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Prof. Monti – Storia V – a.s. 2016-2017 – Gli anni '30: verso la Seconda guerra mondiale

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Gli anni '30: verso la Seconda guerra mondiale

1. INTRODUZIONE Negli anni '30 il fascismo - inteso in senso ampio, non limitato alla sola Italia - divenne una forza con la quale fare i conti a livello mondiale. La crisi del '29, nonostante le misure adottate, acuì le già presenti tensioni internazionali e l'ideologia fascista si estese anche al di là delle frontiere dell’Europa. Ovunque il totalitarismo fu caratterizzato dalla unificazione partito-Stato, dal culto del capo e, correlativamente, dalla repressione del dissenso e dall'organizzazione del consenso. Verso l'esterno, i vari regimi dittatoriali sventolarono una pretesa superiorità di carattere biologico e culturale, insieme a un aggressivo nazionalismo. Molte nazioni europee, assumendo fascismo e nazismo a modello, seguirono la strada dell'autoritarismo dirigista e dell’anticomunismo. Facciamo qualche esempio assai significativo: In Spagna, già negli anni ‘20, il regime di Miguel Primo de Riveira e il movimento politico di destra fondato dal figlio, la Falange, ebbero rapporti con il fascismo italiano. In Portogallo, nel 1932 il nuovo primo ministro Antonio de Oliveira Salazar fu a sua volta l’artefice di un governo autoritario legato al fascismo italiano. Anche l’Austria vide, sempre nel ‘32, la formazione di un governo autoritario (Engelbert Dollfuss) il quale, però, risultò ostile al partito nazista austriaco, che era fautore dell'unificazione con la Germania (Anschluss). Mussolini, che non desiderava che tale unione si compisse, sostenne Dollfuss il quale però, nel 1934, cadde vittima di un tentativo di colpo di stato da parte dei nazisti.

2. ECONOMIA IN ITALIA DOPO IL 1929 Sviluppo industriale e consumi rallentarono, in Italia, anche in conseguenza della crisi del ’29 (in effetti la quota 90, già in precedenza, aveva fortemente penalizzato le esportazioni italiane), seppure con minore intensità rispetto ad altri paesi. L’economia italiana era, infatti, piuttosto arretrata se paragonata a quella delle maggiori potenze occidentali e, dunque, ancora poco integrata nell'economia internazionale. In realtà, solo dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia sarebbe divenuta un paese pienamente industrializzato. L’industrializzazione, anche se in via di sviluppo, era ancora relativamente poco incisiva rispetto a un’economia di auto consumo ancora ampiamente radicata fra i ceti rurali. In generale, il lento sviluppo dell’economia italiana attutì l’impatto della crisi, anche se la risposta alla stessa fu la stessa di quella adottata dagli altri paesi: il massiccio intervento statale. Nel 1930, la produzione industriale diminuì del 23% e un calo ancora maggiore riguardò quella agricola (fra 1928 e 1932, il 30% dei nuovi piccoli proprietari terrieri devono abbandonare le terre acquistate, non essendo più in grado di pagare i debiti contratti).

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La disoccupazione aumentò e i salari diminuirono (anche del 15-20%), diminuzione che colpì anche gli indici della borsa. Il commercio estero si ridusse a un terzo, mentre il blocco dei flussi migratori cancellò uno sbocco importante per le classi subalterne. Il regime fascista rispose alla crisi comprimendo i salari, come abbiamo detto, e sostenendo l’industria pesante e la produzione bellica. Si crearono, poi, degli istituti per il controllo statale sull’economia: l'IMI (1931, istituto mobiliare italiano) gestiva il credito alle industrie, affiancando in questo compito le banche in crisi di liquidità. Nel 1933 nacque anche l’IRI (istituto per la ricostruzione industriale) deputato al sostegno all’industria. Questi enti vararono quello che potremmo chiamare un capitalismo di Stato in funzione di sostegno ai “privati” (si aiutavano, insomma, banche e industrie in difficoltà, ma non le famiglie) addossandone le spese sulla collettività. La Banca d’Italia divenne interamente pubblica e la lira, nel 1936, fu svalutata (abbandonando la quota 90). Per alleviare la disoccupazione vennero, come già accennato, varati ampi lavori pubblici, come la bonifica delle paludi dell’Agro Pontino (vennero qui bonificati 60.000 ettari di terreno e fondate le città di Latina e Sabaudia). Anche il fascismo, poi, legò la sua politica economica all’autarchia: la massima autonomia economica e produttiva doveva essere perseguita nel minor tempo possibile (il regime intensificò la “battaglia del grano”, inaugurata già negli anni Venti). Come sappiamo questa economia chiusa, a compartimenti “stagni”, era causata dalla crisi economica e dal peggioramento delle relazioni internazionali. Occorreva sforzarsi per produrre quanto prima si importava. Con l’autarchia, le corporazioni assunsero il controllo sui consumi e gestirono anche la distribuzione alle imprese delle materie prime importate. L’IRI assunse la gestione diretta delle imprese di interesse bellico. Nel complesso, l’intervento dello Stato italiano nell’economia e nei servizi pubblici - intervento, comunque, che non era certo inedito nel nostro Paese - divenne assai più marcato. I numerosi nuovi enti pubblici, giocoforza, portarono all’ampliamento di quella parte di ceto medio che era costituita da impiegati pubblici. Il solo PNF, nel 1943, giunse ad un picco di 8000 dipendenti! Fu, come possiamo vedere, direttamente lo Stato a salvare l'economia italiana e non, cosa peraltro auspicata dal fascismo, la struttura corporativa della società la quale, in effetti, non funzionò mai al di là della propaganda ideologica. Le Corporazioni furono più un mito – tanto in Italia quanto per gli osservatori stranieri – che una realtà: istituite formalmente solo nel 1934, quelle Corporazioni che avrebbero dovuto realizzare l’autogoverno integrato dei vari settori produttivi, inaugurando una via alternativa tanto al capitalismo quanto al comunismo, non ebbero mai un ruolo rilevante.

3. POLITICA ESTERA DELL’ITALIA In politica estera vi furono, progressivamente, eventi significativi per il futuro del regime. In principio, Mussolini non si discostò molto dalla precedente linea dell’Italia liberale: si mosse con prudenza, sottolineando la specificità tutta italiana del fascismo – il quale, a suo avviso, non sarebbe stato davvero comprensibile al di fuori del Paese – senza cercare in modo particolare una qualche unità rispetto all’affermazione di altri regimi autoritari (Ungheria, Spagna, Polonia, Portogallo... tutti regimi uniti al fascismo se non altro dall’anticomunismo).

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Si intrattennero relazioni amichevoli con l’Inghilterra e vi fu anche il tentativo, attraverso alcuni accordi diplomatici, di avvicinare la Francia. Con il Patto di Roma del 1924 l’Italia riconobbe la legittimità della Jugoslavia in cambio della sovranità sulla città di Fiume. Sempre al 1924 risale anche il riconoscimento dell’URSS. Nel 1925, poi, l’Italia aderì al Patto di Locarno: esso era teso a garantire l’intangibilità del confine franco-tedesco. Il patto entrò in vigore nel 1926, in contemporanea all’entrata della Germania nella Società delle nazioni, e costituì l’inizio di un breve periodo di distensione e collaborazione. Questo Patto fu denunciato da Hitler nel ’36 come un atto di prosecuzione della politica di Versailles e, dunque, della sottomissione tedesca. Al 1928 risale invece il Patto Briand-Kellogg che impegnava le 62 nazioni aderenti a bandire la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali. Briand era il ministro degli esteri francese, mentre Kellogg era il Segretario di Stato americano. La svolta si ebbe nel ’32 quando, nel ruolo di ministro degli esteri, Mussolini sostituì il moderato Dino Grandi. Gli effetti della crisi del ’29 contribuivano, con la chiusura dei mercati mondiali e l’asfissia di quello interno, a spingere verso la militarizzazione e, dunque, verso la preparazione della guerra, certamente capace di garantire commesse e profitti per le industrie. Questo, significò, per l’Italia, l’accettare di schierarsi al fianco degli Stati revisionisti: quelli, cioè, che si ritenevano danneggiati dai trattati di Versailles (Germania, Ungheria, Bulgaria). Sul fronte opposto, a favore del vigente sistema internazionale, c’erano naturalmente la Francia e l’Inghilterra, oltre alla Jugoslavia, la Cecoslovacchia e la Polonia (Stati, non a caso, nati o ricostituiti proprio grazie a Versailles!). Mussolini, comunque, continuò a cercare di attenersi ad una politica di equilibrio, oscillando fra le esigenze revisioniste e quelle dettate dalla necessità di non opporsi frontalmente a Francia e Inghilterra. Mussolini avrebbe voluto essere un po’ l’ago della bilancia dell’equilibrio europeo e, per questo, si sforzò nella realizzazione del “patto a quattro”: firmato nel 1933 con Inghilterra, Francia e Germania, impegnava i contraenti a perseguire una politica di pace tramite stretti contatti, con lo scopo di risolvere i problemi lasciati aperti dalla Grande Guerra. Mussolini tentò dunque di rilanciare il ruolo internazionale dell’Italia su un piano di parità con le altre potenze. Il patto, per la verità, venne accolto dagli altri contraenti con freddezza, solo come patto di consultazione. Nel 1933 Mussolini firmò anche un trattato di non aggressione, per avere maggior margini di manovra nell’ambito delle scelte espansionistiche dell’Italia. Nel ’35, rappresentanti di Italia, Francia e Inghilterra si incontrarono a Stresa per discutere del riarmo tedesco e delle mire di Hitler sull’Austria. In quella occasione Mussolini ottenne, da parte della Francia, il via libera per l’aggressione all’Etiopia (e si impegnava ad agire di concerto con la Francia per impedire ad Hitler l'annessione dell'Austria). La politica di potenza desiderata da Mussolini era chiara già da tempo: tre anni prima aveva, per esempio, affermato: “Solo la guerra porta al massimo della tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla.” La politica espansionistica di Mussolini si manifestò con forza proprio con l’Etiopia (già negli anni '20, in effetti, era stata completata la conquista italiana della Libia, iniziata, come ricorderete, con Giolitti nel 1911-1912; l'Etiopia era l'unico stato africano ancora indipendente!). Coerentemente con l’ideologia di potenza del fascismo, si trattò una guerra coloniale di conquista, utile in relazione alla crisi economica e anche in chiave propagandistica.

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Si prese, come pretesto, un incidente fra soldati italiani ed etiopi avvenuto nel dicembre ’34. Il 3 ottobre ’35 partì l’attacco (dall’Eritrea, già italiana, e anche dalla Somalia italiana). Un esercito di 100.000 uomini avanzò fino all’occupazione di diverse città (Adigrat, Adua, Macallè), tuttavia la resistenza del negus (quello di "negus" è un titolo nobiliare equivalente a quello di re) e delle sue truppe fu superiore al previsto. Gli italiani avanzarono a fatica, nonostante la superiorità militare. In novembre, al comando delle truppe, Pietro Badoglio (che era stato alle dipendenze di Armando Diaz nella Grande Guerra) sostituì Emilio De Bono: ora l’obiettivo non è solo la vittoria, ma l’annientamento delle truppe nemiche abissine e la conquista integrale dell’Etiopia. Vennero così utilizzati anche bombardamenti aerei e gas velenosi (iprite), arrivarono ulteriori e decisive vittorie. Il 5 maggio del ’36 Badoglio entrò trionfalmente in Addis Abeba. All’inizio della guerra, la Società delle nazioni condannò l’Italia come paese aggressore, con sanzioni economiche (mai applicate e, successivamente, abrogate). La vittoria scatenò l’euforia nel regime. Mussolini ebbe modo, finalmente, di presentarsi come “fondatore di un impero”. Insieme a Somalia ed Eritrea, l’Etiopia andava a formare l’Africa orientale italiana. Vittorio Emanuele III assunse addirittura il titolo di imperatore di Etiopia. In contemporanea a questi avvenimenti, si delineò un chiaro avvicinamento fra Italia e Germania. Hitler, di fatto, aveva sostenuto l’impresa italiana e, in cambio, l’Italia si era opposta all’adozione di misure contro la Germania, la quale aveva occupato la Renania (regione nell’ovest della Germania), precedentemente smilitarizzata in accordo al Trattato di Versailles. Il 24 ottobre 1936 nasce l’asse Roma-Berlino, caratterizzato da comune impegno contro il bolscevismo e nell’aiuto dei militari spagnoli che si erano ribellati al governo (guerra civile). Le relazioni bilaterali si fecero sempre più strette: nel settembre ’37 Mussolini venne accolto trionfalmente in Germania e, in novembre, l’Italia aderì al Patto Anticomintern (il termine comintern, come sapete, qualifica la Terza internazionale comunista, cioè l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti), già firmato da Germania e Giappone. Fra ’38-’39, quindi ancora nei primi mesi di guerra, il fascismo esplorò le possibilità di espansione imperialistica, immaginando uno sproporzionato programma che andava da Gibilterra fino al Medio Oriente. Programma ben presto mandato in frantumi dalle vicende belliche. Il destino dell’Austria costituiva, come abbiamo accennato, un elemento di attrito fra Italia e Germania. Dal maggio ’32, il nuovo cancelliere austriaco Dollfuss era deciso a difendersi all’interno dal terrorismo nazista e all’esterno dal Terzo Reich, ma, nel contempo, voleva realizzare un regime corporativo e antisocialista. Dollfuss cercò la protezione dell’Italia fascista contro il nazismo, a sottolineare l’evoluzione dell’Austria in senso filofascista. In Austria, il Partito comunista venne interdetto e venne varata una nuova costituzione corporativa. Il 25 luglio 1934, però, Dollfuss viene assassinato dai nazisti, richiamando l’attenzione sulla minaccia di una possibile annessione (anschluss) dell’Austria alla Germania. All’inizio l’opposizione dell’Italia fermò le ambizioni naziste, ma le cose cambiarono proprio grazie all’aiuto tedesco nella conquista d’Etiopia. L’annessione fu dichiarata nel marzo ’38, quando l’esercito tedesco occupa l’Austria (lo scopo di Hitler rispetto all'Austria era il suo sfruttamento per l’economia di guerra e il suo utilizzo come "trampolino" per ulteriori espansioni verso est). I rapporti di alleanza erano ormai capovolti: l'Italia, allontanatasi dalla Francia, si era legata alla Germania nazista. Non a caso, nel dicembre del 1937, anche l'Italia abbandonò la Società delle Nazioni.

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4. CENNI SULLO STALINISMO Dopo le complesse vicende legate alla Rivoluzione d’ottobre, lo ricordiamo, L’URSS, Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, nacque ufficialmente nel dicembre 1922 attraverso un trattato federativo. Già in aprile, Stalin (1879-1953) era succeduto a Lenin (che morirà nel 1924) nella carica di segretario generale del partito. È da ora in poi che il potere comunista trovò un assetto stabile. Gli anni della presa del potere di Stalin, sino agli anni ’30, sono definiti dagli storici gli anni del “grande terrore”. Anche l’URSS fu caratterizzata da un regime dittatoriale, che acquisì quei medesimi tratti di totalitarismo di cui abbiamo parlato rispetto all’Italia e alla Germania, pur partendo da premesse storico-sociali e ideologiche ben diverse: dopo la morte di Lenin, Stalin governò insieme a due fidati bolscevichi (Kamenev e Zinov’ev, poi giustiziati nel periodo delle “grandi purghe”, fra ’36 e ‘38) e, in questa prima fase, si sbarazzò del rivale Trotzkij (ricordiamolo: fondatore dell’Armata Rossa, Trotzkij aveva sostenuto la internazionalizzazione della rivoluzione, mentre Stalin riteneva che si potesse e dovesse solo preservare la rivoluzione russa, dunque il socialismo in un paese solo, preservandola contro ogni nemico interno ed esterno), destituendolo dalla carica di commissario della guerra. All’inizio il regime ebbe una qualche dialettica interna, fra una “destra” e una “sinistra”, ma a partire dal 1927 Stalin eliminò tutti gli oppositori, culminando con la “grande purga” del 1936-38, che eliminò i vecchi rivoluzionari dal partito e dall’esercito. Il nodo centrale dell’economia era, in un paese ancora assai arretrato, l’industrializzazione. Stalin si chiedeva come attuarla e con quali capitali. In questo senso, egli partì dalla tassazione dei contadini ricchi (i kulaki, che di fatto Stalin ridusse a semplici contadini) e dall’aumento della differenza dei prezzi fra prodotti agricoli e industriali (a danno dei primi). Si avviò, di fatto, una seconda ondata rivoluzionaria, contro i kulaki (massacrati e, spesso, deportati nei GULAG) e il villaggio tradizionale (mir), in modo da convogliare la manodopera verso le industrie. Mentre il processo di industrializzazione si velocizzava, alla piccola proprietà agricola si sostituiscono i sovchoz, gestiti direttamente dallo stato, e i kolchoz, condotti collettivamente dai contadini. Circa la metà dell'intero reddito nazionale fu dedicata all’opera di trasformazione di un Paese povero e arretrato in una grande potenza industriale. Vi furono massicce importazioni di macchinari e chiamate alcune decine di migliaia di tecnici stranieri. Sorsero nuove città per ospitare gli operai (che in pochi anni passarono dal 17% al 33% della popolazione attiva), mentre una fittissima rete di scuole debellava l'analfabetismo e preparava i nuovi tecnici. I contadini, naturalmente, rifiutarono la collettivizzazione e, per piegarli, si usò la violenza. Nel 1929 Stalin giunse a ordinare di “liquidare i kulaki in quanto classe”: chi non entrava nella collettivizzazione era nemico del popolo, dunque andava imprigionato. È l’inizio della cosiddetta “dekulakizzazione”. In due anni, moltissime famiglie vennero deportate: espropriate della loro terra, vennero trasferite coattivamente in zone più remote del nord. Il provvedimento coinvolte oltre 1.600.000 persone! Le radicali scelte di Stalin raggiunsero gli obiettivi prefissati, anche se con un prezzo sociale altissimo. L’industria si sviluppò enormemente.

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Tre successivi piani quinquennali trasformano l’URSS, collocandola al terzo posto nella produzione mondiale industriale, dietro a USA e Germania. La crisi del ’29 non colpì l’URSS, che non ebbe a subire le problematiche caratteristiche dell’Occidente (e questo fece enormemente aumentare il suo prestigio internazionale). Il Paese, comunque, non riuscì ad aumentare le vendite (protezionismo) ed ebbe modo solo di contare sulle proprie risorse interne. Nelle fabbriche i ritmi di lavoro restarono massacranti sino al 1935 con livelli di vita bassissimi. Poi, lentamente, il lavoro in fabbrica perse quella prima intensità e si tornò ai livelli di vita del 1928. Alla vigilia della guerra, l’URSS era da una parte un Paese contadino collettivizzato a forza, Paese con il compito di mantenerne un secondo, quello industriale e urbano.

5. IL GIAPPONE Le conseguenze della crisi del ’29 si fanno sentire anche al di fuori dell’Europa e degli USA. Nei confronti del Giappone, la crisi delle economie più sviluppate funzionò come una spinta ad accentuare la politica espansionistica ed aggressiva. Le sue classi dirigenti pensavano di poter costruire un modello di sviluppo lontano sia da quello liberistico che da quello marxista, fondandosi sulla tradizione culturale del paese. L’industria nazionale, tuttavia, non riesce ad assorbire l’aumento demografico: si cerca di ovviare tramite l’espansione territoriale.

Dopo la Prima guerra mondiale, l’espansione commerciale e territoriale nipponica era stata pacifica (acquisto di terre in Manciuria per l’introduzione di colonie), ma la crisi e il protezionismo chiudono gli sbocchi del commercio estero: dal 1931, dunque, il Giappone cerca l’avventura della colonizzazione con l’uso delle armi. L’idea era quella di espandersi economicamente verso l’Asia continentale, partendo dalla conquista di avamposti (Corea, Taiwan), prima di confrontarsi con la Cina. Nel ‘31 il Giappone invade e conquista la Manciuria, creando uno stato formalmente indipendente (Manchukuo), nel ’33 abbandona la Società delle Nazioni, nel ’37 dichiara guerra alla Cina. La campagna militare ebbe grande successo: nel 1938 il Giappone è la seconda potenza coloniale imperialistica (dopo la Gran Bretagna). All’interno, il paese era rigidamente stratificato in classi, in una allungata piramide sociale. I grandi “capitalisti” controllano il 22% del capitale globale delle società giapponesi (un esempio è Mitsubishi). La manodopera era abbondantissima, senza alcun tipo di garanzia sociale e, per di più, legata da un vincolo di obbedienza e lealtà alla sacra figura dell’imperatore. Il nuovo imperatore Hirohito (1901-1989, imperatore dal 1926) completa il regime totalitario, con connotati fascisti. La destra e i militari scatenano la repressione nei confronti delle sinistre e del sistema parlamentare. Nel ’36, a seguito di una rivolta militare di Tokio, il potere passa interamente nelle mani dell’esercito e della marina, che cancellano le opposizioni e creano strutture e organizzazioni simili a quelle italiane e tedesche: Associazione patriottica industriale al posto dei sindacati, partito unico legato all’imperatore al posto del sistema parlamentare. Nel 1938, dopo l’invasione della Cina, viene varata una legge di mobilitazione generale, preludio alla completa militarizzazione del paese.

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6. LA CINA (SOLO DA LEGGERE!) La Cina, aggredita dal Giappone, era internamente divisa. All’indomani della Prima guerra mondiale, le principali forze politiche avevano cominciato a collaborare (il Kuomintang, partito nazionale del popolo di Sun Yat-sen, e il Partito comunista, fondato nel 1921 anche con la presenza di Mao Tse-tung). Nel 1924 il congresso del Kuomintang approva tre principi: unità del popolo (nazionalismo), benessere del popolo (socialismo), diritti del popolo (democrazia). Su questa base i comunisti vengono accolti in questo partito, la cui leadership passa al generale Chiang Kai Shek, lontano da idee liberaldemocratiche. L’alleanza fra i due partiti sfocia in una guerra di liberazione nazionale contro i cosiddetti “signori della guerra”: militari ribelli, sostenuti da inglesi, americani e giapponesi, che controllavano il Centro e il Nord del paese, rifiutando la sottomissione al governo di Canton. Tra 1925 e 1927 la guerra procede bene e nel 1928 Chiang unifica tutto il paese (governa un Consiglio di Stato, presieduto da lui stesso). Si cancellano anche tutti i dazi interni, abolendo la divisione economica e commerciale e vengono meno anche tutti i privilegi e le concessioni di cui in precedenza alcuni paesi occidentali godevano. Durante la guerra, però, fra i due partiti i rapporti si logorano fino alla guerra civile, dal 1927. Chiang cominciò a perseguitare gli ex alleati dando vita a una dittatura militare (1931) che cancella la democrazia. Il nuovo regime ha nelle campagne il suo punto debole, ove si lamenta l’assenza di una riforma agraria che non arriva. I comunisti, invece, controllano dei territori nelle regioni meridionali (nel 1931 proclamano la Repubblica dei soviet, presieduta da Mao) hanno espropriato i latifondi e distribuito le terre. La guerra raggiunge il culmine fra il 1930 e il 1934, con il tentativo di annientare i comunisti. A questo proposito è interessante la scheda sulla “lunga marcia”.

Anche l’attacco giapponese del ’37 modifica i rapporti fra comunisti e nazionalisti. L’offensiva mette a rischio l’esistenza di una Cina indipendente: le principali città vengono velocemente conquistate. Fra le forze di Chiang e quelle di Mao si varò un “fronte unito” contro i giapponesi: la resistenza si concentra nella Cina rurale, principalmente attraverso efficaci azioni di guerriglia e sabotaggio. Dal ’38 in avanti le cosiddette “zone libere” (controllate dai comunisti) si diffondono a macchia di leopardo in tutta la nazione.

7. IL MONDO COLONIALE (SOLO DA LEGGERE!) In generale tutto il mondo coloniale conobbe qualche cambiamento fra le due guerre, anche se in modo meno marcato rispetto alle maggiori potenze. Ancora nel 1920, le masse contadine di Asia, Africa e America latina erano ancora estranee all’economia monetaria: predomina una economia di sussistenza, dove il potere dei proprietari terrieri era ostacolo al cambiamento sociale ed economico. In assenza di situazioni di carattere rivoluzionario, come ad esempio in Messico, lo sviluppo di una agricoltura orientata all’esportazione scuote gli equilibri sociali, ma limitatamente a poche zone fertili e accessibili. Piccoli cambiamenti interessarono soprattutto la fascia temperata dell’America latina, Messico, Argentina, Venezuela (grazie al petrolio) e il Brasile meridionale, territori più legati all’Europa e ai capitali britannici. Vi furono in questi paesi ammodernamenti agricoli e sviluppi industriali, in contrasto con la prevalente economia di sussistenza e la scarsa

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industrializzazione del resto del continente. Nonostante ciò, Argentina e Brasile vivono una acuta crisi politica: la democrazia argentina è colpita da un colpo di stato (1930), che consolida la posizione di generali e oligarchie terriere, mentre il Brasile sperimenta il regime totalitario di Getulio Vargas, per certi versi simile al fascismo (nazionalismo, statalismo e corporativismo in economia). In Messico, invece, le conquiste della Rivoluzione del 1910 si consolidano. Negli anni ’30, in Medio Oriente, il petrolio ancora non è sfruttato. Le attività economiche erano diversificate e la ricchezza più equamente distribuita di quanto lo sia oggi... Agricoltura, commercio, artigianato... In politica, però, vi furono significativi cambiamenti. Negli anni del dominio coloniale, le società tradizionali furono impotenti di fronte alla forza militare e culturale dei conquistatori. Solo i paesi eredi di grandi imperi (Turchia, Persia, Cina) era presente l’aspirazione a uno Stato indipendente. Per il resto era l’idea stessa di Stato a mancare. Tuttavia, dopo la fine della Prima guerra mondiale, si affermarono vari movimenti nazionalistici nei paesi coloniali, segnando l’esordio del processo di decolonizzazione che si affermerà dopo la Seconda guerra mondiale. A far scattare l’indipendentismo furono soprattutto la distruzione di due imperi coloniali con la Prima guerra mondiale (Germania e Impero Ottomano) e la crisi del ’29. L’Egitto (1919-1922) è il primo stato coloniale ad ottenere la dichiarazione di uno Stato almeno parzialmente indipendente. Formula applicata anche a Iraq e Giordania. Il crollo di Wall street ha conseguenze maggiori: i prezzi dei prodotti primari, dai quali l’economia dei paesi coloniali dipendeva, crollano molto più in fretta di quelli dei manufatti industriali. Nasce così un gran numero di movimenti politici che, dalla fine degli anni ’30, segnerà l’evidente crisi del colonialismo. Le élite indigene, poco alla volta, non collaborano più con i dominatori stranieri, rivalutando la propria cultura tradizionale, si interessano di politica rivendicando l’indipendenza. Il modo di promuovere questi movimenti indipendentisti, però, furono tutti di derivazione occidentale (stampa, mobilitazioni pubbliche di massa, partiti): la storia del cammino verso l’indipendenza, dunque, sembra riguardare solo queste minoranze e solo da loro è compresa. I più restano analfabeti e per loro è assai più importante l’appartenenza a un villaggio che non la solidarietà nazionale: la resistenza allo straniero è, così, radicale nelle città, ma molto meno nelle campagne...

8. LA GUERRA DI SPAGNA La crisi del ‘29, come abbiamo detto, accese focolai di tensione un po’ in tutto il mondo. Anche la Spagna aveva partecipato al boom economico successivo ai primi anni successivi alla fine delle guerra (anni ’20), aumentando di moltissimo la propria produzione industriale. L’industria aveva interessato principalmente le regioni del Nord (Catalogna, Paesi Baschi), mentre le regioni mediterranee erano inserite nel mercato internazionale di vino, olio, agrumi. Fra ’32 e ’33 anche in Spagna si manifestarono gli effetti della crisi: si cercò di fronteggiarli con una riforma agraria (con espropri di terreni ai danni della vecchia nobiltà rurale), nel tentativo di rilanciare il mercato interno e dunque i consumi, ma ai problemi economici si aggiunsero quelli politici. Il periodo compreso dal ’23 al ’29 era stato stabile grazie alla dittatura del generale Miguel Primo de Rivera, il cui regime aveva presentato diversi aspetti comuni al fascismo italiano.

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Con la sua caduta nel gennaio 1930, però, la Spagna guidata dal governo del repubblicano Manuel Azana, precipitò verso la guerra civile. Le elezioni amministrative del 1931 portarono alla vittoria delle sinistre, il che indusse re Alfonso XIII di Borbone a lasciare il paese. La repubblica nacque in un paese diviso: da una parte una variegata sinistra (sindacati, movimenti autonomisti in Catalogna e Paesi Baschi e alcuni settori della borghesia industriale), dall’altra una destra composta da monarchici (“alfonsini” e “carlisti”, sostenitori di un altro ramo dei Borbone), cattolici, i fascisti della “Falange spagnola” (fondata nel ’33) guidati dal figlio del vecchio dittatore José Antonio Primo de Rivera, oltre che l’esercito e la Chiesa (che allora, in Spagna, era ancora una grande potenza economica). Il governo Azana presentava un limitato piano riformista: riforma agraria e autonomia alla Catalogna. Questo non bastava per accontentare alcuni settori della sinistra (anarchici e comunisti), ma era troppo a parere degli oppositori di destra, che in questi provvedimenti vedevano delle pericolose concessioni ai comunisti. Le elezioni del ’33 videro un grande aumento dei seggi al Parlamento per la destra (da 42 a 207). Venne varato un nuovo governo di coalizione (centro unito ad alcuni gruppi di destra, fra cui i filofascisti): l’autonomia alla Catalogna venne revocata e si avviò anche una dura repressione contro le agitazioni e gli scioperi di operai e contadini (la repressione dello sciopero dei minatori delle Asturie provoca ben tremila morti). Successivamente, i consensi sembrano di nuovo favorire la sinistra, infatti le elezioni del ’36 danno grande consenso al Fronte popolare delle sinistre (267 seggi), contro i 132 del Fronte nazionale delle destre. Nel nuovo governo entrarono anarchici, comunisti e anche il Partito operaio di unificazione marxista (fedele a Trotskij e contro Stalin). La destra era dunque sconfitta, ma era ancora forte e, insieme alle gerarchie dell’esercito, pensava al Colpo di Stato. La sinistra, invece, era molto divisa: il programma riformista del governo accontenta repubblicani e comunisti, ma non gli anarchici e il Partito operaio. La situazione politica incerta riaccende le tensioni: contro la Chiesa e i proprietari, si incendiano chiese e conventi, si occupano terre e fabbriche. Le classi subalterne in genere mostrano il proprio anticlericalismo e gli operai i propri slanci rivoluzionari: a tutto ciò si oppone l’organizzazione militare della destra, che appoggia l’intensa attività terroristica e l’eliminazione dei nemici politici avviata dalla Falange. La situazione precipita nelle giornate del 17-19 luglio 1936, quando le guarnigioni militari stanziate in Marocco e guidate dai generali Francio Franco e Emilio Mola si sollevano contro il governo repubblicano. Aiutati dall’aviazione della Germania nazista, gli insorti sbarcano in Spagna e immediatamente conquistano l’Andalusia (regione del Sud). Comincia così la guerra civile spagnola. La sede del governo dei ribelli viene posta a Burgos e, nel settembre ’36, Franco viene acclamato “generalissimo”, assumendo così poteri di dittatore. Parte della Spagna meridionale (Galizia, Asturie, Navarra) si schiera con i franchisti, mentre Madrid e Barcellona erano roccaforti repubblicane. Nel febbraio ’37 i franchisti conquistano Malaga, mentre in aprile la città di Guernica viene rasa al suolo dai bombardieri tedeschi (è il primo bombardamento a tappeto della storia, tecnica che sarà utilizzata durante tutta la Seconda guerra mondiale). Alla fine del ’37 per i repubblicani si profila la sconfitta: fra il luglio e il novembre del ’38 tentano un ultima offensiva lungo il fiume Ebro, che fallisce con gravi perdite. Nel gennaio ’39 i franchisti entrano a Barcellona e in marzo a Madrid, che si arrende per ultima. La guerra civile è durata tre anni ed è costata un milione di morti.

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Dopo la vittoria, Franco vuole consolidare il proprio potere militare e politico, trasformando la sua dittatura in un vero e proprio regime. Viene creato un partito unico, la FET (falange spagnola tradizionalista), risultato dalla fusione della fascista Falange spagnola di José Antonio Primo de Rivera con la Comunion tradicionalista, partito caratterizzato dalla sua avversione al liberalismo. Per imitazione rispetto ai paesi che sostenevano questo regime (Italia e Germania), il caudillo (titolo dei capi politici e militari) ne accetta molte forme esteriori (saluto romano, camice blu a ricalco di quelle nere o brune...). Di fatto, però, dopo la vittoria nella guerra civile, il regime di Franco non segue il destino di fascismo e nazismo, infatti sopravvive alla Seconda guerra mondiale (Franco non combatte apertamente a fianco di Italia e Germania, inoltre di fatto ridimensionò i caratteri fascisti del suo regime senza mettere in pericolo la sua dittatura). Dopo il ’45 si avvicina ai paesi occidentali in funzione anticomunista, nel ’69 addirittura restaurò la monarchia, lui è reggente, nominando come suo successore Juan Carlos I di Borbone. Muore nel 1975.

9. VERSO LA SECONDA GUERRA MONDIALE La guerra civile spagnola, al di là della sua importanza locale, può essere vista come una specie di prova generale della Seconda guerra mondiale. A fianco di Franco e dei ribelli si schierano Italia e Germania: Mussolini invia settantamila uomini mentre i nazisti intervengono con reparti aerei. Francia, Inghilterra, USA e le altre democrazie scelgono il “non intervento”. Solo l’URSS invia dei volontari e materiale bellico. Molti democratici poi, che non approvavano la linea del non intervento, si arruolarono nelle brigate internazionali per andare a combattere contro il fascismo (circa 40.000 uomini). In Spagna dunque, in qualche modo si anticipano gli schieramenti che vedremo molto più in grande sul fronte della guerra mondiale. Nel settembre 1938 Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia siglarono il Patto di Monaco. Hitler da tempo reclamava infatti il territorio dei Sudeti, abitato da una popolazione di etnia tedesca, ma inserito nella Cecoslovacchia: il Patto, esempio più chiaro della politica dell'appeasement cui abbiamo accennato, stabiliva il passaggio di tale regione alla Germania (senza neppure consultare il governo cecoslovacco!), in cambio di vaghe promesse. A questo riguardo alla Camera dei Comuni si levò la voce di Winston Churchill, futuro Primo ministro britannico il quale, commentando l'accordo stretto da Chamberlain, Daladier e Mussolini con Hitler disse: "Regno Unito e Francia poteva scegliere fra la Guerra e il disonore. Hanno scelto il disonore. Avranno la guerra." Churchill non si sbagliava affatto: Hitler aveva già pronti piani militari per l'occupazione di Boemia e Moravia, cioè le parti più ricche e sviluppate della Cecoslovacchia. La guerra era, ormai, alle porte...