosa acquisizione di copia dell'intero fascicolo processuale, sia per essersi

impedito il controllo della conformità delle copie agli originali.

3.1. L'eccezione è priva di fondamento.

Occorre, innanzi tutto, premettere che l'avviso di conclusione delle indagini

preliminari, se munito dei requisiti di forma prescritti dall'art. 415-bis cod. proc.

pen. e nello specifico, per quanto qui d'interesse, dell'avvertimento circa il

deposito degli atti nella segreteria del pubblico ministero, non può considerarsi

inficiato da nullità per il verificarsi di eventi successivi che abbiano

eventualmente impedito, di fatto, la consultazione degli atti da parte del

difensore. Con ciò non si vuol dire che quest'ultima evenienza sia priva di riflessi

sulla ritualità del procedimento, ma soltanto che la relativa disamina deve essere

condotta al di fuori dell'ottica - prospettata dai ricorrenti - di una pretesa nullità

dell'avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen. e della conseguente nullità della

richiesta di rinvio a giudizio riverberantesi, a cascata, su tutti gli atti successivi. È

vero, di contro, che l'impedimento frapposto alla visione degli atti processuali, se

effettivamente verificatosi, potrebbe avere inciso sul corretto esercizio del diritto

alla difesa così da produrre una nullità a regime intermedio (peraltro

tempestivamente eccepita), da valutarsi alla stregua del pregiudizio

concretamente derivatone.

Nel caso di specie, peraltro, non è possibile affermare che la visione degli

atti sia stata effettivamente impedita ai difensori, atteso che la segreteria del

P.M. ha messo a loro disposizione le copie già predisposte in formato digitale. Ciò

non può certamente ritenersi contrario a legge, essendo dato cogliere nella

moderna disciplina del processo una palese apertura alla trasfusione della

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documentazione su carta in quella di tipo informatico; basti considerare,

all'interno del codice di rito, il disposto dell'art. 150 che rende possibile - dietro

autorizzazione del giudice - la notificazione di atti con l'uso di mezzi tecnici

particolari, fra i quali può intendersi ricompresa la posta elettronica certificata;

nonché, fra le disposizioni di attuazione, quella di cui all'art. 42 disp. att. al cod.

proc. pen., che consente la trasmissione a distanza di copia degli atti, ai privati

legittimati a richiederle, con l'uso di «mezzi tecnici idonei».

La linea argomentativa addotta dalla difesa non merita consenso neppure là

dove prospetta l'esigenza, per il difensore, di verificare l'effettiva conformità

della copia informatica all'originale; l'ipotesi di eventuali difformità può essere,

invero, esclusa in radice per la natura stessa dello strumento informatico: il

quale, operando attraverso la scansione ottica del documento originale, non

lascia alcun margine ad errori umani nella riproduzione; resta soltanto aperta la

possibilità che qualche malfunzionamento tecnico incida sulla leggibilità, ma in

tal caso l'esistenza del difetto viene in rilievo senza alcuna necessità di confronto

con l'originale.

Quanto alla doglianza con cui taluni ricorrenti (segnatamente Giovanni Tanzi

e Camillo Florini) denunciano come illegittima la pretesa della segreteria del

pubblico ministero di esigere il pagamento di onerosi diritti per il rilascio della

copia digitale di tutta l'enorme mole degli atti processuali, malgrado l'interesse

del singolo imputato fosse limitato a una minima parte di essi, vi è soltanto da

rimarcare - in assonanza con quanto osservato dal Procuratore Generale in

udienza - che la questione così sollevata non è di carattere processuale, ma

amministrativo; dovendosi, tutt'al più, aggiungere che la condotta del personale

della segreteria, se ritenuta illegittima (ma probabilmente dipesa da errata

interpretazione delle istruzioni ricevute), avrebbe dovuto essere segnalata al

capo dell'ufficio con la richiesta di provvedimenti, per l'appunto di natura

amministrativa, utili a far conseguire il risultato voluto.

4. A sua volta finalizzata a conseguire la declaratoria di nullità dell'avviso di

conclusione delle indagini, e degli atti conseguenti, è l'eccezione con la quale i

ricorrenti Giovanni Tanzi (primo motivo) e Domenico Barili (primo motivo)

lamentano la mancata traduzione in lingua italiana di alcuni atti eseguiti

all'estero e redatti nella rispettiva lingua locale. Allo scopo di confutare la ratio

decidendi addotta dalla Corte felsinea, secondo cui si tratterebbe di atti compiuti

al di fuori del procedimento e, come tali, soggetti alla disciplina dei documenti in

lingua straniera, di cui all'art. 143, comma 2, cod. proc. pen., i deducenti

precisano che l'eccezione si riferisce a taluni atti e documenti acquisiti a seguito

di rogatoria internazionale nella fase d'indagine e, più specificamente, nel ricorso

71 A

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di Giovanni Tanzi si menziona l'interrogatorio di tale Marco Perenna. A sostegno

della propria tesi si richiamano a un precedente giurisprudenziale (Sez. 3, n.

19396 del 08/03/2006, Ammirata, Rv. 235154) secondo cui «l'omessa

traduzione in lingua italiana dei verbali di polizia giudiziaria e di documenti

redatti in lingua straniera, risolvendosi nella violazione del diritto d'intervento

della persona sottoposta ad indagine, determina la nullità ex artt. 178 lett. c) e

180 cod. proc. pen. dell'avviso di conclusione delle indagini, che si riverbera sulla

richiesta di rinvio a giudizio e sul decreto che dispone il giudizio stesso».

4.1. L'eccezione non può trovare accoglimento.

Occorre premettere, in ciò aderendosi al rilievo posto dalla Corte di merito a

base del suo argomentare, che l'obbligo di usare la lingua italiana negli atti del

procedimento, sancito dall'art. 109 cod. proc. pen., si riferisce soltanto agli atti

da compiersi davanti all'autorità giudiziaria che procede: mentre per quelli già

formati che vengono acquisiti al procedimento, sia pure in seguito a rogatoria

internazionale, la disciplina normativa da applicare è quella dettata dagli artt.

143, comma 2, e 242, comma 1, dello stesso codice. In tale ottica muove la

stessa sentenza Ammirata, evocata dai ricorrenti, nella cui motivazione l'obbligo

per l'autorità giudiziaria procedente di disporre la traduzione degli atti compiuti

per rogatoria internazionale è rapportato al precetto di cui al citato art. 143,

comma 2, sull'evidente presupposto che tale categoria di atti sia equiparabile a

quella dei documenti «già formati».

Nondimeno la conclusione ivi trattane, secondo cui gli scritti in tal modo

acquisiti dovrebbero essere tradotti in lingua italiana su disposizione officiosa

dell'autorità giudiziaria procedente, indipendentemente da richieste o

sollecitazioni dei soggetti interessati, non può essere condivisa. Essa, invero, si

pone immotivatamente in contrasto con l'opposto principio ormai saldamente

affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'obbligo di traduzione

dei documenti già formati sussiste solo se la loro utilizzazione possa pregiudicare

i diritti di difesa dell'imputato e sempre che quest'ultimo abbia eccepito il

concreto pregiudizio derivante dalla mancata traduzione (Sez. F, n. 35729 del

01/08/2013, Agrama, Rv. 256571; Sez. 6, n. 44418 del 29/10/2008, Tolio, Rv.

241657; Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003 - dep. 06/02/2004, Ligresti ed altri, Rv.

229667).

Alle considerazioni suesposte, che rendono conto della correttezza giuridica

della risposta reiettiva data dalla Corte d'Appello all'eccezione in esame, deve

aggiungersi un ulteriore rilievo. Ove pure si ritenesse inosservante del precetto

di cui all'art. 143, comma 2, cod. proc. pen. l'omessa traduzione degli atti

espletati per rogatoria internazionale, la conseguenza da trarne sarebbe

l'inutilizzabilità di tali atti quali fonti di prova: e non certamente la nullità

72

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dell'avviso di conclusione delle indagini, i cui requisiti di forma non ne

risulterebbero in alcun modo vulnerati. Ma, affinché l'inutilizzabilità di atti

processuali possa essere ritualmente eccepita, è necessario che la parte ne dia

specifica indicazione, precisandone l'incidenza sul compendio probatorio

complessivo (v. per tutte Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243416);

ciò non è stato fatto da parte dei deducenti, i quali si sono limitati a un generico

riferimento ad atti compiuti all'estero per rogatoria, con la sola eccezione

riguardante il richiamo fatto dalla difesa di Giovanni Tanzi all'interrogatorio di

Marco Perenna; di quest'ultimo, tuttavia, neppure risulta essersi fatto uso ai fini

probatori, non essendo dato rinvenire alcuna menzione ad esso nella

motivazione della sentenza qui gravata, né in quella di primo grado.

5. A sua volta va preliminarmente esaminata la questione prospettata da

vari imputati, i quali lamentano l'inosservanza dell'art. 649 cod. proc. pen., in

quanto già sottoposti, per i medesimi fatti storici, a procedimento penale in

relazione alle imputazioni di aggiotaggio, fraudolenta certificazione di bilanci e

ostacolo alle funzioni di vigilanza.

In particolare, viene in questione il procedimento definito da Sez. 5, n.

28932 del 04/05/2011, Tanzi, Rv. 253755.

Al riguardo, osserva la Corte che l'orientamento espresso dalla Corte

europea dei diritti dell'uomo, sin dalla sentenza 10/02/2009, Zolotoukhine c.

Russia, per giungere alla recente sentenza 04/03/2014, Grande Stevens c. Italia,

è certamente nel senso che il principio del ne bis in idem impone una valutazione

ancorata ai fatti e non alla qualificazione giuridica degli stessi, dal momento che

quest'ultima è stata ritenuta troppo restrittiva in vista della tutela dei diritti della

persona.

E, tuttavia, come emerge dalla citata sentenza Zolotoukhine (par. 84) e

come ribadito dalla più recente decisione emessa nel caso Grande Stevens c.

Italia (par. 221), la nozione di condotta si traduce nell'insieme delle circostanze

fattuali concrete, collocate nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere

dimostrata ai fini della condanna.

Tale puntualizzazione impone necessariamente di considerare quali sono i

fatti assunti come rilevanti dall'ordinamento interno, ai fini dell'applicazione della

sanzione penale, in ragione dell'interesse protetto.

Si tratta di una conseguenza che scaturisce dal rilievo che la stessa nozione

di condotta, pur colta nella sua dimensione fattuale, ha carattere normativo, in

quanto presuppone una selezione dei comportamenti ritenuti espressivi di un

determinato disvalore.

Proprio muovendosi in questa prospettiva, Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005

73

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Donati, Rv. 231799, ha chiarito che, ai fini della preclusione connessa al principio

del ne bis in idem, l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza

storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi

elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle

circostanze di tempo, di luogo e di persona.

E tale impostazione è stata seguita dalla giurisprudenza successiva in modo

costante (v., di recente, Sez. 2, n. 18376 del 21/03/2013, Cuffaro, Rv. 255837).

Ora, nel presente procedimento, in generale, gli imputati rispondono: a) di

condotte di falsificazione dei bilanci, viste come elemento costitutivo del delitto

ex art. 223, comma secondo, n. 1, I. fall. per il loro nesso eziologico con la

produzione del dissesto; b) di operazioni dolose causatrici del dissesto, tradottosi

nella dichiarazione dello stato d'insolvenza per le società sottoposte ad

amministrazione straordinaria e nel fallimento per le altre (art. 223, comma

secondo, n. 2, I. fall.); c) e, infine, di condotte di distrazione di cespiti attivi ai

danni delle società Parmalat s.p.a., Parmalat Finance Corporation BV, Parmalat

Finanziaria s.p.a., Boschi Luigi & Figli s.p.a., Contai s.r.I., Emmegi

Agroindustriale s.r.I., Parmalat Trading Limited, Coloniale s.p.a., e quelle di

irregolare tenuta delle scritture contabili nella gestione delle società Parmalat

s.p.a., Parmalat Finanziaria s.p.a., Contai s.r.l. ed Emmegi Agroindustriale s.r.I.;

nonché gli altri analoghi illeciti riferiti alle società della famiglia Tanzi e ad altre

società minori.

Ciò posto, certamente escluso che le condotte di distrazione e di irregolare

tenuta delle scritture contabili possano ritenersi identiche nella loro materialità a

quelle che sostanziano i reati di aggiotaggio, di fraudolenta certificazione di

bilanci e di ostacolo alle funzioni di vigilanza, oggetto del procedimento definito

con la citata sentenza n. 28932 del 2011, osserva la Corte che quest'ultima

decisione già ebbe, condivisibilmente, ad escludere l'assorbimento del delitto di

cui all'art. 2638 cod. civ. in quello di bancarotta fraudolenta impropria (art. 223,

comma secondo, n. 1, I. fall.), con peculiare riferimento ai fatti di false

comunicazioni sociali, ovvero con riguardo all'art. 223, comma secondo, n. 2, I.

fall., con richiamo alle c.d. "operazioni dolose", giacché: a) il "fatto" previsto

dall'art. 2622 cod. civ., richiamato dall'art. 223, comma secondo, n. 1, I. fall. è

indubbiamente un reato ad evento di danno e il pregiudizio è ravvisabile per una

limitata categoria di destinatari, ossia la massa dei creditori;

b) ulteriore profilo differenziale si ravvisa nella configurazione dell'aggiotaggio

quale reato di concreto pericolo, mentre l'infedele comunicazione sociale, nella

prospettazione dell'art. 2622 cod. civ., è reato ad evento di danno; c)

l'aggiotaggio si consuma con la diffusione della notizia manipolativa, mentre

l'altra figura si consuma con le accertate conseguenze pregiudizievoli maturate in

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capo al destinatario dell'informazione dannosa; d) i soggetti attivi sono esponenti

societari nel reato di infedele comunicazione sociale, mentre la categoria dei

soggetti dell'aggiotaggio si restringe in ragione della descrizione modale

dell'azione vietata; e) la manipolazione informativa non è momento integrativo

della comunicazione sociale di cui all'art. 2622 cit., la quale ultima rispetta - nel

suo profilo oggettivo - la disciplina dettata dall'art. 2423 e ss. cod. civ., mentre

la notizia dedotta dall'art. 2637 cod. civ., norma incriminatrice vigente all'epoca

del fatto, doveva attenersi a quella propria del D.Lgs. n. 58 del 1998; f) l'oggetto

materiale, costituito dalla notizia infedele, assume interesse illecito per ragioni

difformi: in un caso, il paradigma è la rilevanza quantitativa del mendacio,

comparato con le risultanze patrimoniali/economiche del bilancio, nell'altro è la

idoneità all'alterazione del corso del valore del titolo; g) il dolo nell'aggiotaggio è

generico (consistente nella coscienza e volontà di diffondere notizie

manipolative), laddove, per contro, il falso in bilancio richiede un momento

soggettivo particolarmente qualificato, ossia un fine specifico di ingiustizia e

l'intenzionalità rivolta all'inganno di soci o pubblico; h) il reato fallimentare

presuppone la dichiarazione di fallimento in connessione causale con l'azione di

infedeltà informativa, elemento essenziale della fattispecie, mancante in quella

della norma sull'intermediazione finanziaria; i) la eterogeneità dei fini sottesi alle

due fattispecie incriminatrici si riflette anche sulle modalità di commissione,

quale l'istantaneità del danno alla persona offesa, connessa alla violazione

dell'art. 2637 cod. civ, mentre la ben più complessa modalità lesiva consegue

alla complessiva notizia sulla situazione patrimoniale o finanziaria o economica

della società quale desumibile dal bilancio.

Inoltre, puntualmente venne rilevato che la manipolazione informativa non

coincide con l'ipotesi punitiva della bancarotta impropria contemplata dalla L.

Fall., art. 223, comma secondo, n. 2, I. fall, segnatamente con riguardo alla

causazione del fallimento a seguito delle c.d. "operazioni dolose".

Nonostante il carattere generale di quest'ultima espressione, appare, infatti,

evidente che l'illecito concorsuale ha struttura ad evento (il fallimento),

diversamente dalla più volta ricordata essenziale configurazione di reato di

pericolo data dal legislatore all'aggiotaggio.

Diverge, pertanto, in guisa essenziale anche il momento consumativo del

reato, rilevabile, per la violazione dell'art. 2637 cod. civ., nell'atto di diffusione

della notizia, mentre per l'illecito fallimentare esso si appunta al tempo

dell'emissione del provvedimento del giudice fallimentare.

È, al contempo, utile sottolineare che difficilmente il termine "operazione"

assume il significato ristretto alla categoria dei messaggi informativi ed alla loro

diffusione, palesando - piuttosto - una più o merio complessa condotta di

75 a

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gestione attiva di impresa.

Ne discende, allora, con piena evidenza che le false informazioni al mercato,

ancorché dirette a mascherare le condotte distrattive, non si identificano affatto

in queste ultime, esprimendo, sul piano ontologico, una radicale diversità.

Non è, in definitiva, sufficiente una generica unitarietà dell'obiettivo ultimo

perseguito dagli imputati per cancellare la diversità di condotte, ciascuna

contraddistinta da una sua specifica connotazione materiale.

6. Oltre alle questioni di rito, sopra esaminate, richiedono prioritaria

trattazione alcune censure di carattere sostanziale mosse da più ricorrenti alla

sentenza impugnata, delle quali proprio il carattere comune alle posizioni di più

imputati - in una con l'eventuale estensibilità agli altri, ex art. 587 cod. proc.

pen. - rende opportuna la trattazione unitaria.

7. La prima di esse è quella che investe la collocazione della dichiarazione di

fallimento (ovvero della dichiarazione dello stato d'insolvenza nella procedura di

amministrazione straordinaria, che l'art. 95 d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 equipara

al fallimento) nella struttura del reato di bancarotta fraudolenta ex art. 216 r.d.

16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare). Appoggiando le proprie

deduzioni a una recente sentenza di questa Corte Suprema (Sez. 5, n. 47502 del

24/09/2012, Corvetta, Rv. 253493), i ricorrenti Calisto Tanzi, Domenico

Barachini, Mario Mutti e Paolo Sciumé si fanno portatori della tesi secondo cui

l'insolvenza della società, che trova riconoscimento formale nella dichiarazione di

fallimento, costituisce l'evento del reato, con la conseguenza che non soltanto

deve essere legata alla condotta dell'imprenditore da rapporto di causalità, ma

deve anche essere prevista e voluta come conseguenza del suo agire, secondo il

dettame dell'art. 43 cod. pen.. Tale interpretazione, si aggiunge talora (ricorso

Sciumé), dovrebbe essere riguardata come obbligata, per essere l'unica allineata

ai precetti della Carta Costituzionale.

7.1. Nell'accedere alla disamina della tesi così prospettata, occorre

premettere che la risposta non può essere unica per l'intero ventaglio dei reati

fallimentari cui le imputazioni si riferiscono. Fra queste, infatti, sono comprese

svariate fattispecie di bancarotta impropria da reati societari e per operazioni

dolose, relativamente alle quali non può essere ragionevolmente posta in dubbio

la necessità che il dissesto sia causato dalla condotta descritta dalle norme

incriminatrici e che tale evento sia previsto e voluto dall'agente (quanto meno a

titolo di dolo eventuale), in tal senso esprimendosi inequivocabilmente la lettera

della legge (art. 223, comma 2, legge fall.).

La fondatezza, o meno, dell'assunto difensivo va quindi verificata in

76

a,

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relazione alla sola previsione di cui all'art. 216, comma 1, legge fall., richiamata

dal primo comma del già citato art. 223. E la risposta deve essere negativa, per

una molteplicità di ragioni.

7.2. Alla stregua di un insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di

Cassazione, risalente alla sentenza n. 2 del 1958 (imputato Mezzo) e rimasto

costante nel tempo, la dichiarazione di fallimento non costituisce una condizione

obiettiva di punibilità, ma una condizione di esistenza del reato; si tratta, in

definitiva, di un elemento costitutivo della fattispecie criminosa che, nella

bancarotta prefallimentare, segna il momento consumativo del reato ad ogni

effetto di legge. Ciò, tuttavia, non significa che le si possa attribuire la qualifica

di evento, come se non fosse data via di uscita rispetto all'alternativa tra

condizione obiettiva di punibilità ed evento del reato.

Di contro può certamente affermarsi che è facoltà del legislatore inserire

nella struttura dell'illecito penale elementi costitutivi estranei alla cennata

dicotomia; e con altrettanta certezza può dirsi che il legislatore, quando a un

determinato accadimento intende assegnare la valenza di evento del reato, lo

esplicita in termini inequivocabili, col ricorso a forme lessicali immediatamente

evocative del rapporto causale («causare», «cagionare», «determinare»). Basti

pensare, al riguardo, proprio alle norme incriminatrici contenute nel già citato

art. 223, comma 2, della stessa legge fallimentare, nelle quali l'indefettibilità del

nesso eziologico fra condotta e dissesto, o fallimento, viene in immediata

evidenza in virtù dell'utilizzo, al n. 1), dell'espressione «hanno cagionato, o

concorso a cagionare, il dissesto della società...» e, al n. 2, dell'espressione

«hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della

società».

In argomento non sarà inutile osservare che, raffrontando il testo previgente

del n. 1) del secondo comma, or ora citato, dell'art. 223 legge fall. con quello

scaturito dalla modifica apportatavi dall'art. 4 d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, è

agevole constatare come l'introduzione nel modello descrittivo del rapporto di

causalità fra la condotta e il dissesto della società abbia costituito una rilevante

innovazione voluta dal legislatore proprio in considerazione del fatto che tale

collegamento causale mancava nel testo precedente, a tenore del quale era

sufficiente la commissione di alcuno dei fatti preveduti dagli articoli richiamati

("2621, 2622, 2623, 2628, 2630, comma primo, del codice civile"), cui avesse,

poi, fatto seguito la dichiarazione di fallimento (essendo presente nel primo

comma l'espressione «società dichiarate fallite», del tutto omologa a quella «se è

dichiarato fallito», contenuta nel primo comma del precedente art. 216): con

ogni connessa ricaduta sull'elemento psicologico del reato. In tal senso si sono

espresse le Sezioni Unite di questa Corte Suprema, pervenendo alla conclusione

77 gli

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che la successione di leggi avesse comportato un effetto parzialmente abrogativo

della norma incriminatrice in relazione a quei fatti che non fossero riconducibili

alle nuove fattispecie criminose, come nel caso di insussistenza del nesso

eziologico summenzionato (Sez. U n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv.

224605).

Ancora dalle Sezioni Unite viene l'insegnamento secondo cui nella struttura

dei reati di bancarotta la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua

natura di provvedimento giurisdizionale: il che non soltanto la rende

insindacabile in sede penale, secondo il principio ivi enunciato (Sez. U, n. 19601

del 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398); ma reca la conseguenza per cui l'elemento

costitutivo della fattispecie criminosa non risiede nei presupposti di fatto (fra cui

lo stato d'insolvenza) accertati dal giudice fallimentare, ma nella pronuncia di

una sentenza rispetto alla quale non è ipotizzabile un'efficienza causale facente

capo all'imprenditore, ovvero - come sostenuto nella citata sentenza «Corvetta»

- al ceto creditorio; donde può trarsi l'ulteriore corollario per cui è fuori luogo

condurre il ragionamento ermeneutico utilizzando in chiave di fungibilità nozioni

del tutto eterogenee, quali quelle di «dissesto» e «dichiarazione di fallimento».

Col conforto delle autorevoli enunciazioni giurisprudenziali testé citate può

dunque valorizzarsi l'analisi del tipo descrittivo delineato nell'art. 216, primo

comma, della stessa legge, che consente di rimarcare l'assenza di qualsiasi

accenno alla necessità di un collegamento causale fra le condotte vietate e la

dichiarazione di fallimento; quest'ultima, invero, essendo evocata nella forma

sintattica della protasi («se è dichiarato fallito») partecipa a comporre un'endiadi

che individua il soggetto attivo del reato nell'imprenditore dichiarato fallito (v.

ancora Sez. U Niccoli, in motivazione); mentre l'oggetto del divieto legislativo

consiste, quanto alla bancarotta distrattiva, nell'impoverimento della consistenza

patrimoniale dell'impresa, che è l'asse portante della garanzia per i creditori;

mentre nella bancarotta documentale consiste nella soppressione - o

nell'irregolare tenuta - della contabilità, dalla quale dipende la possibilità di

ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. E proprio nelle

conseguenze or ora descritte si individua l'evento del reato, nella sua accezione

giuridica e non naturalistica.

7.3. Il fatto che, nell'articolo 216 qui esaminato, siano accomunate nel

medesimo comma le ipotesi criminose della bancarotta fraudolenta patrimoniale

e di quella documentale, cui congiuntamente si riferisce la protasi in discussione,

porta un ulteriore argomento contrario alla tesi qui criticata: non si vede, infatti,

in base a quale costruzione logico-giuridica potrebbe pervenirsi a configurare un

necessario rapporto di causalità fra la violazione dell'obbligo di corretta tenuta

delle scritture contabili e l'evento fallimentare. Né giova addurre che, trattandosi je

78 7 /

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di reati distinti, nulla impedisca al fallimento di svolgere nei due casi una

funzione diversa: a confutazione è agevole osservare che, per un verso, la forma

sintattica adottata nell'ancipite previsione normativa - nella quale è posta in

comune, come già rilevato, l'espressione «se è dichiarato fallito» - non consente

di differenziare le due ipotesi criminose dal punto di vista della struttura del

reato; e, per altro verso, che rimane del tutto oscura la «funzione diversa» da

attribuirsi alla dichiarazione di fallimento nella bancarotta documentale, una

volta che si rifiuti la possibilità di una terza via, al di fuori dell'alternativa

«condizione obiettiva di punibilità o evento del reato».

7.4. Affermare che nel nostro ordinamento non esistono altri casi nei quali

sia previsto un elemento costitutivo del reato, successivo alla condotta, che sia

scisso da un rapporto eziologico con essa, non è argomento risolutivo. Nulla,

infatti, impedisce al legislatore di attribuire a un determinato reato una struttura

unica e peculiare, purché non ne risulti violato un precetto di rango

costituzionale. E sotto tale profilo non è fuori luogo osservare che la lettura qui

condivisa della norma in questione è stata avallata dalla stessa Corte

Costituzionale: la quale, nella motivazione della propria sentenza n. 110 del

1972, ha osservato fra l'altro che «il legislatore avrebbe potuto considerare la

dichiarazione di fallimento tra l'altro come semplice condizione di procedibilità o

di punibilità, ma ha invece voluto - come è riconosciuto dalla giurisprudenza

della Corte di Cassazione - richiedere l'emissione della sentenza per l'esistenza

stessa del reato. E ciò perché, intervenendo la sentenza dichiarativa del

fallimento, la messa in pericolo di lesione del bene protetto si presenta come

effettiva ed attuale».

7.5. D'altra parte la denuncia di illegittimità costituzionale dell'art. 216 legge

fall., nella parte in cui non richiede - in armonia col novellato art. 223, comma 2

della stessa legge - che le condotte ivi contemplate abbiano cagionato il dissesto

della società, è già stata sottoposta all'attenzione di questa Corte Suprema e

giudicata manifestamente infondata da questa stessa sezione (Sent. n. 24328

del 18/05/2005, Di Giovanni, Rv. 232210).

7.6. A sostegno dell'interpretazione qui disattesa si è anche osservato che la

tesi volta ad escludere la necessarietà del rapporto causale tra la condotta

dell'imprenditore e il fallimento (e della connessa copertura del dolo ex art. 43

cod. pen.) porterebbe a conseguenze assurde, rendendo da un lato non punibile

chi avesse drenato risorse enormi da una società dotata di un patrimonio attivo

considerevole, tale da permetterle di sfuggire al fallimento, e sottoponendo

invece a pena chi avesse prelevato indebitamente una modestissima somma di

denaro molti anni prima del fallimento, verificatosi per cause del tutto autonome.

Orbene, premesso che la prima delle due ipotesi or ora descritte esulerebbe(2?

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dall'intero novero dei reati di bancarotta anche se si abbracciasse la tesi che è

destinata a sorreggere, dato che la mancanza della dichiarazione di fallimento

escluderebbe in ogni caso la configurabilità del reato, a confutazione del

ragionamento merita osservare che, ove pure si volesse accedere a un criterio

ermeneutico di tal fatta, in spregio dell'antico brocardo adducere inconveniens

non est reso/vere argumentum, non ci si potrebbe astenere dal prendere atto

delle ben più gravi conseguenze che deriverebbero dall'adesione alla tesi qui

avversata: in tale ipotesi, invero, una volta verificatosi l'irreversibile stato

d'insolvenza prodromico al fallimento, per qualsiasi causa estranea al fatto

dell'imprenditore, a quest'ultimo sarebbe data piena libertà di distrarre l'intero

patrimonio aziendale (e di dissipare, in aggiunta, quello personale), dato che tale

condotta non potrebbe qualificarsi come causa del fallimento già resosi

inevitabile per fatti pregressi; né varrebbe, in tal caso, ipotizzare una

responsabilità a titolo di aggravamento del dissesto, dato che tale condotta esula

dalla fattispecie di bancarotta fraudolenta ed è invece propria del meno grave

reato di cui all'art. 217, comma 1, n. 4) della legge fallimentare: nel quale,

tuttavia, la norma incriminatrice si esprime negli stessi termini («se è dichiarato

fallito»), cui si pretende di attribuire significato indicativo di un imprescindibile

rapporto di causalità fra la condotta e la dichiarazione di fallimento.

7.7. Alla luce delle considerazioni che precedono non può che prestarsi

adesione al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, del quale

l'isolata sentenza n. 47502 del 24/09/2012 non vale a infirmare la granitica

solidità, sebbene un successivo arresto (Sez. F, n. 41665 del 10/09/2013, Gessi,

Rv. 257231) sembri muovere nella stessa direzione, col richiedere ad

integrazione del reato una «consapevole prospettiva del dissesto finanziario»,

peraltro senza addurre alcuna giustificazione giuridica a sostegno; onde va

ribadito una volta di più che la dichiarazione di fallimento non costituisce l'evento

del reato di bancarotta distrattiva, sicché sarebbe arbitrario pretendere un nesso

eziologico tra la condotta, realizzatasi con l'attuazione di un atto dispositivo che

incide sulla consistenza patrimoniale di un'impresa commerciale, e il fallimento;

con la conseguenza per cui né la previsione dell'insolvenza come effetto

necessario, possibile o probabile, dell'atto dispositivo, né la percezione della sua

stessa preesistenza nel momento del compimento dell'atto possono essere

condizioni essenziali ai fini dell'antigiuridicità penale della condotta (v. Sez. 5, n.

316 del 27/11/1985 - dep. 15/01/1986, Benedetti, Rv. 171578; Sez. 5, n. 15850

del 26/06/1990, Bordoni, Rv. 185883; Sez. 5, n. 8327 del 22/04/1998,

Bagnasco, Rv. 211366; Sez. 5, n. 36088 del 27/09/2006, Corsatto, Rv. 235481;

Sez. 5, n. 232 del 09/10/2012 - dep. 07/01/2013, Sistro, Rv. 254061; Sez. 5, n.

7545 del 25/10/2012 - dep. 15/02/2013, Lanciotti, Rv. 254634; Sez.

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27993 del 12/02/2013 - dep. 26/06/2013, Di Grandi, Rv. 255567).

8. Altra questione di carattere generale emersa attiene ai limiti della

responsabilità degli amministratori non esecutivi e dei sindaci.

Al riguardo, rinviando all'esame dei singoli ricorsi la trattazione delle

questioni sollevate con riguardo alla posizione dei vari imputati, occorre

premettere che, al di là delle espressioni che si rinvengono in ragione della

specificità processuali delle singole vicende, l'orientamento espresso dalla

giurisprudenza di legittimità appare, sul punto, uniforme sin da Sez. 5, n. 23838

del 04/05/2007, Amato, Rv. 237251.

In tale pronuncia, questa Corte ha rilevato che la riforma della disciplina

delle società, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, ha certamente modificato il

quadro normativo dei doveri di chi è preposto alla gestione della società ed ha

compiutamente regolamentato la responsabilità dell'amministratore destinatario

di delega. E, così, ha delineato, da un lato, il criterio direttivo dell'"agire

informato", che sostiene il mandato gestorio (art. 2381, comma quinto, cod.

civ.) e, correlativamente, l'obbligo di ragguaglio informativo sia a carico del

presidente del consiglio di amministrazione (art. 2381, comma primo, cod. civ.)

sia in capo agli amministratori delegati, i quali, con prestabilita periodicità,

devono fornire adeguata notizia "sul generale andamento della gestione e sulla

sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro

dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società o dalle sue controllate" (art.

2381, comma quinto, cod. civ.). In tal modo la riforma ha indubbiamente - con

più puntuale disposizione letterale - alleggerito gli oneri e le responsabilità degli

amministratori privi di deleghe, poiché l'art. 2392, comma primo, cod. civ.

chiarisce che essi sono responsabili verso la società nei limiti delle attribuzioni

proprie, quali stabilite dalla disciplina normativa. È stato, dunque, rimosso il

generale "obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione" (già

contemplato dall'art. 2392, comma secondo, cod. civ.), sostituendolo con l'onere

di "agire informato", atteso il potere ( che si qualifica come doveroso nell'ottica

dell'indicazione normativa sulla modalità di gestione informata) di richiedere

informazioni (senza che ciò assegni anche un'autonoma potestà di indagine).

La sentenza ha aggiunto che certamente occorre individuare il limite

operativo dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., quando sia correlato ad

incriminazioni connotate da volontarietà, onde evitare di sovrapporlo o, peggio,

sostituirlo con responsabilità di natura colposa, incompatibile con la lettera delle

fattispecie incriminatici. In questa prospettiva, l'analisi del profilo della

responsabilità discendente dall'art. 40, comma secondo, cit. per condotte

connotate da volontarietà e la configurazione della "posizione di garanzia" che

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qualifica il ruolo dell'amministratore evidenzia due momenti, tra loro

complementari, ma idealmente distinti ed entrambi essenziali.

Il primo postula la rappresentazione dell'evento, nella sua portata illecita, il

secondo - discendente da obbligo giuridico - l'omissione consapevole

nell'impedirlo.

Entrambe queste due condizioni debbono ricorrere nel meccanismo

tratteggiato dal nesso di causalità giuridica di cui si discute. Non è, quindi,

responsabile chi non abbia avuto rappresentazione del fatto pregiudizievole (sì

che l'omissione dell'azione impeditiva non risulti connotata da consapevolezza).

Ovviamente, l'evento può essere oggetto di rappresentazione anche

eventuale; pertanto chi consapevolmente si sia sottratto, nell'esercitare i poteri-

doveri di controllo attribuiti dalla legge, accettando il rischio, presente nella sua

rappresentazione, di eventi illeciti discendenti dalla sua inerzia, può rispondere di

essi ai sensi dell'art. 40, comma secondo, cod. pen.

Un profilo della motivazione, sul quale le difese hanno particolarmente

indugiato, riguarda la puntualizzazione, secondo la quale, "pur in questa

dilatazione consentita dalla forma eventuale del dolo", non può esservi

equiparazione tra conoscenza e conoscibilità dell'evento che si deve impedire,

attenendo la prima all'area della fattispecie volontaria e la seconda, quale

violazione dei doveri di diligenza, all'area della colpa".

Per intendere il significato di tale precisazione, occorre, però, inquadrarla nei

successivi sviluppi argomentativi della decisione, che, al di là dei profili

concernenti la specifica vicenda processuale, ebbe ad aggiungere che

l'affidamento riposto dagli amministratori privi di delega nelle risposte rese

dall'amministratore operativo alle istanze informative avanzate ovvero nelle

relazioni predisposte dall'organo delegato non può implicare anche una cieca

rinuncia delle personali facoltà critiche o del corredo di competenza

professionale, laddove l'accusa dimostri la presenza di segnali perspicui e

peculiari in relazione all'evento illecito, nonché l'accertamento del grado di

anormalità di questi sintomi, non in linea assoluta, ma per l'amministratore non

operativo, oltre che, s'intende, la percezione degli stessi in capo agli imputati.

In definitiva, volendo sintetizzare il senso complessivo della motivazione, i

segnali perspicui e peculiari di operazioni anomale devono tradursi in indizi gravi,

precisi e concordanti della conoscenza da parte dell'amministratore non

esecutivo della probabile realizzazione di eventi pregiudizievoli e impongono sia

l'attivazione delle necessarie e non predeterminate fonti conoscitive richieste

dall'ordinamento - e, infatti, la cit. sentenza n. 23838 del 2007 aggiunge

significativamente che esse non possono ragionevolmente ridursi all'informazione

resa in seno al consiglio di amministratore o al solo ambito societario non

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potendo l'affidamento spingersi, come s'è detto, sino alla cieca rinuncia delle

personali facoltà critiche o del corredo di competenze professionali, sia l'adozione

di tutte le iniziative, rientranti nelle attribuzioni degli stessi, volte ad impedire gli

eventi medesimi, in ciò concretandosi l'obbligo di agire informati.

Del tutto coerente con siffatta ricostruzione è l'affermazione contenuta nella

motivazione di Sez. 5, n. 43101 del 03/10/2007, Mazzotta, Rv. 238498, laddove

si legge che il combinato disposto degli artt. 40 cpv. e 43 c.p. non deroga alla

lettura dell'elemento psicologico del reato: la nozione di dolo, come la

giurisprudenza ha ormai insegnato da tempo, è estensibile anche al cd. "dolo

eventuale", ossia alla commissione di una condotta omissiva, accompagnata

dalla rappresentazione del rischio di consentire in tal modo il verificarsi

dell'evento che il soggetto ha l'obbligo di impedire.

Quest'ultima decisione, peraltro, aggiunge che non è sufficiente la

rappresentazione della mera possibilità dell'evento, che (risultando sempre

configurabile nella prospettazione delle cose future) non è idoneo paradigma

valutativo. Necessita, invece, una qualche misura di probabilità dell'evenienza e

che questa, sia pur modesta ma più concreta prospettiva, venga rappresentata

dall'autore dell'omissione. Diversamente il giudizio che si limiti alla "conoscibilità"

del fatto approda inevitabilmente a schemi propri della colpa, improponibili per le

fattispecie (come la bancarotta fraudolenta) contrassegnate dal dolo.

In questo senso, va, dunque, intesa la contrapposizione tra conoscenza e

conoscibilità.

Non potendo l'elemento soggettivo che essere desunto da elementi obiettivi

rivelatori dell'atteggiamento psicologico dell'agente (ossia, per usare

l'espressione di Sez. 5, n. 3708 del 30/11/2011 - dep. 30/01/2012, Ballatori e

altri, Rv. 252945, non essendo possibile entrare "nella testa" degli

amministratori") è dalla conoscenza dei segnali di allarme, intesi come momenti

rivelatori, con qualche grado di congruenza, secondo massime di esperienza o

criteri di valutazione professionale, del pericolo dell'evento, che può desumersi la

prova della ricorrenza della rappresentazione dell'evento da parte di chi è tenuto

- per la posizione di garanzia assegnatagli dall'ordinamento - ad uno specifico

devoir d'alerte (che include in sè anche l'obbligo di una più pregnante sensibilità

percettiva, oltre che il dovere di ostacolare l'accadimento dannoso).

Ovviamente, secondo la puntualizzazione della citata sentenza n. 43101 del

2007, questa dimostrazione deve inquadrarsi nel bagaglio di esperienza e

cognizione professionale proprio del preposto alla posizione di garanzia, la cui

valutazione - in rapporto al sintomo allarmante - deve esplicarsi in concreto,

volta per volta: dal che consegue che la convinzione di questa percezione e del

relativo grado di potenzialità informativa del fatto percepito, è rimessa alla

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valutazione del giudice di merito, insuscettibile di censura se accompagnata da

adeguata giustificazione.

In definitiva, nella prospettiva del dolo eventuale, l'evento pregiudizievole,

in coerenza con il giudizio di prognosi postuma che sorregge l'accertamento

giudiziale, è oggetto di una rappresentazione in termini di probabilità, cui si

accompagna l'inerzia dell'amministratore, che, in tal modo, accetta il rischio del

suo verificarsi (in termini, v. Sez. 5, n. 45513 del 05/11/2008, Ferlatti, Rv.

241852).

Quest'ultima decisione aggiunge, in linea con i precedenti approdi

giurisprudenziali, che gli "indici di allarme" rappresentano i sintomi eloquenti del

fatto in itinere. Della loro relativa consapevolezza soltanto (e non

dell'accadimento nella suo compiuta fisionomia) deve darsi pieno riscontro in

capo all'imputato, preposto alla posizione di garanzia, ma la dimostrata

percezione di questi sintomi di pericolo concreta adeguato riscontro alla penale

responsabilità, salvo che sia fornita convincente e legittima giustificazione sulle

ragioni che hanno indotto il soggetto all'inerzia.

Non diversa prospettiva argomentativa si coglie in Sez. 5, n. 36595 del

16/04/2009, Bossio, Rv. 245138, secondo cui, in tema di reati fallimentari e

societari, ai fini della affermazione della responsabilità penale degli

amministratori senza delega e dei sindaci è necessaria la prova che gli stessi

siano stati debitamente informati oppure che vi sia stata la presenza di segnali

peculiari in relazione all'evento illecito, nonché l'accertamento del grado di

anormalità di questi sintomi, giacché solo la prova della conoscenza del fatto

illecito o della concreta conoscibilità dello stesso mediante l'attivazione del

potere informativo, in presenza di segnali inequivocabili, comporta l'obbligo

giuridico degli amministratori non operativi e dei sindaci di intervenire per

impedire il verificarsi dell'evento illecito, mentre la mancata attivazione di detti

soggetti, in presenza di tali circostanze, determina l'affermazione della penale

responsabilità, avendo la loro omissione cagionato, o contribuito a cagionare,

l'evento di danno. E nella stessa linea si muove anche Sez. 5, n. 21581 del

28/04/2009, Mare, Rv. 243889.

Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012 - dep. 28/05/2013, Berlucchi, Rv. 256939,

al pari di Sez. 5, n. 42519 del 08/06/2012, Bonvino, Rv. 253765 ribadisce

quanto già sopra ricordato, ossia che non è sufficiente la presenza dei c.d.

segnali d'allarme da cui desumere un evento pregiudizievole per la società o

almeno il rischio del verificarsi di detto evento, ma è necessario che l'imputato

ne sia concretamente venuto a conoscenza ed abbia volontariamente omesso di

attivarsi per scongiurarlo.

Ed è sul crinale della conoscenza dei segnali d'allarme, allora, che si misura

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l'accertamento demandato al giudice di merito e la puntualizzazione, contenuta

nella sentenza da ultimo citata, secondo la quale un conto è che l'amministratore

privo di delega rimanga indifferente dinanzi ad un "segnale di allarme" percepito

come tale, in quanto decida di non tenere in considerazione alcuna l'interesse dei

creditori o il destino stesso della società, ben altra cosa è che egli continui a

riconoscere fiducia, per quanto mal riposta, verso le capacità gestionali di altri.

Ciò che appunto era stato anche affermato dalla cit. sentenza n. 3708 del

2012, con la quale era stato rigettato il ricorso avverso la sentenza di merito,

che aveva evidenziato in modo preciso e dettagliato tutti gli elementi da cui

aveva desunto la piena consapevolezza da parte dei ricorrenti delle condotte

poste in essere dal direttore e dal presidente della banca.

9. Vanno, poi, affrontate alcune questioni di carattere generale, che

investono le statuizioni civili.

9.1. In primo luogo, è stata eccepita da alcuni imputati la questione della

estensibilità, a tutti i destinatari della pronuncia di condanna al risarcimento del

danno, degli effetti dell'ordinanza emessa il 12/12/2011 dalla Corte territoriale,

che ha dichiarato l'inammissibilità delle costituzioni di parte civile di Alvisi + 45,

Lavagnino + 47, Di Stefano + 11, Cabrini, Ballarin + 159, Beltrami + 115,

Corvaia + 12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza + 35, Allegri + 73,

Pompini + 38, Agresti + 55, Anceschi + 36, in quanto effettuate all'udienza del

06/05/2008, tramite sostituto del difensore procuratore speciale, sulla base di

un'eccezione sollevata dalla difesa del solo coimputato Calogero.

La questione non è fondata.

L'art. 587, comma 1, cod. proc. pen., dispone che, nel caso di concorso di

più persone in uno stesso reato, l'impugnazione proposta da uno degli imputati,

purché non fondata su motivi esclusivamente personali, giova anche agli altri

imputati.

La norma mira ad evitare giudicati contrastanti e disparità di trattamento nei

confronti di imputati che si trovino nella stessa posizione, ai fini

dell'accertamento della responsabilità penale, in relazione ad un episodio storico

sostanzialmente unitario. Che la previsione concerna i soli casi nei quali

l'impugnazione investe, sia pure con eventuali e coerenti ricadute civilistiche

(art. 587, comma 3, cod. proc. pen.), il profilo della responsabilità penale deriva

dalla finalità perseguita dal legislatore di garantire la tutela di interessi ritenuti

indisponibili, come dimostrato dal fatto che l'istituto opera, in quanto si traduca

in un effetto oggettivamente favorevole, anche contro la volontà degli

interessati.

Ne discende che, al di fuori dell'area degli interessi assunti come

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indisponibili dall'ordinamento, non v'è spazio per l'operatività dell'estensione

dell'impugnazione.

In particolare, con riferimento all'azione civile che si innesti nel processo

penale, va ribadito che la stessa non muta, per tale ragione, la sua natura.

Infatti, tra i rapporti processuali dotati di autonomia e suscettibili di

autonoma decisione rientra sicuramente il rapporto che si innesta nel processo

penale a seguito dell'esercizio dell'azione civile per le restituzioni e per il

risarcimento danni. Si tratta, invero, di un rapporto che conserva una propria e

caratteristica struttura ed indipendenza rispetto a quello, di natura pubblicistica,

che si instaura tra accusa e difesa, come espressione della potestas puniendi.

L'esercizio dell'azione civile è, nel processo penale, solo eventuale ed è legato

alla iniziativa del soggetto danneggiato dal reato che può fa valere le sue pretese

tanto nel processo penale come in un diverso e separato processo civile,

potendo, peraltro, traslare l'azione civile già esercitata nel processo penale

innanzi al giudice civile (art. 75, comma 1, cod. proc. pen.) e sottrarre al

processo penale l'azione civile che in questo sia iniziata o mediante revoca

ovvero mediante la successiva proposizione dell'azione civile innanzi al giudice

civile (si veda, ad es., Sez. 4, n. 12489 del 29/09/2000, Scaglione, Rv. 219234).

Da tale premessa consegue che, laddove uno degli obbligati in solido decida

di non impugnare il capo che riguarda la sua condanna risarcitoria, l'ordinamento

non mira a realizzare una necessaria unitarietà di trattamento con gli altri

obbligati che abbiano scelto di censurare la decisione. Al riguardo, a puro titolo

esemplificativo, si rammenta l'orientamento giurisprudenziale, secondo il quale

nel giudizio promosso nei confronti di più condebitori in solido, la sentenza loro

favorevole, passata in giudicato soltanto riguardo a taluno di essi per difetto di

impugnazione, non può essere opposta dagli altri per impedire l'esame

dell'impugnazione proposta nei loro confronti, né può essere rilevata dal giudice

ai fini della declaratoria di preclusione dell'impugnazione medesima, non

trovando applicazione l'art. 1306 cod. civ., che riguarda la diversa ipotesi in cui

la sentenza sia stata resa in un giudizio cui non abbiano partecipato i condebitori

(Sez. 3, n. 13458 del 29/05/2013, Rv. 626813).

È appena il caso di rilevare che a non diverse conclusioni si giunge anche

confrontandosi con la prospettiva difensiva, secondo la quale, il difetto di

rappresentanza delle parti private diverse dall'imputato comporta una nullità a

regime intermedio, rilevabile anche d'ufficio dal giudice del grado successivo nel

quale si è verificata.

È, infatti, assorbente su ogni altro profilo la considerazione che che il

giudice non ha l'obbligo di rilevare le nullità d'ordine generale e a regime

intermedio rispetto alle quali la parte interessata sia decaduta dalla facoltà di

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deduzione (Sez. 6, n. 13402 del 24/03/2011, Di Nardo, Rv. 249912).

9.2. Altra questione di carattere generale prospettata riguarda la portata

della responsabilità solidale degli imputati, in relazione alle questioni di ordine

civilistico.

Ritiene la Corte che la natura autonoma dell'obbligazione civilistica,

derivante dallo specifico illecito che assuma anche rilevanza penale, comporta

necessariamente una lettura dell'art. 187 cod. pen. che si raccordi con la

disciplina, successivamente adottata dal legislatore, dell'art. 2055 cod. civ.

Tale conclusione, sul piano generale condivisa da numerose pronunce di

questa Corte (v., ad es., Sez. 4, n. 16998 del 24/01/2006, Pisanu, Rv. 233832;

Sez. 4, n. 49346 del 27/10/2004, Di Vaira, Rv. 230580; Sez. 4, n. 5728 del

04/12/2001 - dep. 13/02/2002, Taddeo, Rv. 220955; Sez. 4, n. 7970 del

21/04/1988, Loverso, Rv. 178839), comporta la conseguenza che, anche nel

procedimento penale, come nel procedimento civile che potrebbe essere

autonomamente instaurato, operi, a tutela del danneggiato, la regola secondo la

quale tra i corresponsabili di un danno sussiste sempre responsabilità solidale e

paritaria, a nulla rilevando che ciascuno di essi abbia contribuito al verificarsi

dell'evento dannoso finale, rendendosi inadempiente ad obblighi scaturiti da fonti

diverse (v., ad es., nella giurisprudenza civile, Sez. 2, n. 7404 del 11/05/2012,

Rv. 622526).

Né apparirebbe ragionevole una disciplina che sottraesse alla generale

regola della solidarietà proprio le ipotesi di responsabilità derivanti da fatti illeciti

che, in quanto sussumibili in fattispecie penali, sono caratterizzati

dall'ordinamento in termini di maggiore disvalore.

In questa prospettiva va intesa anche la giurisprudenza penale che,

nonostante le affermazioni di principio legate alla lettera dell'art. 187 cod. pen. e

al presupposto della condanna per uno stesso reato, finisce per dare rilievo, al

fine di escludere la solidarietà, alla diversità di eventi dannosi (Sez. 2, n. 15285

del 26/03/2010, Pieropan, Rv. 247036).

Ed, infatti, si è puntualmente ritenuto che la previsione di cui all'art. 187,

comma secondo, cod. pen. impone la solidarietà nel caso di condanna di più

soggetti per uno stesso reato, ma non la esclude quando più condotte, sia pure a

titolo diverso, abbiano concorso a cagionare un unico evento dannoso (Sez. 5, n.

18656 del 18/01/2007, Boni, Rv. 236915)

In conclusione, deve ritenersi che il presupposto unificante della

responsabilità civile, per evidenti esigenze di coerenza dell'ordinamento e di

parità di trattamento dei danneggiati, deve essere colto nell'unicità dell'evento

dannoso e non nell'unicità del fatto produttivo del pregiudizio.

Indubbiamente, a fronte di tali premesse emerge un'incoerenza nella

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decisione della Corte territoriale, che ha distinto gli imputati ritenuti responsabili

di fatti di bancarotta semplice rispetto agli altri imputati, ma la questione,

astrattamente rilevante, in quanto muta, per ciascuna categoria di debitori, il

novero dei coobbligati verso i quali esercitare il regresso, non ha costituito

oggetto di specifico motivo di impugnazione.

9.3. Quanto, infine, alla questione concernente la dedotta violazione dell'art.

240 I. fall., sollevata da imputati per i quali la Corte territoriale ha operato la

riqualificazione della condotta contestata nella fattispecie della bancarotta

semplice, rileva la Corte che è certamente esatto che la norma invocata prevede

che i creditori, che intendano far valere un titolo di azione propria personale,

possono costituirsi parte civile, nel procedimento per bancarotta fraudolenta, pur

in presenza, come nella specie, della costituzione di parte civile del commissario

dell'amministrazione straordinaria.

Tuttavia, senza necessità di esaminare funditus le problematiche legate

all'individuazione dei rimedi spettanti ai creditori nel procedimento penale per

bancarotta semplice, è sufficiente considerare che la norma, per finalità di ordine

processuale, disciplina i presupposti della legittimazione individuandoli nella

mera esistenza di un procedimento per bancarotta fraudolenta, rimanendo

indifferente alle successive, eventuali decisioni, concernenti la qualificazione del

fatto.

In effetti, l'art. 240 I. fall. si occupa non dei fatti costitutivi del diritto

risarcitorio, ossia del merito della pretesa, ma dei requisiti che giustificano

l'innesto dell'azione civile nel processo penale, talché, una volta accertata la loro

presenza al momento della costituzione di parte civile, il giudice non può

sottrarsi alla decisione sul fondamento delle domande risarcitorie e di

restituzione, sol perché abbia operato una diversa qualificazione dei fatti.

10. Vengono, ora, in considerazione le ragioni di critica mosse dai ricorrenti

nei rispettivi atti d'impugnazione.

CALISTO TANZI

Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto per quanto di ragione.

10.1. In ordine al primo motivo va ricordato che, vertendosi in tema di

bancarotta impropria da reati societari (capo B) e da operazioni dolose (capo C),

ad integrare la struttura del reato sotto il profilo oggettivo è necessario che

ricorra il nesso di causalità fra le condotte vietate e l'evento naturalistico che le

norme incriminatrici individuano nel dissesto e, rispettivamente, nel fallimento;

del pari è necessario, sotto il profilo soggettivo, che - nella prima soltanto delle

due fattispecie criminose indicate, come più oltre si vedrà - l'evento sia previsto

e voluto dall'agente come conseguenza del proprio operare, giusta il disposto a 88

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dell'art. 43 cod. pen.. A tale risultato ermeneutico si perviene pianamente in

base alla lettura dell'art. 223, comma 2, nn. 1) e 2) della legge fallimentare,

senza la necessità di ricercare argomenti a sostegno in un arresto

giurisprudenziale (Sez. 5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv. 253493) le cui

enunciazioni - peraltro non condivise, come si è dianzi esplicitato al paragrafo

7.6 - si riferiscono alla diversa ipotesi criminosa di cui all'art. 216 legge fall.,

richiamato per la bancarotta impropria dall'art. 223, comma 1, della stessa

legge.

Tanto premesso per doverosa precisazione, va detto che la sentenza qui

impugnata resiste alla censura di carenza argomentativa sotto il profilo or ora

esaminato, rivenendosi nella motivazione un discorso giustificativo immune da

vizi logici e giuridici.

Ed invero, per quanto si riferisce alla problematica inerente al nesso causale,

l'argomento risulta essere stato adeguatamente trattato non soltanto nelle parti

della sentenza menzionate dal ricorrente (pagg. 90-91, pag. 320), dedicate - ora

in via generale, ora in via riepilogativa - ai criteri di accertamento; ma altresì

nella specifica analisi delle singole ipotesi di reato oggetto di contestazione,

avuto anche riguardo alle parti della sentenza riguardante le posizioni dei

coimputati.

È certo, innanzi tutto, che le riunioni di budget, dalle quali scaturiva la

strategia economico-finanziaria del gruppo, abbiano costantemente visto la

presenza del ricorrente: presenza certamente attiva e predominante, dato che la

valutazione del materiale probatorio ha indotto i giudici di merito a vedere in

Calisto Tanzi «il punto finale (se non addirittura esclusivo) di riferimento per

qualsiasi disposizione, impartita sia a Del Soldato e Ferraris, sia a tutti gli altri

funzionari ed amministratori»; e a ritenere, per di più, che «nulla di quanto non

direttamente ideato e disposto da Tanzi si faceva comunque senza sua

autorizzazione»; così da giungere alla conclusione che egli fosse il capo

indiscusso dell'intera galassia associativa diretta attraverso la «cabina di regia»,

e fosse quindi l'unico a scegliere personalmente gli obiettivi strategici,

nell'esercizio di tutti i poteri ordinari e straordinari in ogni settore della vasta

holding.

Se così è (ed è incontestabile che così sia, siccome accertato in linea di fatto

dalla Corte d'Appello con motivazione immune da vizi logici e giuridici), deve

necessariamente concludersi che tutte le falsificazioni contabili, le operazioni di

dissimulazione della sempre più ingente esposizione debitoria, il meccanismo di

autofinanziamento denominato «giro dei concessionari», i finanziamenti occultati

mediante simulate operazioni di investimento nel capitale, e insomma tutte le

illecite manovre contabili ed operazioni dolose dalle quali ha tratto origine il

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rovinoso tracollo del gruppo, sono state attuate per volontà di Calisto Tanzi:

onde non è contestabile che la condotta da lui posta in essere, sia pure col

concorso di quanti si sono prestati a tradurre in fatti concreti le sue direttive, sia

collegata al dissesto da un evidente nesso causale, che puntualmente si coglie

nella ricostruzione dei fatti che permea di sé ogni passaggio motivazionale della

sentenza impugnata.

Alla stregua di quanto osservato, non ha ragion d'essere la censura di

carenza motivazionale sul punto in questione.

Per quanto si riferisce all'elemento soggettivo, va ricordato che la norma

incriminatrice di cui all'art. 223, comma 2, n. 2) legge fall., alla luce della

giurisprudenza formatasi in argomento, ad integrare il reato richiede la

sussistenza del dolo (generico) per quanto si riferisce al compimento delle

operazioni, per l'appunto, dolose, causatrici del fallimento; ma relativamente a

quest'ultimo richiede soltanto la astratta prevedibilità (Sez. 5, n. 17690 del

18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a., Rv. 247315). La bancarotta

impropria da reati societari richiede invece, come si è già annotato poc'anzi, la

sussistenza del dolo, il quale tuttavia può essere anche eventuale; per una

migliore puntualizzazione dell'argomento vale la pena di richiamarsi a recente

giurisprudenza, secondo cui «in tema di bancarotta impropria da reato

societario, il dolo presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non

già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione

della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio

economico. (Fattispecie relativa alla ritenuta configurabilità del reato fallimentare

in relazione a false comunicazioni dirette ad un'azienda di credito per

l'erogazione di maggiore finanza pur accompagnate dalla convinzione della

probabile restituzione)» (Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, Baraldi, Rv. 252804).

Sui punti in questione la Corte d'Appello si è esaurientemente soffermata

alle pagg. 321 e seguenti della sentenza impugnata; e le considerazioni ivi svolte

in via generale soddisfano l'obbligo di motivazione anche in riferimento alle

singole imputazioni ascritte al Tanzi, non essendo revocabile in dubbio che

ciascuna delle falsificazioni ed operazioni causatrici del dissesto sia stata posta in

essere dietro direttive da lui impartite con coscienza e volontà; così come è certo

- sempre in base alla ricostruzione dei fatti insindacabilmente recepita dalla

Corte d'Appello - che il dissesto del gruppo fosse non già soltanto prevedibile,

ma certamente previsto sotto il profilo di uno squilibrio economico all'inizio

soltanto imminente, ma reso nel prosieguo attuale e progressivamente

accentuato dalle illecite iniziative assunte di volta in volta.

Prima di licenziare il motivo va ricordato, a confutazione della censura

inerente al rigetto delle istanze istruttorie della difesa, che nel giudizio di appello

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la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale è evenienza eccezionale,

subordinata ad una valutazione giudiziale di assoluta necessità conseguente

all'insufficienza degli elementi istruttori già acquisiti pur se le parti non abbiano

provveduto a presentare la relativa istanza nel termine stabilito dall'art. 468 cod.

proc. pen. (così, da ultimo, Sez. 2, n. 41808 del 27/09/2013, Mongiardo, Rv.

256968 v. anche Sez. 5, n. 15320 del 10/12/2009 - dep. 21/04/2010, Pacini, Rv.

246859; Sez. 4, n. 30422 del 21/06/2005, Poggi, Rv. 232020); senza

trascurare, per quanto riguarda la perizia, che si tratta di atto istruttorio che, per

il suo carattere «neutro» sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla

discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva:

con la conseguenza per cui il relativo provvedimento di diniego non è

sanzionabile ai sensi dell'art.606 comma primo lett. d) cod. proc. pen., in quanto

giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in

cassazione (Sez. 4, n. 14130 del 22/01/2007, Pastorelli, Rv. 236191; Sez. 4, n.

4981 del 05/12/2003 - dep. 06/02/2004, Ligresti, Rv. 229665).

10.2. Il secondo motivo pone le questioni di giurisdizione e individuazione

della legge applicabile che sono già state trattate al paragrafo 2 e relative

partizioni; onde null'altro vi è da aggiungere a quanto ivi osservato.

10.3. Analogo rilievo è a farsi per il terzo motivo, che solleva l'eccezione di

violazione dell'art. 649 cod. proc. pen. sulle quali ci si è già soffermati al

paragrafo 5.

10.4. Nel quarto motivo risiede la parziale fondatezza del ricorso, che

impone un altrettanto parziale annullamento della sentenza impugnata.

Il delitto di associazione per delinquere di cui all'art. 416, comma primo,

cod. pen. prevede, per i promotori e organizzatori del sodalizio criminoso, la

pena della reclusione da tre a sette anni. Ne consegue che, in base all'art. 157

cod. pen. - nel testo, più favorevole all'imputato, risultante dalla modifica

apportata dall'art. 6, comma 1, I. 5 dicembre 2004, n.251 - il termine

prescrizionale ordinario è della durata di sette anni, prorogabile fino al massimo

di un quarto (dunque fino a un totale di otto anni e nove mesi) per effetto degli

atti interruttivi; ciò comporta che, stante la decorrenza dal dicembre 2003, data

di cessazione della permanenza del reato, la datazione dell'evento estintivo va

collocata al giorno 1 settembre 2012, posteriore alla sentenza di secondo grado,

ma anteriore alla data corrente.

Non ricorrendo le condizioni per una pronuncia liberatoria ex art. 129,

comma 2, cod. proc. pen., in quanto le restanti ragioni di critica sviluppate nel

motivo non sono immediatamente ed evidentemente demolitrici dell'ipotesi

accusatoria motivatamente recepita dai giudici di merito, la sentenza deve

essere annullata in parte qua, senza rinvio, per la ragione anzidetta.

91

Page 92: 32352/14 )d - Diritto Penale Contemporaneo...Parmalat Finanziaria s.p.a. e dalle sue controllate. Tale gruppo presentava una rilevante sub holding mista, operativa e finanziaria, che

Conseguentemente va eliminato l'aumento di pena inflitto al Tanzi a titolo di

continuazione per il reato associativo medio tempore estinto, pari a cinque mesi

di reclusione.

10.5. Il quinto motivo è manifestamente infondato. Con esso il ricorrente

lamenta che sia rimasto privo di confutazione il motivo di appello da lui dedotto a

contrastare l'affermazione di responsabilità in ordine al capo G, riguardante la

bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione all'insolvenza della società

Boschi Luigi e Figli s.p.a.; di contro, alla lettura della sentenza impugnata

emerge che l'argomento è stato espressamente ed esaurientemente trattato

dalla Corte d'Appello alle pagine 330 e 331, ove ha anche ricevuto puntuale

risposta confutativa l'argomento difensivo imperniato sulle potenzialità

produttive della società detentrice del marchio «Pomì», in un'ottica

assertivamente di gruppo: potenzialità immediatamente frustrate (lo rileva la

Corte d'Appello) dalla rilevante distrazione operata in suo danno e dalla

dichiarazione di fallimento (rectius, dello stato d'insolvenza) seguita a distanza di

pochi mesi.

10.6. Il sesto motivo è inammissibile per quanto di seguito esposto.

Il ricorrente denuncia violazione dell'ad. 603, comma 2, cod. proc. pen. per

avere la Corte d'Appello disatteso l'istanza di escussione in veste di testimoni di

tutte le parti civili costituite; e si richiama, in proposito, a un arresto

giurisprudenziale che riconduce all'invocata disposizione normativa l'assunzione

di prove delle quali sia stata irragionevolmente negata l'ammissione in primo

grado. Senonché, prima ancora di verificare la condivisibilità di un tale

inquadramento normativo, va rilevato che l'eventuale suo accoglimento non

potrebbe dar luogo ad una pronuncia di annullamento ex art. 606, comma 1,

lett. c), cod. proc. pen., non vedendosi in un'ipotesi di inosservanza di norme

processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o

decadenza; conseguentemente il fondamento della censura sarebbe da verificare

sotto il profilo di cui alla lettera d) dello stesso articolo, il cui disposto tuttavia

richiede che la prova della quale si lamenta la mancata acquisizione abbia

carattere decisivo; e in questa sede non può riconoscersi alcuna decisività

all'indagine sul quantum della pretesa risarcitoria azionata dalle parti civili, così

come sull'esistenza stessa del danno (bastando l'accertamento della potenziale

capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra

tale fatto e il pregiudizio lamentato: Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta,

Rv. 257551), dato che la liquidazione del danno è stata rimessa al giudice civile.

Al di là di tale dato, anche ove destinata a sorreggere una linea difensiva

orientata ai fini penali, la prova richiesta presenta un carattere esplorativo

incompatibile col requisito di specificità del mezzo d'impugnazione, che comporta

d7 92

Page 93: 32352/14 )d - Diritto Penale Contemporaneo...Parmalat Finanziaria s.p.a. e dalle sue controllate. Tale gruppo presentava una rilevante sub holding mista, operativa e finanziaria, che

l'onere di precisare le circostanze fattuali da provarsi col mezzo istruttorio

proposto e di spiegare in che modo da esse discenderebbero conseguenze

determinanti per l'esito del processo.

10.7. Il settimo motivo sintetizza nella sua intestazione tre ordini di censure,

riguardanti il diniego delle attenuanti generiche, la concreta determinazione della

pena e il rigetto della richiesta di «patteggiamento» ex art. 444 cod. proc. pen..

Nella successiva illustrazione del motivo, tuttavia, sono esposte ragioni

riconducibili alla sola quantificazione della pena base, stabilita in dieci anni di

reclusione, e cioè nel massimo edittale previsto per il più grave reato di cui al

capo B (bancarotta impropria da reati societari). Ne consegue che le restanti

doglianze non sono da prendere in considerazione, stante l'omessa specificazione

delle corrispondenti ragioni di critica.

Per quanto si riferisce alla modulazione della pena base, attesa la

discrezionalità riconosciuta in proposito dalla legge al giudice di merito, non vi è

che da verificare la congruità della motivazione, alla luce del principio

giurisprudenziale - infatti invocato dal ricorrente - secondo cui il giudice tanto

più deve rendere conto della propria determinazione, quanto più intenda

discordarsi dal minimo edittale (oltre a Sez. 6, n. 2925 del 18/11/1999 - dep.

09/03/2000, Baragiani, Rv. 217333, v. anche le più recenti Sez. 1, n. 24213 del

13/03/2013, Pacchiarotti, Rv. 255825; Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013,

Pasquali, Rv. 258356).

La Corte d'Appello di Bologna ha motivato la propria statuizione valorizzando

la posizione di primaria rilevanza assunta e conservata dal Tanzi quale «patron»

di Parmalat; la gravità delle decisioni da lui assunte, talvolta contro il parere dei

più stretti collaboratori; l'atteggiamento gestorio fortemente accentratore e

padronale assunto in tutti i settori del gruppo, ivi compreso quello turistico,

peraltro subito rilevatosi come una zavorra e quindi utile esclusivamente a

favorire il drenaggio di denaro verso la famiglia Tanzi; il rifiuto opposto

all'afflusso dall'estero di nuovi capitali, che avrebbero potuto salvare il gruppo ed

i risparmi degli investitori privati e non, ma che avrebbero privato Calisto Tanzi

del suo potere assoluto. Su tali considerazioni il giudice di merito ha fondato la

valutazione di estrema gravità dei fatti e di pervicacia criminale dell'imputato,

«in una con l'epocale ampiezza ed entità dei danni cagionati ai piccoli investitori

dei quali veniva reiteratamente carpita la buona fede con comunicazioni sociali

tutte certamente attribuibili a Calisto Tanzi, ed artatamente finalizzate proprio a

protrarre la frode, aggravandone le conseguenze, e ad appropriarsi di ulteriori

finanziamenti provenienti dal privato per occultare la voragine finanziaria creata

nel corso degli anni».

Della motivazione così addotta non può negarsi l'attitudine a dar conto

93 dt

Page 94: 32352/14 )d - Diritto Penale Contemporaneo...Parmalat Finanziaria s.p.a. e dalle sue controllate. Tale gruppo presentava una rilevante sub holding mista, operativa e finanziaria, che

adeguatamente delle ragioni della decisione, rinvenendosi in essa un'ampia

analisi degli elementi di valutazione della gravità del fatto e della personalità

dell'imputato, alla stregua dei canoni dettati dall'art. 133 cod. pen.. Né giova al

ricorrente elencare una serie di elementi (dall'età avanzata all'incensuratezza,

dal comportamento processuale al concorso di terzi nei reati) dei quali, a suo

avviso, il giudice di appello non avrebbe tenuto conto nella determinazione della

pena; non è infatti necessario, a soddisfare l'obbligo della motivazione, che il

giudice prenda singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui all'art. 133

c.p., essendo invece sufficiente l'indicazione di quegli elementi che, nel

discrezionale giudizio complessivo, assumono eminente rilievo (v. Sez. 1, n.

3155 del 25/09/2013 - dep. 23/01/2014, Waychey, Rv. 258410; Sez. 3, n. 6641

del 17/11/2009 - dep. 18/02/2010, Miranda, Rv. 246184).

Da ultimo mette conto di rimarcare l'irrilevanza del fatto che il giudice di

primo grado abbia erratamente creduto di applicare una pena prossima al

massimo edittale, anziché coincidente con esso: indipendentemente da tale

errata opinione, è evidente che il Tribunale ha ritenuto giusta ed equa la pena

applicata, e non altra di minore entità; tale giudizio è stato poi confermato dalla

Corte d'Appello, alla quale non è certamente addebitabile il medesimo errore

prospettico.

11. FAUSTO TONNA

Anche questo ricorso presenta elementi di fondatezza che comportano il

parziale annullamento della sentenza impugnata.

11.1. Non così il primo, complesso, motivo col quale il ricorrente impugna

l'affermazione di propria responsabilità per i reati di cui ai capi E.3.1, C.6.3, E.6,

T, D.4, C.7.6, C.9, F.6, D.27, adducendo di non aver mai assunto cariche formali

nelle relative società o di averle, comunque, dismesse nel marzo 2003.

Orbene, quanto alla prima di dette imputazioni, nella sentenza di appello

l'assunto difensivo è confutato alla pag. 353, ove si annota che il bonifico di 21,1

milioni di dollari - nel quale si è concretata la distrazione in favore di Luca Sala -

è stato, bensì, sottoscritto da Luciano Del Soldato il 18 luglio 2003; ma che si è

trattato dell'esito consequenziale del fittizio aumento di capitale di Parmalat

Brasile effettuato nel 1999, quando il Tonna era formalmente e sostanzialmente

managing director di PFC, nonché componente del consiglio di amministrazione

di Parmalat Capital Finance, oltre che responsabile finanziario di Par.fin e

Parmalat: donde la sussistenza di un decisivo contributo causale da parte

dell'odierno ricorrente, fonte di responsabilità a titolo di concorso nel reato. Né

l'aver rilevato che il Tonna non si sia comunque attivato per impedire

l'erogazione importa immutazione del fatto, atteso che tale rilievo ha svolto nel

94

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tessuto argomentativo la sola funzione di evidenziare la configurabilità

dell'elemento soggettivo del reato.

Quanto ai capi C.6.3 ed E.6, va detto che la Corte d'Appello non ha

trascurato di considerare che il Tonna si era dimesso dalla carica di C.F.O. (Chief

Financial Officer) nel marzo 2003; ma ha nel contempo rilevato (pagg. 354 e

355) che la sua permanenza nel consiglio di amministrazione della Parmalat

s.p.a. e della Parmalat Finanziaria s.p.a. (nonché nel comitato di controllo di

quest'ultima) fino al default lo rendeva responsabile del reato al pari di ogni altro

amministratore non esecutivo, a maggior ragione per la piena consapevolezza

dell'illiceità delle operazioni in questione, che rendeva configurabile il dolo

diretto, e non meramente eventuale, privando di rilevanza ogni valutazione circa

l'idoneità del «segnali d'allarme»: consapevolezza che la Corte di merito ha

tratto dalle spiegazioni fornite dalla stesso Tonna nei suoi interrogatori, con

valutazione che si sottrae al sindacato di legittimità.

La medesima linea difensiva è, altresì, motivatamente contrastata in

rapporto ai restanti reati ai quali il motivo di ricorso in esame si riferisce: sul

capo C.7.6 la Corte d'Appello rileva, a pag. 355, che l'estraneità dell'appellante

alla govemance della Compagnia Finanziaria Alimenti non è conferente

considerato, per un verso, che detta società era partecipata per oltre il 90% da

Parmalat s.p.a., in cui egli era sicuramente presente e già all'epoca responsabile

effettivo, e per altro verso che lo stesso finanziamento era stato poi utilizzato

dalla stessa sub-holding operativa e rimborsato con la vendita di azioni

privilegiate di Parmalat Netherland BV in forza di un put option agreement

siglato proprio dal Tonna. Sui capi C.9 ed F.6, relativi al cd. «sistema Wishaw

Trading» la sentenza si sofferma alla pag. 355, valorizzando una volta di più le

dichiarazioni del Tonna, dimostrative di una perfetta conoscenza dei modi in cui

veniva operato l'illecito finanziamento delle società sudamericane,

coerentemente del resto con la sua partecipazione alle «riunioni di budget», in

cui era il principale referente per le perdite di settore e regionali, nonché per le

sistemazioni dei bilanci; per di più egli amministrava - o comunque dirigeva - le

società dalle quali proveniva la liquidità necessaria per procedere al

finanziamento col sistema wishaw trading. Del capo D.27 la sentenza tratta alle

pagg. 356-357, sviluppando analoghe considerazioni in base al ruolo rivestito dal

Tonna nella Parmalat s.p.a. e all'accertato uso, nelle operazioni distrattive, del

«conto valori bollati» che costituiva uno degli strumenti ordinari dei prelievi

indebiti effettuati da Calisto Tanzi. Il capo T è trattato alla pag. 365, ove si

osserva che, sebbene il Tonna non rivestisse cariche all'interno della Finaliment

s.r.I., nondimeno era partecipe in via di fatto della gestione delle società «di

famiglia», caratterizzata per tutte dal ricorso a meccanismi distrattivi e

95

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falsificatori; e si rileva, altresì, che la Finaliment s.p.a. era controllata dalla

S.a.t.a. s.r.I., della quale lo stesso Tonna era amministratore unico. Le stesse

considerazioni possono valere per quanto concernente il reato di cui al capo D.4,

che nella sentenza è preso in considerazione alla pag. 362 unitamente agli altri

illeciti rubricati sub D.

Quanto suesposto dà conto della completezza della motivazione resa dalla

Corte territoriale, in relazione alle imputazioni fin qui viste: donde l'infondatezza

della censura di carenza motivazionale per omessa confutazione delle ragioni

esposte nell'atto di appello. Inoltre, attesa la piena conformità ai canoni logico-

giuridici delle argomentazioni così svolte, non possono trovare accesso nel

giudizio di cassazione le ulteriori critiche svolte nel ricorso, nella parte in cui

s'indirizzano a contrastarle sotto il profilo della condivisibilità, che attiene

esclusivamente al merito.

11.2. Deduzioni difensive in parte analoghe a quelle già viste sono spese dal

Tonna nel secondo motivo, volto a impugnare la condanna per i reati di cui ai

capi A, B e C. Lamenta infatti il ricorrente che, per un verso, non si sia data

risposta al motivo di appello con cui aveva sottoposto all'attenzione del giudice il

dissenso da lui manifestato in più occasioni nei confronti delle operazioni

censurate come dolose, segnalando che invece le iniziative da lui condivise

avevano riguardato molteplici acquisizioni proficue; per altro verso insiste nel

negare ogni propria responsabilità per i fatti successivi alle dimissioni da lui rese

nel marzo 2003, denunciando come illegittima la riqualificazione della sua

condotta in chiave omissiva.

Innanzi tutto corre l'obbligo di rilevare che, come si è già visto trattando la

posizione di Calisto Tanzi, per il reato di associazione per delinquere contestato

al capo A è maturato da tempo il termine prescrizionale massimo di otto anni e

nove mesi, decorso a far tempo dalla cessazione della permanenza, fissata al

dicembre 2003. Non essendo dato cogliere nel ricorso ragioni che inducano a un

giudizio di evidente infondatezza dell'ipotesi accusatoria, la sentenza deve essere

annullata senza rinvio nella parte riguardante la condanna per tale reato, con

eliminazione del corrispondente aumento di pena per continuazione, pari a

cinque mesi di reclusione.

Per il resto la disamina del motivo qui scrutinato conduce a un giudizio di

infondatezza.

Le argomentazioni difensive con le quali il deducente rivendica la bontà delle

acquisizioni da lui approvate, e respinge per le altre ogni addebito a suo carico,

sono manifestamente orientate a contrapporsi a un'accusa - in realtà insussi-

stente - apparsagli polarizzata sulla politica imprenditoriale di «internaziona-

lizzazione» perseguita dal gruppo. Di contro il giudizio di responsabilità penale si

96

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è fondato, quanto alle molteplici fattispecie rubricate sub B, sulle falsificazioni

delle scritture contabili e dei bilanci - civilistici e consolidati - finalizzate a

dissimulare la situazione finanziaria effettiva; e, quanto alle fattispecie rubricate

sub C, sull'uso spregiudicato di strumenti negoziali volti a occultare, attraverso la

stipulazione di onerosi finanziamenti, talora fittiziamente strutturati come

aumenti di capitale, il crescente indebitamento di varie società facenti parte del

gruppo e di quest'ultimo nel suo insieme: onde le operazioni dolose punite ex

art. 223, comma 2, n. 2) legge fall. non hanno riguardato le scelte

imprenditoriali originarie, ma i rimedi utilizzati per nascondere le conseguenze di

esse. Il fatto, poi, che la Corte d'Appello in vari passaggi motivazionali imperniati

sulla ricostruzione della vicenda abbia qualificato «dissennate» talune di tali

scelte imprenditoriali (così come, del resto, le distrazioni e le dissipazioni

contestate in altri capi della nutrita imputazione) ha dato corpo a una mera

valutazione metagiuridica, di neutra valenza ai fini del giudizio penale.

La prova della partecipazione fattiva e concreta del Tonna a tali illecite

attività - anche nell'occultare operazioni alle quali si era inizialmente opposto - è

stata colta dalla Corte d'Appello nel complesso del materiale istruttorio acquisito,

fra cui le dichiarazioni dello stesso imputato («sono stato io a studiare e creare

gli strumenti tecnici illeciti e fraudolenti che abbiamo utilizzato per mascherare la

situazione»: pag. 345 della sentenza, nota 570).

Circa l'ascrivibilità all'odierno ricorrente di illeciti posti in essere

successivamente alle sue dimissioni del marzo 2003, si è già osservato dianzi

che la Corte di merito ha conferito significativo rilievo alla di lui permanenza nel

consiglio di amministrazione della Parmalat s.p.a. e della Parmalat Finanziaria

s.p.a.; aggiungasi che nella sentenza è fatto anche cenno (nella nota 575 a pag.

350) alla deposizione del teste Franco Gorreri, responsabile dei servizi di

tesoreria della Parmalat s.p.a., e alla sensazione da lui tratta che il Tonna, pur

dopo le dimissioni, non fosse un semplice consulente del Tanzi, ma avesse

mantenuto intatte le sue prerogative di potere, anche gerarchico.

Il tentativo del ricorrente di contrapporre all'accertamento in fatto, cui la

Corte di merito ha acceduto, una ricostruzione alternativa basata sulla

rivisitazione dei mezzi di prova si traduce nella proposizione di un motivo di

ricorso non consentito, in quanto esulante dal novero di quelli contemplati

dall'art. 606 cod. proc. pen..

La censura con cui il ricorrente lamenta che la Corte d'Appello, nel riferirsi

all'epoca successiva alle dimissioni, abbia pregiudicato il diritto alla difesa

sostituendo alla condotta commissiva oggetto d'imputazione quella omissiva

ritenuta in secondo grado, è priva di fondamento, innanzi tutto, in astratto;

valga in proposito richiamarsi al principio giurisprudenziale già enunciato da

g 97

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questa Corte Suprema, secondo cui «non viola il principio di correlazione tra

accusa e sentenza, previsto dall'art. 521 cod. proc. pen., la decisione con la

quale l'imputato sia condannato per il reato di bancarotta fraudolenta per essere

rimasto colpevolmente inerte di fronte alla condotta illecita dell'amministratore di

fatto, in applicazione dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., anziché per la

condotta assunta direttamente nella veste di amministratore formale, purché

rimanga immutata l'azione distrattiva, nei suoi profili soggettivi ed oggettivi,

considerato che non si determina un'apprezzabile modifica del titolo di

responsabilità» (così Sez. 5, n. 25432 del 11/04/2012, De Mitri, Rv. 252991; v.

anche Sez. 5, n. 39329 del 20/09/2007, Gili, Rv. 238210). Il principio così

enunciato, per quanto riferito in concreto a una fattispecie in cui la condotta

illecita era materialmente ascritta all'amministratore di fatto, vale indubbiamente

per ogni altra analoga ipotesi di concorso nel reato.

In secondo luogo la doglianza è infondata in concreto. Già si è rimarcato

dianzi che la sentenza impugnata rimprovera al Tonna una condotta

scientemente commissiva anche in ordine ai fatti posteriori alle dimissioni, stante

la sua costante permanenza di fatto in una posizione apicale nella gestione del

gruppo (ne è riprova quanto affermato nella stessa pag. 352, poche righe prima

di quelle citate dal ricorrente a sostegno del proprio assunto); e si è osservato,

altresì, che l'avere la Corte fatto menzione dell'inerzia mostrata dal Tonna

nell'omettere qualsiasi impedimento alla consumazione della bancarotta per

distrazione ivi trattata (pag. 354 della sentenza: giacché l'argomento non è stato

utilizzato in via generale dalla Corte di merito che, lo si ripete, ha invece

imputato in via generale al Tonna una condotta attiva) ha svolto in quel caso la

sola funzione di evidenziare l'elemento soggettivo del reato.

L'assunto difensivo con cui il ricorrente sostiene che, per l'extraneus, nel

reato commesso da altri l'elemento soggettivo debba coprire il dissesto della

società, tende a poggiare sulla tesi giuridica fatta propria dall'isolata sentenza n.

47502 in data 24/09/2012 di questa stessa sezione, le cui argomentazioni sono

già state diffusamente contrastate al precedente paragrafo 7 e relative partizioni.

11.3. Il terzo motivo ripropone la censura inerente alla riqualificazione della

condotta del Tonna da commissiva in omissiva, prospettandola sotto il profilo

della violazione dell'art. 521 cod. proc. pen.. Sul punto si è già argomentato nel

paragrafo che precede, per cui nulla vi è da aggiungere in tema.

11.4. Il quarto motivo impugna la pronuncia di condanna per i reati di cui ai

capi C.3, E.2.2 e C.4: i primi due riguardanti l'aumento di capitale della Parmalat

Finanziaria s.p.a. e la correlata distrazione ai danni della Parmalat Finance

Corporation BV, mentre il terzo riguarda un contratto di finanziamento stipulato

dalla Parmalat s.p.a. con la Banca di Roma e la Citibank.

98 g

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La censura che informa il motivo, rimproverando alla Corte d'Appello di aver

dato insoddisfacente ed illogica risposta ai motivi di gravame diffusamente

illustrati nell'atto di appello e riduttivamente condensati nella sentenza qui

impugnata, non merita accoglimento.

Per quanto riguarda i primi due reati, la Corte territoriale ha giustificato il

proprio deliberato, confermativo di quello del Tribunale, rilevando in primis

l'infondatezza del principale rilievo difensivo, secondo cui non sarebbe stato

esplicitato il ruolo svolto dal Tonna nella vicenda cui l'imputazione si riferisce; a

tal fine ha sottolineato che egli rivestiva all'epoca le qualità di consigliere

esecutivo (e C.F.O. sostanziale) di Par.fin, Managing Director di P.F.C.,

presidente del consiglio di amministrazione di Coloniale, amministratore unico di

S.a.t.a. e di Agis, nonché di Bonlat: società tutte coinvolte nella complessa

operazione distrattiva. Ha aggiunto che in tali molteplici vesti, tutte essenziali

alla conclusione dell'affare come ammesso dallo stesso imputato, fu Tonna ad

occuparsi di reperire il finanziamento necessario per far fronte all'aumento di

capitale di 400 miliardi di Par.fin e a sottoscrivere il relativo contratto con UBS,

oltre che a soprintendere e seguire personalmente tutte le operazioni di transito

di denaro e di giro di crediti dall'una all'altra delle società, per consentire alla

famiglia Tanzi di conservare il controllo di Par.fin. Su tali presupposti fattuali ha

ritenuto più che giustificata l'attribuzione al Tonna dell'operazione in

contestazione, avuto riguardo all'oggettività dei fatti accertati e agli incarichi da

lui ricoperti; mentre, a suo avviso, la riferibilità delle azioni depositate presso

UBS a garanzia del finanziamento, la confusione tra lire ed euro in cui era

incorso il Tribunale e il refuso che aveva portato ad aggiungere un «Capital» nel

nome di PFC non avevano minimamente eliso l'effettività o la natura dolosa

dell'operazione, né la lesività della stessa.

Con ciò resta soddisfatto l'obbligo di motivazione, costituendo un principio

consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello per cui il giudice del

gravame non è tenuto a prendere in esame ogni singola argomentazione svolta

nei motivi d'impugnazione, ma deve soltanto esporre, con ragionamento corretto

sotto il profilo logico-giuridico, i motivi per i quali perviene a una decisione

difforme rispetto alla tesi dell'impugnante, rimanendo implicitamente non

condivise, e perciò disattese, le argomentazioni incompatibili con il complessivo

tessuto motivazionale (Sez. 4, n. 26660 del 13/05/2011, Caruso, Rv. 250900;

Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 4, n. 1149/06 del

24/10/2005, Mirabilia, Rv. 233187).

Per quanto riguarda il terzo reato, sono da farsi considerazioni

sostanzialmente analoghe. La motivazione della Corte d'Appello, dopo un

rimprovero mosso all'imputato appellante di non aver illustrato, né dimostrato, i

99 a(.

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benefici fiscali che sarebbero derivati a suo dire dall'operazione, osserva che

questa si è tradotta in buona misura in «un finanziamento a se stessa della

società finanziata»; e ciò in quanto, non riuscendosi a collocare interamente un

prestito obbligazionario di 150 miliardi di lire appositamente studiato per

consentire a Parmalat il rientro richiesto da alcuni istituti bancari, era stata

Parmalat Luxembourg - ricevuto il denaro da Parmalat Spa stessa e da Parmalat

Netherland - a sottoscrivere il finanziamento per la cifra di 63 miliardi di lire non

ancora coperti; con la conseguenza che, nonostante il mancato ingresso del

denaro fresco auspicato, Parmalat si era trovata comunque a dover

corrispondere alle banche commissioni di notevole importanza, relative alla cifra

intera del finanziamento, sebbene il gruppo ne avesse di fatto ricevuto

esclusivamente la metà.

Anche in relazione all'argomento suesposto l'obbligo di motivare risulta

essere stato osservato dal giudice di appello, attraverso l'esposizione di

argomenti del tutto incompatibili con l'accoglimento delle ragioni dedotte dalla

difesa.

11.5. Il quinto motivo, volto a impugnare la condanna per i reati di cui ai

capi C.5, C.7.2, D.35, E.3 ed F.11, nell'esporre le censure mosse alla

motivazione della sentenza di appello pecca per mancanza di specificità. Ed

invero, a parte la denuncia di contraddittorietà nella collocazione temporale del

bonifico effettuato da Del Soldato in esito alla operazione CUR Holding (della

quale peraltro non si specificano le ricadute sulla tenuta logica della motivazione,

che sul punto ha mostrato di conferire invece decisivo rilievo all'epoca del fittizio

aumento di capitale di Parmalat Brasile, risalente al 1999), il ricorrente si limita

per il resto a criticare la linea argomentativa della sentenza per insufficienza,

illogicità e genericità, senza tuttavia precisare quali contenuti avrebbe dovuto

avere la motivazione per sottrarsi a quelle critiche.

11.6. Il sesto motivo investe l'affermazione di responsabilità del Tonna in

relazione alla vicenda riguardante la c.d. operazione CSFB (Credit Suisse First

Boston). Lamenta il ricorrente che la Corte di merito abbia imperniato la propria

motivazione sull'assunto secondo cui la difesa non avrebbe minimamente

contestato la ricostruzione dei fatti, mentre al contrario nei motivi di appello ci si

era sforzati di dimostrare che l'operazione era conveniente, ricorrendo ad

argomenti non presi in considerazione dal collegio giudicante.

La doglianza non ha fondamento. Il rilievo della Corte d'Appello circa

l'atteggiamento di non contestazione assunto dalla difesa è dichiaratamente

circoscritto alla «meccanica delle operazioni che conducevano infine nel dicembre

2001 CSFB a sottoscrivere il prestito obbligazionario (convertibile in azioni) di

500 milioni di euro emesso da parte di Parmalat Brasile, e quindi a cedere a

100

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Parmalat i diritti di conversione delle obbligazioni sottoscritte»; nonché

all'emissione di un ulteriore prestito obbligazionario di 250 milioni di euro -

sottoscritto tra gli altri dalla stessa CSFB - per ottenere la provvista necessaria

al pagamento dei diritti di conversione.

La linea difensiva volta a sostenere la convenienza dell'operazione nel suo

complesso è stata tenuta ben presente dal giudice di appello, che alla pagina 360

della sentenza ha dedicato alla sua confutazione una serie di considerazioni

basate, in gran parte, sui risultati della consulenza tecnica disposta dal P.M.:

considerazioni la cui linearità logica non è scalfita dalla reiterazione, in questa

sede, degli argomenti di segno contrario portati dalla difesa.

11.7. Ancora carenze motivazionali, per omessa confutazione dei motivi di

appello, denuncia il ricorrente col suo settimo motivo, dedicato alle imputazioni

(C.8 e O) riguardanti il c.d. «giro delle concessionarie». La Corte distrettuale

avrebbe omesso di rispondere a un complesso di argomentazioni difensive,

ulteriormente sviluppate in una memoria, limitandosi a giustificare la conferma

della condanna del Tonna in base a una pretesa illogicità della sua eventuale

estromissione dal giro delle concessionarie, alla stregua del ruolo da lui rivestito.

Lamenta, altresì, il ricorrente che gli si siano attribuite dichiarazioni

sostanzialmente confessorie, senza neppure indicare la sede in cui sarebbero

state pronunciate.

La censura è manifestamente infondata in ambedue le sue articolazioni.

Le ragioni sulle quali la Corte d'Appello ha fondato il proprio convincimento

sono esplicitamente indicate nel relativo passaggio motivazionale a pag. 361

della sentenza: ivi l'argomento di carattere logico stigmatizzato dal ricorrente è

utilizzato soltanto ad abundantiam, dato che il diretto e personale

coinvolgimento del Tonna è considerato provato da ben altre risultanze, quali le

dichiarazioni di Pessina, Pedraneschi, Ansalone e le ammissioni stesse

dell'imputato. In ordine a queste ultime va detto che la sentenza non soltanto

cita l'udienza in cui sono state rese, ma ne riproduce il contenuto testuale,

evidenziando in grassetto le frasi che valgono a dimostrare la parte attiva svolta

dal dichiarante nella vicenda: tutto ciò nella nota 594 a pag. 361.

11.8. Analoghe considerazioni sono da farsi in ordine al capo della sentenza

riguardante le imputazioni di cui ai capi C.8.3, D.31.1, C.9 ed F.6, sulle quali

s'incentra l'ottavo motivo. Anche per tale riguardo risultano valorizzate le

dichiarazioni confessorie rese dal Tonna, specificandosi l'udienza nella quale sono

state rese e riportandone il contenuto nella nota 596 a pag. 362 della sentenza.

Su tale corposo presupposto probatorio la motivazione fonda la conclusione che

le doglianze espresse nell'atto di appello siano confutate dalle dichiarazioni dello

stesso Tonna, fra l'altro confermate dal Pessina e dagli accertamenti della

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Guardia di Finanza: così da potersi concludere che «l'operazione così effettuata

veniva in buona sostanza a consentire [...] un finanziamento (fraudolentemente

mascherato) di almeno 519 milioni di euro al gruppo, tramite una apparente

cartolarizzazione di crediti affatto inesistenti, per effettuare il quale, peraltro,

Citibank pretendeva ed otteneva 16.622.415 euro per commissioni».

Manifestamente infondata, pertanto, è la censura di carenza motivazionale.

11.9. Ancora carenza e, comunque, illogicità della motivazione il ricorrente

deduce col nono motivo, relativamente al capo della sentenza che si occupa dei

reati di bancarotta fraudolenta per distrazione contestati ai capi D, E ed F

dell'imputazione.

Anche questa censura è priva di fondamento.

In effetti la Corte d'Appello ha motivato il proprio convincimento circa la

colpevolezza del Tonna, pur senza trascurare le allegazioni difensive

dell'imputato, valorizzando la di lui posizione apicale all'interno del gruppo, quale

principale (se non unico) referente di Calisto Tanzi; e ha rilevato come egli si

fosse reso comprovatamente partecipe di tutte le deliberazioni illecitamente

adottate, o con una condotta attiva, o comunque attraverso una compiacente e

consapevole inerzia. D'altra parte, si legge ancora nella sentenza impugnata,

pressoché tutte le distrazioni vennero accertate dalla Guardia di Finanza grazie al

fattivo ausilio del Tonna, il quale non si limitò a ricostruire attraverso la lettura

dei libri contabili e delle schede di mastro i flussi di denaro e le operazioni

correlate, ma ne diede anche la chiave di lettura e indicò i particolari tecnici ed

esecutivi: il che non gli sarebbe stato evidentemente possibile senza la

cognizione dei fatti fin dall'epoca della loro commissione, «laddove egli non

riferiva affatto le proprie conoscenze a dichiarazioni di terze persone, bensì alla

propria esperienza diretta e personale» (sentenza, pag. 363): conoscenza che,

del resto, egli aveva esplicitamente ammesso nei propri interrogatori.

Della linea argomentativa così sviluppata il ricorrente denuncia

genericamente l'illogicità, senza tuttavia segnalare in concreto, nel testo del

provvedimento, alcuna effettiva caduta di consequenzialità. Le critiche mosse ne

investono, piuttosto, la discussa aderenza ai dati processuali; ma ciò si traduce

in una prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta motivatamente

propria dal giudice di merito: il che non può trovare spazio nel giudizio di

cassazione.

Neppure giova al ricorrente rinnovare l'eccezione di inosservanza del

principio di correlazione fra contestazione e condanna, sotto il profilo della

ritenuta intercambiabilità fra condotta commissiva e omissiva nei reati

fallimentari: sul punto si è già argomentato nel precedente paragrafo 11.2, cui

qui si rinvia.

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Da ultimo mette conto di rimarcare l'irrilevanza del fatto, sul quale pure il

ricorrente insiste nell'illustrazione del motivo, che i benefici delle distrazioni siano

andati a favore di altri soggetti (principalmente il Tanzi e la sua famiglia). Ed

invero, come esattamente osservato dalla Corte territoriale, anche a prescindere

dal fatto che il Tonna abbia lucrato in prima persona sugli sconti Tetrapak e sui

bonifici conseguiti alla costituzione del fondo Epicurum, resta comunque valida la

considerazione giuridica per cui anche la distrazione operata a beneficio di terzi

integra pur sempre il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

11.10. Il decimo motivo impugna la condanna pronunciata a carico del

Tonna per le bancarotte delle «società minori», sottoponendo a distinta disamina

le imputazioni di cui ai capi P, R, S e T.

Quanto al primo, riguardante le distrazioni in danno della società Coloniale

s.p.a., la critica rivolta alla Corte d'Appello riguarda la menzione di quanto

dichiarato da Biagio Bailo, a riprova del coinvolgimento del Tonna: secondo il

ricorrente la citazione fattane in sentenza sarebbe soltanto parziale, in quanto in

altri passaggi delle dichiarazioni rese dal Ballo si troverebbero elementi

favorevoli all'assunto della difesa. A confutazione della doglianza valga ricordare

che, nel giudizio di cassazione, non è consentita la rivisitazione del materiale

probatorio; e che il testo novellato dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc.

pen. consente soltanto di dedurre, quale vizio di motivazione, il rapporto di

contraddizione esterno al testo della sentenza riconducibile a quella forma di

errore revocatorio sul significante, che viene abitualmente definita «travisamento

della prova»: errore revocatorio che qui non ricorre, vertendosi piuttosto in un

caso di contrastata interpretazione del significato complessivo della prova

dichiarativa.

Quanto al capo R, la motivazione addotta dalla Corte d'Appello - basata su

ammissioni dello stesso imputato, confermate dalla deposizione dell'esecutore

materiale dei falsi, Fabio Branchi, è contrastata dal ricorrente con argomenti che,

lungi dall'additare illogicità argomentative, tendono piuttosto a sostenere la non

condivisibilità della decisione adottata: il che appartiene al giudizio di merito e

non può essere oggetto di censura nel giudizio di cassazione. Neppure sussiste il

vizio lamentato sotto altro profilo, riguardante l'omessa pronuncia assolutoria

dall'imputazione sub R bis) b, essendo del tutto giustificato il rilievo per cui la

relativa accusa era meramente alternativa rispetto a quella formulata alla lettera

a: e ciò in quanto l'alternatività è insita nella stessa formulazione testuale della

norma incriminatrice (art. 216, comma 1, n. 2 legge fall., richiamato dal primo

comma del successivo art. 223).

Quanto al capo S, valgono considerazioni analoghe a quelle or ora svolte,

avendo la sentenza impugnata trattato il tema congiuntamente a quello l .

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riguardante il capo R: né può fondatamente lamentarsi una mancata risposta agli

specifici motivi di appello relativi a tale imputazione, essendo implicita la loro

confutazione nel rilievo per cui l'essersi occupato lo studio Branchi della

contabilità non contraddice la responsabilità del Tonna, quale autore delle

disposizioni impartite al commercialista.

Quanto al capo T, resiste ad ogni critica l'argomento addotto dalla Corte

d'Appello con l'osservare che il Tonna, sebbene non abbia rivestito cariche

formali nella società Finaliment, si è reso responsabile degli illeciti in linea di

fatto, atteso che «la gestione delle società "di famiglia" veniva invero effettuata

pressoché congiuntamente ed in modo affatto analogo, laddove le finalità

operative ed i meccanismi distrattivi e falsificatori erano i medesimi e Finaliment

- per detta stessa di Tonna - "inattiva", era controllata da Sata, amministratore

unico della quale (come già detto) era per l'appunto l'imputato». Per di più, si

osserva ancora nella sentenza, amministratore della Finaliment era Angelo

Ugolotti, mero assistente di Tonna , che si limitava a dare esecuzione alle sue

disposizioni e veniva specificamente da lui utilizzato per trasmettere allo studio

Branchi le sue personali indicazioni circa la tenuta della contabilità di tutte le

«società di famiglia».

Non sussistono dunque, neppure in questo caso, i denunciati vizi di

motivazione; mentre le critiche volte a contrastare la persuasività della linea

argomentativa adottata dal giudice di appello si risolvono, una volta di più, in

contestazioni del deliberato sotto il profilo del merito.

11.11. L'undicesimo motivo, indirizzato a contrastare la condanna per i reati

di bancarotta patrimoniali ai danni della Parmalat Capital Finance ltd, di cui ai

capi F.2.3 ed F2.4, è a sua volta privo di fondamento.

La Corte territoriale ha dato pienamente conto delle ragioni che l'hanno

indotta a confermare il giudizio di colpevolezza dell'imputato; a tal fine ha

valorizzato le emergenze probatorie dimostrative del fatto che le somme di

denaro provenienti dalla Par.fin venivano erogate da Tanzi a Tonna nella forma

di «prestito/investimento» senza una vera causale e fatte transitare da Zini

perché poi le destinasse all'odierno ricorrente, attraverso meccanismi diversi:

traendone la conclusione per cui il fatto che tali somme non fossero poi

pervenute a destinazione, perché sequestrate presso lo Zini, poteva valere bensì

ad escludere conseguenze fiscali, senza tuttavia impingere nella responsabilità

penale derivante dalla destinazione deviata e non dalla percezione effettiva. Su

tale ragionamento si è basata l'affermazione che la prodotta sentenza della

commissione tributaria di Parma non attestasse l'insussistenza dei reati in

contestazione.

Della linea argomentativa così sviluppata il ricorrente denuncia una

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contraddittorietà che invece non sussiste, atteso che la decisione si fonda su una

puntuale distinzione fra il tema della elusione di norme tributarie, che

presuppone la produzione di un «reddito» e, quindi, dipende dalla effettiva

percezione del denaro, e quello della responsabilità per bancarotta distrattiva,

realizzatasi con la separazione del denaro dal patrimonio della società poi caduta

in insolvenza.

Le restanti argomentazioni addotte dal ricorrente, volte a dimostrare che

non vi sia stata la «destinazione deviata» su cui la Corte ha fondato il proprio

convincimento, prospettano una valutazione alternativa del materiale probatorio

acquisito e sono perciò inammissibili in sede di legittimità, per quanto già

ripetutamente osservato.

11.12. Il dodicesimo motivo investe il trattamento sanzionatorio e può

essere utilmente esaminato insieme al quattordicesimo, al quindicesimo e al

sedicesimo motivo. Con essi, sostanzialmente, il Tonna lamenta incompleta

valutazione degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen.; insufficiente

apprezzamento della collaborazione da lui prestata nel corso del procedimento,

valutata soltanto ai fini dell'applicazione delle attenuanti generiche e non anche

della determinazione della pena base; violazione dell'art. 69 cod. pen., stante

l'omesso inserimento nel giudizio di comparazione dell'aggravante ex art. 219,

comma 2, n. 1) legge fall.; omessa riduzione di pena in conseguenza del mutato

giudizio di bilanciamento fra circostanze.

Il motivo merita parziale accoglimento, per quanto di seguito esposto.

Ciò non è a dirsi della doglianza riguardante la determinazione della pena

base, avendo la Corte d'Appello fornito adeguata motivazione sulla scorta di

quelli, fra i criteri indicati dall'art. 133 cod. pen., che - nel suo discrezionale

giudizio - ha ritenuto di preminente rilievo (v. Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013 -

dep. 23/01/2014, Waychey, Rv. 258410; Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998,

Urrata, Rv. 211582). Né può ravvisarsi una contraddittorietà fra la modulazione

di detta pena in misura prossima al massimo edittale e il riconoscimento delle

attenuanti generiche in considerazione del comportamento processuale del

Tonna, non sussistendo fra le due determinazioni alcun rapporto di

interdipendenza; infatti l'indagine riguardante le attenuanti generiche tende alla

valutazione di elementi che possono rendere l'imputato meritevole di particolare

clemenza al fine di un più congruo adeguamento della pena in concreto: così si è

già espressa la giurisprudenza di questa Corte Suprema con una pronuncia per

vero alquanto risalente, ma mai contraddetta da arresti di segno opposto (Sez.

1, n. 2378 del 14/11/1983 - dep. 17/03/1984, Guner Cuma, Rv. 163153).

È invece fondata la censura di inosservanza dell'art. 69 cod. pen..

Incorrendo in un fraintendimento della pronuncia delle Sezioni Unite di questa ie

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Corte Suprema n. 21039 del 27/01/2011 (Loy, Rv. 249665), la Corte territoriale

ha ritenuto di dover negare la valenza giuridica di aggravante - tale da farla

ricomprendere nel giudizio di bilanciamento - alla disposizione dell'art. 219,

comma 2, n. 1) legge fall., in forza della quale la pena è aumentata se il

colpevole ha commesso più fatti di bancarotta. In proposito corre l'obbligo di

osservare che, se è pur vero che nella menzionata sentenza si afferma che «più

condotte tipiche di bancarotta poste in essere nell'ambito di uno stesso

fallimento mantengono la propria autonomia ontologica e danno luogo a un

concorso di reati, che vengono unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo

giuridico», è altrettanto vero che tale affermazione opera con dichiarato

riferimento al profilo strutturale, da tenersi distinto da quello funzionale; infatti,

da quest'ultimo punto di vista, la stessa sentenza del massimo organo di

nomofilachia osserva che per l'attuazione del cumulo giuridico, finalizzato

all'unificazione quoad poenam di più fatti-reato autonomi e non sovrapponibili fra

loro (c.d. continuazione fallimentare), il legislatore ha fatto ricorso alla categoria

giuridica della circostanza aggravante, della quale la norma in questione

presenta sicuri indici qualificanti: a) il nomen iuris, «circostanze», adottato nella

rubrica; b) la generica formula utilizzata per individuare la variazione di pena in

aggravamento, implicante il necessario richiamo all'art. 64 cod. pen., che è

l'unica disposizione che consente di modulare la detta variazione sanzionatoria;

così da giungere all'affermazione secondo cui «è indubbio che, sul piano formale,

si è di fronte a una circostanza aggravante».

Da ciò deve coerentemente concludersi che, malgrado la funzione strutturale

affine a quella della continuazione, la circostanza in parola deve essere trattata

alla stregua di ogni altra aggravante - ad esclusione, ovviamente, di quelle

contemplate dall'art. 63, comma terzo, del codice penale - e deve dunque

rientrare nel giudizio di bilanciamento fra circostanze.

A sua volta fondata è la censura volta a impugnare il mantenimento,

disposto dal giudice di appello, dei medesimi aumenti di pena per la

continuazione malgrado la rinnovata valutazione delle attenuanti generiche, nel

senso del riconoscimento di un loro maggior valore ponderale rispetto alle

aggravanti. Ciò è a dirsi non tanto perché, così operando, si sia dato luogo a una

vera e propria reformatio in peius, quanto perché l'irrilevanza, sul trattamento

sanzionatorio dei reati satelliti, del maggior apprezzamento riconosciuto alle

attenuanti generiche avrebbe dovuto essere congruamente motivata.

La sentenza è dunque da annullare parzialmente, in relazione ai motivi come

sopra accolti. Il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte

d'Appello di Bologna, nell'attendere alla rideterminazione del trattamento

sanzionatorio terrà anche conto della già disposta eliminazione dell'aumento di

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pena per la continuazione riguardante il reato di associazione per delinquere, del

quale si è rilevata l'estinzione.

11.13. Proseguendo oltre nella disamina dei motivi di ricorso, viene in

considerazione quello col quale il Tonna impugna il rigetto delle istanze di

rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, presentate dalla difesa al giudice di

secondo grado.

La doglianza è manifestamente infondata, alla stregua delle considerazioni

già svolte al paragrafo 10.1, nel trattare le analoghe deduzioni sviluppate nel

ricorso di Calisto Tanzi: sia con riferimento al carattere eccezionale che, nel

sistema processuale vigente, ha la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel

processo di appello (donde la condizione che il giudice si persuada di non poter

decidere allo stato degli atti), sia con riferimento al carattere «neutro» della

perizia, che perciò non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva.

Manifestamente infondata è la censura di nullità rapportata al rigetto della

richiesta di «patteggiamento», in mancanza di qualsiasi parametro normativo

invocabile a suo sostegno.

11.14. Il diciassettesimo motivo impugna la ratio decidendi che ha indotto la

Corte d'Appello a ritenere ammissibile l'appello del pubblico ministero soltanto

nei confronti del ricorrente e di Calisto Tanzi, rilevandone al contempo la

genericità nei confronti di altri imputati. Nell'ottica del gravame le ragioni che

hanno giustificato il giudizio di inammissibilità, cioè l'essere state trattate

«indiscriminatamente» le posizioni di Barachini, Barili, Bonici, Calogero, Fratta,

Panizzi, Silingardi e Giovanni Tanzi, dovevano ritenersi applicabili anche alla

parte dell'atto di appello riguardante la propria posizione.

La censura non ha fondamento. La Corte distrettuale ha dimostrato, con la

propria motivazione, di aver preso distintamente in considerazione le posizioni

processuali dei singoli imputati nel valutare la riconoscibilità, o meno, di specifici

motivi di censura ad essi riferibili nell'appello del pubblico ministero; in esito a

tale verifica ha ritenuto che l'atto d'impugnazione non soddisfacesse i requisiti di

legge nella parte riguardante alcuni degli imputati; e in ordine a tale deliberato

non è data, ovviamente, possibilità a questa Corte di interloquire, non avendo

l'organo dell'accusa proposto ricorso.

Di contro, nella parte riguardante il Tonna la Corte d'Appello ha giudicato

che il gravame del P.M. rispondesse ai necessari requisiti, contenendo

l'indicazione dei capi o punti della decisione investiti dall'impugnazione, delle

richieste avanzante dal deducente e delle specifiche ragioni di fatto e di diritto

atte a giustificare la richiesta di riforma; prova ne sia che è stata anche in grado

di prendere in esame i motivi di appello e di pervenire al loro accoglimento.

Sulla critica attinente alla denunciata violazione dell'art. 69 cod. pen. ci si è

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già soffermati nel paragrafo 11.12, disponendone l'accoglimento; onde null'altro

vi è da aggiungere al riguardo.

11.15. Il diciottesimo motivo propone una serie di questioni attinenti alle

statuizioni di carattere civile, una delle quali è stata già esaminata dianzi.

Ci si riferisce alla richiesta estensione, a tutti i destinatari della pronuncia di

condanna al risarcimento del danno, degli effetti dell'ordinanza emessa il

12/12/2011 dalla Corte territoriale, che ha dichiarato l'inammissibilità delle

costituzioni di parte civile di Alvisi + 45, Lavagnino + 47, Di Stefano + 11,

Cabrini, Ballarin + 159, Beltrami + 115, Corvaia + 12, Abbiati + 1209, Bertani +

44, Abbondanza + 35, Allegri + 73, Pompini + 38, Agresti + 55, Anceschi + 36,

in quanto effettuate all'udienza del 06/05/2008, tramite sostituto del difensore

procuratore speciale, sulla base di un'eccezione sollevata dalla difesa del solo

coimputato Calogero. Sul punto ci si è già soffermati, con esito reiettivo, al

paragrafo 9.1.

In ordine alle restanti questioni sollevate con lo stesso motivo, si osserva

quanto segue.

L'impugnazione con ricorso per cassazione della statuizione con cui è stata

concessa una provvisionale alla parte civile non è ammissibile, né sull'an (Sez. 5,

n. 5001 del 17/01/2007, Mearini, Rv. 236068), né sul quantum (Sez. 4, n.

34791 del 23/06/2010, Mazzamurro, Rv. 248348), trattandosi di provvedimento

per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere

travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento.

Per quanto riguarda l'eccezione inerente alla mancanza degli elementi

documentali destinati a provare il valore dei titoli in possesso dei creditori

costituitisi parti civili, non vi è che da richiamarsi all'enunciazione giurispruden-

ziale secondo cui la condanna generica al risarcimento dei danni, pronunciata dal

giudice penale, non esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un

danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità

lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e

il pregiudizio lamentato. (così Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta, Rv.

257551; v. anche Sez. 6, n. 14377 del 26/02/2009, Giorgio, Rv. 243310).

La doglianza riguardante la misura eccessiva delle spese processuali

liquidate in favore delle parti civili e il rigetto delle istanze di revoca dei sequestri

e delle confische su somme di pertinenza della moglie del Tonna, è esposta in

forma meramente enunciativa, ancorché riferita ad omessa confutazione delle

ragioni esposte in appello (comunque non esplicitate nel ricorso, al quale

soltanto può farsi riferimento in questa sede). Manca, inoltre, qualsiasi

indicazione diretta a far comprendere come il Tonna possa dirsi legittimato a far

valere l'interesse della moglie ad impugnare la confisca assertivamente operata

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in danno di costei.

11.16 Le deduzioni esposte nella memoria con motivi nuovi presentata dalla

difesa ripropongono questioni già investite dai motivi di ricorso e qui esaminate;

onde null'altro vi è da aggiungere per tale riguardo.

12. GIOVANNI TANZI

Il ricorso non è fondato, ma la sentenza va parzialmente annullata per le

ragioni che più oltre saranno esposte.

12.1. Quanto al primo motivo, non vi è che da richiamarsi a quanto già

argomentato ai precedenti paragrafi 3.1 e 4.1 nel trattare, rispettivamente, delle

questioni preliminari attinenti alla eccepita nullità dell'avviso di conclusione delle

indagini preliminari e del decreto di citazione a giudizio, per essere stata negata

al difensore dell'imputato la possibilità di prendere visione degli atti contenuti nel

fascicolo del P.M., e alla omessa traduzione dei documenti in lingua straniera;

null'altro, infatti, vi è da aggiungere in relazione ai temi proposti.

12.2. Il secondo motivo è privo di fondamento nella sua prima censura,

riguardante la qualificazione giuridica dei fatti ascritti al ricorrente a titolo di

bancarotta fraudolenta. Secondo il ricorrente la Corte d'Appello sarebbe incorsa

in una sorta di reformatio in peius, avendo espresso una valutazione di maggior

gravità della sua condotta, rispetto a quella fatta propria dal collegio di prima

istanza, così omettendo non soltanto di prendere in considerazione l'istanza di

derubricazione del reato in quello di bancarotta semplice, ma altresì di

ridimensionare la pena conducendola a misura più adeguata alla sua limitata

partecipazione ai fatti illeciti.

A confutazione merita di osservare che già la sentenza di primo grado, lungi

dal minimizzare la responsabilità di Giovanni Tanzi, aveva valorizzato la

posizione di proprietario, amministratore e manager di alto livello da lui rivestita

all'interno del gruppo Parmalat e delle altre società della famiglia, attribuendovi

un carattere non certo marginale e tale da rendere non credibile che egli fosse

rimasto estraneo alla conduzione del gruppo alimentare e delle altre società di

Tanzi e all'oscuro del reale andamento delle stesse e delle società del settore

turistico, nonché della falsificazione dei bilanci. Il Tribunale aveva, altresì, posto

in rilievo la partecipazione di Giovanni Tanzi a tutte le riunioni di budget e le

distrazioni di somme di denaro da lui ricevute, considerando conclusivamente

che da tali circostanze emergessero i necessari riscontri alle dichiarazioni rese

sul suo conto da Calisto Tanzi e da Fausto Tonna. Conseguentemente non può

certo affermarsi che la Corte d'Appello, ribadendo la ricostruzione dei fatti

operata dal primo giudice e negando credibilità all'assunto che Giovanni Tanzi

fosse assolutamente estraneo alla gestione societaria, ai falsi, alle frodi e alle

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distrazioni ascrittegli, e che si trovasse in posizione di totale subordinazione alla

«cabina di regia», abbia espresso una valutazione peggiorativa della sua

posizione processuale.

La linea argomentativa come sopra sviluppata dalla Corte territoriale rende

ampiamente conto delle ragioni poste a sostegno della qualificazione giuridica dei

fatti entro lo schema della bancarotta fraudolenta impropria (nelle varianti

distrattiva, da reati societari e da operazioni dolose, così come dettagliatamente

descritte nel complesso capo d'imputazione), rendendosi incompatibile con

l'ipotesi di derubricazione nel meno grave reato di bancarotta semplice e dando

corpo, pertanto, ad una motivazione implicita sul punto in questione (v. Sez. 4,

n. 26660 del 13/05/2011, Caruso, Rv. 250900; Sez. 6, n. 20092 del

04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 4, n. 1149 del 24/10/2005 - dep.

13/01/2006, Mirabilia, Rv. 233187).

Alla confermata valutazione del disvalore della condotta tenuta dal

ricorrente è conseguita la conferma in appello del trattamento sanzionatorio; di

ciò deve riconoscersi la piena legittimità in quanto il mantenimento della stessa

pena inflitta dal giudice di prima istanza può porsi in conflitto col divieto della

reformatio in peius soltanto se sia contemporaneamente accolto l'appello

dell'imputato su circostanze o reati concorrenti, anche se unificati per la

continuazione: ipotesi, questa, esulante dal caso di specie.

È appena il caso di osservare, poi, che le argomentazioni svolte dal

ricorrente per accreditare una propria posizione di sostanziale estraneità alle

scelte imprenditoriali, sollecitando una rivisitazione del materiale probatorio e

una revisione del giudizio di attendibilità del coimputato Tonna, si risolvono in

altrettante deduzioni di merito, che non possono trovare spazio nel giudizio di

cassazione.

12.3. La seconda censura del motivo in esame, riguardante la

commisurazione della pena e il diniego delle attenuanti generiche, esula a sua

volta dal novero dei vizi spendibili ex art. 606 cod. proc. pen.. Trattasi, invero, di

statuizioni che l'ordinamento rimette alla discrezionalità del giudice di merito, per

cui non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia

motivata in modo conforme alla legge e ai canoni della logica. Nel caso di specie

la Corte d'Appello non ha mancato di motivare la propria decisione sui punti in

questione: sia col rilevare che l'innumerevole serie di incarichi a livello apicale

svolti da Giovanni Tanzi in tutte le principali società del gruppo e nei settori più

delicati e cruciali dello stesso valeva ad attribuirgli un ruolo non secondario nella

storia del default in esame e nelle scelte gestionali dell'azienda; sia con

l'evidenziare l'inapplicabilità di criteri riferibili a una valutazione di esiguità dei

danni cagionati (per contro di entità epocale) o a una resipiscenza dell'imputato,

110

Page 111: 32352/14 )d - Diritto Penale Contemporaneo...Parmalat Finanziaria s.p.a. e dalle sue controllate. Tale gruppo presentava una rilevante sub holding mista, operativa e finanziaria, che

in realtà inesistente; mentre ha valutato l'incensuratezza del Tanzi come

recessiva a fronte della estrema gravità dei fatti e della notevole pervicacia

mostrata nel corso di molti anni. Ha inoltre giudicato congrua la modulazione

della pena, avuto riguardo ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen. e alla portata del

contributo associativo fornito dall'appellante quale fondatore del gruppo ed

organizzatore delle principali società dello stesso.

Siffatta linea argomentativa non presta il fianco a censura, rendendo

adeguatamente conto delle ragioni della decisione adottata; d'altra parte non è

necessario, a soddisfare l'obbligo della motivazione, che il giudice prenda

singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui all'art. 133 c.p., essendo

invece sufficiente l'indicazione di quegli elementi che, nel discrezionale giudizio

complessivo, assumono eminente rilievo.

12.4. Sebbene il ricorso debba essere disatteso in relazione ai motivi

dedotti, per quanto fin qui osservato, tuttavia la sua complessiva ammissibilità

impone l'obbligo di rilevare d'ufficio l'intervenuta estinzione del delitto di

associazione per delinquere, di cui al capo A dell'imputazione; risulta infatti

maturato il termine prescrizionale massimo di otto anni e nove mesi da

computarsi a decorrere dal dicembre 2003, data di cessazione della permanenza.

Anche nei confronti di questo imputato, perciò, come già visto per Calisto Tanzi e

per Fausto Tonna, la sentenza deve essere annullata in parte qua senza rinvio

per l'anzidetta ragione, non sussistendo altri motivi di proscioglimento che

possano prevalere su di essa ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen.. Ne

consegue l'eliminazione del corrispondente aumento di pena per la

continuazione, pari a quattro mesi di reclusione.

13. ENRICO BARACHINI

Il ricorso è privo di fondamento per quanto di seguito esposto.

13.1. Il primo motivo non esplicita vere e proprie censure alla sentenza

impugnata, estrinsecandosi invece in una premessa rievocativa della qualità di

amministratore privo di delega, rivestita dal Barachini Parmalat Finanziaria

s.p.a., e degli esiti processuali che hanno fin qui contrassegnato, per il

deducente, la complessa vicenda riguardante il default del gruppo Parmalat. In

tale prospettiva egli evidenzia di essere stato assolto, in questo processo,

dall'imputazione di associazione per delinquere e di essere stato giudicato esente

da responsabilità, sotto il profilo della consapevolezza degli illeciti perpetrati da

Tanzi e dai suoi correi, per tutti i fatti anteriori all'anno 2002; nonché di essere

stato parimenti assolto, nel processo svoltosi a Milano, con formula pienamente

liberatoria dalle imputazioni di aggiotaggio, ostacolo alle funzioni di vigilanza

della Consob e fraudolenta certificazione dei bilanci delle società del gruppo

111

d(

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Parma lat.

In ordine a tali deduzioni, che - come dianzi osservato - non si traducono in

un motivo d'impugnazione, ma anticipano le ragioni di critica alla sentenza qui

impugnata poi sviluppate nei motivi seguenti, non si richiede, allo stato, alcuna

valutazione da parte di questa Corte, dipendendo dallo scrutinio dei restanti

motivi il giudizio di complessiva infondatezza del ricorso.

13.2. Il secondo motivo, indirizzato a valorizzare l'assenza di deleghe in

capo al Barachini nell'organo amministrativo della Parmalat Finanziaria s.p.a. - e

di qualsiasi incarico gestorio nelle società controllate - per derivarne l'assenza di

sua responsabilità sotto il duplice profilo della conoscenza degli atti illeciti

perpetrati e della possibilità di impedirli, è privo di fondamento alla stregua dei

principi giuridici già ricordati dianzi (paragrafo 8) nel trattare in via generale

l'argomento inerente alla responsabilità penale degli amministratori non

operativi.

Riassumendo i risultati dell'analisi ivi condotta, può senz'altro affermarsi che

la responsabilità dell'odierno ricorrente è stata legittimamente affermata dai

giudici di merito, sul presupposto - accertato in linea di fatto - che egli avesse

avuto effettiva conoscenza, al di là della mera conoscibilità, di taluni elementi

individuati come specifici «segnali di allarme» e si fosse, ciò nonostante,

astenuto dall'intervenire.

Circa la tipologia del «segnali di allarme» va detto che la sentenza

impugnata dedica all'argomento un'ampia e approfondita rassegna alle pagine da

111 a 135 della motivazione. È ivi spiegato come non potessero essere sfuggiti ai

componenti del consiglio di amministrazione, stante la loro evidenza, elementi

perspicui e peculiari come la progressione assolutamente anomala e ingiustificata

della liquidità, pur in presenza di una campagna di acquisizioni e investimenti di

rilevanza mondiale; la continua crescita dell'indebitamento, in apparenza non

correlata alle vicende economiche e finanziarie del gruppo ed anzi del tutto

anomala, in quanto pressoché doppia rispetto agli investimenti effettuati; il

riacquisto dei bond emessi dalla Parmalat, dopo la pubblicazione sulla rivista

Milano Finanza di un'intervista a Tanzi e a Tonna contenente una serie di

contestazioni circa i dati assolutamente divergenti tra il debito iscritto in bilancio

e quello risultante dai canali ufficiali, nonché tra i bond censiti e quelli indicati in

bilancio; l'aumento di capitale della Parmalat Participagóes, motivato dalla

pressante necessità di rimborsare debiti ingenti; l'opacità dell'operazione di

finanza strutturata denominata Swap Sumitomo, utilizzata per consentire il

pareggio di bilancio della Par.Fin. e rivelatasi assolutamente fittizia, ma che, se

fosse stata reale, avrebbe comportato il rischio di perdite rilevantissime; i fatti

raggruppati nella dizione «eventi dell'estate ed autunno 2003», consistiti

112

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nell'emissione di obbligazioni per un ingentissimo importo complessivo, pur dopo

l'assicurazione che non sarebbero stati lanciati altri prestiti obbligazionari:

emissione seguita a breve distanza di tempo da quelle dei c.d. bond USB e dei

bond Deutsche Bank. La Corte d'Appello non ha mancato, poi, di osservare che i

menzionati elementi aggiungevano alla valenza di segnali di allarme l'oggettiva

evidenza della mistificazione che veniva proposta al mercato, ai soci e agli

obbligazionisti, della quale gli amministratori non esecutivi avevano tutti gli

strumenti per rendersi conto.

La motivazione così sviluppata, arricchita dalla confutazione delle

argomentazioni di volta in volta addotte per contrastare il giudizio di anormalità

e visibilità della situazione segnalata dai diversi segnali, è immune da vizi logici e

giuridici e vale per tutti gli amministratori della Parmalat Finanziaria s.p.a. privi

di delega, dunque anche per il Barachini: donde l'infondatezza della censura di

carenza motivazionale.

Analogamente è a dirsi della motivazione offerta dalla Corte territoriale in

ordine all'omesso espletamento, da parte dell'imputato, delle iniziative finalizzate

a contrastare - nell'adempimento degli obblighi impostigli dalla posizione di

garanzia da lui rivestita - la commissione degli illeciti documentali che i

menzionati sintomi palesavano. Anche su tale argomento, invero, la sentenza

impugnata si esprime esplicitamente e diffusamente, illustrando sia

l'atteggiamento di colpevole inerzia assunto dagli amministratori non esecutivi in

genere, sia le ragioni dell'addebito specificamente riferito al Barachini.

Sotto il primo profilo le pagine da 105 a 107 della sentenza di appello

indicano in tutta chiarezza come si sarebbe dovuto atteggiare l'obbligo di «agire

informati» - secondo il lessico introdotto dalla giurisprudenza sul tema - nel

caso di cui si tratta: in esse si rileva che nessuna richiesta di chiarimenti,

contestazione od espressione di dissenso per qualsiasi tipo di operazione o

deliberazione è stata mai avanzata agli esecutivi da parte degli ulteriori

componenti del consiglio, per sospetta o anomala che fosse; si sottopongono a

critica le linee difensive volte a sostenere ora il carattere eccessivamente

sintetico dei verbali, ora la pretesa difficoltà per i non esecutivi di comprendere

la dannosità di certe decisioni; si osserva che l'azione di contrasto, non

necessariamente idonea a impedire il default nella sua interezza, si sarebbe

potuta realizzare attraverso un'espressione pubblica di dissenso (da intendersi,

evidentemente, come espressione non in via riservata, ma aperta e

inequivocabile) o una pubblica richiesta di maggiori chiarimenti - se non,

addirittura, una denuncia all'autorità preposta - in ordine alle anomalie della

gestione e di talune decisioni di finanza strutturata, ovvero in ordine alla

allocazione della liquidità o alla effettiva quantificazione e composizione del

113 (

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debito. Le considerazioni così svolte sono logicamente ineccepibili e

giuridicamente allineate alla giurisprudenza formatasi in argomento, già

ricordata al precedente paragrafo 8; ed invero, ciò che la legge richiede

all'amministratore non esecutivo non è il necessario raggiungimento dell'esito

impeditivo della consumazione dell'illecito, ma l'espletamento di quanto in suo

potere nel perseguire tale finalità: in mancanza di che la consapevole inerzia si

traduce in un contributo alla commissione del reato.

Sotto il secondo profilo la sentenza di appello si sofferma ampiamente

sull'attività coadiutrice svolta dal Barachini in favore della dirigenza, con

riferimento alla vendita dello stabilimento Polenghi, alla proposta di acquisto

della divisione forno di Motta, nonché al ruolo di mediazione da lui svolto

nell'ambito delle vertenze fra Tonna e Tanzi, da una parte, e Paola Visconti

dall'altra: ruolo di mediazione indirizzato a tacitare le pretese della Visconti, dallo

stesso imputato definite sostanzialmente estorsive perché accompagnate da

minacce, che la Corte d'Appello ha motivatamente ritenuto riferibili non al fatto

che la Visconti conosceva i piani industriali e il know how dell'azienda, ma al

timore che potesse propalare all'esterno gli illeciti meccanismi che governavano

la Parmalat e la situazione del gruppo.

La condotta così tenuta dal Barachini è stata coerentemente considerata

dalla Corte di merito emblematica dell'atteggiamento soggettivo riscontrabile

all'interno del gruppo, in quanto antitetica rispetto alla funzione di garanzia e di

controllo di una corretta gestione della società, nonché del dovere di evitare

eventi potenzialmente lesivi per soci ed obbligazionisti, a lui incombenti nella sua

qualità di amministratore non esecutivo.

Anche per tale riguardo, dunque, la sentenza impugnata si sottrae alla

censura di carenza motivazionale e si mostra osservante dei principi dettati dalla

giurisprudenza in materia. Né giova al ricorrente contraddire in punto di fatto i

rilievi mossi nella sentenza al suo operato, sollecitando una rivisitazione delle

emergenze documentali che non è legittimamente attuabile nel giudizio di

cassazione.

13.3. In ordine al terzo motivo, col quale il ricorrente pone la questione

inerente al nesso causale fra condotta e dissesto, con la correlata copertura del

dolo, va ribadito quanto già detto nel rimarcare che la questione si pone soltanto

per i reati riconducibili alla bancarotta fraudolenta patrimoniale ex artt. 216 e

223, primo comma, legge fall.: e non anche per quelli di bancarotta impropria da

reati societari e da operazioni dolose (art. 223, comma 2, nn. 1 e 2 della stessa

legge), per i quali il rapporto di causalità è espressamente richiesto dalla norma

incriminatrice. Relativamente a questi ultimi, va precisato, l'accertamento del

contributo causale prestato dal Barachini ex art. 40, comma secondo, cod. pen.,

114

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attraverso la condotta omissiva tenuta quale amministratore non esecutivo, è

stato scrutinato più sopra nel trattare il secondo motivo di ricorso; del pari è già

stata sottoposta a disamina la componente psicologica del reato, sotto il profilo

della conoscenza - e non mera conoscibilità - dei segnali d'allarme.

Per quanto invece si riferisce alla bancarotta distrattiva, non vi è che da

richiamarsi alle argomentazioni svolte più sopra nel paragrafo 7 e relative

partizioni, cui nulla vi è da aggiungere in questa sede. Con la conseguenza che

non vengono in considerazione le restanti ragioni di critica, siccome finalizzate a

contrastare la configurabilità del dolo nel suo duplice aspetto cognitivo e volitivo,

sul presupposto - insussistente, per quanto già detto - che esso debba investire

la causazione del dissesto.

13.4. Il quarto motivo si struttura nella formulazione dell'eccezione di

inosservanza dell'art. 649 cod. proc. pen., sulla quale ci si è già intrattenuti nel

paragrafo 5; vi è dunque soltanto da richiamarsi alle argomentazioni ivi svolte,

che danno conto dell'infondatezza dell'eccezione. Non si può, invece, accedere al

giudizio di inammissibilità sollecitato dal Procuratore Generale in udienza, in

quanto le ragioni di critica rivolte dal ricorrente al passaggio motivazionale

dedicato al tema nella sentenza impugnata, sebbene genericamente esposte nel

primo motivo (sulla cui funzione di mera premessa ci si è già soffermati), sono

poi riprese e sviluppate nel quarto motivo, sia pur senza fondamento per quanto

testé ricordato.

14. GIOVANNI BONICI

Il ricorso non merita accoglimento.

14.1. L'infondatezza del primo motivo, volto a scandagliare la problematica

inerente alla responsabilità degli amministratori non esecutivi, discende dalle

argomentazioni già svolte nel trattare la relativa questione, in via generale, al

precedente paragrafo 8; nonché, per quanto specificamente ascritto al Bonici,

dalla logica stringente delle argomentazioni svolte dalla Corte d'Appello nel

rimarcare che l'odierno ricorrente, stante la sua qualità di direttore

amministrativo prima, e di Presidente poi di Parmalat Venezuela, aveva

partecipato a tutte le riunioni trimestrali con i dirigenti locali per decidere

l'aggiustamento dei bilanci, con correlate falsificazioni, sopravvalutazioni di beni

e marchi privi di valore e cessioni di crediti inesigibili a Curcastle e Zilpa: ciò

anche in considerazione di quanto riferito da Fausto Tonna, secondo cui tutti i

C.F.O. (Chief Financial Officer) e direttori amministrativi dei singoli settori ben

conoscevano il dissesto dei rispettivi comparti. A maggior ragione, ha osservato

ancora la Corte territoriale, il Bonici aveva acquisito piena consapevolezza della

funzione di «discarica» assegnata alla Bonlat, nel momento in cui ne era

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divenuto amministratore delegato; senza contare che anche in precedenza, su

richiesta del Tonna, aveva sottoscritto i contratti nelle occasioni in cui quegli

risultava in conflitto di interessi: né la sua firma era stata mai falsificata da

alcuno.

Delle dichiarazioni accusatorie del Tonna la sentenza impugnata individua i

necessari riscontri, innanzi tutto, nella ammissione del Bonici di essere stato a

conoscenza della situazione della Parmalat in Brasile, per aver partecipato alle

riunioni di budget insieme a Tonna, Barili, ai congiunti Tanzi (Stefano, Calisto e

Giovanni), Del Soldato e Giuffredi, nonché alle riunioni di area: nel corso delle

quali i risultati emergenti dai bilanci non avrebbero potuto che stupirlo, se fosse

stato effettivamente all'oscuro dei meccanismi di falsificazione dei bilanci; ed

ancora negli stessi finanziamenti comprovatamente richiesti ed ottenuti da

Parmalat Venezuela, apparentemente finalizzati a sostenere l'attività di import-

export, ma in realtà destinati a far fronte a debiti preesistenti verso la Bank of

America; ed infine nel fatto che la redditività operativa delle società venezuelane

fosse influenzata in modo imponente dai cosiddetti «contributi Bonlat», cioè da

registrazioni contabili che aumentavano i ricavi o riducevano i costi migliorando il

margine operativo.

L'impianto argomentativo così adottato, che trae fondamento da una

valutazione del materiale probatorio non sindacabile in questa sede in quanto

motivata secondo logica, rende conto adeguatamente del convincimento del

giudice di merito circa l'infondatezza della linea difensiva volta a far apparire il

Bonici come una sorta di «marionetta inconsapevole» (v. ricorso, pag. 4); la

responsabilità attribuitagli si fonda sulla violazione dell'obbligo di «agire

informato», a lui facente capo in virtù delle funzioni amministrative esercitate; la

accertata consapevolezza del dissesto e delle manovre finalizzate a dissimularlo,

che connota il contributo da lui prestato alla consumazione degli illeciti, eccede

perciò, di gran lunga, i limiti della negligenza per integrare gli estremi del dolo:

così come correttamente ritenuto dalla Corte d'Appello.

Né giova al ricorrente richiamarsi al diverso convincimento espresso dal

Tribunale di Milano nel processo ivi svoltosi, non avendo efficacia vincolante in

questa sede il giudicato formatosi su imputazioni totalmente distinte, come già

esposto al paragrafo 8.

14.2. Il secondo motivo è inammissibile, in quanto esulante dal novero di

quelli consentiti dall'art. 606 cod. proc. pen..

Infatti le censure con esso elevate, dietro l'apparente denuncia di vizi della

motivazione, si traducono nella sollecitazione di un riesame del merito - non

consentito in sede di legittimità - attraverso la rinnovata valutazione degli

elementi probatori acquisiti. Significativo, in tale prospettiva, è l'espresso invito

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rivolto nel ricorso alla Corte di Cassazione, affinché rilegga le testimonianze

raccolte dai giudici di primo grado a Parma e a Milano, le dichiarazioni rese dai

coimputati Del Soldato, Tonna, Bocchi e Pessina, nonché dallo stesso deducente,

la relazione del consulente tecnico del P.M. e i documenti prodotti: il che

concreterebbe una rielaborazione del giudizio di merito non consentita in questa

sede. Al riguardo non sarà inutile ricordare che, per consolidata giurisprudenza,

pur dopo la modifica legislativa dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.

introdotta dall'art. 8 L. 20 febbraio 2006, n. 46, al giudice di legittimità resta

preclusa - in sede di controllo sulla motivazione - la rivisitazione degli elementi

di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e

diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti; e il riferimento ivi

contenuto anche agli «altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di

gravame» non vale a legittimare il controllo sulla correttezza della motivazione in

rapporto ai dati processuali (così Sez. 5, n. 12634 del 22/03/2006, Cugliari, Rv.

233780; v. anche le più recenti Sez. 5, n. 44914 del 06/10/2009, Basile, Rv.

245103; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099), ma consente

soltanto di dedurre, quale vizio di motivazione, il rapporto di contraddizione

esterno al testo della sentenza riconducibile a quella forma di errore revocatorio

sul significante, che viene abitualmente definita «travisamento della prova»: il

che si verifica quando l'errore denunciato ricada non già sul significato dell'atto

istruttorio, ma sulla percezione del testo nel quale si estrinseca il suo contenuto

(Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012 - dep. 27/02/2013, Maggio, Rv. 255087; Sez.

3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048 del

25/09/2007, Casavola, Rv. 238215); ipotesi, quest'ultima, non riscontrabile nel

caso di cui ci si occupa.

Fuori di luogo è anche la critica riferita all'omessa confutazione di specifiche

argomentazioni addotte dalla difesa, a fronte del principio secondo cui il giudice

del gravame non è tenuto a prendere in esame ogni singola argomentazione

svolta nei motivi d'impugnazione, ma deve soltanto esporre, con ragionamento

corretto sotto il profilo logico-giuridico, i motivi per i quali perviene a una

decisione difforme rispetto alla tesi dell'impugnante, rimanendo implicitamente

non condivise, e perciò disattese, le argomentazioni incompatibili con il

complessivo tessuto motivazionale (Sez. 4, n. 26660 del 13/05/2011, Caruso,

Rv. 250900; Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 4, n.

1149/06 del 24/10/2005, Mirabilia, Rv. 233187).

14.3. Manifestamente infondata è la denuncia, svolta nel terzo motivo, di

violazione del principio del «ragionevole dubbio» codificato nell'art. 533 cod.

proc. pen., in attuazione dell'art. 111 Cost.. Questa Corte Suprema ha già avuto

modo di avvertire - con enunciazione che va qui ribadita - che tale principio,

117

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introdotto dalla legge n. 46 del 2006, non ha mutato la natura del sindacato

della Corte di Cassazione sulla motivazione della sentenza e non può, quindi,

essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni

alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e

segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta

disamina da parte del giudice dell'appello (Sez. 5, n. 10411 del 28/01/2013,

Viola, Rv. 254579): disamina che, come si è visto dianzi (14.1), nel caso di

specie è stata compiuta dalla Corte felsinea, che ne ha dato conto diffusamente

con motivazione immune da vizi logici e giuridici.

15. ROSARIO LUCIO CALOGERO

Il ricorso è da rigettare, in quanto privo di fondamento.

15.1. A confutazione del primo, articolato, motivo deve considerarsi quanto

segue.

L'assunto a tenore del quale dovrebbe attribuirsi in via esclusiva agli

amministratori della società controllante la responsabilità per le falsificazioni del

bilancio consolidato ha il suo necessario presupposto logico-giuridico nell'ipotesi

che, in adempimento degli obblighi di legge, le società controllate trasmettano

bilanci individuali recanti dati veridici e corretti; di contro nel caso di cui ci si

occupa, secondo quanto accertato in sede di merito, nei bilanci consolidati si è

potuto provvedere ad una artificiosa diminuzione dei debiti verso banche e

obbligazionisti ricorrendo alla compensazione infragruppo di crediti - inesistenti o

inesigibili - fittiziamente appostati nei bilanci civilistici di talune società

controllate appositamente destinate a quel compito, fra cui la Curcastle

Corporation NV, del cui consiglio di amministrazione il Calogero era componente,

e la Zilpa Corporation BV, nella cui gestione egli era per sua ammissione

coinvolto, sebbene non formalmente investitone. Ciò mostra con chiarezza come

la finalità di occultare il crescente indebitamento del gruppo sia stata perseguita

attraverso un sistema di falsificazione dei bilanci (singoli e consolidati), che non

poteva prescindere dal consapevole contributo degli amministratori delle società

partecipate, al pari di quelli della società controllante.

Il fatto che il ricorrente abbia svolto nelle predette società controllate il ruolo

di amministratore - ora formale, ora di fatto - non esecutivo non è di ostacolo al

riconoscimento della sua responsabilità alla stregua dei principi giuridici enucleati

dalla giurisprudenza in materia, su cui ci si è già soffermati al paragrafo 8. In

aggiunta mette conto di annotare che, per quanto lo riguarda specificamente,

oltre alla conoscenza concreta dei significativi «segnali di allarme» recati dalle

situazioni vissute nei vari distretti societari nei quali egli operava in relazione ai

diversi incarichi assunti (qui elencati nella parte narrativa sub 11), la sentenza

118

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impugnata ascrive al Calogero una fattiva collaborazione col Tonna, dal quale

egli veniva talvolta richiesto di attivarsi per trovare la soluzione ai problemi della

Parmalat: problemi che a lui erano ben noti fin da quando si era occupato dei

suoi bilanci in seno alla società di revisione Hodgson Landau Brands ed aveva, in

seguito, collaborato all'operazione di quotazione in Borsa. E ancora era stato il

Tonna - è sempre la sentenza di appello ad evidenziano - a chiamare il Calogero

a far parte del board di società ampiamente (ed incontestatamente) coinvolte in

traffici illeciti, e cioè, oltre che delle già menzionate Curcastle e Zilpa, anche di

Camfield PTE Ltd, Aranca s.p.a., Carital Food Distributor BV.

Col supporto di tali accertamenti in fatto la Corte d'Appello è pervenuta

motivatamente alla conclusione che il Calogero, esperto consulente fiscale e

amministratore a conoscenza della situazione di altre società in stretti - quanto

occulti - rapporti con quelle dianzi elencate, dovesse avere piena possibilità di

esaminarne approfonditamente le carte (contabili e non) e fosse ampiamente in

condizioni di comprenderne il senso: in mancanza di che non avrebbe potuto

effettuare scelte oculate in ragione della convenienza fiscale, né muoversi

efficacemente - come invece risulta aver fatto - davanti alle indagini del fisco

olandese. La motivazione addotta al riguardo resiste al controllo di legittimità, in

quanto immune da vizi logici e giuridici.

Circa la responsabilità del libero professionista per i fatti illeciti posti in

essere dal cliente, correttamente ha osservato il giudice di appello che la relativa

problematica non si attaglia alla fattispecie, in quanto l'esistenza di un rapporto

professionale non esclude la possibilità di una volontaria ed autonoma

collaborazione del singolo con il disegno criminoso comune; è ben possibile,

infatti, che nell'esercizio dell'attività professionale sia realizzata una condotta

dimostrativa della consapevole adesione all'accordo criminoso, attuatasi in modo

anche solo parzialmente funzionale alla realizzazione del progetto illecito. Tale

ragionamento, sviluppato con specifico riferimento al reato di associazione per

delinquere (peraltro dichiarato prescritto nei confronti del Calogero), vale

ugualmente - ed anzi a maggior ragione - per qualsiasi altro reato, stante

l'applicabilità dei principi che regolano il concorso di persone ex art. 110 cod.

pen..

Le restanti ragioni di critica che informano il primo motivo non sono

ammissibili, nella parte in cui invadono l'area del merito indirizzandosi a negare

- in contrasto con la ricostruzione in fatto motivatamente recepita dalla Corte

d'Appello e con la valutazione da essa data alle emergenze probatorie - la

concreta percepibilità da parte del Calogero delle anomalie nella gestione

economico-finanziaria della holding, la sua conoscenza delle problematiche

proprie del settore turistico, l'assunzione dell'incarico di liquidatore nella società

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Rushmore, la negata operatività delle società Camfield, Tissinger e Carital Food,

l'attendibilità delle dichiarazioni accusatorie del Tonna e, di contro, il giudizio di

inattendibilità delle dichiarazioni scagionanti rese dal coimputato Pessina. Sono

invece da rigettare per infondatezza là dove denunciano carenza motivazionale

per mancata trattazione della problematica del dolo e per omessa confutazione

delle deduzioni svolte nei motivi di appello, intese a contestare la funzione di

«discarica» attribuita alla società Curcastle; è infatti agevole cogliere nel

complessivo tessuto motivazionale della sentenza (e in special modo nelle pagine

da 198 a 294) le ragioni del convincimento espresso dalla Corte d'Appello sui

temi in questione.

15.2. Il secondo motivo non può trovare accoglimento: contrariamente a

quanto lamenta il ricorrente, la sentenza di secondo grado ha dato specifica ed

esauriente risposta, in senso reiettivo, all'eccezione di inammissibilità

dell'imputazione contestata al capo J. In essa è invero rimarcato, alla pagina

209, che «il riferimento preciso effettuato nel capo 3 della rubrica ai fatti descritti

al capo D.14 (ovvero alle distrazioni in danno di Parmalat Spa ed in favore di

Afim/Aranca poco sopra descritte) ben vale a chiarire all'imputato la condotta a

lui peraltro nominativamente attribuita». Né vale sostenere che nel capo D.14 la

condotta ascritta al Calogero - contrariamente, si assume, a quella dei

coimputati - sia del pari carente di descrizione: un'attenta lettura del capo in

questione permette di constatare come il ruolo attribuitogli nella consumazione

della bancarotta distrattiva ai danni della Parmalat s.p.a., in favore della società

Aranca s.p.a., consista nell'essersi giovato, quale amministratore di quest'ultima

società, delle molteplici erogazioni di finanziamenti privi di titolo giustificativo,

attuate anche mediante l'utilizzo di un sistema di fatture per operazioni

inesistenti emesse dalla società beneficiaria, ergo dallo stesso Calogero.

È dunque perfettamente chiara la contestazione mossa all'odierno

ricorrente, ben essendo individuata la condotta attribuitagli.

15.3. Il terzo motivo è inammissibile: in parte perché basato sulla

formulazione di censure non consentite nel giudizio di cassazione e in parte

perché generico, nel senso che più oltre si chiarirà.

Non consentite sono le censure che, dietro l'apparente denuncia di vizi della

motivazione e di inosservanza dei criteri di valutazione delle prove, si traducono

in realtà nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta

motivatamente propria dal giudice di merito. Si è già osservato dianzi che nel

giudizio di legittimità non sono deducibili censure che riguardino la ricostruzione

dei fatti ovvero che si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze

esaminate dal giudice di merito. Conseguentemente non possono essere prese in

considerazione, stante la loro attinenza al fatto e la finalità di contrastare le

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argomentate valutazioni del giudice di appello, tutte quelle deduzioni svolte dal

ricorrente che si presentano indirizzate a negare la sussistenza di prove circa

l'elemento psicologico del reato, nonché l'emissione di fatture per operazioni

inesistenti (in ordine alla quali la Corte territoriale non ha omesso di motivare,

ma lo ha fatto a pag. 206, spiegando che le contestazioni di vizi anticipatamente

formulate dalla Parmalat servivano a giustificare la mancata spedizione di merce

già pagata).

Sono invece generiche, in quanto prive di correlazione rispetto alla

motivazione della sentenza impugnata, quelle deduzioni difensive che, senza

confrontarsi con l'accusa mossa al Calogero di aver scientemente ricevuto per la

società Aranca dei pagamenti non dovuti, si soffermano sulla finalità perseguita

dalla Parmalat con l'acquisizione delle società facenti parte del gruppo Afim;

difendono tale scelta dal punto di vista imprenditoriale; sostengono la legittimità

della cessione dei crediti alle banche; valorizzano l'estraneità dell'imputato

all'amministrazione della Afim e alla Emmegi Agroindustriale. Va ricordato, in

proposito, il principio giurisprudenziale secondo cui la mancanza di correlazione

fra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a

fondamento dell'atto d'impugnazione si traduce in un vizio di aspecificità del

motivo di ricorso, che ne comporta l'inammissibilità (Sez. 5, n. 28011 del

15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 2, n. 19951 del 15/05/2008, Lo

Piccolo, Rv. 240109; Sez. 1, n. 39598 del 30/09/2004, Burzotta, Rv. 230634).

15.4. Il quarto motivo di ricorso si riferisce alla vicenda relativa all'acquisto

del marchio «Del Alpes» (distrazione ai danni della Parmalat Finance Corporation

BV, consistita nel pagamento di 20 miliardi di lire per il simulato acquisto del

marchio); le censure mosse dal ricorrente si volgono a negare la capacità

dimostrativa del contratto, recante la sua sottoscrizione (ormai non più

contestata), sul presupposto che l'accordo di cessione del marchio fosse stato

concluso nel marzo 2000, cioè prima che il Calogero assumesse responsabilità

amministrative nella società acquirente.

Il motivo non è fondato. La sentenza di appello fornisce alla critica una

risposta poggiante sul rilievo per cui il Calogero, per sua stessa ammissione

confermata dal coimputato Pessina, nel periodo dal 1999 al 2004 fece parte del

consiglio di amministrazione della Parmalat Food Holding, controllante della

Dairies Holding: donde la conclusione che egli non fosse totalmente estraneo alla

gestione della società coinvolta, quale beneficiaria, nell'illecito distrattivo; a ciò

deve aggiungersi che, in ogni caso, l'aver apposto la propria sottoscrizione al

contratto col quale si è data esecuzione all'accordo preliminare, sulla cui illiceità

si fonda l'accusa, ha costituito un contributo alla consumazione del reato, fornito

con la coscienza e volontà di aderirvi, di cui la Corte di merito ha tratto prova

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dalle dichiarazioni rese dal Tonna (pagg. 211-212 della motivazione).

15.5. Destituito di fondamento è anche il quinto motivo, col quale il

ricorrente impugna la modulazione della pena e il giudizio di bilanciamento fra

circostanze attenuanti e aggravanti. Sotto il primo profilo, invero, va rimarcato

che la pena base determinata dalla Corte d'Appello per il reato di cui al capo B.2,

pari a tre anni e otto mesi di reclusione, è sufficientemente prossima al minimo

edittale da legittimare una motivazione espressa attraverso un implicito richiamo

al criterio di adeguatezza, sul quale già si era fondata l'identica determinazione

del giudice di primo grado (in argomento v. per tutte Sez. 2, n. 28852 del

08/05/2013, Taurasi, Rv. 256464; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore,

Rv. 256197); sotto il secondo profilo va rilevato che, contrariamente a quanto

sostiene il ricorrente, la Corte d'Appello non ha mancato di valorizzare il

comportamento processuale dell'imputato, connotato da talune dichiarazioni

sostanzialmente confessorie; proprio per tale ragione si è indotta a riconoscergli

le attenuanti generiche, il cui valore ponderale ha tuttavia ritenuto che non

potesse eccedere l'equivalenza rispetto alle aggravanti. Valga qui ricordare il

principio secondo cui le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra

circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui

all'art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di

mero arbitrio o ragionamento illogico (Sez. 3, n. 26908 del 22/04/2004,

Ronzoni, Rv. 229298).

Quanto alla doglianza concernente la mancata applicazione dell'indulto si

osserva che, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema,

quando a ciò non abbia provveduto il giudice della cognizione, procede a norma

dell'art. 672 cod. proc. pen. il giudice dell'esecuzione: conseguentemente il

ricorso per cassazione con il quale si lamenti la mancata applicazione del

condono è ammissibile solo quando il giudice di merito l'abbia erroneamente

esclusa, con specifica statuizione nel dispositivo della sentenza (Sez. 4, n. 1869

del 21/02/2013 - dep. 17/01/2014, Leo, Rv. 258174; Sez. 5, n. 43262 del

22/10/2009, Albano, Rv. 245106; Sez. 3, n. 25135 del 15/04/2009, Renda, Rv.

243907). Nel caso di cui ci si occupa la Corte d'Appello non ha affatto escluso

l'applicabilità del condono, ma si è limitata ad astenersi dal decidere in

argomento, legittimamente rimettendo la statuizione al giudice dell'esecuzione.

15.6. Anche il sesto motivo, infine, va rigettato in quanto infondato in

ognuna delle tre censure nelle quali si articola.

Ed invero, per ciò che concerne l'eccezione volta a far valere la mancanza di

prova del possesso, da parte dei creditori costituitisi parti civili, «dei titoli che

ritengono di azionare o di cui chiedono ristoro», non vi è che da ribadire quanto

già esposto trattando della analoghe censura mossa dal ricorrente Fausto Tonna

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(paragrafo 11.15); si è ivi annotato, col richiamo ai precedenti giurisprudenziali

in tema, che la condanna generica al risarcimento dei danni non esige alcuna

indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando

soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della

esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il pregiudizio lamentato.

Circa l'eccezione - comune ad altri ricorrenti - di inammissibilità della

costituzione di parte civile per i creditori delle procedure concorsuali, in relazione

al disposto dell'art. 240 legge fall., a disvelarne l'infondatezza vi è soltanto da

richiamarsi alle considerazioni dianzi svolte in via generale al paragrafo 9.3.

Quanto all'eccezione di inammissibilità delle costituzioni di parte civile non

accompagnate, secondo il ricorrente, da una mancata esposizione delle ragioni

atte a giustificare la domanda, corre l'obbligo di evidenziare come la

giurisprudenza citata a sostegno dal ricorrente (Sez. 2, n. 8723 del 07/05/1996,

Schiavo, Rv. 205872) sia stata ben presto superata da una serie ininterrotta di

decisioni che, a partire da Sez. 5, n. 6910 del 27/04/1999, Mazzella, Rv.

213612, sono pervenute ad enunciazioni di segno contrario affermando che, in

tema di costituzione di parte civile, l'indicazione delle ragioni che giustificano la

domanda risarcitoria è funzionale esclusivamente all'individuazione della pretesa

fatta valere in giudizio, non essendo necessaria un'esposizione analitica della

causa petendi, sicché per soddisfare la previsione normativa è sufficiente il mero

richiamo al capo di imputazione, allorquando il nesso tra il reato contestato e la

pretesa risarcitoria azionata sia immediato (così, da ultimo, Sez. 5, n. 22034 del

07/03/2013, Boscolo, Rv. 256500; v. anche Sez. 5, n. 684 del 05/02/1999,

Pindinello, Rv. 214876; Sez. 2, n. 13815 del 27/10/1999, Attinà, Rv. 214669).

16. SERGIO PIERO FRANCO EREDE

Anche di questo ricorso va riconosciuta l'infondatezza.

16.1. Ciò è a dirsi, innanzi tutto, del primo motivo, non sussistendo la

denunciata inosservanza del principio di correlazione fra contestazione ed

accusa. In argomento va rilevato, anzitutto, che secondo la giurisprudenza di

questa Corte Suprema la degradazione da «dolo» a «colpa» dell'elemento

soggettivo del reato non integra di per sé sola la violazione dell'art. 521 cod.

proc. pen.; siffatto principio si trae non soltanto dalla motivazione della sentenza

della Sez. 5, n. 36764 del 24/05/2006, Bevilacqua, Rv. 234605, citata dalla

Corte d'Appello, ma anche da altri arresti conformi in tema di riqualificazione del

delitto doloso di cui all'art. 595 cod. pen. in quello, di natura colposa, punito

dall'art. 57 dello stesso codice (Sez. 5, n. 2074 del 25/11/2008 - dep.

20/01/2009, Fioravanti, Rv. 242351; Sez. 5, n. 46203 del 09/11/2004, Mauro,

Rv. 231169); nonché, in generale, dalla più risalente Sez. 1, n. 7476 del

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05/05/1994, Coturri, Rv. 198365.

In effetti perché possa negarsi la sussistenza della menzionata correlazione,

cui si riferisce il precetto dell'art. 521 cod. proc. pen., occorre che il divario fra

l'imputazione contestata e l'addebito ritenuto in sentenza si concreti in una vera

e propria immutazione del fatto: il che non può dirsi in un caso nel quale la

condotta ascritta nell'imputazione originaria sia ritenuta costitutiva - nella

riscontrata identità dell'evento e del nesso causale - del reato per il quale è

emessa condanna (art. 224, comma 1, n. 2 legge fall.); né giova al ricorrente

soffermarsi sulla diversità concettuale tra il «fallimento» e il «dissesto»

contemplati nelle due norme incriminatrici, atteso che il secondo di tali termini,

in seno al contesto normativo nel quale si colloca all'interno dell'art. 223, comma

2, della legge fallimentare, assume il significato di un evento inscindibile dal

fallimento, del quale costituisce l'indefettibile presupposto.

D'altra parte, quand'anche si accedesse all'assunto del ricorrente e si

ritenesse quindi di dover ravvisare un'immutazione del fatto, dovrebbe pur

sempre tenersi conto dell'ulteriore principio, consolidatosi in guisa tale da potersi

considerare «diritto vivente», a tenore del quale le norme che disciplinano le

nuove contestazioni, la modifica dell'imputazione e la correlazione tra

l'imputazione contestata e la sentenza, avendo lo scopo di assicurare il

contraddittorio sul contenuto dell'accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di

difesa dell'imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali

sono dirette, cosicché non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione

rispetto all'accusa, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell'imputazione

pregiudichi la possibilità di difesa dell'imputato (così Sez. 4, n. 41663 del

25/10/2005, Rv. 232423; v. anche le successive Sez. 2, n. 46242 del

23/11/2005, Magnatta, Rv. 232774; Sez. 4, n. 10103 del 15/01/2007, Granata,

Rv. 236099; Sez. 3, n. 15655 del 27/02/2008, Fontanesi, Rv. 239866; nonché la

più recente pronuncia - citata dallo stesso ricorrente - con cui le Sezioni Unite,

chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale su altra questione, hanno tra

l'altro ribadito una volta di più il principio suesposto: Sez. U, n. 36551 del

15/07/2010, Carelli, Rv. 248051). Alla stregua di tale insegnamento non può

certamente affermarsi, nel caso di specie, che l'imputato abbia visto pregiudicata

la possibilità di difendersi attraverso l'iter del processo, rinvenendosi nello stesso

ricorso (pag. 8) l'ammissione che l'addebito a titolo di colpa ex art. 224 legge

fall. è emerso in sede di discussione ad opera del pubblico ministero, onde è

rimasta aperta alla difesa ogni possibilità di contrastare l'accusa.

La denunciata contraddittorietà del decisum, per essersi ritenuta la diversità

del reato sotto il profilo dei riflessi sulle statuizioni civili, e non anche dal punto di

vista penale, è in realtà insussistente. Il rilievo sul quale la Corte di merito ha

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fondato l'esclusione - non sindacabile in questa sede, in quanto non impugnata

dalle parti civili - della solidarietà dell'Erede rispetto agli altri imputati (ad

eccezione di Giuliano Panizzi e Davide Fratta, coi quali la solidarietà è stata

invece affermata) ai fini del risarcimento dei danni, e cioè la diversità del reato di

cui all'art. 224 legge fall. rispetto agli illeciti a coloro addebitati, è giuridicamente

ineccepibile, trattandosi di fattispecie contemplate da norme incriminatrici

distinte; ma tale diversità dei reati non comporta - per quanto dianzi visto - la

violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., che si riferisce alla diversità del fatto e

non del reato: tant'è che la stessa disposizione legislativa consente

espressamente al giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da

quella attribuitagli nell'imputazione.

16.2. Il secondo motivo s'incentra sul tema inerente alla responsabilità degli

amministratori non esecutivi, sul quale ci si è già intrattenuti in via generale al

paragrafo 8. In aggiunta a quanto ivi argomentato merita, altresì, richiamarsi

alla analitica elencazione, contenuta nella sentenza impugnata, dei «segnali

d'allarme» di cui, pure, si è già detto in precedenza scrutinando il ricorso di

Enrico Barachini (paragrafo 13.2); segnali che, per quanto riguardante l'Erede, la

Corte territoriale ha specificamente individuato nella sproporzionata liquidità, in

presenza di un massiccio indebitamento del gruppo, nelle ragioni giustificatrici

della delibera di aumento di capitale della Parmalat Participagòes e

nell'operazione denominata swap Sumitonno: anomalie, codeste, la cui evidenza

non poteva essere sfuggita - né era sfuggita di fatto - e che avrebbero dovuto

far comprendere all'odierno ricorrente, se vi avesse dedicato la doverosa

diligente attenzione, che i bilanci erano certamente falsi, che la condizione del

gruppo era peggiore rispetto a quella in essi rappresentata e che gli

amministratori delegati avevano realizzato frodi e distrazioni: così si esprime la

sentenza di appello, a pag. 215, forzatamente adeguandosi alla valutazione del

Tribunale, ma lasciando intendere che a più severo giudizio avrebbe potuto

condurre un'eventuale impugnazione del pubblico ministero.

Non è pertinente alla ratio decidendi della sentenza impugnata l'assunto del

ricorrente secondo cui la responsabilità per i falsi contenuti nei bilanci della

società controllata dovrebbe ricadere soltanto sugli amministratori di questa e

non anche su quelli della società controllante. Il fondamento della condanna

pronunciata a carico dell'Erede non si riferisce ai riflessi in ambito fallimentare

(art. 223, comma 2, n.1 legge fall.) del reato societario ex art. 2621 cod. civ.,

che certamente non avrebbero potuto essergli ascritti a titolo di colpa, bensì alla

omissione delle attività che un diligente amministratore avrebbe dovuto porre in

essere, in adempimento all'obbligo di «agire informato», per opporsi alla

prosecuzione di una linea gestionale che determinava una crescita smisurata

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dell'indebitamento, occultandola con artifici contabili, e che non avrebbe

mancato di condurre al prevedibile disastro: omissione della quale la Corte di

merito ha motivatamente ravvisato il carattere colposo, anche quando si era

concretata nella mancata partecipazione ai consigli di amministrazione nei quali

venivano approvate le anomale operazioni di cui si tratta (pag. 216 della

sentenza). Quanto alla concreta possibilità di impedire l'evento valga qui

ribadire, come già osservato in precedenza, che per l'assolvimento dei doveri

dell'amministratore la legge richiede non già il necessario raggiungimento

dell'esito impeditivo, ma l'espletamento di quanto in suo potere nel perseguire

tale finalità; ed è nell'essere mancato a tale suo obbligo che s'incentra il

rimprovero mosso all'Erede dai giudici di merito.

16.3. Il terzo motivo si articola in tre censure, che non meritano

accoglimento per le ragioni di seguito esposte.

Non risponde a verità l'assunto secondo cui la Corte d'Appello avrebbe

trattato il delitto di cui all'art. 224 legge fall. come un reato a forma libera. In

realtà il collegio di seconda istanza si è dato carico di individuare gli obblighi

posti dalla legge a carico del ricorrente, nella sua qualità di componente del

consiglio di amministrazione, e da lui non osservati; al riguardo ha fatto espresso

riferimento al dettato dell'art. 2392, comma secondo, cod. civ., rimarcando come

esso istituisca una responsabilità di carattere generale - residuale e sussidiario

in relazione all'intero andamento della società - che prescinde dalla violazione

degli specifici obblighi demandati agli amministratori: responsabilità che già per

come normativamente prevista si qualifica per essere inevitabilmente

conseguente ad una omessa attivazione a fronte di fatti pregiudizievoli («sono

solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non

hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o

attenuarne le conseguenze dannose»). Non è condivisibile la critica secondo cui il

giudice di secondo grado, così opinando, avrebbe fatto rientrare «dalla finestra»

l'obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, uscito «dalla porta»

con la riforma del diritto societario attuata della legge 28 dicembre 2005, n. 262;

in realtà i compiti affidati dalla legge agli amministratori, ancorché privi di

delega, si estendono tuttora al controllo sul generale andamento della gestione

quale riflesso dell'obbligo, posto a carico degli organi delegati dal quinto comma

dell'art. 2381 cod. civ., di riferire in proposito al consiglio di amministrazione:

giacché, se non si ritenga di attribuire a tale adempimento il significato di un

vacuo rituale, appare evidente come ad esso si ricolleghi il corrispondente

obbligo per i componenti del consiglio di amministrazione di esercitare con tale

strumento la vigilanza sull'operato dei delegati anche in rapporto al generale

andamento della gestione, espressamente menzionato dalla norma.

.-

126

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I

In materia di accertamento del nesso di causalità, vale anche per le

condotte omissive il criterio dell'equivalenza delle cause: con la conseguenza per

cui l'inerzia del singolo amministratore, quand'anche insufficiente da sola a

determinare l'evento, acquista efficacia causale nell'unirsi all'identico

atteggiamento omissivo - sia esso colposo o doloso - degli altri componenti

l'organo amministrativo; rovesciando il suesposto ragionamento si attua

l'invocata verifica controfattuale: giacché l'idoneità dell'opposizione del singolo a

impedire l'evento - o quanto meno a limitarne le conseguenze - non va

riguardata isolatamente, come destinata a soccombere inevitabilmente di fronte

al contrario atteggiamento altrui, ma nella sua attitudine a rompere un silenzio

omertoso e a sollecitare, col richiamo agli obblighi imposti dalla legge e dai

principi della corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri

amministratori.

Alla stregua di quanto or ora osservato non merita di essere condiviso

l'assunto a tenore del quale, nel valutare l'efficienza eziologica della condotta

omissiva del ricorrente, la si dovrebbe riguardare individualmente, sul

presupposto che l'esclusione del concorso con gli altri imputati abbia conferito al

reato una valenza monosoggettiva. Anche su tale versante la Corte d'Appello ha

dato risposta conforme al diritto col rimarcare che, pur dovendosi escludere

l'ipotesi del concorso di persone nel medesimo reato ex art. 110 cod. pen.,

ricorrono nella fattispecie gli estremi del concorso di cause: il quale è

configurabile anche rispetto al delitto doloso, sia nella forma del concorso di

cause indipendenti, sia in quella della cooperazione colposa (Sez. 4, n. 4107 del

12/11/2008 - dep. 28/01/2009, Calabro', Rv. 242830; Sez. 4, n. 10795 del

14/11/2007 - dep. 11/03/2008, Pozzi, Rv. 238957).

16.4. Le considerazioni fin qui svolte rendono conto, al contempo,

dell'infondatezza di gran parte delle censure che informano il quarto motivo: sia

là dove negano senza ragione la rilevanza dei segnali di allarme in riferimento a

una fattispecie colposa; sia nella parte in cui, ponendosi al limite

dell'inammissibilità per refluenza nel fatto, contrastano il giudizio espresso dalla

Corte di merito circa la prevedibilità ed evitabilità del dissesto; sia nel richiamo

alla struttura del reato ex art. 224, n. 2 della legge fallimentare (avuto riguardo

all'elemento dell'inosservanza degli obblighi imposti dalla legge), volto a farne

derivare una critica alla metodologia seguita per l'accertamento della colpa; sia

dove lamentano - contro il vero, per quanto già osservato - che la Corte

d'Appello abbia imputato all'Erede una colpa generica e non la violazione di un

obbligo di legge.

Sono senz'altro inammissibili, perché finalizzate a contrastare l'accusa con

argomentazioni di puro merito, le restanti deduzioni in ordine alla concreta

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attitudine dei segnali d'allarme a far comprendere la falsità dei bilanci e la reale

situazione della Parmalat; alla rivendicata osservanza, da parte del deducente,

dei canoni dell'agire informato; alle condizioni economico-finanziarie del gruppo

Parmalat all'epoca dei fatti.

16.5. Da disattendere è anche il quinto motivo, col quale il ricorrente si

duole che la responsabilità attribuitagli sia stata equiparata a quella di Davide

Fratta e Giuliano Panizzi, ritenuti responsabili del medesimo reato (peraltro

prosciolti per prescrizione, non avendovi rinunciato) sebbene la posizione di

costoro si differenziasse per il loro inserimento nella principale controllata

operativa nella quale si sarebbe consumata la maggior parte degli illeciti oggetto

d'imputazione, con la conseguente apprezzabilità di un maggior numero di

segnali d'allarme.

Osserva questa Corte che la censura così formulata - che il ricorrente

chiarisce non essere indirizzata a contestare la decisione assunta nei confronti

dei coimputati - non può tendere al perseguimento di un risultato concreto in

favore del deducente, se non rapportandola alla richiesta di annullamento della

condanna emessa nei confronti dell'Erede per vizio di motivazione, sotto il profilo

della dedotta sopravvalutazione dei tre indici di anomalia che gli si imputa di

aver trascurato. Ma ciò si traduce nel reiterare la contestazione, sul piano del

merito, del giudizio espresso in proposito dalla Corte d'Appello in ordine

all'idoneità dei segnali d'allarme a far conoscere i fatti pregiudizievoli causatori

del dissesto: donde la manifesta infondatezza del motivo in esame.

16.6. Inammissibile è anche il sesto motivo, col quale il ricorrente impugna

la concreta determinazione della pena e il diniego del beneficio della non

menzione della condanna nel certificato penale. In proposito va rimarcato che

ambedue le statuizioni in discorso sono rimesse dall'ordinamento alla

discrezionalità del giudice di merito, per cui non vi è margine per il sindacato di

legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge e ai

canoni della logica. Nel caso di specie la Corte d'Appello non ha mancato di

motivare la propria decisione sui punti in questione: sia con l'osservare che la

riduzione della pena - attuata in considerazione dei limiti temporali dell'attività

illecita sanzionata e dell'esclusione dell'aggravante ex art. 112 cod. pen. - ne ha

comportato la quantificazione in misura prossima al minimo edittale; sia

evidenziando l'eccezionale gravità ed enorme lesività dei fatti in contestazione e

il grado elevato di colpevole negligenza attribuibili all'imputato. Siffatta linea

argomentativa non presta il fianco a censura, rendendo adeguatamente conto

delle ragioni della decisione adottata sotto entrambi i profili cui la doglianza si

riferisce; d'altra parte non è necessario, a soddisfare l'obbligo della motivazione,

che il giudice prenda singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui

128 A

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all'art. 133 cod. pen., essendo invece sufficiente l'indicazione di quegli elementi

che, nel discrezionale giudizio complessivo, assumono eminente rilievo.

16.7. Il settimo motivo impugna il diniego dell'estensione al ricorrente, ex

art. 587 cod. proc. pen., degli effetti dell'ordinanza emessa il 12 dicembre 2011

dalla Corte territoriale, che ha dichiarato l'inammissibilità delle costituzioni di

parte civile di Alvisi + 45, Lavagnino + 47, Di Stefano + 11, Cabrini, Ballarin +

159, Beltrami + 115, Corvaia + 12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza +

35, Allegri + 73, Pompini + 38, Agresti + 55, Anceschi + 36. L'argomento è già

stato trattato in via generale al paragrafo 9.1, per cui non vi è che da

richiamarsi, a confutazione, alle considerazioni ivi svolte.

16.8. L'ottavo motivo impugna la statuizione, inerente agli interessi civili,

con cui la Corte di merito ha posto a carico dell'Erede, in solido con i coimputati

Fratta e Panizzi, una provvisionale in favore dei creditori costituitisi parti civili

pari allo 0,3% dell'importo nominale del valore delle obbligazioni od azioni

acquistate, quale risultante dagli atti di costituzione di parte civile e relativi

allegati. Sostiene il ricorrente che con tale disposizione, ad onta dell'«etichetta»

attribuitale, la Corte avrebbe statuito in realtà non una provvisionale, ma una

liquidazione definitiva del danno patrimoniale; col risultato di precluderne

illegittimamente l'impugnabilità in cassazione e di sottrarsi all'obbligo di

specificare la quota di responsabilità a carico dell'Erede; sotto altro profilo

lamenta che si sia infondatamente applicata la solidarietà fra i coimputati, pur

essendosi escluso il concorso di persone.

La complessa censura è priva di fondamento.

Il provvedimento di rimessione al giudice civile della liquidazione del danno

conseguente a reato, ai sensi dell'art. 539 cod. proc. pen., investe il predetto

giudice della cognizione del quantum risarcibile in ogni sua componente, senza

che possa essere vincolato dalla scelta dei criteri adottati nella fissazione della

provvisionale, ancorché in quest'ultima determinazione il giudice penale si sia

sforzato di accostarsi per quanto possibile al previsto risultato della liquidazione

definitiva. Con ciò si vuol dire che l'avere la Corte d'Appello, nel caso di specie,

adottato un criterio di quantificazione della provvisionale tale da prospettare una

sua possibile coincidenza con l'ammontare effettivo del danno patrimoniale non

muta la natura giuridica della disposizione così adottata, la quale conserva

pertanto i caratteri, che le sono propri, di provvisorietà e di rivedibilità da parte

del giudice civile.

Da tali caratteri discende la non censurabilità della provvisionale nel giudizio

di cassazione, affermato in molteplici enunciazioni da questa Corte Suprema,

come del resto riconosciuto anche dal ricorrente.

Ne rimangono, conseguentemente, assorbite e travolte le ulteriori

129 A

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argomentazioni sviluppate dal ricorrente sul presupposto che la statuizione qui

specificamente impugnata concreti una liquidazione definitiva del danno

patrimoniale. Vale soltanto la pena di aggiungere, per completezza di

motivazione, che il principio della responsabilità solidale di tutte le persone a cui

sia imputabile un fatto dannoso, quale si evince dall'art. 2055, primo comma

cod. civ., trova applicazione anche nel caso in cui l'unico evento sia il risultato

del concorso di cause autonome (v. Sez. 4, n. 10226 del 30/04/1984, Marino,

Rv. 166762).

16.9. Per quanto riguarda, infine, le deduzioni svolte nella memoria

difensiva, vi è soltanto da richiamarsi a quanto argomentato al paragrafo 5 circa

l'inopponibilità, nella presente sede, del giudicato formatosi in esito al processo

apertosi davanti al Tribunale di Milano per i diversi reati di aggiotaggio e ostacolo

alle funzioni di vigilanza.

17. GIULIANO PANIZZI

Il ricorso non può trovare accoglimento.

17.1. Il primo motivo è, nel suo complesso, infondato.

Va premesso che la Corte territoriale, in riforma della decisione di primo

grado, ha ritenuto che al Panizzi deve essere addebitata una negligente

omissione in relazione agli obblighi a lui incombenti come consigliere non

esecutivo di Parmalat s.p.a., con conseguente derubricazione dei fatti relativi alla

stessa Parmalat ed a Par.fin. s.p.a. - ascrittigli ex art.223, comma secondo, n. 1,

I. fall. - nell'ipotesi di cui all'art.224, n. 2 I. fall.

Ciò posto, la Corte territoriale, valorizzando le competenze del Panizzi e

l'ampio periodo in cui ha ricoperto il ruolo di consigliere non esecutivo di

Parmalat s.p.a., ha, con argomentazioni che non esibiscono alcuna manifesta

illogicità, puntualizzato i presupposti del suo obbligo di attivarsi, che si collocano

nella cornice normativa di riferimento sviluppata supra al n. 8 della presente

motivazione, e soprattutto, la possibilità che il ricorrente percepisse gli indici di

anomalia gestionale. Ne discende che non si evidenzia un mutamento, sotto il

profilo temporale, dei fatti ascritti, ma una valorizzazione delle competenze

maturate negli anni in cui il Panizzi è stato consigliere non esecutivo.

Il riferimento contenuto in ricorso all'assenza di consapevolezza della falsità

del bilancio di Parmalat s.p.a. non coglie nel segno, poiché la derubricazione

della condotta è avvenuta proprio alla stregua dell'assenza di specifici elementi

idonei ad indicare almeno l'intervenuta accettazione del rischio dell'evento

pregiudizievole e a fronte dell'azione decettiva effettivamente e

connprovatamente svolta dalla cd. "cabina di regia".

Al contrario, al Panizzi è attribuita una condotta colposamente inerte, per

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non essersi mai attivato nel chiedere spiegazioni o formulare istanze di

approfondimento, di acquisizione di documentazione, se non addirittura

nell'opporsi a determinate scelte della "cabina di regia", giacché, se pure la cd.

"finanza creativa" trovava spazio in Par.fin. s.p.a. - i cui bilanci il Panizzi ha

riconosciuto di avere comunque studiato -, le vere e maggiori distrazioni - verso

il Turismo, verso le società di famiglia, verso le correlate, verso il Sud America -

avvenivano in Parmalat s.p.a., principale fonte di vera e reale produttività della

holding.

Al riguardo, venendo poi ad esaminare le censure che investono la

consistenza dei segnali d'allarme, osserva la Corte che il rapporto di controllo tra

Par.fin s.p.a. e Parmalat s.p.a. e la ammessa conoscenza dei bilanci della prima

non possono rendere irrilevante, come il Panizzi pretenderebbe, il fatto che il

rapporto fra liquidità e il debito nonché il riacquisto dei bond, concernessero la

prima e non la seconda società.

Quanto poi alle critiche che investono la rilevanza assegnata ai dati relativi

agli oneri finanziari, la Corte territoriale, con motivazione che non esibisce alcuna

manifesta illogicità, superando i dubbi prospettati dalle difese alla stregua di

calcolo non esaurientemente e documentalmente fondati (e sul punto il ricorso

opera un generico rinvio alle doglianze contenute nell'atto di appello, senza

indicare le basi obiettive della diversa ricostruzione), ha sottolineato che gli oneri

finanziari pagati da Parmalat sul debito negli anni 1997/2002 ondeggiavano tra il

10% ed il 15%, contro un tasso di riferimento di Bankitalia che variava nel

medesimo periodo dal 2,5% al 5,5%: il che, da un lato, è apparso significativo

della sfiducia degli Istituti di Credito nella holding parmense, a fronte della della

apparente liquidità ingentissima vantata dalla medesima; e dall'altro, rendeva

incomprensibile che il Gruppo continuasse a sostenere costi così cospicui, pur

avendo a disposizione una elevata liquidità con cui avrebbe potuto

tranquillamente abbatterli, posto che gli interessi percepiti - da bilancio la

liquidità produceva solo il 3,5% di interessi - erano decisamente inferiori ai costi

stessi. D'altra parte, ugualmente rilevante era il dato che gli oneri finanziari

assorbivano la maggior parte del reddito lordo prodotto dal business,

corrispondendo già nel 1999 al 140% del MOL, nel 2000 al 170% del MOL, per

poi giungere al livello drammatico del 2003, con un assorbimento dell'84% del

reddito lordo prodotto.

Per ciò che concerne, infine, l'efficacia causale dell'alternativa condotta

pretesa dall'imputato, va rilevato che, ancora una volta con motivazione priva di

elementi di manifesta illogicità, la Corte territoriale ha sottolineato che una

qualsiasi azione di pubblico dissenso in ordine all'ennesima emissione di bond o

alla loro appostazione in bilancio, o una richiesta di maggiori chiarimenti

131

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pubblicamente formulata - se non addirittura una denuncia alle preposte

Autorità - circa le anomalie della gestione e di talune decisioni di finanza

strutturata e di investimento quanto meno azzardato o ancora circa la

allocazione della liquidità o in ordine alla effettiva quantificazione e composizione

del debito, avrebbero costituito un intervento proficuo che, pure se non idoneo a

preservare la conservazione dell'integrità totale del patrimonio sociale, avrebbe

comunque espresso, tramite una funzione di allarme e manifesto controllo,

quella tutela della società (con i suoi soci e dipendenti) e dei diritti dei suoi

creditori che costituisce un dovere precipuo di tutti gli amministratori e dei

sindaci, evitando l'aggravamento del dissesto ovvero dei danni cagionati dallo

stesso. D'altra parte, anche l'eventuale inerzia di alcune Autorità di controllo non

escluderebbe la responsabilità degli amministratori e dei sindaci, che il

legislatore ha posto come garanti della correttezza delle scelte sociali nonché dei

diritti dei soci e dei creditori.

17.2. Il secondo motivo è infondato, per le considerazioni sviluppate supra

al n. 9.3 della presente motivazione.

17.3. Del pari infondato è il terzo motivo, per le ragioni esposte supra al n.

9.2. della presente motivazione.

17.4. Il quarto motivo è inammissibile, giacché non è deducibile con il

ricorso per cassazione la questione relativa alla pretesa eccessività della somma

di denaro liquidata a titolo di provvisionale (Sez. 4, n. 34791 del 23/06/2010,

Mazzamurro, Rv. 248348).

18. DAVIDE FRATTA

Il ricorso non può trovare accoglimento.

18.1. Il primo motivo è infondato, dal momento che la soluzione propugnata

dal ricorrente, oltre a non trovare alcun aggancio nell'ampia formulazione

letterale dell'art. 578 cod. proc. pen., collide con la funzione della costituzione di

parte civile nel processo penale, che mira a garantire, in una sede unitaria, la

delibazione della pretesa risarcitoria che trovi la propria causa petendi nei

pregiudizi derivati dal fatto storico attribuito all'imputato e che assume una

dimensione illecita, quale che sia la qualificazione che, a fini penalistici, ne venga

data dal giudice.

Ne discende che il giudice d'appello, nel dichiarare l'estinzione del reato per

intervenuta prescrizione, ancorché tale conseguenza scaturisca da una diversa

qualificazione dei fatti, è tenuto a decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili.

18.2. Il secondo motivo è, del pari, nel suo complesso, infondato.

Rinviando, per i profili generali, alle considerazioni svolte supra al n. 8 della

presente motivazione, quanto ai presupposti della responsabilità dei sindaci,

132

gl

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osserva la Corte che la sentenza impugnata, dopo avere dato ampio conto dei

segnali di allarme che caratterizzavano la posizione di Parmalat s.p.a., ha, con

motivazione che non esibisce alcuna manifesta illogicità, sottolineato la

gravissima inerzia manifestata dall'imputato nell'esercizio dei poteri di controllo

gravanti sui sindaci.

Ed, infatti, essa ha rilevato che nessuna verifica era mai stata fatta riguardo

alle problematiche coinvolgenti Par.fin. s.p.a., alla emissione dei bond o degli

altri titoli di debito, e più in generale alla politica finanziaria del gruppo, anche

nella misura in cui coinvolgeva Parmalat s.p.a., neppure nel corso del 2003. La

Corte territoriale ha aggiunto che lo stesso Fratta: a) aveva precisato di non aver

analizzato né mai preso in considerazione eventuali indici di instabilità

patrimoniale, economica o finanziaria rinvenibili dai bilanci della società o del

gruppo, non avendo egli - che pure era iscritto all'albo dei revisori - specifiche

competenze e fidandosi di conseguenza di ciò che gli veniva riferito dagli altri

due sindaci; b) aveva affermato che nessuna verifica sulla struttura

organizzativa della società era stata fatta dal collegio sindacale, che aveva

fiducia in Tanzi e Tonna, ritenendo che l'accentramento dei poteri in capo a tali

persone fosse un fattore positivo e di forza della società; c) che, pertanto, pur

essendo egli venuto a conoscenza da Del Soldato dell'esistenza di un sistema

informatico di controllo di gestione dei dati industriali (il cd. HQR), non aveva

mai svolto alcuna verifica sullo stesso, né aveva mai visionato i dati riportati da

tale sistema; d) che neppure riguardo alle acquisizioni compiute dal gruppo

erano state formulate mai richieste di chiarimenti o di approfondimenti da parte

del collegio, avendo i sindaci sempre ed anche in questo caso riposto la propria

fiducia nel fatto che gli amministratori agissero per il bene della società,

ritenendo sufficienti le notizie acquisite nel corso delle riunioni del consiglio di

amministrazione; e) che, del pari, nessuna verifica o richiesta di chiarimenti era

stata neppure effettuata dal collegio sindacale in ordine ai rapporti con le società

controllate né ai rapporti con le concessionarie, che costituivano uno dei sistemi

attraverso i quali Parmalat s.p.a. aveva creato un sistema di crediti fittizi o al

sistema di smobilizzo dei crediti della società.

Né, peraltro, a fronte di tale puntuale valutazione, ha pregio la censura

concernente la rilevanza causale dei colposi inadempimenti ascritti al Fratta,

giacché non è indispensabile (né possibile) conoscere con certezza "scientifica"

(non trattandosi di un esperimento ripetibile) se - attivandosi il Fratta e, con lui,

il collegio- gli eventi contestati sarebbero stati sicuramente evitati nella loro

realizzazione o, almeno, in alcune modalità della loro realizzazione; tuttavia, tale

è il presupposto dal quale il legislatore muove, nel configurare i penetranti poteri

di verifica assegnati ai sindaci (Sez. 5, n. 31163 del 01/07/2011, Checchi, Rv.

133

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250555).

Con riferimento all'articolazione del motivo che mette in discussione

l'applicabilità delle raccomandazioni della Consob alle società non quotate, è poi

appena il caso di rilevare che puntualmente la Corte territoriale ha precisato non

solo che erano gli stessi sindaci ad affermare di essersi attenuti a tutte le

indicazioni elencate appunto nel d. Igs. n. n.58 del 1998, ma anche che l'art. 165

di quest'ultimo decreto, all'epoca vigente, prevedeva espressamente che la

normativa si applicasse anche alle società controllate, come appunto Parmalat

s.p.a., da società con azioni quotate.

19. MARIO ALFONSO PAOLO MUTTI

Il ricorso non può trovare accoglimento.

19.1. Il primo motivo è infondato.

Nel paragrafo n. 7 che precede della presente motivazione si sono illustrate

le ragioni per le quali il fallimento non costituisce l'evento del reato di bancarotta

previsto dall'art. 216, comma primo, legge fall., richiamato dal primo comma del

successivo art. 223, con la conseguenza che non può trovare accoglimento la

tesi che ritiene necessario l'accertamento della sussistenza di un nesso eziologico

tra la condotta, realizzatasi con il compimento di un atto dispositivo che incide

sulla consistenza patrimoniale di un'impresa commerciale, e il fallimento. Sul

piano soggettivo, si è, pertanto, rilevato che, né la previsione dell'insolvenza

come effetto necessario, possibile o probabile, dell'atto dispositivo, né la

percezione della sua stessa preesistenza nel momento del compimento dell'atto

possono essere condizioni essenziali, ai fini dell'antigiuridicità penale della

condotta.

A tali principi si è attenuta la Corte territoriale, sottolineando la piena

consapevolezza da parte del ricorrente del carattere distrattivo delle condotte

poste in essere, attraverso gli esborsi sostenuti dal Gruppo di Collecchio per

l'acquisizione Sidac, operata tramite la società AGIM, riconducibile al primo, e

che crearono una significativa emorragia di risorse per un investimento

palesemente oltre che notoriamente improduttivo.

Sul punto, occorre considerare che la sentenza impugnata, con motivazione

che non palesa alcuna manifesta illogicità, ha sottolineato che la conoscenza, da

parte del ricorrente, del carattere artificioso delle tecniche utilizzate per occultare

le uscite di denaro dalla sub-holding alimentare tramite rapporti fittizi con le

correlate e, in definitiva, degli strumenti adoperati per mascherare le forme di un

finanziamento al Gruppo Aranca, la cui antieconomicità era evidente, si desume

dai seguenti elementi: a) in primo luogo, il fatto che il Mutti fosse consigliere di

Par.fin. s.p.a, oltre che longa manus dell'operazione; b) il fatto che, secondo

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quanto riferito dal Baratta, l'operazione, in ragione della quale la società Emmegi

si sarebbe sostanzialmente accollata i debiti verso le banche di Aranca, era stata

studiata proprio da Mutti e portata avanti da un suo funzionario, tale Fini; c) il

fatto che il Mutti era certamente a conoscenza del giro di cessione di crediti

intercorrente tra l'una e l'altra delle medesime società formalmente a lui riferibili,

quale documentato dalle stesse lettere da lui prodotte, nonché della

compromessa situazione finanziaria di Sidac, giacché, a quest'ultimo riguardo,

era stato proprio il ricorrente a trattare con le banche per una moratoria dei

debiti della stessa; d) il fatto che il Mutti era evidentemente a conoscenza anche

del fatto che il debito contratto non sarebbe mai ripianato, come risulta dalle

medesime lettere e dalla contabilità; e) il fatto che il carattere assolutamente

improduttivo dell'operazione emergeva non solo dalla due diligence redatta

preliminarmente dal coimputato Calogero, ma anche dalle reazioni affatto

negative all'acquisto espresse a viva voce da Tonna e dalle obiettive circostanze

rilevabili attraverso un

un semplice sopralluogo presso gli stabilimenti, palesemente fatiscenti e vetusti,

tali da scoraggiare clienti ed investitori.

Rispetto a tale articolato quadro probatorio, il ricorrente si concentra

esclusivamente sulla mancanza di una prova certa della sua conoscenza dei

risultati della due diligence effettuata dal Calogero, ma trascura gli altri profili.

Né assume rilievo che il Mutti fosse o non a conoscenza delle ragioni, legate

all'interesse di un uomo politico al salvataggio del gruppo Aranca, che avevano

indotto il Gruppo di Collecchio ad investire in un progetto chiaramente

fallimentare.

In tale contesto, non colgono nel segno le considerazioni, sviluppate

particolarmente nella memoria depositata nell'interesse del Mutti, concernenti la

posizione di controparte di quest'ultimo rispetto a Parmalat, alla stregua del

patto che prevedeva un compenso del primo, in ragione del suo coinvolgimento

nell'operazione. L'esistenza di una motivazione personale del Mutti non esclude,

infatti, sul piano logico la consapevolezza del carattere distrattivo delle attività

che, anche per il suo tramite, ebbero a realizzarsi.

Così come non assume rilievo la verifica del carattere simulato o non

dell'intervento operato attraverso la società AGIM, riferibile al Mutti, nel Gruppo

Aranca, giacché, in ogni caso, il finanziamento, effettuato senza alcuna

ragionevole garanzia di restituzione e con la consapevolezza dell'assenza di

qualunque realistica prospettiva di ritorno economico, configura un'evidente

sottrazione di risorse dell'impresa alle finalità cui esse sono destinate, quali che

possano poi essere gli ulteriori soggettivi intendimenti dell'agente.

19.2. Infondato è anche il secondo motivo, giacché, alla stregua delle

135

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superiori considerazioni, appare evidente che la ricostruzione dei fatti

logicamente operata dalla Corte territoriale rende palese, sotto il profilo

oggettivo, l'incoerenza, nella prospettiva delle esigenze dell'impresa, delle

operazioni poste in essere e, sotto il profilo soggettivo, la consapevolezza

dell'autore della condotta di diminuire il patrimonio della stessa per scopi del

tutto estranei alla medesima, talché corretta è la qualificazione dei fatti in esame

nei termini della bancarotta fraudolenta (Sez. 5, n. 47040 del 19/10/2011,

Presutti, Rv. 251218).

20. CAMILLO FLORINI

Il ricorso non può trovare accoglimento.

20.1 Esaminando preliminarmente, per ragioni di ordine logico, il quinto

motivo, con il quale si deduce la nullità derivata della richiesta di rinvio a

giudizio, per violazione dell'art. 415 bis cod. proc. pen., rileva la Corte che la

censura è infondata, alla luce delle considerazioni svolte nel n. 3 della presente

motivazione.

20.2. Il secondo e il terzo motivo, esaminabili congiuntamente per la loro

stretta connessione logica, sono, nel loro complesso, infondati.

Al riguardo, va, in primo luogo, osservato che non sussiste alcuna

contraddittorietà nella motivazione che, se, per un verso, in una prospettiva

garantistica rispetto alla posizione dell'imputato, ha escluso l'essenzialità e

insostituibilità del suo ruolo, al fine di qualificare il Florini come mero associato e

non come organizzatore nell'ambito della fattispecie associativa, per altro verso,

in relazione ai singoli episodi distrattivi, ha compiutamente ricordato gli incarichi

ricoperti, in vista dell'accertamento della necessaria consapevolezza della

sottrazione delle risorse travasate verso il settore Turismo alle finalità

imprenditoriali del soggetto erogatore.

Ciò posto, va rilevato che nel capo di imputazione è puntualmente stata

identificata la qualifica in forza della quale il ricorrente è chiamato a rispondere

delle distrazioni operate: egli viene indicato come beneficiario, in ragione del

ruolo àpicale ricoperto nella percettrice Hit s.p.a.

Siffatta rilievo, oltre a rendere inconferenti le assoluzioni, registrate in altro

processo, dalle imputazioni di bancarotta in danno della medesima società e di

Hit International s.p.a., dimostra, altresì, l'irrilevanza in radice delle critiche che

attengono alla mancata attribuibilità all'imputato dell'ideazione e dell'esecuzione

del sistema individuato per far convergere sulla società destinataria i pagamenti

eseguiti dal Gruppo di Collecchio, per il tramite dello schermo della Web

Holdings. Va, per completezza, aggiunto che comunque, anche dal punto di vista

organizzativo, il ruolo del Florini è stato logicamente ritenuto tutt'altro che

136 g/ .

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secondario, alla luce degli elementi che verranno sotto ricordati e senza che, in

senso contrario, possa valorizzarsi il mutamento di strategie operative, che,

sempre sul piano della coerenza argomentativa, ben si spiegano con un

progressivo affinamento delle tecniche di occultamento dei finanziamenti.

In realtà, ad assumere rilievo è solo la consapevolezza, da parte del Florini,

che le somme versate in favore della Hit s.p.a., la cui disastrosa condizione

economica era, al pari dell'intero Gruppo Turistico universalmente nota (e sul

punto, infatti, non si registrano censure nel ricorso), provenissero dalle società

poi fallite e fossero organizzate in vista del necessario sostegno economico al

primo.

Ora, la sentenza impugnata, con motivazione assolutamente razionale, non

ha affatto ritenuto decisiva la consegna da parte di Tonna a Florini del Third Loan

Agreement - che ha, invece, colto come elemento dimostrativo della piena

intraneità dell'imputato rispetto ai meccanismi operativi che si esaminano -, in

quanto ha collocato la prova di tale consapevolezza sin dal momento in cui il

Florini, da direttore finanziario di HIT s.p.a, aveva prelevato e distratto a proprio

vantaggio una parte del finanziamento (e, al riguardo, poco importa la causale

del prelievo a titolo personale dell'imputato, in quanto ciò che conta è la

consapevolezza della fonte di provenienza del denaro). Ed infatti, anche al di là

della trasversalità degli incarichi ricoperti nel settore Turismo, occorre

considerare, secondo l'argomentato apprezzamento dei giudici di merito: a) che

se è vero che non è l'imputato ad aprire il conto lussemburghese di Business &

Leisure, è vero però che tutte le movimentazioni sono effettuate quando Florini è

ancora direttore finanziario della società (26-29 giugno 2000), quando per

funzioni e poteri ha la responsabilità di supervisionare le fonti di

approvvigionamento finanziario di un settore in piena crisi; b) che il teste

Baratta, alla domanda, postagli in dibattimento, se sul conto lussemburghese si

vedesse da dove arrivavano i soldi, ha chiarito che era palese che la provvista

arrivasse da Parmalat Finance Corporation; c) che la teste Rigolli, dell'ufficio

legale Parmalat, del pari, aveva ribadito che, benché al livello ufficiale tutti si

affannassero a parlare di finanziamento da parte della società del Delaware, era

ben chiaro che era la famiglia Tanzi l'unica azionista e finanziatrice del settore

Turismo (e del resto, sarebbe stato assolutamente singolare che una società

terza avesse scelto di investire enormi flussi di denaro in un settore

costantemente in perdita); d) che, in definitiva, non era ragionevole ritenere che

persino una dipendente dell'ufficio legale fosse a conoscenza di una realtà -

peraltro facilmente intuibile - e ciò fosse sconosciuto al Florini, che non per caso

proprio al Tanzi si rivolgeva per ripianare le perdite e che, secondo il teste

Ferrari, aveva organizzato "in maniera molto scientifica e precisa il sistema dei

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travasi di risorse dal gruppo Parrnalat"; e) che lo stesso Florini aveva ammesso:

"Quanto alle registrazioni contabili, che mi si dicono effettuate indicando Web

Holdings come creditrice, a pensarci bene può darsi che io abbia potuto in

qualche occasione indicare l'appostazione di un bonifico ricevuto dalla Parmalat

al conto finanziamento socio": pag. 1349 della sentenza di primo grado; f) che

proprio su iniziativa del Florini era stato realizzato il cambio della banca di

appoggio per l'operazioni e ciò al fine di utilizzare la collaborazione di un

dipendente del nuovo Istituto, ricompensato con viaggi gratuiti per il significativo

importo di euro 97.000.

In tale contesto probatorio di assoluta pregnanza, non presenta alcuna

decisività l'argomento relativo alla missiva in realtà predisposta dal Baratta. Lo

stesso è a dirsi della materiale realizzazione dei contratti aventi ad oggetto la

falsa cessione dei marchi Kilburn, che corroborano un quadro probatorio

assolutamente autonomo, ritratto dagli elementi sopra ricordati.

Un ultimo cenno concerne le imputazioni relative al capo D.38, in cui le

critiche relative alla mancata specificazione delle forniture menzionate nel capo

di imputazione, accanto ai pagamenti operati da Parmalat s.p.a., rimangono

prive di decisività, alla luce del fatto che la Corte territoriale ha escluso

l'aumento ex art. 219, comma secondo, I. fall., ritenendo l'insussistenza di

diverse ipotesi di reato ex art. 223, comma primo, I. fall., e riconducendo i

diversi episodi ad un unico fatto reato.

20.3. Il terzo motivo è infondato per le considerazioni sviluppate nel

paragrafo 7 della presente motivazione, nel quale si sono illustrate le ragioni per

le quali il fallimento non costituisce l'evento del reato di bancarotta previsto

dall'art. 216, comma primo, legge fall., richiamato dal primo comma del

successivo art. 223.

La graniticità dell'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità,

con l'isolato precedente del quale s'è dato conto, esclude la necessità di investire

della questione le Sezioni Unite.

20.4. Il quarto motivo, relativo alla mancata concessione delle circostanze

attenuanti generiche, è inammissibile.

Al riguardo, va ribadito che, per il diniego della concessione delle attenuanti

generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli

elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è

sufficiente il riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, purché la

valutazione di tale rilevanza tenga obbligatoriamente conto, a pena di

illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto

dall'interessato (Sez. 3, n. 23055 del 23/04/2013, Banic, Rv. 256172).

Nella specie, con motivazione che non esibisce alcuna manifesta illogicità, la

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sentenza impugnata ha escluso le invocate circostanze attenuanti, valorizzando

"la gravità oggettiva delle condotte, la pesante incidenza delle stesse nel sistema

fraudolento e dissipatorio della Galassia Tanzi, la annosa e pervicace

collaborazione prestata ai perversi meccanismi distrattivi che conducevano infine

alla causazione di danni ingentissimi", in tal modo ritenendo recessivi i profili

indicati in ricorso, quanto alla fungibilità del ruolo del ricorrente, alla sua età, alla

sua incensuratezza, alla sua condotta processuale.

21. PAOLO SCIUMÈ

Il ricorso non può trovare accoglimento.

21.1. Il primo motivo è infondato.

Sul piano generale, si rinvia alle considerazioni svolte al n. 8 della presente

motivazione e, in particolare, al rilievo che la Corte territoriale, lungi, nella

sostanza del suo apparato argomentativo, dall'equiparare conoscenza e

conoscibilità dell'evento, ha correttamente affermato che chi consapevolmente si

sia sottratto, nell'esercitare i poteri-doveri di controllo attribuiti dalla legge,

accettando il rischio, presente nella sua rappresentazione, di eventi illeciti

discendenti dalla sua inerzia, risponde di essi, ai sensi dell'art. 40, comma

secondo, cod. pen.

Nei motivi seguenti, nell'esaminare la specifica posizione dell'imputato, si

esamineranno le censure mosse sul piano motivazionale alla sentenza

impugnata.

21.2. Del pari infondato, nel suo complesso, è il secondo motivo.

Con riguardo alle censure che investono la rilevanza dell'insolvenza

all'interno della fattispecie di bancarotta fraudolente, si rinvia alle considerazioni

sviluppate nel punto 7 della motivazione che precede.

Ciò posto, la Corte territoriale, con specifico riguardo alla sussistenza

dell'elemento soggettivo del delitto di bancarotta impropria per distrazione ex

artt. 216, 223, comma primo, f. fall., muovendo dall'esatta premessa che il dolo

va ravvisato nella coscienza e volontà di compiere atti di disposizione

incompatibili con l'interesse dell'impresa, che portino ad una riduzione delle

garanzie, in qualunque tempo essi siano stati commessi, ha concluso che lo

Sciumè, con la propria condotta all'interno del Collegio sindacale di società del

Gruppo Viaggi, ha contribuito sia attivamente, attestando la regolarità di

determinate operazioni, peraltro inesistenti e mai verificate, e consentendo la

prosecuzione delle erogazioni di denaro "a fondo perduto" ed il loro

mascheramento, sia onnissivamente, non rilevando e non denunciando tali illecite

condotte, alla consumazione di condotte gravemente depauperative del

patrimonio di Parmalat s.p.a. e delle garanzie dei creditori della stessa.

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A

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In rapida sintesi, la Corte d'appello, dopo avere sottolineato i ruoli ricoperti

dall'imputato, ha rilevato: a) che, in particolare, egli aveva rivestito la carica di

presidente del collegio sindacale di Villaggi Vacanze Spa e Vacanze s.r.l. (poi

Vacanze Tour Operator s.p.a.) dal 30 novembre 1992 al 30 luglio 1996, in un

periodo in cui il Gruppo Viaggi era impegnato in una ristrutturazione complessiva

che preludeva alla joint venture con FF.SS (il cd. "progetto ECP", che portava

Tanzi prima a vendere il 50% del Turismo a FF.SS, che apportava liquidità, e

quindi, dopo solo sei mesi, a ricomprare tale quota accollandosi un debito da 120

miliardi di lire), caratterizzato tra l'altro da svariati interventi di falsificazione sui

bilanci delle società di cui egli faceva parte (imputazioni di ricavi fittizi,

rivalutazioni di partecipazioni o di marchi, versamenti di capitale sociale fittizi),

finalizzate a non far apparire né le ingenti perdite che si registravano nelle

società, né il correlato e comprovato flusso di finanziamenti tacitamente veicolati

dal gruppo alimentare; b) che già all'epoca in cui Tanzi aveva acquisito, assieme

a Donzelli, la partecipazione del gruppo Vacanze dai precedenti proprietari, il

gruppo presentava una notevole tensione finanziaria, secondo quanto emergeva

dal cd. "appunto di Catelli", che, ricapitolando i dati del Gruppo Viaggi a tutto il

1993, annotava una "fuffa" - ossia crediti inesigibili - per 70 miliardi di lire, oltre

20 miliardi di lire di finanziamenti di comodo, perdite di esercizio per circa 34

miliardi ed un buco finale superiore ai 100 miliardi; c) che, pertanto, il buco

creatosi nel Gruppo ammontava, nel 1993 ad oltre 120 miliardi di lire; d)

nonostante il deconsolidamento da Parmalat s.p.a. delle società del Gruppo

Viaggi, la prima società aveva continuato nel tempo a sostenerle, sia con

interventi che venivano utilizzati dai soci come fittizi versamenti di capitale

sociale, sia con emissioni di fatture per operazioni inesistenti, che venivano

emesse dalle società del gruppo nei confronti della Parmalat, a giustificazione

delle relative, cospicue, uscite di denaro; e) che tali erogazioni, così come la

disastrosa situazione economico-finanziaria del Turismo, erano occultate

attraverso continuative falsificazioni contabili e di bilancio; f) che nel momento in

cui stava per concretizzarsi l'indicata l'operazione ECP, i debiti di Vacanze s.r.l.

verso Parmalat s.p.a., che pure precedentemente risultavano nel bilancio del

1993 per importi decisamente ragguardevoli, non erano più stati indicati nei

bilanci degli anni successivi, quando pure a favore di queste società si

continuavano a registrare importanti erogazioni da parte del gruppo alimentare;

g) che, in particolare, venivano iscritti crediti inesigibili, che poi venivano ceduti

a qualcuna delle finanziarie di famiglia; h) che, a seguito dell'incorporazione delle

società del Gruppo Viaggi in ITC&P, la gestione era stata accentrata tutta in capo

alla holding e l'aspetto economico e contabile era affidato alle cure di Giuseppe

Fioravanti, presso il cui studio si pianificava una politica di bilancio a livello

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(

centralizzato, fondata sulla falsificazione sistematica, attuata a livello periferico

dalle singole società, che materialmente operavano le imputazioni nei bilanci in

maniera tale che non apparissero in perdita.

La consapevolezza di siffatto modus operandi da parte del ricorrente è stata

fondata sulle seguenti considerazioni: a) da un lato, in uno dei documenti

rinvenuti presso lo studio Fioravanti, intitolato "aggiornamento delle

problematiche da risolvere e di punti da chiarire relativi al gruppo ITC&P", erano

puntualmente descritte le problematiche del gruppo turistico e le metodologie

utilizzate per risolverle, suggerendo la "formalizzazione contrattuale con soggetti

terzi delle politiche di bilancio 1993 e 1994 elencate nell'allegato uno", ossia la

redazione postuma di documenti idonei a giustificare le artificiose poste indicate

nel 1993 e nel bilancio 1994; b) che, pertanto, era certo che il riscontro operato

dal collegio sindacale presieduto dal ricorrente non poteva avere trovato alcun

conforto documentale in forza del quale attestare la regolare determinazione

della competenza cui attribuire ratei e risconti; c) che, del pari, non era

rinvenibile alcuna documentazione giustificativa dell'operazione, con la quale, nel

1995, Vacanze Tour Operator s.p.a. era intervenuta non solo per la copertura

della perdite in cui era incorsa la società Villaggi Vacanze di cui era controllante,

ma anche per la ricostituzione a 200 milioni di lire del capitale sociale che era

stato abbattuto, attraverso l'attribuzione di un cespite, che solo un mese dopo

era stato rivalutato, per "adeguarlo" a valori di mercato, di ben 4,8 miliardi di

lire, portandone così il valore complessivo a 5 miliardi di lire e consentendo di

raggiungere un utile di 195 milioni di lire; d) che anche in questo caso nessuna

richiesta di chiarimenti era stata rivolta dal collegio sindacale, nonostante che,

peraltro, nel momento in cui il bilancio era stato approvato con la partecipazione

rivalutata in modo così anomalo a 5 miliardi di lire, la stessa era già stata

venduta per soli 200 milioni di lire ad un'altra società; e) che i flussi di denaro

che da Parmalat s.p.a. sostenevano le società del Turismo venivano coperti con

falsificazioni contabili e di bilancio che, si riverberavano sul bilancio Parmalat e

su quello del consolidato Par. fin., approvato anche dallo Sciumè, pur in

presenza delle perplessità espresse da Tonna e Barachini; f) che le erogazioni di

denaro provenienti da Parmalat s.p.a., oltre a non essere rimborsate

integralmente, non venivano appostate nelle dovute voci di bilancio, come

emergeva agevolmente dal raffronto tra la situazione patrimoniale di dettaglio al

31 dicembre ordinariamente offerta ai sindaci e il bilancio finale, su cui si fonda il

giudizio affidato ai membri del collegio sindacale; g) che il flusso continuo di

denaro dal gruppo alimentare a quello turistico non era neppure stato

rappresentato nella voce 'operazioni con correlate' nei bilanci di Parmalat s.p.a.,

nonostante le contrarie raccomandazioni della CONSOB (Comunicazione n.

141

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SOC/RM 94002200 del 9-3-1994); h) che, pur essendo vero che tali condotte si

situano a notevole distanza dal default, è anche vero che la visibilità dei falsi e

degli aggiustamenti contabili operati per occultare le distrazioni e le operazioni

commerciali tra il Gruppo alimentare e quello Turistico rappresentano un

perspicuo e peculiare segnale di allarme di eventi pregiudizievoli cagionati dal

management di Parmalat ai danni del Gruppo di Collecchio e soprattutto delle

prassi operative del primo.

Siffatto percorso argomentativo della sentenza impugnata, esente da

qualunque manifesta illogicità, viene criticato in ricorso attraverso la

riproposizione di censure che non attingono il cuore della unitaria valutazione

degli elementi probatori operata dalla Corte d'appello, nel senso che reiterano in

modo generico l'argomento difensivo dell'inconsapevolezza, da parte dello

Sciumè, della crisi del gruppo turistico e dei flussi di denaro provenienti da

Parmalat s.p.a., senza preoccuparsi di minare il fondamento degli argomenti

spesi dalla decisione di secondo grado e sopra riassunti. Lo stesso è a dirsi degli

argomenti relativi all'estraneità dello Sciumè a Parmalat s.p.a. e all'assenza di un

dovere di esaminare, nella veste di amministratore non esecutivo della Par. fin.

s.p.a., i bilanci della prima.

21.3. Infondato, nel suo complesso, è il terzo motivo, concernente la dolosa

operazione di cessione pro so/vendo di crediti fittizi di Parmalat s.p.a., attraverso

la Contai - con conseguente allocazione a carico di quest'ultima presso la

Centrale Rischi del debito nascente dall'operazione -, ad Ifitalia, della quale lo

Sciumè era Presidente.

Il ricorso ripropone la tesi dell'inconsapevolezza dell'imputato in ordine alla

fittizietà dei crediti, trascurando di confrontarsi con i plurimi elementi valorizzati

dalla Corte territoriale per trarre, senza alcuna manifesta illogicità, l'opposta

conclusione.

La sentenza impugnata ha rilevato: a) nel dicembre 1999 Ifitalia aveva

organizzato una imponente operazione di factoring, avente le caratteristiche di

un finanziamento in pool del valore complessivo di 200 miliardi di lire, con Ifitalia

stessa capofila di una serie di altri istituti di factoring; b) che tale operazione -

tecnicamente definita come "fido per anticipi pro so/vendo" - era stata deliberata

all'unanimità dal consiglio di amministrazione di Ifitalia il 23/4/1999, nel quale

era presente anche il presidente Sciumé; c) che prevedeva l'anticipazione a

Contai dei crediti vantati da Parmalat s.p.a. verso i propri concessionari e

successivamente ceduti, per l'appunto, da quest'ultima a Contai, con correlata

fideiussione solidale prestata da Parmalat s.p.a. ad Ifitalia per un importo pari a

quello dell'anticipazione; d) che il debito che nasceva dall'operazione era stato

allocato in Centrale Rischi a carico di Contai; e) che, nonostante siffatte

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singolarità, l'istruttoria di fido del 1999 comprendeva analisi e commenti che

tendevano a rappresentare una sostanziale solidità dell'equilibrio economico-

finanziario del Gruppo, enfatizzando gli spunti positivi e trascurando totalmente

gli aspetti negativi, pur emergenti dalla documentazione, quali la diminuzione di

redditività del patrimonio netto, l'aumento dell'indebitamento complessivo (la

stessa Parmalat aveva comunicato che nel 1999 l'indebitamento finanziario era

passato da 1.500 a 3.400 miliardi di lire) e della leva finanziaria; f) che sempre

dalla lettura dei dati della relazione di fido emergeva la presenza di

sconfinamenti frequenti su tutto il periodo temporale di riferimento considerato

(agosto 2000/agosto 2001), sia nei confronti di Ifitalia sia di altre banche ed

istituti finanziatori; g) che gli analisti di Chevreux Italia - il cui rapporto era

presente nelle carte istruttorie - affermavano chiaramente di essere stati

costretti in tale contesto ad aumentare i parametri di rischio di Parmalat, proprio

per l'aumento dell'indebitamento e per il fatto che 1.000 miliardi di lire di

factoring pro-solvendo in essere dal 1998 aumentavano il rischio stesso, mentre

l'acquisizione del ramo Cirio latte avrebbe ridotto gli utili per azione nel biennio

1999-2000; h) che non era stato neppure approfondito il cd. "rischio debitore",

ovvero la capacità delle Concessionarie di far fronte ai debiti verso Parmalat

ceduti tramite Contai ad Ifitalia, laddove tali debiti traevano origine non già

dall'ordinario giro commerciale/produttivo, bensì da componenti di forniture non

ordinarie, ovvero investimenti economici-tecnici - costituiti da risorse a carattere

permanente funzionali all'esercizio dell'attività del concessionario, o da

immobilizzazioni tecniche -, cui le Concessionarie avrebbero pertanto dovuto

provvedere direttamente ma che di fatto venivano finanziate da Parmalat, e

quindi, infine, da Ifitalia; i) che, sebbene i contratti di factoring stipulati con

Ifitalia prevedessero che "il fornitore dovrà consegnare al factor entro 30 giorni

dalla data di emissione copia delle fatture relative ai crediti ceduti, unitamente

all'intera documentazione probatoria, costitutiva ed accessoria ai crediti stessi", i

crediti oggetto di cessione non avevano alcun riscontro contabile né in Contai né,

soprattutto, in Parmalat, talché dovevano essere ritenuti inesistenti; I) che, del

resto, in un ordinario sistema di archiviazione, il numero identificativo attribuito

alla fattura (quale documento attestante un'operazione sottostante) viene

assegnato secondo un'ascendenza progressiva, senza che l'emittente possa

operare nuove o diverse classificazioni, che determinino nuove progressioni

numeriche, laddove il numero identificativo delle fatture era, almeno nel primo

tabulato relativo alla prima cessione dei crediti, un numero a sei cifre e nei

successivi tabulati a sette cifre, con la conseguenza che in un anno Parmalat

sarebbe stata in grado di emettere almeno un milione di fatture: cosa

oggettivamente impossibile in quanto ciò avrebbe comportato che, solo con le

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fatture scontate presso Ifitalia, Parmalat avrebbe raggiunto un importo di un

miliardo di euro di fatturato, pari al valore del fatturato rappresentato in bilancio;

m) che le fatture emesse in una stessa data recano numeri tanto distanti tra loro

da comportare l'emissione di decine di migliaia di fatture in uno stesso giorno;

n) che, nonostante tali anomalie, l'operazione era proseguita, in una lunga serie

di rinnovi del fido operati in una sorta di compensazione tra il pagamento dei

crediti effettuato da Contai e il nuovo accredito effettuato da Ifitalia, per ben

quattro anni.

A fronte di tali imponenti indici di anomalia e tenendo conto del rilevante

importo e della significativa durata nel tempo del rapporto, appaiono

assolutamente prive di specificità le critiche del ricorrente in ordine all'assenza di

consapevolezza del carattere fittizio dei crediti ceduti.

In tale contesto, l'assenza di documentate pressioni dello Sciumè appare

priva di qualunque rilievo, dal momento che l'operazione era stata avallata

appunto dal consiglio di amministrazione di Ifitalia.

Quanto alla qualificazione giuridica, non coglie nel segno l'obiezione secondo

cui alla fine l'operazione avrebbe creato un danno semplicemente ad Ifitalia e

non contribuito al dissesto di Parmalat, giacché, come rilevato dalla Corte

territoriale, il dissesto Parmalat è evidente conseguenza di un ricorso dissennato

ed eccessivo al credito, palesato anche in questo episodio, concluso con un

finanziamento di oltre 113 miliardi, tutto fondato su crediti fittizi.

Al riguardo, va ribadito che il momento caratteristico della condotta dedotta

dall'art. 223, comma secondo, n. 2, I. fall., si coglie nel richiamo alla nozione di

"operazione" (connotato prescrittivo ignoto alla generale previsione della

bancarotta fraudolenta), la quale richiama necessariamente un quid pluris

rispetto ad ogni singola azione (o singoli atti di una medesima azione),

postulando una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente, non già

direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione,

occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità

strutturale, quale è dato riscontrare in qualsiasi iniziativa societaria che implichi

un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato;

proprio l'autonomia concettuale della condotta dettata dall'art. 223, comma 2, n.

2 esclude che per lo stesso atto discendano due distinte sanzioni penali. (Sez. 5,

n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti s.p.a., Rv. 247313).

È proprio in tale maggiore complessità strutturale, evidenziata nel caso in

esame dalla Corte territoriale, che si coglie la specialità della fattispecie applicata

in relazione alla figura del ricorso abusivo al credito, disciplinata dall'art. 218 I.

fall. Né fondato appare, alla luce della ricostruzione in fatto operata dalla

sentenza impugnata, il richiamo all'ipotesi delle operazioni di grave imprudenza

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volte per ritardare il fallimento, le quali comprendono le attività finalisticamente

orientate a ritardare il fallimento, ma ad un tempo caratterizzate da grave

avventatezza o spregiudicatezza, che superino i limiti dell'ordinaria

"imprudenza", che, secondo la comune logica imprenditoriale, può a volte

giustificare il ricorso, da parte dell'imprenditore che versi in situazione di

difficoltà economica, ad iniziative "coraggiose", da extrema ratio, ma

ragionevolmente dotate di probabilità di successo, al fine di scongiurare il

fallimento stesso (Sez. 5, n. 24231 del 20/03/2003, Griffini, Rv. 225938).

Del pari infondata, per manifesta infondatezza, è poi l'ulteriore articolazione

del motivo concernente il pagamento delle commissioni in favore di Ifitalia in

relazione alle cessioni di credito sopra ricordate (capo D.31), il cui carattere

distrattivo è stato correttamente fatto discendere dalla stretta correlazione con

l'intera operazione. Ed, infatti, puntualmente si è ritenuto che il capo D.31, già

ascritto all'imputato e da cui il medesimo era stato assolto dal Tribunale, dovesse

essere assorbito nella fattispecie sub C.8.2.

21.4. Il quarto e il quinto motivo, esaminabili congiuntamente in quanto la

ritenuta bancarotta per distrazione correlata alla distribuzione dei dividendi

Parmalat s.p.a. e Par. fin. s.pa ., oggetto del quinto motivo, è logicamente

correlata al concorso nelle false comunicazioni sociali di cui al quarto motivo,

sono infondati.

Premesso che le affermazioni della Corte territoriale si riferiscono

evidentemente al bilancio relativo all'esercizio del 2002, si rileva che le censure

del ricorrente non colgono, in punto di fatto, il cuore della complessiva

ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, la quale, oltre agli episodi

esaminati nei motivi precedenti e al patrimonio di conoscenze che essi rivelano,

ha valorizzato non il contributo causale dello Sciumè nella cd. "operazione

Aranca", ma la consapevolezza che l'avere partecipato al gruppo dirigenziale per

contrattare con banche, dipendenti e finanziatori un piano di ristrutturazione del

debito aveva fornito all'imputato, quanto al carattere rischioso, dissipativo e

improduttivo anche di tale intervento e alla capacità falsificatrice del

management di Parmalat s.p.a. e Par.fin. s.p.a.

In definitiva, le argomentazioni della Corte d'appello non si fondano

necessariamente sul concorso dello Sciumè nelle singole ipotesi delittuose, ma

sulla idoneità della stesse a rivelarne la piena consapevolezza dei continui

drenaggi di denaro per finanziare imprese in costante perdita e la costante

compartecipazione cosciente alle falsificazioni di bilancio correlate.

Va aggiunto, con specifico riferimento al quinto motivo, che l'intervenuto

fallimento e la conseguente configurabilità del reato di bancarotta per distrazione

sono correttamente apparsi prevalenti, in punto di qualificazione giuridica,

02

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rispetto all'invocata ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 2627 cod. civ., per

l'assorbente ragione che quest'ultima norma contiene la clausola di salvezza, per

l'ipotesi che il fatto non costituisca un più grave reato.

21.5. Infondato è nel suo complesso il sesto motivo.

Rinviando a quanto detto nel punto 21.3 a proposito del rapporto tra la

fattispecie di bancarotta fraudolenta e quelle di bancarotta semplice o di ricorso

abusivo al credito, va rilevato che l'accertamento di fatto operato dalla Corte

territoriale non appare inficiato da alcun vizio di manifesta illogicità, giacché, in

estrema sintesi, valorizza non tanto l'allarme generato dal mancato rispetto delle

letterali indicazioni fornite al mercato dal management, ma il fatto che l'avere

disatteso quest'ultimo i sostanziali impegni presi con il mercato necessariamente

appariva a professionisti come lo Sciumè, ben consapevoli di gran parte degli

illeciti che avevano caratterizzato la gestione del gruppo di Collecchio, come un

non equivoco indice di anomalia delle operazioni, che avrebbe imposto

l'attivazione del dovere di intervenire.

La Corte territoriale, al riguardo, ha sottolineato: a) che almeno due

emissioni di bond - conclusi a condizioni molto onerose, e comunque onerosi in

sé stessi, attese le ben note reazioni del mercato e la già esorbitante entità del

debito e degli oneri finanziari - erano state rese note e discusse nella loro realtà

nei consigli di amministrazione del 3 luglio e del 2 settembre 2003, prima della

loro definitiva emissione, ed avrebbero pertanto potuto essere impedite a priori,

sol che si fosse inteso farlo, alla luce della palese anomalia gestionale che

rivelavano; b) che, anche con riferimento alla terza emissione, pur

ammettendosi che quanto preliminarmente discusso in nel comitato non fosse

integralmente giunto in consiglio di amministrazione, comunque l'operazione si

poneva, come s'è detto, in sostanziale ed evidente contrasto non solo con

quanto pubblicamente annunciato per mesi dal CF0 e dal Tanzi di Parmalat, ma

persino con le indicazioni generali scaturenti dalla decisione del medesimo

consiglio di amministrazione di cessare le emissioni obbligazionarie e di utilizzare

la liquidità per coprire il debito e quindi ridurre gli oneri finanziari; c) che, in

definitiva, l'emissione di bond per un miliardo circa di euro effettuata nel volgere

di soli due mesi, dopo che il mercato aveva penalizzato fortemente il titolo

Parmalat, appariva segnale indiscutibile di allarme idoneo ad imporre l'intervento

dei più incisivi poteri di controllo della documentazione esistente, ancorché, si

ritiene di aggiungere, essa non fosse stata spontaneamente offerta in visione ai

consigliere non esecutivi.

21.7 Inammissibile, per manifesta infondatezza, è il settimo motivo, in

quanto, come già si è detto nel punto 17.1 della presente motivazione

l'attivazione dei poteri di verifica e di denuncia delle operazioni da parte di titolari

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14/'

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di organi investiti di un dovere di agire informati avrebbe costituito un intervento

proficuo che, pure se non idoneo a preservare la conservazione dell'integrità

totale del patrimonio sociale, avrebbe comunque espresso, tramite una funzione

di allarme e manifesto controllo, quella tutela della società (con i suoi soci e

dipendenti) e dei diritti dei suoi creditori che costituisce un dovere precipuo di

tutti gli amministratori e dei sindaci, evitando l'aggravamento del dissesto

ovvero dei danni cagionati dallo stesso. D'altra parte, anche l'eventuale inerzia di

alcune Autorità di controllo non escluderebbe la responsabilità degli

amministratori e dei sindaci, che il legislatore ha posto come garanti della

correttezza delle scelte sociali nonché dei diritti dei soci e dei creditori.

21.8. L'ottavo motivo è infondato per le considerazioni sviluppate al punto 5

della motivazione che precede.

21.9. Del pari infondato è il nono motivo, per le ragioni indicate nel punto

9.2 della motivazione che precede.

22. FABIO BRANCHI

Il ricorso non può trovare accoglimento.

22.1. Il primo motivo è infondato.

Ribadito che, in tema di sospensione del processo per incapacità

dell'imputato, per escludere il requisito della sua cosciente partecipazione non è

sufficiente la presenza di una patologia psichiatrica, anche grave, ma è

necessario che l'imputato risulti in condizioni tali da non comprendere quanto

avviene e da non potersi difendere (Sez. 6, n. 2419 del 23/10/2009 - dep.

20/01/2010, Baldi, Rv. 245830), osserva la Corte che la sentenza impugnata e

ancor prima l'ordinanza letta all'udienza del 12/12/2011 hanno sottolineato, con

motivazione esente da vizi logici, che l'imputato, già il 16/01/2013, al momento

delle dimissioni dal centro riabilitativo presso il quale era stato ricoverato, aveva

registrato un apprezzabile recupero fisico e neurologico, che gli avrebbe

consentito per i nove anni successivi di riprendere la propria professione di

commercialista e di continuare a provvedere da solo alle proprie esigenze di vita.

E ciò senza dire, per quanto sopra rilevato esaminando il contenuto del ricorso

dell'imputato, che lo stesso ha assunto: a) la carica di amministratore delegato

in Hit Holding Italiana Turismo s.p.a. in data 31 gennaio 2003 e lo ha mantenuto

mantiene fino al 28 gennaio 2004; b) la carica di amministratore delegato in Hit

International s.p.a. il 24 gennaio 2003, mantenendola fino al 28 gennaio 2004;

c) ha mantenuto gli incarichi di presidente del collegio Sindacale, anche dopo la

malattia, nelle s.r.l. Sata, Agis e Coloniale.

In presenza di tale congerie di incarichi, diviene arduo contestare la tenuta

dell'apparato argomentativo della sentenza di merito che, alla stregua degli

147 A.,

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elementi emergenti dalla documentazione sanitaria e dalle relazioni specialistiche

in atti, ha escluso la sussistenza di condizioni di incapacità del Branchi di

partecipare coscientemente e attivamente al processo.

22.2. Il secondo e il terzo motivo, esaminabili congiuntamente per la loro

stretta connessione logica, sono inammissibili.

Al riguardo, si rileva l'assoluta genericità delle critiche aventi ad oggetto gli

elementi valorizzati dalla sentenza impugnata, per individuare i risalenti indici di

anomalia gestionale del Gruppo e la piena percezione degli stessi da parte del

ricorrente. E ciò soprattutto alla luce dell'ampio apparato argomentativo che ha

sottolineato la trasversalità e durata nel tempo degli incarichi assunti dal Branchi

anche nelle società strategiche, perché destinate, nella doppia struttura a

incrocio delle diverse compagini, ad assicurare nel suo livello superiore, il

controllo operativo delle famiglie Tanzi (le società Coloniale, Agis e Sata).

La permanenza di siffatti incarichi e anzi l'assunzione di nuovi ruoli, anche

amministrativi, pur dopo l'ictus, rende carente di pregio la critica generica e

priva di ogni obiettivo fondamento secondo la quale il ricorrente non era in

condizione di sottoscrivere, in data 11/02/2003, 17/7/2003 e 21/7/2003, i

bonifici distrattivi effettuati da Hit s.p.a., per coprire posizioni debitorie assunte

da Stefano Tanzi in relazione a buchi di gestione del settore Turismo.

A questo riguardo, il fatto che la Corte territoriale, pur avendo escluso la

responsabilità del Branchi per i fatti posti in essere sino alla fine di gennaio 2003

(e ciò nonostante che le dimissioni dall'istituto di riabilitazione fossero avvenute

nella metà dello stesso mese), abbia valorizzato, al fine di apprezzare la capacità

del ricorrente, la presenza di quest'ultimo alle assemblee di Hit s.p.a. ed Hit

International s.p.a. del 24 gennaio 2003 e del 31 gennaio 2003, nonché al

momento del rogito notarile del medesimo 31 gennaio 2003, non palesa alcuna

contraddittorietà, perché la sentenza impugnata, lungi dall'individuare

responsabilità per fatti anteriori al 31 gennaio 2003, mira solo a cogliere dati

obiettivi attestanti l'operatività del Branchi, in epoca successiva, di sottoscrivere i

ricordati bonifici distrattivi.

Né, in senso contrario, può addursi l'esito del procedimento concernente il

Branchi, relativo al cd. filone Parmacalcio, sul quale insiste la memoria

depositata nell'interesse dell'imputato, giacché il fatto che in un caso sia stata

documentata la falsità della firma apposta sulla relazione del Collegio dei sindaci

sul bilancio del 30/06/2002, non consente di desumere una regola generale per

la quale il Branchi veniva dato ordinariamente presente, anche in sua assenza,

alle riunioni del Collegio sindacale, con apposizione di firme apocrife.

Va aggiunto che la sentenza impugnata, con argomentazioni criticate in

modo aspecifico e frammentario dal ricorrente, ha puntualizzato che gli artifici

148 Ì .

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contabili che rendevano apparentemente legittime o che comunque valevano ad

occultare le continue distrazioni e dissipazioni operate sia nel turismo, sia nelle

finanziarie di famiglia, sia nelle altre società correlate erano da Branchi stesso

predisposti e talvolta erano addirittura da lui ideati, secondo quanto

riconosciuto dal Tonna, nell'interrogatorio del 12/11/2009 e all'udienza del

16/11/2009 e dal Tanzi, nell'interrogatorio del 30/11/2009. La Corte territoriale

ha rilevato che, se pure era esatto che il Branchi recepiva le indicazioni di Tonna

e predisponeva materialmente, con la collaborazione di soggetti esterni - quali

Franco Barbieri, gestore del centro di elaborazione dati, che deteneva la

contabilità di Agis, Sata e Finaliment, Nuova Holding ed altre ancora - il supporto

materiale per la creazione dei documenti contabili sovrapponibili alle operazioni

deliberate e poste in essere dai vertici di Parmalat, che transitavano per le tre

finanziarie, era del pari vero che l'imputato, lungi dal costituire una sorta di

longa manus tecnica del Tonna, aveva ammesso di avere ben compreso il

significato delle operazioni poste in essere (ad es., con riguardo all'acquisto delle

azioni della Boschi o all'utilizzazione del denaro della società Streglio o, ancora,

ai meccanismi distrattivi attuati tramite la società Sata e nel settore Turismo) ed

era stato indicato dal medesimo Tonna, nell'interrogatorio del 12/11/2009, come

colui che aveva studiato con quest'ultimo "le situazioni", riuscendo talvolta a

trovare la soluzione per primo, come nel caso del travaso dei debiti della società

Sata nella società Bonlat.

La materiale agevolazione, con falsità contabili, si è peraltro tradotta,

secondo il coerente apprezzamento dei giudici di merito, in un danno

patrimoniale per Parmalat s.p.a., Par.fin. s.p.a. e PFC e nella conseguente

falsificazione derivata dei relativi bilanci sub consolidati e consolidati. Tali profili,

peraltro, del tutto ragionevolmente sono stati ritenuti come conosciuti dal

Branchi, commercialista esperto, che frequentava quotidianamente gli uffici della

dirigenza, seguiva e custodiva la contabilità, sia come sindaco, sia come

consulente, della maggior parte delle società in difficoltà del gruppo o delle

correlate ove si operava la maggior parte delle distrazioni e che, pertanto, ben

sapeva che il patrimonio della società Coloniale era stato sempre funzione e

indiretta espressione dei valori (reali) di Par.fin. s.p.a.

Ne discende, anche per tale profilo, l'assoluta genericità della critica,

reiterata con il ricorso per cassazione, secondo la quale il fatto che Branchi non

fosse sindaco o amministratore di Parmalat s.p.a., di Par.fin. s.p.a. e della PFC,

non gli avrebbe attribuito né consapevolezza, né alcun potere interdittivo o

alcuna potenzialità compartecipativa nei reati

Le superiori considerazioni giustificano razionalmente la conclusione del

ruolo partecipativo del Branchi sia nelle distrazioni e nei falsi contabili in tal

149 d

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modo operati, sia con riferimento al reato associativo.

Va, infine, sottolineato che il fatto che le società Sata e Agis siano tornate in

bonis dopo l'apertura della procedura fallimentare o che la s.r.l. Pisorno sia

proprietaria di un bene appetibile, è un profilo privo di ogni rilievo: e ciò sia

perché, la chiusura delle procedure fallimentari è, in concreto, diretta

conseguenza della rinuncia al credito da parte di Parmalat s.p.a., per effetto

dell'intervenuta acquisizione delle società, sia perché, in ogni caso, la chiusura

del fallimento per sopravvenuta mancanza del passivo non esclude la legittimità

e l'efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento e non fa venir meno sul

piano oggettivo il reato di bancarotta fraudolenta documentale (Sez. 5, n. 21872

del 25/03/2010, Laudiero, Rv. 247443).

Inammissibile è, infine, l'ulteriore articolazione del secondo motivo, con la

quale si censura l'impugnata sentenza, per non avere riconosciuto le circostanze

attenuanti generiche con criterio di prevalenza.

Al riguardo, va ribadito che, in tema di concorso di circostanze, le statuizioni

relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti sono

censurabili in sede di legittimità soltanto nell'ipotesi in cui siano frutto di mero

arbitrio o di un ragionamento illogico, e non anche qualora risulti

sufficientemente motivata la soluzione dell'equivalenza, allorché il giudice,

nell'esercizio del potere discrezionale previsto dall'art. 69 cod. pen., l'abbia

ritenuta la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena in concreto irrogata

(Sez. 6, n. 6866 del 25/11/2009 - dep. 19/02/2010, Alesci, Rv. 246134).

Nella specie, la Corte territoriale, con argomentazione che non palesa alcuna

arbitrarietà o illogicità, ha appunto escluso il giudizio di prevalenza delle

concesse circostanze attenuanti generiche, in ragione della estrema pluralità,

gravità e durata nel tempo della condotta compartecipativa del Branchi, in nulla

ridotta dalle pur pregiudicate condizioni di salute.

23. LUCIANO SILINGARDI

I motivi di ricorso non possono trovare accoglimento, fermo restando quanto

verrà rilevato al termine della presente motivazione, a proposito dell'intervenuta

prescrizione della ritenuta fattispecie associativa.

23.1. I primi quattro motivi e l'ottavo motivo, da esaminare

congiuntamente, in quanto, nella loro complessa articolazione fattuale, criticano

la ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, sono inammissibili, in

quanto, attraverso una lettura frazionata dell'apparato argomentativo della

sentenza impugnata, aspirano ad una rilettura delle risultanze istruttorie,

esaminate dalla Corte, con motivazione che non esibisce alcuna manifesta

illogicità.

150

A

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Al riguardo, va ribadito che gli aspetti del giudizio che consistono nella

valutazione e nell'apprezzamento del significato degli elementi acquisiti

attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità,

se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità

dimostrativa, con la conseguenza che sono inammissibili in sede di legittimità le

censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione

del materiale probatorio (di recente, v. Sez. 5, n 18542 del 21/01/2011, Carone,

Rv. 250168 e, in motivazione, Sez. 5, n. 49362 del 19/12/2012, Consorte).

In effetti, le doglianze muovono da una critica della lettura fornita dalla

Corte territoriale all'episodio dell'incontro del giorno 08/12/2003, trascurando di

considerare che le valutazioni operate dai giudici di merito risolvono tutte le

possibili ambiguità dello stesso (come pure quelle legate alla conoscenza o non

dell'inesistenza del fondo Epicurum), alla luce del precedente, analitico esame

delle vicende in cui si è concretato il ruolo pervasivo svolto dal Silingardi nello

svolgimento delle attività delle società del Gruppo di Collecchio.

È proprio in relazione alla pluralità di ruoli ricoperti dal Silingardi che i giudici

di merito, del tutto razionalmente, hanno tratto la conseguenza che l'imputato si

era necessariamente reso conto dell'utilizzo dei passaggi di denaro non

giustificati giuridicamente da Parmalat s.p.a. a società personali di Tanzi ed al

Turismo, delle difficoltà del gruppo e delle conseguenti falsificazioni ed

aggiustamenti di bilancio , oltre che della fraudolenza e dannosità di determinate

operazioni di finanziamento concluse nell'ultimo periodo di vita della holding

parmense.

A ciò deve aggiungersi, ancora in via generale, che la ricostruzione operata

dalla Corte territoriale, correttamente si muove nella cornice di accertamento del

dolo, quale delineata supra, nel punto 7 della presente motivazione, per ciò che

attiene alle ipotesi di bancarotta distrattiva, e nel punto 8, per quanto riguarda la

responsabilità degli amministratori non esecutivi.

È in tale contesto che si colloca la conclusione che attribuisce all'imputato

una effettiva ed ampia conoscenza degli illeciti affari e delle fraudolente modalità

operative del gruppo e del suo "patron", come pure una intensa cooperazione

con la cd. "cabina di regia".

E ciò alla luce della complessità di ruoli ricoperti, oltre che degli intensi

rapporti personali - che, va subito aggiunto, nella sentenza impugnata, appaiono

sullo sfondo, rispetto all'intensità della collaborazione professionale.

Il Silingardi, titolare di un studio da commercialista, è stato, infatti,

consulente contabile di alcune immobiliari di famiglia, di Finaliment s.r.I., Agis

s.r.l. e Sata s.r.I., di cui tiene i libri e le scritture contabili fino al 29/11/93 . Nei

primi anni '90 il suo studio predispone alcune perizie per ragioni fiscali

151

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nell'interesse di Parmalat e ed altre nel 1999 e 2000 per la valutazione di Eurolat

e per la Boschi. Accanto a ciò, il Silingardi è stato: a) membro del consiglio di

amministrazione di Banca Intesa dal 28/1/1999 al 12/6/2000 e del Comitato

esecutivo di tale Banca dal 20/4/1999 al 12/6/2000, b) consigliere di Cassa di

Risparmio di Reggio Emilia e di Medio Credito Padano, e quindi Presidente del

consiglio di amministrazione della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza dal

27/4/1987 al 12/6/2000, rimanendo Presidente della Fondazione della medesima

dal 13/12/1991 al 20/1/2004.

Peraltro, sia Calisto Tanzi che lo stesso Silingardi non hanno avuto esitazioni

a riconoscere che, proprio grazie all'appoggio del primo, il secondo aveva

conseguito la presidenza del consiglio di amministrazione dell'Istituto. La

sentenza impugnata ha quindi valorizzato il fatto che l'imputato, in tale veste

aveva presieduto le riunioni del consiglio di amministrazione in cui erano stati

molteplici finanziamenti verso le società maggiormente in difficoltà riferibili a

Tanzi, con delibere tutt'altro che limpide. Tali dati oggettivi rendono i dati

emergenti dalle prove dichiarative come pure le risultanze della relazione della

Banca d'Italia, redatta a seguito di ispezione svolta presso Cariparma dal

novembre 1997 al giugno 1998, meri elementi di riscontro.

Se a ciò si aggiungono i ruoli sopra ricordati del Silingardi nella galassia

Parmalat, s'intende come del tutto razionalmente la Corte territoriale abbia

correlato agli incarichi di consulente contabile di Tanzi per le società Sata e Agis,

attraverso cui si sono realizzate svariate distrazioni ai danni di Parmalat s.p.a.,

con correlate cessioni di crediti fittizi, e di Presidente della Cassa di Risparmio di

Parma - attraverso cui transitavano molti dei finanziamenti alle società personali

di Tanzi ed al Turismo -, le conclusioni raggiunte.

In questa prospettiva, le dichiarazioni di Tonna, esaminate in modo non

manifestamente illogico dalla sentenza impugnata e invece valorizzate in modo

frazionato dal ricorrente, illustrano ampiamente la rilevanza del ruolo Silingardi

"quando era fuori dalla società" più che "quando era consigliere".

In effetti, fino a tutto il 1993 le scritture contabili e l'elaborazione dei bilanci

della Sata erano curati da Silingardi medesimo tramite Revinda, società da lui

fondata diversi anni prime e che aveva sede nel suo studio professionale, ove

peraltro era situata anche la sede della stessa Sata. La Corte d'appello ha anche

ricordato: a) che al suo abbandono della attività di consulente delle società di

famiglia di Tanzi - in ragione della intervenuta nomina a Presidente di

Cariparma- , così come ricordato da Gorreri, Tonna, Tanzi e confermato dallo

stesso appellante, l'imputato aveva chiesto e ottenuto tuttavia di passare

l'incarico al suo fidato collega Branchi, che ne era il referente; b) che ulteriori

nominativi di componenti del collegio sindacale di Parmalat s.p.a., di Sata o del

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Turismo erano stati forniti a Tanzi per lo più sempre da Silingardi, come da lui

stesso ammesso, e che in buona misura si trattava di suoi giovani conoscenti; c)

che sempre il Silingardi aveva indicato sue impiegate o collaboratrici del suo

studio professionale, come Maestri, Ferraguti e Veroni), come sindaci effettivi di

Sata e la Veroni anche di società del Turismo, di Boschi e di Fratelli Strini; d)

che dai sequestri effettuati presso lo studio Silingardi risultava che i verbali delle

relative riunioni collegiali venivano direttamente trasmessi presso lo studio; d)

che la Maestri e la Ferraguti neppure sembravano ricordare tale incarico, così

come non le ricordavano in una simile veste né Tanzi, né Tonna, il quale, anzi,

aveva dichiaratoche in effetti il collegio sindacale di Sata neppure si riuniva mai,

poiché i bilanci venivano redatti " dagli studi a cui erano appoggiati" i sindaci, e

venivano approvati anche senza assemblea, atteso che comunque i soci erano la

famiglia Tanzi.

Il complesso di tali elementi, ancora una volta attinto da censure prive di

specificità del ricorrente, ha fondatamente indotto la sentenza impugnata a

cogliere la pervasività del ruolo del Silingardi nella gestione delle società e la

necessità per chi le amministrava di poter contare sulla compiacente

collaborazione del primo.

Ed è in tale contesto che deve essere colta la ricostruzione della

consapevolezza, da parte dell'imputato, delle ipotesi distruttive consumate, con

modalità speculari, attraverso le società Sata e Agis, a fronte dei costanti e

consistenti flussi di denaro, privi di giustificazioni e senza ritorno, in favore delle

due società, da parte di Parmalat s.p.a. , i cui crediti venivano ceduti ai soci

Tanzi Calisto e Tanzi Giovanni, e in questo modo il credito di Parmalat Spa verso

Sata e Agis diveniva un credito dei Tanzi nei confronti delle società. A quel punto

la posizione debitoria si estingueva in parte mediante rinuncia al credito stesso

da parte dei soci, ovvero (per la maggior parte) mediante compensazione

contabile tra il credito complessivo vantato dalle due società verso i soci per i

prelevamenti di denaro dagli stessi compiuti, oppure mediante compensazione

con il credito vantato dai soci verso le società derivante dalle cessioni di cui si è

detto. In questo modo si giungeva all'abbattimento del debito delle società verso

Parmalat, all'occultamento di perdite per cifre di miliardi di lire ed alla

compensazione del debito complessivo dei soci verso le società.

La valutazione operata dai giudici di merito, quanto all'evidente significato di

tali operazioni, non è certo contrastata dal reiterato assunto difensivo, secondo il

quale il Silingardi si limitava ad eseguire direttive altrui, giacché, ai fini della

responsabilità per le ipotesi distruttive, rileva esclusivamente la coscienza e

volontà di contribuire ad azioni depauperatrici e falsificatorie, senza che, per

quanto detto supra al n. 7 della motivazione, quale che sia il momento in cui si

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collocano rispetto alla dichiarazione di fallimento. E ciò senza dire che, pur

quando il Silingardi aveva lasciato l'incarico di consulente contabile di Sata e

Agis, per diventare Presidente di Cariparma, comunque le erogazioni erano

continuate mediante addebito sul conto corrente Sata, acceso proprio in

quest'ultimo istituto bancario; d'altra parte, proprio la falsità delle attestazioni

relative ai versamenti dei soci, ovvero ad un equilibrio di bilancio di fatto

assolutamente inesistente, consentiva a Sata di accedere anche negli anni

successivi a finanziamenti che altrimenti le sarebbero stati preclusi.

Nel ricorso, mentre si valorizza il fatto che il ruolo di Presidente di Cariparma

di Silingardi non gli imponeva certo una verifica delle singole operazioni, si

trascura del tutto il fatto che la motivazione ha valorizzato la pregressa

conoscenza del modus operandi descritto, le ragioni del suo incarico nell'Istituto

e, soprattutto, il fatto che lo stesso Silingardi aveva dichiarato di avere r potuto

effettivamente verificare l'esistenza di ripetuti flussi finanziari da Parmalat s.p.a.

nei confronti di Agis, Sirio e soprattutto nei confronti di Sata s.r.I., flussi affatto

privi di giustificazione giuridica, ma, a suo dire, correlabili ad una situazione

temporanea - ciò che, peraltro, contrasta con la durata negli anni delle

operazioni - con la necessità di fornire a Sata la provvista per consentirle di

estinguere i debiti di Parmalat s.p.a., a seguito delle perdite prodotte da Odeon

TV - senza peraltro che si spieghi per quale ragione la Sata avrebbe dovuto

pagare debiti gravanti sulla società erogatrice del denaro (è in questo contesto

che si colloca la dichiarazione dello stesso imputato, secondo cui egli aveva

rappresentato la singolarità della situazione ai vertici di Parmalat s.p.a., per poi

acquietarsi alla risposta "è temporanea questa cosa, ma poi va a posto, ma poi

la rimborsiamo Rimborsiamo, ma poi faremo, poi brigheremo").

Le considerazioni che precedono mostrano, ugualmente, l'aspecificità delle

censure relative alla vicenda della cessione della Boschi s.p.a.

Nel 1989, la Sata, infatti, prima cede a Parmalat s.p.a. tutte le azioni

Boschi, registrando un plusvalore di circa 29 miliardi di lire, grazie a un prezzo

di cessione che è molto più alto rispetto a quello di acquisto; quindi, a breve

distanza di tempo Sata riacquista da Parmalat le azioni Boschi ad un prezzo

sensibilmente inferiore a quello di pochi mesi prima, con l'effetto di

ridimensionare a 4 miliardi di lire le perdite di esercizio. La doglianza secondo cui

l'imputato, consulente della Sata, non era tenuto a valutare la convenienza

dell'operazione per Parmalat s.p.a., non coglie nel segno, perché il ruolo in Sata,

non esime l'imputato dalla responsabilità concorsuale nelle distrazioni in danno di

Parmalat, in qualità di extraneus.

Anche le censure che investono le distrazioni di somme di denaro in danno

di Parmalat s.p.a. a favore delle società del gruppo turistico di Tanzi e il ruolo

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attivo svolto in relazione ad esse dallo stesso imputato, si traducono nella

valorizzazione di circostanze, peraltro esaminate compiutamente dalla Corte

territoriale, che trascurano di considerare la vicenda del finanziamento del

27/01/1997 a favore di ITC & P, all'epoca capogruppo del settore turistico, e del

relativo rimborso del prestito, in cui la sentenza impugnata, oltre a sottolineare

che la delibera di finanziamento di Cariparma (poco rileva che quest'ultima non

fosse la promotrice dell'operazione) non si curava di individuare specificamente

le fonti di finanziamento, ha aggiunto che l'operazione si fondava sul pegno delle

azioni ECP e sul fatto che Parmalat s.p.a. si era dichiarata disponibile a

canalizzare sulla Cassa un bonifico irrevocabile fino 20 miliardi di lire,

specificando che, se pure era vero che siffatta garanzia aggiuntiva era stata poi

rinunciata, era anche vero che ciò era accaduto perché Tanzi aveva annunciato

la prossima emissione di un prestito obbligazionario da 180 miliardi di lire,

effettuata da Parmalat Finance Corporation.

Né il ricorso si cura del fatto che la conoscenza della peraltro notoria crisi del

Turismo, oltre ad emergere dal fatto stesso che l'erogazione del finanziamento

aveva esplicitamente richiesto la partecipazione di Parmalat, era stata ammessa

dallo stesso Silingardi.

Identiche conclusioni di specificità riguardano il ruolo svolto dall'imputato nel

Comitato di controllo interno, i cui compiti, per come definiti già nel 1999 dal cd.

Codice Preda, erano stati chiaramente identificati dagli stessi componenti del

comitato, i quali, nella prima riunione del 04/07/2001, si era dato un programma

e degli obiettivi, stabilendo di verificare il corretto esercizio delle deleghe

nell'ambito dei poteri conferiti, di valutare i contratti pluriennali e gli impegni

assunti, i rischi finanziari, i rischi operativi, l'efficienza delle operazioni, la

copertura delle polizze assicurative e di controllare i rischi di carattere tecnico-

operativi, senza che a tali imponenti finalità fosse seguito un concreto riscontro -

che inevitabilmente presuppone una verifica non formale della documentazione -

e conseguenti riflessi sul piano delle iniziative operative, nonostante le imponenti

emissioni obbligazionarie e i correlati rischi finanziari, nonostante che le

acquisizioni fossero portate a termine solo in forza di prestiti obbligazionari,

nonostante le ondivaghe informazioni relative all'entità del riacquisto dei bond o

all'emissione dei bond dell'estate 2003.

E tale inerzia, per quanto riguarda l'imputato, è stata razionalmente

interpretata alla luce delle sue pregresse conoscenze rispetto alle modalità

gestionali del Gruppo di Collecchio, oltre che dei dati acquisiti successivamente.

La sentenza impugnata ha, infatti, ricordato che era stato proprio Silingardi a

riferire che sulla liquidità "da tempo si era concentrata l'attenzione di analisti

finanziari ed esponenti della comunità finanziaria", come pure che aveva letto

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l'intervista di Milano Finanza del dicembre 2002 a Tanzi e Tonna nella quale essi

riferivano per la prima volta del riacquisto di bond

In tale contesto le dichiarazioni dell'internai auditor Viotto appaiono un mero

elemento di conferma del quadro che emerge dal complesso di elementi

probatori sopra ricordati. Ad ogni modo, le critiche svolte dal ricorrente a

proposito della credibilità riconosciuta a quest'ultimo, come pure con riferimento

alla cd. vicenda Streglio e alla crisi del settore del Sud America si traducono,

nella sostanza, nella inammissibile pretesa ad una rivalutazione di risultanze

istruttorie, esaminate dalla Corte territoriale, senza palesare alcuna manifesta

illogicità.

23.2. Del pari inammissibile è il settimo motivo, in quanto la significatività

dei segnali di allarme è criticata dal ricorrente con valutazioni che non tengono

conto dell'ampiezza dei ruoli ricoperti dal Silingardi, delle specifiche conoscenza

professionali, del concreto contributo fornito a numerose fattispecie distruttive,

quali emergono nel punto 23.1 che precede.

In realtà, la piena compartecipazione del ricorrente alla realizzazione delle

strategie illecite del gruppo rende aspecifiche le doglianze rappresentate nella

prospettiva di un agente esterno e ignaro delle concrete modalità gestionali

realizzate nel corso degli anni.

23.3. Il quinto motivo è inammissibile.

Premesso che la fattispecie di cui all'art. 416 cod. pen non consente di

escludere i delitti che incidono sui rapporti economici - finanziari dal novero degli

illeciti alla cui commissione l'associazione è finalizzata, osserva la Corte che il

singolo momento di frizione tra il Tonna e il Silingardi, valorizzato in ricorso,

come pure il mancato coinvolgimento di quest'ultimo nell'iniziativa del Tanzi del

06/12/2003 non sono idonei ad incidere sulla logicità del tessuto argomentativo

che, alla luce degli imponenti elementi considerati supra 23.1, ha consentito alla

sentenza impugnata di accertare il contributo dall'imputato all'associazione.

Infatti, il vincolo partecipativo non esclude contrasti tra gli associati, né

richiede una diuturna partecipazione a tutte le iniziative del gruppo.

Fondatamente, pertanto, si è ritenuto sufficiente ad integrare il delitto in

contestazione il fatto che nel corso di molti anni il Tanzi abbia potuto fare

costante affidamento sulle capacità tecniche e professionali dell'amico, che

ovunque operando, gli aveva concretamente consentito l'accesso a crediti

diversamente non ottenibili evitando istruttorie, occultando perdite, ideando giri

contabili e coprendo esborsi di denaro palesemente distrattivi, oltre che

omettendo controlli ed iniziative a lui spettanti o falsificando notizie significative

della situazione reale del Gruppo che, ove pubblicizzate, avrebbero rischiato di

interromperne l'operatività illecita.

156

Page 157: 32352/14 )d - Diritto Penale Contemporaneo...Parmalat Finanziaria s.p.a. e dalle sue controllate. Tale gruppo presentava una rilevante sub holding mista, operativa e finanziaria, che

dell'aggravante di cui all'art. 219, comma primo, I. fall. alle fattispecie di

In questa prospettiva, non è necessario individuare direttive formalizzate,

come pretenderebbe il ricorrente, giacché la sopra descritta disponibilità a

realizzare, ad alti livelli organizzativi e con la commissione di illeciti, gli interessi

del gruppo è più che sufficiente a consentire la configurazione del ruolo di

organizzatore ascritto all'imputato.

23.5. Il sesto motivo è inammissibile, giacché, secondo il consolidato

orientamento di questa Corte, la perizia non rientra nella categoria della "prova

decisiva" ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi

dell'art. 606, comma primo, lett. d), cod. proc. pen., in quanto costituisce il

risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto, come nella specie, da adeguata

motivazione, è insindacabile in cassazione. (Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012,

Ritorto, Rv. 253707).

23.6. Esaminando prioritariamente l'undicesimo motivo, quanto al mancato

riconoscimento della continuazione rispetto ai fatti giudicati nel procedimento

milanese, rileva la Corte che esso è infondato, alla luce del principio, qui ribadito,

che il giudice d'appello non può pronunciarsi sulla richiesta d'applicazione della

continuazione con un reato per il quale è intervenuta condanna con sentenza

divenuta definitiva dopo la decisione di primo grado, sicché in tale caso la

continuazione può essere riconosciuta solo in sede esecutiva (Sez. 5, n. 9311 del

10/02/2009, Soffientini, Rv. 243166).

23.7 Inammissibile è il decimo motivo, da esaminare preliminarmente in

quanto investe, oltre che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti

generiche, anche la determinazione della pena.

La Corte territoriale, con motivazione che non palesa alcuna manifesta

illogicità, ha infatti ritenuto, per un verso, che il coinvolgimento del Silingardi nel

reato associativo e la durata nel tempo del suo sodalizio criminoso con Tanzi

giustificava ampiamente l'entità della sanzione, peraltro quantificata in una pena

base prossima ben più al minimo che non al massimo edittale, e degli aumenti

determinati dal Tribunale, e, per altro verso, che difettavano, in ragione della

gravità delle condotte poste in essere non solo nel breve, se pur significativo,

arco di tempo in cui l'imputato ha ricoperto la carica di consigliere di Par.fin, ma

anche nell'arco di quasi quindici anni trascorsi "al servizio" di Tanzi e delle sue

società, ragioni idonee a giustificare la concessione delle attenuanti generiche,

posto che a fronte della età avanzata, dell'incensuratezza e del dichiarato

corretto comportamento processuale, doveva, altresì, essere valorizzato

l'atteggiamento frequentemente renitente, ma soprattutto la estrema gravità

delle condotte accertate.

23.8 Infondato è, del pari, il nono motivo, che investe l'applicabilità

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bancarotta impropria, alle luce delle considerazioni, anche di recente confermate

da questa Corte (Sez. 5, n. 2903 del 22/03/2013 - dep. 22/01/2014„ Rv.

258446).

In effetti, il rinvio che l'art. 223 I. fall. opera al precedente art. 216 concerne

anche gli elementi accidentali delle fattispecie criminose previste da quest'ultima

norma, ossia, per quanto qui rileva, la circostanza aggravante della rilevanza del

danno. D'altra parte, laddove si ritenesse l'aggravante in esame non ravvisabile

nei fatti di bancarotta commessi dal gestore di società, si perverrebbe

all'irragionevole risultato di sottoporre l'imprenditore individuale ad un

trattamento sanzionatorio astrattamente più afflittivo, in quanto identificato

anche negli effetti speciali della circostanza aggravante in esame, rispetto a

quello previsto per i fatti sostanzialmente analoghi commessi nell'ambito della

gestione societaria, sicuramente non meno gravi, per i quali sarebbe al più

configurabile l'aggravante ad effetto comune di cui all'art. 61, n. 7, cod. pen.

Va, per completezza, aggiunto che elementi che si oppongano alle predette

conclusioni non sono ravvisabili nella decisione di Sez. U, n.21039 del

27/01/2011, Loy, Rv. 249665, in ordine alla diversa aggravante di cui all'art.

219, comma secondo, n. 1, I. fall., costituita dalla commissione di una pluralità di

condotte tipiche del reato di bancarotta nell'ambito della stessa procedura

fallimentare, ed all'autonomia di dette condotte in una previsione

strutturalmente improntata ad un regime di cumulo giuridico pur se formalmente

qualificata in termini circostanziali; ed in particolare nei passaggi motivazionali

nei quali detta previsione aggravatrice viene ritenuta operante per i fatti di

bancarotta impropria di cui all'art. 223, I. fall., nonostante opposte indicazioni

suggerite dai dato letterale, in quanto sostanzialmente favorevole all'imputato

rispetto alle deteriori conseguenze sanzionatorie dell'ordinaria disciplina della

continuazione, con ciò, secondo la contraria interpretazione, intendendo a

contrariis non applicabile ai fatti di cui sopra l'aggravante del danno rilevante,

meramente pregiudizievole per l'imputato. La lettura integrale della motivazione

della citata sentenza sul punto, per la quale "è agevole osservare, in aderenza al

consolidato orientamento di questa Suprema Corte, che il richiamo contenuto

nelle norme incriminatici della bancarotta impropria allo stesso trattamento

sanzionatorio previsto per le corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima

margini di dubbio sull'applicabilità del relativo regime nella sua interezza, ivi

compresa l'aggravante sui generis di cui si discute. D'altra parte, avendo il

legislatore posto su un piano paritario i reati di bancarotta propria e quelli di

bancarotta impropria, non v'è ragione, ricorrendo l'eadem ratio, di differenziare

la disciplina sanzionatoria. L'applicazione analogica dell'art. 219 I. fall., ai reati di

bancarotta impropria non può ritenersi preclusa, trattandosi di disposizione

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favorevole all'imputato", rende viceversa evidente come le Sezioni Unite abbiano

puntualmente recepito i rilievi in precedenza esposti sull'inclusione, nell'oggetto

del rinvio posto dall'art. 223 I. fall., di tutte le componenti del trattamento

sanzionatorio della fattispecie della bancarotta fraudolenta, fra le quali non può

che comprendersi l'aggravante di cui si discute in questa sede, e sulla

sostanziale equiparazione normativa delle fattispecie della bancarotta propria e

di quella impropria, che rende irragionevole la limitazione alle prime del

l'operatività dell'aggravante in parola, puramente aggiuntivo dovendosi

intendere, nel complessivo articolato dell'argomentazione, l'ulteriore accenno al

favor rei che contraddistingue in concreto la particolare posizione della disciplina

della pluralità di fatti di bancarotta.

23.9 Sebbene il ricorso debba essere disatteso in relazione ai motivi

dedotti, per quanto fin qui osservato, tuttavia la sua complessiva ammissibilità

impone l'obbligo di rilevare d'ufficio l'intervenuta estinzione del delitto di

associazione per delinquere, di cui al capo A) dell'imputazione; risulta infatti

maturato il termine prescrizionale massimo di otto anni e nove mesi da

computarsi a decorrere dal dicembre 2003, data di cessazione della permanenza.

Nei confronti del Silingardi, pertanto, la sentenza deve essere annullata in

parte qua senza rinvio per l'anzidetta ragione, non sussistendo altri motivi di

proscioglimento che possano prevalere su di essa ex art. 129, comma 2, cod.

proc. pen.. Ne consegue l'eliminazione del corrispondente aumento di pena per

la continuazione, pari a tre mesi di reclusione.

23.10. Quanto alle questioni civilistiche, prospettate con il dodicesimo

motivo, è sufficiente rinviare, per giustificare la conclusione della loro ritenuta

infondatezza, alle considerazioni svolte supra, con riferimento ai profili legati alla

sussistenza della responsabilità del Silingardi, e a quelle sviluppate nel punto

9.1. della motivazione che precede, quanto all'ambito di operatività dell'art. 587

cod. proc. pen.

24. DOMENICO BARILI

Il ricorso non può trovare accoglimento.

24.1. Il primo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili è

infondato, per le considerazioni svolte supra al punto 4 della presente

motivazione.

24.2. Il secondo motivo del medesimo ricorso è infondato, per le ragioni

sviluppate supra al punto 3 della presente motivazione.

24.3. Il terzo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il primo

motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato, come pure i connessi

decimo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e l'ottavo motivo ddel

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ricorso proposto personalmente dall'imputato, sono, nel loro complesso,

infondati.

Rinviando alle considerazioni sviluppate supra nel punto 7 della presente

motivazione, quanto alla rilevanza della dichiarazione di fallimento rispetto al

reato di bancarotta per distrazione, occorre premettere, come anche si ribadirà

nel punto 24.4, che segue, che i reati per i quali è intervenuta assoluzione e

quelli per i quali è stata ritenuta la responsabilità dell'imputato riguardano

condotte diverse.

E, infatti, altro è la materiale falsificazione contabile o l'ideazione di

meccanismi finanziari illeciti o la deliberazione di operazioni finanziarie dolose

oggettivamente pregiudizievoli; altra è la condotta dell'amministratore che, pur

non falsificando egli materialmente o non decidendo egli in prima persona

l'adozione di tali meccanismi o di tali operazioni, ne sia tuttavia pienamente a

conoscenza e, nonostante ciò, non solo non impedisce tale strategia, ma la

asseconda pienamente, partecipando, nella qualità di consigliere di

amministrazione, all'operazione stessa, pur avendo piena consapevolezza delle

sue caratteristiche, con l'approvazione dell'atto che quell'illecito formalizza.

Quanto ai vizi motivazionali, osserva la Corte che le censure sono

inammissibili. in quanto, nella loro complessa articolazione fattuale, criticano la

ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, sono inammissibili, in

quanto, attraverso una lettura frazionata dell'apparato argomentativo della

sentenza impugnata, aspirano ad una rilettura delle risultanze istruttorie,

esaminate dalla Corte, con motivazione che non esibisce alcuna manifesta

illogicità.

Al riguardo, va ribadito che gli aspetti del giudizio che consistono nella

valutazione e nell'apprezzamento del significato degli elementi acquisiti

attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità,

se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità

dimostrativa, con la conseguenza che sono inammissibili in sede di legittimità le

censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione

del materiale probatorio (di recente, v. Sez. 5, n 18542 del 21/01/2011, Carone,

Rv. 250168 e, in motivazione, Sez. 5, n. 49362 del 19/12/2012, Consorte).

Ciò posto, la sentenza impugnata ha valorizzato i ruoli ricoperti dal Barili

per circa quarant'anni, ruoli di centrale importanza operativa e di fondamentale

incidenza organizzativa e decisionale in ambiti tra i più segnati dalle anomalie

gestionali e dalle frodi e falsificazioni in contestazione.

Il Barili, come s'è ricordato, aveva svolto l'incarico di direttore commerciale

di Parnnalat S.p.a. dal 1963, di direttore generale commerciale del gruppo

Parmalat dal 1980 al maggio 2001, nonché di consigliere di amministrazione

160

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tanto di Parmalat Finanziaria, quanto di Parmalat Spa dal 1989 fino al default. Il

suo compito, quale direttore generale commerciale, era quello di organizzare la

rete di vendita, in Italia direttamente e all'Estero tramite direttori commerciali

locali, che venivano quasi sempre scelti dallo stesso Barili; egli si occupava

altresì di tutta l'attività di marketing di supporto. In questa veste egli era

responsabile delle concessionarie (controllate e non), tramite le quali Parmalat

vendeva in tutto il mondo i propri prodotti, e che costituivano altresì lo

strumento utilizzato per anni al fine di finanziare in modo illecito la sub-holding

operativa.

Barili è stato, inoltre, membro del Comitato esecutivo di Parmalat s.p.a. dal

15/05/1992 al 30/12/2003 e del Comitato per la remunerazione dal 15/05/2001

al 30/12/2003 e ha partecipato costantemente, quanto meno sino al 2001, alle

cd. riunioni di budget, nelle quali - secondo quanto univocamente affermato non

solo da Tonna, ma anche da Del Soldato, e sostanzialmente ammesso anche da

Bonici - i vertici del Gruppo si occupavano delle previsioni per il periodo

successivo e della pianificazione degli investimenti, analizzando i dati reali del

fatturato di tutte le imprese della holding, differenti da quelli emergenti dai

bilanci. Sempre il Tonna ha ricordato che il Barili faceva parte del comitato

ristretto che decideva le acquisizioni ed era stato Presidente del consiglio di

amministrazione della Centrale del Latte di Parmalat Spa dal 23/05/1997 al

31/12/2000, nonché prima socio e poi membro del consiglio di amministrazione

di Eliair dal 1980 al 2004, membro del consiglio di amministrazione di Eurolat dal

1999 al 2003 e di Parma AC dal 1996 al 2002.

A seguito della indicata marginalizzazione, nella primavera 2001 il Barili era

costretto a dimettersi dall'incarico di direttore commerciale del gruppo; tuttavia,

il Tanzi gli aveva attribuito l'incarico di vicepresidente di Parmalat s.p.a. e aveva

concordato con l'imputato una collaborazione continuata e coordinativa del

predetto con la Parmalat per un'attività di consulenza della durata di tre anni.

In tale contesto, la sentenza impugnata ha rilevato che la piena conoscenza,

da parte dell'imputato, della reale situazione del gruppo e della gravità delle

perdite e falsificazioni operate soprattutto nei bilanci sudamericani, era fondato

sulle dichiarazioni del Tonna e Del Soldato, in ragione della partecipazione non

formale alle riunioni di budget, nelle quali si aveva "l'esatta certezza, perché i

dati erano completamente veritieri, di paese in paese come andavano veramente

le cose". Anche il Tanzi, dal canto suo, aveva confermato che Barili era come lui

a conoscenza del cd. sistema delle concessionarie, del giro delle ri.ba . e false

fatturazioni, della situazione disatrosa del Sud America, del fatto che da tale

paese giungessero regolarmente bilanci "rivisitati", della necessità di aggiustarli

ulteriormente in sede di consolidato e del fatto che i bilanci del Gruppo fossero

161

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falsi.

Ancora secondo Tonna , Barili aveva anche la disponibilità, fino a quando

rimase direttore generale commerciale, dei dati del sistema HQR - sistema di

rilevazione di contabilità industriale e controllo di gestione- che gli venivano

inizialmente consegnati in forma cartacea e quindi a livello informatico e che gli

agevolava la piena conoscenza dei dati reali rispetto a quelli fittizi riportati nei

bilanci. La valutazione di attendibilità del Tonna è logicamente sorretta, nella

sentenza impugnata, dalla considerazione che se era certo che i dati HQR

venivano consegnati, tra gli altri, a tutti i responsabili di settore, Paese ed area,

ben difficilmente essi potevano non essere recapitati anche a Barili, responsabile

commerciale di tutto il Gruppo, come del resto, confermato dalla disponibilità

degli stessi, da parte del Prevedini, che aveva preso il posto di Barili alla

direzione commerciale di Parmalat Italia. D'altra parte, il Prevedini non aveva

sostituito integralmente il Barili, ma aveva assunto funzioni assai più ridotte

rispetto a quelle (generali nell'area commerciale, sia a livello geografico, sia a

livello qualitativo) già svolte dal ricorrente e comunque non prima del 2001.

Del resto, sia il Tonna che colui che aveva messo a punto il sistema, Ugo

Bianchi, hanno ricordato che il sistema aveva iniziato ad operare quanto meno

dal 1998; così come il Commissario Straordinario, dott. Bondi, aveva riferito che,

se ai dati informatici HQR, si accedeva tramite password, era tuttavia disponibile

anche un supporto cartaceo dei dati medesimi per i vari responsabili di area e

settore.

Sempre sul piano logico, la sentenza impugnata ha ricordato che la contraria

tesi dell'imputato, oggi riproposta col ricorso in termini assolutamente aspecifici

rispetto alle considerazioni della Corte territoriale, contrastava con il fatto che

era inverosimile che la pianificazione degli investimenti e le strategie relative alle

società del gruppo appartenenti alle diverse aree geografiche potessero essere

effettuate sulla base di dati falsi, così come esposti in bilancio; e ciò senza dire

che il ruolo svolto da Barili imponeva la conoscenza dell'effettivo andamento

economico delle società industriali, in mancanza del quale non era possibile

effettuare la direzione commerciale del gruppo.

Da tali premesse discende la conseguenza tratta dalla sentenza impugnata

dell'attendibiità delle dichiarazioni di Tonna, Tanzi, Del Soldato e Pessina,

secondo cui il Barili era anche a conoscenza della falsificazione dei bilanci. Anzi,

posto che il comparto sudamericano costituiva uno dei campi di azione in cui

maggiormente e più a lungo si era attivato Barili, come da lui stesso ammesso, è

apparsa alla Corte d'appello del pari attendibile la dichiarazione di Tonna,

secondo il quale, gli accertati flussi in uscita da Wishaw Trading per ripianare i

debiti del Brasile e la documentata ricapitalizzazione di Parmalat Partecipacoes

162

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per ripagare Wishaw Trading erano certamente anche di Barili, che addirittura si

era attivato espressamente per inibire le dovute verifiche all'internai auditor

Nicolotti (come sostanzialmente riferito anche da quest'ultimo), anche attraverso

l'intervento del Grisendi.

Il coinvolgimento del Barili nel giro delle concessionarie, che, attraverso un

sistema centralizzato di contabilizzazione ed in base alle indicazioni ricevute dai

vertici del gruppo, venivano sfruttate (in uscita) per incrementare il giro ri.ba . e

(in entrata) per ingenerare falsi ricavi, oltre che per assorbire le eccedenze di

prodotto che veniva poi fatto scadere, remunerare in modo affatto irregolare il

personale Parmalat e falsificarne infine i bilanci tramite i fittizi ratei di

ripianamento di fine anno, è stato logicamente tratto dalla Corte territoriale dalla

centralità di siffatto sistema per gli affari illeciti del Gruppo, con la conseguenza

che era impensabile che ai suoi vertici potesse essere posto un soggetto

inaffidabile o all'oscuro dei meccanismi distrattivi e falsificatori che fungevano da

fondamenta alle esigenze della holding per oltre un decennio. E ciò soprattutto

se si considera che, per sua stessa ammissione, Barili era uso a controllare con

attenzione andamento gestionale e bilanci delle società.

D'altra parte, al di là di tali considerazioni logiche, la Corte territoriale ha

valorizzato anche i risultati della prova dichiarativa, dalla quale emerge che

Barili, nella sua qualità di direttore commerciale, era perfettamente informato di

quanto accadeva nelle concessionarie, anche tramite report mensili trasmessigli

da Pessina, che il ricorrente ha ammesso di avere ricevuto, dai quali emergeva la

reale situazione delle concessionarie. Anzi, il Pedraneschi aveva aggiunto che i

direttori delle concessionarie coinvolte nelle distazioni e falsificazioni in esame si

recavano non solo da Tonna, ma anche da Barili a contestare la anomalia della

situazione - ovvero a parlare" delle perdite, dei falsi per coprire le perdite, delle

ricevute bancarie, degli oneri"- , senza tuttavia ottenere nulla perché " la

Parmalat preferiva che andassero in perdita le concessionarie" , ancorché Barili,

più volte interessato al problema, cercasse "di darci una mano". Ed è razionale

sul punto la conclusione tratta dalla sentenza impugnata, secondo la quale per

occultare le perdite, gli oneri finanziari e le distrazioni di cassa nonché per i

compensi ("in nero", come affermato da Pessina) corrisposti agli amministratori

delle concessionarie, era necessario falsificare le scritture contabili ed i bilanci

anche tramite il cd. rateo attivo di fine anno, la cui conoscenza da parte del Barili

si desume proprio dalla ricordata consegna dei report mensili, dai quali

emergevano tutte le perdite e le specifiche ragioni di ciascuna di esse, talché il

ricorrente era evidentemente a conoscenza delle falsificazioni, giacché solo con il

rateo di fine anno le concessionarie potevano tornare in pareggio, pur senza che

Parmalat (nel cui consiglio di amministrazione il Barili sedeva) avesse erogato

163 P

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effettivamente alcunché.

Alla luce di siffatto compendio probatorio viene criticato dal ricorrente,

attraverso la riproposizione della tesi della sua inconsapevolezza delle attività di

falsificazione, che però non riesce a dimostrare alcuna manifesta illogicità

dell'apparato argomentativo, giacché sia i contrasti con il Tonna, sia la diversa

valutazione delle dichiarazioni del Pessina, sia l'estraneità del Barili al sistema

Bonlat o all'inesistente conto presso Bank of America non incrinano, al pari degli

altri profili menzionati nell'atto di impugnazione, la concludenza dei dati sopra

ricordati.

Del pari, assolutamente razionale è la conclusione della Corte territoriale,

contro cui si appunta un'ulteriore articolazione dei motivi, a proposito della

partecipazione del Barili al reato associativo.

Il fatto che il direttore marketing di Parmalat s.p.a. - che da sempre

presiedeva alla organizzazione della rete distributiva dei prodotti Parmalat,

fautore dei piani strategici di vendita e responsabile della individuazione degli

obiettivi di vendita - conoscesse inevitabilmente l'entità reale degli spostamenti

di merce intercorrenti tra la casa madre e le società controllate, è stato

logicamente ritenuto un elemento idoneo a corroborare il quadro accusatorio per

il quale Barili era non solo a piena e diretta conoscenza, ma attivamente

compartecipe dei reati deliberati dalla cd. "cabina di regia", della quale di fatto

(come consigliere esecutivo tanto di Parmalat s.p.a., quanto di Par.fin. s.p.a. e

come componente del comitato di budget e del comitato esecutivo, oltre che

come direttore commerciale del Gruppo) faceva parte.

24.4. Il quarto e il settimo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e i

corrispondenti motivi del ricorso proposto personalmente dall'imputato sono

infondati, per le considerazioni svolte supra al n. 24.3, a proposito della

necessaria distinzione tra i reati per i quali è intervenuta assoluzione e quelli per

i quali è stata ritenuta la responsabilità dell'imputato, i quali riguardano condotte

diverse.

24.5. Il quinto motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il terzo

motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato sono infondati, in

quanto, per un verso, muovono dal presupposto dell'estraneità del Barili alla

gestione finanziaria del Gruppo (profilo per il quale è sufficiente rinviare alle

considerazioni di cui al punto 24.3 che precede, oltre che nel punto 24.1, per il

rapporto con l'assoluzione da altri reati) e, per altro verso, introduce il tema

della qualificazione del fatto in termini di ricorso abusivo al credito, per cui si

rinvia al punto 21.3, relativo alla posizione dello Sciumè.

24.6. Il sesto motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il quarto

motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato sono inammissibili,

164

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perché, a prescindere dalla reiterata affermazione di estraneità del Barili alla

gestione finanziaria (per cui si rinvia a quanto considerato al n. 24.3), non si

confronta con la logica affermazione della Corte territoriale, secondo cui

l'aumento di capitale Par. Fin. del 1996, lungi dal rappresentare una operazione

positiva per le finanze del Gruppo, era stato attuato ottenendo un prestito da

UBS per consentire alla società Coloniale di versare la propria quota di aumento

di capitale senza ricorrere a finanze proprie e pertanto si era tradotto in un

ulteriore aggravio dell'indebitamento della società (che aveva ripagato poi il

debito tramite Parmalat Finance Corporation BV) allo scopo di permettere a Tanzi

di mantenere il controllo del gruppo senza immettere capitali propri. Così come

le doglianze dei ricorsi non si confrontano con il rilievo della sentenza impugnata,

secondo cui lo stesso Barili aveva ammesso di avere chiaramente percepito il

senso dell'operazione di aumento di capitale presentata da TONNA in sede di

consiglio di amministrazione, comprendendone pienamente lo scopo.

24.7. Infondati, nel loro complesso, sono l'ottavo motivo del ricorso

proposto nell'interesse del Barili e il sesto motivo del ricorso proposto

personalmente dall'imputato, giacché, quanto alla concreta ricostruzione della

vicenda aspirano ad una rivalutazione delle risultanze istruttorie, operate dalla

Corte territoriale con motivazione assolutamente congrua.

E, infatti, la sentenza impugnata ha considerato, per un verso, che il

pagamento del bonus per la cessazione dell'incarico di direttore generale

commerciale era stato effettuato da una società- Parmalat Capital Finance-, in

cui Barili non aveva mai rivestito alcun incarico e che non aveva alcuna

documentata ragione per versargli un corrispettivo relativo a prestazioni al più

riguardanti Parmalat Spa e Par.fin. Spa. La tesi dell'adempimento del terzo o

della delegazione di pagamento è sostenuta dal Barili in termini assolutamente

astratti, senza alcuna indicazione delle fonti dei sottostanti rapporti negoziali.

Quanto poi al pagamento del compenso in forza di un asserito rapporto di

consulenza, la sentenza impugnata ha logicamente rilevato che quest'ultimo,

nella sua sostanza pressoché integralmente sovrapponibile al ruolo di vice

presidente di Parmalat s.p.a, per il quale il Barili era formalmente retribuito, era

stato concluso per via epistolare, ma non era mai stato comunicato all'assemblea

né mai deliberato dal consiglio di amministrazione, successivo alla conclusione di

tale contratto e dove pure si dava atto della cessazione dell'incarico di direttore

generale e dell'assunzione di quello di vice presidente da parte del Barili. Inoltre,

rispetto alla considerazione della Corte territoriale, secondo cui non era emerso

alcun riscontro della effettiva attuazione dell'incarico, si ripete, sovrapponibile

per oggetto a quello di vice presidente, non è dato cogliere alcuna specifica

critica, agganciata ai dati processuali.

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Quanto alla censura relativa all'assenza di qualunque approfondimento in

ordine al nesso eziologico fra tali operazioni e il verificarsi dell'insolvenza, si

rinvia alle considerazioni svolte al n. 7 che precede.

24.8. Il nono motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e il settimo

motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato sono infondati: per

l'estraneità del ricorrente alla gestione finanziaria, si rinvia al punto 24.3. che

precede; per quanto concerne la critica relativa all'assenza di qualunque

approfondimento in ordine al nesso eziologico fra tali operazioni e il verificarsi

dell'insolvenza, si rinvia alle considerazioni svolte al n. 7 che precede.

24.9. Con il decimo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e

l'ottavo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato, si lamentano

erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione

all'affermazione di responsabilità in relazione ai capi L.1. e L.2., rispettivamente

concernenti la falsificazione delle scritture contabili di Parmalat s.p.a. e di Parfin

s.p.a., ribadendo e sviluppando le considerazioni svolte nel primo motivo.

24.10. L'undicesimo e il dodicesimo motivo del ricorso proposto

nell'interesse del Barili e il nono decimo motivo del ricorso proposto

personalmente dall'imputato, esaminabili congiuntamente per la loro stretta

connessione logica, sono, nel complesso, infondati.

Al riguardo, osserva la Corte che, per quanto riguarda il mancato

riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la determinazione della

pena, la sentenza impugnata, con motivazione che non palesa alcuna manifesta

illogicità, ha infatti evidentemente ritenuto, nella rideterminazione della pena, di

valorizzare i profili che emergono supra, a proposito dell'affermazione di

responsabilità dell'imputato, quanto al ruolo di affidabile partecipe all'interno dei

consigli di amministrazione della holding e della sub-holding operativa e nel

comitato esecutivo di Par.fin. sino al momento del default, senza che, in

contrario, possa operarsi un'astratta comparazione dei ruoli con altri coimputati,

avulsa dal concreto contesto delle loro posizioni.

Quanto alla contestata applicabilità dell'aggravante di cui all'art. 219,

comma primo, I. fall., in relazione alla fattispecie di bancarotta fraudolenta

impropria, si rinvia, per economia espositiva, alle considerazioni svolte supra al

n. 23.8 della presente motivazione.

Con riferimento all'entità delle pene accessorie, osserva la Corte che,

secondo il condiviso orientamento espresso da Sez. 5, n. 628 del 18/10/2013 -

dep. 10/01/2014, Di Cesare, Rv. 257947, la pena accessoria dell'inabilitazione

all'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità di esercitare uffici

direttivi presso qualsiasi impresa ha la durata fissa ed inderogabile di dieci anni.

si lamentano violazione degli art. 62 bis, 132 e 133 cod. pen., 219 I. fall. e

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illogicità palese nonché disuguaglianza di trattamento rispetto agli altri imputati,

sottolineando che, in favore di Francesca e Giovanni Tanzi, nonostante il

maggiore rilievo assunto, erano state riconosciute le attenuanti generiche

prevalenti sulle contestate aggravanti, trascurando di considerare l'età avanzata

dell'imputato, la sua incensuratezza, il comportamento processuale.

Per altro aspetto, si contestano: a) l'applicazione dell'aggravante di cui

all'art. 219, comma primo, I. fall., in relazione alla fattispecie di bancarotta

fraudolenta impropria; b) l'assenza di motivazione rispetto alla determinazione

della pena base: c) il mancato accoglimento della richiesta di riduzione della

durata delle pene accessorie in misura corrispondente all'entità delle pene

principali.

24.11. Il tredicesimo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Barili e

l'undicesimo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato sono

infondati per le ragioni sviluppate supra al punto 9.1. della presente

motivazione.

25. Riepilogando le statuizioni come sopra assunte, la sentenza impugnata è

da annullare senza rinvio limitatamente al reato di associazione per delinquere di

cui al capo A, estintosi per prescrizione, con eliminazione dei corrispondenti

aumenti di pena inflitti a Calisto Tanti, Fausto Tonna, Giovanni Tanzi e Luciano

Silingardi; deve inoltre essere annullata con rinvio nei confronti di Fausto Tonna,

limitatamente al trattamento sanzionatorio.

Sono, invece, da rigettare integralmente i ricorsi dei restanti imputati, con la

conseguente condanna di ciascuno al pagamento delle spese processuali.

25.1. Sul versante degli interessi civili, dall'esito processuale emerge la

soccombenza dei ricorrenti nei confronti delle parti civili, comparse nel giudizio di

cassazione, che hanno concluso contro di loro; ne consegue l'obbligo solidale di

rifusione delle spese di difesa, la cui liquidazione è effettuata come in dispositivo.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Tanzi Calisto,

Tanzi Giovanni, Tonna Fausto e Silingardi Luciano, limitatamente al reato

associativo sub A, per essere lo stesso estinto per prescrizione ed elimina il

relativo aumento di pena inflitto a titolo di continuazione per detto reato, pari a

mesi cinque di reclusione per Tanzi Calisto, mesi cinque di reclusione per Tonna

Fausto, mesi quattro di reclusione per Tanzi Giovanni e mesi tre di reclusione per

Silingardi Luciano.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Tonna Fausto, limitatamente

167 A/

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I Consiglieri estensori

Paolo Oldi

Giuseppe De Marz

Il Presidente

Giuliana Fer u

,

al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello di

Bologna per nuovo esame sul punto.

Rigetta nel resto i ricorsi dei predetti imputati.

Rigetta i ricorsi di Barachini Enrico, Barili Domenico, Bonici Giovanni, Branchi

Fabio, Calogero Rosario Lucio, Erede Sergio Piero Franco, Florini Camillo, Fratta

Davide, Mutti Mario Alfonso, Panizzi Giuliano, Sciumé Paolo, che condanna

singolarmente al pagamento delle spese del procedimento.

Condanna: Barili Domenico e Tanzi Calisto, in solido fra loro, alla rifusione

delle spese sostenute nel grado dalle parti civili Foti + 10, liquidate globalmente

in complessivi euro 8.000,00, oltre accessori di legge; tutti gli imputati ricorrenti,

tranne Calogero Rosario Lucio, in solido fra loro, alla rifusione delle spese

sostenute dalle parti civili nel grado, liquidate globalmente: quanto ad Aflac Inc e

Farmland Diaries LLC, in complessivi euro 7.000,00, oltre accessori di legge;

quanto a Sardella Teresa, Corvaia Antonio, in proprio e quale legale

rappresentante della Quattro C s.a.s., Metelli Aurelio, Campisi Antonino, Di

Piazza Flavio, Li Pomi Salvatore, Le Rose Luigi, Librizzi Francesco, Bonnì Rosa,

Fulgoni Gabriella, Romeo Grazia, Romeo Agata, in complessivi euro 8.000,00,

oltre accessori di legge; quanto a Pompini + 38, in complessivi euro 5.000,00,

oltre accessori di legge; tutti gli imputati, in solido fra loro, alla rifusione delle

spese sostenute dalle parti civili nel grado, liquidate globalmente: quanto a Bazzi

+ 12, Ambroggi + 49, Agosta + 65, in complessivi euro 13.000,00, oltre

accessori di legge, da distrarsi in favore dell'Avv. Anna Campilii; quanto ad Aba

+ 32.000, in complessivi euro 5.000,00, oltre accessori di legge; quanto a

Vergani + 535, in euro 16.000,00, oltre accessori di legge, da distrarsi in favore

dell'Avv. Federico Palestro; quanto ad Abbate Cesare + 144, Badini Maria

Antonia + 116, Cairoli Enrico + 141, D'Amico Gaetano + 271, Gambarelli Pietro

+ 61, Herceg Denes + 56, Macaluso Gandolfo + 135, Napoleoni Santino + 274,

Parisini Marziano + 26, Tacchini Giovanni Andrea + 138, in complessivi euro

10.020,00, oltre accessori di legge; quanto alle società del gruppo Parmalat in

amministrazione straordinaria, in euro 10.000,00, oltre accessori di legge.

Così deciso il 07/03/2014.

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