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L’oscuro soffittosenza stelle

a cura diStefano Caracciolo

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Copyright © Stefano CaraccioloSezione di Psicologia Generale e Clinica della Facoltà di Medicina e Chirurgia

Università di Ferrara 2007

* * *

Copyright © MMVIIARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–1246–8

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: luglio 2007

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not this troublouswringing of hands, this dark

ceiling without a star.

non questo tribolatoagitarsi di mani, questo scuro

soffitto senza stelle.

Sylvia Plath (1963) da Boy (Trad. di S.C.)In Le Muse Inquietanti e altre poesie, Mondadori Milano 1985.

SYLVIA PLATH (1932-1963) Poetessa e ScrittriceFotografia di Rollie McKenna (1918-2003)

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Indice

Prefazione di Stefano Caracciolo ....................................................................... 9

Delitto o castigo? Un’introduzione di Stefano Caracciolo ...................................................................... 11 Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente di Sergio Molinari ........................................................................... 21 La comunicazione medico–paziente nella prescrizione degli antidepressivi di Stefano Caracciolo ...................................................................... 35 La depressione e la somatizzazione di Silvana Grandi e Laura Sirri ...................................................... 49 Nuovi approcci nella terapia della depressione: il Modello Sequenziale Psicofarmacologico di Silvana Grandi ............................................................................ 59 Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione di Stefano Caracciolo ...................................................................... 71 La depressione e il paziente nei Servizi di Salute Mentale di Ivonne Donegani ......................................................................... 91

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Indice

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Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente di Stefano Caracciolo ..................................................................... 99 La depressione e il rapporto medico–paziente: empatia, alleanza terapeutica, costruzione della fiducia di Stefano Tugnoli e Stefano Caracciolo ........................................ 131 Autori ............................................................................................. 151 Indice delle illustrazioni fuori testo ............................................... 153

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Prefazione Questo volume nasce dalle relazioni sul tema “Depressione e rap-

porto medico–paziente” presentate e discusse in un seminario tenuto a Chioggia nel mese di luglio 2006.

Tutti i partecipanti hanno portato una loro diretta esperienza clini-ca, essendo in prima persona impegnati nel lavoro quotidiano ad af-frontare, seppure con metodi, stili e ruoli differenti, il gravoso pro-blema della sofferenza depressiva che coinvolge, prima di tutto, i pa-zienti, ma riguarda anche i loro familiari, i loro terapeuti e, infine, la società tutta.

I lavori scritti che ne sono derivati si configurano come un assieme eterogeneo sul piano teorico, su quello metodologico e negli aspetti clinici. Ci auguriamo che il panorama complessivo possa fornire al lettore nuove chiavi interpretative e originali proposte di intervento medico, psicologico e psichiatrico per i pazienti affetti dalla depres-sione nelle sue innumerevoli varietà cliniche.

In questo dialogo paritetico fra paradigmi differenti sta, a nostro modesto avviso, il principale punto di interesse di questi contributi, che ci ha indotto a pensarne e a proporne una versione, abbastanza fe-dele allo spirito originale della discussione, e, ci auguriamo, altrettanto stimolante per altri quanto lo è stato per noi e per tutti i partecipanti al Seminario.

Un ringraziamento particolare va a Daniele Nanni e Arianna Bracci di Lundbeck Italia e ad Anna Paola Vistoli di “Il Cerchio”, senza il cui contributo propositivo e organizzativo questo volume non avrebbe mai visto la luce.

Stefano Caracciolo

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Delitto o castigo? Una introduzione

di STEFANO CARACCIOLO Immaginiamo di poter veder in viso per qualche momento. Ra-

skòl’nikov, lo studente universitario fuori corso, protagonista del cele-bre romanzo Delitto e castigo, capolavoro di Fëdor Mihailovic Dosto-evskij, riprodotto in prima di copertina di questo volume in un disegno dell’artista contemporaneo Blankas1.

Nella fisionomia immaginaria Raskòl’nikov appare tormentato dal-la spinta di grandi ideali ma dilacerato da dubbi febbrili.

Egli infatti ha compiuto un atto omicida che gli era parso suo dove-re compiere in quanto “grande uomo” — si sarebbe detto poi, nie-tszchanamente, superuomo — e che gli appare invece, dopo, meschino e brutale, tanto da divorarlo dall’interno, fino alla confessione e da condurlo, infine, al castigo che lo redime.

Al di là del gioco di fantasia e dei meccanismi di identificazione e proiezione che lo caratterizzano, potremmo avere l’impressione che il fiero sguardo del soggetto sia carico del fardello che pesa sulla sua co-scienza, in cui l’umore esaltato che sconfina in momenti di lucida e febbrile agitazione si alterna alla consapevolezza del delitto commes-so, di cui si accusa con devastante determinazione ed incrollabile con-danna fino alla martellante necessità della confessione.

Ecco allora emergere nella memoria lo sguardo di tanti pazienti de-pressi, così opaco per la perdita di una speranza, così appannato dal senso di colpa per delitti mai commessi, così rassegnato all’ineluttabi-le rovina imminente. La depressione, insomma, introduce ad un viag-gio nel cuore degli uomini, che vogliamo intraprendere seguendo Do-stoevskij.

1 Blankas è il nome d’arte di Lee Kyung–Jin, nato a Seoul in Corea nel 1975, disegnatore pub-

blicitario, cartoonist e pittore. La sua home–page è http://blankas.f14.net/. Nel concedere i diritti per la riproduzione della sua opera l’Autore si raccomanda di mandare un saluto a tutti i lettori.

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1. Il nudo cuore degli uomini Nella notte di Natale dell’anno 1849, Dostoevskij, i ferri ai piedi,

parte per il bagno penale della Siberia: vi scoprirà, secondo una sua celebre affermazione, “il nudo cuore degli uomini”, il popolo russo ed il vangelo. Il suo delitto, di cui è consapevole e coraggioso responsa-bile, è di aver liberamente espresso le proprie opinioni in tema di li-bertà, sull’onda di letture socialiste, specialmente di stampo utopisti-co, che erano proibite dal severo regime zarista. Ma quali sono le radi-ci psicologiche di questo “delitto” e della sua espiazione nella storia di Fëdor Mihailovic?

Nella confusa ed appassionata attività politica di Dostoevskij, che si limitò con tutta probabilità a vaghi e mai realizzati progetti di insur-rezione culturale contro la feroce oppressione poliziesca della libertà di pensiero2, si può certamente intravvedere, seguendo la ben nota let-tura di Sigmund Freud, una reazione di ribellione verso l’autorità, e-sercitata con ferocia e crudeltà, che non poteva non trarre spunto dal rapporto con il padre.

In effetti, alla notizia dell’omicidio del padre, uomo debole ma vio-lento e dissoluto, specie dopo la morte della moglie Maria, probabil-mente ucciso per mano dei suoi mugiki, affogato nella vodka di cui era schiavo, Dostoevskij avrà la reazione che conosciamo solo per bocca di Dmitri Karamàzov: «Sono innocente della morte di mio pa-dre, ma accetto di espiare, perchè avevo voglia di ucciderlo».

Espiazione, quella reale dello scrittore, che si esprime prima di tut-to con l’aggravarsi dei suoi attacchi epilettici (aveva avuto la prima crisi durante il passaggio di un convoglio funebre in una via di San Pietroburgo). Ma su questo punto è necessario ritornare a confrontarsi con il fondamentale saggio freudiano sull’argomento, intitolato Do-stoevskij e il parricidio, pubblicato nel 19273, partendo dal rileggerne alcuni passi.

2 Grossman, Leonid P., Dostoevsky; a biography. Bobbs–Merrill, 1975 (trad. ital. Garzan-

ti, Milano 1977). 3 Freud S., Dostoevskij e il parricidio (1927), OSF, Vol. 10, pagg. 517–538, Boringhieri,

Torino 1974.

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2. Dostoevskij secondo Freud Freud distingue innanzitutto quattro lati all’interno della personalità

di Dostoevskij: lo scrittore, il nevrotico, il moralista e il peccatore. La più interessante delle componenti è quella legata al peccato, ovvero al delitto, tanto che il peccatore Dostoevskij viene rapidamente assimila-to a delinquente, in base ai due tratti psicologici principali che Freud individua: l’egoismo e la tendenza distruttiva.

In quanto al contrasto che questi elementi presentano nella vita del-lo scrittore con tratti di bontà e di disinteressata generosità, Freud lo spiega indicando come, nella sublimazione artistica, la scelta del ma-teriale, ovvero la descrizione di “caratteri violenti, assassini, egoisti”, indichi la presenza di questi elementi nel carattere di Dostoevskij, dato anche l’elemento biografico assai forte del “demone” del gioco.

Violento, assassino, egoista. È l’esasperato ritratto del paziente de-presso che, seguendo a ritroso la aggettivazione freudiana, parte da un egoismo totalizzante, che lo porta a concentrarsi totalmente su se stes-so perdendo il piacere del rapporto con gli altri e col mondo, e che di-viene violento e assassino su se stesso, con il suicidio, ma talvolta an-che sugli altri.

È il concetto che Karl Menninger4 rese celebre attraverso la formu-la “la pistola che ruota di 180 gradi”, in base al quale il soggetto che si toglie la vita rivolge verso di sé un odio che non può o non vuole sca-ricare sulla vittima designata.

Freud riconduce dunque il conflitto che scuote la vita di Dostoevskij ad un attaccamento verso il padre legato, in modo ambivalente, all’odio. Anche in questo caso si verifica, come Freud descrive, lo sviluppo di un meccanismo generale nella formazione della personalità per cui:

l’identificazione con il padre finisce col conquistarsi a forza un posto durevo-le nell’Io. Essa viene accolta nell’Io, ma vi si pone come un’istanza particola-re contrapposta all’altro contenuto dell’Io. In tal caso la definiamo col nome di Super–Io e ad essa, erede dell’influenza dei genitori, attribuiamo funzioni importantissime. Se il padre era duro di carattere, violento, crudele, il Super–Io assume da lui queste caratteristiche e, nel suo confronto con l’Io, si ristabi-

4 Menninger K.A., Man Against Himself, (Or., 1938), Harcourt Brace Jovanovich, Lon-

don/New York 1963.

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lisce la passività che per l’appunto doveva essere rimossa. Il Super–Io è di-ventato sadico, l’Io diventa masochistico, ossia in fondo femminilmente pas-sivo (S. Freud, op. cit.) Nel caso di Dostoevskij, Freud riconosce una disposizione bises-

suale così intensa che egli è destinato per tutta la vita, sulla base delle sue vicissitudini infantili, a «difendersi con particolare intensità dalla dipendenza da un padre particolarmente duro». Ecco il suo anelito verso la libertà, che diviene denuncia sociale nei suoi romanzi veristi e populisti, primo fra tutti Povera gente, ma assume le sembianze della confessione e poi nella predicazione nella maggior parte dei grandi capolavori, a cominciare dal Sogno di un uomo ridicolo fino a Delitto e castigo e ai Fratelli Karamazov5.

Il parricidio, reale o immaginario, è quindi alla base del senso di colpa in quanto delitto principale e primordiale dell’umanità e dell’individuo, come Freud ha argomentato in Totem e tabù. Ma è la libertà che dilania Raskòl’nikov e lo fa confessare, dato che nel ro-manzo non ha padre, è la libertà del “parricida” Dostoevskij che lo fa imprigionare dopo aver sofferto le crisi epilettiche e dopo la grazia dello zar, giunta quando il plotone di esecuzione già aveva puntato le canne dei 16 fucili sui primi tre condannati petrasevcy (aderenti al cir-colo dell’attivista politico Petrasevskij). Così si esprime, a proposito della libertà nelle opere di Dostoevskij, il filosofo Nikolaj Berdjaev:

La libertà può essere arbitrio, capriccio, dispotismo. Può decidersi per il bene così come per il male, con sovrana indifferenza. Addirittura può rovesciarsi nell’atto che la nega e l’annichilisce. Tuttavia senza la libertà non c’è niente che valga alcunché. Che ne è, tolta la libertà, del comportamento virtuoso, dell’azione nobile, di ciò che suscita consenso e ammirazione? E che ne è del più struggente oggetto del desiderio, se la sua conquista e il suo possesso non corrispondono alla gratuità del dono? Ma è vero anche il contrario. Posta la libertà, è possibile che il lato in ombra di una decisione condannabile riveli inaspettate ambivalenze e la coscienza, che se ne fa carico, riscatti ciò che al-trimenti appare ingiustificabile. Ciò è accaduto, o può accadere, comunque appartiene all’uomo, che, come Dostoevskij ben sapeva, è sempre al di sopra o al disotto dell’umano. La libertà viene prima del bene e del male6.

5 Bachtin M., Dostoevskij. Poetica e Stilistica, Einaudi, Torino 1968. 6 Berdjaev N., La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002.

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Delitto o castigo? Un’introduzione

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Ma se la libertà viene prima del bene e del male, l’essere liberi co-me possibilità di vita al di fuori di una regola viene prima dell’assoggettarsi — o essere assoggettati — alla regola.

Allora il principio dell’imperativo categorico kantiano, riferito an-che alle “massime”, le rigide regole di vita di Kant7, può essere a buon diritto dileggiato da Nietzsche, che forse per primo definì Dostoevskij psicologo8, e che afferma, in Al di là del bene e del male9:

Quanto più uno psicologo — uno psicologo è un divinatore di anime costitu-zionalmente e inevitabilmente tale — si rivolge ai casi e agli uomini più fuori del comune, tanto maggiore diventa il suo pericolo di restare soffocato dalla pietà: costui ha bisogno di durezza e di giocondità, più di qualsiasi altro uo-mo. Il pervertimento, il crollo degli uomini superiori, delle anime di indole più ignota, è infatti la regola: è terribile aver sempre sotto gli occhi una siffat-ta regola. In questo passo di Nietzsche troviamo accostate, come di consueto

scandite in una labile ma trascinante catena associativa di idee, molte diverse folgoranti intuizioni, attinenti al nostro tema.

La prima è il pericolo di soffocamento del terapeuta, psicologo o psichiatra che sia, di fronte al dolore e alla sofferenza del paziente de-presso. In ciò si allude al limite incerto fra la capacità di vedere la sof-ferenza depressiva, il crollo, senza provarne la vertigine se non per un attimo e la capacità di non esserne sopraffatti, fra empatia, compassio-ne ed eccessivo coinvolgimento verso la persona.

Una seconda riguarda le indicazioni quasi tecniche per lo psicologo di durezza, che potremmo intendere come sincerità, autenticità assurta a metodo, e di giocondità, in cui possiamo ravvisare invece le capacità di rimetterne in gioco il “pervertimento”, far ripartire il meccanismo

7 Caracciolo S., Con il cappello sotto il braccio. Il Profilo Psicologico di Immanuel Kant,

Aracne, Roma 2005. 8 «…a parte Stendhal, nessuno mi ha procurato [come D. ] un piacere e una sorpresa mag-

giori, ecco uno psicologo con cui io mi intendo». Il passo è contenuto in una lettera di N. a Peter Gast (al secolo Heinrich Köselitz, uno dei suoi più fedeli discepoli) del 13 febbraio 1886, citata da G. Colli e M. Montinari in: Opere di Friedrich Nietzsche, Vol. VI, Tomo II, Adelphi, Milano 1977.

9 Nietzsche F., Al di là del bene e del male (Jenseits von Gut und Böse, 1886) in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Vol. VI, Tomo II, Adelphi, Milano 1977.

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delle emozioni, nel depresso così pervicacemente ancorate alla tristez-za10, di tenere accesa la speranza.

Ma il punto che più appare interessante è la notazione che “il crollo degli uomini superiori è la regola”.

Chi sono infatti gli “uomini superiori”? Non è proprio il ritratto che Dostoevskij fa di Raskòl’nikov, e cioè, negli aspetti autobiografici i-nevitabilmente al servizio della creazione letteraria, di se stesso?

E chi sono allora, per contrasto, gli “uomini inferiori”? Il capostipi-te di questa stirpe è certamente il protagonista dei Ricordi dal sotto-suolo che si presenta così, da solo, nell’inquietante incipit in cui, come racconta in una nota lo stesso Dostoevskij, appare come rappresentan-te di una generazione intera11:

Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso. Credo d’aver male al fegato. Del resto non so un corno della mia malattia e non so con pre-cisione dove ho male. Non mi curo e non mi sono mai curato, sebbene tenga in gran conto la medicina e i medici. Inoltre sono estremamente superstizio-so, comunque abbastanza superstizioso da tenere in gran conto la medicina. (Son colto quanto occorre per non essere superstizioso, ma lo sono). No, non voglio curarmi per malvagità. Ecco una cosa che certo non vi degnerete di capire. Be’ ma io la capisco. S’intende che non vi so spiegare a chi appunto faccia dispetto in questo caso colla mia malvagità; so perfettamente che non faccio un torto ai medici col non andarmi a curare da loro; so meglio di chiunque che in questo modo faccio male soltanto a me stesso e a nessun al-tro. Tuttavia se non mi curo è ugualmente per malvagità. Ho male al fegato; ci ho gusto, possa venirmi male ancora di più! Se l’anonimo Io narrante, che in parte è Dostoevskij stesso, come

afferma Moravia nel suo saggio introduttivo, in parte è un giovane Ra-skòl’nikov, non sa spiegare a chi la sua malvagità (aggressività in-troiettata) faccia dispetto, con il senno — psicoanalitico — di poi noi siamo in grado invece di ipotizzarlo o, per quanto possibile, di “inter-pretarlo”: egli fa dispetto a se stesso. Nel suo umore depresso colorato di ipocondria egli determina una autoaggressione feroce ma non luci-da, parlando da quel “sottosuolo” nevrotico, come ebbe a definirlo

10 Vedi a questo proposito il contributo di Sergio Molinari, in questo stesso volume, che riprende e sviluppa diversi suoi fondamentali lavori sullo stesso argomento.

11 Dostoevskij F.M., Ricordi dal Sottosuolo (Zapiski iz Podolja, 1864), trad. ital. di T. Landolfi, prefazione a cura di A. Moravia, Rizzoli, Milano 1975.

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Moravia12, che conosciamo bene quando entriamo in contatto con l’universo della depressione, e che rappresenta un elemento ancora o-scuro, un’oscuro soffitto senza stelle, come lo descrisse in una delle sue più lancinanti liriche la poetessa angloamericana Sylvia Plath, ci-tata in epigrafe, affetta a lungo da depressione ed infine vittima della propria disperazione.

3. Dostoevskij psicoanalista ante litteram nella lettura di Pasolini La definizione di Nietzsche di Dostoevskij come grande psicologo

trova poi una serie di ulteriori conferme in tanti successivi contributi critici, in cui si deve ricordare innanzi tutto quello di Pier Paolo Paso-lini, per cui il delitto, tuttora insoluto, della sua barbara uccisione del 1975 ha rappresentato un castigo crudele e supremo delle colpe a lui attribuite dalla società italiana di quegli anni. Così egli si esprime nel suo saggio del 1974 su Delitto e castigo, a proposito del delitto di Ra-skòl’nikov13:

Tale morte in principio non significa nulla. È una morte anagrafica. Eppure essa era indispensabile perché finalmente qualcosa si sciogliesse dentro il suo ostinato figlio. Ciò avviene di colpo e senza nessuna ragione. Assomiglia un po’ a quella che i cristiani chiamano «conversione» o i filosofi zen «illumina-zione»: cioè un mutamento radicale che si verifica in un momento qualunque o addirittura banale. Un dopopranzo, in una pausa di lavoro, sopra uno sterro, davanti a una grande pianura illuminata da un pallido e tiepido sole, dove, lontano, sono accampati dei nomadi, il nostro eroe sente di colpo di amare la ragazza che l’ha seguito: di amarla in modo completo, assoluto, così come non aveva potuto amare la madre da bambino. Era tanto semplice! Non solo Dostoevskij ha prefigurato Nietzsche e tutta la cultura nietzschiana, non solo ha prefigurato Kafka, cioè almeno metà della letteratura del Novecento (basta infatti togliere la descrizione del delitto iniziale, e lasciare tutto il resto così com’è: e Delitto e castigo diventa un enorme e convulso processo), ma addi-rittura ha prefigurato, precorso, preteso Freud. A meno che egli non sapesse già tutto ciò che Freud avrebbe scoperto. Questa mia non è che un’umile chiacchierata e un’analisi psicanalitica a braccio; ma potrei però dimostrare,

12 Moravia A., Prefazione a Ricordi dal Sottosuolo, op. cit., 1975. 13 Pasolini P.P., Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo, in Saggi sulla Letteratura e

sull’Arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, pag. 1976, Milano, Mondadori, 1999.

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in un saggio documentato, come in Delitto e castigo ci sia un numero impres-sionante di espressioni «esplicitamente» psicanalitiche. Ciò mi riempie di una sconfinata ammirazione, pari almeno a quella che sento per la impareggiabile «sceneggiatura» del romanzo. Ha ragione Pasolini a nostro avviso, ed è un delitto che una sorte

crudele gli abbia impedito di scrivere quel saggio documentato che ci fa intravvedere nelle sue note critiche.

Né ci illudiamo di poterlo fare in questa sede, anche se non pos-siamo esimerci dal ricordare le parole che lo stesso Dostoevskij lasciò scritte in uno dei suoi taccuini, citate da Bachtin:

Mi chiamano psicologo: non è vero. Io sono soltanto realista nel senso più al-to, cioè raffiguro le profondità dell’anima umana14. Ma, in una accezione modernamente psicoanalitica, questo è pro-

prio ciò da cui parte ogni psicologo che descrive da “realista nel senso più alto”, ovvero attraverso un metodo scientifico, i meccanismi più profondi della mente umana.

4. I sogni di Dostoevskij secondo Louis Breger Alle ripercussioni delle vicissitudini familiari di Dostoevskij sulla

sua vita e sulla sua opera è stato dedicato un saggio di grande interes-se, che ha ripreso, a partire specialmente da Delitto e castigo, le inter-pretazioni di Freud sullo scrittore. Ne è autore Louis Breger, psicoana-lista e docente di Psicoterapia psicoanalitica al California Institute of Technology a Pasadena (USA)15.

Da studioso del sogno, Breger colloca il vertice del suo punto di osservazione nella struttura onirica di Delitto e castigo, concepito co-me “una serie collegata di sogni” (a shared series of dreams).

E proprio il racconto di un sogno di Raskòl’nikov precede il suo delitto, in cui si vede come un ragazzo, giovane e innocente, che os-serva con orrore un contadino ubriaco picchiare selvaggiamente un

14 Bachtin M., Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 2002, p. 82. 15 Breger L., Dostoevsky, the Author as Psychoanalyst. University Press, New York 1989.

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cavallo fino ad ucciderlo. Ed è Raskòl’nikov stesso che interpreta il sogno come un segno che anche lui dovrà uccidere la vecchia usuraia, inutile come quel cavallo, con la stessa ferocia.

Il precursore nella realtà di questo sogno è un ricordo giovanile di Dostoevskij che appare centrale nella genesi della sua personalità e ca-rico di conseguenze sulla sua opera: il ricordo di un cavallo battuto selvaggiamente da un corriere di posta, episodio visto a 15 anni, poco dopo la tragica morte della madre per tisi, di cui circa 40 anni più tardi lo stesso scrittore annotava:

C’era del metodo e non solo irritazione — qualche cosa di precostituito e provato in lunghi anni di esperienza — e la terribile frusta che si sollevava di nuovo e di nuovo per abbattersi sulla testa del cavallo […] Questa scena di-sgustosa è rimasta impressa nella mia memoria per tutta la mia vita. […] Questa piccola scena mi è sembrata, per così dire, emblematica. Secondo Breger questa scena si è mescolata, negli anni successivi,

con molti e sovrapposti elementi della vita e dei pensieri di Dostoe-vskij, tanto che egli, rivivendola, si identificava contemporaneamente in se stesso ragazzino come osservatore, nel corriere crudele e nel ca-vallo picchiato, così come Raskòl’nikov nel suo sogno “inventato” si sente contemporaneamente il ragazzino, il contadino ubriaco e il ca-vallo picchiato a morte.

Il riferimento più ampio cui Breger perviene, in seguito a molte e numerose considerazioni, rimanda al ricordo della propria madre, al tirannico rapporto con il padre e alle successive sofferenze di vita. L’immagine del cavallo battuto diviene così l’emblema dell’intera vita di Dostoevskij.

5. Chi è dunque Raskòl’nikov? Espresse fino al parossismo troviamo dunque in Raskòl’nikov le

velleità del superuomo e le paure dell’uomo del sottosuolo, l’orgoglio della volontà di potenza e la mortificazione della propria inferiorità. Mettendo in scena i suoi personaggi, Dostoevskij non mette in scena solo la propria anima; anche la coscienza del lettore è chiamata a in-terrogarsi, costretta a pronunziarsi, a valutare, a decidere. Il romanzo

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Stefano Caracciolo

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polifonico non esclude nessuno: ognuno ha il diritto di esprimere la propria verità. E Raskòl’nikov è Dostoevskij, come lui è indebitato, come lui mette in gioco la sua vita, come lui deve elaborare la sua colpa ed espiare.

Quale è infine la colpa dei malati di depressione? Di quale delitto si sono macchiati? Da dove nasce la loro sete di punizione, talora così efferata ed implacabile dal condurli al suicidio?

Può dare risposta a questa domanda la ricerca psicobiologica, iden-tificando geni e proteine che regolano l’umore?16

Può un dato scientifico tradursi in una tecnica efficace?17 Può una tecnica efficace essere applicata in modo appropriato e

condiviso dalla comunità medica internazionale? Può l’applicazione appropriata di questa tecnica prescindere dallo

sguardo del paziente e dello sguardo del medico nel loro incontro, se-condo la accezione che ci ha mostrato Michel Foucault?:

Per i nostri occhi ormai frusti, il corpo umano definisce, per diritto naturale, lo spazio d’origine e di ripartizione della malattia: spazio le cui linee, i volu-mi, le superfici e i cammini sono fissati, secondo una geometria ormai fami-liare, dall’atlante anatomico18. Ci aspettiamo di poter costruire assieme al lettore un percorso e-

splorativo per una serie, almeno provvisoria, di risposte a queste do-mande, attraverso i diversi contributi a questo volume, ricordando Sigmund Freud:

Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune col quale gli uomini si in-fluenzano tra loro.

16 Manev H., Manev L., Nomen est Omen: do antidepressants increase P11 or S100A10?

Journal of Biomedical Discovery and Collaboration, 1:5, 2006. 17 Arroll B., et al., Efficacy and Tolerability of Tricyclic Antidepressants and SSRIs Com-

pared With Placebo for Treatment of Depression in Primary Care: A Meta–Analysis. Annals Fam Med, 3:449–456, 2005.

18 Foucault M., Nascita della Clinica. Una Archeologia dello Sguardo Medico. (Ed. Or. 1972), pag. 15, Einaudi, Torino 1998.

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Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente1

di SERGIO MOLINARI Sono passati ormai molti anni — si era agli inizi degli anni Novanta

— da quando ho introdotto la concezione delle oscillazioni M–D. Ri-prendendo ora il tema a distanza di tempo, e dopo averlo rielaborato in altre occasioni, mi trovo ad un tempo un po’ eccitato e un po’ preoccu-pato: nel mio linguaggio “oscillatorio” potrei dire che mi trovo in uno stato di oscillazione media m–d. Questa mia introduzione, una tra le tante possibili, ha la finalità concreta di familiarizzare fin dall’inizio con uno dei punti più salienti della mia concezione: la distinzione, pur gros-solana, tra oscillazioni M–D e oscillazioni m–d. Le maiuscole alludono a oscillazioni affettive molto ampie, tendenzialmente estreme e deriva-no dall’incontro, nella mia esperienza clinica, con il mondo delle psico-si maniaco depressive, o stati contigui. In questo senso, legittimamente, M stava per mania e D stava per depressione, e l’espressione “oscilla-zioni M–D” sembrava particolarmente pertinente.

Se le oscillazioni M–D sembravano mettere in scena le massime espressioni affettive del Piacere e del Dispiacere (o del Dolore) le o-scillazioni m–d si riferivano globalmente — con ampiezze e disarmo-nie molto diverse — a tutto quanto poteva avvenire, innanzitutto all’interno della relazione analitica, in termini di oscillazioni–trasformazioni dei movimenti di piacere–dispiacere, sia nell’ana-lizzante sia nell’analista: queste oscillazioni erano ipotizzate come sempre presenti e attive, come un accompagnamento obbligato di ogni processo mentale, conscio e inconscio. Ci si potrebbe dunque esprime-re anche nei termini di operatore M–D (m–d) della mente.

1 Questo mio scritto riprende nei suoi temi principali un più ampio intervento tenuto a

Roma nel 2003 al XII Convegno nazionale del Centro Italiano di Psicologia Analitica con il titolo Stati Affettivi della Mente: le oscillazioni M–D2. e pubblicato nel volume: Psicologia Analitica e Teorie della Mente, a cura di Luigi Aversa et al., Ed. Vivarium, Milano 2005.

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In un sintetico tentativo di coprire in qualche modo il gap tra l’allora e l’oggi, procederò per spunti, servendomi, se necessario, di citazioni evocative: rinunciando dunque a ogni inattuale pretesa di una qualche forma di saturazione teorica. L’accento, nelle mie intenzione, deve essere posto sul confronto e sul dialogo.

A tal fine, utilizzerò innanzitutto quanto scrivevo, avendo in mente la distinzione M–D, nel 19942, a proposito della sofferenza psichica:

Sofferenza psichica come stato di disagio, tensione, malessere, dispiacere, in-felicità, a cui fanno da contrappunto stati di detensione, di piacere, fino all’estremo della felicità e della gioia. Stati di piacere e dispiacere che la con-dizione umana ci obbliga a sperimentare, in modo più o meno mutevole, più o meno adeguato alla superficiale osservazione degli altri e di noi stessi ma che, comunque, vanno intesi, secondo la lettura freudiana, come i prototipi di ogni affetto e, in una visione più allargata, come gli “accompagnatori” di o-gni stato affettivo. Non verrà, in questa sede, operata una distinzione tra af-fetti, sentimenti, emozioni, stati d’animo, distinzione controversa e, a giudi-zio di molti, scarsamente proficua: verrà piuttosto privilegiata la distinzione tra affetti positivi (nei quali prevale l’esperienza o l’attribuzione di stati di piacere) e affetti negativi (nei quali prevale l’esperienza o l’attribuzione degli stati di dispiacere). È André Green3 che si esprime nei termini di un continuum, a un estremo del quale viene collocata la gioia, all’altro il dolore (mentale), mentre nei punti intermedi vengono rappresentate tutte le grada-zioni di piacere e dispiacere. In questa ottica possiamo dunque rappresentarci oscillazioni, più o meno ampie, più o meno armoniche, di un singolo affetto lungo questo continuum4 mentre gli affetti soggettivi possono essere intesi come la complessa risultante di affetti diversi, oscillanti contemporaneamente lungo il continuum gioia–dolore). Inevitabilmente, sul piano clinico, i miei pensieri si intrecciavano

con le concettualizzazioni e le esperienze cliniche che mi derivavano dall’appartenenza al mondo psicoanalitico freudiano (e, s’intende, kleiniano, winnicottiano, bioniano e, per la mia storia personale, for-nariano). Ora però mi veniva sempre più naturale interrogarmi su

2 Molinari S., Lappi R., Clinica psicologica e sofferenza psichica. La vita affettiva e le sue radici infantili. In Trombini G. (a cura di) Introduzione alla clinica psicologica. Zanichelli, Bologna 1994, pp. 40–75.

3 Green A., (1973) Il Discorso Vivente, Astrolabio, Roma 1974. 4 Cfr. Molinari S., La psicoanalisi alla sorgente degli affetti, op. cit.; Molinari S., La

complessità del sogno. In Bosinelli M., Cicogna P. (a cura di) Sogni: figli di un cervello ozio-so, Boringhieri, Torino 1991, pp. 161–185.

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Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente

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dov’era, in un dato momento della relazione, il piacere e il dispiacere (l’m e il d) più attuale e più pregnante, sia nel mondo interno del pa-ziente (io continuo a chiamarlo così) sia in quello dell’analista. Mi in-terrogavo su quali emergenti ipotesi potevano essere fatte di fronte al paziente che non parlava, oppure che sosteneva di “non provare asso-lutamente niente”, magari sollecitandolo a considerare, esplicitamente o implicitamente, che questo non era possibile, almeno lungo il continuum piacere–dispiacere. Sperimentavo come ci si potesse avvi-cinare ai sogni con associazioni povere, o assenti, o troppo razionali o razionalizzanti, soffermandomi sulle singole immagini, presupponen-do che queste fossero “necessariamente” associate a un movimento timico–affettivo (ipotesi che, qui lo dico incidentalmente, mi ha recen-temente ricondotto, dopo tanti di assenza, nel laboratorio del sonno e del sogno!). Sintetizzando al massimo, mi pare di poter dire che il mio silenzioso accoppiamento con la proto–teoria delle oscillazioni affetti-ve ha mutato, spesso con movimenti quasi impercettibili, il mio stile di lavoro. A partire, s’intende, dai miei atteggiamenti controtransfera-li, anche se resto consapevole di quanto sia difficile e precario cercare di anatomizzare i cambiamenti dello stile dell’analista, di fronte a fat-tori quali la maggiore esperienza, il passare del tempo (nel bene e nel male, verrebbe da dire), senza trascurare quanto i pazienti — certi pa-zienti, con la loro sofferenza, la loro creatività, la loro distruttività… — ti hanno costretto a capire, e a modificare, i tuoi schemi, i tuoi au-tomatismi, i tuoi arroccamenti teorici, magari le tue stesse segrete… sperimentazioni teoriche.

Fornirò ora qualche rapidissima esemplificazione, accettando il più serenamente possibile l’affetto di dispiacere che si può provare di fronte a una obbligata banalizzazione. Sono frequenti le circostanze in cui il paziente, in modo esplicito o implicito, verbale o non verbale, chiede all’analista: “Come sta?”. Una domanda che può significare tutto e il contrario di tutto, al limite niente, come nella formale espressione bri-tannica: “How do you do?”. Avevo scritto niente, e volevo correggere in quasi niente: un analista non può lasciarsi scappare un lapsus del ge-nere. Ma, a ben pensarci, l’“How do you do?”, specialmente se integra-to dalla risposta speculare “How do you do?”, potrebbe in realtà signifi-care moltissimo: l’impossibilità di sapere, d’acchito, come si sta, l’impossibilità di dirlo a parole, la difficoltà nel credere che all’altro, in

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generale, interessi qualcosa di come davvero stai… Dunque, se un pa-ziente in qualche modo mi chiede come sto, adesso mi trovo sempre più spesso a pensare innanzitutto proprio a come sto. Perché, in quel mo-mento, c’è l’altro che, in buona sostanza, parla di oscillazioni benesse-re–malessere, di oscillazioni m–d, in una fantasia–bisogno di accomu-namento. Rispondere con una delle tante possibili interpretazioni, o sta-re in silenzio senza segnalare di aver recepito la “domanda” o senza, in termini bioniani, avere fatto una rêverie sul proprio stare e sullo stare dell’altro, può a volte contagiare il clima affettivo della seduta, con mo-dalità che tendono a sfuggire per sempre. In termini più generali, ritorno ora a uno dei miei primi incontri con quello che sarebbe diventato il mio mondo M–D. Si trattava di una paziente, con una classica sindrome bipolare maniaco–depressiva, inviatami da un collega psichiatra che mi aveva davvero pregato di prenderla in psicoterapia: lui avrebbe conti-nuato a seguirla farmacologicamente, dato che il suo tentativo di terapia combinata gli era diventato impraticabile. Non mi soffermerò sulla vi-stosa sintomatologia di questa paziente che si manifestava nelle fasi maniacali e in quelle depressive: con pazienti del genere, molti potreb-bero raccontare ancora di più! Ricordo i miei sforzi nel tamponare in qualche modo gli eccessi, quando gli episodi estremi erano in corso; il tentativo di anticipare nella mia mente il viraggio verso l’uno o l’altro polo, basandomi sull’esperienza di analoghi episodi precedenti che ave-vamo vissuto insieme; il mio “doveroso” cercare di condividere con la paziente questa anticipazione, in una quasi velleitaria ricerca di un qual-cosa che potesse mettere una qualche sordina ai suoi eccessi, di cui la storia pregressa indicava una reale pericolosità. Ricordo anche i miei sospiri di sollievo ogni volta che la paziente usciva dalle sue fasi estre-me, diveniva più “ragionevole” e sembrava funzionare, in termini di o-scillazioni, come altri pazienti che, pensavo, potevo definire come oscil-lanti, pur con tutte le varianti, nelle modalità minuscole (medie o picco-le) m–d. All’inizio, però, tendevo a trascurare la sua mancanza di vitali-tà, che peraltro sapeva mascherare molto bene, dandomi così l’impressione di una ripresa post–narcisitica verso una qualche forma di relazione oggettuale e, in termini kleiniani, verso un qualche aurorale iniziale (ri)affacciarsi della posizione depressiva. Solo attraverso le suc-cessive oscillazioni M–D cominciai a rendermi conto che le cose erano più complesse. Una quota importante delle sue supposte oscillazioni

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medie m–d… riguardavano me. Erano, in particolare, il riverbero delle mie attenzioni durante le fasi estreme, combinate con una maggiore scioltezza del mio operare dovuto al sollievo del presente. Mi sfuggiva quanto, in quei momenti di quiete relativa, io mi trovassi a fungere da sua… affettività relazionale ausiliaria, una mia affettività che faceva sua e che mi faceva percepire come proveniente da lei e da sue oscillazioni. Mi rendevo lentamente conto che un’applicazione meccanica della mia proto–teoria poteva impedirmi un accesso equilibrato a specifici proces-si e fenomeni, quali quelli tipici delle sindromi come–se: se mi è con-sentita una licenza nosografica, direi quasi delle sindromi affettive co-me–se. In una vena analoga, potrei ricordare un’altra mia paziente che, pur riscuotendo grandi successi professionali economici e di prestigio, sembrava ignorare cosa fosse la gratificazione ed il piacere: era però sempre pronta a piombare in un drammatico umor nero, alla minima contrarietà e alla minima frustrazione, anche lavorativa. Il luogo dell’analisi, così come l’ambiente familiare, erano deputati al lamento e all’esibizione della depressione e della sofferenza. Mi domandavo dov’era nascosto il piacere (al di là, s’intende, delle obbligate esplora-zioni del mondo infantile e, ad esempio, di configurazioni masochisti-che). Chiedeva all’analista affetto e vicinanza, con discrezione e digni-tà. Affermava di provare gratitudine per l’affetto che sentiva arrivargli da me: ma niente si muoveva, tutto sempre tristemente uguale. Sono una pessimista, diceva, quasi scusandosi e con un sorriso triste e intri-gante. Utilizzando un’espressione junghiana, potrei dire che voleva e spesso riusciva a contagiarmi con la sua tristezza, non diversamente da come la paziente precedente voleva e, all’inizio, riusciva a contagiarmi con la solare felicità che caratterizzava le sue fasi maniacali. Questa se-conda paziente, invece, nascose a lungo la sua M, che pure si poteva immaginare data la frenetica attività lavorativa, la sua instancabilità, la sua fortuna. Solo dopo molto tempo, emerse in analisi la felicità che si teneva tutta per sé, legata a quello che provava nei suoi produttivi mo-menti creativi, obbligatoriamente favoriti dall’uso di droghe di cui non aveva mai parlato con nessuno: con lo svelamento del piacere, qualcosa cominciò lentamente a cambiare tra di noi.

Sono, comunque, le piccole (o piccolissime) oscillazioni, quelle che più possono cimentare l’ipotesi m–d, e che richiedono un lungo lavoro di tessitura difficilmente riassumibile: penso, innanzitutto, a di-

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versi pazienti con una patologia psicosomatica, nei quali lo “spiazza-mento” dell’alessitimia richiede spesso una pervicace “preconcezio-ne”, da parte dell’analista, di un loro “naturale” e ricco sentire, e una paziente attesa, condivisa con l’analizzante, poiché l’importante non è far esplodere di colpo emozioni, affetti e sentimenti, o le angosce che temono di provare, ma riconoscere gli affetti come inalienabili, anche se piccoli, ingredienti dinamici del loro essere in vitale rapporto con le cose del mondo. Ho già accennato come, nella mia esperienza, i sogni si costituiscono spesso come una piccola chiave di volta per tarare l’ipotesi m–d. La loro eventuale povertà, il non ricordo, il rifiuto di evocarli e di raccontarli, mi sono spesso apparsi come una difesa in-conscia per evitare di imbattersi, nell’incontro con l’analista, con l’incontrollabile mondo delle oscillazioni affettive. Del resto è più che descritta — e non solo da Bion! — la crucialità del momento in cui pazienti che non sognavano cominciano a portare in analisi dei veri sogni.

Un discorso diverso, molto particolare, richiederebbe l’esplorazio-ne dei rapporti tra oscillazioni m–d (o M–D) e pazienti isteriche. Do-vrei qui parlare, ora, di un mio work in progress, molto ambizioso e coinvolgente che, ritrovando filoni lasciati in sospeso dalla successiva elaborazione freudiana, potrebbe consentire di rileggere il fatidico ca-so di Anna O. anche alla luce di una teoria delle oscillazioni affettive ricavabile, almeno in parte, in modo indipendente da obbligate deriva-zioni freudiane e postfreudiane. Va da sé che se riuscissi a stabilire un qualche convincente raccordo tra la prima paziente della psicoanalisi — ma… una paziente di Josef Breuer, da lui vissuta e da lui descritta in Studi sull’Isteria — una teoria clinica M–D poggerebbe su basi ben diverse e potrebbe consentire una ben diversa presentazione. Alla fine di tutto, come negare che, nella storia della psicoanalisi, in principio era l’affetto?

Prima di passare brevemente alla seconda parte di questa trattazio-ne, vorrei spendere ancora qualche parola sulle oscillazioni m–d dell’analista. In generale, ma in particolare con certi pazienti, è impor-tante che l’analista s’interroghi rapidamente su “come sta” fin dall’inizio della seduta. Ci sono pazienti che, in qualche modo emuli del famoso bambino descritto da Winnicott, sanno cogliere in modo acutissimo, lo stato d’animo, le oscillazioni benessere–malessere, ov-

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vero, per dirla con Antonio Damasio5, le emozioni di fondo dell’a-nalista. In questi casi, è dunque importante che l’analista “si metta all’altezza”, interrogandosi a sua volta su di sé. Certi pazienti sanno perfino cogliere, più o meno chiaramente, se l’analista si è a sua volta interrogato su come sta. Sono, s’intende, problemi di controllo che ri-guardano il paziente. È probabile che se un paziente si sente partico-larmente aggressivo e, ad esempio, desidera fare uscire dai gangheri l’analista — spesso appoggiandosi su minime smagliature, reali o proiettive che siano — cerchi di monitorare, più o meno cosciente-mente, l’analista, nel momento dei primi impatti, visivi o vocali che siano. Parlo di aggressività ma, ovviamente, il discorso può riguardare ogni derivato pulsionale e ogni movimento affettivo. Un’accortezza del genere può rendere l’analista più recettivo alle proprie oscillazioni nel corso della seduta, per modulare sia eventuali “contagi affettivi” sia il tenore delle interpretazioni. Più in generale, penso a una capacità di monitoraggio fluttuante delle proprie oscillazioni a discrezione dell’analista stesso. Nel continuum di una seduta, o anche di un’intera analisi, conviene non sottovalutare l’importanza di un “sano narcisi-smo fluttuante”, inteso anche come “minima oscillazione affettiva au-tocurativa”. Penso al rischio che tutti noi corriamo di “essere con il paziente” prima ancora che “essere con noi” involontariamente impo-verendo, magari per stanchezza, i momenti d’incontro che, almeno po-tenzialmente, dovrebbero poter sempre essere i più “nuovi” possibili.

Questo è solo uno spunto per alludere, anche, a quelle che ho chia-mato oscillazioni m–d molto piccole (al limite microscopiche) che si costituiscono come un oscuro fondo che anima ogni relazione. Ad e-sempio al paziente “fusionale” che cerca di imporci in tutti i modi la sua urgenza di fusione, possiamo dolcemente proporre “veri momenti fusionali”, ma con un continuo ritorno alle nostre più intime oscilla-zioni, senza entrare — o farci condurre — in modo subdolo in uno dei tanti rifugi legati all’universo della colpa. Al paziente che vive con angosce catastrofiche ogni minima novità, potremmo proporre, facen-do appello a tutta la nostra pazienza, microscopiche “novità” interpre-tative. Si può sperare che, con microscopiche operazioni ripetute nel

5 Damasio A., Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti, cervello, Adelphi, Milano,

2003.

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corso del tempo, qualcosa possa cambiare nell’universo affettivo del paziente.

Una vistosa omissione di questa rapida carrellata riguarda quelle si-tuazione cliniche in cui la sessualità gioca un esplicito rilievo: basti pensare a tutte le configurazioni del transfert erotico, o a specifiche fi-gure della perversione, innanzitutto quando emerge, a volte in modo quasi incontrollabile, una urgenza sadomasochistica a partenza dal pa-ziente. Schematizzando al massimo, preciso che è molto difficile rias-sumere in poche righe vicende relazionali dove l’analista deve confron-tarsi con oscillazioni particolarmente complesse, monitorando conti-nuamente il suo come sto con un come l’altro vuole impormi di stare dovendo — tra l’altro — fare contemporaneamente i conti con il fatto che anche il paziente, sul suo versante, sta monitorando un suo come sto con un come l’analista vuole impormi di stare. Come sappiamo, un si-lenzio, una singola parola, l’attenzione a un singolo elemento del set-ting, tutto può fungere da innesco per massicci giochi identificatori, par-ticolarmente perniciosi se agiti sul versante proiettivo. Certo, queste e-venienze sono universali, e non specifiche di situazioni dove il “sessua-le” assume un rilievo particolare, ma qui la “creatività”, dettata dall’urgenza, che il paziente è capace di esibire per “spiazzare” e “con-tagiare” l’analista è spesso riconoscibile solo ex post.

Ho recentemente rivisitato queste tematiche nel mio scritto Nel la-birinto freudiano: tra sogni, affetti, sessualità e metapsicologia6. Per certi versi la presente trattazione può essere intesa come la continua-zione di un discorso lasciato allora in sospeso anche per quanto ri-guarda le mie irriducibili “oscillazioni affettive” nei confronti della classica metapsicologia freudiana. Ricordo solo che avevo concluso questo scritto sui sogni facendo riferimento a una recente ricerca sulle oscillazioni m–d nel sogno7, ricerca che continua ad avere per me un particolare significato, dato che contrassegna un mio ritorno fisico, dopo tanti anni di latitanza, nel laboratorio del sonno e del sogno. I primi risultati sono stati incoraggianti anche se, ovviamente, non sono ancora pronto a ricercare anche il minimo contatto con una teoria M–

6 Molinari S., Nel labirinto freudiano: tra sogni, affetti, sessualità e metapsicologia. In Riolo F. (a cura di), L’analisi dei sogni, Franco Angeli, 2003.

7 Baiamonte C., Cicogna P.C., Molinari S., Affetti e Sogno, Congresso AIMS, Perugia 14–16 ottobre 2002.

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D tuttora così insatura. Tengo questa ricerca come materiale da utiliz-zare, se del caso, in tempi futuri.

Un ultimo spunto riguarda la concezione M–D, comunque modifica-ta e integrata, e il rapporto con le neuroscienze, all’interno del ben più ampio dibattito che sta avendo luogo da alcuni anni in tema di rapporti fra psicoanalisi e neuroscienze. L’ultimo paragrafo del mio lavoro La psicoanalisi alla sorgente degli affetti (una teoria degli affetti)8, portava il titolo Oscillazioni m–d: implicazioni, metapsicologiche e controver-sie. In questo paragrafo riprendevo quanto avevo già accennato in un lavoro di poco precedente (Il Sé tra teoria psicoanalitica e clinica), do-ve mi interrogavo su una fantasia biochimica nascosta di Freud, relati-va alle qualità soggettive di piacere e dispiacere, come ipotizzabile at-traverso una lettura metapsicologica di Al di là del principio del piace-re, scrivendo che

nella mia mente sta prendendo corpo una fantasia metapsicologica che, basan-dosi sulle moderne conoscenze neurochimiche relative al sistema endorfinico, ipotizza una struttura autoregolatrice autoctona delle esperienze di piacere e di-spiacere9. Nel 1991, così aggiungevo: Quando parlo di un mitico sistema endorfinico mi riferisco, ovviamente, alle ri-cerche recentissime, e in tumultuoso sviluppo, sui neurotrasmettitori: sceglien-do arbitrariamente la parte (endorfine) per il tutto (i numerosissimi neurotra-smettitori) intendo unicamente mettere l’accento su questi particolari peptidi oppioidi neuroattivi che, pur con le riserve dovute alle tuttora scarse conoscen-ze, specialmente riguardo ai loro effetti nella specie umana, vengono spesso i-potizzati (certamente non da soli!) come agenti all’interno di un complesso si-stema naturale di difesa–modulazione del dolore e di provocazione–modula-zione del piacere. Mi è difficile pensare agli affetti primari, alle oscillazioni “m–d”, al substrato biologico implicato in una metapsicologia degli affetti, ne-gando la conoscenza di questi dati, o trattandoli come se fossero sogni confusi nelle mani di un non–analista10.

8 Molinari S., La psicoanalisi alla sorgente degli affetti (una teoria degli affetti), op. cit., 1991. 9 Molinari S., Il Sé tra teoria psicoanalitica e clinica. In Ammaniti M. (a cura di) La na-

scita del Sé. Laterza, Roma–Bari 1989, p. 61 nota. 10 Molinari S., La psicoanalisi alla sorgente degli affetti (una teoria degli affetti), op. cit.,

1991, p. 372.

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In pochi anni, il quadro è ulteriormente cambiato e la ricerca nel mondo delle neuroscienze ha subito un’accelerazione straordinaria. Se ripenso, oggi, alla mia concezione m–d, si affollano nella mia mente testi e approcci che, allora, avrei cercato invano. Un solo esempio: l’affascinante volume Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti, cervello, di Antonio Damasio11, di cui basta riportare l’incipit per an-ticipare inattese risonanze e concordanze. Scrive Damasio:

I sentimenti — di dolore e di piacere o di qualità intermedia fra questi estremi — sono il fondamento della nostra mente. Spesso non ci rendiamo conto di questa semplice realtà perché le immagini mentali degli oggetti e degli eventi intorno a noi, insieme a quelle delle parole e delle proposizioni che li descri-vono, assorbono gran parte della nostra attenzione già sovraccarica. Ciò non-dimeno, eccoli lì, i sentimenti di miriadi di emozioni e stati affini, incessante accompagnamento musicale della nostra mente, inarrestabile mormorio della più universale delle melodie12. Per parte mia, dopo avere inizialmente pensato a questo “accompa-

gnamento musicale” in termini di oscillazioni, oggi mi trovo sempre più spesso a pensare — quando mi interrogo su quanto si dispiega nel-la stanza dell’analisi — nei termini di fluttuazioni (m–d, M–D) In altre parole, tendo a collegare le oscillazioni a movimenti intrapsichici e le fluttuazioni a movimenti interpsichici, relazionali. In fondo, insistere sulla inderivabilità di un’affettività di base cambia l’atteggiamento clinico, che diviene sensibile, e dunque anche consapevole e critico, del fatto che ogni attività rappresentativa e di pensiero è veicolata da-gli affetti, e che il principale compito terapeutico ha a che vedere con la necessità di regolarla criticamente. Se infatti ammettiamo che la to-nalità affettiva sia il nerbo del complesso, potrebbe essere particolar-mente stimolante interrogarci sui “ricambi”, consci e inconsci, che si animano, nel processo analitico, tra affetti del paziente e affetti dell’analista, in funzione delle — asimmetriche ma pur sempre pre-senti — rispettive fluttuazioni dell’unità della coscienza, quando com-plessi secondari dell’uno o dell’altro entrano in relazione, e sono in qualche modo “colti” dall’uno o dall’altro, Certamente, gli affetti pos-

11 Damasio A., Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti, cervello, Adelphi, Milano 2003.

12 Ibidem, p. 13.

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Le oscillazioni M ↔ D: un operatore della mente

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sono avvicinare molto analista e paziente, costituendo il veicolo della comprensione “profonda”, ma possono anche creare dolorosissimi fraintendimenti, quando componenti ideative e percezioni sensoriali complessuali, del tutto “personali” e non intuibili dall’altro, vengono “supposte” come comuni o proiettate sulla base di fantasie inconsce di accomunamento. Mi sto in qualche modo riferendo anche a quelle di-namiche inconsce assolutamente primitive e sicuramente difficoltose da definire che in campo freudiano sono spesso state indicate come identificazione proiettiva. Probabilmente una riflessione ulteriore sulle modalità della comunicazione affettiva potrebbe aiutarci a ripensare in modo più profondo e attuale questo concetto.

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La comunicazione medico–paziente nella prescrizione degli antidepressivi

di STEFANO CARACCIOLO

1. La comunicazione medico–paziente e il pensiero magico e pri-mitivo1 Fra i classici assiomi della pragmatica della comunicazione umana

si trovano le affermazioni che non è possibile non comunicare, e che, all’interno di un processo bidirezionale, comunicazione verbale e non verbale dispiegano i loro significati sul piano duplice del contenuto da un lato e della relazione dall’altro2. La prescrizione di un farmaco pos-siede pertanto un complesso di significati comunicativi, collegando in modo intrecciato i bisogni emotivi, i sintomi e la sofferenza del pa-ziente con la competenza e la capacità tecnica del medico, nell’incon-tro di due personalità. La prova più concreta di questo intreccio è rap-presentata dall’effetto placebo, il fenomeno per cui un paziente pre-senta una risposta clinicamente significativa dopo l’assunzione di una sostanza farmacologicamente inerte.

Del resto, è del tutto evidente che le dinamiche psicologiche che si possono osservare nel rapporto fra medico e paziente sono legate alle modalità di funzionamento dell’apparato psichico di ciascuno dei due soggetti che fra loro interagiscono. Si tratta quindi di dina-miche relazionali, frutto cioè dell’incontro, della situazione, delle esperienze precedenti di ciascuno dei due e, pertanto, irripetibili, influenzate da fattori innumerevoli e — il dubbio è forte — forse imperscrutabili.

1 vedi anche: Caracciolo S., Il ruolo del pensiero magico e superstizioso nel rapporto me-dico–paziente. Rivista di Storia della Medicina X (1–2): 279–285, 2000.

2 Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D., Pragmatic of human comunication. Norton & Co., New York, 1967 (Ed. Ital., Astrolabio).

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In corso di una condizione di malattia fisica, che rappresenti una seria minaccia alla integrità del corpo, si realizzano spesso fenomeni di regressione, secondo un meccanismo inconscio di difesa dell’Io che, sovrastato dall’intensità della angoscia cui non riesce a far fronte, regredisce a livelli di funzionamento arcaici ed infantili.

Per poter prevedere pertanto la reazione di un paziente di fronte ad una simile malattia fisica, sarà necessario conoscere, anche se certa-mente in modo provvisorio e non esaustivo, quale sia stata l’evolu-zione della sua personalità nelle fasi più precoci dello sviluppo e quale retaggio queste parti infantili abbiano conservato, all’interno del gene-rale funzionamento della sua personalità, nel momento in cui l’evento si verifica.

Ma quanto è accessibile questo complesso di informazioni al medi-co che incontra il paziente nel suo studio o nella corsia d’ospedale? Quali tipi di reazioni egli può prevedere e sulla base di quali meccani-smi? E come affronterà le evenienze impreviste?

Una risposta possibile a queste domande nasce dalla considerazio-ne, che deriva dal precedente enunciato, secondo cui le variabili psico-logiche coinvolte comprendono sia la personalità del paziente che quella del medico.

Il brano seguente, tratto da un celebre contributo dell’etnologo Lé-vi–Bruhl, appare illuminante in questo senso3. Riportiamo l’incipit del capitolo tredicesimo, intitolato: I primitivi e i medici europei:

Quasi dappertutto, uno dei primi rapporti che si stabiliscono tra gli indigeni e l’europeo è quello tra malati e medico. È raro che l’esploratore, il naturalista, il missionario, l’amministratore stesso non si trovi a far funzione di medico. Come sono accettate e capite le loro cure? Abbiamo su questo punto testimo-nianze abbastanza numerose e concordanti. Forse, esaminandole da vicino, troveremo una conferma dell’analisi della mentalità primitiva che è stata ten-tata più sopra. Passiamo tutte le mattine tre ore — dice Bentley, missionario in Congo — a medicare ulcere voluminose e orribili che, sotto l’azione stimolante e felice delle nostre lozioni, assumono presto un aspetto soddisfacente. Si penserebbe forse che la guarigione di queste ulcere, che datano da cinque anni, o più, in altrettante settimane, dovrebbe strappare ai testimoni qualche segno di sor-presa o di ammirazione. Si penserebbe anche che queste cure mediche, elar-

3 Lévi–Bruhl L., La Mentalità Primitiva, (or. 1922), Einaudi, Torino 1966, pp. 403 e segg.

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gite con tanta bontà, perseveranza, e alle quali si aggiungono, il più delle vol-te, l’alloggio e il vitto, che questi sforzi costanti per ottenere la fiducia e l’affetto, che tutto ciò insomma dovrebbe ispirare qualche volta un po’ di ri-conoscenza. Ma non si manifesta nessun segno di sorpresa né di gratitudine, benché il carattere di questa gente sia ben lungi dall’essere freddo. Ci si co-mincia a chiedere molto seriamente se la riconoscenza sia un istinto naturale in questo popolo. Naturale? Ma che cosa si intende, in questo caso, per naturale?

Spontaneo? Automatico, ineludibile? La riconoscenza per una presta-zione medica, esercitata disinteressatamente, è davvero ed è sempre un sentimento “naturale”?

In questa sede non ci vogliamo addentrare in discussioni filosofi-che, antiche quanto la civiltà, su “natura naturans” e “natura naturata” o sul linguaggio matematico in cui è scritto il libro della natura, se-condo Galileo. Dobbiamo peraltro riconoscerci d’accordo, sulla base dell’empirismo alla Hume, con chi nega la presenza aprioristica di leggi naturali e si pone, invece, alla ricerca di regolarità empirico–fattuali.

Pertanto, non è naturale che il R M/P debba svilupparsi seguendo i binari cura–riconoscenza. Sul piano empirico, certamente questo per-corso si può rilevare con una certa frequenza nella nostra comune real-tà quotidiana, mentre esso appare assai più labile e accidentato in altre situazioni. Basti pensare ai casi, certo particolari ma non così infre-quenti, del rapporto fra medico e paziente detenuto, medico e paziente con gravi patologie psichiatriche, medico e paziente tossicodipenden-te. Non è affatto strano rilevare in questi frangenti lo sviluppo di sen-timenti addirittura opposti alla riconoscenza per l’operato del medico, quali la rabbia rivendicativa, il ricatto, in taluni casi la vendetta a fron-te di un comportamento del medico che tutti gli altri pazienti, in altre situazioni, avrebbero accettato ritenendoli adeguati: possiamo facil-mente immaginare un medico che di fronte ad una richiesta di cure farmacologiche riesca brillantemente ad escludere la presenza di pato-logie e rassicuri il paziente sul suo stato di salute, e che, in casi come quelli già accennati, riceva in cambio rimostranze, rabbia e minacce se non prescrive quel certo farmaco o non rilascia un certificato richiesto.

Consentitemi a questo punto di discutere preventivamente una pos-sibile obiezione che sarà venuta alla mente di molti lettori attenti. Un

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ascoltatore attento e intelligente potrebbe infatti, a questo punto, obiet-tare che si tratta di casi limite, perché questo tipo di paziente non è un vero paziente, nel senso che non ha fiducia del medico a priori e non desidera genuinamente un suo parere ma mira esclusivamente a perse-guire un suo scopo in modo strumentale.

Vorrei dedicare un po’ di tempo alla discussione di questa possibile obiezione, perché tener conto di questa obiezione significa affrontare in modo cruciale l’oggetto di cui stiamo parlando.

Un primo punto cruciale è questo: può il medico attendersi che il suo paziente si comporti secondo regole che il medico pone, o che comunque sono, secondo lui, “naturali”?

La risposta è probabilmente sì, almeno entro certi limiti, se restia-mo al livello dei comportamenti: è lecito attendersi che il paziente sia disponibile all’esame medico, risponda con sincerità alle domande, accetti di spogliarsi per consentire l’esame obiettivo, rispetti le indica-zioni diagnostiche e terapeutiche, non aggredisca, non insulti, assuma cioè comportamenti leciti secondo le leggi e le convenzioni sociali e rimanga entro i limiti previsti dalle regole non scritte delle consuetu-dini sociali. Sebbene questo sia frequente, se ci si pensa bene si deve concludere che non è poi così raro che il paziente assuma invece com-portamenti diversi e devianti: si rifiuta di assoggettarsi a manovre dia-gnostiche o terapie fisiche o farmacologiche, omette deliberatamente particolari imbarazzanti o proibiti nella anamnesi, oppure talvolta se-duce, lusinga, promette per ottenere certi suoi scopi, in casi estremi addirittura minaccia, insulta, aggredisce: è il caso summenzionato del tossicodipendente, del carcerato, dello psicotico.

Ma la risposta è certamente no, se ci riferiamo ai pensieri, alle sensazioni, agli atteggiamenti, più o meno coscienti: il medico de-ve attendersi che il paziente provi emozioni, sensazioni o pensieri diversi da quelli leciti e prevedibili, proprio perché deve tenere conto della storia del paziente e delle parti infantili di lui che si disvelano, suo malgrado, di fronte a situazioni di tipo sanitario, in situazione di regressione, ma anche di proiezione, di negazione, di identificazione. Il paziente mostra atteggiamenti talora capriccio-si, di impaurita ed assoluta dipendenza, di inconsapevole e ostina-ta resistenza, di reattiva e talora ottusa aggressività senza render-sene conto, ed il medico non può limitarsi ad etichettare il pazien-

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te come “deviante” rispetto ai “naturali” comportamenti e liberar-sene con un’alzata di spalle, come se questa violazione delle rego-le lo esimesse dall’occuparsi davvero della situazione, non fosse altro per il fatto che il problema è solo rimandato, si ripresenterà tale e quale se non viene affrontato o quando verrà sottoposto alle cure di un altro medico.

A ciò si aggiunga che anche il medico, naturalmente, ha una perso-nalità e dei tratti infantili di cui non sempre, nonostante l’allenamento e l’esperienza, ha chiara cognizione. E di fronte a queste violazioni, volta per volta, alcune parti infantili del medico entrano specularmente in risonanza — o in dissonanza! — per cui si determinano situazioni abnormi con effetti spesso devastanti sul futuro rapporto medico–paziente e, in ultima analisi, per la salute del paziente.

Ecco quindi possibile enunciare un postulato: Le dinamiche del rapporto medico–paziente si sviluppano secondo criteri biunivoci: quelli del medico e quelli del paziente, che non sempre coincidono naturalmente. Torniamo, infatti, a Lévy–Bruhl ed ai suoi resoconti etnologici: A Sumatra, i missionari tedeschi hanno fatto esperienze del tutto simili. I Battak ricevono le cure mediche […] senza lasciar trasparire il minimo segno di riconoscenza o di ringraziamento. Il missionario Max Bruch ne riferisce un esempio veramente classico. Sua moglie era venuta in aiuto di una donna battak in gran pericolo e le aveva salvato la vita. La gente ri-fiutò di riaccompagnare a casa sua la moglie del missionario e, quando al-la fine si decisero, reclamarono da Bruch del tabacco, perché si erano tan-to affaticati. Molti — dicono altrove gli stessi missionari — sono ricono-scenti per le cure mediche; ma altri sono abbastanza ingenui per pensare che devono ricevere qualche regalo per aver fatto al missionario il piacere di lasciarsi curare da lui. «Avevo in cura un giovane che si era gravemen-te ferito abbattendo un albero... Quando fu in grado di salire a cavallo, lo feci venire alla stazione per medicarlo. “Tornerai dopodomani” gli dissi. Ma rispose che preferiva che io andassi da lui. “Eppure tu hai più tempo di me”. Ingenuamente replicò: “Ma rifletti, Tuan (= signore), il cavallo non me lo danno per niente!” La corsa gli costava 5 cents (un valore irri-sorio). “E perché tu, che non sei povero, possa fare economia di cinque cents, io devo continuare a venire da te!” Fui molto mortificato nel vedere che i miei servigi erano valutati così poco, e che quel giovane non li tene-va in alcuna considerazione».

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Ecco dunque la necessità di riaprire alcune questioni che se non a-vessimo introdotto queste testimonianze ci sarebbero forse apparse o-ziose, scontate o comunque inutili. È il paziente che deve pagare o ringraziare il medico, oppure viceversa? È il paziente che, quando può, deve recarsi, in segno di deferenza e rispetto, dal medico per es-sere curato, oppure è il medico che è tenuto a andare incontro alle pre-tese del paziente, che ai nostri occhi possono apparire insensate? La gratitudine del paziente è, infine, così ovvia, ed è così paradossale che il medico possa essere invece grato al paziente che ha fiducia in lui e, seguendone i consigli, lo fa sentire importante?

Sembra, in realtà, che presso i primitivi si presenti chiaramente quella modalità di pensiero che solo in casi sporadici emerge nella re-altà occidentale: il paziente, nella sua disponibilità a farsi curare, offre al medico qualcosa di cui sente innanzitutto di dover difendere la reci-procità, reclamando quindi qualcosa in cambio. Non sono poi così sporadici questi casi, se pensiamo alla accanita tendenza ad esigere una visita domiciliare, ad esempio, dai medici di guardia medica not-turna e festiva, forse in virtù del loro status, presunto come inferiore rispetto ai medici più affermati.

Esiste dunque anche presso le moderne società occidentali una mentalità primitiva secondo cui il paziente chiede qualcosa in cambio al medico: si tratta però più spesso di una ricompensa non concreta, in relazione ad una evoluzione psicologica e sociale così complessa da non poter essere qui che menzionata fuggevolmente. Il paziente chiede infatti in cambio una “merce” rara, preziosa, simbolicamente assai più ricca: ascolto, disponibilità, tempo, comprensione. Quando non la ri-ceve si sente sfruttato, trascurato: come i primitivi delle tribù selvag-ge. Quando la riceve, la relazione fra i due soggetti si ritrova in una dimensione relazionale adulta, di scambio4.

La regressione è la via difensiva più immediata verso l’angoscia, ed è per questo la strada più battuta ed usuale di fronte ad una grave mi-naccia alla salute, anche se non è una soluzione esclusiva. Infatti le di-fese inconsce contro l’angoscia prendono talora strade diverse, in fun-

4 Cfr. il concetto di “metapulsione di scambio” introdotto da Franco Fornari ed il capitolo:

Molinari S., Caracciolo S., L’Arco della Vita in Introduzione alla Clinica psicologica, a cura di G.C. Trombini, Zanichelli, Bologna 1994

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zione della struttura dell’Io dell’individuo, che è a sua volta il risultato della sua traiettoria individuale di crescita affettiva e relazionale. Esi-stono diverse strutture della personalità, in cui l’angoscia viene tra-sformata e convertita in altre emozioni, più accettabili per il soggetto. Introduciamo qui, per semplicità, soltanto due vie alternative dell’an-goscia, che conducono a risultati certamente più evoluti rispetto al pensiero primitivo, ma che, nella complessa realtà psicologica, spesso si intrecciano alla regressione o ne rappresentano un esito parziale: ci riferiamo al pensiero magico ed al pensiero superstizioso.

Le teorie magiche, a partire dal Frazer5 e dal Lehmann6 e, in segui-to, nei lavori di Marcel Mauss7 furono considerate anticipazioni del pensiero scientifico in quanto cercano una interpretazione della realtà naturale e forniscono modelli e schemi di intervento per modificarla.

Nella classica formulazione freudiana, i meccanismi arcaici di fun-zionamento, legati comunque ad una regressione, seppure a livelli meno antichi, che costituiscono il nucleo del pensiero magico e superstizioso, si contrappongono, innanzitutto, ai più evoluti meccanismi logico–deduttivi del pensiero scientifico. Regredendo, il paziente ripercorre a ritroso le vie che la psicologia e la psicoanalisi hanno studiato nelle prime tappe dello sviluppo psichico infantile, e poi ritrovato in talune patologie mentali, e che, come già visto, la antropologia e la etnologia, ci hanno dimostrato caratteristiche di popolazioni e civiltà primitive. Il pensiero magico e il pensiero superstizioso si caratterizzano infatti per l’onnipotenza del pensiero, in base alla quale non è necessario alcun re-ale nesso, empiricamente osservabile e misurabile, di causa–effetto, per spiegare la successione di due fenomeni e collegarli l’uno all’altro (cu-ra–guarigione, maledizione–morte, causa patogena–affezione morbosa), mentre predominano i principi associativi (magia imitativa, magia per contagio), confondendo analogia con causalità8. Il magico è infatti «una controparte delle attività quotidiane, per cui i risultati desiderati sono prodotti dall’azione» e

5 Frazer J., Il Ramo d’Oro, Boringhieri Torino. 6 Lehmann A., Aberglaube und Zauberei, Enke, Stüttgart 1898. 7 Mauss M., Definizione della Magia in: Sociologie et Anthropologie, Paris 1950 P.U.F.,

Trad. Ital. Teoria Generale della Magia, Einaudi, Torino 1965. 8 Jahoda G., Psicologia della Superstizione, Mondadori, Milano 1972 (ed. Or. 1969).

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La profezia tende ad essere esaudita per il fatto che lo stregone, introducendo nella mente della vittima la credenza che arti morali siano state praticate contro di lui, può percuoterlo con questa idea come con un’arma materiale9. Ma anche il medico introduce nella sua “vittima” determinate cre-

denze, di cui si è convinto, che si possono trasformare in armi minac-ciose. Ecco quindi perché nel rapporto medico paziente risultano fon-damentali gli aspetti ritualistici — irrazionali — della anamnesi, dell’esame obiettivo, della prescrizione farmacologica in quanto rime-di magici ed onnipotenti che di per sé scacciano la malattia, indipen-dentemente dagli aspetti scientifici — razionali — cui è improntato l’agire medico. Partendo da tali presupposti diviene più comprensibile l’esistenza di fenomeni quali l’effetto placebo, il ricorso alle medicine cosiddette alternative, ai guaritori, a certi tipi di omeopatia o pranote-rapia in cui questi aspetti ritualistici vengono messi in primo piano dal paziente e dal terapeuta. Ed è nello stesso rapporto medico–paziente che tali aspetti finiscono con il divenire fondamentali in quanto spesso il paziente, in preda all’angoscia di morte ed ai meccanismi difensivi ad essa collegati, inconsciamente li ricerca; parallelamente si osserva una più o meno consapevole politica di rifiuto da parte dei medici di tutto quel complesso di atti e comportamenti verbali e non verbali che a tale sfera irrazionale si riferiscono, con il pericolo di non capire il lo-ro paziente e di non farsi capire da lui, e con le nefaste conseguenze che si impongono sempre più spesso alla nostra osservazione: segnali di una rottura del patto fra medicina e società.

2. La prescrizione farmacologica: alcune notazioni psicodinamiche Nel colloquio clinico, il medico raccoglie e classifica segni e sin-

tomi dal paziente per farli rientrare in suoi schemi diagnostici e tera-peutici. In base a questi sintomi ed alla loro evoluzione nel tempo il medico — ma anche il paziente — ricavano delle proprie teorie sull’efficacia della terapia in atto. Tali teorie, lo affermiamo sulla base delle considerazione già esposte, seguono linee guida e criteri basati

9 Tylor E.B., The Origins of Culture, Murray, Londra 1871.

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sul razionale scientifico e tecnico — questa è la origine della eviden-ce–based medicine — ma hanno, contemporaneamente, una linea car-sica di sviluppo di pensieri che affonda le radici nel pensiero magico e superstizioso, e ciò non solo nel paziente ma — nessuno ostenti mera-viglia — anche e soprattutto nel medico. Una semplice rassegna men-tale del perché un medico — ciascuno di noi, con maggiore o minore uso di razionalizzazioni secondarie — “preferisca” un farmaco o una certa posologia rispetto a quelle canoniche, o come la tecnica possa “evolvere” di fronte ad esperienze negative o traumatiche di tratta-menti che non vanno a buon fine, ci costringe ad ammettere che spes-so proprio il medico più attento al “razionale” delle terapia è quello che rischia maggiormente di utilizzare inconsapevolmente meccanismi di questo tipo.

La “compliance” si collega proprio alla qualità della relazione me-dico–paziente ed è buona se è vissuta positivamente da entrambi. Il ri-fiuto, assoluto o relativo, ad assumere farmaci può invece suggerire la presenza di vissuti trasferali — e controtrasferali — negativi, anche in un paziente che si dichiara e si dimostra del tutto collaborante. Una re-sistenza alla terapia farmacologica compare in genere quando l’esperienza del paziente diviene preponderante rispetto alla fiducia nel medico, anche se compare generalmente travestita, più o meno e-legantemente, da paura dello stigma della malattia mentale, paura de-gli effetti collaterali, paura di identificarsi in altre persone, spesso congiunti, affetti da grave patologia depressiva.

La proposta di un trattamento antidepressivo, anche se ineccepi-bile sul piano clinico, diviene allora uno spazio proiettivo su cui il paziente dispiega le proprie fantasie inconsce, a sfondo, natural-mente, di colpa o di rovina. La necessità di un trattamento viene vissuta ora come punizione ineluttabile, ora come fonte ulteriore di inadeguatezza e perdita di speranza, ora come diagnosi temuta e fi-nalmente concretizzata di “morte” psichica10. La prescrizione può assumere sia l’aspetto benevolo di cura materna protettiva, sia quel-lo di coercizione paterna autoritaria. Il farmaco può assumere la ve-ste della panacea, fonte di eterna salute e giovinezza, configurando

10 Beitman B.D., Integrating Pharmacotherapy and Psychotherapy, B.D. Beitman & G.L.

Klerman Eds. American Psychiatric Press, Washington D.C. 1991.

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quella che è stata battezzata11 “sindrome di Dorian Gray”, ispiran-dosi al noto romanzo di Oscar Wilde, assimilato alla magica pozio-ne della magia bianca, o rivestirsi della oscura potenza del letale veleno della magia nera, che contemporaneamente punisce e libera dalla sofferenza. Questa affermazione non sembrerà un’esagera-zione dettata da enfasi poetica se pensiamo, ad esempio, alla fluo-xetina e alle polemiche sull’abuso della c.d. pillola della felicità o al suo presunto effetto suicidiario che non solo ha percorso i roto-calchi e i mass–media ma anche generato vari dibattiti, spesso a-neddotici e superficiali, su grandi riviste internazionali12.

D’altra parte, le reazioni controtrasferali possono trovare fre-quenti vie di fuga nella prescrizione, come il modulare la dose consigliata sulla base delle reazioni del paziente, o una inconscia tendenza alla collusione con il paziente scarsamente collaborante per potergli dimostrare, post hoc, gli effetti nefasti della scarsa cooperazione13.

Quale atteggiamento, al contrario, potrebbe ridurre gli effetti di queste dinamiche? La prima buona norma da rispettare è una semplice e onesta informazione del paziente, che gli consenta in modo pariteti-co di monitorare l’andamento della terapia, la comparsa di effetti inde-siderati, la prevedibile attesa del miglioramento. Se questo offre, natu-ralmente, spazio a tutte le possibili reazioni avverse, il cosiddetto “ef-fetto nocebo”, quanto meno la presenza di questo spazio, empatica-mente condiviso, sancisce la reale concretezza di quel contratto tera-peutico che va negoziato, pena la comparsa nel paziente informato (bene o male informato, si intende) di una istintiva sfiducia per la comparsa dei sintomi avversi che egli temeva e che il medico non a-veva saputo neppure prevedere. In questo senso, l’efficacia della far-macoterapia può, infatti, essere notevolmente incrementata da un’ap-propriata comprensione del processo terapeutico dal punto di vista

11 Brosig B., Kupfer J., Niemeier V., Gieler U., The “Dorian Gray Sindrome”: psychodi-

namic need for hair growth restorers and other “Fountains of Youth”. Int J Clin Pharmacol Ther, 39:279–283, 2001.

12 Milane M.S., Suchard M.A., Wong M.L., Licinio J., Modeling of the temporal patterns of fluoxetine prescriptions and suicide rates in the United States. PLOS Medicine, 3:816–824, 2006.

13 Book H.E., Some psycho–dynamics of non–compliance. Can. J. Psychiatry, 32, 115–117, 1987.

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psicodinamico e da un’attenzione per la tecnica di comunicazione in-terpersonale. Tutti i pazienti infatti devono avere, possibilmente, una qualche forma di controllo autonomo rispetto alla decisione se prende-re o no i farmaci, e per alcuni questo spazio autonomo è una condicio sine qua non14.

La radice di questi meccanismi psicologici si trova spesso nelle di-namiche familiari inconsce. L’esplorazione, infatti, delle dinamiche transferali mostra in alcuni casi la presenza di un sentimento di rabbia di verso le figure genitoriali, colpevoli di non aver dato in modo ade-guato sostegno e nutrimento ai pazienti. Il rifiuto del rapporto e la mancata adesione al piano terapeutico può allora rappresentare una forma di vendetta inconscia contro i genitori ed il fallimento di una te-rapia viene automaticamente vissuto come un segreto trionfo sul tera-peuta e, retroattivamente, sui genitori15.

3. Esiste una dipendenza dagli antidepressivi? In conclusione, merita un approfondimento il problema della di-

pendenza dagli antidepressivi, così frequentemente temuto dai pazienti e tuttora così controverso in letteratura. Elenchiamo schematicamente alcuni punti fondamentali del problema, senza pretese di esaustività di una vexata quaestio ancora così dibattuta, seguendo lo schema propo-sto da uno dei più illustri esperti del problema: Peter M. Haddad16.

1. Tutte le categorie di antidepressivi (TCA, MAOI. SSRI, SNRI,

NASSA) possono dare sintomi dopo la interruzione, graduale o brusca, della terapia, più facilmente e in modo più intenso se la te-rapia si è prolungata per più di 5 mesi o se la dose somministrata era elevata;

14 Thomson E.M., Brodie H.K.H., The psychodynamics of drug therapy. Curr Psychiatric

Ther, 20, 239–251, 1981. 15 Gabbard G.O., Psychodynamic psychiatry in clinical practice. The DSM–IV Edition.

American Psychiatric Press., Washington D.C. 1994. 16 Haddad P.M., Do Antidepressants cause dependence? Epidemiologia e Psichiatria So-

ciale; 14:58–62, 2005.

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2. Questi sintomi recedono entro una settimana, e nella maggior parte dei casi nel giro di due giorni;

3. Sono stati elencati più di 50 diversi sintomi, ma i più frequenti sono nausea, vertigini, sonnolenza e cefalea; si tratta in buona sostanza degli stessi sintomi collaterali tipici della fase iniziale del tratta-mento, e i sintomi sono gli stessi per i diversi farmaci utilizzati in terapia, il che naturalmente sembra orientare verso una natura psi-cogena di questi disturbi;

4. Esiste una certa confusione concettuale anche in letteratura fra i sintomi da sospensione e la astinenza, per cui non è facile orizzon-tarsi, anche se appare acclarato che una forma di dipendenza esiste in modo evidente solo per alcuni farmaci ad azione — anche — dopaminergica, e cioè, essenzialmente, per l’amineptina e la tranil-cipromina. Di fatto, nessun farmaco antidepressivo è mai entrato realmente nel “mercato nero” delle droghe psicostimolanti, il che appare un indice empirico che testimonia la sostanziale estraneità al fenomeno per la maggior parte degli antidepressivi in uso;

5. Non è mai stato osservato un aumento scalare della dose o un abuso degli antidepressivi che giustifichi un meccanismo di assuefazione o la facilità a sviluppare dipendenza, nemmeno in soggetti già af-fetti di disturbi da uso di sostanze. Ancora una volta, dunque, anche per questo aspetto della prescri-

zione degli antidepressivi, risulta fondamentale una aperta discussione con il paziente delle caratteristiche e dei rischi — a quanto risulta lievi — di questi trattamenti per giungere attraverso un consenso informato, allo sviluppo di una buona alleanza terapeutica.

Ma su questo concetto si avrà occasione di ritornare in un capitolo successivo.

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Stefano Caracciolo

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La depressione e la somatizzazione

di SILVANA GRANDI E LAURA SIRRI

La definizione attualmente più diffusa e condivisa di somatizzazio-

ne è quella fornita da Lipowsky nel 1968, secondo la quale la soma-tizzazione rappresenta «la tendenza a provare e a comunicare soffe-renza psicologica sotto forma di sintomi fisici e a cercare aiuto medico per questi» (1).

Lipowski ha riconosciuto tre componenti della somatizzazione (1): 1. esperienziale; 2. cognitiva; 3. comportamentale.

La prima si riferisce alla percezione soggettiva di sensazioni, cam-

biamenti o sintomi provenienti dal proprio corpo. Probabilmente, que-sto elemento è conosciuto direttamente solo dal soggetto.

La componente cognitiva riguarda l’interpretazione (i significati soggettivi attribuiti) delle sensazioni somatiche come segno di una malattia grave e la presa di decisione sul da farsi rispetto ai sintomi. Interviene infine la componente comportamentale: la comunicazione verbale e non verbale della sofferenza fisica e le azioni concrete messe in atto dal soggetto.

Lipowski distingue inoltre tra somatizzazione transitoria e persi-stente (1). Per somatizzazione transitoria si intende una modalità limi-tata nel tempo e non patologica di reagire ad una situazione stressante. Quella persistente diventa oggetto di attenzione clinica per la sua du-rata ed intensità.

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Silvana Grandi, Laura Sirri

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1. Epidemiologia

1.1. La prevalenza della somatizzazione dipende dalla popolazione considerata

Gli studi mostrano che tra il 10 e il 30% dei pazienti in medicina

generale e specialistica presenta sintomi fisici per i quali non è identi-ficabile una chiara causa organica (2–5).

Nella popolazione generale americana è stato stimato che nell’arco di 6 mesi il 41% dei soggetti riporta mal di schiena, il 26% emicrania, il 17% dolori addominali, 12% dolori al torace e il 12% dolore facciale (6, 7).

In almeno un terzo dei pazienti di medicina generale i sintomi fisici possono essere spiegati da un disturbo psichiatrico florido o sottoso-glia. Il 72% di questi riporta al medico uno o più sintomi somatici co-me problema principale. In tutti questi casi, è quindi necessaria un’attenta valutazione psicologico–psichiatrica per individuare la sof-ferenza psichica sottostante (8, 9).

In medicina specialistica più del 20% delle visite in ambulatori non riscontra una chiara spiegazione organica per i sintomi fisici presenta-ti. I più comuni sono: dolore addominale e toracico, dispnea, emicra-nia, fatica, tosse, mal di schiena, vertigini, nervosismo (10).

Secondo l’American Hospital Association nel 5,2% dei pazienti o-spedalizzati non è possibile stabilire una diagnosi medica specifica (11).

2. Somatizzazione e disturbi depressivi Le evidenze indicano una stretta associazione tra somatizzazione e

disturbi psichiatrici, soprattutto ansiosi e depressivi (1, 3, 12–24). Se-condo studi psicofisiologici alcuni sintomi somatici funzionali sono più frequenti nei disturbi ansiosi (es. palpitazioni, iperventilazione, sudorazione), altri sono più caratteristici della depressione (es. anores-sia, stanchezza) e molti sono ugualmente associati all’ansia e alla de-pressione (es. sintomi gastrointestinali) (2, 3).

I dati pubblicati rendono ugualmente sostenibile la tesi secondo la quale la depressione è causa della somatizzazione e quella secondo cui manifestazioni di somatizzazione sono la causa di depressione.

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La depressione e la somatizzazione

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È stato osservato che i pazienti depressi riportano più sintomi so-matici rispetto ai non depressi.

In particolare, metà dei soggetti con depressione presenta sintomi somatici non spiegabili da un punto di vista medico, soprattutto dolore cronico. D’altra parte, i pazienti che somatizzano mostrano tassi di depressione più elevati rispetto a quelli con disturbi somatici per i quali è stata identificata una causa organica (3–5, 25).

Nel 1999 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha condotto uno studio multicentrico ed internazionale su circa 26.000 pazienti recluta-ti in servizi di cura primaria (22). Tra coloro che rispondono ai criteri diagnostici per la depressione maggiore in media il 50% (range 30–62%) presenta sintomi somatici funzionali non spiegabili da un punto di vista medico. Il 69% (range 45–95%) lamenta esclusivamente sin-tomi somatici, mentre l’11% (range 2–26%) nega la presenza di sin-tomi psicologici come causa del suo malessere (es. umore depresso, senso di inutilità) (22).

2.1. Fenomenologia

I sintomi somatici funzionali più frequentemente associati ai di-

sturbi depressivi comprendono: stanchezza, facile affaticabilità, perdi-ta di energie, mialgie diffuse, dolori al collo, alla schiena, alle gambe (es. cefalea muscolo–tensiva) (12, 15, 17, 19, 23, 24, 26–28).

È possibile poi identificare alcune categorie specifiche di sintomi somatici funzionali, spesso correlati alla depressione, classificabili in sintomi somatici gastrointestinali e in sintomi associati a stanchezza e dolori muscolari (28).

I primi possono provenire da tutto il tratto gastro–enterico: sec-chezza della bocca, perdita dell’appetito, stipsi, crampi e dolori addo-minali, sindrome dell’intestino irritabile (27).

Le manifestazioni somatiche connesse a stanchezza e dolori com-prendono: debolezza, stanchezza, astenia, sensazione di ripienezza o pesantezza e dolenzia. Possono arrivare ad avere le caratteristiche del dolore vero e proprio, più o meno diffusamente localizzato ai muscoli o agli organi interni. La fatica muscolare è generalmente localizzata a livello delle estremità (es. braccia e gambe) (19). Il paziente con de-pressione spesso attribuisce le difficoltà lavorative e nello svolgimento

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delle mansioni domestiche proprio alla stanchezza e alla sensazione di pesantezza agli arti (28).

I dolori muscolari sono in genere localizzati alla schiena, al collo e alle spalle e sono avvertiti come tensione e mal di testa. La sensazione di ripienezza o pesantezza è generalmente localizzata al petto (viene spesso riportata come “un malessere al petto”) all’addome e alla testa (27, 28).

2.2. Principali ipotesi esplicative della relazione depressione–

somatizzazione Sono riconducibili ai seguenti concetti:

1. modello della “percezione selettiva”; 2. depressione mascherata; 3. equivalente depressivo; 4. somatizzazione come meccanismo di negazione della sofferenza

psicologica.

1. Percezione selettiva Robert Kellner (2, 29, 30) ha proposto il modello della “percezione

selettiva” per spiegare, come in un “circolo vizioso”, si sviluppino sin-tomi somatici funzionali ed ipocondriaci a partire da uno stato depres-sivo o ansioso.

Se durante uno stato di ansia o di depressione un soggetto speri-menta nuovi sintomi somatici, è probabile che questi vengano inter-pretati in senso pessimistico e che si sviluppi ansia per la salute. Que-sta favorisce una percezione selettiva delle sensazioni somatiche: l’attenzione per il proprio corpo è tale che anche la più piccola varia-zione fisiologica (es. aumento del battito cardiaco sotto sforzo) viene percepita, “ascoltata” ed amplificata, aumentando a sua volta l’ansia per la salute. Se tale meccanismo persiste nel tempo, può portare allo sviluppo di sintomi somatici funzionali (le sensazioni fisiologiche am-plificate dall’ansia) e a convinzioni ipocondriache (29, 30).

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La depressione e la somatizzazione

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2. Depressione mascherata

È stato riportato che in alcuni casi i sintomi somatici funzionali possono essere così intensi ed invalidanti da rappresentare l’elemento di maggiore rilevanza nel contesto di una sindrome depressiva (1–3). Ed anche la descrizione del proprio disturbo e la richiesta di aiuto da parte del paziente sono focalizzate sulle manifestazioni somatiche. Questa osservazione ha condotto alcuni autori ad ipotizzare che i sin-tomi somatici funzionali possano in alcuni casi “mascherare” un di-sturbo affettivo “sottostante” (31).

3. Equivalente depressivo

Alcuni autori considerano la somatizzazione come un equivalente

depressivo: una condizione in cui in assenza di sintomi depressivi (es. umore depresso) è presente una forma di somatizzazione che ha la stes-sa eziologia, decorso e risposta al trattamento di un disturbo depressivo (32). La depressione sarebbe cioè sostituita, “rimpiazzata” totalmente dalla somatizzazione. Al momento non sono comunque disponibili ri-sultati empirici certi che possano suffragare questa ipotesi (2). 4. Somatizzazione come negazione della sofferenza psicologica

Secondo questa ipotesi, la somatizzazione rappresenterebbe un

meccanismo di difesa teso ad evitare la consapevolezza di sofferenza psicologica, che viene “sostituta” dai sintomi somatici. La somatizza-zione prevarrebbe quindi nelle culture dove la sofferenza psichiatrica è maggiormente oggetto di stigma sociale (22, 33). A questo proposito, la somatizzazione è stata collegata all’alessitimia (l’incapacità di de-scrivere le emozioni) (22, 34).

2.3. Assessment della somatizzazione

L’assessment del paziente con somatizzazione dovrebbe integrare:

— eterovalutazione (colloqui, interviste semi–strutturate, rating sca-les) ed autovalutazione (questionari),

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— approccio categoriale, nosografico–descrittivo (DSM–IV, DCPR) e approccio dimensionale (valutazione della gravità).

Per la valutazione dimensionale della somatizzazione sono dispo-

nibili sia strumenti autovalutativi sia eterovalutativi. I primi compren-dono soprattutto il Symptom Questionnaire (SQ) (35), l’Illness Beha-vior Questionnaire (IBQ) (36) e le Illness Attitude Scales (IAS) (37).

Il SQ di R. Kellner (versione italiana di S. Grandi) quantifica le principali forme di sofferenza psicopatologica (ansia, depressione, somatizzazione, rabbia/ostilità), con particolare attenzione alle mani-festazioni psicofisiologiche. L’IBQ di I. Pilowsky (versione italiana di G.A. Fava e M. Bernardi) valuta le componenti del comportamento abnorme di malattia. Le IAS di R. Kellner (versione italiana di S. Grandi) rappresentano lo strumento d’elezione per misurare paure, convinzioni ed atteggiamenti dello spettro ipocondriaco, che sono fre-quenti tra i soggetti che somatizzano.

Tra gli strumenti dimensionali eterovalutativi risulta particolarmen-te utile la Scala di Hamilton per la Depressione (HDS) e per la Melan-conia (MES), che valuta la gravità della depressione focalizzandosi sui sintomi somatici (28). È quindi molto idonea per la valutazione delle forme di somatizzazione secondarie a disturbi affettivi.

Gli strumenti categoriali che hanno ricevuto consenso e diffusione a livello internazionale sono rappresentati dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM–IV) (38) e dalla Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD–10) (39). Nella sezione dei disturbi somatoformi sono descritte sindromi psichiatriche caratterizzate da sintomi fisici che farebbero pensare ad una patologia organica, ma per le quali non viene riscontrata alcuna alterazione organica che potrebbe esserne la causa.

A metà degli anni ‘90 sono stati inoltre introdotti da Fava e coauto-ri i Criteri Diagnostici per la Ricerca in Psicosomatica (DCPR) (40, 41). I DCPR traducono variabili psicosociali, frequentemente osserva-te in svariati disturbi medici e funzionali, in categorie diagnostiche do-tate di significato prognostico e terapeutico. Quattro delle 12 sindromi DCPR riguardano il fenomeno della somatizzazione: somatizzazione persistente, sintomi funzionali somatici secondari ad un disturbo psi-chiatrico, sintomi di conversione e reazione agli anniversari.

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Nuovi approcci nella terapia della depressione: il Modello Sequenziale Psicofarmacologico

di SILVANA GRANDI

Studi longitudinali hanno evidenziato come la depressione maggio-

re rappresenti un disturbo tendenzialmente cronico e ricorrente. Entro un anno dal termine della terapia farmacologica almeno un terzo dei pazienti presenta una ricaduta (1–3).

L’80% dei soggetti che hanno sviluppato un episodio depressivo maggiore riporta almeno un nuovo episodio nel corso della vita. Per questi casi è stato introdotto il concetto di disturbo depressivo ricor-rente (2).

Solo in una minoranza di pazienti, infatti, gli episodi depressivi so-no separati da periodi di alcuni anni asintomatici. Nella maggioranza dei casi gli episodi maggiori sono frequenti e seguiti da una remissio-ne parziale caratterizzata dalla persistenza di svariati sintomi residui subclinici (4, 5).

Secondo gli studi empirici i sintomi residui interessano dal 32 all’88% dei pazienti con depressione maggiore. I sintomi residui più frequenti sono rappresentati da irritabilità, ansia e difficoltà interper-sonali (4, 6).

La depressione maggiore appare quindi un disturbo che accompa-gna il corso di vita del paziente con numerose recidive (in media un episodio maggiore ogni cinque anni) (7).

La persistenza di sintomi residui e la numerosità degli episodi de-pressivi sono i principali fattori predittivi di ricaduta entro un anno dal termine della terapia. I sintomi residui possono infatti progredire e di-ventare i prodromi del nuovo episodio (4, 8, 9).

Lo studio della relazione tra sintomatologia residua e prodromi-ca (della ricaduta) ha evidenziato come la fase di remissione tenda a ricapitolare in ordine inverso la comparsa dei sintomi: gli ultimi sintomi che spariscono sono quelli comparsi per primi. Questo

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Silvana Grandi

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meccanismo è stato definito da Detre e Jareki come fenomeno del rollback (10).

In psichiatria e psicologia clinica diverse strategie sono state pro-poste per la gestione clinica della depressione ricorrente. Sono finaliz-zate alla riduzione di ricadute e recidive e sono riconducibili a:

1. farmacoterapia di mantenimento; 2. farmacoterapia prolungata; 3. farmacoterapia intermittente; 4. combinazione tra farmacoterapia e psicoterapia; 5. modello sequenziale.

1. Farmacoterapia di mantenimento Propone la continuazione della terapia farmacologica antidepressi-

va anche in seguito al raggiungimento di un periodo di remissione di almeno 4–6 mesi (11).

Si basa sull’evidenza che il mantenimento del trattamento antide-pressivo è associato ad un tasso di ricaduta significativamente inferio-re rispetto al placebo e alla cessazione della terapia (11). È stato stima-to che la somministrazione di placebo in seguito alla terapia antide-pressiva è associata ad un tasso di ricaduta del 41%, mentre solo il 18% dei pazienti che continuano ad assumere il farmaco attivo presen-ta ricaduta (11).

Questa strategia presenta tuttavia alcuni limiti.

• Innanzitutto, è necessario ricordare che la maggior parte degli studi sull’efficacia di questo approccio ha un follow up limitato (1 anno), che non permette di confermare l’efficacia di un trattamento ten-denzialmente a lungo termine (1).

• È stato osservato che la durata del trattamento di mantenimento non sembra influire sulla prognosi una volta che la terapia viene terminata (12). Dal punto di vista clinico è quindi possibile tra-durre questa evidenza nella constatazione che trattare un pazien-te con depressione per tre mesi o per tre anni non ne influenza la prognosi.

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Il Modello Sequenziale Psicofarmacologico

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• È stata evidenziata perdita di efficacia clinica nel tempo: secondo alcuni studi (12, 13) all’aumentare della durata della terapia aumen-ta la probabilità di ricaduta.

• Il mantenimento della farmacoterapia implica la persistenza di ef-fetti collaterali nel tempo (1).

• Sembra inoltre dubbia l’efficacia di questo approccio nel prevenire le ricadute nei pazienti con forme più lievi di depressione (14).

2. Farmacoterapia prolungata L’evidenza di un decorso generalmente cronico e ricorrente della

depressione maggiore ha portato alcuni autori a proporre la sommini-strazione di antidepressivi per tutto l’arco di vita del paziente (15).

Questo approccio mostra ovviamente alcuni punti di debolezza.

• È molto difficile riuscire a comunicare e soprattutto a fare accettare ai pazienti questo progetto terapeutico (12, 16).

• I soggetti possono infatti essere scoraggiati e non mantenere una compliance adeguata al trattamento, soprattutto a causa della per-manenza di fastidiosi effetti collaterali, che possono minare pro-fondamente la qualità di vita (ad esempio, aumento ponderale, di-sfunzioni sessuali).

• Ad oggi, questa strategia terapeutica non sembra sufficientemente supportata dagli studi empirici, che hanno preso in considerazione follow up al massimo di 5 anni (1, 15).

• È stata documentata una perdita di efficacia clinica del trattamento antidepressivo prolungato nel tempo: dal 9 al 57% dei soggetti in terapia a lungo termine presentano infatti una ricaduta (17). La per-dita di efficacia potrebbe essere spiegata da diversi fattori, tuttora in corso di valutazione. Le principali ipotesi riguardano: lo svilup-po di tolleranza farmacologica, un possibile aumento della gravità del disturbo, la perdita dell’effetto placebo connaturato a tutti i trat-tamenti (1, 17).

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Silvana Grandi

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3. Farmacoterapia intermittente Propone la cessazione della farmacoterapia al momento della re-

missione e il suo ripristino tempestivo (con lo stesso farmaco o con al-tri antidepressivi) appena ricompaiono i sintomi prodromici di un nuovo episodio (18).

Si basa sulla constatazione clinica secondo la quale, una volta supe-rata la fase acuta, molti pazienti cessano l’assunzione farmacologica indipendentemente dalle prescrizioni mediche.

Anche se prevede periodi liberi dagli effetti collaterali, presenta al-cuni svantaggi:

• possibilità che compaia il fenomeno della resistenza: una diminu-

zione della risposta alla terapia precedentemente interrotta (13). Nel 38% dei pazienti trattati con fluoxetina è stata osservata una mancata risposta oppure una risposta iniziale seguita da ricaduta dopo la ripresa del farmaco (19);

• Questo approccio potrebbe aumentare il rischio di sindrome da di-scontinuazione, che è stato osservato soprattutto con i farmaci ini-bitori del reuptake della serotonina (SSRI) (20).

4. Combinazione tra farmacoterapia e psicoterapia Negli ultimi due decenni è aumentato l’interesse per l’applicazione di

strategie psicoterapeutiche ai disturbi affettivi. In particolare è stata dimo-strata l’efficacia della terapia cognitivo–comportamentale (CBT) nel trat-tamento della depressione maggiore resistente ai farmaci antidepressivi (21, 22). Queste evidenze hanno indirizzato alcuni autori a prendere in considerazione la combinazione tra farmacoterapia e psicoterapia come possibile strumento utile a contrastare il problema delle ricadute.

Tuttavia, la proposta di un simile approccio integrato si basa su di un modello additivo, desueto, poiché legato ad una visione statica della malat-tia, senza tenere conto dello sviluppo longitudinale dei disturbi (21, 23, 24).

Negli anni Novanta Emmelkamp (25) per primo ha sollecitato l’uso consecutivo di strategie terapeutiche differenti e la necessità di verifi-carne l’efficacia con studi controllati.

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Il Modello Sequenziale Psicofarmacologico

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5. Modello sequenziale È stato sviluppato da Fava, Grandi e collaboratori (9, 21, 26) partire

dagli anni Novanta e consiste nella somministrazione di farmacotera-pia durante la fase acuta, seguita da CBT (ristrutturazione cognitiva e assegnazione di compiti) nella fase residua.

Una volta superata la fase acuta, i farmaci antidepressivi vengono diminuiti gradualmente, portati al dosaggio terapeutico minimo ed e-liminati.

Questo approccio è specificatamente finalizzato alla prevenzione delle ricadute attraverso l’abbattimento dei sintomi residui, l’aumento del benessere psicologico e delle strategie di coping adattive e la mo-dificazione di stili di vita disfunzionali (26–30).

Il modello sequenziale supera quindi la modalità tradizionale di in-tegrazione simultanea di ingredienti terapeutici diversi e si basa sullo studio della stadiazione dei disturbi (21, 23).

Fava e coautori (9, 31–34) hanno confrontato la somministrazione della CBT con il clinical management in pazienti in fase di remissione dopo farmacoterapia per il disturbo depressivo maggiore. Nei soggetti trattati con CBT è stato evidenziato un tasso di ricadute significativa-mente inferiore. Questi risultati sono stati riportati sia nei pazienti trat-tati per un primo episodio di depressione maggiore (9, 31, 32), sia nei pazienti con depressione maggiore ricorrente (33, 34), con follow up fino a 6 anni.

Nella Tabella 1 sono riportate le percentuali di ricaduta dei pazienti con depressione trattati secondo i principi della terapia sequenziale e di quelli trattati con terapia farmacologica seguita da clinical management.

Anche l’applicabilità della terapia sequenziale presenta alcune dif-ficoltà (1):

• è necessario un livello elevato di motivazione da parte del paziente,

a cui viene proposto di sottoporsi ad un trattamento psicoterapeuti-co breve (10–30 sedute) nonostante l’apparente remissione dopo la fase acuta.

• Sono necessari psicoterapeuti con specifiche competenze ed adde-stramento nella CBT.

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Tabella 1. Percentuali di ricaduta dopo CBT o clinical management.

CBT per i sintomi residui

Clinical Management

Pz. a 2 anni dal 1° episodio di MDD (Fava et al., 1994)

15% 35%

Pz. a 4 anni dal 1° episodio di MDD (Fava et al., 1996)

35% 70%

Pz. a 6 anni dal 1° episodio di MDD (Fava et al., 1996)

50% 75%

Pz. con MDD ricorrente a 2 anni dall’ultimo episodio (Fava et al. 1998)

25% 80%

Pz. con MDD ricorrente a 6 anni dall’ultimo episodio (Fava et al. 2004)

40% 90%

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Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione

di STEFANO CARACCIOLO

1. Introduzione To be, or not to be — that is the question. Whether ‘tis nobler in the mind to suffer The slings and arrows of outrageous fortune Or to take arms against a sea of troubles And by opposing end them? To die, to sleep; No more? And by a sleep, to say we end The heart–ache and the thousand natural shocks That flesh is heir to. Essere, o non essere: ecco il problema. Se sia più nobile per la mente patire I sassi e le frecce dell’oltraggiosa sorte, oppure armarsi contro un mare di guai e all’opposto porvi fine? Morire, dormire, Niente di più? E, con il sonno, dire che mettiamo fine Ai mali del cuore e alle mille offese della natura Che l’essere carne ci trasmette.

William Shakespeare, Hamlet, Atto III, ca. 16001 Il celebre monologo dall’Amleto di Shakespeare mette in scena i

pensieri di un uomo disperato che, di fronte ad un’esistenza orribile, medita sul significato della vita e valuta se gli sia possibile affrontarla o non sia preferibile porre fine alle proprie sofferenze con un sonno mortale. Si tratta di un lucido resoconto del labirinto di spinte emotive e pensieri razionali in cui si trova la persona che vive una situazione

1 Shakespeare W., Teatro Completo, Vol. III, I Drammi Dialettici, Mondadori, Milano 1994; (T.d.A.).

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disperata, nel momento in cui, cioè, ha letteralmente perso ogni spe-ranza. Il soggetto si sente in trappola, non vede vie d’uscita, sente che deve fare qualcosa ma la sofferenza lo acceca, teme e desidera allo stesso tempo sia la vita sia la morte. Ha bisogno disperato di qualcuno a cui aggrapparsi e rifiuta l’aiuto di tutti. Mette l’altro di fronte ad un paradosso, in un vicolo cieco. E quando l’altro che si trova di fronte è un medico?

«Essere o non essere: ecco il problema». La persona che lo sta af-frontando entra spesso, seppure in momenti e modi diversi, in contatto con un medico, nel corso dello sviluppo delle dinamiche psichiche che evolvono in un comportamento suicidario, definite come il “processo suicidario”2, in cui interagiscono eventi del mondo esterno ed elementi del mondo interno.

È noto da tempo3 che almeno metà delle persone che si suicidano hanno visto un medico nelle settimane precedenti la morte. Altre sono accompagnate dopo un episodio autolesivo, in corso di emergenza, in ospedale generale dove un medico deve affrontare la gestione della crisi suicidaria e prendere decisioni fondamentali. In queste situazioni il ruolo del medico viene messo drasticamente in crisi dal paziente con idee suicide, per molti motivi, fra loro intrecciati. Il primo livello è quello, razionale, del bagaglio di cognizioni mediche e psichiatriche cui ogni medico deve fare riferimento. Il secondo, altrettanto impor-tante del primo, è quello delle emozioni che il medico vive, in relazio-ne anche alla sua posizione personale di fronte all’idea di suicidio. Ha avuto precedenti esperienze di contatto con persone in crisi suicidaria, sul piano personale e/o professionale? Si riconosce, in qualche modo, in una posizione personale di natura etica, giuridica, filosofica o reli-giosa in base alla quale il suicidio è un atto illecito e da combattere o condannare? Ritiene che solo persone affette da disturbi mentali pos-sano nutrire certe idee, e si sente pertanto autorizzato a interpretare ogni idea suicidaria come un sintomo patologico e, quindi, a “curarla”, se necessario contro la volontà dell’interessato? È preoccupato dalle possibili conseguenze sul piano giuridico dei suoi atti professionali nei

2 Retterstøl, N., The Suicidal Process. In: Suicide. A European perspective. Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1993, pp. 135–140.

3 Barraclough B., Bunch J., Nelson B., A Hundred cases of Suicide: Clinical Aspects. Bri-tish Journal of Psychiatry, 125: 355–373, 1974.

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confronti del paziente? Si sente in grado di gestire con il suo consueto senso di responsabilità una situazione medica in cui il paziente na-sconde deliberatamente i contenuti dei suoi pensieri ed i suoi intendi-menti e non accetta di lasciarsi visitare se non in modo strumentale ai suoi fini, simulando una fiducia o un miglioramento psichico che non ci sono? E come può esercitare una funzione medica, di diagnosi e cu-ra, se vengono meno i presupposti di lealtà e di fiducia reciproca? A questi interrogativi il presente contributo si propone di dare somma-riamente risposta.

2. Definizioni Sul piano scientifico, il concetto di rischio suicidario è collegato a

diverse variabili, di natura biologica, psicologica e sociale, associate alla probabilità statistica che un soggetto presenti un comportamento suicidario in un dato periodo di tempo. Come si vedrà nel seguito, gli elementi più potenti in senso predittivo sono due: la chiara determina-zione di morte dell’individuo ed il periodo di tempo preso in esame per valutare il rischio.

Una prima definizione di rischio suicidario é quella in cui si defini-sce la probabilità teorica che un soggetto appartenente ad una certa popolazione presenti condotte suicidarie, generalmente riferita ad un periodo di un anno solare. È bene precisare subito che in questo tasso di rischio, ricavato a posteriori dai dati epidemiologici, si deve distin-guere il rischio di suicidio da quello di parasuicidio. I due fenomeni appaiono, infatti, fra loro separati per quanto riguarda le motivazioni, i metodi, la determinazione a morire. La necessità dell’introduzione del termine parasuicidio, che si deve a Kreitman4,5, è legata alla acquisi-zione del fatto che non tutti i parasuicidi sono dei tentati suicidi. La definizione delle condotte suicidarie presenta, infatti, notevoli pro-blemi d’ordine teorico legati al fatto che si tratta di comportamenti de-finiti solo post hoc e spesso su base indiziaria, in assenza di notizie di-

4 Kreitman N., Parasuicide, Wiley, New York 1977. 5 Kreitman, N., How useful is the prediction of suicide following parasuicide? in Wilmot-

te J. & Mendlewicz J., (Eds.), New Trends in Suicide Prevention, Karger, Basel 1982.

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sponibili o senza avere certezza dell’attendibilità dei dati raccolti. Il parasuicidio, pertanto, comprende tutti i cosiddetti tentati suicidi, in cui alla definizione precedente si deve aggiungere un desiderio esplici-to, più o meno determinato, di morire, ed anche i cosiddetti mancati suicidi, ovvero gli atti in cui oltre alla determinazione a morire si pos-sano ravvisare metodi effettivamente idonei a provocare la morte che non hanno portato al suicidio per motivi del tutto indipendenti dalla volontà e dal comportamento dei soggetti; ma, in più, comprende an-che quei comportamenti più lievi e sfumati in cui la vita e la salute so-no messe a repentaglio volontariamente ma senza una chiara volontà di morire, ed i cosiddetti suicidi abortiti.

La distinzione fra suicidio e parasuicidio é usata principalmente in Europa, mentre gli autori statunitensi preferiscono distinguere in un continuum graduale, decrescente per letalità, il suicidio, il tentativo di suicidio, i suicidi abortiti, i gesti suicidi (comportamenti suicidari meno determinati alla ricerca della morte, con notevole componente di teatralità manipolatoria) e gli equivalenti suicidari (comportamenti autolesivi senza una chiara ideazione suicidaria). Quest’ultimo con-cetto è spesso criticato da chi non si riconosce nella teoria psicoana-litica, perché prevede conflitti inconsci legati a pulsioni autodistrut-tive e comprende le tossicomanie gravi, l’anoressia mentale, i com-portamenti di grave rischio per l’incolumità senza un apparente desi-derio di autolesione, come i cosiddetti “giochi di morte” tipici della fase adolescenziale (sensation–seeking behaviors) e i comportamenti con alta tendenza agli incidenti (accident–prone behaviors). @@

I due fenomeni del suicidio e del parasuicidio si differenziano per numerose caratteristiche6: per quanto riguarda il suicidio, l’incidenza è tre volte maggiore nei maschi rispetto alle femmine, si distribuisce omogeneamente prima e dopo i 40 anni di età, è più frequentemente associato a disturbi psichiatrici7; il parasuicidio in-vece, che costituisce di per sé un fattore di rischio per il suicidio8,

6 Beautrais A.L., Suicides and serious suicide attempts: two populations or one? Psycho-

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Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione

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ha maggiore prevalenza nel sesso femminile e nelle fasce di età giovanili.

Le correnti definizioni dei principali comportamenti suicidari sono riportate in Tabella 1.

3. I dati dell’epidemiologia La rilevazione attendibile di questo tipo di rischio dipende da una

corretta raccolta di dati nella popolazione, e la sua misurazione è tutto-ra insoddisfacente: in tutto il mondo i dati disponibili sull’incidenza delle condotte suicidarie sono notevolmente carenti9, specialmente per quanto riguarda il parasuicidio10.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha effettuato nel decennio 1990–2000 in Europa uno studio multicentrico sul parasuicidio11 (Platt et al., 1992) proprio per ovviare alla carenza di dati epidemiologici at-tendibili sul fenomeno. Nell’esperienza italiana dei due centri reclutati come Unità Operative della OMS (Ferrara–Reggio Emilia e Padova) si è rilevata un’enorme discrepanza fra i dati ufficiali disponibili, che mostravano tassi di suicidio maggiori di quelli del parasuicidio, e quelli raccolti nel monitoraggio previsto dallo studio multicentrico dell’OMS, in cui il rapporto è di 1 parasuicidio segnalato dai dati uffi-ciali per 10 registrati nel monitoraggio. In base ai dati epidemiologici disponibili, una percentuale valutabile fra il 50 e 80% di tutti i soggetti che vanno incontro a suicidio sono repeaters (recidive), mentre una percentuale che oscilla fra il 2 ed il 10% dei soggetti con anamnesi positiva per un parasuicidio va incontro a suicidio entro 5 anni; il

9 Schmidtke A., Fricke S., Weinacker B., et al., Suicide and Suicide Attempt Rates in Eu-

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Tabella 1. Definizione dei Comportamenti Suicidari (modificata12)

SUICIDIO Ogni caso di morte che risulti direttamente o indirettamente da un atto positivo o

negativo compiuto dalla vittima medesima13. MANCATO SUICIDIO Atto autolesivo ad esito non fatale per fallimento accidentale di misure certamen-

te idonee a causare suicidio. PARASUICIDIO Atto autolesivo ad esito non fatale in cui un soggetto deliberatamente intraprende

un comportamento non abituale sufficiente a provocargli, in assenza di interventi esterni, una lesione corporea oppure ingerisce una sostanza in dose maggiore di quella prescritta o generalmente riconosciuta come terapeutica 14, 15.

TENTATO SUICIDIO Atto autolesivo non letale, consciamente tendente all’autodistruzione, anche

quando realizzato con modalità poco rischiose per la vita e/o con intenzionalità sui-cida assai modesta.

SUICIDIO ABORTITO Atto autolesivo ad esito non fatale, nonostante misure certamente idonee a causa-

re suicidio, a causa del desistere del soggetto dai suoi propositi, con o senza inter-vento di persuasione esterna.

EQUIVALENTI SUICIDARI Atti o comportamenti autolesivi complessi e prolungati (automutilazioni, ricerca

continua di operazioni chirurgiche, anoressia mentale, tossicomanie, alcoolismo, ac-cident–proneness e sensation–seeking behaviors) senza una chiara e consapevole intenzionalità di morte o autodistruzione”.

12 Caracciolo S., Crepet P., La valutazione del rischio suicidario, in: Crepet P., Le Misure

del Disagio Psicologico, La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1994, pp. 79–98. 13 Durkheim È., Le Suicide. Ètude de Sociologie, Parigi 1897; edizione italiana Rizzoli, Milano 1987. 14 Kreitman N., Parasuicide, Wiley, New York 1977. 15 Platt S., Bille–Brahe U., Kerkhof A. et al. Parasuicide in Europe: the WHO/EURO

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Il rischio di suicidio nella depressione: valutazione e prevenzione

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rapporto fra tasso di parasuicidio e tasso di suicidio è valutato nell’ordine di 10:116, contro un dato stimato dall’ISTAT negli stessi anni di 1 a 217.

È peraltro accertato che le fonti di rilevazione ufficiale dei dati non sono attendibili dal momento che alcuni studi preliminari di va-lutazione del fenomeno parasuicidio danno risultati decisamente in linea con quelli della letteratura internazionale18, 19, poichè non esi-ste sul piano ufficiale un registro epidemiologico per il parasuici-dio. Si tratta dunque di un fenomeno che, sia sul piano medico sia su quello sociale, viene frequentemente nascosto a causa dello stigma e della condanna sociale a cui spesso i soggetti vanno incon-tro. Anche questo rende assai problematico, come vedremo, un ap-proccio preventivo.

4. Fattori di rischio di suicidio Età: Il rischio di suicidio presenta un incremento con l’avanzare

dell’età, con un picco generalmente rilevabile oltre i 65 anni, mentre il parasuicidio ha un andamento generalmente opposto rispetto all’età per cui le fasce più esposte al rischio sono quelle giovanili fino a 40 anni di età; in adolescenza rappresenta la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali20.

Sesso: il suicidio è significativamente più frequente nel sesso ma-schile ma tale tendenza presenta sensibili variazioni in relazione all’ambiente socioculturale, tanto che in alcuni paesi del Nord Europa il rapporto si inverte; per il parasuicidio è invece il sesso femminile che presenta i tassi più elevati.

16 Crepet P., Baratti M., Caracciolo S. et al., Suicidal behaviour in Italy. Trends and gui-

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17 Istituto Nazionale di Statistica. Le Regioni in cifre, 1993. ISTAT, Roma 1993. 18 De Leo D., Banon D., Citron P., Pavan L., Suicidio e tentato suicidio. Difficoltà di un

approccio epidemiologico. Rivista di Psichiatria, 23: 43–47, 1988. 19 Hawton K., Assessment of Suicide Risk, British Journal of Psychiatry, 140, 145–153, 1987. 20 Crepet P., Caracciolo S., Cappi S. et al.: Capitolo Terzo: Mortalità per suicidio e omi-

cidio in età giovanile. In: Marco Geddes (a cura di) Rapporto sulla salute in Europa. Salute e Sistemi Sanitari nell’Unione Europea, Roma: EDIESSE, 1995, pp. 57–70.

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Stato civile: anche questa variabile è risultata molto sensibile alle variazioni socioculturali, anche se si è riscontrata generalmente una maggiore incidenza nei soggetti non coniugati, separati, divorziati e vedovi.

Religione: una maggiore incidenza delle condotte suicidarie si os-serva nelle persone meno coinvolte dalle pratiche religiose, indi-pendentemente dal credo religioso; questo dato è stato peraltro critica-to ed è tuttora considerato controverso.

Occupazione: la disoccupazione appare come uno degli indicatori più potenti del rischio suicidario globale (ovvero sia per il suicidio che per il parasuicidio) specialmente nella popolazione in età attiva dal punto di vista lavorativo (20–44 anni di età).

Fattori climatici: esistono evidenze chiare che attestano che nei climi caldi i tassi di suicidio e parasuicidio sono più bassi21, anche se non esiste tuttora una spiegazione del fenomeno; anche la stagionalità e i ritmi cronobiologici e cronopsicologici22, come l’ora del giorno23, e altre variabili biologiche, come la colesterolemia24,25 appaiono giocare un ruolo significativo, anche se molto rimane ancora da studiare in proposito, specialmente nei parasuicidi condotti con metodi violenti26.

Fattori eredo–familiari: la presenza di casi di suicidio in anamnesi rappresenta certamente un elemento di rischio, anche se nella maggio-ranza dei casi non si trovano precedenti familiari di suicidio; questa osservazione viene generalmente interpretata come risultato della pre-senza di altri fattori (disturbi psichici, specialmente di tipo depressivo)

21 Retterstøl N., Suicide. A European perspective. Cambridge University Press, Cambri-

dge (UK) 1993, pp. 25–44. 22 Gallerani M., Avato F.M., Caracciolo S., et al., The Time for Suicide. Psychological

Medicine, 26: 867–870, 1996. 23 Manfredini R., Gallerani M., Caracciolo S., et al., Circadian variation of attempted sui-

cide by deliberate self–poisoning: a chronobiological study. British Medical Journal, 309: 774–775, 1994.

24 Gallerani M., Manfredini R., Caracciolo S., et al., Serum cholesterol concentrations in parasuicide, British Medical Journal, 310:1632–1636, 1995.

25 Manfredini R., Caracciolo S., Salmi R., Tomelli A., The Association of Low Serum Cholesterol with Depression and Suicidal Behaviours: New Hypotheses for the Missing Link. Journal of International Medical Research 28:49–59, 2000.

26 Caracciolo S., Manfredini R., Gallerani M., Tugnoli S., Circadian rhythm of parasuici-de in relation to violence of method and concomitant mental disorder. Acta Psychiatrica Scandinavica, 93: 252–256, 1996.

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a parziale trasmissione eredo–familiare che sarebbero i reali responsa-bili della maggiore incidenza in alcuni gruppi familiari rispetto ad al-tri: secondo questa interpretazione, pertanto, non sarebbe tanto il comportamento suicidario ad essere trasmesso quanto una patologia psichica che ne favorisce, secondariamente, la maggiore incidenza.

Disturbi psichiatrici: i disturbi dell’umore27, l’alcoolismo, la schi-zofrenia ed i disturbi della personalità (in particolare quelli antisociale e borderline) sono stati indicati come i maggiori fattori di rischio sui-cidario in senso assoluto. Esiste peraltro la possibilità che i compor-tamenti suicidari si sviluppino in totale assenza di disturbi psichici in una notevole percentuale dei casi (dal 20 al 40% a seconda delle varie casistiche).

Disturbi organici: i comportamenti suicidari sono talora diretta-mente collegati a malattie fisiche, specie se gravi, croniche, invalidanti o a prognosi infausta, generalmente in concomitanza ad un disturbo depressivo generalmente ricondotto ad un disturbo dell’adattamento con umore depresso.

Eventi stressanti psicosociali: Una serie di eventi psicosociali e-spone il soggetto che li affronta ad un elevato rischio suicidario. Fra i più frequenti si possono citare il lutto, il licenziamento, il fallimento economico, la violenza sessuale, l’emigrazione, le condanne con de-tenzione carceraria. Il denominatore comune in questi casi sembra connesso alle dinamiche di colpa e di vergogna, con sentimenti di in-feriorità e indegnità, all’isolamento sociale ed al ritiro.

5. La clinica: metodi e tecniche Una seconda definizione, più globale, di rischio suicidario è quella

che riguarda la probabilità di una condotta suicidaria di un singolo in-dividuo, indipendentemente dalla popolazione cui appartiene, sulla base della costellazione individuale dei fattori genetici, psicosociali e psichiatrici. A questo tipo di rischio suicidario fa riferimento la valu-tazione clinica del rischio suicidario da parte del medico in condizioni

27 Conwell Y., Duberstein P.R., Risk factors for suicide in later life. Biological Psychiatry

52:193–204, 2002.

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di emergenza28, con le conseguenti responsabilità sul piano diagnosti-co–clinico accanto a quelle di pertinenza medico–legale. Si dà nel se-guito un breve resoconto, certamente schematico ed orientato in senso pragmatico, di alcuni aspetti significativi della valutazione del rischio suicidario nel corso di un colloquio clinico.

A seconda della tipologia del paziente si possono schematizzare quattro situazioni tipiche:

1) pazienti che hanno appena tentato un suicidio; 2) pazienti che si rivolgono al medico presentando idee di suicidio; 3) pazienti che si rivolgono al medico con altre motivazioni ma che

esprimono idee di suicidio nel corso del colloquio; 4) pazienti che negano le idee di suicidio, ma mostrano nel compor-

tamento elementi di potenziale suicidalità (generalmente sono ac-compagnati da parenti o amici).

Principi generali — prendere sul serio tutte le minacce di suicidio, persino quelle più

lievi e inconsistenti, anche se appaiono nettamente manipolatorie; — valutare bene, dedicando loro tempo ed attenzione per un efficace

ascolto, i pazienti che esprimono un senso di disperazione e di i-nutilità; i soggetti che credono che non ci sia una via di uscita per i loro problemi sono quelli a rischio suicidario più elevato, ed un atteggiamento frettoloso o distaccato offre loro una conferma dell’inutilità di ogni sforzo;

— valutare bene i pazienti con storia di frequenti traumi o incidenti, interrogandoli su eventuali problemi, sull’uso di alcool o droghe e sui sentimenti di volersi far del male;

— valutare bene i pazienti con recente depressione e che migliorano all’improvviso: un miglioramento apparentemente inspiegabile può dipendere dal fatto che il soggetto pensa di aver risolto tutti i suoi problemi decidendo di uccidersi; inoltre, alcuni farmaci anti-depressivi agiscono più precocemente sulla inibizione psicomoto-ria che non sulla ideazione suicidaria, per cui si può verificare la

28 Balon R., Suicide: Can we predict it?, Comprehensive Psychiatry, 28, 236–241, 1987.

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situazione paradossale di un miglioramento indotto dai farmaci che facilita una motivazione all’atto suicidario per cui il soggetto fino a quel momento non aveva sufficiente determinazione;

— interrogare apertamente, avvertendo l’interessato, i familiari e gli amici sul comportamento del paziente nel caso che questi rifiuti in assoluto di parlare o di esprimere le sue idee di suicidio;

— se un paziente potenzialmente autoaggressivo vuole andarsene prima del termine della consultazione, cercare in generale di trat-tenerlo almeno fino all’espletamento del colloquio.

6. Colloquio con il paziente con problemi di suicidio Nel corso del colloquio si dovrà lasciare spazio alle diverse funzio-

ni di ogni colloquio medico29, che si applicano, naturalmente, anche per il colloquio con un soggetto in crisi suicidaria: 1. funzione di diagnosi: si propone l’obiettivo di determinare la natura

del problema, pervenendo ad una diagnosi nosografica in caso di malattia, potendo così raccomandare misure terapeutiche e preve-derne l’andamento;

2. funzione di relazione: si propone l’obiettivo di favorire lo sviluppo ed il mantenimento di una relazione terapeutica, per dare sollievo ai disturbi del paziente, sollecitare l’elaborazione negoziata di un pia-no terapeutico che tenga conto sia delle competenze mediche, sia dei desideri del paziente, sia delle possibilità realisticamente dispo-nibili, e che esiti con buona soddisfazione del medico, del paziente, e delle altre persone coinvolte (famiglia, gruppo sociale di apparte-nenza, èquipe sanitaria);

3. funzione di comunicazione: si propone l’obiettivo di far capire al paziente il suo disturbo e la natura della malattia, se si riscontra, delle procedure diagnostiche e terapeutiche consigliate, ottenendo sul piano razionale un consenso bene informato.

29 Lazare A., et al., Three Functions of the Medical Interview. In Lipkin Jr. S., Putnam S.,

Lazare A. (Eds.) The Medical Interview, Springer, New York 1989, p. 103.

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In corso di crisi suicidaria appare però specialmente necessario sot-tolineare maggiormente alcune variabili, che assumono speciale im-portanza in questo caso:

— tempo: il medico dovrebbe assicurarsi di avere il tempo e la tran-

quillità sufficienti per pianificare un colloquio che possa anche du-rare a lungo; in caso che queste possibilità non sussistano, è piutto-sto consigliabile rimandare il colloquio ad un momento in cui tali condizioni si verifichino, per quanto rischioso possa risultare il ri-tardo; è inoltre stato dimostrato30 che nell’intervista con il paziente suicidario è importante soffermarsi su ogni aspetto senza tralasciare nulla, se si vogliono raccogliere informazioni attendibili;

— empatia: il medico dovrebbe stabilire con il paziente un rapporto empatico, mostrandosi calmo e comprensivo, evitando di criticar-ne le affermazioni e approfondendo via via, con circospezione, la questione del suicidio, partendo dai sentimenti di tristezza o di di-sperazione da lui espressi di cui gli si trasmette la condivisione, e procedendo gradatamente;

— rispetto: anche se spesso dai familiari si ottengono informazioni utili, il paziente può trovare difficoltà nel parlare di idee di suicidio se non gli si dà l’opportunità di parlare da solo con il medico, per cui i fami-liari vanno sempre tenuti fuori, in prima istanza, salvo naturalmente poterli ammettere più tardi, previo consenso del paziente; un rifiuto deciso di affrontare il colloquio da solo da parte del paziente depone, in genere, per una diffidenza verso il medico, che diviene allora il primo problema da affrontare, oppure per un tentativo in atto di dis-simulare una già consolidata intenzione suicidaria; ambedue gli ar-gomenti meritano di essere affrontati in modo esplicito, con doman-de chiare, semplici, dirette, rispettose della privacy ma prive di cen-sure e di significati allusivi o nascosti;

— franchezza: parlando del suicidio non si corre il rischio di mettere l’idea nella testa del paziente, come di sovente si teme; invece è un errore evitare di discutere l’argomento per questo motivo. Al contrario, il paziente che ha problemi di suicidio spesso si sente

30 Barber M.E., Marzuk P.M., Leon A.C. et al., Gate questions in psychiatric intervie-

wing: The Case of Suicide Assessment. Journal of Psychiatric Research, 35: 67–69, 2001.

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sollevato se ne può parlare liberamente senza sentirsi giudicato, accetta la lealtà e la franchezza dell’interlocutore nell’avvicinarsi con rispetto al tema, allerta le sue reazioni aggressive solo se av-verte un giudizio negativo del medico sul piano morale;

— ascolto: non è assolutamente utile cercare di far parlare il paziente di altri argomenti, allo scopo di sviarlo dalle idee di suicidio; questa stra-tegia risponde piuttosto ad un’esigenza di “fuga” dell’intervistatore; per prendere una decisione sul da farsi, se possibile assieme al pazien-te, è invece importante ascoltare e valutare, eventualmente interve-nendo solo per chiedere chiarimenti o ulteriori particolari ed evitando di esprimere pareri, idee o convinzioni personali.

Il colloquio ha comunque l’obiettivo di valutare il paziente, con

domande aperte e stile non direttivo, per una serie di aspetti clinici su cui raccogliere anche dati precisi:

1. pensieri di suicidio (idee, desideri, motivi); 2. intenzioni reali di suicidio (fino a che punto intende tradurre in

atto i pensieri); 3. progetti concreti di suicidio:

ha un piano dettagliato? ha a disposizione mezzi dannosi o letali (farmaci, armi)? è in grado di usarli? ci sono possibilità che possa essere salvato?

4. valutazione dei fattori demografici e clinici di rischio di suicidio:

sesso maschile; depressione maggiore; alcoolismo; precedenti di parasuicidio; stato civile(non coniugati/vedovi); età avanzata (picco: M: 75, F: 60); disoccupazione; patologie organiche (dolore cronico o malattia cronica, grave

o invalidante).

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La costruzione negoziata di un rapporto di fiducia franco, aperto e reale può anche pervenire ad un’insolubile situazione di contrapposi-zione in cui il medico si dichiara obbligato ad intervenire in aiuto della vita del paziente, contro la sua volontà, ma questo esito è molto raro, se si seguono le procedure raccomandate. Nella maggior parte dei casi non è affatto necessario dichiarare la propria convinzione oppure la propria opposizione alle idee di suicidio, di fronte alla quali il paziente non vede l’ora di poter reagire in modo transferale, coinvolgendo an-che il medico nelle dinamiche psicologiche, più o meno profonde, che lo motivano. Spesso, anzi, una dichiarazione esplicita di attenta e inte-ressata neutralità da parte del medico rispetto ai desideri del paziente, senza prendere posizione “pro” o “contro” il suicidio, sortisce proprio l’effetto di “bonificare” lo spazio relazionale, restituendo al paziente una rinnovata possibilità di autodeterminazione in cui il desiderio di vita può riprendere il sopravvento sul desiderio di morte, con cui così spesso coesiste. Questo lascia, naturalmente, spazio ad una necessità da parte del medico di doversi fidare del paziente e rappresenta il prezzo della restituzione al paziente della propria libertà.

Un terzo tipo di rischio suicidario è quello che si valuta, a posterio-ri, sulla popolazione dei soggetti che hanno già messo recentemente in atto una condotta suicidaria, allo scopo di rilevare il peso delle varia-bili collegate al rischio e di valutare in senso prognostico le elevate possibilità di recidiva nei soggetti a rischio (repeaters). La possibilità di ripetizione del parasuicidio è peraltro legata, ovviamente, anche alla storia psicoaffettiva del soggetto ed al mancato raggiungimento di tappe evolutive (c.d. breakdown evolutivo); per l’approfondimento di questi aspetti si rimanda ad altra sede31, 32.

Si accenna, in appendice, all’esistenza di diverse scale cliniche di tipo psicometrico33, 34, 35, 36, concepite allo scopo di valutare il rischio

31 Laufer E., Suicide in adolescence, Psychoanalitic Psychotherapy, 3, 1–10, 1987. 32Molinari S., Caracciolo S., Aspetti psicologici del suicidio, in L. Pavan e D. De Leo (a

cura di) Il Suicidio nel Mondo Contemporaneo, pp. 191–195, Liviana Editrice, Padova 1988. 33 Motto J.A. & Heilbron D.C., Development and validation of scales for estimation of

suicide risk, in E.S. Shneidman (Ed.), Suicidology, Contemporary Developments, pp. 169–199, Grune & Stratton, New York 1976.

34 Stanley B., Traskman–Benz L., Stanley M., The Suicide Assessment Scale: a scale eva-luating change in suicidal behavior. Psychopharmacology Bulletin, 22, 200–205., 1986.

35 Pallis D.J., Barraclough B.M., Levey A.B., et al., Estimating suicide risk among attempted

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suicidario in modo standardizzato37. Si tratta per lo più di strumenti con interessanti applicazioni al campo della ricerca ma ancora assai insoddisfacenti sul piano clinico38, 39, sia per le scarse evidenze sulle loro reali capacità predittive, sia perché nessuna di esse consente, na-turalmente, le capacità di valutazione multidimensionale e metacomu-nicazionale di un approfondito colloquio.

7. Linee guida per una prevenzione I comportamenti autolesivi sono sempre il risultato del sovrapporsi

di diversi fattori di varia origine, ed è pertanto ai diversi livelli di que-sti fattori che va orientata la progettazione di interventi preventivi. Il concetto chiave, già classicamente dimostrato, è che nella maggior parte dei casi il suicidio non è impulsivo e improvviso, quindi non è inevitabile40.

7.1. Prevenzione primaria

La prevenzione primaria delle condotte suicidarie rappresenta

l’obiettivo più ambizioso delle linee di sviluppo delle tecniche di valu-tazione del rischio suicidario, dal momento che parte dall’identifi-cazione di fattori predittivi, sul piano statistico ed epidemiologico, per organizzare specifici progetti di intervento che riducano tale rischio, a-vendo come “target” la popolazione generale. La prevenzione primaria resta pertanto, allo stato attuale delle conoscenze, un compito ancora lontano dalle attuali possibilità d’intervento. La prevenzione dello svi-

suicides: I. The development of new clinical scales. British Journal of Psychiatry, 141:37–44, 1982.

36 Pierce D.W., The predictive validation of a suicide intent scale: a five year follow–up, British Journal of Psychiatry, 139, 131–136, 1981.

37 Caracciolo S., Crepet P., La valutazione del rischio suicidario, in Crepet P., Le Misure del Disagio Psicologico, La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1994, pp. 79–98.

38 Caracciolo S., Tomelli A., Molinari S., Assessing Suicidal Risk by Scales: Some Criti-cal Remarks, in: Ferrari G., Bellini M., Crepet P. (Eds.), Suicidal Behaviour and Risk Factors. pp. 743–747, Monduzzi Editore, Bologna 1990.

39 Cochrane–Brink K.A., Phil D., Lofchy J.S., et al., Clinical Rating Scales in Suicide Risk Assessment, General Hospital Psychiatry, 22:445–451, 2000.

40 Moron P., Il Suicidio, Garzanti, Milano 1976.

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luppo delle tendenze al suicidio nella società e nei singoli individui, in quanto soggetti inseriti nelle strutture del “network” sociale, si può at-tuare pertanto all’interno dei gruppi sociali in cui i fattori predisponenti e/o scatenanti esercitano un effetto di facilitazione più significativo41. Un approfondimento particolare, per cui si rimanda ad altra sede42, ri-guarda il problema assai delicato e controverso del ruolo della imitazio-ne (o “contagio”) e del social modeling nell’indurre comportamenti sui-cidari. Il fenomeno, già noto fin dalla antichità nella descrizione di Plu-tarco43, è spesso definito con il termine di “effetto Werther”, in riferi-mento al noto romanzo di J.W. Goethe ed alla catena di suicidi che la sua diffusione scatenò in Germania nel XVIII secolo per imitazione, ed ha avuto un recente caso di interessante rappresentazione letteraria nel romanzo “Neve” dello scrittore turco Orhan Pamuk.

In base ai dati di letteratura, comunque, il contagio appare più si-gnificativo se il soggetto primer o induttore, da cui deriva l’imita-zione, è vicino al soggetto target, o imitatore. È presumibile che il meccanismo psicodinamico più forte sia in questi casi l’identifi-cazione, il che spiega la notevole efficacia dell’imitazione nel conta-gio familiare (genitori o parenti significativi morti di suicidio) e nel contagio scolastico o sentimentale (suicidi di coppia o suici-di/omicidi), o nell’induzione da parte di meccanismi di identificazione spuria, sulla base di spettacoli televisivi o cinematografici in cui si metta in scena un suicidio44.

In generale, si tratta quindi di interventi da sviluppare nei mezzi di comunicazione di massa, nella scuola, all’interno della famiglia e a li-vello della assistenza medica di base. La prevenzione primaria delle condotte suicidarie é collegata, infatti, alla prevenzione primaria dei

41 Pommereau X., La Tentazione Estrema, Pratiche editrice, Milano 1999, (Ed. Or.: 1996),

p. 77. 42 Caracciolo S., Tomelli A., Crepet P., Quando il filo si interrompe. Il servizio psichiatri-

co e la famiglia di fronte al suicidio, in P. Crepet, Le Dimensioni del Vuoto. I giovani e il sui-cidio, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 54–83.

43 Fornari F., Nota sulla psicoanalisi del Suicidio, in Suicidio e Tentato Suicidio in Italia, Giuffré, Milano 1967, pp. 279–294.

44 Schmidtke A., Schaller S., What do we Know about Media Effects on Imitation of Sui-cidal Behaviour,. State of the Art, in De Leo D., Schmidtke A. & Diekstra R.F.W. (Eds.), Sui-cide Prevention. A Holistic Approach, Kluwer Acad. Publ., Dordrecht –Boston–London 1998, pp. 121–137.

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disturbi psichiatrici più spesso collegati alle condotte suicidarie (come i disturbi depressivi, i disturbi della personalità, l’abuso di sostanze e l’alcoolismo) ma deve anche tener conto di tutti i fattori collegati ad aspetti eminentemente sociali, e principalmente di tutte quelle condi-zioni che si accompagnano ad isolamento sociale quali la di-soccupazione, l’immigrazione, il disagio giovanile45, la solitudine del-la terza età.

7.2. Prevenzione secondaria

È particolarmente rivolta verso la fascia di individui ad alto rischio,

in cui si può quindi mettere in evidenza la presenza di elementi che favoriscono l’insorgenza delle condotte suicidarie. La terapia farmaco-logia antidepressiva non si rivela uno strumento efficace sia per la scarsa efficacia sia per la ridotta compliance46. La prevenzione secon-daria deve essere pertanto strutturata su un intervento precoce specia-listico sul fenomeno suicidario attraverso diverse modalità e in diversi ambiti: 1) servizi di medicina d’urgenza, in cui provvedere ad una corretta va-

lutazione del rischio che venga approfondita dal punto di vista me-dico, psicologico e psichiatrico ed alla elaborazione di piani indivi-dualizzati di intervento atti alla riduzione ed all’eventuale tratta-mento del disagio psicologico o delle vere e proprie patologie, psi-chiatriche e non, che concorrono ad incrementare il rischio suicida-rio;

2) servizi di psicologia clinica e servizi di salute mentale, che rappresenta-no il luogo elettivo di ascolto, di valutazione e di intervento sulla crisi psichica e possiedono una reale efficacia nella prevenzione47;

3) centri crisi specializzati, la cui indicazione specifica nel caso delle condotte suicidarie é peraltro assai controversa in base alle espe-

45 Ladame F.: I tentativi di Suicidio degli Adolescenti, Roma: Borla, 1987 (Ed. Or.: 1981). 46 Oquendo MA, Kamali M, Ellis SP et al.: Adequacy of antidepressant treatment after

discharge and the occurrence of suicidal acts in major depression: a prospective study. Am J Psychiatry, 159:1746–51, 2002.

47 Crepet P, Caracciolo S., Fabbri D. et al.: Suicidal Behaviour And Community Mental Health Care in Emilia–Romagna (Italy), Omega, 33: 193–206, 1996.

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rienze raccolte, assai deludenti in termini di adeguato funzionamen-to e di reale abbattimento del rischio;

4) controlli e limitazioni da parte delle autorità preposte nella disponi-bilità di metodi con potenziale di letalità più alto (es. restrizioni per la prescrizione e la distribuzione dei farmaci, interdizioni e control-lo nelle autorizzazioni relative alla vendita delle armi da fuoco e da taglio), il cui valore, enfatizzato dagli autori americani, rimane as-sai discutibile nella sua efficacia per il documentato fenomeno del-la “migrazione” da un metodo all’altro.

7.3. Prevenzione terziaria Riguarda essenzialmente la prevenzione delle recidive di tentato

suicidio quando si rilevano evidenti elementi di rischio, psicosociale o psichiatrico, avvalendosi di due strumenti principali:

• intervento sul contesto sociofamiliare e affettivo, con individuazio-

ne di fattori favorenti o facilitanti l’atto; • intervento psichiatrico e/o psicologico: non esistono allo stato at-

tuale soddisfacenti protocolli di intervento farmacologico diretto sulle condotte suicidarie48 per cui rimane prioritario l’intervento farmacologico sulle sindromi psicopatologiche, specialmente di na-tura depressiva, ad esse collegate, il cui effetto appare comunque dubbio in termini di efficacia di prevenzione. La maggior parte de-gli studi attendibili in questo settore non ha peraltro fornito risultati soddisfacenti, evidenziando una sostanziale invarianza delle recidi-ve a fronte dei diversi interventi, fra loro integrati, messi in atto49. L’intervento psicoterapeutico (individuale, di gruppo, ad orienta-mento analitico o di tipo cognitivo), nelle fasi di crisi e al di fuori di esse, rappresenta comunque, a tutt’oggi, un insostituibile presi-

48 Schifano F., De Leo D., Pharmacological Treatment of Suicidal Behavior, in De Leo

D., Schmidtke A. & Diekstra R.F.W. (Eds.), Suicide Prevention. A Holistic Approach, Kluwer Acad. Publ., Dordrecht–Boston–London 1998, pp. 199–209.

49 Hawton K., Controlled studies of psychosocial intervention following attempted suici-de, in N. Kreitman, S.D. Platt (Eds.), Current Research on Suicide and Parasuicide, Edin-burgh University Press, Edinburgh 1989.

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dio terapeutico da integrare con gli altri tipi di intervento (medico, farmacologico, sociale)50.

8. Conclusioni

Si è visto che i fattori necessari alla valutazione del rischio di suici-

dio sono molteplici, e che l’attenta conoscenza ed esplorazione degli aspetti epidemiologici e clinici deve assolutamente accompagnarsi all’ascolto del paziente, per consentire al medico lo sviluppo di una relazione significativa. Ciò necessita in particolare di tempo, empatia, rispetto, franchezza, ascolto.

Nonostante la complessità e la delicatezza della questione, la deci-sione finale, assegnata alla responsabilità del medico, è, come spesso succede, ridotta ad un dilemma: ricoverare o no, ed eventualmente trattare il paziente a livello ambulatoriale?

Come in un mitico nodo gordiano, anzichè poter con pazienza di-panare gli intricati fili della storia clinica e della vita del paziente, il medico è costretto, suo malgrado, a tagliare tutti i fili assieme. Come un artificiere, può tagliare quelli giusti, ed impedire lo scoppio della “bomba”, solo se li conosce bene e sa quello che fa; come un artificie-re di una squadra speciale, rischia di essere dolorosamente coinvolto nello scoppio, nonostante la competenza e le cautele adottate.

Nonostante quanto comunemente si possa ritenere, l’uso di misure restrittive e del ricovero ospedaliero risulta spesso controproducente, ed é comunque da considerare proficuo soltanto in presenza di patolo-gie psichiche gravi e per brevi periodi. Il ricovero infatti è necessario quando c’è una forte determinazione al suicidio, manca una rete di supporto sociale e la persona a rischio ha una storia di comportamento impulsivo, ma la sua utilità dipende dalle caratteristiche della struttura di ricovero: sono rare, e non solo in Italia, le strutture ospedaliere dav-vero abilitate, in termini di strutture e di risorse umane, ad un aiuto in-tensivo per persone a rischio di suicidio, tanto che il tasso dei suicidi

50 Wasserman D., A Critical Evaluation of Psychotherapy in the Treatment of Depression and in Suicide Prevention, in: De Leo D., Schmidtke A. & Diekstra R.F.W. (Eds.), Suicide Prevention. A Holistic Approach, Kluwer Acad. Publ., Dordrecht–Boston–London 1998, pp. 173–183.

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intraospedalieri è uguale a quello della popolazione generale. Il rico-vero può risultare controproducente quando è coatto e non si inserisce in un negoziato accordo fra medico e paziente, sia perché non costrui-sce nulla per il futuro, sia perché per il paziente si tratta di una con-ferma della sua solitudine, che si tinge anche di aspetti persecutori, ta-lora persino giustificati, travestiti, almeno ai suoi occhi, da protezione.

Il trattamento ambulatoriale può essere oggetto di negoziazione e, financo, di contrattazione nel corso del colloquio medico, sollecitando le risorse del soggetto, una volta che siano state verificate come vali-de, a ricorrere nuovamente alla valutazione del medico in caso di ria-cutizzazione dei pensieri di suicidio, dato che l’area temporale a mag-gior rischio è di circa 7 giorni, dopo di che il rischio permane comun-que ma si avvicina molto a quello della popolazione generale.

Tuttavia, ricordando il contributo di Fornari sul ruolo “sacrale” del medico51, non possiamo trascurare che nella pratica medica entrano a pieno titolo, accanto ad aspetti scientifici e tecnici, anche aspetti emo-tivi irrazionali, spesso inconsci, per cui il medico vive una parte della sua attività come il risultato della trasformazione di fantasie infantili e onnipotenti, come il desiderio inconscio di poter sconfiggere sempre le malattie e la morte.

Il suicidio, come e più di ogni altra morte di un paziente, rischia di essere considerato una sconfitta dal medico, al di là degli sforzi profu-si e dell’impegno investito nel lavoro con il paziente, anche perchè l’esito infausto si somma appunto ad un’amara constatazione dell’inutilità degli sforzi e della impotenza di fronte a queste situazio-ni. Ma se il medico sente di aver dato il meglio di se stesso, e non si rifugia in un vacuo fatalismo, allora può, anche di fronte al suicidio di un paziente, fare propria, grazie ad un lavoro di elaborazione della perdita, la saggia concezione di Montaigne52:

Nessuno muore prima dell’ora sua. La parte di tempo che lasciate non era vostra più di quella che è passata prima della vostra nascita; e non vi riguarda più di quella. Ma, come è giusto, la morte di un paziente riguarda sempre il me-

dico che lo ha curato.

51 Fornari F., Affetti e Cancro. Cortina, Milano 1985. 52 de Montaigne M., Saggi, a cura di V. Enrico, vol. I, Mondadori, Milano 1986, p. 112.

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La depressione e il paziente nel Servizio di Salute Mentale

di IVONNE DONEGANI

Il Servizio di Salute Mentale si offre come contenitore privilegiato

per l’ascolto della sofferenza psichica, con i suoi presidi sanitari e so-ciali, con le persone che ci lavorano, siano essi medici, psicologi, in-fermieri o operatori sanitari con altre qualifiche, con i pazienti, con le loro famiglie e con il gruppo sociale di appartenenza cioè con tutti i cittadini.

Un’importante premessa, quindi, quando si parla della cura della depressione così come, del resto, di altri disturbi psichici in un Centro di Salute Mentale (CSM) è di ricordarne la mission.

Il CSM è la struttura operativa preposta alla direzione, gestione e coordinamento delle attività di prevenzione, diagnosi, cura e riabilita-zione del disagio e disturbo psichico della popolazione adulta, con particolare attenzione ai disturbi gravi, così come indicato nel Progetto Obiettivo Tutela della Salute Mentale 1998–2000. Questa mission si realizza allora attraverso l’elaborazione di progetti terapeutici indivi-duali e il coordinamento dell’accesso a tutte le prestazioni, direttamen-te e indirettamente erogate, compresi i ricoveri, operando per evitare processi di cronicizzazione e lungodegenza.

Affrontare i problemi relativi alla salute mentale nell’ambito dei servizi pubblici significa quindi fornire risposte efficaci e sostenibili soprattutto a problemi di grande rilevanza sociale, integrandosi con il lavoro e le competenze di tante altre agenzie che si pongono alla inter-faccia con il Dipartimento di Salute Mentale (DSM). Come riportato nella bozza di documento per la Conferenza Regionale dell’Emilia–Romagna per la Salute Mentale (2006):

La salute mentale è una delle componenti della salute pubblica e i DSM si trovano al centro di una azione ben più vasta e complessa di quella fornita al-

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lo scopo di dare risposta ai singoli bisogni espressi dalla utenza, così come storicamente intesa, ed è loro richiesto di entrare nella più ampia concezione di benessere, di salute, di promozione Il centro dell’attività dei CSM resta primariamente la risposta ai di-

sturbi mentali gravi — nel nostro caso parliamo di depressione mag-giore senza o con sintomi psicotici, disturbo bipolare, comportamenti suicidari, depressione atipica, nei confronti dei quali si impongono differenti tipi di interventi che schematicamente possiamo riassumere in tre categorie:

a) intervento di accoglienza e valutazione diagnostica, che precede la

eventuale presa in carico; b) intervento di cura, che può avvenire attraverso colloqui psichiatrici

di supporto individuali e/o familiari, cura psicofarmacologica se necessario anche in day hospital, psicoterapia individuale e/o fami-liare, di gruppo;

c) interventi volti a diminuire il grado di disabilità conseguente alla patologia, attraverso interventi riabilitativi–abilitativi (inserimenti lavorativi, risocializzazione, progetti sul tempo libero, azioni sull’ambiente circostante, gruppi di auto–aiuto, etc.). La disabilità, che è presente sempre in grado severo nella depressio-

ne grave, si riscontra anche nella depressione di media o lieve entità. La disabilità aggrava altresì il quadro psicopatologico secondo un’interazione reciproca e per questo va a costituire uno dei criteri nella valutazione della gravità del quadro clinico e della sua risposta al trat-tamento. Un recente studio condotto a Bologna mostra, ad esempio, che la depressione. rispetto ai disturbi d’ansia e somatoformi, comporta più estese limitazioni nel campo sia fisico che sociale, con conseguenti costi sociali di grande rilevanza. Anche per questo siamo chiamati ad assu-mere nuovi compiti, a collaborare e ad attivare processi di lavoro inte-grato con i soggetti che si occupano di salute pubblica.

Centrale a questo riguardo è il trattamento dei cosiddetti disturbi emotivi comuni e dei disturbi depressivi reattivi, e di conseguenza il rapporto con i medici di Medicina Generale e con gli specialisti priva-ti, cui spesso tali disturbi vengono affidati.

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Il DSM IV per i medici di Medicina Generale già nella sua introdu-zione a cura del dr. Giuseppe Leggieri, prematuramente scomparso, sot-tolinea come, a fronte del fatto che il medico di Medicina Generale è un osservatore privilegiato dei fenomeni clinici, psicologici e sociali di un determinato paziente (e ciò può consentire di individuare precocemente uno stato di sofferenza psichica), per il medico di Medicina Generale è però molto difficoltoso affrontare le problematiche psichiche sia nella fa-se diagnostica che in quella del trattamento vero e proprio. La collabora-zione tra medici di Medicina Generale e psichiatri risulta allora indispen-sabile, soprattutto quando ci si trova di fronte a quadri clinici complessi.

A questo scopo è stato sviluppato, specificatamente per i medici di Medicina Generale o comunque per i non specialisti in psichiatria, il DSM–IV–TR MG1 che si propone come classificazione ed algoritmo diagnostico più agile ed adatto alla maggior parte dei casi di disturbo mentale di più comune osservazione per il non–specialista. In partico-lare si riporta nel seguito l’algoritmo dell’umore depresso, che orienta in modo univoco qualunque medico a diagnosticare correttamente il disturbo da umore depresso del suo paziente:

ALGORITMO dell’umore depresso secondo il DSM–IV TR MG

Sintomi: ridotta energia, insonnia, perdita di peso, lamentele somatiche non giusti-

ficate dalla condizione medica generale. Tappa 1: Considerare se l’umore depresso può essere correlato a Condizione Medi-

ca Generale, Abuso di Sostanze o Altri Disturbi Mentali. Tappa 2: Se i sintomi persistono per due settimane, Disturbo Depressivo Maggiore. Tappa 3: Se persistono per la maggior parte degli ultimi due anni: Disturbo Distimico. Tappa 4: Se sono associati a perdita di persona cara e persistono da meno di 2 mesi: Lut-

to. Tappa 5: Se si manifesta in risposta a fattore psicosociale stressante: Disturbo

dell’Adattamento. Tappa 6: Se i precedenti criteri non sono soddisfatti: Disturbo Depressivo NAS.

1 DSM–IV–TR MG. Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali per la medicina

generale. Milano, Masson, 2003.

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Se analizziamo i dati più recenti di attività di un Centro di Salute Mentale (CSM) — nella presente trattazione ci si riferisce all’Area di Bologna Nord, ma lo stesso dato è analogo anche in molti altri CSM — ci accorgiamo che una grande percentuale dei trattamenti annui per disturbi della sfera depressiva sono costituiti da attività di visite psi-chiatriche effettuate su invii dei medici di Medicina Generale per di-sturbi “lievi” e perciò abbiamo molti utenti ma che complessivamente usufruiscono di una percentuale minore di interventi; al contrario, un minor numero di utenti con patologia psichica grave richiede un am-pio numero di interventi per lo più distribuiti su trattamenti integrati (colloqui, psicoterapie, trattamenti riabilitativi e risocializzanti, rico-veri ospedalieri, inserimenti in strutture residenziali…).

Le Figure 1 e 2 riportano rispettivamente i dati di diagnosi e presta-zioni dei CSM di Bologna Nord e dell’intera Regione Emilia–Romagna.

In che percentuale compaiono i disturbi depressivi? Molto proba-bilmente essi non solo riguardano solo i disturbi più gravi, unipolari o bipolari che siano, che coinvolgono il 12% dei pazienti e certamente una percentuale molto maggiore in termini di prestazioni. Difatti an-che in altre categorie diagnostiche compaiono certamente soggetti con umore depresso, sia come comorbidità (si pensi alla depressione se-condaria in corso di schizofrenia) sia come varietà clinica di affezioni catalogate in altre categorie (valga per tutti l’esempio del disturbo border–line di personalità in fase depressiva) o nella grande “fetta” dei disturbi nevrotici (1 paziente su 4).

Quale è il percorso di un paziente che accede a un CSM dalla ri-chiesta alla dimissione? In figura 3 si riporta il diagramma di flusso che dalla richiesta, attraverso il primo contatto con il CSM, trova poi diverse vie e diverse modalità di risposta nel servizio pubblico, acce-dendo tramite una presa in cura che può declinarsi per una serie di trattamenti sia clinici che residenziali che socio–assistenziali.

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Figura 1. Grafico a torta della distribuzione per diagnosi e percentuale relativa delle prestazioni erogate (anno 2005, CSM Bologna Nord)

Figura 2. Grafico a torta della distribuzione per diagnosi dei pazienti dei Servizi di Salute Mentale nella Regione Emilia Romagna (anno 2005)

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1. Depressione e rapporto medico–paziente. Cosa cambia in un servizio pubblico? L’attività del CSM nei disturbi depressivi si basa sulla necessità di ga-

rantire un intervento adeguato in tutte le possibili situazioni cliniche. Queste le caratteristiche principali:

— risposta alle emergenze urgenze che si realizza con la presenza sulle 24 ore nel territorio di una risposta ai bisogni psichiatrici urgenti attra-verso le dodici ore di apertura degli ambulatori e la presenza di una consulenza psichiatrica nei pronti soccorsi, in qualche realtà anche della possibilità di poter attivare uno psichiatra reperibile per valuta-zioni urgenti in PS o OC nelle ore notturne e nei festivi e prefestivi;

Figura 3. Management della richiesta di aiuto presso il DSM: seguendo il flowchart si passano in rassegna le possibilità di interventi terapeutici e riabilitativi che posso-no essere messi in atto per ciascun paziente.

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— territorialità. La presa in cura del paziente avviene secondo mo-delli che possono essere prevalentemente centrati su riferimenti clinico–biologici, psicodinamici. cognitivisti ma in cui sempre re-sta centrale il principio della territorialità come strumento di base del lavoro integrato (ciò consente stretti rapporti con il contesto sociale, familiare, lavorativo del paziente, e l’attivazione di reti di supporto psicosociale;

— trattamenti integrati con supporto di misure estreme in casi di gra-ve urgenza (dal ricovero in TSO al ricovero volontario in SPDC) e di percorsi psicoterapici, ri–socializzanti e abilitanti (reinse-rimenti lavorativi, utilizzo di centri diurni);

— l’attività del CSM si esplica attraverso il lavoro di equipe. Si tratta di una equipe multiprofessionale (composta da psichiatri, psicolo-gi, infermieri, educatori) e pertanto in grado di fornire risposte di-versificate e commisurate alle molteplici esigenze di una appro-priata assistenza al paziente. Ciò garantisce anche una continuità terapeutica che, al di là delle inevitabili e faticose necessità di a-dattamento del paziente depresso e della sua famiglia ai ritmi e al-le caratteristiche del lavoro del CSM, si articola in un progetto a lunga scadenza che assicura una risposta pronta ed appropriata al-le possibili evenienze cliniche e alle onerose disabilità.

Il paziente depresso, come si è visto, vive immerso in un senso di

vuoto, di abbandono e di solitudine che divorano il suo mondo inter-no; ciò si ripercuote spesso in un “abbandono” relazionale e in un iso-lamento sociale e in una progressiva e ingravescente perdita di compe-tenze e di abilità.

La risposta di cura a questo tipo di paziente da parte di un Servizio Pubblico territoriale come il CSM deve strutturarsi in senso vicariante e protettivo nelle fasi più acute ma deve poter svolgere anche una fun-zione riabilitativa in un percorso integrato che accompagni il paziente lungo tutte le fasi della malattia.

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Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente

di STEFANO CARACCIOLO

1. Premessa All’interno del termine “empatia” si comprendono diversi fenome-

ni psicologici, di natura sia individuale sia interpersonale, che riguar-dano la percezione, la condivisione e la trasmissione di vissuti emoti-vi. Il concetto è tuttora non chiaramente delimitato sul piano semanti-co, tanto che non si dispone di una sua definizione soddisfacente che possa comprendere i fenomeni correlati all’empatia in tutti i diversi ambiti di riferimento (Bonino, Lo Coco, Tani, 1998; Bolognini, 2002). Di conseguenza più che da una vera definizione sensu stricto (Peruzzi, 1997), per cui i dati e le conoscenze disponibili non sembrano ancora sufficienti, e le premesse da cui partire non ancora adeguate, pare op-portuno prendere le mosse preliminarmente da una descrizione del fe-nomeno, in base al concetto di denotazione formulato da Bertrand Russell (1969): proponiamo pertanto una definizione di tipo descritti-vo che, secondo Russell, è quella che determina l’identificazione di un fenomeno semplicemente mediante le sue proprietà accidentali.

Per motivi di opportunità e di chiarezza metodologica ed espositi-va, si è scelto di descrivere dapprima l’empatia come concetto genera-le, osservabile in ogni relazione interpersonale, passando poi ad una rassegna degli studi sui rapporti fra empatia e altruismo, in seguito toccando il tema dell’empatia come la si può descrivere nella relazio-ne psicoanalitica, per poi arrivare alla empatia come concetto applica-to allo studio delle dinamiche del rapporto medico–paziente.

Va da sé che tale distinzione è assolutamente arbitraria, poichè si sviluppa a partire dall’ambito di esplorazione e di studio, senza nessu-na garanzia che quanto accade in ciascuno dei diversi settori si possa davvero paragonare a ciò che nell’altro si considera come empatia, in

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base ad un postulato su cui ci si potrà pronunciare una volta valutati gli elementi raccolti dai vari autori nei rispettivi campi di indagine: che i fenomeni empatici possiedano una loro identità ed unitarietà in-dipendentemente dall’ambito in cui si sviluppano.

Per questo motivo la separazione dei contributi in base alla loro o-rigine, pur consentendo di riconoscere e caratterizzare i diversi aspetti che vengono ricondotti al concetto di empatia, necessita poi di una sintesi conclusiva che possa tentare di pervenire ad una dimensione unitaria, seppur approssimativa, del costrutto.

2. L’empatia: il concetto generale La parola “empatia” è attestata in Italia solo dal 1960 (DELI: Di-

zionario Etimologico della Lingua Italiana, 1999) e, come in altre lin-gue, fu coniata a stampo dalla parola tedesca “Einfühlung”, nata con i poeti romantici tedeschi, per definire il sentimento di emozione colle-gata alla contemplazione e fusione con la natura. In seguito è stata ri-presa da Sigmund Freud (1921/1974) e, a partire da Sandor Ferenczi (1932/1974), da molti successivi psicoanalisti come Schafer (1959), Kohut (1971), Greenson (1960/1971) e Mitchell (1995), per denomina-re la “capacità di mettersi nei panni di un altro”, sia in senso generale sia all’interno di una relazione terapeutica.

Tuttavia, in epoca precedente alla elaborazione della teoria psicoa-nalitica da parte di Freud, numerosi filosofi del secolo XIX hanno svi-luppato in modo più o meno esplicito concetti di avvicinamento nel “sentire” emozioni (il pathos) di fronte alla natura, ad opere d’arte, se-guendo le indicazioni dei poeti romantici come il tedesco Novalis, mediante i quali ci si “immedesima” o “ci si sente dentro” all’oggetto:

Non comprenderà la natura chi non ha […] uno strumento interiore che gene-ra la natura e che la secerne e […] non si mescola per mezzo della sensazione con tutti gli esseri naturali, quasi sentendo se stesso entro ognuno di loro (Novalis, 1798/1998) L’empatia appartiene, dunque, al campo generale delle emozioni e

dei sentimenti che l’individuo prova di fronte a stimoli esterni. Essi gli

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Il ruolo centrale dell’empatia nel rapporto medico–paziente

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trasmettono una sorta di vibrazione e risonanza emotiva che colpisce e pervade la sua mente cosciente. È evidente che esiste comunque una forma non del tutto conscia di empatia, in un continuum che, per e-sprimerci nei termini della teoria topica della personalità di Freud, va dalla parte della mente che contiene materiale totalmente inconscio a quella che comprende il vissuto perfettamente conscio. All’interno di questo campo essa va collocata come una sensazione tutta interiore, che non si traduce necessariamente in comportamenti o in espressioni verbali, anche se occasionalmente può farlo, che insorge all’improv-viso e che, quando arriva alla coscienza, si rende subitaneamente per-cepibile dal soggetto che, con un senso misto di stupore e di commo-zione, la prova.

Essa appartiene quindi al terreno della condivisione interpersonale che, come avverte Bolognini che lo definisce più correttamente “il campo condiviso” (2002), è certamente scivoloso e ci fa “capitombo-lare” all’improvviso nel mondo interno dell’altro, immergendoci nella sua vita emozionale, più spesso dolorosa e carica di sofferenza, ma ta-lora positiva e addirittura gioiosa – dove peraltro non è affatto impos-sibile trovare emozioni di ogni gamma e di ogni segno, comprendendo quindi persino ostilità, distruttività, odio, con cui empatizzare.

La metafora della vibrazione e della risonanza rende bene l’idea di ciò che è insito nella natura dell’empatia e ci aiuta a chiarire per esclusione, e per sgombrare il campo da equivoci e da dubbi, che l’empatia non è soli-darietà, non è compatimento, non è simpatia, non è identificazione.

L’empatia non è solidarietà per il senso urgente e improvviso con cui si dispiega, anche se alla solidarietà può offrire un punto di parten-za quando lo stato d’animo che si sperimenta è un punto di partenza che sfocia in comportamenti prosociali o altruistici, e perché si può verificare anche per la condivisione di emozioni di gioia, di rabbia, di vendetta.

L’empatia non è compatimento o simpatia perché in questi due fe-nomeni si provano assieme, nella relazione, sentimenti di condivisione (syn, “assieme” + pathos, “sofferenza”) sul piano cosciente, ma con caratteristiche di superficialità e in assenza di movimenti emotivi pro-fondi, associati ad un senso di vicinanza che è più vicino alla attrazio-ne interpersonale. La simpatia si colloca infatti nel campo delle rela-zioni amicali, basate su una certa condivisione nella valutazione di

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giudizi, opinioni e punti di riferimento comuni. Al contrario, l’empatia si sviluppa necessariamente in assenza di vincoli amicali perché si struttura a partire da una estraneità (Owens, 1999) che permane e, an-zi, tende a ristabilire il proprio assetto dopo aver sperimentato l’empatia.

Secondo Black, che si è occupato in modo specifico della simpatia con un orientamento teorico di tipo psicodinamico (2004), sotto il ter-mine simpatia sono compresi — e spesso confusi — due diversi fe-nomeni. Il primo fenomeno si riferisce quel tipo di simpatia che viene inteso come capacità di sperimentare in modo spontaneo le sensazioni degli altri. Questa simpatia come capacità (la chiameremo: “simpa-tiaI”) di fatto rappresenta una componente che ritroviamo anche nell’empatia e costituirebbe il tratto iniziale comune ai due processi, che avrebbe le sue radici in quegli “affetti vitali” che Daniel Stern (1987) ha descritto nella relazione madre–bambino nei suoi momenti più precoci. Il secondo fenomeno (“simpatiaII”) è invece la simpatia intesa come emozione di attenzione premurosa per le sensazioni dell’altro. Secondo Black, l’empatia e la simpatiaII riconoscono come base comune la simpatiaI che ne è l’origine in quanto capacità di per-cepire le sensazioni degli altri, ma interagiscono con essa con mecca-nismi complessi influenzati dalla personalità dell’individuo e dalla presenza o assenza di disturbi psicopatologici, dal momento che trag-gono le loro origini dal processo di sviluppo precoce del Sé e quindi da fattori di natura materna, ambientale, educativa.

Nel caso dell’antipatia invece il prefisso anti–, che significa “con-tro”, assieme alla radice pathos, origina la parola che assume il signifi-cato di sentimento contrario, e, come la simpatia, ha più frequentemente a che fare con le caratteristiche esteriori della persona, oltre che appar-tenere più frequentemente al piano cosciente e ad avere un più epider-mico carattere di temporanea superficialità (Carpineta, 1992).

Inoltre l’empatia non è identificazione, perché l’identificazione è meccanismo inconscio ed automatico, mentre l’empatia nasce proprio da un passaggio, per utilizzare di nuovo i termini della teoria topica, dal preconscio al conscio, e pertanto si può prevalentemente sperimen-tare in modo cosciente.

Il senso di vibrazione viene generalmente associato ad ogni sensa-zione emotiva intensa ed improvvisa, in relazione spesso alla perce-

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zione sinestesica delle modificazioni somatiche (cardiovascolari, cuta-nee, respiratorie). La valenza al contempo corporea ed emotiva di que-sta reazione psicosomatica è così evidente che non vale la pena appro-fondire ulteriormente. Ricordiamo qui semplicemente il ronzio nella descrizione delle emozioni d’amore di Catullo (1974):

appena, Lesbia, t’ho guardata, non mi resta, Lesbia, un filo di voce; ma la lingua è intorpidita, sottile dentro le membra fiamma si spande, d’interno ronzio romba-no gli orecchi, si coprono di doppia notte le luci. È notazione comune, del resto, che nell’esperienza clinica i pazienti

riferiscono lucidamente dei concomitanti somatici di tipo vibratorio e tattile delle emozioni, volta per volta presentati come tremore interno, sentire tremare la terra, capogiro, vertigine, cuore che impazzisce o batte follemente, in relazione alle più svariate emozioni, piacevoli o spiacevoli che siano, che conducono comunque ad un improvviso tur-bamento della precedente situazione di equilibrio emotivo.

La qualità sintonica dell’empatia è però legata alla capacità di creare risonanza solo quando la corrente empatica trova elementi sensibili, in grado quindi di vibrare in sintonia, con la stessa lunghezza d’onda. Tale risonanza fa appunto “risuonare”, nel senso letterale di “suonare nuo-vamente”, elementi profondi del mondo interno del soggetto che sono già presenti e tendono a riattivarsi proprio in seguito alla percezione dell’empatia, fenomeno che, come vedremo, è da molti autori ritenuto fondamentale meccanismo alla base di ogni capacità empatica.

Tale risonanza è, del resto, fenomeno non prevedibile, non ipotiz-zabile sulla base di premesse chiare, di conseguenza non la si può ri-cercare o ottenere in modo forzoso o artificiale. Appare semmai colle-gata a oscillazioni del tono affettivo imponderabili, tanto che non si potrebbe spiegare perché si sia provata in un caso e non la si sia pro-vata in un altro, apparentemente del tutto analogo.

3. L’empatia e l’altruismo In termini di biologia evoluzionistica, l’aggressività è stata a lungo

considerata dagli etologi (Lorenz, 1963) come uno dei motori più po-

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tenti dell’evoluzione delle specie, inclusa naturalmente quella umana. Tuttavia, da alcuni decenni a questa parte, emerge sempre più forte la consapevolezza che accanto al comportamento aggressivo, anche il comportamento di attaccamento, di amore e di spinta altruistica pos-siedano un ruolo altrettanto significativo nel determinare la spinta evoluzionistica alla sopravvivenza (Smith & Mackie, 1998): non solo, quindi la “legge del più forte” ma anche, con pari dignità, la “legge del più capace di dare supporto emotivo” fungerebbe da elemento protet-tivo ed incisivo nella evoluzione della specie (Miller, 2000), all’interno di un più generale meccanismo, originariamente darwinia-no (Darwin, 1859) di competizione e lotta. Lo stesso Darwin definì la simpatia, termine con cui intendeva probabilmente qualcosa di affine alla attuale empatia, un “elemento fondamentale degli istinti sociali” privato del quale l’uomo altro non sarebbe se non un “mostro fuori dalla natura” (unnatural monster) (Darwin, 1871).

Il ruolo dell’empatia e del comportamento prosociale nello svilup-po evolutivo è del resto attestato dalle ricerche sulle osservazioni del comportamento animale e dai dati raccolti sul substrato psicobiologico dell’empatia, che di recente è stata studiata anche in base ai specifici patterns di contrazione muscolare nella mimica facciale (Sonnby–Borgstrom, 2002) ed è stata collegata alla funzione fisiologica olfatti-va, con cui è risultata correlata (Spinella, 2002) tanto da formulare l’ipotesi che esista un substrato comune, dal punto di vista delle strut-ture neurali, ai due fenomeni.

D’altro canto la psicologia sociale, disciplina che studia gli effetti dei processi sociali e cognitivi sul modo in cui gli individui si perce-piscono, si influenzano e interagiscono, si è posta il problema del comportamento altruistico individuandone le radici negli atteggia-menti di tipo empatico e nelle norme sociali di reciprocità, di equità di distribuzione e di responsabilità sociale (Smith & Mackie, 1998). In questo settore di studio è stato possibile considerare l’empatia come un comportamento di tipo prosociale, in quanto processo in cui ci si fa esperienza delle emozioni altrui e si interagisce con compor-tamenti supportivi.

Una delle interpretazioni più soddisfacenti di questo processo pre-vede che un individuo reagisca ad una sofferenza altrui con un atteg-giamento emotivo che si traduce in un comportamento di aiuto, in vi-

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sta di una ricompensa emotiva: far del bene per sentirsi meglio (Smith & Mackie, 1998). Le ricompense emotive sono ricevute sia sul piano interiore che su quello esterno, ed appaiono soprattutto collegate ad un rinforzo dell’autostima, sia sul piano individuale, il sentirsi persona di maggior valore, sia sul piano sociale, il ricevere da altri significativi riconoscimenti del proprio valore. Le condizioni emotive di partenza possono modulare in modo determinante l’insorgere del comporta-mento collegato all’empatia, per cui sentimenti ed emozioni spiacevoli — ad esempio, il senso di colpa (McMillen e Austin, 1971), la tristez-za (Harris et al., 1975) o la delusione (Cialdini, Kendrick, 1976) di re-gola facilitano il realizzarsi di comportamenti di aiuto, in particolare secondo il paradigma definito come “modello del sollievo dallo stato d’animo negativo” (Schaller, Cialdini, 1988).

Ciò, peraltro, non avviene quando il soggetto è molto concentrato su di sé e sul proprio stato emotivo, piacevole o spiacevole che esso sia, in quanto solo la reale disponibilità a mettersi nei panni dell’altro fa scattare la situazione empatica, che, invece, non si concretizza quando l’individuo è più attento ai propri bisogni che a quelli altrui (Thompson et al., 1980).

In anni più recenti, tuttavia, l’empatia viene concepita sempre più spesso come uno stato emotivo associato ad un vero altruismo, ovve-ro ad un comportamento prosociale che si mette in atto indipenden-temente da ricompense e costi individuali. Da questi presupposti, confermati in numerose ricerche sperimentali, nasce l’ipotesi elabo-rata da Daniel Batson (1988) nota come “modello dell’empatia–altruismo”, che individua la principale determinante del comporta-mento altruistico nella preoccupazione empatica alle sofferenze al-trui, indipendentemente dalla ricompensa e dalla preesistente condi-zione di disagio emotivo personale. Questo modello prevede che di fronte ad una persona in difficoltà l’individuo debba affrontare un’alternativa fra due tipi di reazione: il disagio personale, che com-prende manifestazioni come agitazione, ansia, paura, oppure interes-se empatico, che comprende simpatia, comprensione e tenerezza. Il disagio personale si traduce in aiuto per egoismo — ridurre i senti-menti negativi — oppure in fuga, in accordo con il modello del sol-lievo dallo stato d’animo negativo, mentre i sentimenti di tipo empa-tico portano all’altruismo, cioè a intervenire per ridurre le sofferenze

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dell’altro, anche nelle condizioni in cui sarebbe facile sfuggire alla situazione (Smith & Mackie, 1998).

Le ricerche della psicologia sociale, in conclusione, offrono signifi-cativi contributi alla comprensione ed alla previsione dei comporta-menti prosociali, altruistici e di aiuto. I dati naturalmente riguardano gli aspetti cognitivi e di comportamento legati all’empatia, senza poter entrare negli aspetti affettivi profondi, su cui i contributi psicoanalitici possono invece soffermarsi, e senza affrontare i problemi dell’empatia in campo professionale, ovvero di come il fenomeno emotivo costitui-sca il principale motore dei comportamenti professionali nelle relazio-ni d’aiuto. Questo è il motivo principale per cui l’oggetto dei prossimi paragrafi dovrà necessariamente distinguere il ruolo dell’empatia in alcune speciali relazioni professionali d’aiuto: il ruolo dell’empatia nelle psicoterapie, specialmente in quelle ad indirizzo psicoanalitico, e il ruolo dell’empatia nelle professioni sanitarie, e specialmente nel rapporto medico–paziente.

4. L’empatia come concetto psicoanalitico Prima di esplorare brevemente i contributi della psicoanalisi allo

studio dell’empatia, è necessario specificare che nel percorso esplora-tivo del fenomeno l’investigazione psicoanalitica ha proceduto a varie successive acquisizioni in tema di vissuti dell’analista, che rendono assai difficoltosa una comprensione e caratterizzazione unitaria dell’empatia per diversi ordini di problemi.

Per cominciare, secondo una posizione teorica un tempo assai dif-fusa che troviamo in Money–Kyrle (1956), l’empatia non è altro che “normale controtransfert”. In realtà tale assunzione, che risale agli an-ni Cinquanta, appare semplicistica se presa isolatamente, ma diviene comprensibile e financo, per certi aspetti, ancora condivisibile se te-niamo conto che il controtransfert è stato assai studiato da allora ad oggi e l’aumento della comprensione dei fenomeni controtrasferali permette di affermare che l’empatia entra pienamente in tali fenomeni, pur non essendo ad essi totalmente assimilabile.

In effetti, il concetto di controtransfert, teorizzato primitivamente da Freud come “l’influsso dei sentimenti inconsci del paziente sul me-

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dico”, rappresenta certamente quell’elemento che permette all’incon-scio dell’analista di mettersi in rapporto con l’inconscio del paziente e di comprenderlo empaticamente (Semi, 1988), costituendo l’insieme delle reazioni emotive che l’analista prova nel corso dell’analisi quale risposta specifica a un dato paziente (Sandler et al., 1974). Esso appa-re pertanto un fenomeno scarsamente delimitabile e si sarebbe tentati di inserire anche, appunto, l’empatia fra i fenomeni controtrasferali tout court se non fosse, di nuovo per la sua fondamentale caratteristica di accessibilità da parte della coscienza, tanto che si può più propria-mente parlare di una sorta di “insight” empatico.

Secondo la teoria freudiana delle relazioni d’oggetto, il nucleo ca-ratteristico dell’empatia si fonda, inizialmente, su un progressivo ar-ricchimento della semplice “introiezione” — prendere dentro — di oggetti esterni nell’Io. Così si esprimeva Freud in un altro punto del già citato Psicologia delle masse e Analisi dell’Io (1921):

Un sentiero conduce dalla identificazione attraverso l’imitazione all’em-patia, ovvero alla comprensione del meccanismo grazie al quale ci è con-sentito raccogliere ogni atteggiamento verso un’altra vita mentale. Il passaggio dall’identificazione, inconsapevole e automatica, all’i-

mitazione presuppone successivamente lo sviluppo di identificazioni proiettive di tipo comunicativo che superano la distanza interpersonale in un gioco comunicativo da inconscio a inconscio, restando peraltro ancora lontane da esperienze empatiche vere e proprie.

Similmente, a partire dalle formulazioni freudiane, Heinz Kohut ar-riva a considerare l’empatia come una introspezione vicariante, in ba-se alla quale in psicoanalisi si possono raccogliere informazioni grazie ad una perseverante immersione empatico–introspettiva nel mondo in-teriore dell’altro, senza la quale diviene impossibile ricavare informa-zioni e formulare ipotesi. Secondo Kohut si tratta di uno strumento scientifico vero e proprio, strutturato su processi percettivi, cognitivi ed affettivi in cui la sofferenza dell’altro viene riconosciuta ma non condivisa né alleviata, e che non si basa su aspetti intuitivi. Viene così introdotta una caratteristica di reciprocità, di mutuo riconoscimento, che sancisce la dualità del movimento emotivo di tipo empatico. Da questo momento in poi, come puntualizza Bolognini (2002), l’empa-

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tia, prima scarsamente considerata nella letteratura psicoanalitica, di-viene un verbo imperante, una specie di “pietra filosofale” del bravo analista, sull’onda anche del crescente successo della psicologia del Sé.

Pur non entrando fra le posizioni di orientamento psicoanalitico, ci pare opportuno segnalare qui anche la posizione di Carl Rogers (Ro-gers & Kniget, 1970), il quale ha sostenuto che porsi in atteggiamento empatico nasce dal riuscire a percepire in modo corretto gli schemi di riferimento dell’altro, con le sue armoniche soggettive ed i suoi valori personali, come se si fosse l’altro, senza tuttavia perdere di vista che si tratta di una situazione dell’altro. Anche da questa rapida enunciazio-ne appare evidente come Rogers si riferisca ad una lettura dell’empatia che si basa prevalentemente sugli aspetti consci della re-lazione interpersonale e terapeutica.

Una interessante distinzione fra empatia e controtransfert è quella formulata da Berger (1987) che specifica come l’empatia sia uno stato emotivo vissuto dal terapeuta al contatto con il paziente come sogget-to, mentre il controtransfert è piuttosto uno stato emotivo vissuto dal terapeuta al contatto con l’oggetto del mondo interno del paziente. Ecco nuovamente emergere la caratteristica di realtà cosciente dell’empatia nell’incontro relazionale.

Tale concetto rimanda, naturalmente, ad un “ingaggio empatico” (Greenberg & Mitchell, 1983) che trova le sue radici primigenie nel rapporto fra madre e bambino. La sua genesi, pertanto, descritta magistralmente da Winnicott (1971), che dell’empatia fece un po-tente e peculiare strumento terapeutico, va ricercata in senso storico e strutturante nelle capacità di una madre “sufficientemente buona” di rispecchiare le sensazioni del suo bambino. L’empatia si svilup-pa nello spazio transizionale fra madre e bambino che, paradossal-mente, proprio in quanto illusorio costituisce una base adeguata per l’esperienza e lo sviluppo della percezione della realtà. Tale spazio si mantiene del resto nell’adulto, dove assume le caratteristiche di spazio di gioco, di creatività, ma anche di spazio di relazione: si tratta quindi, in realtà, dello stesso spazio relazionale fra il medico e il paziente in cui l’empatia rappresenta un insostituibile ponte di comunicazione.

Il modello fusionale dell’empatia è certamente il più efficace nel descrivere la nascita e lo sviluppo evolutivo delle capacità empatiche

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(Berger, 1987). In questo senso si possono distinguere due concezioni fra loro complementari: la prima che indica la risonanza affettiva tra due individui della specie come dato genetico, e la seconda che consi-dera l’empatia favorita da meccanismi di regressione. Entrambe le po-sizioni nascono dall’idea che l’empatia sia una facoltà arcaica che re-cede quando subentrano forme più evolute di comunicazione e cono-scenza. L’empatia è stata infatti paragonata al cordone ombelicale che unisce la madre al feto (Ferreira, 1961) ed è stata inoltre descritta co-me soggetta a possibili oscillazioni tra madre e figlio, ed in seguito a queste considerazioni si tende a considerarla come la capacità di pene-trare nei recessi più profondi e arcaici della mente di un altro (Olden, 1953; Burlingham, 1967). La seconda concezione sostiene che il le-game di fusione che si crea tra madre e bambino riflette l’incapacità neurofisiologica del bambino di differenziare il proprio Sé da quello della madre, mentre la capacità empatica presuppone delle caratteristi-che che si acquisiscono con la maturità come ad esempio la capacità di manipolare i simboli in modo immaginativo. Le esperienze empatiche vengono riconosciute retrospettivamente, nel contesto della consape-volezza che i membri della relazione sono entità separate: perciò l’idea di una fusione del terapeuta con il paziente si basa su una pre-messa illusoria, che non offre una base solida su cui basare la capacità adulta di empatizzare (Buie, 1981). Anche Gaddini (1989) annovera le reazioni empatiche fra i fenomeni percettivi del rapporto analitico re-lativi all’analista, recuperando peraltro il concetto di “identificazione di assaggio” di Fliess e ipotizzando un collegamento, che del resto, come abbiamo visto, risale a Freud, fra almeno alcune forme prelimi-nari di identificazione e l’empatia.

A proposito dell’empatia nella relazione madre–bambino e nella strutturazione del Sé soggettivo, fondamentale è certamente il contri-buto, sperimentale e clinico, di Daniel Stern (1987). Egli ha distinto il processo empatico, che “getta un ponte tra le due menti” ed è quindi inteso, in qualche modo, come fenomeno reciproco ed appartenente al mondo interno, da una risposta empatica che apre lo spazio per una re-lazione intersoggettiva e, quindi, basata anche su comportamenti nel mondo esterno. L’empatia consta secondo Stern di quattro processi di-stinti, probabilmente in sequenza: la risonanza dello stato affettivo, l’astrazione della conoscenza empatica dall’esperienza di risonanza, la

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traduzione della conoscenza empatica nella risposta empatica e una transitoria identificazione di ruolo. È proprio la risonanza emotiva l’elemento caratterizzante dell’empatia che la diversifica dalla sempli-ce esperienza cognitiva della assunzione di ruolo nell’immaginare l’esperienza di essere l’altra persona. La sintonizzazione, descritta da Stern come tipica risposta materna, parte dalla stessa risonanza ma ri-plasma uno stato soggettivo del bambino, compiendo un significativo passo verso la simbolizzazione.

Leggiamo ora la definizione proposta da Bolognini per l’empatia in senso psicoanalitico (2002):

quella condizione di contatto conscio e preconscio fra due individui in una in-terazione comunicativa, caratterizzata da separatezza, complessità e articola-zione, in cui si sperimenta, da parte di almeno uno dei due soggetti un pro-gressivo, condiviso e profondo contatto con la complementarità oggettuale, con l’Io difensivo e con le parti scisse dell’altro, ma anche con la sua sogget-tività egosintonica. È chiaro che tale condizione si può verificare soltanto nei casi in

cui il contatto fra due individui prevede un setting psicoterapeutico, se non spiccatamente psicoanalitico, e che quindi la definizione si appli-ca solo in rari casi al semplice rapporto medico — paziente, caso in cui si dovrà ridimensionare la profondità del contatto empatico, men-tre le caratteristiche del processo resteranno le stesse.

5. L’empatia nel rapporto medico–paziente Di recente, la letteratura medica internazionale sta dedicando sem-

pre più spazio al concetto di empatia, considerato elemento centrale nell’ossatura che sostiene il rapporto medico — paziente (Davies, 1986; Owens, 1999), nella prospettiva sempre più urgente di poter u-scire da una valutazione generica dell’atteggiamento di aiuto nella re-lazione interpersonale e costruire un percorso di validazione empirica del costrutto (Hojat et al., 2002). L’empatia, in effetti, non è un feno-meno che si sperimenta solo in psicoterapia, né è specifica dell’espe-rienza medica. Essa rappresenta, invece, un’esperienza comune dell’interazione quotidiana ed è comunque il nucleo fondamentale del-

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la relazione d’aiuto. Ad esempio, nella letteratura infermieristica è as-sai diffusa la visione che vede l’empatia come un elemento che facilita la costruzione di una relazione interpersonale (Reynolds e Scott, 1999). Truax (1970), invece, pone l’accento sul fatto che senza empa-tia non c’è base per sviluppare il clima necessario allo sviluppo della relazione d’aiuto quale si può sviluppare nel contesto degli interventi della psicologia clinica, dell’infermieristica e della medicina. Questa considerazione è stata riproposta da molti altri autori tra cui Kalish che scrive (1971):

una grande quantità di ricerche e scoperte teoriche riguardo alle relazioni in-terpersonali supportano l’idea che l’empatia è il principale ingrediente critico della relazione d’aiuto Indipendentemente dal contesto nel quale il processo di aiuto è rife-

rito, psicoterapia (Truax e Mitchell, 1971), relazioni umane (Gazda et al., 1984), relazione terapeutica (Kalkman, 1967), insegnamento

(Chambers, 1990) o semplicemente il prendersi cura (Watson, 1985), tutti gli autori sono d’accordo nel riferire gli stessi obiettivi o inten-zioni della relazione d’aiuto. Questi includono: inizialmente instaurare una comunicazione interpersonale di tipo supportivo, con lo scopo di capire le percezioni e i bisogni dell’altra persona; successivamente fa-vorire la capacità della persona di imparare o di affrontare più effica-cemente il suo ambiente; ed infine, come terzo punto, arrivare alla ri-duzione o alla risoluzione dei suoi problemi.

Kalkman, che assimila la relazione d’aiuto alla relazione terapeuti-ca, fornisce una definizione operativa della relazione infermiere–paziente che include obiettivi e proposte che probabilmente sono co-muni a tutte le discipline d’aiuto (1967). L’autrice dichiara:

la relazione terapeutica si riferisce ad una relazione prolungata tra infermie-re–terapista e paziente, durante la quale il paziente può sentirsi accettato co-me una persona di valore, sentirsi libero di esprimersi senza paura o rifiuto o censura, e essere messo in grado imparare un pattern di comportamenti più soddisfacenti e produttivi. Questa definizione è in accordo con quelle classicamente fornite da

numerosi altri autori (es. Peplau, 1952; oppure Rogers, 1957) e rap-

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presenta una base utile per comprendere i risultati delle ricerche che trattano l’efficacia dell’empatia nei processi interpersonali, in quanto fornisce un indicatore di risultato. Essa è, del resto, in relazione con la visione che emerge da molti altri studi i quali suggeriscono come l’empatia possa aiutare a creare un clima interpersonale che sia libero dalla necessità di difese e che metta gli individui in grado di parlare dei loro bisogni. La difficoltà nel trarre ferme conclusioni da parte di questi studi, è in parte correlata al fatto che i ricercatori misurano l’empatia in modi differenti. Mentre, infatti, molti degli studi defini-scono l’empatia all’interno della visione cognitivo–comportamentale, l’uso di differenti misure sta a significare che il costrutto interno misu-rato nei diversi studi non è necessariamente lo stesso.

Howard (1975) intervistò gli utenti in diversi setting clinici, con lo scopo di investigare le condizioni di cura che erano percepite come necessarie in un approccio umanitario, ossia che preservi il rispetto della persona umana. L’analisi delle interviste, l’osservazione delle interazioni infermiere–paziente e la letteratura relativa alle cure personalizzate, condussero Howard ad identificare la componente cognitivo–comportamentale dell’empatia come una variabile necessaria per le cure umane. L’empatia aiuta dunque i professionisti a rispondere ai pazienti come ad esseri umani unici perché possono vedere il mondo dal punto di vista dei loro pazienti, quindi capirli meglio, e rispondere in modo più appropriato alle lo-ro necessità. È interessante notare che il campione di persone ripor-tava che i comportamenti non verbali degli operatori con basso li-vello di empatia, tendevano a trasmettere poco rispetto interesse e supporto, aspetti che sembrano essere vicini al concetto di calore di Rogers. L’assenza di impegno degli operatori d’aiuto probabilmen-te interferisce con lo sviluppo della fiducia nella relazione d’aiuto. Confidare ad un’altra persona informazioni personali richiede, in-fatti, che il paziente creda che queste informazioni saranno usate solo per gli scopi per i quali sono state fornite. L’assenza di fiducia agisce probabilmente come una barriera nei confronti dell’empatia, in quanto diventa meno probabile che il paziente si apra e condivi-da le sue sensazioni fornendo informazioni.

La creazione iniziale di un clima interpersonale libero dalla neces-sità di adottare delle reazioni difensive di segno negativo sembrerebbe

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altamente desiderabile, in visione del fatto che i professionisti della salute hanno l’arduo compito di trasmettere informazioni cariche di contenuto emotivo ai loro pazienti.

Tornando alla descrizione di Kalkman (1967) della relazione d’aiuto, nella seconda parte l’autrice suggerisce che l’empatia è un’attività piena di significati che ha come obiettivo finale la crescita del paziente:

nella relazione terapeutica (si deve) mettere in grado il paziente di imparare schemi di comportamenti più produttivi e soddisfacenti. Diversi studi in effetti supportano l’ipotesi di una relazione tra

l’empatia e un risultato favorevole nel campo della salute per i pazien-ti. Feital (1968) evidenzia che numerosi studi hanno stabilito una cor-relazione tra empatia, relazione d’aiuto, e la misura degli outcomes come ad esempio un miglioramento della salute, o un effettivo aumen-to di conoscenze da parte del paziente. Anche Truax & Mitchell (1971) citano diversi studi che condividono la loro idea di come l’empatia sia il fattore che maggiormente influenza la riuscita degli outcomes nel counselling e nella psicoterapia.

D’altra parte, molti studi mostrano risultati conflittuali, ad indica-re che il dibattito non è ancora finito (es. Newall M. 1980, Rocher O. 1977). In particolare, una sfida all’empatia è stata avanzata da Mor-se, et al. (1992) che argomentano come l’empatia non sia possibile nel setting della medicina d’urgenza o della chirurgia, perché il cari-co di lavoro non permette di solito all’infermiere di spendere più di trenta minuti per ascoltare i propri pazienti. Questo comunque non significa che l’empatia non possa rivestire una valenza terapeutica anche in questi setting. Reynolds (1998) riporta che scarsità di tem-po, povertà di abilità dell’operatore insieme ad una rapida dimissio-ne, riducono l’opportunità di una relazione vis à vis tra infermiere e paziente. Appare comunque evidente che il ruolo dell’empatia nel processo di aiuto richiede ulteriori indagini in relazione ai criteri de-gli specifici outcomes.

Nella letteratura infermieristica e medica, sembra esserci unanimità riguardo alla concezione dell’empatia come fenomeno multidimensio-nale che abbraccia i domini dell’affettività e cognitivo secondo Davis

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(1994) cui si aggiungono una componente comportamentale e morale secondo Morse et al. (1992).

Il dominio cognitivo comprende l’abilità di capire l’esperienza inte-riore e le sensazioni, il sentimento, di un’altra persona, nonché la pos-sibilità di vedere il mondo esterno dalla prospettiva dell’altro. Il do-minio affettivo coinvolge la capacità di entrare o di prendere parte, di unirsi, all’esperienza e alle sensazioni di un’altra persona (Hojat M. et al., 2002). Secondo Mercer & Reynolds (2002) l’empatia presenta componenti morali, cognitive, emotive e comportamentali che coin-volgono la capacità di: primo, capire la situazione del paziente, le sue prospettive e le sue sensazioni (e il loro significato nell’attaccamento) questo primo punto è assimilabile ai domini affettivi e cognitivi e mo-rali; secondo, effettuare un ulteriore passaggio è quello di comunicare all’altro la nostra comprensione e accertarne l’accuratezza; terzo agire sulla base di ciò che è stato capito insieme al paziente allo scopo di sviluppare la relazione d’aiuto (Mercer S.W.; Reynolds W.J.; 2002). Questi ultimi due punti sono ascrivibili all’aspetto comportamentale dell’empatia.

Dal punto di vista di Morse et al. (1992) le quattro diverse compo-nenti possiedono un differente significato: la componente emotiva cor-risponde all’abilità di sperimentare soggettivamente o condividere uno stato psicologico o una sensazione interna di un altro; quella morale si ricollega ad una forza interna altruistica che motiva la pratica empati-ca; quella cognitiva dipende dall’abilità intellettuale dell’operatore di identificare e capire le sensazioni di un’altra persona e le sue prospet-tive da una posizione obiettiva; quella comportamentale si estrinseca nel comunicare il risultato per trasmettere la comprensione dell’altra prospettiva al paziente.

La necessità di trovare una definizione comune di empatia è enfa-tizzata dal disaccordo che esiste in letteratura riguardo al significato dell’empatia. L’empatia è stata variamente concettualizzata: un com-portamento; una dimensione personale; un’esperienza emotiva (Ma-cKay et al., 1990). La complessità del processo empatico ha deter-minato, secondo diversi autori (Morse et al., 1992; Williams, 1990) la confusione che esiste relativamente al significato e alle componen-ti dell’empatia. Troppo spesso l’empatia è stata considerata in modo ristretto come un concetto con costrutto unitario.

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Da un’estesa revisione della letteratura Morse et al. (1992) identifi-carono le quattro componenti dell’empatia sopracitate, ma anche Wil-liams (1990), in modo per certi versi analogo, aveva già sostenuto che si possono riconoscere diverse componenti dell’empatia sui versanti emotivo, cognitivo, comunicativo e relazionale. La componente rela-zionale che è assente nella concezione di Morse, è stata definita “ex-perienced” o “client–perceived”, ovvero legata all’esperienza e perce-pita dal paziente. Tale concezione è a sua volta paragonabile a quella di Patterson (1974) che comprese nell’empatia quattro concetti:

1) l’operatore deve essere recettivo verso la comunicazione dell’altro,

ed è questa la componente emotiva o morale; 2) l’operatore deve capire la comunicazione mettendosi al posto

dell’altro, ed è questa la componente cognitiva; 3) l’operatore deve comunicare al paziente la sua comprensione, ed è

questa la componente comportamentale; 4) l’empatia permette la possibilità della validazione da parte dell’u-

tente della percezione che ha avuto l’operatore della visione del suo mondo, ed è questa la componente relazionale. Questa ultima componente può essere discussa come un outcome

che dipende dalle capacità cognitive e comportamentali ed è in rela-zione con esse, e che ha lo scopo di permettere al paziente di dare va-lidità alle percezioni dell’infermiere. La reale consapevolezza del pa-ziente della comunicazione dell’operatore, gli permette di dire, «Si questo è come io vedo le cose». Questa assunzione è concorde con il modello multidimensionale di Barret–Lennard (1981) chiamato il ci-clo dell’empatia, che viene schematicamente descritto come processo articolato in quattro fasi successive:

— fase 1: il processo empatico interno di ascolto di un altro, che è si-

gnificativo in modo personale, attraverso il ragionamento e la comprensione;

— fase 2: lo sforzo di trasmettere la comprensione empatica dell’e-sperienza dell’altro;

— fase 3: la consapevolezza reale del comunicato dell’operatore da parte dell’utente.

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Il processo comincia quando una persona si esprime in presenza di un’altra che l’accompagna empaticamente, e quando il processo conti-nua la fase uno diventa il cuore caratterizzante, seguito dalla fase due e tre in modo ciclico. Le caratteristiche di questo ciclo conducono a favorire l’espressione personale e il feedback verso l’operatore che empatizza.

Tuttavia, il punto su cui emerge maggiore disaccordo in letteratura tra i diversi autori è quello che si riferisce al contributo specifico di ogni componente dell’empatia al comportamento che costruisce la re-lazione terapeutica.

A dispetto della frequenza con la quale l’empatia è enfatizzata co-me qualità umana morale emotiva e cognitiva, si trovano altre visioni in letteratura. Diversi teorici hanno concettualizzato l’empatia in un modo che enfatizza la componente cognitivo–comportamentale. Ad esempio Truax (1970) sostiene come l’empatia sia una via di perce-zione e allo stesso modo una via di comunicazione, l’empatia in que-sta visione è stata spostata da tratto umano, a forma di interazione, tale concezione è coerente con le componenti cognitiva e comportamentale di Morse.

Allo stesso modo Rogers (1975) che tende a vedere l’empatia come attitudine enfatizza l’aspetto comunicativo del costrutto. L’autore sug-gerisce che le condizioni operative che sono facilitanti in tutte le rela-zioni d’aiuto sono collegata all’attitudine, all’aspetto cognitivo e al comportamento. Rogers afferma che il paziente impara a cambiare quando l’operatore comunica calore e genuinità ed è solo successiva la comunicazione della comprensione delle sensazioni del paziente. Inol-tre le attitudini e le abilità cognitive sono trasmesse al paziente attra-verso la comunicazione. La visione dell’empatia in termini cognitivo–comportamentali è sempre più ampiamente condivisa, come si vede dalla definizione di Aspey (1975): «empatia è l’abilità di comunicare la tua comprensione delle sensazioni dell’altra persona e le ragioni delle sue sensazioni».

In sintesi, sono quindi cinque sono le concettualizzazioni attorno cui si possono raggruppare i vari contributi che si sono occupati dell’empatia. Empatia come tratto umano, come stato professionale, come processo di comunicazione, come prendersi cura (caring), e infi-ne empatia intesa come relazione speciale.

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Queste cinque categorie sono emerse in seguito all’analisi del con-cetto (concept analysis), metodo che si riferisce ad un processo di ri-velazione, scoperta, esplorazione e comprensione dei concetti, viene utilizzato per esplorare concetti maturi, ed ha lo scopo di incrementare la comprensione dell significato. Ogni concettualizzazione viene di-scussa in relazione alle sue caratteristiche e alle interpretazioni speci-fiche dell’empatia degli autori.

a) Empatia come tratto umano

In questa concettualizzazione l’empatia è considerata un’abilità na-

turale innata. Sebbene sia riconosciuto e ammesso che l’empatia non possa essere insegnata, si crede che possa essere identificata, rinforza-ta e raffinata. I termini utilizzati all’interno di questa concettualizza-zione di empatia sono naturale, istintiva, contagio involontario, emo-zionale, genotipica. L’esperienza, la maturità, l’autoconsapevolezza e la creatività sono visti come attributi che aiutano il medico a capire il suo paziente.

Estetica, creatività ed immaginazione in relazione all’empatia, sono il centro dei lavori di Smyth (1996). Egli sostiene che l’immaginazio-ne e la creatività sono gli antecedenti dell’empatia, e che non solo ci sono legami concettuali tra i campi dell’empatia e dell’esperienza e-stetica, ma che anche le arti possono arricchire la nostra comprensione dell’empatia e delle relazioni in generale oltre che a aumentare la no-stra capacità di empatizzare. Tale concezione è in accordo con i risul-tati di uno studio sperimentale che, depongono a favore di una rela-zione positiva dell’empatia con la creatività, e di una correlazione in-versa con il dogmatismo (Carlozzi et al., 1995).

Altri autori hanno elaborato una diversa concettualizzazione: Alli-good (1992), ad esempio, ha distinto due differenti tipi di empatia. Il primo tipo chiamato “empatia di base” è visto come un tratto, un attri-buto umano una capacità umana universale ed è legata alla naturale capacità di sentire gli altri. Questa empatia è indipendente dalla volon-tà e non può essere insegnata. Tuttavia questa può essere identificata, rinforzata e rifinita evolvendosi nel secondo tipo che viene denomina-to “empatia avanzata”.

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b) Empatia come competenza professionale È un’abilità comunicazionale acquisita che include primariamente

componenti cognitive e comportamentali che sono usate per trasmette-re la comprensione dell’utente all’utente stesso. Con questa concettua-lizzazione l’empatia è un fenomeno che si impara, dove il soggetto se-leziona il responso migliore, cognitivamente. I termini che solitamente vengono utilizzati per descrivere questa concettualizzazione di empa-tia sono, riflettere, processo clinico, fenotipico, processo terapeutico. In letteratura è inclusa una discussione relativa all’obiettività, all’importanza di mantenere l’attenzione concentrata sull’utente, come quella di evitare un inappropriato coinvolgimento emotivo dell’opera-tore della sanità. Thompson (1996) sottolinea in questo senso l’impor-tanza dell’abilità dell’infermiere di essere in grado di uscire dall’espe-rienza empatica con lo scopo di mantenere l’obiettività cosicché la comunicazione rimanga focalizzata sull’utente, e non si verifichino il personale esaurimento emotivo e l’inappropriato coinvolgimento dell’infermiere.

L’autoconsapevolezza è un altro importante aspetto dell’empatia, in quanto aiuta a identificare le barriere che separano se stessi dagli altri. In questa concettualizzazione l’empatia include una distanza emotiva dal paziente per ottenere un appropriato responso professionale, obiet-tività e ruolo terapeutico. Ad essa si riferisce anche un costrutto che si definisce in letteratura con il termine inglese di Self–monitoring e che fu introdotto da Snyder (1974) come tratto che descrive e spiega le differenze individuali dell’autocontrollo e del comportamento nell’interazione comunicativa. Così si esprime Snyder nella originaria definizione del costrutto:

There are, however, striking and important differences in the extent to which individuals can and do monitor their self–presentation, expressive behavior and non–verbal affective display Ci sono, comunque, impressionanti ed importanti differenze nel grado con cui ciascun individuo può monitorare il proprio comportamento espressivo e la propria comunicatività affettiva non verbale (Snyder, 1974, p. 526).

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Nei successivi studi di sviluppo (Snyder, 1987), il costrutto teorico del self–monitoring si è nettamente orientato verso la costruzione di una tipologia così definita:

— i soggetti high Self–monitorers e low Self–monitorers sono ispirati

nei loro comportamenti comunicativi da un differente metacon-trollo del comportamento nei diversi contesti sociali;

— i soggetti high Self–monitorers prendono in esame le loro perfor-mance e gli aspetti strategici del comportamento che mettono in atto sintonizzandosi sugli altri;

— i soggetti low Self–monitorers mettono in atto comportamenti prevalentemente sintonizzati sulla propria situazione e sulle pro-prie abitudini.

Si tratta quindi non soltanto di tipi diversi di comportamento basati

sulle differenze individuali, ma anche legati a strutture del comporta-mento interattivo del tutto differenti.

La decostruzione dell’empatia nelle sue varie componenti, così come effettuata da Morse et al. (1992), è interessante dal punto di vi-sta teorico, ma meno utile dal punto di vista della pratica clinica. È necessario esplorare e comprendere le componenti dell’empatia in altri termini, ovvero quali componenti sono rilevanti per potere produrre linee–guida e suggerimenti operativi. Tutti coloro che si occupano del-la formazione del medico e delle altre figure professionali sanitarie dovrebbero essere interessati alle abilità che sostengono l’empatia, e per questa ragione c’è bisogno di una definizione che rifletta le com-petenze empatiche in termini operativi. La seguente è di La Monica (1981):

Empatia significa centrare l’attenzione e sentire con l’utente, e nel suo mon-do. Comprende la percezione accurata del mondo del cliente, la comunica-zione di questa comprensione, e la percezione del cliente della comprensione dell’operatore. (p. 398). Questa definizione combina i due livelli di empatia: quello della at-

titudine empatica e quello della abilità comunicativa. In questo conte-sto l’empatia non è solo “un modo di essere” con l’altro (Rogers, 1975), ma è anche comunicare al paziente la comprensione del profes-

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sionista del suo mondo cosicché questa percezione possa essere vali-data dall’utente.

L’interesse primario emergente da questa definizione, è che riflette ciò che i medici dovrebbero fare durante la relazione con i loro utenti. Questo include inizialmente una comunicazione di tipo supportivo con la persona che è in condizioni di effettiva necessità, allo scopo di capi-re il suo malessere ed apprezzare che cosa significa essere al suo po-sto. I medici dovrebbero permettere ai loro utenti di avere un ruolo più attivo nei meccanismi di problem–solving specialmente in relazione a ciò di cui hanno bisogno per un supporto pratico ed emotivo (es. Gor-don et al., 1980).

Questo punto è stato enfatizzato da Turkoski (1997) che ha chiarito come le utenti, donne con HIV o quelle con esperienza di vissuto di dolore hanno diverse aspettative e bisogni rispetto a quelli indicati dai professionisti del sistema sanitario. Il divario tra la visione dei profes-sionisti e quella dei pazienti è accentuato dall’enfasi attuale sul rapido passaggio dei pazienti attraverso la struttura sanitaria. Queste condi-zioni impediscono con tutta probabilità una valutazione olistica dei bi-sogni del paziente.

Le conclusioni tratte dalla letteratura suggeriscono che l’empatia è un’abilità interpersonale che dipende dalle attitudini e dai comporta-menti dell’operatore. L’empatia è una forma di interazione che com-prende la comunicazione degli atteggiamenti e della comprensione del mondo del paziente da parte dell’operatore d’aiuto. Essa comprende la consapevolezza del paziente della comunicazione dell’operatore con l’intento di far sì che il paziente capisca se i suoi bisogni sono stati compresi. L’empatia è quindi il risultato della sommatoria di diverse componenti ed è anche una abilità osservabile. È inoltre necessario trovare una comprensione comune di cosa significa empatia. Poiché le ricerche accumulate supportano l’evidenza che l’empatia è una com-ponente cruciale della relazione d’aiuto, è necessario scoprire una de-finizione operativa del concetto che sia di rilevanza clinica. La defini-zione di La Monica sembra essere attinente con il bisogno degli opera-tori di avere indicazioni sul “da farsi” durante la relazione con i loro pazienti, in particolare in relazione alla consapevolezza da parte dell’utente delle percezioni del professionista, della sua personalità e del suo mondo. È altresì importante che il paziente partecipi all’assun-

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zione della responsabilità riguardo alla propria salute, che dica al pro-fessionista che cosa vuole e che sia considerato e trattato come una persona e non come un caso.

c) L’empatia e le sensazioni all’interno della relazione d’aiuto

L’attenzione focalizzata in egual modo su sul paziente dall’interno

e dall’esterno è la base del processo empatico. Elementi che apparten-gono ai domini dell’affettività, come l’emotività, e cognitivo, come l’ideazione, sia che si tratti di aspetti consci sia di inconsci, contribui-scono al processo in ogni stadio. I livelli di profondità durante l’interazione variano, in relazione all’aumento della conoscenza dell’altro: si può immaginare che più si conosce l’altro, più ci si ad-dentra nel suo mondo più la capacità empatica nei suoi confronti au-menta. Più questo addentrarsi si verifica più diventa necessario porre la massima attenzione alle nostre esperienze interiori, avendo ben chiaro che questi stati, queste sensazioni viscerali, sono stati attivati in noi dallo stato interiore del paziente.

Al contatto con l’altro possiamo provare la sensazione di essere fusi, ovvero l’interscambio di aspetti di sé con aspetti del paziente. Altre volte può capitare di provare stati controtransferali di tipo di-fensivo, che, o ci rendono eccessivamente sensibili, o troppo distanti nei confronti dell’altro. Nel primo caso si può cadere nel processo di identificazione, nel secondo caso rischiamo di diventare solamente osservatori esterni, anche se è importante ricordare che entrambi gli stati in una certa misura sono fondamentali per la conoscenza dell’altro. Da quanto esposto si evince che il processo di compren-sione empatica è un processo interpersonale, in quanto avviene tra due persone, ed è anche un processo intrapsichico che richiede intro-spezione (Berger, 1989).

La sensibilità empatica è amplificata dalla capacità di immaginarsi il mondo dell’altro, e di cogliere la realtà della sua esperienza. Il tutto comincia nella fase iniziale della relazione, tale fase è stata metafori-camente tradotta da Freud come le mosse d’apertura di una partita di scacchi (1913), altri autori hanno identificato questa fase come l’inizio di una spedizione alpinistica con i due partecipanti uniti da una corda

(Basch, 1980).

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In questa fase iniziale nessuno dei due membri sa che cosa accadrà, è l’inizio di qualcosa di nuovo e ognuno porta le proprie aspettative. Quello che succederà durante il percorso potrà portare a condividere gli obiettivi o a divergere. I ruoli a tratti saranno invertiti, a momenti di so-lidarietà si potrebbero alternare periodi di antagonismo o indifferenza.

Nella relazione, il terapeuta oscilla tra un’intima consonanza emo-tiva con la vita interiore del paziente e la valutazione oggettiva della situazione, un’alternanza tra atteggiamento partecipe e osservante, tra ascolto dall’interno e dall’esterno. All’inizio il terapeuta e il paziente sono due estranei, quindi il ruolo del primo può solamente essere quel-lo di osservatore esterno. Nelle fasi successive la capacità di conoscere il mondo interno del paziente, dai suoi racconti, diventa la chiave per assumere un ruolo di maggior coinvolgimento (Berger, 1989).

6. Conclusione Nel rapporto con il paziente affetto da depressione risulta quindi

fondamentale costruire, attraverso la tecnica dell’empatia, una relazio-ne di fiducia a partire dalla quale il medico potrà sviluppare, assieme al paziente, una piena e matura alleanza terapeutica. È appunto di que-sto argomento che ci occuperemo nel prossimo capitolo.

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La depressione e il rapporto con il paziente: empatia, alleanza terapeutica, costruzione della fiducia

di STEFANO TUGNOLI e STEFANO CARACCIOLO

Nel lavoro quotidiano con la sofferenza psichica la relazione medi-

co–paziente è, o dovrebbe essere, il baricentro di ogni attenzione cli-nica e di ogni riflessione psicopatologica e organizzativa, di ogni deci-sione sul “da farsi” che segua una ragionevole pensabilità su “quanto sta avvenendo”: l’incontro tra una domanda, la richiesta di aiuto del paziente, e una risposta che il terapeuta può fornire in termini di dia-gnosi e di terapia; l’incontro tra due persone che vede da un lato la soggettività e le competenze del terapeuta, dall’altro la soggettività e il bisogno/sofferenza del paziente. In prima istanza quindi l’incontro tra due mondi soggettivi che definiscono un campo relazionale specifico strutturato dalla realtà intrapsichica del paziente, dall’intrapsichico del terapeuta, da correnti transferali e controtransferali che attraversano il campo, e dalle declinazioni intersoggettive di questo incontro, con modi, toni e significati che ne connotano la singolarità e ne delineano le configurazioni manifeste. Questo campo relazionale deve necessa-riamente includere aree topograficamente periferiche, ma non certo meno rilevanti per gli esiti del rapporto: la famiglia del paziente e le sue relazioni più significative, e la “famiglia” del terapeuta, i perso-naggi significativi che abitano la sua interiorità, l’ambito delle sue re-lazioni nel privato e la sua appartenenza istituzionale. Il contesto rela-zionale sottende, per altro, il significato stesso dei due momenti fon-damentali dell’attività del medico, e ancora di più dello psichiatra:

• “diagnosi”, diagnosis, conoscenza “attraverso”, attraverso la co-

municazione e la relazione; • “terapia”, therapeia, “servizio”, “cura”, (da therapon, “servo, scu-

diero”, e therapeutikos, “atto a servire”, intendendo soprattutto il servizio reso agli dei nel culto, agli uomini col trattamento medico,

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alle piante con la loro coltivazione); è incluso nel significato origi-nario del termine tanto il “curare” quanto il “prendersi cura”. Allo stesso tempo, diagnosi e terapia devono configurarsi come o-

perazioni scientificamente fondate: la “ragione nosografica” e il “ra-zionale” di ogni intervento psicofarmacologico e/o psicoterapico, sono ineludibili per concretizzare validamente l’intervento curativo in ter-mini di efficacy, potenziale terapeutico insito nello strumento utilizza-to, e di effectiveness, qualità dei risultati clinicamente osservabili.

L’attività dello psichiatra, più che ogni altro ambito della medicina, vive quindi di una strutturale contraddizione dialettica, declinabile su molteplici livelli: tra l’osservare e il capire ponendosi “a distanza” dell’oggetto clinico, e l’interagire, il relazionarsi “in prossimità” del soggetto con il quale la clinica dispiega la propria irriducibile comples-sità; tra l’impiego del modello medico–biologico e dell’approccio noso-grafico–descrittivo (categoriale o dimensionale che sia), e una prospet-tiva psicodinamica in grado si sostanziare l’estensione semantica dei dati dell’osservazione con la possibilità di accesso al mondo interno del paziente; la contraddizione tra la necessità di riferimenti concettuali di validità generale e la singolarità del rapporto con una persona sofferen-te; in sintesi, tra piani nomotetico e idiografico della conoscenza.

Tenuto conto di questi riferimenti la psichiatria attuale non dovrebbe eludere coordinate epistemologiche e metodologiche che orientano una conoscenza e una prassi scientifica attenta al rischio riduzionistico–positivistico senza per questo scivolare su derive troppo relativistiche e soggettivistiche altrettanto insidiose; tenere cioè in giusta considerazio-ne i limiti della “scientificità naturalistica” dei metodi obiettivanti e quantitativi (pensiamo per esempio al rischio di una “ideologia della misura” insito nell’impiego sempre più diffuso delle rating scales, non solo nella ricerca ma anche nella clinica) e, nel contempo, evitare che eccessi di intenzionalità immedesimativa, di spontaneismo e di coinvol-gimento acritico nella relazione con il paziente producano pericolose collusioni psicopatologiche, per definizione “antiterapeutiche”.

Sono evidenti pertanto due pericoli opposti:

• il rischio di un distanziamento difensivo dalla realtà del paziente, dai suoi conflitti e dalle sue angosce, dal coinvolgimento personale

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e dalle frustrazioni che si incontrano, distanziamento giustificato talvolta nel nome di una presunta scientificità da parte di un medico che tenderà a fornire prestazioni (“etichettatura” diagnostica e pre-scrizione farmacologica), incapace di ascolto e accoglimento delle richieste emotive del paziente. A questo livello la risposta del me-dico è “predisposta” e precede spesso la domanda del paziente (Muzio, 1985), negando contestualmente i suoi bisogni e il suo di-ritto di cura.

• il rischio di un “abuso” della dimensione empatica, condizione ne-cessaria ma non sufficiente per la cura, degenerando in un “empati-smo” privo di reale efficacia terapeutica, sostenuto da “eccesso di concordanza” del terapeuta che «pretende di essere empatico in uno sforzo coatto nel ricercare il contatto a tutti i costi» (Bolognini, 2002); a questo livello, per altro, intervengono aspetti narcisistico–onnipotenti del terapeuta alle prese con «l’illusione programmatica di poter decidere attivamente e metodicamente di realizzare una si-tuazione empatica» (Bolognini, 2002); l’empatia non può essere posta come metodo ma può, semmai, nei casi più felici, risultare da un complesso lavoro con il paziente, che passa attraverso una “condivisione esperienziale”, come tale priva ancora di pensabilità, seguita da una “condivisione elaborativa”, un working through del-la coppia terapeuta–paziente, per arrivare infine a definirsi come “vera empatia” (Bolognini, 2002). Si pone pertanto la necessità di una articolata integrazione tra ap-

proccio nosografico–descrittivo e approccio psicodinamico, integra-zione che, tra l’altro, ha in sè una connotazione intrinsecamente de-pressiva, non solo per l’inevitabile “depressività” dei processi integra-tivi, ma anche per la modalità operativa che dovrebbe appartenere al terapeuta nel rapporto con tutti i pazienti, e, naturalmente, anche con il paziente depresso.

In primo luogo, il terapeuta dovrebbe poter disporre di una sua ela-sticità di movimento rispetto alla distanza con il paziente: essere da un lato capace di un approccio “partecipativo–intuitivo” e di un ascolto finalizzato alla comprensione del paziente, “sentire con il paziente” accogliendo e contenendo le dimensioni del suo disagio e della sua esperienza soggettiva; è altrettanto necessario però che il terapeuta

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sappia distanziarsi non difensivamente per essere in grado di “pensare sul paziente” e sulle personali risonanze emotive che si attivano nell’incontro, riflessione capace di tollerare spesso l’assenza di rispo-ste immediate e sostenuta da un’attesa fiduciosa nelle possibilità della relazione.

Il rapporto vive quindi nell’alternanza di momenti di maggiore o minore con-tatto emotivo con il paziente, di immersione nell’esperienza e di riflessione su di essa, dove la continuità del “cumsentire” condivisivo può interrompersi nella discontinuità individuante dell’essere innanzi e non a fianco del pazien-te, seguendo i ritmi di una costante oscillazione (Montanari et al., 1988). Ad un momento empatico–identificativo si alterna quindi un mo-

mento separativo, entrambi costituitivi di un “atteggiamento psicote-rapico” di base (Curci, Secchi, 2000) che dovrebbe comportare la con-testualità del livello diagnostico e terapeutico dell’intervento clinico1.

Le due polarità di questo “movimento sisto–diastolico di cui pulsa il rapporto” (Montanari et al., 1988), del “sentire con il paziente” e del “pensare sul paziente”, sono costitutive dell’esperienza empatica in quanto tale (Bolognini, 2002), oltre che presupporre nel terapeuta una “capacità depressiva” (sottesa da una stabile condizione indivi-duante di “separatezza”) che lo metta al riparo, per quanto possibile, dal rischio di implicazioni confusive con la psicopatologia del pazien-te, di contagio emotivo o di distacchi difensivi dagli affetti in gioco; una capacità depressiva che gli consenta di esercitare la propria fun-zione nel segno dell’assunzione di responsabilità e della rinuncia alle pretese di onnipotenza terapeutica.

A quest’ultimo punto si ricollega un altro aspetto, che riteniamo u-tile considerare, quale concetto–ponte per meglio procedere nelle ar-gomentazioni sulla relazione con il paziente depresso.

Nissim–Momigliano (1984) sottolinea come si possa lavorare con-siderando il paziente “il nostro miglior collega” e, citando Bion, af-

1 Da un punto di vista psicodinamico, diagnosi e terapia risultano interrelate e contestuali e, a differenza di quanto accade nel modello medico–biologico, la componente terapeutica è inclusa, e può addirittura precedere, la componente diagnostica; come afferma Gabbard (1994) — citando Menninger — «il paziente viene per essere curato e qualunque cosa venga fatta per lui, nella misura in cui lo riguarda, è terapia, indipendentemente da come la chiama il medico. Pertanto, in un certo senso, la terapia precede sempre la diagnosi».

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ferma: «il miglior collega che voi possiate mai avere, oltre a voi stessi non è un analista, o un supervisore, o un genitore, ma il paziente, cioè la sola persona su cui possiate davvero fare affidamento che sia in possesso delle conoscenze vitali». Di analogo significato sono le af-fermazioni di Searls (1975) che, cogliendo una “tensione terapeutica originaria dell’essere umano”, definisce il “paziente come terapista del suo analista” (cit. in Nissim–Momigliano, 1984). Al di là di ogni altra considerazione sulle complesse interazioni in gioco, si vuole qui sottolineare un fatto, tanto ovvio quanto spesso misconosciuto: la cen-tralità del paziente, dei suoi bisogni e le possibilità che ha, in quanto titolare della sua sofferenza, di aiutarci a capirlo. In questo senso viene valorizzato il coinvolgimento attivo del paziente come “collaboratore di un processo esplorativo” (Gabbard, 1994).

Pur con le dovute cautele, fruendo in quanto psichiatri di argomen-tazioni derivanti da un contesto strettamente psicoanalitico, vale la pe-na di osservare l’evidenza di una costituzione intrinsecamente depres-siva del terapeuta, non tanto in riferimento al possibile e variabile tas-so di psicopatologia personale (auspicabilmente oggetto di consapevo-lezza e di lavoro terapeutico su di sè), ma alla presenza di un assetto interno che disponga il terapeuta al riconoscimento dei propri limiti, ad una tensione alla rinuncia delle proprie aspirazioni di onnipotenza terapeutica, e alla consapevolezza che solo attraverso l’alterità del suo paziente e una continua ricerca di alleanza e fiducia, potrà in qualche misura aiutarlo.

Nissim–Momigliano, nel suo contributo, infine ci introduce di-rettamente al tema dell’empatia e alle declinazioni dell’incontro con il paziente quando afferma che, per raggiungere davvero la sof-ferenza della persona, occorre «vedere con gli occhi del paziente», «cambiare il vertice di osservazione quando non si riesce a vedere molto dal luogo dove si sta osservando il paziente» (Nissim–Momigliano, 1984). È evidente che, per fare questo, è necessario, “depressivamente”, accettare la nostra difficoltà nel capire, e tenta-re di cogliere e spesso tollerare la complessa articolazione di affetti attivati dalla situazione clinica: «quando riusciamo a sopportare meglio la nostra angoscia e il senso di impotenza inevitabile di fronte a quello che davvero non siamo in grado di riparare, riuscia-mo anche a comunicare al paziente» (e, aggiungiamo noi, soprattut-

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to al paziente depresso) «una possibilità di tollerare meglio il suo senso di morte» (Nissim–Momigliano, 1984).

È altrettanto evidente l’allusione a quella necessaria scissione fisio-logica nella funzione del terapeuta che vede «un Io che sperimenta in-sieme al paziente quello che sta provando, e un Io critico–osservante, che registra, elabora e interpreta tali vissuti», realizzando, nelle occa-sioni più felici, una integrata “esperienza affettiva e di pensiero” (Nis-sim–Momigliano, 1984); queste due polarità dell’assetto egoico del terapeuta (ma anche del paziente), rientrano con sfumature diverse nella definizione stessa dei concetti di Alleanza Terapeutica e di Em-patia.

Con il termine di “alleanza terapeutica” (Zetzel, 1956) o di “alle-anza di lavoro” (Greenson, 1965), si fa riferimento a quel «rapporto stabile e positivo tra terapeuta e paziente, che mette in grado que-st’ultimo di impegnarsi produttivamente» (Zetzel, Meissner, 1973), alla «relazione razionale, relativamente non nevrotica, del paziente con l’analista» che implica la sua «capacità di lavorare in modo co-struttivo nella situazione terapeutica» (Greenson, 1965)2. Questo «rapporto collaborativo che si stabilisce tra paziente e terapeuta» (Lingiardi, 2002), è, come ogni alleanza, un patto che si stringe per combattere un nemico, per affrontare un pericolo o un ostacolo, nel caso specifico la patologia del paziente; ha quindi una connotazione bipersonale sostanziata da parte del paziente «dalla sua motivazione a vincere la malattia, dal suo senso di infelicità, dal desiderio co-sciente e razionale di collaborare» e dalle sue capacità di comprende-re e seguire le verbalizzazioni del terapeuta (Greenson, 1965); questi, dal canto suo, deve disporre nei confronti del paziente di prerogative quali «rispetto, considerazione, cortesia, tatto ed empatia» (Meissner, 1996). l’Empatia è quindi «una componente essenziale dell’alleanza terapeutica», ma, allo stesso tempo, «l’alleanza richiede reciproci coinvolgimenti empatici sia da parte del terapeuta, sia da parte del paziente» (Meissner, 1996). In sintesi, riteniamo di poter così preci-sare i rapporti intercorrenti tra empatia e alleanza terapeutica:

2 L’Alleanza Terapeutica viene oggi annoverata tra i cosiddetti “Fattori Terapeutici Speci-fici Comuni” (Berti Ceroni, Vescovi, 2001), elementi presenti in ogni relazione terapeutica e che contraddistinguono «l’atteggiamento mentale e concreto del medico e della relazione medico–paziente» (Berti Ceroni, 2005).

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• l’empatia, rispetto all’alleanza terapeutica, è uno degli elementi che la definiscono concettualmente e uno dei fattori che la rendono possibile pragmaticamente; l’alleanza, rispetto all’empatia, è il pre-supposto relazionale di fondo che la consente;

• l’empatia del terapeuta fornisce un canale di informazione sul pa-ziente che gli consente di monitorare in progress l’andamento dell’alleanza terapeutica; l’empatia del paziente è una importante componente della sua capacità di comprendere e rispondere all’attività dell’Io di lavoro del terapeuta, contribuendo a rinforzare l’alleanza terapeutica.

In buona sostanza, solo a patto di una interrelazione circolare tra al-

leanza ed empatia si può definire la condizione di base necessaria, an-che se non sufficiente, perchè si dia un valido intervento terapeutico.

Sterba (1934), uno dei pionieri della riflessione teorica su questi temi, parla di una “scissione terapeutica dell’Io” del paziente sulla quale si fonda la possibilità di un trattamento: un Io osservante, rivolto verso la realtà e in grado di cooperare “alleandosi” con l’Io analizzan-te del terapeuta, e un Io partecipante, istintuale e difensivo, che vive l’esperienza di quanto accade e che si esprime nel transfert. Come si può notare, questa distinzione riproduce sul versante intrapsichico del paziente quello che Nissim–Momigliano coglie nell’assetto intrapsi-chico del terapeuta come condizione per entrare in un contatto empati-co autentico e terapeutico con il paziente.

Per altro, nelle definizioni più attuali e complete del concetto di “em-patia” troviamo riferimenti a questa impostazione e alla costitutività de-pressiva di un valido assetto terapeutico (dove qui il termine “depressivo” non rimanda ovviamente ad una connotazione clinica, ma, come prima si precisava, ad un significato di ordine affettivo–evolutivo).

Coniato da Titchener nel 1909, traduzione dal tedesco einfuhlung, “sentire dentro”, il termine “empatia” fa riferimento alla capacità di sperimentare i sentimenti dell’altro, i suoi vissuti interiori; nella sua costituzione rientrano molteplici componenti, di ordine affettivo, co-gnitivo, esperienziale e di sintesi integrativa (Levy, 1985). Si tratta quindi di una condizione complessa, che va ben oltre la “capacità di mettersi nei panni dell’altro” (Ferenczi, 1928), locuzione a volte sem-plicisticamente ridotta a luogo comune dell’esperienza interpersonale.

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Intendiamo oggi per empatia qualcosa di molto più complesso, una «condizione intrapsichica e relazionale privilegiata, che pone in con-tatto due esseri umani, consentendo la percezione delicata e sensibile dell’interiorità, in una situazione di consapevole separatezza e di inte-grazione del capire con il sentire» (Bolognini, Borghi, 1989). Bolo-gnini (2002), riferendosi al concetto di empatia psicoanalitica, ne pro-pone una definizione particolarmente dettagliata:

una condizione di contatto conscio e preconscio, caratterizzata da separatez-za, complessità e articolazione; uno spettro percettivo ampio in cui sono comprese tutte le tonalità di colore emotivo, dalle più chiare alle più scure; e soprattutto un progressivo, condiviso e profondo contatto con la complemen-tarietà oggettuale, con l’Io difensivo e con le parti scisse dell’altro, non meno che con la sua soggettività egosintonica. (Bolognini, 2002) Tanto la “complementarietà oggettuale” (vale a dire il contatto con-

trotransferale con il mondo interno conflittuale del paziente) quanto l’esperienza “concordante” con la soggettività egosintonica del pa-ziente (ovverosia l’immedesimazione nel vissuto soggettivo conscio del paziente), sono necessarie per l’esperienza empatica.

Nel contesto clinico l’empatia del terapeuta ha diversi risvolti (Pan-cheri, Paparo, 2005): come tale è un fattore di crescita e di cambiamen-to; è un fattore terapeutico comune a tutti i trattamenti che promuove le potenzialità di Self–righting del paziente3; nella prospettiva della “psi-cologia del Sé” di Kohut (1971; 1977; 1978; 1984) l’empatia è il nucleo fondante di un metodo specifico di intervento terapeutico4.

Gli sviluppi concettuali in ambito psicodinamico su empatia e alle-anza terapeutica hanno precisato alcune posizioni di fondo a nostro parere utilizzabili nella prospettiva del lavoro terapeutico con il pa-ziente depresso.

3 Il concetto di “self–righting” viene utilizzato da Lichtenberg (1989) in riferimento alle capacità dell’organismo di correggere autonomamente un deficit evolutivo causato da carenze o inadeguatezze da parte dell’ambiente; in stretta analogia con la crescita psicobiologica Li-chtenberg sostiene che questa capacità di “autocorrezione” è centrale nel processo terapeutico ed è favorita dalle capacità empatiche e dal grado di responsività del terapeuta (Pancheri, Pa-paro, 2005).

4 Questa centralità dell’empatia si ritrova praticamente in tutta l’opera di Kohut, dal 1959 (Introspezione, empatia e psicoanalisi: indagine sul rapporto tra modalità di osservazione e teoria) al 1982 (Introspezione, empatia e il semicerchio della salute mentale).

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• La sensibilità del terapeuta può essere definita “empatica” «solo quando non è al servizio di bisogni narcisistici, ma di relazioni ogget-tuali mature» (Olden, 1958); questa condizione si realizza contestual-mente al procedere evolutivo della personalità e «implica la consape-volezza di separazione e assenza di confusioni, ed è resa possibile solo a prezzo dell’elaborazione del lutto riguardante la prima, fisiologica fase fusionale» (Bolognini, 2002).

Da questa angolatura si ribadisce la necessità di una separatezza e di una “depressività intrinseca” nel terapeuta, per poter sperimentare vera empatia nei confronti del paziente. Vale la pena anche di conside-rare quante e quali difficoltà si possono incontrare nel lavoro con pa-zienti gravemente depressi, invischiati nelle loro “separazioni impos-sibili” dall’area delle relazioni primarie e, per questo motivo, con po-che possibilità di veri movimenti empatici verso il terapeuta, a sua volta a rischio di regressive “cadute” di capacità empatica.

• In quanto «evento intrapsichico e interpersonale non programma-

bile» l’empatia obbliga il terapeuta anche ad un altro «lutto profondo, quello riguardante un’arcaica illusione onnipotente, di poter controlla-re i propri affetti fino a poterli decidere» (Bolognini, 2002); l’empatia non può essere convocata a comando, nè essere insegnata: si può, semmai, «imparare ad adoperarla correttamente, si possono eliminare inibizioni o usi erronei dell’empatia» (Greenson, 1960).

• La ricerca di contatto con l’umanità del paziente e con il suo mon-

do interno è uno degli scopi primari della relazione terapeutica e la “funzione empatica” rappresenta il “polo sensoriale–percettivo” di questa protensione all’altro, mentre, come ci ricorda Glauco Carloni (1984) il “tatto” ne rappresenta il “polo motorio”, “l’arte di trattare il prossimo”, la sensibilità nel modulare il nostro intervento con tempe-stività e nei modi più idonei per quel dato paziente.

Anche a questo livello incontriamo dinamiche intrapsichiche nel terapeuta che rimandano all’affetto depressivo. «Si ricorre all’empatia», afferma Greenson (1960), «per ristabilire il contatto con un oggetto sfuggente, perduto. Non comprendere è un modo di perdere o rifiutare un oggetto». Rintracciando analogie con le posi-zioni di Freud sul lutto e la melanconia nei confronti della perdita

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d’oggetto, Greenson sostiene che «il paziente incompreso è una sorta di oggetto d’amore perduto. L’empatia sarebbe quindi un tentativo di riparare alla perdita di contatto e di comunicazione» (Greenson, 1960). Sappiamo che l’insorgenza della patologia depressiva è spes-so una conseguenza della rottura di un rapporto di sostegno essenzia-le per l’individuo (Pancheri, Paparo, 2000); Greenson ci ricorda che «le persone tendenti alla depressione sono anche le più capaci di en-trare in empatia» (Greenson, 1960), e che siano «maggiormente do-tati di capacità empatiche quei terapeuti che abbiano provato un’esperienza di depressione e siano riusciti a superarla» (Greenson, 1966). Diverse ricerche in ambito extrapsicoanalitico (cognitivo–comportamentale, epidemiologico e psicosociale) hanno recentemen-te prodotto evidenze che supporterebbero le intuizioni di Greenson: è stata riscontrata infatti una correlazione positiva tra presenza di sen-timento di colpa e disposizione empatica (Simon et al., 2002; Leith et al., 1998; Van Stokkom, 2002; Joireman, 2004), così come tra empatia e vulnerabilità depressiva (O’Connor, 2002; Hollinger–Samson, 2000; Gawronskj, 1997; Schieman, 2001).

• L’empatia ovviamente non riguarda solo il terapeuta; «è il pro-

dotto dei messaggi emotivi che continuamente si trasmettono tra i due partecipanti» e «implica lo stabilire un sistema di feedback co-stante tra paziente e terapeuta» (Pao, 1979). In questo contesto bi-personale «la capacità empatica dell’uno può essere influenzata dal-la resistenza o dalla prontezza alla comprensione empatica da parte dell’altro» (Greenson, 1960). In assenza di un sufficiente grado di sintonizzazione empatica del paziente nei confronti del terapeuta viene ostacolata o vanificata ogni forma di alleanza terapeutica (Meissner, 1996): le proiezioni transferali, le vicissitudini pulsiona-li, le difese impiegate e i toni affettivi del paziente possono interfe-rire profondamente nella sua possibilità di collaborare e nella fidu-cia nell’intervento terapeutico; nei casi di grave depressione dove alleanza terapeutica e fiducia (tanto del paziente quanto del tera-peuta) sono massivamente attaccate dalla distruttività melanconica del mondo interno del paziente, l’empatia può dimostrarsi poco uti-le, se non addirittura fuorviante, come guida dell’intervento nella situazione clinica.

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• Dobbiamo infatti anche considerare i limiti dell’empatia come strumento di comprensione del paziente da parte del terapeuta, limiti connaturati alla declinazione interpersonale dell’esperienza empatica.

Sono molteplici le situazioni di impedimento del processo empati-co, nelle quali il paziente «non vuole essere capito nel timore di soffri-re troppo», oppure «teme talmente l’abbandono da non poter comuni-care a qualcuno la propria pena» (Bolognini, Borghi, 1989).

Di rilievo a questo proposito sono le osservazioni di Buie (1981) relative a pazienti in trattamento che si erano suicidati dopo che, in base ad una valutazione di tipo empatico, erano stati ritenuti “non a rischio” e dimessi o fatti uscire in permesso dal reparto; Buie (1981) sostiene che se la valutazione dello stato dei pazienti si fosse basata su una più articolata attenzione psicodinamica, capace di tener conto de-gli aspetti dinamico–strutturali di ogni singolo caso, quelle persone sa-rebbero state considerate a rischio suicidario anche se empaticamente e descrittivamente potevano apparire in “stabile compenso psicopato-logico”.

L’empatia, in quanto anche fenomeno interpersonale, non può pre-scindere dalla percezione sensoriale che abbiamo dell’altro, dai segni comportamentali che ci informano del suo mondo interiore; empatiz-zare implica anche confrontare questi aspetti comportamentali del pa-ziente con nostri fondamentali riferimenti interni, distinguibili in quat-tro elementi (Buie, 1981):

— riferimenti di ordine concettuale, e in particolare il modello ope-

rativo interno del paziente, l’idea che ci siamo fatti di quel pa-ziente che include, oltre a quello che sappiamo di lui, anche l’idea circa le sue potenzialità, le nostre conoscenze teoriche e l’esperienza clinica di cui disponiamo (Greenson, 1960);

— un nostro riferimento auto–esperienziale, ovverosia tutto quan-to in termini di memoria autobiografica, affetti, pulsioni, pres-sioni superegoiche, vissuti corporei, occupa il nostro mondo in-terno;

— le nostre possibilità immaginative e imitative, tali da consentirci una costruzione interiore che ci faccia trovare sul palcoscenico del vissuto del paziente anche quando è troppo distante dal nostro abituale sentire;

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— la nostra risonanza empatica, il tasso di “contagiabilità emotiva” rispetto alle emozioni dell’altro.

Il passaggio successivo della comprensione empatica è dato, se-

condo Buie (1981), da un processo inferenziale che ci fa dedurre il vissuto del paziente da quanto in noi è avvenuto ai vari livelli referen-ziali interni. Tre sono le principali fonti di errore che possono distor-cere la conoscenza empatica relativa allo stato mentale del paziente (Buie, 1981):

• il paziente può limitare o dissimulare l’espressione di segni com-

portamentali rappresentativi del suo stato mentale; • i referenti interni del terapeuta possono dimostrarsi inadeguati; • infine il procedimento inferenziale può essere incerto e impreciso.

Il fattore di errore empatico a carico del paziente è di particolare ri-

lievo nel caso dei soggetti potenzialmente suicidari. Infatti coloro che forniscono segni comportamentali poco informativi sul loro stato men-tale sembrano essere particolarmente dipendenti dagli altri per mante-nere la propria autostima e un senso di sicurezza basilare di sè; nel lo-ro sviluppo psicoaffettivo queste persone avrebbero consolidato il convincimento che la loro dipendenza li rende più vulnerabili al man-cato soddisfacimento dei loro bisogni. Si trovano ad essere, al con-tempo, profondamente dipendenti e molto diffidenti e sfiduciati, e svi-luppano la capacità (conscia e inconscia) di celare o distorcere quelle espressioni di sè che consentirebbero agli altri quella comprensione empatica che temono li renda ancora più vulnerabili; in sostanza fa-rebbero di tutto per non essere compresi (Buie, 1981).

Tenere in debito conto i limiti sopracitati consente di utilizzare al meglio la propria empatia col paziente, empatia che può essere validata o disconfermata da criteri di confrontazione e di concordanza, come il condividere con il paziente le proprie sensazioni empatiche su di lui, il confrontare quello che accade ai quattro livelli di referenzialità interna (Buie, 1981) e, soprattutto, allargare il campo di lavoro con una pro-spettiva dinamico–strutturale in grado di aggiungere spessore e maggio-re attendibilità alla valutazione diagnostica, oltre che maggiore incisivi-tà all’intervento terapeutico, psicoterapico o farmacologico che sia.

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Da un punto di vista psicodinamico è possibile precisare diverse configurazioni della psicopatologia depressiva, differenziabili tra loro per svariati elementi quali l’assetto della personalità premorbosa, le difese psichiche prevalentemente impiegate, i rapporti di forza tra le istanze psichiche, il ruolo giocato dall’aggressività e dalla libido, le problematiche narcisistiche, i vissuti affettivi sperimentati a livello conscio e le modalità di relazione oggettuale. Non si tratta tanto di in-dividuare vere e proprie categorie nosologiche, quanto di evidenziare gli elementi psicodinamici salienti che sottendono l’espressività clini-ca e le modalità relazionali del soggetto depresso, indipendentemente da come possa essere poi codificata una diagnosi descrittiva. In questa prospettiva sono molteplici le declinazioni cliniche e psicopatologiche dell’esperienza depressiva rintracciabili negli innumerevoli contributi della letteratura psicoanalitica, dal classico Lutto e melanconia di Freud (1915), sino ai lavori degli ultimi decenni (Asch, 1966; Blatt, 1974; Bergeret, 1974, 1975; Dorpat, 1977; Stone, 1986; Milrod, 1988; McWilliams, 1994; Bleichmar, 1996; Kernberg, 1975, 1976, 1984).

Riportiamo in questa sede solo alcuni brevi riferimenti per illustra-re le implicazioni che ne possono derivare sul piano relazionale ed empatico nel rapporto con il terapeuta.

• Un primo esempio è costituito dalle condizioni depressive “melan-

coniche”, caratterizzate prevalentemente da senso di colpa, vissuti di iniquità e odio verso sé stessi, e che possono dar luogo ai tipici deliri olotimici (di colpa, rovina o ipocondriaco): il soggetto de-presso, in questo caso, ha un senso di sé molto chiaro ma doloro-samente negativo e si vive come irrimediabilmente “cattivo”, e può vivere come sconfortanti reazioni esplicitamente empatiche e inco-raggianti da parte del terapeuta; allo stesso tempo ha bisogno di imparare che il terapeuta non lo giudicherà e non lo rifiuterà (McWilliams, 1994).

• Diversamente, nel caso di depressioni connotate prevalentemente in senso narcisistico, con vissuti di vuoto, noia, e sentimenti di vergo-gna, l’individuo difetta di un vero senso di sé ed è incline a consi-derarsi “fallito” e, a differenza del melanconico, può vivere come confortanti reazioni del terapeuta esplicitamente empatiche e inco-raggianti (McWilliams, 1994).

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• Allo stesso modo, nel caso di personalità dipendenti che sperimen-tano depressioni analitiche (Blatt, 1974) pervase per lo più da vis-suti di impotenza e di abbandono, le espressioni empatiche del te-rapeuta vengono vissute come incoraggianti.

• Particolare, e per certi versi “insidioso”, è il terreno dell’incontro empatico nel caso del paziente depresso con personalità masochi-stica5, che affida la sua speranza al fatto di poter attirare su di sé l’interesse dell’altro solo con la sofferenza, convinto di poter essere amato soltanto in quanto persona che soffre. In questi casi, il ri-schio di collusività degli atteggiamenti empatici è molto elevato, tanto per quelli concordanti (dove il terapeuta si pone masochisti-camente al servizio del paziente), quanto per quelli complememen-tari (che esprimono la posizione salvifica di un terapeuta–genitore onnipotente); il rischio, naturalmente, è quello di rinforzare il com-portamento autodistruttivo masochistico del paziente, il quale, semmai, ha la necessità di scoprire che esprimendo il proprio slan-cio vitale e la propria capacità di autoaffermazione può stimolare nell’altro calore e accettazione (McWilliams, 1994). Tra le righe di queste argomentazioni risulta evidente quanto vada-

no considerate le specificità degli elementi transferali che il paziente depresso immette nella relazione con il terapeuta6, oltre che, natural-mente, le dinamiche controtransferali di quest’ultimo.

Nel paziente depresso la dipendenza (espressa o negata), l’aggres-sività (tanto la rabbia verso l’oggetto perduto e/o deludente, quanto l’odio verso se stessi) e la vulnerabilità narcisistica (che si esprime in “sfiducia di base”, bassa autostima, sentimenti di indegnità, colpa, vergogna, inferiorità e invidia) fanno sì che il depresso possa oscillare tra la tendenza a stabilire rapporti immediati e intensi o, viceversa, ad

5 Con il termine “masochismo” intendiamo qui ovviamente fare riferimento al concetto freudiano di “masochismo morale” (Freud, 1924), e non all’area psicopatologica delle perver-sioni sessuali.

6 Ricordiamo con Greenson (1965; 1967) che la relazione paziente–terapeuta oltre a defi-nirsi come “relazione reale” (relativamente agli aspetti realistici e autentici dell’incontro tra due persone), include sempre anche una quota di “relazione transferale” (dove le distorsioni dettate dal transfert introducono elementi irrealistici e inautentici) ed è garantita dalla “allean-za terapeutica” (realistica in quanto basata sulla collaborazione razionale tra due persone, ma inautentica, poiché sussiste essenzialmente nella specifica situazione del setting terapeutico).

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arroccarsi difensivamente nel non realizzare alcun tipo di rapporto (Jacobson, 1971).

Correlativamente, sul piano controtransferale, il terapeuta corre il rischio di essere troppo contagiato depressivamente, vivendo uno sco-ramento e una sfiducia riversati poi sul paziente; per converso può controreagire esercitando una aggressività manipolativa tramite ecces-sive pressioni che il paziente non è in grado di reggere, prendendo le distanze da lui con uno scarso interesse per la sua sofferenza, o mani-festando espliciti agiti aggressivi nei suoi confronti (Bogetto et al., 1990).

L’“atteggiamento psicoterapico” nell’approccio al paziente depres-so, qualunque sia l’ambito di intervento in cui viene a declinarsi (si tratti di una psicoterapia in senso stretto, di un contesto psichiatrico–psicofarmacologico, o dell’ambulatorio del medico di medicina gene-rale), dovrebbe invece includere alcuni elementi necessari per garanti-re la tenuta dell’alleanza terapeutica e che fondano il loro presupposto nella competenza empatica: un atteggiamento neutrale ma capace di conferire all’incontro un’atmosfera di calda accettazione della soffe-renza del paziente; l’accoglimento dei suoi bisogni di dipendenza e la disponibilità ad aiutarlo a non negarli o ad allontanarsene; una dovero-sa cautela nel non frustrare eccessivamente il paziente ma, al tempo stesso, evitare di minimizzare la gravità della situazione; proporre modulati stimoli alla verbalizzazione e mantenere un orientamento at-tivo, finalizzato soprattutto a sostenere l’autostima; garantire infine un setting sufficientemente “elastico” (Volterra, Martini, 1990), in grado di modulare produttivamente le diverse emergenze di campo relazio-nale (tra relazione reale, dinamiche transferali e alleanza terapeutica) che il paziente depresso pone all’intervento del terapeuta.

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Autori

• Stefano Caracciolo, professore straordinario di Psicologia clinica presso l’Università di Ferrara.

• Ivonne Donegani, Dipartimento di Salute Mentale AUSL di Bolo-

gna. • Silvana Grandi, professore straordinario di Psicologia clinica pres-

so l’Università di Bologna. • Sergio Molinari, professore ordinario di Psicologia clinica presso

l’Università di Ferrara. • Laura Sirri, psicologa, dottore di ricerca in Psicologia generale e

clinica presso l’Università di Bologna. • Stefano Tugnoli, professore a contratto di Psicologia clinica presso

l’Università di Ferrara.

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Indice delle illustrazioni fuori testo

Figura 1 La prescrizione dissennata, xilografia attribuita a Albrecht Dü-

rer, tratta da Sebastian Brant, Stultifera Navis, 1494, Basel ......... 33 Figura 2 Melencolia I, xilografia di Albrecht Dürer (circa 1504), Wien,

Kunsthistorisches Museum ........................................................... 47 Figura 3 Frontespizio della III edizione di Anatomy of Melancholy di

Robert Burton (1627) .................................................................... 69 Figura 4 Il paziente disobbediente, xilografia attribuita a Albrecht Dü-

rer, tratta da Sebastian Brant, Stultifera Navis, 1494, Basel ....... 129

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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche

Area 02 – Scienze fisiche

Area 03 – Scienze chimiche

Area 04 – Scienze della terra

Area 05 – Scienze biologiche

Area 06 – Scienze mediche

Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie

Area 08 – Ingegneria civile e Architettura

Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione

Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche

Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche

Area 12 – Scienze giuridiche

Area 13 – Scienze economiche e statistiche

Area 14 – Scienze politiche e sociali

Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su

www.aracneeditrice.it

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Finito di stampare nel mese di aprile 2012dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »

per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma